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1955/56 – REAL MADRID

Lo storico calcio d'inizio della prima partita di Coppa Campioni viene fischiato il 4 settembre 1955 a Lisbona in occasione di Sporting-Partizan,
terminato 3-3. La prima edizione segna l'inizio del ciclo del Real Madrid, squadra dominatrice del primo quinquennio della Coppa dei Campioni.
Guidati in campo dalla classe pura di Alfredo Di Stefano e in panchina dalla rigida disciplina di José Villalonga, i madridisti si impongono con
qualche patema. Dopo un facile primo turno, agevolmente superato a spese del Servette, il Real incontra nei quarti il Partizan e sembra mettere al
sicuro il passaggio del turno con un eloquente 4-0 al Chamartin. In patria però gli jugoslavi sfiorano l'impresa imponendosi per 3-0 e spaventando
notevolmente gli spagnoli. Il Real corre altri rischi in semifinale dove se la vede con il Milan: a Madrid termina 4-2 per i padroni di casa, che poi
difendono il vantaggio a San Siro uscendo sconfitti per 2-1. Arriva così il giorno della finale, il 13 giugno del 1956. Al Parco dei Principi di Parigi il
Real si trova di fronte lo Stade Reims che può contare su giocatori del calibro di Michel Hidalgo e del mago del dribbling, Raimond Kopa. Le cose si
mettono subito male per gli spagnoli perché dopo soli nove minuti i loro avversari conducono per 2-0. Di Stefano però guida la carica e al trentesimo
la rimonta è cosa fatta grazie al gol di Rial, dopo che lo stesso Di Stefano, incontenibile nelle sue percussioni, aveva accorciato le distanze. La ripresa
è molto equilibrata, Hidalgo manda in fuga i francesi, ma Marquitos li riprende subito, e sul filo di lana il colpo di reni decisivo è del Real Madrid
ancora con Rial.

Santiago Bernabeu
Merita un doveroso tributo Santiago Bernabeu, il presidente del Real Madrid dominatore in patria e in Europa. Santiago Bernabeu fece il suo ingresso
nel club come giocatore, mettendo in evidenza grandi doti di leader, occupò poi varie cariche all'interno della dirigenza della "Casa bianca" fino a
diventarne presidente il 15 settembre 1943. Fu l'anima del Real Madrid durante tutta la sua presidenza, per i giocatori era quasi un padre. In pochi
anni dotò la "Casa bianca" di una struttura societaria superiore a tutte quelle del suo tempo. Era un uomo già proiettato nel futuro, in un periodo
difficile per la Spagna uscita dalla guerra civile. Costruì uno stadio gioiello da 75.000 posti (poi portati a 125 mila), il nuovo Chamartin in seguito a
lui intitolato, facendo leva sull'aiuto degli oltre 47.000 soci del club. Da presidente ha vinto 16 campionati, 6 Coppe di Spagna, 6 Coppe dei Campioni
e 1 Coppa Intercontinentale. Si è spento il 2 giugno del 1978, dopo quasi 35 anni di presidenza.

Milan
L'esordio della prima squadra italiana in Coppa dei Campioni non è dei migliori. I rossoneri, opposti ai modesti tedeschi del Saarbrücken, rimediano a
San Siro una sconfitta per 3-4. È di Frignani, al 15', la prima rete segnata da una squadra italiana in Coppa Campioni. Al ritorno la situazione si
capovolge con un perentorio 4-1. Superati agevolmente gli austriaci del Rapid Vienna, la corsa del Milan si interrompe in semifinale di fronte al Real
Madrid. Al Chamartin i rossoneri, sospinti da Nordahl e Schiaffino, scontano la negativa giornata di Buffon e devono patire un 2-4 ingiusto. Per il
ritorno a San Siro l'allenatore Puricella ha una squadra menomata, con Schiaffino reduce dall'influenza. Gli spagnoli si chiudono a riccio, Dal Monte
cicca clamorosamente una palla gol in avvio, Schiaffino viene atterrato in area senza che l'arbitro intervenga e poi la lentezza di Nordahl (i primi caldi
appesantiscono il logorio dei suoi 35 anni) fa il resto. Il 2-1 finale, con un rigore regalato a Schiaffino, non basta.

1956/57 – REAL MADRID


Dopo il trionfo nell'edizione precedente, il Real Madrid si ripresenta ai nastri di partenza della Coppa dei Campioni come favorito al successo finale. I
detentori entrano in gara negli ottavi dove si trovano opposti al Rapid Vienna, l'ostacolo più duro sulla strada del secondo successo consecutivo: dopo
la vittoria 4-2 a Madrid, infatti, gli spagnoli si devono inchinare ai loro avversari in Austria per 3-1. Dopo lo spavento, i detentori del trofeo si
impongono 2-0 nella bella. Eliminato facilmente il Nizza, sulla strada che divide Di Stefano e compagni dalla finale c'è solo il Manchester United di
Matt Busby. Gli inglesi vengono sconfitti a Madrid per 3-1 e sono così chiamati a vincere all'Old Trafford. Il Real però va in Inghilterra senza timori
reverenziali. Affronta gli avversari a viso aperto e con un pareggio 2-2 strappa il visto di accesso alla finale. Qui trova la spettacolare Fiorentina di
Bernardini, reginetta del gioco. Si gioca al Chamartin davanti a 125.000 tifosi madridisti, i viola sono privi di Chiappella e Prini, sostituiti da
Scaramucci e Bizzarri, ma resitono agli assalti spagnoli per oltre un'ora. Finché Magnini atterra Mateos, lo spagnolo cadendo si tuffa dentro l'area di
rigore e l'arbitro spagnolo Horn fischia il rigore. Di Stefano trasforma, i viola vanno all'arrembaggio e Cento li infila con un classico contropiede.
Ingiustizia è fatta.

Raymond Kopa
Prima ancora della finalissima di Parigi del 1956, Santiago Bernabeu aveva già acquistato il fuoriclasse francese Raymond Kopa, in forza allo Stade
Reims, per la stagione successiva. Figlio di un minatore, il piccolo Raymond aveva lavorato in miniera fino a sedici anni quando un masso lo investì
portandogli via due dita della mano sinistra. Da allora decise che non avrebbe più lavorato in miniera. La sua carriera di calciatore inizia a diciassette
anni, nel 1948, quando lo SCO Angers gli offre il primo contratto. Passa allo Stade Reims nel 1951, prima di ammaliare con il suo talento Bernabeu
che lo porta a Madrid nel 1956. Centravanti dotato di grande tecnica, molto rapido e grintoso, dal dribbling fulminante, al Real venne dirottato all'ala
per non pestare i piedi a Di Stefano. Con le "meren-gues" ha vinto tre Coppe dei Campioni consecutive, due campionati nazionali e una coppa Latina.

Fiorentina
Arriva fino in fondo la Fiorentina di Fulvio Bernardini, ma poi deve inchinarsi di fronte a sua maestà Real Madrid. I viola sembrano snobbare il trofeo
europeo, considerato all'epoca solo una fastidiosa appendice. Gli svedesi del Norrköping costringono i viola a un deludente pareggio al Comunale e
l'avventura sembra già finita. Ma il ritorno, per la neve che copre la Svezia, si gioca a Roma e qui i viola vincono grazie a un gol di Virgili. Nei quarti
il Grasshoppers cerca di buttarla sul pesante e allora, punti nell'orgoglio, Montuori e Julinho danno lezione di calcio. Cominciano a fiorire gli
entusiasmi e a Belgrado, in aprile, Bernardini abbandona i calcoli e schiera tutti i titolari, vincendo a tre minuti dalla fine con Prini dopo aver
gagliardamente resistito agli attacchi poderosi dell'avversario. Al ritorno è. un esaltante zero a zero, col campionato ormai sfuggito di mano e l'alloro
continentale trasformatosi in allettante obiettivo. A Madrid i viola capovolgono i pronostici sul piano del gioco, con Julinho stratosferico nel far
impazzire la difesa avversaria. Gento anni più tardi ammetterà: «Senza quel tiro dal dischetto, concesso per un fallo su Mateos nettamente fuori area,
per noi sarebbe stato difficile vincere quella finale».

1957/58 – REAL MADRID


Il tris del Real Madrid, ora guidato dall'argentino Luis Carniglia, passa in secondo piano di fronte alla tragedia di Monaco, che spazza via i
leggendari "Busby Babes" del Manchester United. Il 6 febbraio 1958, l'aereo degli inglesi, di ritorno da Belgrado dove lo United ha eliminato la Stella
Rossa impattando 3-3 dopo il 2-1 dell'andata, fa scalo tecnico a Monaco di Baviera. Al momento di ripartire, a causa delle avverse condizioni
atmosferiche, l'aereo si schianta al suolo non riuscendo a prendere quota. Sette giocatori muoiono sul colpo, pochi giorni dopo morirà anche il gioiello
Duncan Edwards. In finale il Real, potenziato in difesa dal gigantesco uruguaiano Santamaria, incontra il Milan. Due volte in fuga i rossoneri, in un
match palpitante, due volte rimontano gli spagnoli. Ai supplementari una prodezza di Gento infrange il sogno.

Alfredo Di Stefano
Per molti, Alfredo Di Stefano è stato il più grande calciatore di sempre. Un leader assoluto, tecnicamente e fisicamente senza rivali, al punto da
anticipare i concetti moderni del gioco a tutto campo: interveniva in difesa, impostava a centrocampo, andava a concludere. La "Saeta Ru-bia" (la
saetta bionda), questo era il suo soprannome, arrivò a Madrid nel 1953 al termine di un duro braccio di ferro con il Barcellona, proveniente dal
Millonarios di Bo-gotà. Vi rimase per 11 anni rendendo il Real Madrid il club migliore del mondo e lasciando una traccia indelebile nella storia della
società. Era un leader, un centravanti di inesauribile vena, capace di ridicolizzare qualunque avversario con la sua abilità balistica. Nel suo palma-res
con il Real vanta 8 campionati nazionali, 1 Coppa di Spagna, 5 Coppe dei Campioni e 1 Coppa Intercontinentale. Giocò 282 partite con i bianchi
segnando 219 reti e fu capocannoniere di questa edizione della Coppa Campioni con 10 reti.

Milan
Sulla strada che separa il Milan dalla gloria si intromette nuovamente il Real Madrid. Gipo Viani ha allestito una squadra di primissimo livello. Il
primo turno è un tuffo al cuore: travolto 4-1 a Milano, il Rapid Vienna rimonta 5-2 in Austria, rendendo necessaria (per il regolamento dell'epoca) la
fatica supplementare dello spareggio a Zurigo. I due turni successivi sono agevoli, Rangers Glasgow e Borussia Dortmund non oppongono grande
resistenza. In semifinale, l'ingrato compito di incontrare il Manchester United dimezzato dalla tragedia. All'Old Trafford l'orgoglio degli inglesi ha la
meglio per 2-1, ma a San Siro il Milan guadagna la finale con un secco 4-0. A Bruxelles Viani non dispone di Bean e Galli, entrambi centravanti di
ruolo, e in prima linea manda Danova e Cucchiaroni di punta, supportati da Liedholm, Schiaffino e Grillo. Dopo un primo tempo di studio, la ripresa
è di tempestosa bellezza. Un Liedholm leggendario si erge a baluardo difensivo e a sublime regista dei contropiede rossoneri. Schiaffino colpisce la
traversa del possibile 2-0 e Di Stefano dribbla e segna in un lampo. Milan di nuovo avanti con Grillo, una semirovesciata di Rial pareggia i conti. Nei
supplementari, dopo il gol di Gento, Schiaffino è abbattuto in area, ma l'arbitro Alsteen si astiene e la Coppa è di nuovo "merengue".

1958/59 – REAL MADRID


Il Real aggiunge alla sua collezione di gioielli il fenomeno ungherese Puskas, dopo aver tentato di portare a Madrid Pelé. Il vecchio Ferenc deve
smaltire la pancetta da commendatore, poi dimostra di essere ancora un formidabile satanasso del gol, avviando una nuova, strepitosa carriera. Negli
ottavi il Real elimina il Besiktas, nei quarti si sbarazza facilmente del Wiener Sportklub. In semifinale è di scena il derby con l'Atletico. Al Chamartin
vince 2-1 il Real con la prima rete madridista di Puskas. In casa però l'Atletico si riscatta. Nella "bella" emerge la maggior classe del Real, che si
impone 2-1 con reti del fenomenale duo Di Stefano-Puskas. La finale di Stoccarda è quasi una formalità, anche con Puskas fuori per infortunio. Il
Real si sbarazza facilmente dello Stade Reims di Just Fontaine, capocannoniere del torneo con 10 reti, dominando la partita e fallendo pure un calcio
di rigore.

Hector Rial
Il giocatore meno noto e celebrato del devastante attacco del Real Madrid fu sicuramente José Hector Rial. Decisivo già nella prima finale di Coppa
Campioni a Parigi contro lo Stade Reims, nuovamente decisivo nella finale con il Milan a Bruxelles. Era un interno argentino di classe internazionale,
un giramondo che giocò in nove club di sei differenti paesi: Titan di Marmol, Pacheco e San Lorenzo de Almagro in Argentina; Independiente di
Santa Fé in Colombia; Nacional di Montevideo in Uruguay; Real Madrid e Espanol in Spagna; Olympique Marsiglia in Francia. Le maggiori
soddisfazioni le ottenne con il Real Madrid, dove formava con Gento una coppia temibilissima sul fronte sinistro dell'attacco dei bianchi. Con il club
di Bernabeu ha vinto quattro campionati spagnoli e soprattutto quattro Coppe dei Campioni.

Juventus
La Juventus di Boniperti, Charles e Sivori partecipa per la prima volta alla Coppa dei Campioni. È una squadra formidabile, il sorteggio del primo
turno sembra favorevole, opponendo gli austriaci del Wiener Sportklub. All'andata risolve tutto Omar Sivori, che sigla una tripletta per farsi perdonare
i primi capricci contro l'allenatore Brode. Nulla fa presagire il disastro del ritorno, con la più pesante umiliazione della storia europea di Madama: 0-
7! Tanti fattori congiurano alla disfatta. Qualche problema di formazione (Emoli in campo nonostante sia indisposto, il "leggero" Palmer fuori luogo
in un clima da battaglia), l'ostilità del pubblico, la sottovalutazione dell'avversario. Ma c'è di più: una smobilitazione psicologica dei bianconeri, che
impostano una partita di attesa, perdono quasi subito Charles azzoppato da un intervento killer (verrà ricoverato in ospedale) e poi cadono nel
trabocchetto dell'agonismo esasperato degli austriaci, a propria volta in serata di grazia. «Una squadra di modesti artigiani del calcio» scrivono il
giorno dopo i giornali locali «ha demolito uno squadrone di milionari». L'allenatore Brocic pagherà il prezzo più alto.

1959/60 – REAL MADRID


La Coppa dei Campioni cresce a vista d'occhio in fascino e prestigio. La quinta edizione è una delle migliori di sempre dal punto di vista tecnico, la
finale viene tuttora considerata come una delle partite più belle della storia, soprattutto per merito del Real Madrid che fa cinquina esibendo un gioco
eccezionale (in Spagna si parla ancora oggi di "Mejor futbol de la historia"). Dopo gli acquisti, nelle stagioni precedenti, di Kopa e Puskas, Bernabeu
decide di regalare alla sua squadra anche Luis Del Sol, infaticabile maratoneta di centrocampo proveniente dal Betis. In panchina non c'è più Carni-
glia, sostituito brevemente da Fleitas Solich poi, definitivamente, da Miguel Munoz. Il cammino dei madridisti è in discesa fino alle semifinali dove,
dopo aver eliminato Jeunesse d'Esch e Nizza, si trovano opposti all'"odiato" Barcellona. Sul campo il Real si dimostra ancora una volta superiore con
un doppio 3-1 che gli spalanca le porte verso la quinta finale. All'Hampden Park di Glasgow le "merengues" si devono confrontare con l'Eintracht
Francoforte, prima squadra non latina ad arrivare in finale. I tedeschi hanno sepolto nel turno precedente i Rangers sotto 12 reti complessive e molti
pronostici li danno per vincenti, nonostante la fama leggendaria dei bianchi spagnoli. La partita si gioca davanti a 135.000 persone, record assoluto
per una finale. La partita è pirotecnica, l'Eintracht vi conferma appieno i propri valori, ma deve arrendersi alla inarrestabile prestazione delle due stelle
più luminose della squadra di Bernabeu. Alla fine il risultato dice 7-3 per il Real, con 4 reti di Puskas e 3 di Di Stefano, due fuoriclasse in serata di
grazia, colti entrambi all'apice delle proprie immense possibilità tecniche.

Ferenc Puskas
Alla sua seconda stagione al Real Madrid, Ferenc Puskas dimostra di essersi pienamente ambientato e di non essere un giocatore sul viale del
tramonto, anzi. Fuggito dall'Ungheria nel 1956, in seguito alla rivolta di Budapest, dovette scontare una squalifica di due anni affibbiatagli dalla Fifa.
Il Real al termine della sanzione gli diede fiducia, nonostante una forma fisica fortemente minata dai due anni di inattività. Ma con orgoglio e
soprattutto un talento fuori dalla norma Puskas tornò il fuoriclasse in grado di fare la differenza, formando con Di Stefano una delle coppie gol più
devastanti della storia del calcio. Il suo sinistro era in grado di pennellare traiettorie impossibili. In questa quinta edizione della Coppa è
profondamente impresso il suo marchio, i 4 gol in finale sono un'impresa mai eguagliata e i 12 segnati nel corso del torneo sono secondi solo al 14
che Altafini siglerà tre anni dopo. Nelle coppe europee la sua media gol è eccezionale: 35 gol in 37 partite.

Milan
Il Milan torna in Coppa dei Campioni con rinnovato ottimismo. Il primo torno è abbordabile, la pratica Olympiakos dopo un pari al Pireo (2-2) viene
sbrigata a San Siro con un facile 3-1 frutto di una tripletta di Danova. Al torno successivo la marcia del Milan conosce però il capolinea: sulla strada
dei rossoneri c'è infatti il fortissimo Barcellona di Helenio Herrera.
I "blaugrana" hanno allestito una formazione fortissima nella quale spiccano le individualità del naturalizzato Kubala, di Tejada e Suarez, e degli
ungheresi Czibor e Kocsis. Il doppio confronto non ha storia, i catalani passano 2-0 a San Siro e dominano 5-1 in casa col leggendario Kubala,
fuoriclasse di straordinarie misure tecniche, sugli scudi.

1960/61 – BENFICA
La sesta edizione segna la fine del dominio del Real Madrid. 11 23 novembre 1960 è una data storica nella storia della competizione: Di Stefano e
compagni, per un lustro monopolizzatoti del torneo, vengono eliminati per la prima volta. L'impresa riesce agli eterni rivali del Barcellona negli ottavi
di finale. Dopo un pareggio per 2-2 ai Chamartin che suscita le polemiche madridiste nei confronti dell'arbitro, il Barca si impone 2-1 in casa. Qui le
proteste madridiste sono ancora più roventi: il direttore di gara, l'inglese Leafe, annulla ben quattro reti alle "merengues". Il Barcellona diventa il
favorito per la conquista del trofeo e in effetti arriva puntualmente in finale, faticando solo con l'Amburgo in semifinale. Ad aspettarli trovano una
squadra portoghese senza grandi precedenti in campo internazionale: il Benfica. I lusitani sono outsider assoluti. Sono arrivati in finale sospinti dai
gol del centravanti José Aguas e dalle invenzioni del grande regista Mario Coluna, eliminando facilmente tutti gli avversari che un sorteggio
francamente benevolo ha messo loro di fronte di volta in volta. A Berna il giorno della finalissima il Barcellona è strafavorito e quando, dopo 20
minuti, Kocsis porta in vantaggio i blaugrana sembra solo l'inizio di una goleada. Invece alla mezz'ora Aguas sorprende con un pallonetto il portiere
del Barca e un minuto dopo il difensore Gensana devia nella propria porta un innocuo cross dei portoghesi. L'uno-due è terribile per i catalani che
accusano il colpo. A inizio ripresa Coluna corona una partita superlativa segnando la terza rete del Benfica. L'assalto finale del Barcellona sortisce
solo la marcatura di Czibor e due pali. Il Benfica, a sorpresa, è sul tetto d'Europa.

Mario Coluna
Il leader del Benfica che realizza la grande impresa di conquistare la Coppa dei Campioni del 1961 è un ex attaccante con un sinistro da favola. Mario
Coluna è indietreggiato a centrocampo diventando il grande timoniere della squadra e pilotandola al successo oltre i confini nazionali. Dotato di
grande fantasia e di una straordinaria visione di gioco, si fa apprezzare anche in fase realizzativa. Guiderà il Benfica a due Coppe dei Campioni,
mancando il terzo successo nella finale contro il Milan soprattutto in quanto vittima di una micidiale "esecuzione" di Pìvatelli che gli impedirà di
incidere sul match.

Juventus
Dopo l'umiliazione patita due anni prima la Juventus torna in Coppa dei Campioni. Il sorteggio del primo turno oppone i bianconeri al CDNA Sofia
(la squadra dell'esercito che poi diventerà CSKA). Al Comunale la Juve vince 2-0 con reti di Lojodice e di Sivori, ma colpevolmente non arrotonda il
bottino. Paga tutto nel match di ritorno, affrontato senza Sivori, il portiere Vavassori, Stacchini e Emoli. I padroni di casa dominano il campo e se la
difesa bianconera resiste a lungo sulle barricate, è il reparto offensivo a consegnarsi inerme all'avversario, con un atteggiamento che sfiora l'irritante
abulia. Comincia a nascere il complesso internazionale della Signora: fortissima entro i confini, capace solo di balbettare fuori d'Italia, dove
evidentemente le manca la mentalità per imporre adeguatamente le proprie indubbie doti di gioco.

1961/62 – BENFICA
Proprio nei giorni della finale contro il Barcellona, il Benfica stava portando a termine l'ingaggio di un giocatore che avrebbe cambiato la storia del
club. Gli emissari del club lusitano avevano scoperto in Mozambico un giovane attaccante molto promettente chiamato Eusebio Ferreira Da Silva,
destinato a passare alla storia del calcio semplicemente come Eusebio. Il Benfica, esentato dal primo turno, entra in gara negli ottavi, dove si sbarazza
facilmente dell'FK Austria. L'avversario nei quarti è l'ostico Norimberga di Max Morlock: in Germania finisce 3-1 per i tedeschi, ma a Lisbona il
tecnico del Benfica, Bela Guttmann, decide di schierare finalmente Eusebio dall'inizio e ribalta la situazione con un tennistico 6-0. In semifinale
anche il Tottenham deve inchinarsi ai lusitani che trovano così in finale un Real Madrid assetato di rivincita dopo l'eliminazione dell'anno precedente.
Ad Amsterdam va in scena una finale emozionante: il Real, ansioso di restaurare il proprio dominio in Europa, scende in campo concentratissimo e
aggressivo. A metà primo tempo due reti di Puskas lanciano il Real sul 2-0 e la partita sembra già chiusa. Ma Aguas e Cavem replicano al magiaro,
prima che Puskas faccia tris a sette minuti dal riposo. Nella ripresa sale in cattedra Coluna che prende per mano i compagni e li conduce alla vittoria
segnando personalmente il gol del pareggio. I gol decisivi arrivano da Eusebio, la pantera nera controllata benissimo da Pachin, ma implacabile prima
su rigore e poi su punizione.

Eusebio
Lo chiamavano la Pantera nera per distinguerlo da Pelé, la Perla, e l'accostamento non era certo blasfemo. Eusebio Da Silva Ferrara, in arte Eusebio,
era arrivato al Benfica nel 1961 dal Mozambico, colonia portoghese dove era nato, dopo una complicata trattativa. Debutta a diciannove anni con la
maglia dei portoghesi, l'anno successivo si guadagna il posto di titolare a suon di reti e diventa una pedina decisiva nella conquista della seconda
Coppa dei Campioni lusitana. Giocatore eccezionale, dotato di dribbling felpato e di un fisico straripante, le movenze feline e il tiro potentissimo
anche da grandi distanze ne fanno un giocatore praticamente incontrollabile nelle giornate di vena. Gioca mezzala, ma di fatto è il secondo centravanti
della squadra, il grande movimentatore del gioco offensivo. Oltre al Benfica, assieme a Coluna-prese per mano la Nazionale portoghese, guidandola
allo storico terzo posto nel Mondiale 1966.

Juventus
La Juventus della terza avventura in Coppa dei Campioni è profondamente cambiata. Si è chiuso il ciclo di Boniperti, ha lasciato la maglia bianconera
anche l'altro grande leader, il difensore Cervato, e la crisi in campionato scoppia quasi subito. Esce di scena l'allenatore Gren, resta Parola da solo e la
Coppa dei Campioni diventa la palestra delle migliori energie, visto che il campionato non offre prospettive. Per la prima volta i bianconeri superano
il primo turno, a spese del Panathinaikos, e anche il secondo battendo il Partizan Belgrado sia in Jugoslavia che a Torino. Nei quarti c'è l'avversario
più forte: il Real Madrid. Ne nasce una epopea straordinaria, vissuta anche sull'onda dei tatticismi, con l'impiego di Charles in difesa per francobollare
il temutissimo Di Stefano. Proprio l'anziano fuoriclasse decide il match di andata a Torino che sembra segnare la sfida. Ma ecco al Chamartin la Juve
che non ti aspetti, da battaglia: Bercellino francobolla Puskas, Mazzia blocca Di Stefano, Charles tornato in avanti è un leone, Sivori è ispiratissimo e
sigla la rete che rimanda tutto alla "bella". Lo spareggio va in scena a Parigi, dove la Juve si presenta una settimana dopo con gli stessi uomini, che in
campionato hanno dovuto affrontare l'Inter, mentre i "bianchi" potevano permettersi di far riposare alcuni big. Al Parco dei Principi è grande Juve:
Felo infila e Sivori replica da campione, poi i bianconeri falliscono il raddoppio. I "bianchi" azzoppano Stacchini, un errore di Anzolin favorisce il 2-1
e il Real prende il largo: 3-1.

1962/63 – MILAN
Finalmente sale sul tetto d'Europa una squadra italiana: si tratta del Milan di Nereo Rocco che porta il trofeo in Italia dopo ben sette anni di soggiorno
nelle bacheche dei club della penisola iberica. Il Milan si presentava al via profondamente rinnovato sia in campo che in panchina. La guida tecnica
era stata infatti assunta da Nereo Rocco, artefice dei miracoli del grande Padova, mentre in campo non c'erano più i condottieri Liedholm e Schiaffino,
ma stava crescendo una generazione di giovani di valore come Trapattoni, Radice, Mora e soprattutto il golden boy del calcio nostrano: Gianni
Rivera, non ancora ventenne eppure già affermato anche in Nazionale. A completare il mosaico c'erano poi i due brasiliani: il trentenne Dino Sani,
geniale regista, e José Altafini, giovane bomber campione del mondo con il Brasile nel '58, detto "Mazzola" per la sua somiglianza con il grande
Valentino. L'avvio del torneo è in discesa per i rossoneri, che spazzano via al primo turno l'Union Lussemburgo per un complessivo 14-0, con ben otto
reti a firma di Altafini. Il secondo avversario, l'Ipswich Town, si dimostra più tignoso anche se viene facilmente battuto a San Siro 3-0. A Londra il
Milan limita i danni (1-2) e prosegue la sua marcia che non si interrompe nemmeno nel gelo di Istanbul, dove i rossoneri sconfiggono il Galatasaray
3-1 su un campo completamente ghiacciato. Al ritorno tre gol di Altafini, che arriva così a 12 centri, e due di Pivatelli suggellano il passaggio in
semifinale. Ancora una squadra britannica divide il Milan da Wembley, sede della finale: si tratta del Dundee, le cui velleità vengono però placate già
all'andata a San Siro dove i rossoneri ipotecano la finale con un sonoro 5-1, che rende indolore la sconfitta in Scozia (0-1). Il Milan torna così a
Londra, dopo l'incontro con l'Ipswich, per disputare la finale contro il Benfica di Eusebio e Coluna. I lusitani godono dei favori del pronostico e si
sentono piuttosto sicuri di fare tris. Al 18' Eusebio sfugge a David, Trapattoni non riesce a recuperare e la "Pantera nera" porta in vantaggio il Ben-
fica. Maldini, leader in campo, decide il cambio di marcatura, dirottando Benitez su Torres e mandando Trapattoni sulla pantera nera. Pochi minuti
dopo Altafini spreca un'occasione colossale, ma il gioco resta ancora in mano ai portoghesi guidati da un Coluna in forma strepitosa. Sul finale del
primo tempo però avviene la svolta: Pivatelli con una durissima entrata mette fuori gioco Coluna, che rimarrà in campo per onore di firma. Spenta la
luce del gioco portoghese, il Milan diventa padrone del campo e nella ripresa ribalta il risultato con due reti di Altafini splendidamente lanciato da
Rivera. È il trionfo del Milan, il trionfo del grande Nereo Rocco, detto il "Paròn".

José Altafini
José Altafini in questa edizione della Coppa dei Campioni mette a segno 14 reti, impresa che nessuno finora è riuscito a eguagliare, nonostante la
nuova Champions League metta a disposizione degli attaccanti di oggi molte più partite. Il dato più eclatante di questo record è che Altafini è riuscito
a racimolare questo bottino segnando in sole cinque partite. "Mazzola" era arrivato al Milan dopo il Mondiale '58. Il suo rendimento era stato
straordinario: classe, forza fisica, un ottimo stacco aereo, un raffinato palleggio alla brasiliana e soprattutto un innato fiuto per il gol: 28,20,22,22 sono
le reti nei primi quattro anni di Altafini nel campionato italiano. A Wembley, pur malconcio per le botte ricevute e dolorante per i crampi riesce
ugualmente a segnare la seconda rete decisiva per il trionfo rossonero.

1963/64 – INTER
La Coppa resta in Italia e a Milano. Sono infatti i nerazzurri di Helenio Herrera a raccogliere il testimone dai "cugini", che pure partecipano in quanto
campioni in carica. La costruzione della Grande Inter è stata dura e laboriosa, il magnate del petrolio Angelo Moratti ha cambiato allenatori e
campioni in serie, prima di trovare la formula giusta. Col "Mago" Helenio Herrera in panchina e il geniale direttore Italo Allodi nella stanza dei
bottoni è nata una squadra straordinaria, cui l'inattesa esplosione del giovane talento indigeno Sandrino Mazzola, figlio del grande Valentino, ha
assicurato il completamene offensivo e anche il legame col grande passato del calcio italiano.
Il sorteggio non è benigno, i nerazzurri debuttano al "Goodison Park" di Liverpool contro l'Everton. Con una prova gagliarda Corso e compagni
conservano lo 0-0 di partenza e passano poi il turno con una rete del folletto brasiliano Jair a Milano. Negli ottavi entra in gioco anche il Milan, che
elimina agevolmente il Norrköping, mentre l'Inter ha la meglio sui francesi dell'AS Monaco, di ben altra pasta rispetto agli inglesi. Nei quarti si arena
la corsa del Milan contro il redivivo Real Madrid, che mette al sicuro la qualificazione al Chamartin con un 4-1 protetto a San Siro con qualche
trepidazione (0-2). Per l'Inter invece il doppio confronto con il Partizan si rivela meno ostico del previsto e il visto per la semifinale viene strappato
comodamente.
Nel penultimo atto della competizione i nerazzurri si trovano opposti al Borussia Dortmund. Al termine di una durissima battaglia in Germania l'Inter
strappa un preziosissimo 2-2 agli assatanati tedeschi. A San Siro si risolve tutto per il meglio, Mazzola e Jair spingono l'Inter in finale. Ad attendere i
nerazzurri al "Prater" di Vienna c'è il Real Madrid, che nonostante l'età avanzata dei suoi alfieri si è dimostrato uno schiacciasassi durante tutta la
manifestazione: i grandi vogliono chiudere col canto del cigno. A Vienna, nella magica cornice del Prater, l'Inter affronta la storia. Sulle gradinate, ci
sono 20mila italiani, protagonisti di una delle prime "migrazioni di massa" del pallone. Helenio Herrera azzecca tutte le mosse: Tagnin francobolla Di
Stefano, alla sua ultima partita in maglia bianca, Guarneri morde i garretti di Puskas, Facchetti blocca Amando, Burgnich spegne la velocità di Gento
e in più Suarez arretra occupandosi di Felo. Bloccati gli uomini chiave, non mancano i campioni del gol: Mazzola con una doppietta strepitosa e
Milani con l'acuto finale suggellano il risultato. Suarez, ex Barga, si prende la rivincita sui rivali di sempre, proprio come Herrera, che vide la propria
stella tramontare in Catalogna dopo l'eliminazione patita nel 1960 contro il Real Madrid in semifinale.

Sandro Mazzola
La finale di Vienna consacra definitivamente la stella di Sandro Mazzola, che si libera dell'etichetta di figlio del grande Valentino e prende a brillare di
luce propria. A 14 anni è entrato nel vivaio dell'Inter e a 19 ha debuttato in prima squadra, segnando su rigore, nella partita contro la Juventus in cui
Moratti, per protesta, aveva mandato in campo la Primavera. Sandrino, non ancora ventenne, diventa titolare inamovibile nella stagione del primo
scudetto della Grande Inter e anzi il suo ingresso in pianta stabile in luogo di Maschio dà la svolta al campionato. Il suo ruolo non è più regista, ma
interno di punta. In questa posizione i suoi dribbling, la sua agilità, i suoi scatti e la sua tecnica individuale vengono esaltati. Al Prater quando guida
l'Inter alla conquista della Coppa Campioni non ha ancora compiuto i ventidue anni. L'epilogo di quella partita fu per lui esaltante: «La sensazione più
bella di quella serata» ricorderà poi, «ancor più bella delle due reti che segnai, la vissi quando Ferenc Puskas a fine partita mi avvicinò con gli occhi
lucidi per congratularsi e mi disse "Ho rivisto Valentino... "».

1964/65 – INTER
La decima edizione della Coppa dei Campioni vede al via un lotto di pretendenti alla vittoria finale molto ampio. Oltre ai detentori dell'Inter, il mai
domo Real Madrid, il Benfica di Eusebio e Coluna, il coriaceo Rangers Glasgow e il Liverpool, al debutto nella competizione. L'Italia presenta
nuovamente al via due squadre, insieme all'Inter c'è anche il Bologna campione d'Italia. I rossoblu bagnano l'esordio con la sfortunatissima
eliminazione contro l'Anderlecht di Paul Van Himst. I felsinei perdono 1-0 a Bruxelles, ma a Bologna vincono 2-1 con reti di Pascutti e Nielsen. Tutto
è così rimandato alla "bella" di Barcellona, dove al termine dei 90' regolamentari e dei 30' supplementari il risultato non si è ancora schiodato dallo 0-
0. A questo punto il regolamento prevede il lancio della monetina, che al primo tentativo cade clamorosamente in... piedi conficcandosi nell'erba. Il
secondo tentativo è invece favorevole ai belgi. Una beffa. L'Inter si presenta con l'ossatura dell'anno precedente, arricchita dagli innesti dell'interno
Peirò, del tornante Domenghini e del centromediano Malatrasi. Dopo la passeggiata negli ottavi di finale contro la Dinamo Bucarest, i nerazzurri se la
vedono, nei quarti di finale, con gli arcigni scozzesi del Rangers. Peirò è decisivo a San Siro con una doppietta nel 3-1 che mette l'Inter moderata-
mente al sicuro circa il passaggio del turno. Negli altipiani le mischie prodotte dai Rangers sortiscono solo una rete e gli uomini di Herrera
guadagnano l'accesso alle semifinali. Il sorteggio oppone l'Inter al temibilissimo Liverpool, qualificatosi grazie alla monetina al termine di tre
tiratissime sfide contro il Colonia nei quarti. L'andata si gioca a Liverpool e "Anfield Road" è un catino ribollente di tifo e passione; in cui i Reds
attaccano senza soluzione di continuità, riuscendo a schiacciare un'Inter troppo prudente per 3-1. Tutto sembra perduto, ma a San Siro accade il
miracolo, dando vita a una delle sue prestazioni più esaltanti. Tra i tre gol, quello di Peirò che beffa il portiere Lawrence entra nella leggenda
nerazzurra. La finale si gioca a Milano contro il fortissimo Benfica, alla quarta finale negli ultimi cinque anni, che nei quarti ha annientato il Real
Madrid a Lisbona per 5-1. La partita pattina su un terreno ai limiti della praticabilità a causa della pioggia torrenziale che ha imperversato su Milano
per tutto il giorno. Lo Spettacolo, anche per via del campo, non è eccelso, ma l'Inter offre una interpretazione tattica perfetta: chiude ogni varco alle
velleità offensive avversarie: e riparte con micidiali contropiede, falliti da Peirò, Jair e Mazzola. Alla fine del primo tempo, un tiro di Jair sembra
comoda preda del portierone Costa Pereira, grande numero uno, che tuttavia si fa ingannare: il pallone gli scivola sotto le terga regalando alla Grande
Inter la seconda Coppa dei Campioni consecutiva.
Joaquim Peirò
Il gol di Joaquim Peirò contro il Liverpool nel ritorno delle semifinali a San Siro rappresenta forse il punto di svolta, il momento decisivo nella
rincorsa dell'Inter alla seconda Coppa Campioni consecutiva. Probabilmente altri giocatori avrebbero meritato un tributo. Per esempio Jair, decisivo in
finale, oppure il gran regista Suarez, o il raffinato inventore Corso, ma senza l'astuzia di Peirò difficilmente l'Inter avrebbe fatto bis. Lo spagnolo era il
terzo straniero dei nerazzurri e in campionato non giocava mai, poiché potevano scendere in campo solo due stranieri per squadra e l'Inter aveva Jair e
Suarez. Era però una pedina fondamentale in coppa: nei quarti aveva affossato i Rangers con una doppietta, ma il capolavoro lo compi in semifinale,
dove i nerazzurri erano chiamati all'impresa disperata a Milano. All'ottavo minuto segna Corso. Un minuto dopo il portiere Lawrence si appresta al
rinvio, Peirò gli sguscia accanto, gli sottrae il pallone e lo depone nella rete incustodita. San Siro esplode. L'Inter con il morale alle stelle completa la
rimonta con Facchetti nella ripresa e si lancia verso il secondo successo continentale.

1965/66 – REAL MADRID


E' la stagione del ritorno in vetta del Real Madrid. I Dominatori del primo lustro della Coppa dei Campioni, allenati da Miguel Munoz, sono una
squadra completamente diversa da quella che aveva mietuto successi in tutta Europa. Attorno alle chiocce Cento e Pachin, Munoz ha costruito una
squadra ricca di giovani emergenti come Pirri, Amando, Zoco, Serena, Velazquez e Sanchis. Superati agevolmente i primi due turni, con gli ultimi
acuti di Puskas a fine carriera, che lascerà spazio ai giovani compagni nel corso della stagione, nei quarti il Real trova un Anderlecht in continua
ascesa. A Bruxelles decide una rete di Van Himst e il Real deve dare il massimo al Chamartin per passare il turno: 4-2 per le "merengues". Sempre nei
quarti va segnalata l'impresa del Manchester United che elimina il Benfica: gli inglesi vincono un'autentica battaglia all' "Old Trafford" con un 3-2 che
non li rende assolutamente tranquilli in vista del ritorno a Lisbona. Ma in Portogallo il grande George Best dà spettacolo e trascina lo United ad una
vittoria sonante: 5-1. La prima sconfitta interna del Ben-fica in 17 gare di Coppa. Un po' a sorpresa però la squadra di Busby, complice l'assenza di
Best, viene eliminata in semifinale dal Partizan Belgrado, che diventa così la prima squadra dell'Est ad accedere alla finale di Coppa campioni. Il Real
in semifinale incontra l'Inter, lanciata verso il tris. Questa volta però è proprio Herrera ad aprire la strada agli avversari, con suicide scelte tattiche. I
"bianchi" vincono con Pirri all'andata e nel ritorno basta loro un gol di Amancio per eliminare l'avversario più forte del lotto. La finale si gioca a
Bruxelles e la favola del Partizan continua fino a venti minuti dalla fine: dopo un primo tempo equilibrato, gli slavi vanno in vantaggio con Vasovic a
inizio ripresa. Il Real non riesce a produrre alcuna reazione, ma una prodezza di Amancio al 70' gira le sorti del match. Sei minuti dopo un bolide da
trenta metri di Serena, un altra delle giovani leve madridiste, sorprende il portiere jugoslavo regalando il sesto trionfo al Real Madrid.
Francisco Gento
Francisco Gento è l'unico giocatore nella storia ad aver vinto sei Coppe dei Campioni. Saranno sicuramente esistiti giocatori dalla miglior tecnica
individuale, dalla maggior forza fisica o più carismatici, ma pochi avevano la velocità di Gento e il suo cuore. Era arrivato al Real nel 1953 e ha in tal
modo vissuto l'epoca più bella della "Casa bianca", mettendo insieme un palmarés ricchissimo che lo rende lo spagnolo più vincente di sempre: 12
titoli nazionali, 6 coppe dei Campioni, 2 Coppe di Spagna e 1 Coppa Intercontinentale. Per via della sua incontenibile velocità era detto la "Galerna
del Cantàbrico", dal nome del vento della sua terra. Considerato per molto tempo la migliore ala sinistra del mondo, Gento si è ritirato nel 1972, alle
soglie dei 40 anni, dopo aver disputato 428 incontri nella Liga, un altro record ancora ineguagliato.
Inter
Lo squadrone di Helenio Herrera dà l'assalto, più agguerrito che mai, alla terza Coppa dei Campioni consecutiva. E qui si consuma una beffa atroce,
perché non c'è dubbio che l'Inter è ancora la Grande Inter ed è nettamente superiore ai "nuovi" madridisti, che gli si parano di fronte in semifinale.
Qualcuno sostiene che il "Mago" soffra di un complesso Real, sin dai tempi del Barcellona. Sia come sia, contro i "bianchi" snatura la sua Inter.
All'andata esclude Domenghini, aggiunge il difensore Landini e avanza il mediano Bedin sulla trequarti, arroccando i suoi in una pura interpretazione
difensiva. Quando Pirri lo castiga, mancano i mezzi per rimediare. A San Siro sguinzaglia i suoi in un assalto a pieno organico che sguarnisce la
difesa, puntualmente colpita da Amando. In avanti Mazzola non ha l'appoggio di Domenghini, nuovamente escluso e il pari di Facchetti non basta.

1966/67 - CELTIC
La dodicesima edizione della Coppa dei Campioni segna la fine del dominio latino. Dopo undici vittorie consecutive da parte di squadre spagnole,
portoghesi e il; lui e. il calcio britannico iscrive il proprio nome nell'albo della manifestazione. Il merito è lei Celtic Glasgow, pluritotolato in patria
con 21 titoli, ma al debutto in una competizione internazionale. La squadra dei cattolici di Glasgow porta in Coppa Campioni le armi tipiche del gioco
britannico: aggressività, furore agonistico, mischie e lunghi lanci o cross dalle fasce a cercare le torri in area. A queste caratteristiche il Celtic
aggiunge l'alto tasso tecnico di giocatori come Johnstone, Chalmers, Gemmell e Lennox. La squadra acquisisce fiducia nei propri mezzi turno dopo
turno, agevolata da sorteggi benigni. Così un po' a sorpresa la squadra scozzese si qualifica per la finale di Lisbona, dove se la vedrà con l'Inter. I
pronostici della vigilia vedono i nerazzurri ampiamente favoriti, anche se devono scontare l'assenza di Suarez, e questa convinzione viene rinforzata
dopo sei minuti, quando Mazzola trasforma un ineccepibile calcio di rigore per atterramento di Cappellini. Invece, dopo il vantaggio, i nerazzurri,
vinti dal caldo torrido della capitale lusitana, cedono di schianto sul piano fisico. Gli sforzi della stagione cominciano a pesare sul gruppo; le tre
partite di semifinale con i bulgari della Cska Sofia hanno imposto un prosciugamento di energie che con l'avvento della primavera impone un pesante
dazio. Gli avversari ne approfittando, cominciando a macinare il loro gioco. Craig e Gemmel, i due terzini di fascia, sono autentiche spine nel fianco
della difesa interista e dai loro cross arrivano le minacce più concrete alla porta di Sarti. Il meritato pareggio viene costruito proprio dai due terzini:
cross di Craig e formidabile siluro di Gemmell che trafigge l'incolpevole Sarti. I biancoverdi perfezionano poi la grande impresa a sette minuti dal
termine: altro cross di Craig e stavolta è il centravanti Chalmers a mettere la palla in rete, chiudendo di fatto il ciclo della Grande Inter.
Jock Stein
L'artefice del successo del Celtic è senza dubbio l'allenatore Jock Stein. Quando nella primavera del 1965 il presidente Robert Kelly gli affida la guida
della squadra, le sorti del club cattolico di Glasgow, a digiuno di titoli da 10 stagioni, cambiano radicalmente. Inizia un lungo periodo di successi con
nove campionati scozzesi vinti consecutivamente, la Coppa dei Campioni del 1967 e la finale del 1970. La sua filosofia era fondata sul duro lavoro, la
disciplina e il rispetto. Lascia il Celtic nel 1978 per allenare la nazionale scozzese sulla cui panchina morirà d'infarto dopo la rete del pareggio contro
il Galles il 10 settembre 1985, nelle qualificazioni ai Mondiali del Messico.
Inter
Un'Inter un po' logora e in calo si mette nuovamente alla caccia della terza Coppa Campioni. Non c'è più Peirò sostituito da un giovane attaccante
rientrato dal prestito al Genoa, Renato Cappellini capocannoniere nerazzurro in questa edizione, e anche Jair ha visto ridursi il suo spazio per la
crescita esponenziale del tornante Angelo Domenghini. Il primo turno contro la Torpedo Mosca, prima squadra sovietica a prendere parte alla Coppa
dei Campioni, viene superato con l'esperienza. L'ottavo di finale contro il Vasas Budapest è nobilitato dala primo gol di Mazzola nel ritorno a
Budapest, uno dei più belli di ogni epoca, con cinque avversari scartati in un fazzoletto. Subito dopo l'urna mette di nuovo di fronte i nerazzurri e il
Real Madrid. L'Inter affronta il doppio confronto con la dovuta concentrazione. Il protagonista della sfida è proprio il pupillo di Herrera, Cappellini,
che segna la rete della vittoria a San Siro e una delle due dello storico successo al Chamartin. Durissima anche la semifinale

1967/68 – MANCHESTER UNITED


Finalmente anche i maestri inglesi iscrivono la propria firma nella storia della competizione. A interrompere la tradizione negativa per le squadre
inglesi è il Manchester United che sir Matt Busby aveva saputo gradualmente ricostruire dopo la tragedia di Monaco. Attorno a Bobby Charlton,
miracolosamente sopravvissuto al disastro, Busbv aveva assemblato una squadra che poteva contare sulla fantasia di Dennis Law e
sull'imprevedibilità del genio George Best. È credenza comune che se quel 6 febbraio del 1958 il destino non avesse giocato un terribile tiro ai
giocatori del Manchester, questa squadra avrebbe potuto aprire un ciclo simile a quello del Real Madrid. Il successo del 1968 ripara in qualche modo
al tragico torto. La novità di questa edizione della Coppa Campioni è che nei primi due turni si tiene conto dei gol segnati in trasferta per determinare
la squadra qualificata (in caso di somma di punteggi in parità) senza ricorrere allo spareggio. Lo United si sbarazza facilmente dei suoi primi
avversari: i maltesi dell'Hibernians, gli slavi del Sarajevo e i polacchi del Gornik Zabrze. Nelle semifinali i "Red Devils" sono opposti ad un Real
Madrid in declino, ma sempre temibilissimo. In Inghilterra Best regala la prima partita agli inglesi, che vanno vicini all'eliminazione al Chamartin,
dove a fine primo tempo si trovano sotto 1-3. La ripresa vede la furiosa reazione del Manchester, che accorcia le distanze con Sadler e pareggia con il
vecchio difensore Bill Foulkes: Bobby Charlton e compagni sono così in finale, che si giocherà a Wembley e li vedrà opposti al Benfica di Eusebio.
Concetto Lo Bello dirige un match palpitante e ricco di emozioni e colpi di scena. Bobby Charlton porta in vantaggio il Manchester, ma a undici
minuti dalla fine Garca pareggia e rimanda tutto ai supplementari. Busby ricarica psicologicamente i suoi, che dominano i prolungamenti e in sei
minuti segnano tre reti con Best (che beffa il portiere con un gioco di prestigio e poi esita beffardamente prima di infilare), Kidd e Charlton. È il
trionfo della squadra di Busby, che alla fine dedicherà il meritato trionfo alla memoria dei "Busby Babes".
George Best
Il talento più limpido di questo Manchester United è il grande George Best, genio e sregolatezza della squadra di Busby. Nato a Belfast, arriva nelle
giovanili del Manchester a 15 anni, nel 1961. Due anni dopo debutta sia in prima squadra che nella Nazionale nordirlandese, grazie all'eccezionale
talento: dribbling, cambi di direzione, cross, controllo di palla superbo, l'intero campionario dell'irresistibile genio. Non per niente il giocatore di tutti
i tempi preferito da Pelé. Peccato che le mille tentazioni del successo ne offuschino presto la stella. Auto veloci, donne e alcool diventano gli
inseparabili compagni di vita. Soprattutto la bottiglia minerà il suo fisico, tanto che a soli ventisei anni la sua carriera ad alto livello si interrompe
quando strappa il contratto con il Manchester. Il 1968 è il suo anno d'oro: vince il titolo inglese, la Coppa Campioni e il Pallone d'oro. Sembra l'inizio
di una carriera memorabile e invece il baratro è a un passo.
Juventus
La Vecchia Signora torna a calcare i palcoscenici europei più prestigiosi dopo cinque anni. Non ci sono più Sivori e Charles, ma è una Juventus solida
e competitiva con in panchina Heriberto Herre-ra, paraguaiano, nessuna parentela con il "mago", beffato l'anno precedente nell'ultimo turno del
campionato. L'avvio dei bianconeri è tranquillo: l'Olympiakos al primo turno e il Rapid Bucarest al secondo sono avversari abbordabili. Nei quarti di
finale invece l'Eintracht di Brauschweig si dimostra avversario di ben altra pasta e i bianconeri vengono salvati da un rigore del giovane attaccante
Silvino Bercellino a due minuti dal termine della partita di ritorno, che regala alla Juve una provvidenziale vittoria dopo la sconfitta patita all'andata
per 3-2. Nello spareggio di Berna, la Juve prevale ancora con il minimo scarto grazie ad una rete di Magnusson, lo svedese di Coppa (in campionato è
vietato ingaggiarne), al termine di una gara dai toni agonistici accesi. La semifinale contro il Benfica è fatale ai bianconeri. Sconfitta a Lisbona, la
Juve al Comunale viene infilata dal grande Eusebio, vessillifero di una squadra più abituata ai grandi match.

Il Milan che aveva vinto con irrisoria facilità il campionato italiano è campione d'Europa per la seconda volta. Con pieno merito, basti pensare al
valore degli squadroni battuti turno dopo turno sulla strada della Coppa: Celtic, Manchester United, Ajax. Sulla panchina rossonera è tornato a sedersi
Nereo Rocco, dopo l'infruttuosa parentesi granata, che ha subito ritrovato il magico feeling col successo, costruendo una squadra ricca di stagionati
campioni. Il tandem d'attacco Prati-Rivera è il punto di forza della formazione, irrobustita a centrocampo dai "califfi" Trapattoni e Lodetti e
impenetrabile in difesa, dove il "ragno nero" Cudicini vive una sensazionale seconda giovinezza. Il primo turno dei rossoneri è abbastanza agevole
anche se a Malmö incappano in un'inopinata sconfitta (1-2) ampiamente rimediabile al ritorno, come puntualmente accade grazie al trio d'attacco
Prati-Sormani-Rivera (4-1). Il Milan viene poi esentato dal secondo turno per sorteggio a causa del ritiro di numerose squadre dell'Est. In seguito
all'invasione sovietica della Cecoslovacchia, il Celtic aveva chiesto che il sorteggio del primo turno venisse ripetuto separando le squadre occidentali
da quelle orientali, in modo da non farle incontrare nel momento politicamente più critico per l'Europa. Quasi tutte le federazioni dell'Est allora
ritirarono le proprie squadre, il tabellone risultò monco, e il sorteggio regalò il passaggio del turno a Milan e Benfica. Nei quarti di finale i rossoneri
sono opposti al forte Celtic di Jock Stein, vincitore del trofeo due anni prima. All'andata a Milano si gioca su un campo ricoperto di neve e in parte
ghiacciato e il risultato non si schioda dallo 0-0 iniziale. Considerato che il Celtic è imbattuto in casa da parecchi anni, il ritorno assume le sembianze
di una missione impossibile per il Milan. Invece un veloce contropiede di Prati al 12' del primo tempo regala la rete della qualificazione ai rossoneri,
che si difendono gagliardamente per i successivi 78 minuti e resistono all'assedio. Un'urna tutt'altro che favorevole li abbina poi in semifinale
nientemeno che al Manchester United detentore del trofeo. L'andata si gioca a Milano: Sormani poco dopo la mezz'ora e Hamrin a inizio ripresa
danno al Milan un vantaggio abbastanza rassicurante in vista del ritorno all'Old Trafford. In Inghilterra lo United la mette sul piano fisico, ma Rivera e
compagni non cadono nella provocazione. A 20 minuti dalla fine Charlton porta in vantaggio il Manchester creando le premesse per un finale
incandescente durante il quale Cudicini, bersagliato da oggetti di ogni tipo lanciati dai tifosi inglesi, compie interventi prodigiosi che conducono il
Milan in finale. Al Chamartin, sede prescelta per l'atto conclusivo della competizione, il Milan trova l'Ajax del "Pelé bianco", Johan Cruijff, con il suo
"calcio totale" alla prima apparizione in una finale. Gli olandesi, giustizieri del Benfica nei quarti di finale, saranno i grandi dominatori dei primi anni
'70 ma a Madrid il Milan più esperto li annichilisce con un roboante 4-1. Il mattatore è Pierino Prati, autore di una tripletta, ma grandi protagonisti
sono anche Rivera che dirige la squadra magistralmente , e Trapattoni, che riesce a bloccare il temuto Cruijff.

Gianni Rivera
Anche se il tabellino dell'incontro premia indiscutibilmente Pierino Prati, è Gianni Rivera il deus ex machina di questo Milan. Sono i suoi lanci
superbi a tagliare in due la difesa olandese e a innescare le turbine dell'ala sinistra rossonera. È lui il direttore di un'orchestra che suona all'unisono
senza nessuna stecca, il leader di una squadra che già sei anni prima, quando ancora non aveva compiuto vent'anni, aveva condotto sul tetto d'Europa.
Il "golden boy" del calcio italiano aveva esordito in serie A nell'Alessandria a soli 15 anni, sul finire della stagione '58-59. Il Milan si fiondò su di lui
immediatamente e dopo un solo provino Gipo Viani aveva già capito che quel ragazzino dal fisico asciutto avrebbe potuto cambiare i destini della
squadra rossonera. Nel 1960 passa definitivamente al Milan, che lo aveva lasciato una stagione in Piemonte, e ne diventa il simbolo. Per la classe, la
tecnica, l'intelligenza tattica diventa subito la risposta italiana a Pelé, anche se con la Nazionale non riuscirà mai a sfondare completamente. Dopo la
parentesi iniziale con l'Alessandria, disputa diciannove stagioni consecutive in rossonero e conquista tre scudetti, due Coppe dei Campioni, una
Coppa Intercontinentale, due Coppe delle Coppe e quattro Coppe Italia.

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