You are on page 1of 18

Schede diacroniche di filosofia

ANGOSCIA

Il concetto di angoscia è diventato uno dei più significativi concetti della filosofia
contemporanea con le riflessioni di Soren Kierkegaard (Il concetto dell’angoscia) che lo
considera sentimento fondamentale dell’esistenza nello stadio più elevato, quello religioso.
L’angoscia deriva dalla condizione esistenziale stessa: l’esistenza è infatti possibilità
indeterminata, "nel possibile tutto è possibile", scelta necessaria il cui risultato non è garantito.
Può essere superata solo attraverso il suicidio, la negazione di ogni possibilità che si apra
all’uomo, o attraverso il paradosso della fede, l’abbandono totale dell’uomo a Dio, "Colui al
quale tutto è possibile", vivere in Dio, non solo porsi davanti a lui; la fede infatti implica la
scelta di vivere fino in fondo la disperazione dell’esistenza che nasce dalla separazione fra il
singolo e l’Assoluto.

Nel Novecento l’angoscia come sentimento fondamentale dell’esistenza è uno dei concetti
cardine delle filosofie esistenzialiste.

Heidegger fa dell’angoscia il perno della sua analitica esistenziale. L’Esserci è caratterizzato


dalla situazione emotiva e dalla comprensione; la situazione emotiva deriva dal sentimento
dell’essere-gettato-nel-mondo; le situazioni emotive sono due: l’angoscia e la paura; questa è
il sentimento di chi vive l’esistenza inautentica, l’angoscia invece è il sentimento dell’esistenza
autentica, che è essere-per-la-morte, il sentimento per il quale l’Esserci si sente "non a suo
agio" nel mondo, l’esistenza e il mondo sono "insignificanti" e accetta la morte come
"possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile dell’uomo"; l’Esserci che ha
compreso il senso dell’esistenza e del mondo come nulla può solo accettare il proprio destino,
l’angoscia così "libera l’uomo dalle possibilità nulle e lo lascia libero per quelle autentiche".

Analoga è la concezione dell’angoscia in Jaspers e Sartre.

Jaspers vede l’esistenza come "naufragio" di tutte le possibilità che all’uomo sembrano aprirsi,
la libertà che sembra caratterizzare l’esistenza si rivela come impossibilità di superarne le
condizioni che l’uomo ritrova in sé: non può non morire, sente il peso della colpa, non riesce a
comunicare. Solo attraverso la metafisica autentica, può trovare l’essere sotto la "cifra" in cui
si manifesta.

Sartre considera l’esistenza come assoluta libertà di scelta; è questa libertà che genera
l’angoscia: essendo il nulla la dimensione ineliminabile del mondo e dell’esistenza, la libertà di
scelta deve essere angoscia: la scelta è progetto, essa proietta l’uomo nel futuro, in ciò che
non è ancora e genera l’orrore dell’indeterminatezza che il nulla, il non-essere, porta con sé; il
nulla così si rivela come il senso profondo dell’esistenza, è dentro l’uomo e non fuori; per
questo motivo l’uomo è "condannato a essere libero", cerca di trascendere l’esistenza, di
"fuggire" da se stesso e ricade necessariamente nel nulla.

Il concetto di angoscia è fondamentale anche nella psicanalisi: l’angoscia è quel sentimento


doloroso connesso all’esistenza, che risale alla nascita, il momento "nel quale si trovano riunite
tutte le situazioni penose, tutte le tendenze e le situazioni corporee, il cui insieme è diventato il
prototipo dell’effetto prodotto da un pericolo grave"; paura, timore e gli altri sentimenti simili
sono diversi dall’angoscia perché sono circostanziati, hanno cioè un oggetto preciso di fronte.
Non avendo un preciso oggetto su cui poggiare per uscire dallo stato doloroso che determina, è
definibile come uno "stato di impotenza" da quale l’Io e il Super-Io cercano di difendersi; da
questa analisi (Cfr. Inibizione, sintomo e angoscia, 1926) Freud trova tre tipologie
fondamentali di angoscia che si differenziano in base agli effetti che provocano sulla persona.

ALIENAZIONE

1
In alcuni filosofi medievali alienazione indica l’abbandonarsi dell’uomo a Dio.

Nella filosofia moderna acquista un significato del tutto diverso; Rousseau usa il termine per
indicare il trasferimento dei diritti naturali dell’individuo alla società attraverso il contratto
sociale.

Nella filosofia contemporanea il significato dominante è quello hegeliano di "essere altro


da sé"; indica il processo per il quale l’uomo perde ciò lo caratterizza, i prodotti della sua
attività gli diventano estranei.

Feuerbach aveva abbandonato il significato speculativo hegeliano per considerare l’alienazione


come creazione di Dio da parte dell’uomo che proietta in una visione sublime i propri bisogni
nell’illusione di liberarsi dei problemi che la vita necessariamente porta con sé.

Legata alla visione della relazione fra uomo e merce nella società capitalistica è la lettura
marxiana dove alienazione significa processo che porta l’uomo a perdere il proprio valore di
persona e a ridursi a quello delle merci prodotte; l’alienazione dell’uomo nella società
capitalistica può essere superata solo attraverso il riconoscimento del valore umano delle
merci, dove quindi il possesso non sia l’unico rapporto fra l’uomo e gli oggetti che produce.

Nella filosofia del Novecento il concetto di alienazione è stato estremamente fecondo nel
pensiero marxista e in quello esistenzialista. Nel pensiero di Giorgy Lukàcs alienazione è
sinonimo di reificazione, il farsi cosa dell’uomo. Il valore del concetto di alienazione nella
visione marxista è negato da Louis Althusser: egli vede in esso un residuo idealistico che
impedisce l’analisi rigorosa dell’uomo come "funzione" dei rapporti di produzione; nella
visione di Althusser il marxismo è antiumanismo. Particolarmente significativo il concetto di
alienazione si rivela nel pensiero esistenzialista. Sartre riprende il concetto hegeliano e
intende alienazione come "oggettivazione", come rapporto dell’uomo con le cose, rapporto
che crea sempre uno stato di disagio e di infelicità. Questo carattere dell’alienazione è stato il
motivo di fondo della concezione di Marcuse dell’uomo a una dimensione, la condizione per cui
nella moderna società tecnologica l’uomo viene schiacciato dalla logica di una organizzazione
sociale tollerante solo in apparenza; essa infatti è riuscita a integrare anche la classe operaia
nella propria logica e la speranza di liberazione sta solo nella carica eversiva dei ceti emarginati
e dei popoli colonizzati.

ARTE

In Platone il concetto rappresenta l’insieme delle regole che devono essere seguite per
compiere nel modo migliore una qualsiasi attività; l’arte è genericamente tekné; arte è la
poesia, la dialettica, la politica, la guerra, la medicina, la pesca, ecc. Seguendo questa
concezione anche la scienza diventa arte: il conoscere è arte giudicativa e l’agire determinato
dalla conoscenza è arte imperativa. L’arte non è espressione dell’esperienza estetica: il bello è
espressione della presenza dell’idea nella natura, l’arte è solo imitazione della natura, di una
copia dell’idea; per questo deve essere condannata, allontanando l’uomo dalla visione dell’idea.

Aristotele distingue l’arte dalla scienza; divide il sapere in scienze teoretiche, pratiche e
poietiche, l’arte riguarda solo quest’ultimo campo: ciò che viene prodotto dall’attività dell’uomo
appartiene all’arte, ciò che classifichiamo come scienza (la matematica, la logica, la fisica ecc.)
non può essere definito arte. Dell’arte come esperienza estetica Aristotele tratta nella Poetica,
di cui ci è rimasta solo la parte che tratta della tragedia. Anche secondo Aristotele l’arte è
imitazione e la tragedia è l’espressione più elevata di arte; essa "mediante casi di pietà o di
terrore produce la purificazione delle passioni". La funzione dell’arte è dunque positiva,
rappresentando la realtà umana "come potrebbe essere" e non come effettivamente è, educa
alla conoscenza. A partire dal I secolo d.C. si afferma il concetto di "arti liberali", le arti
dell’uomo libero, in contrapposizione alle "arti manuali", che contraddistinguono le classi

2
inferiori per le quali il lavoro è necessità. Nove sono le arti liberali che Varrone elenca:
grammatica, retorica, logica, aritmetica, geometria, astronomia, musica, architettura,
medicina. Nel V secolo Marziano Capella riduce a sette le "arti liberali" eliminando dall’elenco
di Varrone l’architettura e la medicina perché non riguardano lo spirito; il nuovo modello di
Capella, diviso nella arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (aritmetica,
geometria, astronomia, musica) diventa l’asse degli studi per tutto il medioevo.

Oggi il termine arte ha rimasto il significato di "regole e procedure per svolgere un


compito nel modo migliore" soprattutto nel linguaggio burocratico. Comunemente indica i
prodotti delle arti figurative, della letteratura, del teatro, del cinema e fa riferimento alle teorie
estetiche che riflettono i diversi concetti di "bello" e di "gusto"

Le moderne concezioni estetiche hanno la loro origine nella Critica del giudizio. Kant intende
l’arte non come imitazione ma come attività creativa. Il bello è per Kant l’oggetto di un piacere
libero da ogni interesse, un piacere universale che non ha la sua fonte nel concetto, manifesta
una finalità senza suscitare la rappresentazione di uno scopo, viene riconosciuto come oggetto
di un piacere necessario. Esso è suscitato dallo "stato d’animo del libero gioco della fantasia e
dell’intelletto" che nasce "dall’accordo della libertà dell’immaginazione con la legalità
dell’intelletto".

Dall’elaborazione kantiana si sviluppa la concezione romantica dell’arte come creatività e


conoscenza.

Per Schelling l’arte è il vero "organo della filosofia" in quanto in essa sono tutt’uno l’attività
inconscia e quella cosciente dell’intelletto e proprio per questa ragione è assolutamente libera.
La creatività del Genio rappresenta la prosecuzione dell’attività creatrice dell’Assoluto.

Anche in Hegel l’arte è attività creativa e conoscitiva a un tempo e perciò manifestazione dello
spirito assoluto; si differenzia dalla religione e dalla filosofia solo per il modo, maggiormente
legato alla sensibilità, di rappresentare l’assoluto. La filosofia quindi rappresenta anche il
superamento dell’arte, che è destinata alla morte.

Schopenhauer riprende la concezione platonica del bello come rivelatore dell’idea che si
nasconde nel reale e l’arte diventa strumento di contemplazione ideale attraverso il quale
l’uomo può cominciare a liberarsi della volontà di vivere sottraendo la propria rappresentazione
ai vincoli della causalità che caratterizzano il principio di ragione.

Grande importanza, per certi sviluppi contemporanei, ha anche l’estetica positivista per la
quale l’opera d’arte deve rappresentare la realtà così come essa è, nella sua crudezza, nella
sua violenza; la ricerca artistica è un mezzo che si deve avvalere dei risultati delle scienze per
rappresentare, capire la realtà e l’uomo che in essa agisce. L’arte non è solo un momento di
conoscenza, è anche strumento di denuncia, in alcuni casi, Zola ad esempio, utile a modificare
la società.

La stessa valutazione va fatta per la concezione nietzschiana dell’arte che ripropone il


carattere pratico dell’esperienza estetica. L’arte è lo strumento di liberazione dell’uomo perché
"è un’esaltazione del sentimento della vita e uno stimolante della vita"; l’arte, in quanto
espressione del sentimento, è assolutamente libera e perciò superiore alla ragione che
lentamente uccide la vitalità dell’uomo e perciò espressione dell’ebbrezza dionisiaca.

3
Nel Novecento la riflessione sui problerni estetici ha una rilevanza enorme, anche perché è
questo il secolo della "società di massa", della società in cui l’istruzione si è diffusa
capillarmente e in cui il prodotto artistico ha dato origine a una vera e propria industria
culturale. L’Europa, che fino alla prima guerra mondiale era stata il vero teatro della politica
internazionale, diventa una regione del mondo in contatto con le altre; la cultura europea si
confronta con le altre culture e mette in discussione il valore dei suoi risultati; ne deriva la
perdita di una precisa identità culturale e la coscienza di una profonda crisi. Il confronto
interculturale e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione rendono sempre più complesso il
dibattito sul ruolo dell’artista e sui fini dell’arte; emergono posizioni contrastanti: alcuni vedono
la ragion d’essere dell’arte nell’impegno politico-sociale, altri nel completo disinteresse per
questi problemi, altri ancora cercano nell’intimità della propria coscienza il senso dell’esistenza.

Va ricordato prima di tutto il pensiero di Benedetto Croce che ha, soprattutto in Italia,
condizionato largamente la critica estetica almeno fino a tutti gli anni 50. Per Croce l’arte è
intuizione che si fa espressione, è cioè un atto conoscitivo non concettuale che si fonda sul
sentimento espresso in una sua forma originale. L’arte è fondamentalmente linguaggio:
estetica e linguistica, sotto questo profilo diventano un’unica cosa e, di conseguenza, sono
arbitrarie tutte le classificazioni dei generi artistici. Ogni opera d’arte, in quanto espressione di
un sentimento, deriva dalla fantasia e non dalla volontà, volontaria è solo l’estrinsecazione
dell’espressione, mai l’espressione in sé e ogni linguaggio è solo una tecnica che l’artista usa
per esprimere la propria intuizione. In questo senso l’arte è per Croce una manifestazione
necessaria della vita umana che si sviluppa autonomamente attraverso categorie proprie.

Anche per John Dewey il momento estetico può essere scoperto in ogni esperienza e essere
proposto come oggetto "percepibile come bene immediato" che è fine a se stesso; l’arte infatti
è un’attività che nasce direttamente dall’esperienza umana, la danza ad esempio è la
rappresentazione artistica dell’armonia dei movimenti del corpo nella quale questa armonia è
diventata fine a se stessa e momento di fruizione autonoma.

La concezione dell’arte come momento di impegno politico-sociale è caratteristica delle filosofie


marxiste.

Giorgy Lukács sostiene che un’arte che esprima veramente la realtà rappresentandone le
dinamiche sociali favorisce il progresso e la rivoluzione contribuendo alla formazione della
coscienza di classe.

Ernst Bloch sostiene che l’arte è espressione fantastica del fine che guida la storia verso
l’emancipazione dell’uomo.

All’arte come impegno critico Jean Paul Sartre dedica un saggio importante, Che cos’è la
letteratura (1947); in questo scritto analizza la responsabilità che lo scrivere comporta, "noi
non vogliamo aver vergogna di scrivere e non abbiamo voglia di scrivere senza dir niente";
l’artista ha la responsabilità delle parole e delle verità che esse contengono, il fine dell’arte è
perciò essenzialmente critico e per questo ha bisogno di una precisa scelta di campo; l’arte non
può mai essere neutrale; senza una precisa scelta politica l’artista è condannato al silenzio, nel
senso che quello che scrive non può essere inteso.

Una posizione molto simile ha avuto in Italia Elio Vittorini, che nella polemica con Togliatti
sul senso dell’impegno dell’artista e dell’intellettuale scrive: "il diritto di parlare non deriva agli
uomini dal fatto di "possedere la verità". Deriva piuttosto dal fatto che "si cerca la verità". E
guai se non fosse così soltanto! Guai se si volesse legarlo a una sicurezza di "possesso della
verità" ! Lo si legherebbe alla presunzione del possedere la verità e non parlerebbero che i
predicatori, i retori, gli arcadi, tutti coloro che non cercano".

Il rapporto arte-politica non è patrimonio esclusivo di che cerca la liberazione del


proletariato; anche chi ha fatto la scelta dell’adesione al fascismo, ha creduto nella necessità
della guerra, nell’opportunità dell’antisemitismo e nel mito della razza ha cercato di usare l’arte

4
come strumento di lotta politica, si pensi ai futuristi italiani, a Papini, Prezzolini, allo stesso
D’Annunzio e, nel dopoguerra a Céline, Pound, Benn che aderiscono al nazismo.

Una concezione fondamentalmente intimistica dell’arte è quella di Martin Heidegger;


l’esperienza estetica è espressione dell’essere-per-la-morte e la poesia riesce a esprimere
adeguatamente il bisogno dell’uomo di rientrare nell’Essere, perché la poesia non ha il dovere
di informare o argomentare, è pura espressione del sentimento.

Importanti, soprattutto in quest’ultimo scorcio di secolo, sono quelle teorie estetiche che
pretendono di analizzare scientificamente l’opera d’arte; in questo caso l’estetica sfocia
facilmente nella psicologia dell’arte, nella sociologia dell’arte e nella linguistica. Va inoltre
rilevato che lo sviluppo di queste discipline ha influito sia sui contenuti che sulle forme
dell’espressione artistica e è alla base del grande movimento di ricerca estetica che ha
prodotto i tanti -ismi che hanno caratterizzato questo secolo dagli anni trenta ad oggi.

CONCETTO

Il significato comune e generico di "contenuto del pensiero" contiene i due ordini di


problemi che sono stati dibattuti in tutto il corso storico della filosofia occidentale: la natura del
concetto, la sua origine e la sua funzione nel processo di conoscenza.

Per quanto concerne il primo punto Aristotele vede in Socrate lo "scopritore" del concetto,
"due sono le cose che si possono a giusta ragione attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi
e la definizione universale: scoperte queste che costituiscono la base della scienza". Esso è
logos, è il risultato del dialogo, che cerca l’essenza per arrivare alla verità. Platone,
riprendendo l’intuizione socratica e cercando di eliminare definitivamente il pericolo della
relatività del vero, lo definisce come eidos, che è insieme essenza dell’oggetto e condizione
per cui esso può venire pensato. Aristotele inserisce questo stesso significato, concetto
come sostanza, in una teoria più articolata e complessa che nasce dalla riflessione sui nomi e
sul linguaggio nel quale esprimiamo i giudizi e i sillogismi.

Per tutto il Medioevo la natura del concetto è stata dibattuta nella questione degli universali.

Nella filosofia moderna razionalismo ed empirismo hanno pensato diversamente il senso del
"concetto", mantenendo comunque uno stretto collegamento fra entità ideale e realtà.

Nel razionalismo concetto e oggetto reale coincidono, "il circolo esistente nella natura e l’idea
del circolo esistente, che è anche in Dio, sono una sola e medesima cosa che si manifesta per
diversi attributi" (Spinoza, Ethica) nell’empirismo il concetto è solo una generalizzazione
dell’intelletto che dà un significato universale a una percezione particolare, "quando dimostro
una qualsiasi proposizione sui triangoli, devo supporre di avere l’idea universale di un triangolo
che non sia né equilatero, né scaleno ecc., ma solo che quel triangolo particolare che io
considero rappresenta un qualsiasi triangolo, ed è in questo senso che è universale" (Berkeley,
Trattato sui principi della conoscenza umana).

Anche in Kant il concetto è una rappresentazione universale, un concetto empirico, prodotto


dalle categorie, funzioni dell’intelletto che sono concetti puri, per mezzo dei quali l’intelletto
unifica il molteplice sensibile e stabilisce conoscenze oggettive; la relazione fra concetto e
realtà è così profondamente modificata: i concetti empirici sono rappresentazioni della realtà
perché i concetti puri rendono possibile la rappresentazione del mondo reale, sono la
condizione della sua rappresentabilità e sono pertanto l’elemento costitutivo della realtà che
percepiamo; il concetto non è più identico alla realtà, sia pure nei diversi modi esaminati, ma è
solo il suo ordine necessario perché del reale si possa avere conoscenza scientifica.

5
Nell’idealismo i due aspetti della concezione kantiana ritornano, senza il limite che Kant
aveva determinato: il mondo fenomenico.

In Hegel il concetto è oggetto logico e universale; nella prima accezione è la forme della
riflessione attraverso la quale raggiungiamo il livello della comprensione della verità: la
totalità; come universale non è una mera generalizzazione dell’esperienza, non potrebbe in
questo caso condurci alla verità, è l’universale concreto, l’intelletto che comprende in sé
tutti gli atti di pensiero, è pensiero che pensa, "il concetto nella sua oggettività è la stessa
cosa che è in sé e per sé" (Hegel, La scienza della logica).

In Husserl il concetto è l’essenza, condizione del sapere scientifico e perciò forma a priori,
essendo una forma a priori non può in nessun modo essere considerata una pura e semplice
generalizzazione empirica, è un momento inseparabile del fenomeno e può esser colta
attraverso un’intuizione originaria; il concetto non può pertanto essere ridotto alla
rappresentazione di un oggetto, questa varia da individuo a individuo, da momento a momento
mentre il concetto resta sempre identico a se stesso.

La riflessione della natura del concetto determina anche l’analisi della sua origine che la
psicologia contemporanea ha indagato sotto le diverse prospettive.

Le correnti di pensiero che hanno posto l’accento sulla funzione che ha il concetto nella
costruzione della conoscenza hanno influito, nell’epoca contemporanea, sugli studi psicologici
che hanno considerato la percezione un problema da studiare; la fenomenologia husserliana,
ad esempio, ha un grande peso nella origine e in alcuni sviluppi della psicologia della Gestalt,
basti pensare alla scuola di Graz; lo studio della percezione conduce i gestaltisti a ricercare le
"leggi di organizzazione" delle percezioni e di conseguenza dei modi in cui conosciamo
concludendo che il tutto trascende le parti e le organizza secondo norme proprie determinando
il modo in cui percepiamo una cosa: uno stesso oggetto viene percepito diversamente da due
persone o da una stessa persona in momenti diversi perché esso viene considerato in totalità
diverse, l’essenza che percepiamo dà senso all’esperienza in atto.

Le correnti di pensiero che in qualche modo si rifanno alla funzione dell’esperienza nel processo
conoscitivo vedono l’origine del concetto nella percezione intesa come astrazione riflessa della
realtà o come impressione catalettica. In questo ambito particolare importanza, per le sue
applicazioni analitiche e comportamentali, ha la teoria transazionale che considera la
percezione una transazione, una relazione tra il soggetto e l’oggetto il cui risultato non può
essere ridotto a uno o all’altro elemento della relazione o anche alla loro interazione, è una
percezione che si fonda sull’esperienza passata e anticipa aspettative future, "sappiamo che ci
sono due tipi di

conoscenza: la conoscenza delle cose e la conoscenza sulle cose; la prima è la consapevolezza


che ci viene dai sensi; (...). Se dunque la consapevolezza dei sensi si può definire conoscenza
di primo ordine, il secondo tipo di conoscenza (la conoscenza su un oggetto) è conoscenza di
secondo ordine, è conoscenza sulla conoscenza di primo ordine e quindi metaconoscenza. (...)
L’uomo non smette mai di cercare di conoscere gli oggetti della sua esperienza, di capire che
significato hanno per la sua esistenza e di reagire ad essi a seconda di quello che capisce.
Infine, dalla somma totale dei significati che ha dedotto dai contatti con numerosi oggetti
singoli del suo ambiente si sviluppa una visione unitaria del mondo in cui si trova gettato (per
usare un termine esistenzialista), e questa visione è di terzo ordine" (Watzlawick, Beavin,
Jackson, Pragmatica della comunicazione umana).

Gli studi sull’origine della conoscenza hanno anche risposto al terzo problema sulla funzione del
concetto nel processo di conoscenza. Dal punto di vista più propriamente filosofico l’argomento
va trattato insieme alla questione del metodo necessario per formare i concetti e per metterli
in relazione tra loro. Le questioni del metodo inteso come insieme di regole definite per

6
costruire una conoscenza rigorosa hanno avuto un importante capitolo nello sviluppo della
logica matematica e nella epistemologia; da una parte si è sviluppata la teoria della
dimostrazione come branca specialistica della matematica, e dall’altra si è cercato di arrivare a
una sempre maggiore conferma empirica delle ipotesi teoriche; in questa logica particolare
rilievo ha la posizione di Popper che, presupponendo l’impossibilità di arrivare a verificare
completamente tutti i casi possibili che la teoria prevede, enuncia il principio di cercare
piuttosto il caso che falsifichi l’ipotesi data; la possibilità della falsificazione e non la
verificazione è la caratteristica della teoria scientifica.

COSCIENZA

Nella storia della filosofia il termine "coscienza" ha assunto diversi significati spesso molto
lontani da quello comune di "consapevolezza", che è consapevolezza del proprio sentire, del
proprio agire e del proprio essere.

Platone definisce il pensare "il dialogo che l’anima per sé instaura con se stessa su ciò che sta
esaminando" (Teeteto), ma questo pensare resta legato al dialogo come momento di ricerca
comune; il riferimento fondamentale non è l’introspezione, ma la comunicazione che si avvale
necessariamente del linguaggio; la coscienza è l’insieme delle facoltà conoscitive, è
intelligenza, memoria, scienza e opinione vera, "senza possedere né intelligenza, né memoria,
né scienza, né opinione vera, non avverrebbe necessariamente che tu ignori innanzi tutto
proprio questo, se godi o non godi, che tu saresti vuoto di ogni pensiero?" (Filebo).

Aristotele riduce il valore della coscienza alla consapevolezza del contenuto delle sensazioni,
"i contenuti di un’indagine sono precisamente uguali, ai contenuti del sapere. La nostra
indagine può rivolgersi in quattro direzioni per stabilire: che un oggetto è qualcosa; perché un
oggetto è qualcosa; se un oggetto è; che cosa è un oggetto" (Analitici secondi); anche in
questo caso la coscienza nulla ha a che fare con l’introspezione, resta un elemento del
processo di conoscenza.

Con le filosofie ellenistiche il termine coscienza acquista anche il significato di ricerca


interiore, di introspezione; saggio è colui che è distaccato dal mondo e dalle proprie passioni,
il mezzo per conquistare tale distacco è il colloquio interiore dell’anima con se stessa che la
filosofia favorisce. Questa concezione, pur nei diversi significati che assume nell’epicureismo
e nello stoicismo, viene assunta anche dal pensiero cristiano delle origini, "ritorna in te
stesso, la Verità abita nell’interiorità dell’uomo" dice Agostino; coscienza è meditazione
personale sul senso dell’uomo e del suo rapporto con Dio, il significato meramente
gnoseologico esaminato sopra si perde e il valore concettuale fondamentale è quello etico-
religioso.

Nella filosofia moderna cruciale è l’elaborazione cartesiana: il colloquio dell’anima con se


stessa acquista nuovamente un valore gnoseologico: attraverso la coscienza di sé, l’uomo
fonda ogni sua conoscenza, "con "pensiero" intendo tutto ciò che avviene in noi con coscienza,
in quanto ne abbiamo coscienza. Così non solo intendere, volere, immaginare, ma anche
sentire è lo stesso che pensare" (Princ. fil.). La coscienza, espressione di tutte le "facoltà
spirituali", è il principio autoevidente che sta a fondamento di ogni conoscenza rigorosa,
"cogito ergo sum".

Molto simile è la posizione empirista; Locke concepisce la coscienza come certezza del proprio
esistere del proprio pensare; per questa ragione coscienza è insieme esperienza, la fonte della
conoscenza, e criterio di verità, cioè dell’accordo fra le idee e la realtà delle cose. Nella
concezione cartesiana il dubbio è il metodo di conoscenza e la coscienza ne è il fondamento;
nella concezione empirista la conoscenza resta sempre e necessariamente un fatto interno alla
coscienza e per questa ragione può sempre essere rimesso in discussione.

7
In Leibniz la coscienza è la caratteristica della monade che determina la capacità di percepire;
nell’uomo questa capacità è più elevata e le percezioni sono "chiare e distinte", la loro
consapevolezza è l’appercezione.

In Kant coscienza contiene sia il senso etico che quello gnoseologico.

Nella Critica della ragion pratica coscienza è l’elemento che garantisce il valore assoluto della
legge morale. Nella Critica della ragion pura viene distinta una coscienza empirica, diversa in
ogni uomo dalla "coscienza in generale", l’Io penso, in cui l’unità del conoscere non si riduce
alla totalità delle rappresentazioni della coscienza empirica, ma si aggiunge ad esse, ne
rappresenta la sintesi; la coscienza in generale è pertanto una funzione conoscitiva, identica in
tutti gli uomini, è attività che si realizza attraverso le categorie.

Dalla concezione kantiana si sviluppa quella idealistica: la coscienza non è l’Io, è invece il
tratto distintivo di ciò che deriva dall’Io, alla concezione kantiana della coscienza come
funzione viene sostituito il concetto di coscienza come sostanza.

In Fichte coscienza è l’io empirico, il prodotto dell’opposizione fra Io e Non io; l’Io, che può
essere colto solo attraverso la riflessione, resta oltre la

coscienza, è Autocoscienza, fondamento della possibilità per il pensiero umano di arrivare a


possedere la verità. In Schelling coscienza e natura procedono parallelamente, man mano che
la coscienza emerge e si avvicina alla piena coscienza di sé dell’Assoluto anche la natura
diventa un sistema più complesso.

Hegel ha una teorizzazione molto più complessa. Coscienza è l’attività conoscitiva dell’uomo
che non ha ancora raggiunto il sapere assoluto, che è ancora prigioniero dell’opposizione
soggetto-oggetto, che è prigioniero dell’esteriorità. L’emergere dello spirito coincide col
progresso della coscienza verso il sapere assoluto, cioè verso la comprensione delle "pure
essenze" di cui la realtà è manifestazione; il sapere che la coscienza produce è quindi lo stadio
prelogico della conoscenza. L’opera in cui Hegel affronta tutto il cammino della coscienza
dall’esteriorità del sapere empirico alla verità è la Fenomenologia dello spirito, la "storia
dell’esperienza di coscienza". I vari momenti del manifestarsi dello spirito nella realtà e
dell’elevarsi della coscienza verso i gradi più alti del sapere sono le "figure" della coscienza. Il
primo grado è la certezza sensibile che considera l’oggetto come una realtà a sé stante; il
secondo è la coscienza intuitiva che distingue fra l’oggetto e le sue proprietà e infine la
coscienza riflessiva, che scopre la necessità dello sdoppiamento fra il fenomeno e il suo
fondamento. Quest’opposizione è alla base della figura successiva, l’autocoscienza, per arrivare
infine alla ragione e allo spirito, la cui manifestazione più alta è appunto il sapere assoluto.

Nella Fenomenologia particolare rilievo ha la Coscienza infelice: la coscienza divenuta


consapevole di sé, divenuta autocoscienza, scopre nella libertà il suo carattere peculiare; nel
cammino verso la libertà la coscienza rappresenta la scissione fra l’uomo e l’assoluto, Dio,
operata dall’ebraismo prima e poi dal cristianesimo medievale. L’infelicità che tale scissione
produce deriva dal fatto che la coscienza si sente "inessenziale" di fronte a Dio e cerca di
annullarsi in lui attraverso la propria mortificazione, atteggiamento tipico del misticismo
medievale. L’emergere dell’autocoscienza è quindi il progressivo manifestarsi della libertà
nell’individuo e nella società, il primo esempio storico della libertà conquistata è il conflitto
servo-padrone, tipico delle società antiche.

Nel Novecento il concetto di coscienza è fondamentale. Una prima elaborazione è quella


husserliana e esistenzialista, centrale in autori come Jaspers e Sartre.

Per Husserl la coscienza ha sempre un contenuto che è esperienza vissuta la cui conoscenza è
riferita all’intenzionalità, alla capacità di cogliere l’essenza nel fenomeno che è oggetto di

8
esperienza vissuta e di riportare tutte le esperienze nell’unità della coscienza che è pertanto
una "corrente di esperienze vissute". La rappresentazione che ne deriva non è un fatto
"psicologico", ma trascendentale. Husserl distingue quindi una "percezione trascendente" e una
"percezione immanente". La prima l’esperienza degli oggetti che sono presenti nella coscienza
solo in quanto vissuti, in quanto possibilità, non come oggetti in sé reali; per questa ragione la
conoscenza dei fenomeni richiede l’epochè fenomenologica, la sospensione del giudizio che
nasce dalla messa in dubbio. La seconda è la percezione delle esperienze vissute, il pensare,
l’immaginare ecc., è il "cogito" di Cartesio, una percezione immediata il cui carattere è
assoluto, "la percezione dell’esperienza vissuta è la visione diretta di qualcosa che si dà o che
può darsi nella percezione come assoluta e non come l’identità delle apparenza che
l’adombrano"(ldee, 44), non ha bisogno di nulla per esistere in quanto è solo una relazione
della coscienza.

L’esistenzialismo rielabora soprattutto la concezione husserliana della coscienza come


percezione immanente. Per Jaspers la coscienza è l’essenza dell’esserci, dell’uomo, "io ci sono
in quanto coscienza e solo come oggetti di coscienza le cose sono per me"; la coscienza
mentre percepisce il mondo esterno, percepisce sé stessa, è autocoscienza; in quanto tale è il
campo in cui l’uomo può andare alla ricerca della verità. Anche per Sartre la coscienza è il
momento fondamentale che caratterizza l’uomo, essendo percezione della propria esistenza
essa si proietta nel futuro, è progetto, è libertà; in quanto tale essa si scontra con l’essere,
che invece è necessità; la coscienza pertanto si rivela come "non essere" e poiché il mondo è
in sé privo di senso, senso che riceve solo dalla coscienza, per la quale esso è nulla; la
coscienza è "l’essere per cui il nulla viene al mondo".

Il riconoscimento di una realtà esterna diversa da quella interna è il motivo fondamentale


anche della filosofia di Bergson, per il quale la coscienza è la capacità di introspezione che
l’evoluzione creatrice ha raggiunto nell’uomo, è, sotto un certo aspetto, l’effetto della
capacità evolutiva; ma, sotto un altro aspetto, "la vita, cioè la coscienza lanciata verso la
materia fissa la sua attenzione o sul suo proprio movimento o sulla materia che attraversa e si
orienta o nel senso dell’intuizione o nel senso dell’intelligenza" (L’evoluzione creatrice), in
questo modo la coscienza è il principio che crea la realtà e ne rivela il senso nell’interiorità
dell’uomo.

Le concezioni di Husserl e Bergson hanno la loro matrice, e a loro volta l’hanno influenzato
profondamente, nel dibattito che è emerso nella logica, nella filosofia del linguaggio e nella
psicologia. Wittgenstein nel Tractatus vede il mondo come la totalità dei fatti e il linguaggio
come lo strumento che li esprime; le proposizioni che esprimono i fatti hanno senso, quelle che
vanno oltre i fatti sono prive di significato; la conclusione che ne ricava è: "di ciò di cui non si
può parlare si deve tacere"; la riflessione successiva, che appare nelle Ricerche filosofiche,
propone invece la concezione di una molteplicità di linguaggi, ognuno caratterizzato da regole
proprie suscettibili di modificazioni, che hanno la loro fonte nell’interiorità dell’uomo; per
questa ragione alcuni interpreti hanno visto nel cosiddetto secondo Wittgenstein il recupero
della dimensione metafisica.

DIALETTICA

Il termine deriva dal verbo greco dialéghesthai che significa "discutere insieme, ragionare
insieme".

Nella filosofia platonica la dialettica ha un’importanza centrale, è il metodo che consente di


raggiungere la verità, prima come dialogo, lo strumento della ricerca filosofica, della ricerca
che tende alla verità; poi, col precisarsi della dottrina delle idee, nella convinzione che la verità

9
possa solo essere universale, la dialettica diventa il metodo che consente di arrivare alla
definizione dell’idea attraverso la divisione.

Nella filosofia aristotelica dialettica acquista il valore di un procedimento razionale non


dimostrativo, che rende legittima la diversità d’opinione; accanto alle proposizioni vere o
false, vanno considerate anche quelle probabili: "dialettico è il sillogismo che deduce qualcosa
partendo da premesse fondate sull’opinione. (...) Fondate sull’opinione sono le cose che
appaiono accettabili a tutti, o alla grande maggioranza, o ai sapienti e tra questi o a tutti, o
alla grande maggioranza o ai più noti e famosi". Secondo questa definizione si capisce perché
Aristotele abbia visto in Zenone di Elea il fondatore della dialettica: i suoi paradossi si basano
su una convinzione del movimento e della molteplicità accettata dalla maggioranza.

Con le filosofie ellenistiche, in modo particolare con lo stoicismo, dialettica è "la scienza del
discutere rettamente su argomenti posti in forma di domanda e di risposta; e perciò danno
di essa anche un’altra definizione: scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso e di ciò che non
è né vero né falso".. Sulla base della concezione stoica nel Medioevo la dialettica coincide con
la logica formale e si contrappone alla retorica.

Con Kant il termine "dialettica" indica la critica delle idee della ragione (anima, mondo,
Dio) attraverso le quali l’uomo cerca di comprendere delle totalità al di là di ciò che può
sperimentare: è la dialettica trascendentale. In questa sezione della Critica della ragion pura
Kant esamina i diversi sofismi che la ragione produce nel tentare argomentazioni razionali su
tali idee. La dialettica è pertanto una particolare "sofistica" alla quale deve porre rimedio il
criticismo dimostrandone l’illusorietà. Particolare rilievo hanno le antinomie della cosmologia
razionale, ragionamenti che concludono legittimamente in maniera opposta, attraverso i quali
la ragione cerca di superare i limiti dell’esperienza sensibile unificando aspetti opposti della
realtà.

La presenza di tali opposizioni e la necessità di superarle in una visione sintetica è l’elemento


su cui si fonda la concezione idealistica della dialettica: la contraddizione è la struttura
fondamentale della realtà e anche del pensiero che deve comprenderla, come afferma Hegel,
"tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale". In questa
fondamentale unitarietà delle filosofie idealistiche vanno però precisate le diversità dei vari
filosofi: per Fichte dialettica designa sia l’opposizione Io Non-io, sia il metodo dell’indagine
filosofica che deve comprendere il valore fondamentale della libertà; in Schelling designa
l’identità degli opposti nell’infinito, l’opposizione determina la tensione che genera il continuo
farsi della natura l’arte diventa lo strumento intellettuale più adeguato alla comprensione
dell’infinito; in Hegel designa il progressivo realizzarsi dell’assoluto attraverso la
contraddizione; è metodo di indagine e essenza dell’assoluto e contiene pertanto sia le varie
determinazioni della natura, dell’uomo e della storia, tre sono i momenti fondamentali in cui si
articola: il porsi del concetto astratto, il negarsi di tale concetto nel suo opposto, la sintesi dei
due momenti contraddittori in cui permane "ciò che vi è di affermativo nella loro soluzione e
nel loro trapasso".

In Marx la dialettica hegeliana subisce una trasformazione materialistica, "la mistificazione che
la Dialettica subisce nelle mani di Hegel non impedisce in alcun modo che egli per primo abbia
descritto le sue forme generali di movimento in modo comprensivo e consapevole; in Hegel la
dialettica poggia sulla testa. Bisogna rimetterla sui piedi per scoprire il nocciolo razionale
nell’involucro mistico"; la dialettica diventa quindi metodo di indagine della storia umana
come "storia di lotte di classe" (materialismo storico).

La concezione hegeliana di dialettica ha un ruolo importante nella filosofia del Novecento:


oltre alle concezioni del neoidealismo italiano di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce va
ricordata la dialettica negativa di Theodor Wiesegrund Adorno e della Scuola di Francoforte:
con questo concetto viene designata la concezione negativa delle società borghese, ma anche
di quelle socialiste asservite dai meccanismi alienanti della produzione tipici delle "società di
massa"; a questa visione Adorno contrappone l’ideale di un’arte capace di salvare l’uomo

10
dall’alienazione e dalla disumanizzazione. Per molti aspetti simile è la concezione di Jean Paul
Sartre per il quale la dialettica è "attività totalizzatrice; essa non ha altre leggi che le regole
prodotte dalla totalizzazione in corso e queste concernono evidentemente le relazioni
dell’unificazione con l’unificato, cioè i modi della presenza efficace del divenire totalizzante
nelle parti totalizzate".

DUBBIO

Il dubbio, che nel significato comune è l’opposto della certezza, presenta nella storia della
filosofia tre significati diversi e interdipendenti: nella filosofia antica e medievale è
mancanza di certezza e problematicità dell’assunto, nella filosofia moderna e contemporanea
è soprattutto metodo di ricerca.

Il primo significato è derivato dalla constatazione che la conoscenza ha fonti diverse, la


sensazione, incerta e discutibile, e la ragione la cui caratteristica fondamentale è la
dimostrazione che determina conoscenze assolutamente certe. I primi grandi esempi di questa
concezione sono la filosofia eleatica e soprattutto la teoria platonica, descritta nella
Repubblica attraverso il "mito della caverna", della conoscenza che si perfeziona per gradi a
partire da quello più basso, la conoscenza sensibile che genera l’opinone, per arrivare
attraverso la conoscenza razionale, dimostrativa, a quello intuitivo che è visione delle idee.

La riflessione sulla possibilità dell’uomo di raggiungere la verità si lega con la riflessione sulla
natura del linguaggio attraverso il quale necessariamente l’uomo si esprime. Da tale riflessione
emergono due teorizzazioni che Platone descrive nel Cratilo: se il significato dei nomi è tale per
natura o per convenzione. La tesi del linguaggio come convenzione, argomentata con la
constatazione del carattere polisenso di molti nomi, col fatto che nomi diversi

designano in realtà una stessa cosa e si modificano nel tempo, conclude nelle diverse forme di
scetticismo con l’impossibilità di raggiungere una certezza assoluta. L’origine naturalistica del
linguaggio viene sostenuta con l’argomento che i nomi riflettono l’essenza delle cose; il
linguaggio è sostanzialmente identico al pensiero e consente di raggiungere la conoscenza
delle idee, dell’Essere, di ciò che è oltre la realtà; in questo modo permette di raggiungere la
verità certa. L’ulteriore riflessione platonica come emerge nel Parmenide e nel Sofista tende a
distinguere il nome dalla proposizione e la verità dal significato.

La riflessione aristotelica sul linguaggio, collegata alla problematica logica, approfondisce il


discorso platonico e, sostenendo l’inutilità delle idee come condizioni della conoscenza vera,
afferma che solo nella proposizione il nome acquista un valore conoscitivo che rende possibile
definire vera o falsa una conoscenza e che questo carattere va attribuito solo alle proposizioni
"apofantiche", alle proposizioni dichiarative. La distinzione aristotelica è funzionale alla
considerazione dei diversi modi di ragionare e ricercare la verità; per cui si deve distinguere il
sillogismo scientifico, deduttivo la cui conclusione è certa e il sillogismo dialettico, la cui
conclusione è solo probabile legato all’opinione che non dà certezza.

Se una conoscenza non dà certezze, il suo carattere è problematico: ci possiamo trovare di


fronte a ragionamenti che hanno conclusioni contrarie e sono ugualmente validi. La
problematicità della conoscenza ha caratterizzato l’empirismo moderno che ha visto in essa la
condizione della ricerca arrivando a considerare le proposizioni universali come la somma di
tutte le esperienze individuali.

Secondo significato. La concezione del dubbio come metodo caratterizza invece la filosofia
contemporanea, nella quale la filosofia si presenta essenzialmente come ricerca e
progressiva messa in discussione delle certezze raggiunte. Le premesse di questa concezione
possiamo trovarle in Agostino per il quale "chiunque sappia di dubitare sa la verità e di questa
cosa sa che è certa: dunque sa la verità" (De vera religione), ma soprattutto in Cartesio per il

11
quale il dubbio è fonte e fondamento di ogni conoscenza rigorosa, "già da qualche tempo
avevo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto una quantità di false opinioni,
onde ciò che poi ho fondato su principi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio e
incerto, e dovevo necessariamente disfarmi di tutte le opinioni alle quali avevo creduto se
volevo stabilire qualcosa di fermo e durevole nelle scienze (...). La meditazione che feci ieri
m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi che non posso più dimenticarli (...). Nondimeno mi
sforzerò e seguirò a capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in
cui potrò immaginare il minimo dubbio proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente
falso; e continuerò sempre su questa strada finché non incontrerò qualcosa di certo"
(Meditazioni metafisiche, I, II).

Su questa via Cartesio trova la prima certezza assoluta: "Io penso, dunque sono".

Sulla base della riflessione cartesiana Husserl riprende la concezione del dubbio come metodo
che deve portare all’epochè fenomenologica, alla sospensione del giudizio sul mondo per
lasciare spazio alla pura descrizione fenomenologica che ha la sua origine nella intenzionalità
della coscienza; attraverso l’epochè il pensiero può così cogliere le essenze ideali che sono la
base del mondo della vita e di ogni sapere non dogmatico.

Anche il pragmatismo vede nel dubbio l’origine di ogni conoscenza. Peirce lo considera come
la messa in crisi, da parte dell’esperienza, di quanto si crede certo; il dubbio e la credenza
sono gli elementi che costituiscono la conoscenza che è teoria e regola dell’agire e proprio per
questo può essere in qualsiasi momento messa in discussione.

MORTE

Della morte non sappiamo nulla e quindi non potremmo parlarne, l’esperienza della
morte è sempre esperienza della morte di un altro. La medicina ne ha fatto oggetto di studio
avendo trovato l’oggetto che può essere analizzato, il cadavere; nella vita dell’uomo, nel
pensiero che può essere comunicato, la morte è paura, angoscia, riconciliazione; su questi
concetti si è incentrata la riflessione filosofica.

Il concetto di morte ha sempre avuto e continua ad avere due valenze: una culturale e una
biologica che si intersecano e si influenzano a vicenda nelle varie epoche determinando anche
profondi cambiamenti morali.

Dal punto di vista culturale la morte è una sorta di complemento della vita: ne rappresenta
l’origine e la fine e segna il passaggio alla pienezza della vita. Nella cultura greca tutto ciò è
espresso nel mito di Persefone: Core rapita da Ade viene per ordine di Zeus restituita alla
madre Demetra, la dea della feritilità, ma avendo mangiato il frutto dei morti dovrà passare tre
mesi all’anno come regina del Tartaro col titolo di Persefone, colei che porta la distruzione, e i
rimanenti nove mesi con la madre insieme agli altri immortali. Il senso del mito è palese: la
morte è il passaggio essenziale del ciclo della vita: il seme che resta sepolto nei mesi invernali
nasce con la primavera e porta con sé una vita rinnovata; il rinnovamento perenne della vita è
il senso dell’immortalità che viene raggiunta proprio attraverso la comprensione del mistero
della morte nell’unione mistica con l’infinito, rappresentato nei misteri eleusini dall’assunzione
del kykeón, una bevanda densa e profumata che permette all’uomo di partecipare alla vita
della divinità.

Alla morte come elemento connaturato alla vita si rifanno anche le teorie della
trasmigrazione delle anime.

La cultura ebraica vede la morte come negazione della vita, condanna che deriva dalla colpa
di Adamo, "col sudore della fronte ti procaccerai il pane finché tornerai alla terra dalla quale sei
stato cavato, perché polvere sei ed in polvere ritornerai" (Genesi, 3). Il cristianesimo poi

12
recupera il significato positivo della morte attraverso il mito della redenzione: con la sua morte
Cristo ha reso nuovamente possibile il ricongiungimento dell’uomo con Dio e la morte
dell’uomo è divenuta la condizione necessaria per il raggiungimento della vera vita.

Sia la tradizione classica che quella ebraico-cristiana vedono quindi la morte come evento
legato alla vita "l’uomo libero a nulla pensa meno che alla

morte; la sua riflessione è sapienza di vita e non di morte" (Spinoza, Etica, IV, 37)

Il fatto che la morte sia un evento necessariamente intrecciato alla vita non significa che non
possa essere vissuta con terrore; la paura della morte è un’esperienza comune sul cui
significato i filosofi si sono interrogati in ogni tempo. Particolare rilievo ha l’argomentazione di
Epicuro "la morte, il più atroce di tutti i mali non esiste per noi; quando ci siamo noi la morte
non c’è quando c’è la morte noi non ci siamo; non è nulla né per i vivi, né per i morti" (Epicuro,
Lettera a Meneceo); liberarsi dalla paura della morte è una delle vie attraverso le quali l’uomo
può raggiungere la felicità.

All’argomentazione di Epicuro, sulla cui falsariga si muovono tutte le filosofie materialiste, che
riduce la morte a un fatto meramente biologico alcune correnti della filosofia moderna, e
soprattutto contemporanea hanno contrapposto una concezione della morte come ricerca
dell’Essere, aspirazione all’infinito. In queste filosofie la morte è espressione della finitezza
dell’uomo, che cosciente di tale limite aspira all’infinito.

Per Spinoza la mente e il corpo sono due modi finiti che nell’uomo sono un tutt’uno, la mente
è il modo attraverso il quale egli può comprendere l’infinito, il trascendente, l’incondizionato
attraverso un atto intuitivo. La capacità intuitiva è un processo che si acquisisce, un processo
nel quale "uno passa da una minore a una maggiore perfezione e viceversa"; in questo
processo si incontra la morte, "la rottura del rapporto di quiete e di moto che le parti del corpo
hanno tra loro", il corpo allora si distrugge ma "bisogna innanzitutto notare che quando dico
che uno passa da una minore a una maggiore perfezione, e viceversa, non intendo dire che
egli si trasformi da un’essenza o forma ad un’altra. Infatti il cavallo è per esempio distrutto sia
che si trasformi in un uomo, sia che si trasformi in un insetto: intendo dire invece che la
potenza di agire di quell’individuo, intesa secondo la sua natura, aumenta o diminuisce"
(Spinoza, Etica, IV, Pref.); la morte è un aumento di potenza della natura umana, un evento
lontano quanto lontana è la perfezione che l’uomo vuole raggiungere: l’evento biologico non
può essere separato da quello intellettuale e morale.

Il pensiero della morte nella filosofia contemporanea caratterizza tutte le filosofie che
pongono al centro della riflessione l’individuo e l’esistenza. Schopenhauer riprende il concetto
di colpa, "la morte stessa prova che la nostra esistenza implica una colpa" (Parerga, II, 164).
L’esistenza è dolore la cui origine è nella volontà di vivere che I uomo può superare
raggiungendo quel grado di perfezione che è l’ascesi. La rinuncia al dolore non può mai esser
però la rinuncia all’esistenza che si attua col suicidio; il suicidio infatti non estingue la causa del
dolore, la volontà, pone fine solo al suo fenomeno, l’esistenza. Se la vita è necessariamente
dolore, vivere significa morire continuamente, ma nonostante sia dolore l’uomo resta attaccato
alla vita e ha il terrore della morte, "ma bisogna infine che la morte trionfi, poiché siamo
divenuti sua preda per il solo fatto di essere nati; la morte si permette un momento di giocare
con la sua preda, ma non aspetta che l’ora di divorarla. Rimaniamo nondimeno affezionati alla
vita e spendiamo ogni cura per prolungarla quanto più possiamo; proprio come che si sforza di
gonfiare quanto più e quanto più a lungo è possibile una bolla di sapone, pur sapendola
destinata a scoppiare" (1I mondo, IV).

Kierkegaard pone l’accento sul concetto di "passaggio", "dal punto di vista cristiano la morte
è un passaggio alla vita"; la "malattia mortale" non è quella che porta alla morte, è la
disperazione, la struttura fondamentale dell’esistenza e "il tormento della disperazione è
proprio quello di non poter morire". La contraddizione vita-morte rispecchia la contraddizione

13
dell’esistenza e l’impossibilità di risolverla entro i termini della razionalità, solo la fede può
porre il singolo nella condizione di superare l’esistenza e unirsi all’assoluto, essere in Dio.

Sulla stessa lunghezza d’onda la riflessione di Heidegger, per il quale la morte è una
dimensione insita nell’esistenza al punto che ogni autentica esistenza non può che "essere-per-
la-morte": l’esistenza è possibilità e la possibilità implica la scelta, la decisione con la quale
l’esserci fa proprio il progetto dell’esistenza che si ritrova, del suo "essere-gettato-nel-mondo"
e esce dalla impersonalità del "si dice" che invece fonda la "chiacchiera", l’esistenza
inautentica. Fra tutte le possibilità che caratterizzano l’esistenza la morte è la sola necessità
ineludibile e pertanto il momento più propriamente costitutivo dell’esistenza, della sua
finitezza; la morte come "decisione anticipatrice" è la scelta che riporta l’uomo, l’esserci che è
"essere-nel-mondo" nell’essere da cui l’esistenza (ex-sistere, farsi altro da ciò che si è) l’ha
separato.

La morte è elemento centrale anche nel pensiero di Sartre che la considera priva di significato
intrinseco, "un puro fatto, come la nascita; essa viene a noi dall’esterno e ci trasforma in
esteriorità. In fondo essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l’identità della
nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità" (L’essere e il nulla). La morte è per Sartre
fatticità che, come tutti gli altri elementi esteriori, la coscienza, nella contrapposizione fra
Essere e Nulla, tende a superare continuamente per realizzare il proprio progetto, le proprie
possibilità.

Il concetto di morte come struttura della vita ha in questo secolo una argomentazione originale
nella psicanalisi freudiana; "se possiamo considerare come un fatto sperimentale
assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato
inorganico) per morivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo
è la morte e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di
quelli viventi" (Il principio di piacere). La morte, in quanto struttura stessa della vita, è una
delle pulsioni, delle forze conservatrici dell’esistenza che si accompagna alle pulsioni sessuali,
che determinano la conservazione delle specie; la vita altro non è che un cammino verso la
morte che viene continuamente deviato da pulsioni di senso opposto; "si determina così il
paradosso che l’organismo vivente si oppone con estrema energia a eventi (pericoli) che
potrebbero aiutarlo a raggiungere più in fretta lo scopo della sua vita (per così dire grazie a un
corto circuito)" (Il principio di piacere). La riflessione sulla morte e sul suo significato è
destinata a modificare

profondamente gli atteggiamenti e la cultura umana grazie ai progressi della medicina. Fino
a qualche tempo fa la morte era considerata un evento istantaneo, il momento in cui l’anima si
separa dal corpo: in quel momento tutto il corpo dell’uomo muore, la vita terrena non esiste
più. Le possibilità dei trapianti d’organo hanno ora modificato profondamente il concetto di
morte: la morte è il momento in cui cessa l’attività elettrica del cervello, ma i singoli organi
sono ancora vivi e possono continuare a funzionare nel corpo di un’altra persona. Queste
conquiste della medicina hanno un impatto giuridico e etico evidente: giuridico perché gli stati
hanno modificato la legislazione sul riconoscimento della morte, etico perché la cosa viene
ancora in molti casi vissuta in maniera contraddittoria.

STATO

"Con la parola "Stato" si designa modernamente la maggior organizzazione politica che


l’umanità conosca, riferendosi tanto al complesso territoriale e demografico su cui si esercita la
signoria (potere politico), quanto al rapporto di coesistenza e di coesione di leggi e di organi
che su quello imperano" (Enc. Italiana, Stato). Secondo questa definizione gli elementi
costitutivi dello Stato sono il potere politico sovrano, il territorio e la popolazione. Essa
comprende tutte le forme di aggregazione politica che si sono avute in Europa dalla polis greca
ad oggi, non considera la differenza fra i diversi rapporti che storicamente si sono determinati

14
fra il potere, il popolo e il territorio e che sono stati, in epoche e regioni diverse, molto difformi
fra loro. La riflessione sul modo di essere ideale o reale di questi rapporti ha caratterizzato le
diverse filosofie politiche. Machiavelli è stato il primo filosofo della politica a usare il termine
"Stato" nel concetto odierno precedentemente "status" indicava il grado di un individuo o di un
gruppo nella società; "Repubblica" era il termine che indicava lo Stato.

La prima concezione organica dello Stato come struttura necessaria della convivenza umana la
troviamo nella Repubblica di Platone che con la "teoria delle idee" cerca di dare un
fondamento saldo alla polis ormai in crisi. La ricerca del concetto di giustizia non può ignorare
l’origine e la formazione dello Stato, l’organismo che garantisce la giustizia all’uomo giusto e la
pena all’ingiusto. Lo Stato nasce dalla necessità di soddisfare i bisogni dell’uomo che, da solo,
non sarebbe autosufficiente. Lo Stato infatti altro non è che un organismo identico all’uomo,
ma più grande, e come nell’uomo tutte le diverse parti dell’organismo contribuiscono al
soddisfacimento del bisogno così nello Stato tutti i componenti dovranno contribuire al bene
comune. Da questo presupposto nasce la divisione dei compiti fra i cittadini, fondata sulle
attitudini di ognuno, per la realizzazione del fine comune, la giustizia, il bene. Sono queste le
condizioni del cosiddetto "comunismo platonico" e della repubblica ideale al cui governo
devono stare i filosofi, coloro che possiedono la saggezza.

Aristotele sviluppa la sua riflessione quando la crisi della polis è irreversibile e la Grecia viene
conquistata da Filippo di Macedonia. Aristotele non cerca un modello ideale di Stato, vuole
esaminare le costituzioni esistenti al fine di valutarne la maggiore o minore rispondenza al
bene comune. Non ha senso cercare di costruire un modello ideale perché, nel campo della
politica, l’uomo opera a partire da situazioni specifiche e da opinioni discutibili; non può quindi
dedurne principi razionali universali e assolutamente certi, la politica è scienza "di ciò che
accade per lo più". Anche Aristotele, in questo segue Platone, vede nello Stato l’organismo che
consente il pieno sviluppo delle qualità di ogni uomo che per natura è socievole, "lo Stato
esiste per natura ed è anteriore all’individuo, perché, se l’individuo di per sé non è
autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le altre parti. Perciò chi
non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla in quanto basta a se
stesso, non è membro di uno Stato, ma è una belva o un dio" (Politica, I, 2, 1253 a 18).

Nel Medioevo lo Stato è espressione dell’autorità divina, una società è ben ordinata solo se
rispecchia al proprio interno la volontà divina e, dal momento che Dio è l’unico reggitore
dell’universo, anche la società umana deve essere retta da un’unica autorità: il concetto è
espresso chiaramente da Hibernicus Exul, uno degli intellettuali della corte di Carlo Magno:
"Uno è colui che signoreggia nel tetto del cielo, il Tonante. Questo vuol dire che sulla terra Uno
solo deve regnare e tutti gli uomini devono guardare a Lui come al giusto modello". Nel
bisogno di un’unica autorità è possibile vedere la causa ideologica della lunga serie di conflitti
fra papato ed impero dal momento che ognuno rivendicava il ruolo di rappresentante di Dio
sulla terra. Conseguenza di questo conflitto sono stati il disordine l’anarchia feudali contro i
quali già Dante afferma, con la teoria dei "due soli", la necessità di separare autorità politica e
autorità religiosa.

Con l’inizio dell’età moderna si assiste a un processo di trasformazione dello Stato: dallo
Stato feudale, caratterizzato dall’assenza di un potere centrale e dalla forte autonomia di città
e gruppi sociali, si passa gradualmente allo Stato moderno, caratterizzato da un ampio
territorio, dal diritto esclusivo del sovrano di controllare l’esercito per garantire l’ordine interno,
di trattare con gli altri stati e di amministrare direttamente i sudditi attraverso un apparato
burocratico. La consapevolezza della profondità della trasformazione in atto, della storicità
delle tipologie di Stato e della necessità di esaminarne le diverse strutture giuridico-

15
amministrative è espressa da Machiavelli: "Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et
hanno imperio sopra li uomini sono stati e sono o repubbliche o principati. E’ principati sono, o
ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono
nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri
aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista come è el regno di Napoli al re di
Spagna. Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi a
essere liberi; e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù" (Il
Principe, I).

La teorizzazione più completa dello Stato moderno è di Thomas Hobbes. Hobbes ritiene che
sia possibile applicare anche alla politica il metodo deduttivo per ricavare leggi universali sulle
quali fondare la convivenza degli uomini. I principi fondamentali su cui si basa la sua teoria
dello Stato sono universalmente accettati dagli uomini sulla base della loro esperienza e perciò
assolutamente sicuri:

1. ogni uomo ha per natura il desiderio di usare per sé le cose comuni a tutti (cupidatas
naturalis)

2. ogni uomo per natura teme la morte violenta come il peggiore dei mali (ratio naturalis).

Lo "Stato di natura", lo Stato nel quale nessuna legge vincola l’uomo, è necessariamente
caratterizzato dalla "guerra di tutti contro tutti" perché l’uomo, desiderando per sé le cose
comuni, si pone in situazione conflittuale con gli altri; nello Stato di natura dunque "l’uomo è
lupo per l’altro uomo" e teme per la propria incolumità. Da ciò deriva la necessità di realizzare
un accordo fra gli uomini che superi la forza della legge naturale e garantisca l’incolumità di
ognuno. Lo Stato nasce da questo contratto fra gli uomini secondo il quale ognuno rinuncia ai
propri diritti di natura e cerca la pace per salvare la vita. Per ottenere questo risultato è
necessario istituire un potere a cui affidare la difesa della propria vita infatti "l’autorità e non la
verità fa la legge". Il contratto da cui nasce lo Stato viene quindi stipulato fra i singoli individui
che rinunciano individualmente al loro diritto di natura- lo Stato è "il grande Leviatano", il "Dio
mortale" attraverso il quale gli uomini si sottraggono alla legge di natura e si sottomettono alla
legge del sovrano. Per queste ragioni Hobbes può esser considerato il teorico dello Stato
assoluto. Nello Stato di Hobbes la legge naturale non ha alcuna rilevanza, il sovrano è l’unica
fonte della legge. Hobbes in questo modo si contrappone alle teorie giusnaturalistiche del
tempo che vincolavano l’attività legislativa del sovrano al rispetto dei "diritti naturali", i diritti
che l’uomo possiede per natura e il cui disconoscimento trasforma la legge in arbitrio. Secondo
le dottrine giusnaturalistiche il sovrano è vincolato al rispetto dei diritti naturali (diritto alla
vita, alla libertà, alla proprietà) perché il contratto che sta alla base dello Stato non vincola
solo il suddito, come sostiene Hobbes, ma anche il sovrano; lo Stato nasce per tutelare i diritti
del singolo, non per violarli. n giusnaturalismo in questo modo pone le basi teoriche dello Stato
liberale moderno. I più significativi teorici di questa idea di Stato sono Locke e Spinoza che
sostengono apertamente il valore della tolleranza come elemento essenziale della convivenza
sociale.

Un ulteriore e più precisa teorizzazione dello Stato liberale avviene durante l’Illuminismo, che
non solo riafferma i vincoli del sovrano, ma sostiene la legittimità della "difesa" popolare contro
i soprusi. Denis Diderot alla voce Autorità politica dell’Enciclopedia scrive: "Nessun uomo ha
ricevuto dalla natura il potere di comandare agli altri. La libertà è un dono del cielo e ogni
individuo della stessa specie ha diritto di goderne non appena ha l’uso della ragione. (...) Il
principe riceve dai suoi stessi sudditi l’autorità che ha su di loro, e tale autorità è limitata dalle
leggi della natura e dello Stato. (...) Le condizioni del patto sono diverse nei differenti Stati. Ma
dappertutto la nazione ha il diritto di difendere di fronte a tutti il contratto che ha stipulato;
nessun potere può cambiarlo; e quando esso non ha più valore, la nazione torna a godere del

16
diritto di stipularne un altro con chi e nei termini che più le piacciono" . Per la cultura
illuminista il diritto alla libertà è il più importante fra i diritti naturali; Rousseau afferma che
rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo e Kant pone come
imperativo categorico la considerazione dell’uomo sempre come fine e mai come mezzo. Per
questa ragione la cultura illuminista è uno dei cardini del moderno pensiero liberale.

La teorizzazione della sovranità popolare, del diritto del popolo alla rivolta caratterizza il
pensiero politico dell’Ottocento e l’idea dello Stato come fatto naturale o storico anima le
diverse filosofie.

L’idealismo sostiene la naturalità dello Stato, anzi lo Stato è necessario all’esplicazione della
libertà dell’individuo. Per Fichte lo Stato nasce da un contratto sociale e il suo fine è
l’educazione alla libertà: un potere è legittimo se mette i cittadini nella condizione di essere
autonomi, sia sul piano culturale che su quello materiale. Se il governo mantiene il patto su cui
si fonda lo Stato il cittadino deve sottomettersi ad esso: "nella nostra età, più che in ogni altra
epoca precedente ogni cittadino con tutte le sue forze è sottomesso alla finalità dello Stato, è
completamente penetrato da esso e è divenuto suo strumento" (Tratti fondamentali dell’epoca
presente, X); se invece il patto non viene rispettato, allora diventa cogente la legge morale.
L’idea dello Stato etico, dello Stato che assicura la libertà ha la sua teorizzazione più
importante in Hegel: dovere supremo del singolo è essere parte dello Stato, perché solo nello
Stato l’uomo può avere una esistenza razionale, "l’eticità è l’idea della libertà (.. .) è il concetto
di libertà divenuto mondo esistente. (. ..) Lo Stato è la realtà dell’idea etica" (Hegel,
Lineamenti di Filosofia del diritto, 142, 257).

Con la sconfitta della Restaurazione determinata dalle rivoluzioni dell’Ottocento la teorizzazione


dello Stato liberale matura definitivamente: compito dello Stato è garantire giuridicamente le
libertà individuali e collettive, esercitare il potere entro norme precise, fare partecipare le
rappresentanze della società alla elaborazione delle leggi e delle decisioni di governo.
L’affermazione del primato della legge e del diritto di voto come strumento di partecipazione e
legittimazione popolare delle rappresentanze politiche sono il fondamento di queste
teorizzazioni: Stato liberale e Stato di diritto diventano sinonimi. Le prime teorizzazioni dello
Stato liberale pongono l’accento sulla libertà personale che, nella nascente società industriale è
prima di tutto libertà economica; lo Stato deve porsi al di sopra dei singoli e limitare il proprio
intervento in economia perché sarebbe una limitazione della libertà individuali. John Stuart Mill
e Herbert Spencer possono esser presi a modello di questo liberalismo. Mill teorizza la
necessità di leggi che garantiscano la rappresentatività dei gruppi politici e riforme tese a
realizzare una migliore distribuzione delle ricchezze avendo di mira una maggiore

giustizia, lo Stato deve essere "il governo di tutti per tutti". Spencer sostiene che l’intervento
dello Stato frena il progresso della società perché ostacola l’individuo nella sua ricerca del
massimo utile possibile. E’ facile notare come la concezione dello Stato liberale sia
caratterizzata tanto da una visione democratica che da una moderata e conservatrice.

Contro le idee liberali si afferma, grazie al suo radicarsi fra i nuovi ceti operai urbani, la
concezione dello Stato socialista. L’analisi dello Stato accompagna tutta l’evoluzione del
pensiero socialista e assume varie connotazioni in epoche e in regioni diverse, a volte
estremamente distanti fra loro; Lenin ad esempio chiama Kautsky "rinnegato" e questo
dimostra la distanza fra le loro posizioni teoriche. Senza fare la storia dell’idea socialista di
Stato vale la pena soffermarsi sull’analisi marxiana. Per Marx lo Stato è un prodotto storico
destinato a modificarsi con l’evoluzione della società, "lo Stato non esiste dall’eternità. Vi sono
società che ne hanno fatto a meno e non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In
un determinato grado dello sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della
società in classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità"
(Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). L’esame storico delle
diverse forme statuali mette in evidenza come esse siano sempre state lo strumento del

17
dominio della classe dominante sulle altre e se le differenze di classe sono determinate dal
sistema economico, allora è necessario agire sull’economia per modificare la società anche se,
va detto, l’economia è determinante per la definizione dei rapporti di classe solo in ultima
istanza, "secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è
determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai
affermato né da Marx, né da me" (Engels, lettera a J. Bloch). L’avvento di una società senza
classi diventa perciò immediatamente superamento dello Stato come forma di oppressione di
classe. Quando il proletariato assume la direzione della società ma non ha ancora realizzato la
società comunista, per realizzare il proprio fine, la società senza classi, deve usare contro la
borghesia gli strumenti del dominio di classe, dello Stato, deve esercitare la dittatura del
proletariato finché "le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà
concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico.
(...) Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe,
subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero
sviluppo di tutti" (Marx, Manifesto del Partito comunista del 1848). L’estinzione dello Stato è
l’obiettivo del movimento socialista.

Nel mondo attuale, che qualcuno ha cominciato a definire post-industriale, l’organizzazione


sociale è diventata molto più complessa. La grave crisi economica del 1929 aveva indotto i
governi a intervenire nell’economia per mantenere il controllo delle tensioni sociali che la
disoccupazione poteva generare. Sulla base delle teorie di Keynes che mirano a mettere
l’accento sugli elementi dinamici dell’economia per favorire lo sviluppo, si viene formando lo
Stato sociale. Il controllo delle dinamiche sociali è diventato essenziale nella società odierna e i
pensatori politici hanno elaborato la nozione di sistema politico (T. Parsons, Sistema sociale,
1951) comprendendo in questo concetto l’insieme delle azioni e delle istituzioni sociali che si
propongono di dirigere una società verso un fine condiviso dai suoi membri. Nella odierna
società che è caratterizzata dalla partecipazione di tutti i cittadini attraverso le loro
rappresentanze politiche e le loro associazioni al governo della cosa pubblica, il problema del
consenso è diventato fondamentale.

18

You might also like