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della "rivoluzione". Quest'ultima, intesa "nella pienezza del suo senso", "rivolta contro un dato stato di fatto e insieme "ritorno al punto di partenza" e moto ordinario intorno al suo centro. Anche per Evola la realt moderna un'entit negativa, un sistema compatto e omogeneo. I tentativi che sono stati fatti per uscire da essa costituiscono altrettante espressioni di un fallimento inevitabile e sono condannati a rimanere all'interno d ci che viene rifiutato. I teorici della crisi e del tramonto dell'Occidente - da Spengler a Keyserling, da Benda a Ropps, da Ortega y Gasset a Huizinga, si sono mostrati tutti incapaci di una "critica integrale": "malgrado tutto, essi appartengono spiritualmente al mondo che criticano". A differenza di Gunon - per questo meno noto e meno popolare - essi non sno riusciti a superare il piano del "pensiero". Ci che Gunon afferma corrisponde invece "a quel che avrebbe potuto dire un uomo dei tempi chiamati da Vico 'eroici', un rappresentante di una 'conoscenza dall'alto': rispetto alla quale non vi da discutere, ma da riconoscere o da respingere, da dire s o no". A questa valutazione della filosofia come attivit oracolare corrisponde la difesa di un tradizionalismo "esoterico e non empirico" e la condanna dell'azione quale stata concepita dall'Occidente moderno: "agitazione e febbrepriva di ogni luce, di ogni vero senso, di ogni principio". La penetrazione della mentalit occidentale nel mondo si configura anche per Evola come una perdita di valori: "la Cina andata perduta, l'India sta nazionalizzandosi ed europeizzandosi con un ritmo crescente, i paesi arabi sono in soqquadro". Dato che la Tradizione va scomparendo anche in Oriente possibile prospettarsi l'ipotesi che l'Occidente "proprio per trovarsi PI AVANTI nell'arco discendente del ciclo si trovi s pi prossimo ala fine, ma anche, per ci stesso, al nuovo principio". Base per la necessaria "revulsione" e per il "raddrizzamento generale" nel campo dei valori e della visione del mondo la costituzione di una lite in forma di un Ordine "sull'esempio degli Ordini esistiti sia nel Medioevo europeo sia in altre civilt". Nell'Ordine "pu vivere una tradizione perfino iniziatica, insieme a una formazione caratteriale virile" com' in parte avvenuto nella casta dei Samurai, costituita da "un'aristocrazia guerriera integrata da elementi sacrali". Al di d queste prospettive, venne tuttavia sempre pi emergendo , negli anni pi recenti, il tema dell'indifferenza ai valori, del profetismo apocalittico, del declino eroico fondato sulla spengleriana "legge fatale" del principio, sviluppo e fine della civilt: "Bisogna abbandonare ogni fine costruttivo esteriore, reso irrealizzabile da un'epoca di dissoluzione, come la presente tale il problema.., per l'uomo della Tradizione, per chi interiormente non appartiene al mondo moderno, che come patria e come luogo spirituale ha L'ALTRA civilt nel dominio politico e sociale non esiste pi nulla che meriti una piena dedizione. L' APOLITIA deve essere il principio dell'uomo differenziato. Insignificante , per lui, l'antitesi tra 'Oriente' e 'Occidente': sono due aspetti dello stesso male". Da una visione della storia come naufragio, come "insensata fuga in avanti", come fatale catena di deviazioni e di errori, emergono facilmente alcune immagini: quella di un salvataggio che si realizza affidandosi ai rottami dell'Essere ancora galleggianti nel mare torbido della modernit; quella della rivolta o della rivoluzione vissute (nello stile di Malraux) come esaltanti avventure individuali; o infine quella che fu avanzata da Spengler e poi ripresa da taluni brigatisti neri della Repubblica Sociale della morte con onore in un combattimento senza significato e senza speranza: "Dobbiamo percorrere coraggiosamente sino alla fine la vita che ci destinata. Non abbiamo alternative. Il nostro dovere di tener fermo sulle posizioni perdute, anche se non c' pi speranza di salvezza. Tener fermo come quel soldato romano le cui ossa furono trovate a Pompei davanti a una porta: egli mor perch, quando vi fu l'eruzione del Vesuvio, si dimenticarono di scioglierlo dalla consegna. Questa grandezza, questo significa aver razza. Questa onorevole fine l'unica cosa che non si pu togliere all'uomo" (O. Spengler, "Ascesa e declino della civilt delle macchine", 1931, Milano, 1970, p. 123). Il modo in cui l'oscurantismo antiscientifico ispirato da Spengler ha indossato in questi anni anche i panni del marxismo sposandosi con l'eredit delle filosofie della vita del primo Novecento richiederebbe un discorso molto pi articolato. Resta il fatto che la ridiscesa sul piano arcaico dell'esperienza magica, il ritorno alla verginit naturale, l'esaltazione del primitivismo e dell'immediatezza, il rifiuto della storia, la negazione di ogni possibilit di controllo sulla natura, il
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rimpianto per il passato come paradiso perduto di un'umanit non repressa, la nostalgia per il comune rustico medievale non sono pi - come furono per lungo tempo - temi di esclusiva pertinenza del pensiero reazionario: sono stati in questi anni proposti e sostenuti, anche all'interno della sinistra politica, come strumenti di liberazione dalle alienazioni presenti nel mondo moderno, dal "male" indissolubilmente connesso all'esistenza storica degli uomini. Quello che maggiormente colpisce, in questo brano di prosa che ormai, per certi versi, appartiene alla storia, essendo stato scritto pi di trent'anni fa - trent'anni durante i quali il mondo ha corso come se ne fossero passati almeno trecento - la rocciosa, imperturbabile supponenza di chi si sente dalla parte giusta della cultura: quella della scienza, del progresso e della modernit; e accomuna in un unico fascio tutte le posizioni, dagli anni Trenta in avanti, che suonano come critica alla visione del mondo materialista, quantitativa, disumana, ad essa sottesa. Neppure l'ombra di una autocritica; neppure l'ombra di una perplessit, di un dubbio, di una salutare incertezza; neppure l'ombra di un sospetto che, con le critiche alla modernit, ci si possa anche confrontare entrando nel merito, e non limitandosi a liquidarle, sprezzantemente, come oscurantiste, regressive, e, dulcis in fundo, neonaziste; insomma, che le si possa anche prendere in considerazione, magari per confutarle, invece di limitarsi a snocciolare giaculatorie al fine di esorcizzarle. Nella prospettiva di Paolo Rossi, quanto mai politically correct, la cosa pi incomprensibile, e pi deprecabile, che perfino spezzoni della sinistra culturale abbiano fatto propri taluni spunti e argomenti della tradizionale polemica antimoderna dell'estrema destra: questo , per lui, il massimo dell'eresia e dello scandalo. Anche qui, nessuno sforzo di capire, nessun tentativo di esaminare le ragioni di questa oggettiva convergenza di posizioni teoriche: ci equivarrebbe ad ammettere che nessuno, nemmeno i parrucconi della cultura ufficiale, possiedono l'esclusiva su come il pensiero di sinistra debba essere interpretato; peggio: equivarrebbe ad ammettere che destra e sinistra sono ormai concetti totalmente superati, che si tratta solo di gusci vuoti, assolutamente inadeguati a fornire efficaci chiavi interpretative di una realt economica, politica e sociale in cos rapida fase di radicale trasformazione. Perci, meglio accomunare nel medesimo anatema Gunon e Severino, Evola e Sermonti, Spengler e Del Noce, Huizinga e Zolla; meglio scrollare le spalle davanti a ci che non si riesce a capire, che non si vuole capire, e consolarsi con una raddoppiata dose di autoreferenzialit e di monopolio della ragione; meglio tacciare costoro di spirito medievale e sentirsi gli intrepidi difensori della barricata della scienza moderna, minacciata da rigurgiti stregoneschi simili a quelli degli inquisitori di Milano che, nel 1630, andavano a caccia degli untori. Tutto ci, senza dubbio, molto gratificante e molto rassicurante, e conferisce la deliziosa (per certuni) sensazione di essere, impavidi e imperterriti, dalla parte giusta della storia, mentre gli altri, i reprobi, finiranno immancabilmente - per usare la colorita espressione di Lenin - nel cestino dei rifiuti. In particolare, nel brano che abbiamo qui sopra proposto, Paolo Rossi passa in rassegna alcune delle critiche che Julius Evola rivolge al mondo moderno, e, in modo particolare, alla scienza; ma nessuna di tali riflessioni, nelle sue mani, diviene occasione per un ripensamento critico di taluni aspetti, e sia pure quelli pi vistosamente degenerativi, della scienza moderna. No, Rossi preferisce far quadrato intorno alla roccaforte della scienza moderna e rispedire ogni critica al mittente; agire diversamente, gli sembrerebbe un intollerabile cedimento alle istanze oscurantiste dell'estrema destra e della sinistra degenerata. Con gli oscurantisti non si discute, si combatte: questo sembra essere il suo abito mentale; e, in ci, non si accorge di essere vicinissimo a quel tipo di atteggiamento che, nell'avversario, egli ha qualificato spregiativamente come non filosofico, ma bens oracolare. Evola, tra le altre cose, aveva affermato che la scienza moderna qualcosa di morto, di esterno; che incapace di vedere; che prevede senza conoscere; che rende uniforme e che profana; che indifferente al qualitativo e ai "rapporti sottili" con le cose.
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Ci sembra che nessuna persona aperta e intelligente possa negare che, in queste osservazioni, vi sia per lo meno un fondamento di verit; che vi sia, quanto meno, una legittima e, forse, perfino utile messa in guardia contro alcune tendenze potenzialmente pericolose, anzi funeste, della scienza moderna. La verit che intellettuali come Paolo Rossi hanno semplicemente sostituito alla concezione dogmatica della filosofia medievale (peraltro, meno dogmatica di quello che gli illuministi e i neoilluministi, da Kant in poi, abbiano voluto far credere) una concezione altrettanto dogmatica, fondata non sull'idea dell'Essere, ma su quella della Scienza: per cui ogni critica non alla scienza in quanto tale, ma a quella tale concezione della scienza - materialista, meccanicista, riduzionista, utilitarista - assume la connotazione di un delitto di lesa maest, di un sacrilegio. L'arroganza di filosofi come Paolo Rossi stata pari soltanto alla loro miopia: credendo di difendere la trincea della Verit e della Ragione (le due cose, per loro, sono sinonimi), essi hanno affrettato il collasso di tutta una civilt del pensiero, dell'arte, della politica, che, se riformata per tempo, ci avrebbe forse risparmiato molti passaggi difficili e molti sbandamenti morali. Ad esempio, l'ottuso rifiuto a prendere in considerazione le ragioni per le quali certi intellettuali di sinistra facevano dei discorsi simili a certi intellettuali di destra, ci ha regalato il populismo televisivo di Berlusconi, la rozzezza xenofoba della Lega, la frana inarrestabile del Partito Democratico, e, pi in generale, il rinvio sine die della possibilit di veder nascere una dialettica politica normale anche in Italia, dove il confronto abbia luogo suo terreno delle idee e non su quello miserevole degli slogan, per giunta vecchi e stravecchi. Di questo ritardo, che continua ad accumularsi nella cultura, nella filosofia, nell'arte, nella politica italiana, ingigantendo i problemi e coniugandosi con forme imbarbarite di societ pre-moderna (mafia, camorra e simili), dobbiamo ringraziare anche quegli intellettuali, come Paolo Rossi, che non hanno fatto il minimo sforzo per confrontarsi con legittime critiche che da pi parti si levavano al modello del pensiero unico, di cui essi erano al tempo stesso i rigidi custodi e gli esclusivi beneficiari; ma che si sono limitati ad assumere un atteggiamento censorio e di acritica adorazione dell'esistente. Ora raccogliamo i frutti di tanta arroganza intellettuale, di tanta insipienza, di tanto desolante conformismo. Eppure, nel 1976, c'erano gi tutti gli elementi, anche per i difensori pi ortodossi del sistema scienza, per prendere atto degli effetti aberranti di un certo scientismo e tecnicismo sfrenati: le piogge acide c'erano gi; la deforestazione e la desertificazione di vaste regioni della Terra erano gi in atto; l'inquinamento del suolo aveva gi raggiunto livelli di guardia, e cos il ritmo di distruzione delle specie animali e vegetali; gi si parlava di prossimo esaurimento delle risorse energetiche e della inevitabile rarefazione del bene essenziale alla vita sul pianeta: l'acqua, l'oro azzurro. Se non volevano ascoltare Evola, Gunon o Spengler, e se gli seccava ammettere che, forse, qualche ragione l'avevano anche Sermonti, Bookchin e perfino - horribile dictu - un Alain de Benoist, non potevano almeno dare ascolto ai mille segnali d'allarme che la natura ci stava lanciando, con urgenza sempre pi pressante? Non dovrebbe essere proprio questa, in fondo, la ragion d'essere di una classe d'intellettuali di professione: saper leggere i segni, e farsene tramite nei confronti del vasto pubblico dei loro lettori o dei loro spettatori televisivi? O forse essi pensano che la loro ragion d'essere sia sempre e solo quella di scaldare le sedie di qualche istituzione accademica, di qualche redazione di giornale, di qualche salotto televisivo, e di godere di mille agevolazione nella pubblicazione dei loro articoli e dei loro libri, come una casta chiusa e privilegiata che vive parlandosi addosso e parassitando la societ?