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ORDINARIO DI DIRITTO COMMERCIALE PRESSO LUNIVERSIT DI ROMA TRE

P R O F .

A V V .

S A B I N O

F O R T U N A T O

Parere Fallimento dellimprenditore o crisi dellimpresa?

1. A quasi un anno dalla entrata in vigore della riforma organica della legge fallimentare del 42 (e in realt ad oltre due anni dallattuazione degli istituti che ne hanno anticipato pi di ogni altro disposto il senso complessivo, e cio la nuova revocatoria fallimentare e il nuovo concordato preventivo, giunto il momento di compiere un iniziale bilancio. Non vi dubbio che il primo impatto in sede giudiziaria stato di reale difficolt applicativa, in buona parte dovuta alla tecnica novellistica della riforma che ha creato problemi di coordinamento tra il vecchio e il nuovo non sempre di agevole soluzione e in parte allambigua formulazione di alcune disposizioni. Ma parimenti indubbio che una sorta di inerzia dellordinamento secondo la bella immagine ricordata da Floriano DAlessandro ha pesato sugli atteggiamenti degli interpreti e soprattutto della magistratura. Non credo si badi che sia in gioco, come taluni sussurrano, una questione di perdita di potere del Giudice Delegato o pi in generale dellAutorit Giudiziaria. Vi spesso la sincera preoccupazione che gli strumenti introdotti con la riforma finiscano per premiare eccessivamente il debitore e per favorire i creditori forti, a danno dei creditori deboli. Ma il problema che questo schema interpretativo ha un significato accettabile in un quadro complessivo in cui continuino a valere le vecchie categorie concettuali della insolvenza come sanzione dellimprenditore come soggetto da sanzionare; o in cui i problemi di efficienza e funzionalit delle

norme siano visti come una questione subordinata allastratta persecuzione di principi di giustizia retributiva, bench sistematicamente destinati allinsuccesso. Il problema, insomma, legato alla faticosa rielaborazione, che non pu svilupparsi con la bacchetta magica della modifica legislativa ma solo con il lento lavorio dellinterpretazione sistematica e dottrinaria, dei concetti chiave su cui auspicabile fondere un moderno sistema di regolazione delle crisi dimpresa. E a questi concetti ed a questo mutamento di mentalit che si fa resistenza; e in verit chi ha prestato il fianco a questa sorta di naturale riottosit stato lo stesso legislatore della riforma che non ha avuto il coraggio per esempio di abbandonare lantiquata, se pur nobile, terminologia che parla di fallimento, di insolvenza, di imprenditore fallito a fronte di un panorama comunitario ed anglosassone che ha progressivamente abbandonato quei nomina, e non per mero nominalismo ma per una immutata prospettiva da cui guardare il fenomeno della crisi di impresa nella societ dei nostri tempi. Vorrei tentare quel bilancio partendo dalla enucleazione di questi concetti chiave, che possono esprimersi a mio avviso nellinterrogativo fondamentale: fallimento dellimprenditore o crisi dellimpresa? I tre nuclei intorno a cui si sviluppa lodierno convegno (impresa e imprenditore, Titolo del credito, impresa societaria) si riconducono a questa alternativa. 2. la tradizionale procedura concorsuale del fallimento guardava alla insolvenza, intesa come incapacit oggettiva del patrimonio dellimprenditore a fronteggiare regolarmente ladempimento delle obbligazioni, quale presupposto oggettivo cui collegare ogni procedura concorsuale. La stessa amministrazione controllata, che pure avrebbe dovuto costituire la procedura di risanamento alternativa a quelle liquidatorie, veniva attratta alla categoria dellinsolvenza annotandosi la temporanea difficolt alla stregua di

insolvenza reversibile e perci con una differenza puramente quantitiva piuttosto che qualitativa rispetto alla insolvenza irreversibile. Sta di fatto che il nuovo impianto legislativo pone accanto allinsolvenza la nozione delle status di crisi, nozione a mio avviso di genere rispetto alla prima, come confermato dalla precisazione recata dal co. 2 art. 160 aggiunto in corso dopera dal cd. decreto mille proroghe del 2005 (n. 273). Si cos introdotta la consapevolezza che le crisi di impresa possono e devono giustificare eventuali sacrifici alle ragioni dei creditori, ove una perdita di redditivit, non presenta situazioni finanziarie che pure ancora consentano allimpresa di stare sul mercato, di continuare ad avere credito, costituiscano lanticamera, il rischio oggettivo di una inefficienza definitiva, tale da provocare ove non insediata tempestivamente un danno ben maggiore alle ragioni dei creditori, ma anche alla conservazione degli apparati produttivi pur assunto come obiettivo subordinato o, se si vuole, strumentale alla tutela del credito. Una tale concezione solitaristica dellimpresa e del mercato contraddice i postulati del liberismo economico. Contraddice allora anche i principi costituzionali di libert economica e di tutela del credito e dei diritti soggettivi individuali? Nella visione strettamente liberistica la meno invisibile opera al di sopra e al di l degli animal spirits individuali, il miglior risultato collettivo necessariamente conseguenza della lotta individuale per la sopravvivenza. Ma quella visione costituisce il mito sacrificale proclamato ma disatteso delle societ liberali, se vero che quella lotta si arresta dinnanzi allinsolvenza e per forza di legge non certo per naturale conseguenza degli spiriti animali la gestione dellimpresa o di ci che resta dellimpresa passa alla comunit dei creditori e ad ognuno di essi chiesto secondo lordine dei privilegi, anchessi non sempre portato di una naturale negoziazione un eventuale sacrificio nella soddisfazione delle proprie ragioni.

Una nozione di crisi pi ampia rispetto alla insolvenza rende possibile anticipare quellintervento per cos dire solidaristico, ma ovviamente evoca una minore intensit pervasiva delle posizioni individuali, uno spazio maggiore dellautonomia negoziale e tuttavia un riconoscimento legale della meritevolezza di tutela di tali accordi pre-fallimentari che pure pervengono con differenti gradualit al sacrificio delle posizioni individuali. Dare rilievo giuridico alla crisi e non solo alla insolvenza porta allora talune importanti conseguenze sul piano ordinamentale, ma anche difficolt definitorie e di identificazione della fattispecie. Nella sedes materiae lo stato di crisi non espressamente definito, se non con la precisazione gi ricordata, che essa comprende anche linsolvenza. Gli altri indici novativi, ricavabili da disposizioni talvolta estranee alla legge fallimentare, non paiono sempre congruenti alle finalit della disciplina fallimentare. Non resta che il richiamo a nozioni similari presenti nel panorama comparato e comunque il rinvio alla nozioni aziendalistiche di crisi con la loro molteplicit causale e di manifestazione. Ampiezza e genericit di fattispecie e in verit non estranee anche alla nozione di insolvenza, che ha tuttavia dalla sua una lunga e consolidata elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e che peraltro secondo alcuni sembra aver subito una torsione con la riforma attraverso lo sbarramento degli inadempimenti di debiti pecuniari scaduti che restino sotto la soglia dei 25.000 (o 30.000 euro secondo la bozza di decreto correttivo approvato al Consiglio dei Ministri del 5 giugno u.s.). La crisi sostituisce alla insolvenza una nozione starei per dire pi fisiologica al moderno esercizio delle attivit economiche. Una economia che fonda le occasioni di incremento della ricchezza, di creazione di valore, sullindebitamento sistematico dellimprenditore, sul normale superamento produttivo, come si ricorda nella sua interessante e lineare analisi, Lorenzo

Stanghellini, non guarda pi alla crisi ed alla stessa insolvenza come ad un evento straordinario ma come ad una eventualit normale dellimpresa. Ampiezza e normalit della nozione giustificano allora la cautela dellintervento normativo: la crisi, quanto non ancora insolvenza, pu e deve essere affrontata con mezzi negoziali con lincontro di volont fra debitore e creditori. Di qui larticolato armamentario posto in essere dalla riforma, dai piani di risanamento agli accordi di ristrutturazione sino al novellato concordato preventivo, strumenti che la riflessione dogmatica e i primi tentativi di applicazione giurisprudenziale hanno cominciato a chiarire e che pure presentano ancora lati oscuri, ambigui, forse talvolta sovrabbondanti. E tuttavia, al di l delle ambiguit e della irresolutezza nella disciplina di questi strumenti, restano perplessit sulla incompiutezza della riforma. Sottolineo almeno due profili: la legittimazione alle richieste del concordato preventivo rimasta tutta in mano al debitore; al creditore sottratta ogni iniziativa al riguardo. La proposta che viene dal debitore pu aprire una procedura che pur sempre tesa alla ricerca di un accordo dai pi rari contenuti. La proposta del creditore esclusa a priori, come espressione di invadenza nella sfera di autonomia del debitore. Ma la questione meriterebbe una maggiore riflessione: il debitore propone un piano ai creditori che restano liberi di accettarlo o meno; perch una tale proposta come per il concordato fallimentare non pu partire dal creditore e ferma la necessit di una adesione del debitore e la ricerca del consenso maggioritario degli altri creditori? Saranno rare, probabilmente, iniziative autonome del creditore, ma esse possono contribuire nel presupposto di una crisi ad anticipare gli interventi in una fase in cui molto ancora da salvare nel generale interesse del debitore e creditori. Il secondo profilo, e sempre in questa ottica anticipatoria e tempestiva, tocca la mancata attuazione delle misure di allerta e prevenzione. Non tanto, si

badi, sul piano del dovere di segnalazione che nelle imprese collettive si impone gi agli organi interni ed esterni di controllo in forza di una corretta interpretazione del quadro normativo vigente, come da ultimo ha cercato dimostrazione Baggio in una recente monografia sugli accordi di ristrutturazione. Ma quanto sul piano formativi segnaletici delle difficolt dellimpresa e di un passaggio di moral suasion presso lA.G. o altra Autorit terza a provvedere con tempestivit alla rimozione delle cause di criticit per quanto possibile. 3. Il secondo concetto chiave che si affaccia timidamente nella riforma la nozione dimpresa a fronte della pi tradizionale nozione di imprenditore. Anche qui cominciamo col dire che il nostro legislat6ore a differenza dei pi moderni sistemi di regolazione delle crisi che estendono le opportunit di soluzione concordate e le sistemazioni concorsuali anche ai cd. insolventi civili per le situazioni di sovraindebitamento qualificato rimasto legato alla crisi del solo imprenditore commerciale medio-grande. E rispetto allevoluzione complessiva della stessa disciplina dellimpresa la discrasia, fra categorie della crisi e categorie dellattivit economica e dei patrimoni a ci destinati emerge ancor pi stridente. Limpresa giuridicamente esercizio professionale di attivit economica organizzata ai sensi dellart. 2082 c.c. La nozione stessa del soggetto imprenditore invero oggettivamente ricavata dalla impostazione di atti e attivit particolarmente qualificati. Ma quando parliamo di crisi dellimpresa e di tutela del credito limprenditore non rileva tanto come soggetto quanto come tecnica di unificazione di atti e attivit e del patrimonio destinato allo scopo. La tutela del credito sempre pi assicurata da patrimoni connessi o destinati allesercizio di una determinata attivit, piuttosto che dal principio di responsabilit universale del soggetto debitore ex art. 2740 c.c.

La frantumazione di questo tradizionale principio non solo stata favorita dalla tecnica di soggettivizzazione mediante un processo di imputazione di attivit e patrimoni ed astratti centri autonomi costituenti fictio iuris, ma si venuta realizzando allinterno del medesimo unitario soggetto giuridico sia anche per le persone fisiche come con gli atti di destinazione e i trust applicabili ormai anche nel nostro ordinamento, atti di destinazione con cui possibile vincolare anche beni immobili o mobili registrati sia pure per non oltre 90 giorni e per la durata della vita delle persone fisiche beneficiarie ai sensi del 2645 -ter c.c. a garanzia esclusiva per i debiti contratti per le specifiche destinazioni. Insomma oggetto di regolamentazione della crisi non pu essere pi solo ed esclusivamente il soggetto ma il patrimonio separato e destinato allesercizio di una attivit o di un affare. A fronte di questo trend la riforma sembra troppo legata al mito soggettivistico delle procedure concorsuali, secondo cui non pu esservi fallimento senza fallito, pur non mancando i segnali di separazione fra vicende soggettive e vicende dellimpresa del patrimonio ad essa destinato. Si pensi, per esempio, non solo al fallimento dellimprenditore cessato ma anche al fallimento dellimprenditore defunto. In nome di una astratto principio di soggettivizzazione la riforma sembra sottrarre i patrimoni destinati ad uno specifico affare alle regole della concorsualit nel caso di loro in capienza alla soddisfazione dei relativi creditori, distinti da quelli generali della societ. Eppure la separazione patrimoniale, anche in tale ipotesi, si attua mutando dalla tecnica di soggettivizzazione molte soluzioni, quali la sperdita degli affari, la deliberazione costitutiva contenente latto di segregazione sottoposto a pubblicit costitutiva, il separato rendiconto pur senza giungere a creare un autonomo soggetto giuridico. Ma pu bastare questo criterio formale al trattare linsolvenza del

patrimonio destinato parrebbe secondo la disciplina delle regole di liquidazione della societ. Regole incongrue e meritevoli di interpretazione ortopedica. Quelle regole prevedono che i debiti si vengano pagati mano a mano che vengano a scadenza, ma a fronte dellincapienza non deve procedersi ad un riparto secondo principi di concorsualit? La disattenzione della riforma rispetto ai profili che distinguono fra impresa e imprenditore emerge anche dalla mancanza di ogni disciplina della crisi delle imprese legate da vincoli di gruppo. Disciplina sostanziale che ha gi raggiunto un buon grado di elaborazione. Qui il problema nasce da una esigenza quasi opposta a quella sollevata dal patrimonio destinato. Lunicit dellimpresa economica (come attivit) parcellizzata in una pluralit di soggetti giuridici. Giustamente la giurisprudenza esclude una insolvenza di gruppo, non esistendo una soggettivit giuridica e unitaria del gruppo. Ma qui, a mio avviso, non conta tanto il mito soggettivistico, ma proprio la separazione patrimoniale che si avvale della tecnica della distorta soggettivit giuridica, e proprio perch a distinte masse attive corrispondono distinte masse passive. Nascono semmai problemi di coordinamento delle procedure, problemi che i progetti trevisanate affrontavano ma che la riforma trascura del tutto. 4. Prima di concludere queste brevi annotazioni, voglio sottolineare per una vera e propria emergenza che aleggia sulla riforma fallimentare, e cio lemergenza dei riti processuali. Come ricordava Satta il diritto processo, non esistono situazioni giuridiche soggettive, attive o passive se queste non si realizzano nel diritto vivente del processo. Ma proprio per questo il processo non un aspetto, un accessorio. E francamente nella giustizia civile stiamo assistendo ad una

frantumazione indecente dei riti che allontanano non tanto la certezza del diritto, mito ottocentesco positivistico che resta sullo sfondo delle nostre aspirazioni, quanto la certezza e la semplificazione delle regole del gioco da cui deve emergere il diritto vivente. Forse il decreto correttivo, che neppure allultimo consiglio dei ministri passato, porta qualche miglioramento processuale. Ma il problema che troppi miti disorientano gli operatori, complicano la ricerca della giustizia. In ultima analisi la riforma fallimentare rimasta un po in mezzo al guado: ci vuole pi coraggio nel perseguire con pi decisione gli elementi di novit.
PROF. AVV. SABINO FORTUNATO

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