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Valerio Evangelisti Giuseppe Genna


Wu Ming 1 e altri

Il caso Battisti
L’emergenza infinita e i fantasmi del passato

A cura della redazione di Carmilla


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NdA Press ha deciso di pubblicare questo libro, che non tratta sol-
tanto della vicenda specifica di Battisti, a dispetto del clima ostile
creatosi in Italia da un mese a questa parte, per due ragioni principali.
Uno, riteniamo importante dare spazio a un diritto di critica e a
un’altra versione dei fatti. Le ragioni di una, a suo modo inusuale
ed eccezionale, mobilitazione che ha coinvolto importanti intellet-
tuali, scrittori, docenti universitari, editori e politici di valenza eu-
ropea sono state “stravolte” da quasi tutti i media, quando non ad-
dirittura ignorate come nel caso della mobilitazione italiana. Rite-
niamo questo fondamentale principio imprescindibile in una so-
cietà a democrazia avanzata come la nostra, tanto più in casi come
questi dove il principale imputato non è più nelle condizioni di di-
fendersi e quando parla con i media, spesso lo fa male.
Due, crediamo che non sia compito di editori, scrittori e giorna-
listi stabilire o meno l’innocenza di Cesare Battisti, non intendiamo
assolutamente inoltrarci in questo campo, ma altrettanto ritenia-
mo che l’attenzione suscitata dal suo arresto a Parigi, possa essere
l’occasione per fare chiarezza su un periodo irripetibile della nostra
storia che tutta la società italiana deve conoscere per evitare di la-
sciarlo sospeso in un oblio (fatto di uomini e donne, nonché di me-
moria) a uso e consumo di una delle parti che ne è stata protagoni-
sta. Speriamo che il nostro lavoro non esasperi l’emotività suscitata
dalle vicende ascritte a Battisti, ma che si iscriva in un dibattito pa-
cato e necessario per chiudere definitivamente quel periodo sia dal
punto di vista storico che politico.

NdA Press, 21.3.2004

© 2004, NdA Press

I diritti di ciascun articolo appartengono al rispettivo autore.

Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffu-


sione per via telematica, purché a scopi non commerciali e a condizio-
ne che questa dicitura venga riprodotta.

ISBN 88-89035-03-X
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CHI È CESARE BATTISTI

Cesare Battisti nasce a Sermoneta (Latina) nel 1954.


Inizia il liceo classico nell’anno 1968, ma abbandona gli stu-
di nel 1971 trascinato via dal conflitto sociale diffuso. Nella ga-
lassia giovanile dedita agli “espropri proletari”, Battisti si muo-
ve in un territorio di confine tra lotta politica e banditismo me-
tropolitano.
Dopo le prime schermaglie con la giustizia nel 1976 arriva a
Milano dove si riunisce ad alcuni amici. Da quel raggruppamen-
to nascono i Proletari Armati per il Comunismo (PAC), uno dei
tanti gruppi clandestini dell’epoca, a cui sono attribuiti alcuni
omicidi e diverse rapine.
Nel 1979 viene arrestato nell’ambito di una vasta operazione
anti-terrorismo. Mentre sono in corso istruttorie basate princi-
palmente sulle deposizioni di “pentiti”, Battisti è detenuto nel
carcere speciale di Frosinone. Il 4 ottobre 1981 è protagonista di
una spettacolare evasione.
Raggiunge la Francia e poi il Messico. Due anni dopo è tra i
fondatori della rivista culturale “Via Libre”. Nel frattempo, gli arri-
va notizia che è stato ritenuto responsabile di tutti i reati attribuiti
ai PAC, e di conseguenza condannato all’ergastolo in contumacia.
Nel 1990 decide di tornare in Francia, a Parigi, dove entra in
contatto con la vasta comunità degli esuli italiani, accolti grazie
alla celebre “Dottrina Mitterrand”.
Poco dopo viene arrestato in seguito a domanda d’estradizio-
ne del governo italiano, ma la Chambre d’accusation di Parigi lo
dichiara non estradabile. Battisti ottiene il permesso di soggior-
no e scrive il suo primo romanzo, Travestito da uomo, pubblicato
da Gallimard nel 1993.
Negli anni successivi continua a scrivere e pubblicare (è auto-
re di dodici libri), diventa padre di due figlie e lavora come porti-
naio dello stabile in cui risiede. Il 10 febbraio 2004 viene di nuo-
vo arrestato, in seguito a un accordo informale tra il ministro
della giustizia Castelli e il suo omologo francese Perben, e nono-
stante il parere già espresso dai magistrati d’Oltralpe nel 1991.
Comincia una grande mobilitazione contro l’estradizione. Dopo
venti giorni Battisti ottiene la libertà provvisoria, il tribunale co-
municherà la sua decisione il 7 aprile 2004.
Nel momento in cui questo libro va in stampa, la spada di Da-
mocle è ancora sospesa sul capo dello “scrittore ex-terrorista”.
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“Nego totalmente i fatti specifici di cui mi si accusa e per i


quali mi hanno condannato. Me ne assumo la responsabi-
lità collettiva, come dovrebbe fare ogni uomo degno di que-
sto nome implicato in un dramma sociale di portata così va-
sta. Posso forse giudicare me stesso sventato, a quell’epoca,
ma questo non mi dà il diritto di dimenticare il contesto po-
litico e sociale che alimentò la mia sventatezza.”

Cesare Battisti
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INDICE

Premessa 7

1. L’arresto, la mobilitazione, i primi appelli 23

2. Il caso Battisti. La riflessione 41

3. Il quadro storico 81

4. Appendici 137

Bibliografia essenziale 155


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PREMESSA

“Non posso nascondere la mia amarezza vedendo riemer-


gere certe accuse alla magistratura italiana che, come dis-
se allora Pertini, tanto contribuì a fermare il terrorismo,
rispettando la Costituzione e le regole del processo.”
Armando Spataro, La Repubblica, 8 marzo 2004

“Di fronte ad una situazione d’emergenza [...] Parlamento


e Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche il
preciso ed indeclinabile dovere di provvedere, adottando
una apposita legislazione d’emergenza.”
Sentenza 15/1982 della Corte Costituzionale.

Dopo la messa in libertà vigilata di Cesare Battisti, in quel di


Parigi, i media italiani si sono scatenati, rovesciando sull’o-
pinione pubblica tutto il metallo fuso per anni negli altiforni
del rancore, della vendetta, dell’ossessione securitaria.
È impossibile fare un resoconto di tutte le distorsioni e
le falsità scritte e trasmesse nell’ultima settimana. Non c’è
articolo, per quanto breve, che non ne contenga decine.
Persino i dettagli apparentemente insignificanti sono sba-
gliati.
Episodi e personaggi che nulla c’entrano col caso in og-
getto vengono gettati nel calderone per intorbidire la bro-
dazza, scatenare il panico morale, impedire a ogni costo
l’uso della ragione.

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Un killeraggio mediatico come non se ne vedevano da


parecchio tempo, al quale è faticosissimo opporre argo-
menti ed elementi concreti, ricostruzioni storiche minima-
mente approfondite.
Eppure non si può rinunciare a esercitare la ragione,
non ci si può chinare e coprire la testa con le mani in atte-
sa che passi la burrasca. Fosse anche un’impresa dispera-
ta, occorre esercitare la ragione contro il fanatismo.
Non va taciuto che, in questo Paese, chi continua a op-
porsi agli scoppi di emergenze strumentali è destinato a
sentirsi solo: è una di quelle campagne in cui devi coprirti
su entrambi i fianchi, il destro (ça va sans dire) e il sini-
stro. Da entrambe le parti, gli argomenti (anche se è diffi-
cile chiamarli così) sono i medesimi.
La cosa non deve sorprendere: parlare di emergenza-
terrorismo significa tornare su storture giuridiche, strappi
costituzionali e prassi inquisitorie che il PCI di fine anni
Settanta (quello del “compromesso storico” e della “solida-
rietà nazionale”) sostenne con entusiasmo e abnegazione.
La stessa gente, oggi, dirige il centrosinistra. O meglio, di-
rige quella parte di centrosinistra che, a mo’ di struzzo, ha
da poco messo la testa sotto la sabbia irachena, non votan-
do contro la partecipazione dell’Italia all’occupazione neo-
coloniale della Mesopotamia.
La stessa gente ha da tempo delegato a una sezione di
magistratura inquirente le fatiche di un’opposizione al go-
verno B********* che in Parlamento non si è in grado di
condurre (quando proprio non ci si rifiuta di farlo per in-
seguire il “dialogo”, la “responsabilità di fronte alle istitu-
zioni” e l’inciucio bipartisan del momento).
Molte “toghe rosse” (come le chiama B*********) sono
le stesse che istruirono e condussero i grandi processi con-
tro il terrorismo (vero e presunto: nel tritacarne ci finirono
anche i movimenti di quegli anni). A sinistra è tuttora ege-
mone la visione della storia di chi scrisse e approvò le leggi
d’emergenza, e di chi rappresentava l’accusa ai processi
che ne derivarono.
Non è sorprendente che chi prese e difese posizioni tan-
to drastiche allora sia poco disposto a tornarci sopra oggi
per darsi qualche torto, o almeno rimettere in prospettiva

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le ragioni. Anche perché a destra ci si dà impudicamente al


grand guignol, si sparano le frattaglie con l’obice per in-
zaccherare di sangue tutto il campo della discussione, si
strofinano con le cipolle gli occhi dei telespettatori. Con
l’arma dell’emozione incontrollata e del ricatto morale, si
richiama all’ordine la sinistra “riformista”, la si spinge a
condannare la sinistra “radicale”, a dividere il campo del-
l’opposizione. Non che i “riformisti” abbiano bisogno di
troppe spinte...
In questo modo, però, si condanna il Paese all’eterna
paura dei fantasmi del passato, passato che in realtà non
passa ed è evocato per motivi di bassa cucina politico-elet-
torale.

1. Le leggi speciali 1974-82

“Questo libro l’ho scritto con rabbia. L’ho scritto tra il


1974 e il 1978 come contrappunto ideologico alla legisla-
zione sull’emergenza. Volevo documentare quanto fosse
equivoco fingere di salvare lo Stato di Diritto trasforman-
dolo in Stato di polizia”
Italo Mereu, Prefazione alla seconda edizione
di Storia dell’intolleranza in Europa.

Chi dice che il terrorismo fu combattuto senza rinunciare


alla Costituzione e alle garanzie per l’imputato è disinfor-
mato oppure mente. La Costituzione e la civiltà giuridica
furono sbrindellate decreto dopo decreto, istruttoria dopo
istruttoria.

– Il decreto-legge n.99 dell’11/4/1974 aumentò a otto an-


ni la carcerazione preventiva, vera e propria “pena anti-
cipata” contraria alla presunzione d’innocenza (art.27
comma 2 della Costituzione).
– La legge n.497 del 14/10/1974 reintrodusse l’interroga-
torio del fermato da parte della polizia giudiziaria, abo-
lito nel 1969.
– La legge n.152 del 22/5/1975 (“Legge Reale”) all’art.8
rese possibile la perquisizione personale sul posto sen-

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za l’autorizzazione di un magistrato, nonostante la Co-


stituzione (art.13, comma 2) non ammetta “alcuna for-
ma di detenzione, di ispezione o perquisizione persona-
le, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale,
se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei
soli casi e modi previsti dalla legge”.
Da quel momento le forze dell’ordine poterono (e posso-
no tuttora) perquisire persone il cui “atteggiamento” o la
cui presenza in un dato posto non apparissero “giustifi-
cabili”, anche se la Costituzione (art.16) dice che il citta-
dino è libero di “circolare liberamente” dove gli pare.
La “legge Reale” conteneva molti altre innovazioni li-
berticide, ma non è questa la sede per esaminarle.
– Un decreto interministeriale del 4/5/1977 istituì le “car-
ceri speciali”. Per chi ci finiva dentro non valeva la rifor-
ma carceraria di due anni prima. Il trasferimento in una
di quelle strutture era a totale discrezione dell’ammini-
strazione carceraria, non c’era bisogno del parere del giu-
dice di sorveglianza. Si trattava addirittura di un peggio-
ramento del regolamento carcerario fascista del 1931: al-
l’epoca, solo il giudice di sorveglianza poteva mandare un
detenuto alla “casa di rigore”. La rete delle carceri speciali
divenne presto una zona franca, di arbitrio e negazione
dei diritti dei detenuti: lontananza dalla residenza delle
famiglie; visite e colloqui a discrezione della direzione;
trasferimenti improvvisi per impedire socializzazioni, di-
vieto di possedere francobolli (l’Asinara); isolamento tota-
le in celle insonorizzate, ciascuna con un cortiletto per l’o-
ra d’aria separato dagli altri (Fossombrone); quattro mi-
nuti per fare la doccia (l’Asinara), sorveglianza continua e
perquisizioni corporali quotidiane; privazione di ogni
contatto umano anche visivo tramite citofoni e completa
automazione di porte e cancelli etc.
Questi erano i posti in cui gli inquisiti, a norma di legge
ancora innocenti, scontavano la carcerazione preventi-
va. La Costituzione, all’art. 27 comma 3, recita: “Le pe-
ne non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Verso quale rieducazione tendeva il trat-
tamento appena descritto?

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– La legge n.534 dell’8/8/1977, art.6, limitò le possibilità


da parte della difesa di dichiarare nullo un processo per
violazione delle garanzie dell’imputato e, rendendo più
sbrigativo il sistema delle notifiche, facilitò l’avvio di
processi in contumacia (in contrasto con il diritto di di-
fesa e contro la Convenzione europea dei diritti dell’uo-
mo, che è del 1954).
– Il “decreto Moro” del 21/3/1978, oltre ad autorizzare il
fermo di polizia di ventiquattro ore a fini di identificazio-
ne, eliminò il limite di durata delle intercettazioni telefo-
niche, rese le intercettazioni legali anche senza permesso
scritto del magistrato, le ammise come prove anche in
processi diversi da quello per cui le si era autorizzate, in-
fine rese autorizzabili intercettazioni “preventive”, anche
in assenza di indizi di reato. Inutile ricordare che la Co-
stituzione (art.15) definisce inviolabile la corrispondenza
“e ogni altra forma di comunicazione” se non per “atto
motivato” dell’autorità giudiziaria “con le garanzie stabi-
lite dalla legge”.
– Il 30/8/1978 il governo (violando l’art.77 della Costitu-
zione) emanò un decreto segreto, che non fu trasmesso
al Parlamento, e venne pubblicato sulla “Gazzetta uffi-
ciale” soltanto un anno dopo. Il decreto dava al generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa – senza togliergli l’incarico
di garantire l’ordine nelle carceri – poteri speciali per
combattere il terrorismo.
– Il decreto del 15/12/1979 (divenuto poi la “legge Cossi-
ga”, n.15 del 6/2/1980), oltre a introdurre nel codice pena-
le il famoso art. 270bis,1 autorizzò, per i reati di “cospira-
zione politica mediante associazione” e di “associazione

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. “Chiunque promuove, costituisce, organizza e dirige associazioni
che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione
dell’ordine democratico è punito con la reclusione da 7 a 15 anni.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da
quattro o otto anni.”
Nel codice penale esisteva già l’art.270:
“Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza
o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una
classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe
sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti econo-

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per delinquere”, il fermo di polizia preventivo della durata


di 48 ore, più altre 48 ore a disposizione per giustificare il
provvedimento. Per quattro lunghi giorni un cittadino so-
spettato di essere in procinto di cospirare, poteva rimane-
re in balìa della polizia giudiziaria senza l’obbligo di
informare il suo avvocato. Durante quel periodo poteva
essere interrogato e perquisito, e in molti casi si è parlato
di violenze fisiche e psicologiche (Amnesty International
protestò diverse volte). Tutto questo all’art.6, una norma
straordinaria della durata di un anno.
All’art.9 la legge rendeva possibili le perquisizioni “per
causa d’urgenza” anche senza mandato. La Costituzio-
ne, art.14, recita: “Il domicilio è inviolabile. Non vi si
possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri,
se non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge secondo
le garanzie prescritte per la tutela della libertà perso-
nale”. Che tutela della libertà c’è in un sistema dove
viene legalizzato l’arbitrio, la facoltà di decidere sul
momento se per una perquisizione sia necessario o
meno un mandato?
All’art.10, i termini della carcerazione preventiva per
reati di terrorismo venivano estesi di un terzo per ogni
grado di giudizio. In quel modo, fino alla Cassazione, si
poteva arrivare a dieci anni e otto mesi di detenzione in
attesa di giudizio! All’art.11, si introduceva un grave
elemento di retroattività della legge, ordinando di appli-
care i nuovi termini della carcerazione preventiva an-
che ai procedimenti già in corso. Il fine era chiaro: im-
pedire che decorressero i termini e che centinaia di se-
polti vivi attendessero il giudizio a piede libero.

mici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a


dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuo-
ve, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppres-
sione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da
uno a tre anni.”
Com’è evidente, si tratta del medesimo reato. Che bisogno c’era di
questo “sdoppiamento”, se non quello di isolare e amplificare la “fattispe-
cie terroristica”, e in base a questa aumentare le pene?

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– La “legge sui pentiti” (n.304 del 29/5/1982) coronò la


legislazione d’emergenza concedendo sconti di pena ai
“pentiti”. Il testo parlava di “ravvedimento”. In un libro
che nell’ultimo mese viene citato molto spesso (in Rete,
non certo sui media tradizionali), Giorgio Bocca si
chiedeva chi fosse mai il “pentito”:
“Uno che per convinzioni politiche si è unito al partito
armato e che poi, per ripensamenti politici, se ne è dis-
sociato al punto di combatterlo, o qualsiasi avventuri-
sta che prima si diverte a uccidere il prossimo e poi,
catturato, scampa alla punizione denunciando tutto e
tutti?”
Cito Elio e le storie tese: “Propenderei per la seconda
ipotesi / perchè emani un fetore nauseabondo” (dalla
canzone “Urna”, del 1992).
Bocca proseguiva: “Sono terroristi pentiti quei capetti
del terrorismo diffuso che prima hanno plagiato dei ra-
gazzi delle scuole medie, li hanno convinti ad arruolarsi
e poi li hanno denunciati per godere delle clemenze giu-
ridiche? Sono ravveduti sinceri quelli che in mancanza
di serie delazioni se le inventano? [...] Lo stato di diritto
non è la morale assoluta, l’osservanza rigorosa delle leg-
gi in ogni circostanza, ma è la distinzione e il reciproco
controllo delle funzioni. Nello stato di diritto la polizia
può eccedere nei metodi inquisitori, ma il cittadino può
ragionevolmente contare sul controllo del giudice sul poli-
ziotto. Ma se si accetta con la legge sui pentiti e simili che
giudice e poliziotto siano la stessa cosa, quale controllo
sarà possibile? Ma, si dice, la legge sui pentiti è stata effica-
ce, ha ottenuto centinaia di arresti e la fine del terrorismo.
Questo è scambiare gli effetti per la causa: non sono i pen-
titi che hanno sconfitto il terrorismo, ma è la sconfitta del
terrorismo che ha creato i pentiti. Ci si dovrebbe chiedere
se la legge ha giovato o meno a quel bene supremo di una
società democratica che è il sistema delle garanzie. La ri-
sposta è che i danni sono stati superiori ai vantaggi, anche
se un’opinione pubbica indifferente al tema delle garanzie
fino al giorno in cui non è direttamente, personalmente
colpita, finge di non accorgersene. Sta di fatto che una no-
tevole parte della magistratura inquirente si è lasciata se-

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durre dai risultati facili e clamorosi del pentitismo, ha pre-


so per oro colato le dichiarazioni dei pentiti sino a capo-
volgere il fondamento del diritto, le prove sono state sosti-
tuite con i sentito dire. Grandi processi sono stati imba-
stiti sulle dichiarazioni dei pentiti, centinaia di arresti
fatti prima di raccogliere le prove. Un magistrato italia-
no ha potuto dichiarare a una radio francese a proposi-
to del caso Hyperion... ‘Non ho le prove ma le troverò’.
Uomini politici, insegnanti, moralisti non si sono
preoccupati delle conseguenze inquisitorie della legge,
della infernale catena di delazioni incontrollabili che
essa metteva in moto. La reazione delle vittime della de-
lazione è stata, come si poteva prevedere, feroce, una
serie di cadaveri ‘infami’ è stata raccolta dalle guardie
carcerarie a cose fatte, secondo la legge barbara delle
nostre prigioni. Nella fossa dei serpenti tutto è possibile
e niente accertabile.”

Chiedo scusa per la lunghezza della citazione, ma credo


ne valesse la pena.
La Corte Costituzionale non potè negare che tutte que-
ste leggi fossero da stato d’eccezione: semplicemente deci-
se che, “vista l’emergenza”, andava bene così. Ponzio Pila-
to ha ancora le mani nel catino.
Non c’è cattiva memoria pubblica che possa rimuovere
questa realtà, non c’è ex-Pm che riesca a farmi accettare que-
sta barbarie in nome della “Ragion di Stato”, nessuna sinistra
legalitaria potrà mai convincermi della bontà di tutto questo.

2. Terrorismo, coscienza, “guerra preventiva”

“È proprio lo stato d’animo, il pensiero nascosto e non


espresso, la interna disobbedienza che divengono oggetto di
indagine, in quanto è all’accertamento di essi che il giudice
tende a risalire? Ecco che in processi di questi ultimi anni
sono sottoposti al vaglio del giudice penale comportamenti
quali la creazione di un collettivo di lavoratori contrapposto
al sindacato, l’organizzazione dei seminari autogestiti, la
collaborazione, mediante un articolo dal contenuto lecito, a
un periodico riconducibile ad una struttura associativa rite-

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nuta illecita; l’intervento in un’assemblea universitaria, e, in


genere, rapporti interpersonali manifestatisi attraverso
scambi di documenti politici, lettere, telefonate, ecc., tutti
dal contenuto penalmente irrilevante.”
Antonio Bevere, “Processo penale e delitto politico, ovvero
della moltiplicazione e dell’anticipazione delle pene”, in Cri-
tica del diritto n.29-30, Sapere 2000, aprile-settembre 1983

La Costituzione, all’art. 27, comma 1, dice che “la re-


sponsabilità penale è personale”.
Eppure il nostro codice penale (che risale al fascismo e
nel periodo delle leggi speciali fu inasprito in più punti)
pullula di reati come il “concorso morale” nel reato o la
“adesione psichica” allo stesso, nonché di ogni forma di
reato associativo che si possa immaginare tra cielo e terra.
Gran parte delle istruttorie sul terrorismo lavorarono
soprattutto su questi elementi, oltreché sui sospetti e le in-
tenzioni (il famoso “essere in procinto di”), su un’idea ol-
tremodo estesa del concorso, del favoreggiamento, delle
contiguità.
Si arrivò a teorizzare il “fine terroristico” come sussi-
stente “al di là dello scopo immediatamente perseguito
dall’agente (omicidio, danneggiamento ecc.)” e di definir-
lo “reato a forma libera” il cui specifico dolo “offre l’ele-
mento unificatore e l’essenza dei delitti terroristici”.2 In
parole povere, terrorista è lo scopo, il fine ultimo, anche
a prescindere da fatti concreti. Non c’è quindi da stupirsi
se in molti casi si finirono per processare la personalità
degli imputati e la loro ideologia, quest’ultima identifica-
bile nel loro essere amici di Tizio e Caio, o nel loro avere
ospitato Sempronio.
Terroristi si è, anche a prescindere da ciò che si fa. Ter-
rorista è l’intenzione, contro la quale va combattuta una
“guerra preventiva” che è tipica della società del controllo.

2
. Citazione dalla cosiddetta “Carta di Cadenabbia”, documento
conclusivo di un convegno di magistrati titolari delle principali in-
chieste sul terrorismo, cit. R. Canosa - A. Santosuosso, Il processo
politico in Italia, Critica del Diritto n. 23-24, Nuove Edizioni Ope-
raie, Roma, ottobre 1981 - marzo 1982, pag.17)

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La “cospirazione” c’è, anche se non ha portato a niente. Si


può essere processati per “insurrezione” anche se l’insur-
rezione non c’è stata: come disse Pietro Calogero, si tratta
di un “reato a consumazione anticipata”, cioè – in parole
poverissime – il vero reato è volerla, l’insurrezione. Tribu-
nali della coscienza.
Non sono un giurista, eppure mi sembra di poter rinve-
nire il nucleo ideologico, il “meme” di quest’idea contem-
poranea di “prevenzione” oltreoceano, nell’Anti-Riot Act
dell’11 aprile 1968, ideato e usato contro i movimenti afro-
americani e le mobilitazioni per porre fine alla guerra in
Vietnam. Tale legge punisce chi, durante uno spostamento
sulla rete viaria interstatale, o durante l’uso di infrastruttu-
re della rete viaria interstatale, commetta atti finalizzati a
“incitare, organizzare, promuovere, incoraggiare, prende-
re parte e portare avanti una sommossa [riot]”, o aiuti
qualcuno in tale incitazione. Secondo la legge americana,
un riot è un assembramento di cinque o più persone che,
comportandosi in modo violento o minacciando di farlo,
mettano in grave pericolo le persone e la proprietà.
Riassumendo, alcuni esponenti dei movimenti america-
ni furono inquisiti, processati e condannati per aver viag-
giato su strade interstatali con l’intenzione di aiutare qual-
cuno a incitare un assembramento di cinque o più persone
che minacciassero di comportarsi in modo da arrecare
danni alla proprietà. Spero sia chiara la percezione della
grande distanza che separa la persona dal presunto reato.
Sia ben chiaro che non sto dicendo che tutti gli imputati di
processi per terrorismo erano estranei a fatti concreti, ci
mancherebbe. Tuttavia, molte persone furono processate e
condannate non per atti specifici bensì in nome di un’idea
astratta di “fattispecie terroristica”. Il proverbiale “processo
alle intenzioni” fu reso una realtà dalla Ragion di Stato.
Gli effetti di quella distorsione sull’opinione pubblica
perdurano a tutt’oggi.
Non è un caso se quello che maggiormente si rimprove-
ra a Cesare Battisti è il fatto di “non essersi pentito”.
Non è un caso se la crescente mostrificazione mediatica
di Cesare Battisti prescinde ormai dai reati per cui fu con-
dannato, e s’incentra sulla sua personalità e il suo stile di

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vita (di adesso, non di allora): lo si accusa di essere “un vi-


gliacco” perché è fuggito, di essere “un furbo” perché lo
protegge “la lobby degli scrittori di sinistra”, lo si aggredi-
sce coi flash all’uscita di prigione per rubare l’immagine
“strana”, congelare la smorfia fugace e sbatterla in prima
pagina per far vedere che è “brutto, sporco e cattivo”.

3. Censure e rimozioni della stampa sul caso Battisti

Il mio scopo non è dimostrare che Cesare Battisti è inno-


cente. Giudicare non spetta a me né all’opinione pubblica.
Ciò che mi preme far capire è che il modo dominante di af-
frontare questa vicenda soffre di tutte le storture, i vizi di
procedura e i nodi irrisolti del periodo dell’emergenza. So-
no questi elementi, di cui non si vuol fare piazza pulita, a
impedire un confronto razionale, laico e costruttivo.
Le frettolose ricostruzioni della vicenda giudiziaria di
Cesare Battisti apparse sulla stampa italiana sono molto
lontane dalla realtà dei fatti, e addirittura in contrasto con
gli atti delle istruttorie e dei processi. Se addirittura uno
dei PM di allora infila nella sua lettera aperta errori gros-
solani, scrivendo ad esempio che il gioielliere Torregiani
aveva ucciso un rapinatore nel proprio negozio anziché al
ristorante “Transatlantico”,3 figurarsi i semplici commen-
tatori di versioni di quarta mano.
Tutti, ma proprio tutti, ripetono che Cesare Battisti
sparò a Torregiani e a suo figlio tredicenne, costringendo
quest’ultimo sulla sedia a rotelle. Alberto Torregiani è stato
anche intervistato dalle televisioni, che lo hanno presenta-
to come “vittima di Cesare Battisti”.
Eppure, a detta dello stesso ex-PM di cui sopra, Battisti
non faceva parte del commando che uccise Torregiani.4

. La ricostruzione dettagliata degli eventi che seguono è presa


3

da: Laura Grimaldi, Processo all’istruttoria. Storia di un’inquisizio-


ne politica, Milano Libri, 1981
4
. Da un testo di Armando Spataro, riportato integralmente in:
Mario Pirani, “Se a Parigi pari sono Battisti e Victor Hugo”, La Re-
pubblica, 8 marzo 2004, pag.14

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Battisti è stato condannato per aver “ideato” e/o “organiz-


zato” quel delitto, conclusione molto difficile da dimostra-
re, interamente basata su prove indiziarie e testimonianze
di “pentiti”. Questa è una delle cose che fa storcere il naso
Oltralpe, tanto alla giustizia quanto all’opinione pubblica.
Battisti viene indicato dai “pentiti” come ugualmente re-
sponsabile per due omicidi avvenuti lo stesso giorno alla
stessa ora. Di fronte all’evidente impossibilità logica, il qua-
dro si modifica sì da farlo risultare esecutore materiale di
uno (delitto Sabbadin) e “ideatore” dell’altro (delitto Torre-
giani). Inoltre è ritenuto ugualmente responsabile di decine
e decine di rapine, e in generale di tutti i reati compiuti dal-
l’organizzazione di cui faceva parte, i Proletari Armati per il
Comunismo (gruppo che ebbe vita piuttosto breve).
Chi ignora quanto il nostro diritto (soprattutto quello
dell’emergenza-terrorismo) sia incistato di contiguità, com-
plicità e “compartecipazioni” di varia natura, si stupisce e
non può che trovare contraddittorio il quadro emerso dalla
sentenza.
Ma non sto facendo una controinchiesta, quello che mi
preme chiedere è: perché, di fronte alle madornali idiozie
dette dai media sul ruolo di Battisti nel delitto Torregiani,
il Pm in questione non ha agito nell’interesse di una corret-
ta informazione e di una maggiore comprensione di quelle
vicende, prendendo carta e penna e precisando: “Attenzio-
ne, questa cosa non è vera”? Perché egli non ha smentito
gli sciacalli dell’informazione gridata? È convinto di aver
reso onore alla funzione pubblica che esercita, comportan-
dosi in modo tanto reticente?
Il direttore di un giornale razzista, in una trasmissione
televisiva, ha gridato che “Battisti sparò alla schiena al-
l’orefice Torregiani”, premendo sul pedale dell’isteria, de-
scrivendo l’agguato come ancor più vile di quanto ci si
potesse immaginare. Ma Battisti non c’era, ce lo confer-
ma il pubblico ministero. Inoltre, Torregiani – che indos-
sava un giubbotto antiproiettile – affrontò il commando e
rispose al fuoco.
E ancora: perché omettere di citare le proteste di Amne-
sty International per il modo in cui furono trattati i sospet-
ti durante il fermo di polizia nell’istruttoria Torregiani?

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Amnesty International usò l’inequivoco termine “tortu-


ra”. Aveva ragione? Aveva torto? Rimuovendo, non lo sco-
priremo mai.

4. Il “mal francese”

“Ma come si permettono questi francesi? Pensano di po-


terci dare delle lezioni?”. Ecco uno dei leitmotiven di que-
sti giorni.
Il rancore nei confronti dell’opinione pubblica francese
che non ci vuole restituire un “macellaio”, un “mostro”.
Quanto sono boriosi, i “cugini”! Sono Pazzi Questi Galli.
Anziché cercare di capire il punto di vista altrui, si dà
per scontato e indiscutibile che abbiamo ragione “noi”. E
non ci si rende conto che, mentre li riteniamo colpevoli di
farsi gli affari “nostri”, in realtà siamo “noi” che ci faccia-
mo i cazzi loro. Non si capisce perché mai i francesi do-
vrebbero rinunciare a una consuetudine giuridica pluride-
cennale, la cosiddetta “Dottrina Mitterrand” (che in realtà
è stata rispettata anche dai governi di destra), solo perché
il loro ministro Perben ha fatto un accordo col nostro mi-
nistro C*******.
Se il ministro della giustizia cinese, o birmano, in barba
alla legge italiana che vieta l’estradizione di persone con-
dannate a morte nel loro paese, ottenesse da C******* l’ar-
resto e l’espatrio di un rifugiato (chiamiamolo Chèsáré Xi-
liren), noi non reagiremmo con forza?
E se venissimo a sapere che un tribunale italiano ha già
esaminato la situazione di Xiliren nel 1991, dando un pa-
rere contrario all’estradizione, e che nessun nuovo elemen-
to giustifica un secondo arresto e un riesame a distanza di
tredici anni?
E se, per soprannumero, nel nostro Paese Chèsaré Xili-
ren non avesse mai e poi mai commesso un reato, tenendo
anzi una condotta impeccabile, dando anche un contribu-
to alla cultura nazionale?
Questo esempio ha un difetto: la Cina e la Birmania
non sono nell’Unione Europea. Infatti, molto rancore nei
confronti dei francesi si basa sull’idea che i “cugini” stiano

19
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ostacolando la formazione dello “spazio giuridico euro-


peo”. Tale critica proviene da un Paese, il nostro, più volte
oggetto di critiche e condanne da parte della Corte di Stra-
sburgo, che per più di quarant’anni non ha rispettato la
Convenzione europea per quanto concerneva le condanne
in contumacia, e che durante e dopo il G8 ha trattenuto in
arresto cittadini europei sulla base di accuse inverosimili,
attirandosi anche la protesta ufficiale del governo austria-
co. Inoltre, al momento l’Italia detiene il primato del go-
verno più “anti-europeista”, e si è fatta ridere dietro tutti i
giorni da mane a sera durante il Semestre di presidenza
dell’UE. Davvero crediamo noi di poter criticare chicches-
sìa su questi temi?
Poi c’è chi ha detto: “i francesi sono teneri solo coi ter-
roristi degli altri. I loro invece li trattano malissimo.” Non
c’è dubbio. Nonostante le distorsioni dei media nostrani,
la Francia non è un paese dove se fai la lotta armata si con-
gratulano dandoti pacche sulle spalle. Ti mettono in gale-
ra, come accade in tutto il mondo. La conclusione sarebbe
dunque semplice da trarre: la sinistra francese non sta di-
fendendo Battisti perché è stato un terrorista, ma nono-
stante lo sia stato. L’opposizione all’estradizione va ben ol-
tre Battisti e la sua vicenda umana (benché sia giusto far
notare che non delinque da trent’anni e non ha alcun colle-
gamento coi nuovi gruppi lottarmatisti).
La campagna va ben oltre, per i francesi si tratta di di-
fendere un principio, quello del diritto d’asilo, e un punto
d’onore, quello della parola data da Mitterrand ai nostri
connazionali rifugiati nell’Esagono.

5. “Soluzione politica” e amnistia

C’è voluto uno scrittore francese, Daniel Pennac, per riu-


scire a parlare di amnistia sulle pagine di un quotidiano
italiano. Probabilmente un nostro connazionale non sa-
rebbe mai riuscito a superare certi “filtri”.
Pennac, intervistato da un quidam, ha detto: “Con la
Repubblica l’amnistia è diventata qualcosa di necessario
alla concezione repubblicana della pace sociale. C’è l’e-

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sempio della Comune, ma più vicino a noi c’è anche l’am-


nistia dei membri dell’Oas, che si sono battuti con le bom-
be e con la violenza contro l’indipendenza algerina. Ma
quattro anni dopo la fine della guerra sono stati amnistia-
ti. Erano di estrema destra, hanno ucciso: non ammetto
che abbiano ammazzato, ma si dovevano amnistiare [...]
L’amnistia è il contrario dell’amnesia. Si tratta di chiudere
una porta per permettere agli storici di capire un periodo
in maniera meno passionale. Mi è difficile ammetterla sen-
timentalmente, soprattutto se si immaginano le vittime. Il
problema non deve però essere considerato dal punto di
vista affettivo”.
È un invito già caduto nel vuoto, in questo Paese certe
cose non si devono affrontare se non a colpi di emozioni e
di psicologia delle folle. Si produce ancora isteria sugli an-
ni Quaranta, sulle foibe, sulla “epurazione dal basso” dei
fascisti gestita da Volante Rossa e gruppi consimili, figu-
rarsi se si può far partire un dibattito sull’emergenza senza
rimuovere tutto quanto esposto sopra. Specialmente oggi,
con l’opposizione a B********* dietro i sacchi di sabbia
delle trincee giudiziarie (un bel regalo, con tanto di fioc-
chetto, di certa leadership girotondista).
Eppure bisogna fare il tentativo. Non credo di esagerare
affermando che questo Paese non potrà mai cambiare in
meglio senza ripensare quanto vi è successo negli anni Set-
tanta. E solo dopo un’amnistia per gli ultimi prigionieri e
rifugiati dei cosiddetti “anni di piombo”, solo dopo la solu-
zione politica di un problema che fu ed è politico e non so-
lo criminale, si può sperare di capire cosa successe e come
quegli accadimenti hanno condizionato la vita pubblica
italiana.

Bologna, 8-9 marzo 2004

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1. L’ARRESTO, LA MOBILITAZIONE, I PRIMI APPELLI

SOLIDARIETÀ PER LO SCRITTORE CESARE BATTISTI

Abbiamo appreso con incredulità e immediata reazione di


sdegno dell’arresto a cui è stato sottoposto, questa mattina
a Parigi, lo scrittore Cesare Battisti.
L’autore italiano, esule in Francia per motivi politici,
viene ora trattenuto dalle autorità francesi, a circa venti-
cinque anni dai fatti per cui in Italia è condannato e in
Francia è stato processato. I quali fatti, e lo sottolineiamo
con forza, non sono assolutamente quelli diramati oggi,
in tv e su Rete, dagli organi di informazione: al solito, in
momenti drammatici, sia da un punto di vista personale
(per lo scrittore Battisti) sia sociale (per l’attuale momen-
to storico e politico che viviamo), emerge una disinfor-
mazione pretestuosa, che ha il sapore del condiziona-
mento di regime e che conduce a vette di tragica comicità
– quale a tutti gli effetti è la dichiarazione del ministro
dell’Interno Beppe Pisanu, il quale si è congratulato con
la Direzione Antiterrorismo transalpina, per l’operazione
di cattura di una persona che da anni è rintracciabile da
chiunque e il cui indirizzo di casa è reperibile perfino sul
Web. Cesare Battisti paga una gravissima deriva, politica-
mente opportunista e scandalosamente revisionista, che
il governo Berlusconi ha imposto al nostro Paese ed
esportato in Europa, e in Francia in primis, per motivi di

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pura propaganda elettorale e al fine di dare sostanza al


delirante fantasma rosso con cui pensa di ipnotizzare un
continente intero. Al di là del surrealismo che presiede
all’arresto dello scrittore Cesare Battisti, risulta estrema-
mente chiaro a noi di Carmilla che il contesto sociale in
cui maturarono le scelte di una generazione è, a oggi, un
nodo irrisolto della vita civile italiana. Intervenire, a ven-
ticinque anni da un periodo di autentica guerra civile,
con l’arresto pretestuoso di una persona che ha subìto
anche in Francia il processo per fatti di eversione – il che
differenzia, e di molto, lo status di Cesare Battisti rispet-
to a molti altri consimili –, costituisce la conferma che
dobbiamo affrontare l’onda lunga di una reazione che,
soltanto per non apparire il mostro che è in realtà, si defi-
nisce liberista e non autoritaria.
Carmilla è solidale con Cesare Battisti e ne chiede l’im-
mediata scarcerazione. Ci mobiliteremo, con i mezzi che
abbiamo a disposizione, per attirare il massimo dell’atten-
zione pubblica su questo scandalo giurisprudenziale ed
umano. A breve verrà pubblicato un appello per la libera-
zione di uno dei più importanti scrittori italiani.
SOLIDARIETÀ A CESARE BATTISTI!

(Redazionale su Carmilla On Line, 10.2.2004)

LA RETE SI MOBILITA: LIBERAZIONE PER CESARE BATTISTI

Nel momento in cui viene scritto questo post, le 11.32 del


12 febbraio ‘04, sono 712 le firme raccolte a favore del-
l’APPELLO PER LA LIBERAZIONE DI CESARE BATTI-
STI (molte le stiamo tuttora inserendo manualmente). In
Francia, una petizione consimile pubblicata dal sito
Mauvaisgenre è stata sottoscritta da 1.400 persone. È una
risposta di enorme impatto, se si considera che gli appelli
sono on line da ventiquattr’ore soltanto. Nonostante l’in-
credibile e grottesca disinformazione praticata da tv, ra-
dio e giornali, la solidarità scattata attraverso la Rete di-
mostra che un’alternativa comunicativa esiste e dispone
di un rilievo non indifferente. Moltissimi firmatari non si

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sono limitati a inviare nome e cognome: hanno scritto


autentiche riflessioni sullo scandalo giudiziario e umano
che colpisce in queste ore Cesare Battisti. TENIAMO
TANTISSIMO A RINGRAZIARE CIASCUNO DEI FIR-
MATARI: non possiamo farlo personalmente, vista la
massa di adesioni, ma è fondamentale per noi esprimere
la massima gratitudine a ogni persona che ha sottoscritto
l’appello. Tra i firmatari compaiono nomi di prestigio
pubblico: scrittori (i moltissimi francesi, tra cui cito Ser-
ge Quadruppani, Pascal Dessaint e Dominique Manotti,
pubblicati in Italia; tra gli italiani, oltre a Wu Ming che
ha diffuso in newsletter l’appello e contribuito da sempre
all’enorme diffusione della conoscenza sul caso Battisti,
citiamo Nanni Balestrini, Tiziano Scarpa, Lello Voce,
Marco Philopat, Sandrone Dazieri, Helena Janeczek, Lui-
gi Bernardi), produttori cinematografici (Marco Muller,
per esempio), disegnatori (come Vauro), giornalisti (co-
me Loredana Lipperini di Repubblica), docenti universi-
tari (da ogni nazione: l’UCLA americana e istituzioni tede-
sche, svizzere, oltre che francesi). È un’adesione impor-
tante, sia da un punto di vista emotivo (appena saremo in
grado, consegneremo a Cesare Battisti le firme), sia da
un punto di vista politico (la realtà, una volta di più, non
è quella che appare nei media tradizionali, e la Rete per-
mette una mobilitazione di straordinaria incisività, fa-
cendo apparire necessario sciogliere anche culturalmen-
te il nodo irrisolto di un tragico decennio).
Terremo aggiornati tutti sugli sviluppi del caso. Co-
minciamo sin da ora segnalando l’articolo di Libération e
quello de il manifesto e il presidio degli scrittori francesi
(saranno più di un centinaio, secondo le prime stime) da-
vanti al carcere della Santé, a Parigi, lunedì 16 febbraio
alle 17. Un appello al presidente Chirac è stato inoltrato
dallo scrittore Patrick Pécherot.
Per quanto concerne l’Italia, stiamo organizzando, in
varie città, eventi e serate per Cesare Battisti: quasi certa-
mente a Milano, certamente a Bologna – daremo avviso
per tempo.

(Redazionale su Carmilla On Line, 12.2.2004)

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APPELLO A CHIRAC PER LA LIBERAZIONE DI CESARE BATTISTI


di Michel Quint, Claude Mesplède, Pascal Dessaint,
François Joly, Guillaume Chérel

Un gruppo di importanti scrittori francesi (Michel Quint;


Claude Mesplède; Pascal Dessaint; François Joly; Guillaume
Chérel) ha steso un appello al Presidente Chirac, al Parla-
mento e al ministro della Giustizia di Francia, per protestare
contro lo scandaloso arresto di Cesare Battisti. Il testo, che
qui riproduciamo nella traduzione di Paolo Chiocchetti,
verrà inoltrato alle autorità lunedì 16. Lo scrittore Philippe
Sollers era stato precedentemente ricevuto dal Presidente
Chirac, esponendogli il caso di Battisti.

Lettera ai presidenti dei gruppi parlamentari all’Assem-


blea Nazionale, al Guardasigilli e al Presidente della Repub-
blica Francese
“Siamo degli scrittori che non sopportano più la situa-
zione che si è venuta a creare con l’arresto e forse domani
l’estradizione del nostro collega romanziere e amico Cesare
Battisti”.
Il romanziere Cesare Battisti è minacciato d’estradizione
verso l’Italia, dove si trova sotto il peso di una condanna che
risale all’epoca delle azioni terroristiche condotte durante gli
anni ‘70. Rifugiato in Francia dal 1990, come molti altri mili-
tanti italiani, aveva ottenuto dal Presidente Mitterrand l’assi-
curazione di poter vivere in Francia, alla condizione di non
fare più attività politica. Da allora Cesare Battisti ha rispetta-
to questo impegno. Ha messo su famiglia ed è diventato scrit-
tore, fornendo nei suoi romanzi delle testimonianze uniche
su quel periodo e sugli avvenimenti che ha vissuto.
Un’allarmante anticipazione di quanto ora succede si era
verificata nel 2002, costringendoci alla stesura di una petizio-
ne nazionale firmata da numerosi romanzieri, critici, editori,
traduttori e personalità varie. Queste firme erano state depo-
sitate presso i rappresentanti del ministero della cultura. La
situazione era rimasta immutata. La parola data dal presi-
dente Mitterrand a nome della Francia era stata rispettata.
Improvvisamente le cose sono cambiate. Abbiamo appena
appreso che nella mattinata di martedì 10 febbraio 2004, Ce-

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sare Battisti è stato arrestato nel suo domicilio dalla BAT, per
essere poi incarcerato sulla base di una richiesta di estradizio-
ne. Se una tale procedura venisse portata a termine, sarebbe
la parola data dalla voce di un presidente francese che verreb-
be insultata, e il senso dell’onore della Francia calpestato.
Siamo tutti noi, Francesi di tutte le origini, ad essere offesi
da questa mancanza alla nostra parola data tramite un presi-
dente eletto a suffragio universale. Ed evidentemente noi non
possiamo che esprimere la vergogna da cui siamo pervasi.
È la sorte di un uomo, di una famiglia ma anche l’onore
delle lettere francesi e della nazione che sono in gioco. Nel-
l’ora in cui l’Italia ha il coraggio di guardare sul grande
schermo le Brigate Rosse all’opera con le lore vicissitudini, i
loro tormenti, le loro contraddizioni: nell’ora del matrimo-
nio principesco Savoia–Coureau, del ritorno degli aristocra-
tici in Italia, noi saremo più nazionalisti che il re di un paese
nel quale non siamo...?
Ci sono dei conti che è indegno regolare per altri. Così
Tolomeo offrì in passato la testa di Pompeo a Cesare, che
ne fu oltraggiato. Si può sperare che Berlusconi si senta in-
sultato dal fatto che gli si consegni un uomo che è un
esempio di umanità, perché questa umanità la misura alla
sua riconquista?
È per questo che domandiamo al Guardasigilli e al Pre-
sidente della Repubblica francese, a nome nostro, a nome
di uomini che non sono in nulla migliori di Cesare Battisti,
di restituire la libertà a Cesare e di riconfermargli il diritto
di asilo, che in nome della nostra dignità sta a tutti noi
francesi di conferire.

(Da Carmilla On Line, 13.2.2004)

CASO BATTISTI: MONTA LA PROTESTA DEGLI INTELLETTUALI

Secondo fonti francesi, sono molte migliaia le firme otte-


nute dalle varie petizioni a favore di Cesare Battisti: oltre a
quelle su web, che ammontano ormai a più di seimila tra
Francia e Italia, sono ora da contare le adesioni provenien-
ti dagli Stati Uniti, dal Messico e dalla Germania, grazie al-

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l’impegno di alcuni docenti universitari molto noti. Tra i


firmatari prestigiosi dell’appello italiano, si è aggiunta og-
gi la scrittrice e traduttrice Laura Grimaldi, oltre che Anto-
nio Moresco, Dario Voltolini, Carla Benedetti, il poeta Iva-
no Ferrari e il poeta-traduttore e direttore editoriale Jean-
Charles Vegliante.
A Parigi, ieri, si è tenuta una riunione per organizzare
la manifestazione davanti alla Santé, lunedì prossimo,
nel corso della quale verrà consegnato l’appello degli
scrittori francesi al Presidente Chirac: ieri sera erano pre-
senti centocinquanta persone, tra cui intellettuali molto
noti all’opinione pubblica francese, oltre che rappresen-
tanti del sindacato dei magistrati, avvocati e le telecame-
re di France 3.
Domani, sabato 14, alle 15.30, presso il CICP (21 ter rue
Voltaire, 75011 metro nation o rue des boulets) viene a co-
stituirsi ufficialmente il coordinamento per il sostegno a
Cesare Battisti.
Delphine Cingal, docente di letteratura anglosassone
presso l’Université Paris II-Assas, sta organizzando una
struttura che raccolga fondi per affrontare le spese proces-
suali. Daremo notizie sugli sviluppi: Cesare Battisti non
versa in buone condizioni economiche e, qui in Italia, si
può contattare Carmilla se si desidera fare pervenire allo
scrittore aiuti di ordine monetario.
Nel baillamme disinformativo, spicca un articolo del
giornale francese destrorso Le Figaro, che racconta dell’ar-
resto di Cesare Battisti a causa dell’uccisione di un suo vi-
cino di casa a Parigi: la tragedia partorisce farse. Oltre alla
trasmissione di Radio La-Bas, che abbiamo segnalato, ap-
prendiamo che un programma lunghissimo e approfondi-
to sul caso Battisti è andato oggi in onda sull’emittente ra-
diofonica nazionale France Inter.
È stato comunicato che, con tutta probabilità, Cesare
Battisti comparirà davanti ai giudici mercoledì 18 o mer-
coledì 25.
Vi terremo aggiornati su tutti gli sviluppi.

(Redazionale su Carmilla On Line, 13.2.2004)

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APPELLO PER CESARE BATTISTI


da Nazione Indiana, www.nazioneindiana.com

Non abbiamo gli elementi per esprimere un giudizio ap-


profondito sulla vicenda processuale che portò molti anni fa
alla condanna all’ergastolo di Cesare Battisti, da quindici
anni rifugiato in Francia. Né abbiamo alcuna comprensione
nei confronti delle logiche del terrore di qualsiasi provenien-
za né insensibilità verso la sofferenza di coloro che ne sono
stati e ne sono vittime.
Ma non ci sembra che vi sia giustizia nel sottoporre una se-
conda volta, dopo tanti anni, a una procedura di estradizione la
stessa persona per la quale era già stata negata una prima volta.
Sarebbe come portare di nuovo sul patibolo un condannato a
cui all’ultimo momento si era deciso di commutare la pena.
Inoltre non ispira un senso di giustizia l’impressione
che a dettare i tempi e i modi di questa operazione siano in
realtà contingenze politiche interne, per di più da parte di
un governo che, in questa stessa materia, si è generalmen-
te distinto nella pratica dei “due pesi e due misure” (roga-
torie, immunità parlamentare, rifiuto di ratificare il man-
dato di cattura europeo....) e nell’attacco frontale alla Ma-
gistratura del nostro paese.
Ci uniamo perciò all’appello rivolto alle autorità france-
si affinché non si prestino a un gioco che più che agli inte-
ressi della giustizia e della verità sembra obbedire a logi-
che di altra natura.

Sergio Baratto, Carla Benedetti, Ivano Ferrari,


Andrea Inglese, Antonio Moresco, Tiziano Scarpa,
Giorgio Vasta, Dario Voltolini

L’HUMANITÉ: BATTISTI DEVE RESTARE IN FRANCIA


dal quotidiano francese L’Humanité, 13.2.04

Cesare Battisti è stato arrestato a casa sua, martedì, da


agenti della DAT, la Divisione nazionale Antiterrorismo, e
trattenuto in carcere sotto richiesta di estradizione. Nessu-
na procedura accusatoria è stata ingaggiata contro di lui

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da parte della giustizia francese. È grazie alla richiesta


del governo Berlusconi che lo scrittore è stato arrestato,
in virtù di una domanda di estradizione che la giustizia
francese aveva già rifiutato nel 1991. Nessun nuovo ele-
mento è stato prodotto dalle autorità italiane. Cesare Bat-
tisti, negli anni Settanta, era uno dei responsabili dei PAC
(Proletari Armati per il Comunismo), un’organizzazione
di estrema sinistra che propugnava la violenza politica. È
stato condannato all’ergastolo, mentre era latitante, sulla
base di dichiarazioni di pentiti, che le negoziariono con
la polizia. Un processo manifestamente truccato, che lo
accusò, per fare solo un esempio, di avere commesso due
omicidi, lo stesso giorno alla stessa ora, a Venezia e a Mi-
lano. Una condanna ottenuta in base a leggi eccezionali,
che aggravavano la pena in funzione del contesto politi-
co, in un paese dove non vengono riprocessati i contuma-
ci. In pratica, fatti di trent’anni fa, che sarebbero caduti
in prescrizione o amnistiati, e che Battisti ha negato sem-
pre di avere commesso. Nel 2002, egli ha riconosciuto
l’errore politico dei PAC, senza abiurare comunque agli
ideali della sua giovinezza.
Nel 1985, François Mitterrand dichiarò che la Francia
non avrebbe mai estradato coloro che risultava non fos-
sero personalmente responsabili di crimini contro la vita
e che avessero dichiarato l’abbandono definitivo della
violenza a ogni livello. Era, per l’appunto, il caso di Batti-
sti, come di Paolo Persichetti, professore alla Paris VIII,
estradato nell’agosto 2002. Il ministro della Giustizia,
Dominique Perben, desideroso di confermare l’immagine
di un governo francese dal polso fermo e giustizialista –
anche avventurandosi nei territori dell’estrema destra –,
oltre che di compiacere Berlusconi, nostante sia palese la
violazione dei diritti, torna su un affare su cui già è stata
emessa in Francia una sentenza, e fa crollare una volta
ancora, insieme alla tradizione dell’asilo politico che la
Francia ha sempre concesso, i principi fondamentali del
diritto. Una richiesta di sospensione del provvedimento
cautelare è stata presentata dagli avvocati di Battisti, in-
sieme a una domanda di scarcerazione. Intanto, si sta or-
ganizzando la solidarietà.

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PARIGI: LA MANIFESTAZIONE PER CESARE BATTISTI


di Serge Quadruppani

Autore noir di fama europea, Serge Quadruppani ha pubbli-


cato in Italia L’Assassina di Belleville e La Breve Estate dei
Colchici.

Dalle 17 una folla di circa quattrocento persone – ma si so-


no in seguito aggiunti molti altri – si è radunata davanti al
carcere della Santé, per manifestare il proprio rifiuto all’e-
stradizione di qualunque rifugiato politico italiano arriva-
to in Francia dopo gli anni Ottanta. Cesare Battisti si trova
per l’appunto improgionato alla Santé, sotto richiesta di
estradizione.
Annunciato dapprima come semplice conferenza stam-
pa, il concentramento ha avuto luogo su boulevard Arago
all’incrocio con rue de la Santé, ed è stato aperto dagli in-
terventi di Alain Krivine (deputato europeo LCR-trotskista),
Noël Mamère (Verdi) e dall’avvocato De Felice, apparte-
nente alla Lega dei Diritti dell’Uomo, che difende Cesare.
Philippe Sollers (autore Gallimard) ha in seguito preso la
parola. Componevano l’assembramento scrittori e intellet-
tuali di diversa estrazione (tra cui Tahar Ben Jalloun, il re-
gista Yves Boisset, l’architetto PC Castro) insieme a una fol-
ta rappresentanza di editori, giornalisti, semplici militanti,
rifugiati politici italiani (tra cui Oreste Scalzone) che in-
dossavano gli adesivi “Libérez Cesare”. Erano presenti an-
che gruppi più o meno radicali che contestano la carcera-
zione e il sistema repressivo.
I manifestanti sono rimasti più di due ore a scandire
slogan di solidarietà con lo scrittore italiano, in modo che,
se anche Cesare non avesse sentito, i cori raggiungessero
comunque gli altri detenuti.
Cinque deputati, Krivine e tre parlamentari Verdi e un
senatore del PC, sono riusciti, secondo i poteri di cui di-
spongono per legge, a fare ingresso nel carcere, ma il mini-
stro della Giustizia ha loro illegalmente interdetto l’incon-
tro con Cesare.
Tra la folla, striscioni di sostegno alla causa di Cesare,
un’enorme bandiera contro il sistema carcerario e la prima

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pagina del quotidiano l’Humanité (giornale del Partito co-


munista) che titolava a caratteri cubitali “Libérez Battisti!”.
Tra i manifestanti si sono fatti sentire anche alcuni
ex(?)-stalinisti che, vent’anni fa, non avrebbero esitato a
consegnare Battisti alla polizia. Ma il mondo cambia, in
Francia come in Italia.
Al termine della manifestazione, la sensazione generale
è stata che il governo francese abbia compiuto una mossa
azzardata e non priva di rischi.
Giovedì, alle 14.30, la Lega dei Diritti dell’Uomo terrà
nella sua sede una conferenza stampa. Alle 20.00, presso il
CICP (locale di incontro tra militanti) verrà proiettato il
film Cesare Battisti: rèsistances.
Il comitato di solidarietà a Cesare continuerà a organiz-
zare azioni di sostegno, in vista del 3 marzo, data dell’u-
dienza sulla richiesta di scarcerazione.
Cesare libero! Nessuna estradizione degli esuli italiani!

(Da Carmilla On Line, 17.2.2004)

LEGA PER I DIRITTI DELL’UOMO: LIBERATE BATTISTI

Nel pomeriggio di ieri, presso la sede parigina della Lega


per i Diritti dell’Uomo, si è tenuta una conferenza stampa
sulla situazione di Cesare Battisti.
In una sala affollatissima, sono intervenuti:

– Michel Tubiana, presidente della lega per i Diritti del-


l’Uomo, che ha messo in connessione i casi di Cesare
Battisti e di Paolo Persichetti, denunciando il malfun-
zionamento della giustizia italiana che ha imposto pro-
cessi iniqui negli anni Settanta e Ottanta, e terminando
il suo intervento con una riflessione sull’attuale posizio-
ne del governo francese: “Rinnegare la parola data non
è soltanto un attentato all’onore della Francia, significa
sovvertire tutti i fondamenti della politica”.
– Irène Terrel, avvocato di Cesare Battisti, a proposito
della posizione del governo parla di una “forma di ol-
traggio all’etica politica”. Terrel ha fatto giustizia sul ca-

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so dei vicini di casa di Cesare Battisti, che avrebbero


sporto denuncia contro di lui: si tratta di una deliberata
volontà di criminalizzazione. Ha inoltre ricordato come
sia falso sostenere che Cesare, una volta estradato in
Italia, avrebbe diritto a un nuovo processo: egli dovreb-
be al contrario scontare le condanne comminategli
mentre era in contumacia. De Felice, altro avvocato di
Battisti, ha letto un passo di un documento della polizia
che pretenderebbe che, nel ‘91, la corte di appello abbia
sentenziato A FAVORE dell’estradizione – quando la verità
è esattamente l’opposto.
– Philippe Sollers ha dato lettura di un magnifico testo di
Erri De Luca che presto sarà pubblicato su Le Monde.
– Sono stati letti messaggi o sono intervenuti diretta-
mente rappresentanti delle seguenti organizzazioni: Ci-
made (organizzazione umanitaria protestante), Sinda-
cato degli Avvocati di Francia, France Liberté (Danielle
Mitterrand), Sindacato della Magistratura.
– Il biologo Albert Jacquard (una personalità estrema-
mente nota in Francia) ha preso la parola in qualità di
semplice cittadino.
– Michèle Lesbre, scrittore, ha presentato l’appello fran-
cese e ha segnalato un gran numero di iniziative di soli-
darietà: la cittadina di Frontignan, in cui si tiene un fe-
stival del noir, ha intenzione di nominare Battisti citta-
dino onorario.
– Serge Quadruppani ha presentato l’appello italiano e
ha spiegato perché è così difficile che passi in Italia, co-
me le forze politiche svolgano un ruolo centrale nell’im-
pedire un riesame del periodo 70-80, in nome della lotta
contro il terrorismo, e perché la sinistra abbia delegato
ai giudici il tentativo di risolvere i problemi che la poli-
tica non è più in grado di affrontare – in particolare: co-
me sbarazzarsi di Berlusconi e del berlusconismo.
– Un rappresentante del Partito comunista francese (di
cui erano presenti molti eletti) ha annunciato che il
gruppo comunista del Consiglio comunale parigino
proporrà che Cesare Battisti venga nominato “amico
della Città di Parigi”.
– Il Capo di Gabinetto di François Hollande, segretario

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generale del Partito Socialista, ha letto un messaggio di


quest’ultimo che insiste nuovamente sulla necessità di
“rispettare la parola data”.

La riunione si è conclusa con la lettura di “alcune paro-


le di Cesare Battisti”, un testo scritto in occasione dell’e-
spulsione di Paolo Persichetti.

(Da Carmilla On Line, 20.2.2004)

SERATA AVENIDA LIBERATION: COM’È ANDATA

È andata benissimo. Presso il circolo Arci Sesto Senso, a Bo-


logna, si è tenuta la prima serata italiana di solidarietà a Ce-
sare Battisti. Valerio Evangelisti, Wu Ming 1 e Giuseppe Gen-
na non soltanto hanno presentato Avenida Revoluciòn, l’ulti-
mo libro tradotto in Italia di Cesare Battisti (uscito per Nuovi
Mondi Media), ma hanno parlato della vicenda umana, poli-
tica e giuridica dello scrittore italiano attualmente detenuto
nel carcere parigino della Santé, in attesa che sia esaminata
la richiesta di estradizione per l’Italia. In un locale affollato,
alla presenza di scrittori, di critici, di un’inviata del quotidia-
no francese Libération e di moltissimi giovani, Valerio Evan-
gelisti ha raccontato alcuni particolari del processo kafkiano
a cui Battisti fu sottoposto in Italia. Non si è trattato di sem-
plice memorialistica: l’esilio dell’autore del Cargo sentimen-
tal è frutto di una scellerata conduzione, in un periodo di leg-
gi speciali che alcuni pretenderebbero tuttora in vigore, di un
procedimento giudiziario falsato da trattamenti iniqui e vio-
lenti da parte delle forze di polizia, confusione investigativa
(dieci persone trattenute dagli organi giudiziari furono co-
strette a “confessare” un medesimo omicidio), distorsione
delle accuse e costruzione di castelli immaginari a forza di
negoziazioni con poco credibili “pentiti”. Evangelisti ha an-
che sottolineato l’importanza della letteratura di Cesare Bat-
tisti: una delle pochissime, ai nostri giorni, a immergersi to-
talmente in un’epoca che l’Italia stenta a elaborare. Giuseppe
Genna ha introdotto all’opera di Battisti: soltanto quattro li-
bri su un totale di dodici sono attualmente tradotti in Italia,

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ed è necessario e urgente pubblicare da noi il Cargo senti-


mental, profondissima riflessione sull’intera storia contem-
poranea d’Italia, dal dopoguerra all’insorgere del Movimento
che si è mobilitato ai nostri giorni. Wu Ming 1 ha anzitutto
evidenziato le storture informative e la pochezza di argo-
mentazioni che sono circolate in Rete e sulla stampa, am-
pliando poi la prospettiva rispetto al contesto politico gene-
rale in cui il caso Battisti esplode: l’inanità di un’opposizione
che ha delegato alla magistratura l’attacco al transitorio pre-
mier e al suo governo, che è garantista soltanto in casi di in-
teresse personale, mentre fioccano le proibizioni in ogni
comparto del vivere civile. Sono andati esauriti i dossier
composti dai materiali presenti on line su Carmilla, sono sta-
te vendute copie di Avenida Revoluciòn, si sono aggiunte
molte firme all’appello (che stiamo aggiornando manual-
mente e ripubblicheremo integralmente a breve). Prima de-
gli interventi, è stato proiettato il video realizzato in Francia
Cesare Battisti: rèsistances.
Vorremmo ringraziare tutti gli intervenuti: è stato impor-
tante per noi, ma soprattutto per Cesare.
La serata, nelle intenzioni, diventerà una sorta di evento
disseminato per l’Italia. È imminente l’annuncio della data
di Milano (sono previste, sul palco, partecipazioni numero-
se), mentre ci stiamo attivando per organizzare un’iniziativa
analoga anche a Roma.

(Redazionale di Carmilla On Line, 27.2.2004)

LETTERA APERTA DI 500 INTELLETTUALI AL MINISTRO DELLA


CULTURA FRANCESE, PER LA LIBERAZIONE DI CESARE BATTISTI

Mentre l’amministrazione comunale della capitale francese


accorda in forma ufficiale e solenne la “protezione della Città
di Parigi” a Cesare Battisti, e istituisce un’apposita commis-
sione; mentre varie cittadine qui e là per la Francia lo nomi-
nano cittadino onorario; mentre addirittura gli inquilini del-
lo stabile in cui abitava (già autori di un volantino intitolato
“Ridateci il nostro portinaio”) marciano con tutto il 9° Cir-
condario fino al municipio del quartiere e trovano la solida-

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rietà del sindaco e dei consiglieri, gli intellettuali transalpini


più prestigiosi continuano la loro mobilitazione.
Quattro di essi, ben noti anche in Italia (lo storico Pierre
Vidal-Naquet, il disegnatore Enki Bilal, la scrittrice Fred Var-
gas, il regista Jacques Audiard) hanno redatto la lettera aper-
ta che riportiamo, firmata nel giro di pochi giorni da 500 lo-
ro colleghi.

Signor Ministro,
l’arresto del romanziere Cesare Battisti e la minaccia di
estradizione che pesa su di lui destano emozione e riprova-
zione nel mondo della cultura, e ben al di là di esso.
Noi, scrittori e romanzieri, editori e traduttori, librai, di-
segnatori e fotografi, artisti, attori e cineasti, donne e uomini
di cultura, le domandiamo di rompere il suo silenzio sulla si-
tuazione di Cesare Battisti.
Noi non possiamo accettare che la nostra Repubblica riti-
ri brutalmente l’impegno preso con Cesare Battisti di con-
sentirgli di vivere tra noi a patto di rompere con la logica de-
gli anni di piombo, promessa che Cesare Battisti ha piena-
mente rispettato.
Non possiamo accettare che Cesare Battisti sia minaccia-
to di estradizione per l’arbitrio di un voltafaccia giudiziario
inaccettabile, e imprigionato a vita in Italia, senza ricorso
possibile per via di una legge iniqua.
Ne va dell’onore della Francia, arricchita da tanti apporti
venuti dal mondo intero, e della sua cultura, di cui lei è il ga-
rante e il difensore naturale.
Ne va del rispetto della parola data, così come dell’avveni-
re delle libertà e dei diritti nell’Europa in costruzione.
È per questo che vi domandiamo, Signor Ministro, di in-
tervenire affinché la libertà sia restituita a Cesare Battisti, e
gli sia definitivamente assicurato il diritto d’asilo promesso.

Tra i 500 firmatari dell’appello, i più noti in Italia sono


gli scrittori Daniel Pennac, Tonino Benacquista, Daniel Pi-
couly, i registi Costantin Costa-Gravas e Bertrand Taver-
nier, il filosofo Bernard-Henri Lévy, il disegnatore Willem.

(Da Carmilla On Line, 2.3.2004)

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DANIEL PENNAC: LETTERA A BATTISTI

Con il titolo “A un perseguitato”, lo scrittore francese Da-


niel Pennac, che ha firmato l’appello per la liberazione di
Cesare Battisti, ha inviato una lettera allo scrittore italiano
detenuto a Parigi in attesa di estradizione. Il quotidiano il
manifesto l’ha tradotta e pubblicata nell’edizione domeni-
cale. Ecco il testo.

Caro Cesare Battisti, non la conosco, non l’ho mai letta e


certamente non l’avrei seguita nella sua giovanile parteci-
pazione alla lotta armata. Questo mi lascia tanto più libero
di dirle la vergogna che provo per ciò che il mio governo le
sta facendo e che, attraverso di lei, minaccia, probabil-
mente altri rifugiati italiani.
Il 10 luglio 1880, nove anni appena dopo la Comune di
Parigi (insurrezione che fece più di 30.000 morti!), i condan-
nati vennero graziati e amnistiati. Siamo nel 2004, i fatti che
le vengono imputati (i più gravi dei quali non sono stati pro-
vati), risalgono a quasi trent’anni fa, e lei è di nuovo gettato
in prigione, tradito dal paese (che le aveva garantito asilo), e
consegnato a quello che le rifiuta il perdono.
Come spiegare alle giovani generazioni una tale regres-
sione del costume politico? E come far capire a coloro che
ci governano, che agendo in tal modo essi creano il clima
di disperazione che ha spinto alla lotta armata l’adolescen-
te che lei era negli anni ‘70?
Certo, i ministri passano e il sostegno che molti le stan-
no dimostrando durerà più a lungo dei nostri rispettivi go-
verni; ma è una magra consolazione, se pensiamo a quale
società può nascere da comportamenti in cui si può tradire
la parola data da un capo di stato, e in cui la giustizia si ap-
parenta alla vendetta – se non viene addirittura imbava-
gliata. Naturalmente, spero con tutto il cuore di sbagliarmi
e che il mio governo, sensibile agli argomenti che gli sono
stati presentati, resterà fedele alla garanzia di protezione
che le è stata data.
Coraggio dunque, sperando di vederla presto, libero.

(Da Carmilla On Line, 24.2.2004)

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LIBERATE BATTISTI!
di Bernard-Henri Lévy

Francamente non avremmo mai creduto di ospitare un gior-


no un intervento di Bernard-Henri Lévy (tratto dal settima-
nale Le Point). Invece il caso Battisti ci mostra, ancora una
volta, la superiorità degli intellettuali francesi – inclusi i più
“massmediatici” – rispetto a quelli italiani. Sulla detenzione
arbitraria di Cesare Battisti prendono posizione personalità
poco sospettabili di “sinistrismo”, come Philippe Sollers,
Bernard Kouchner e tanti altri, tra cui, per l’appunto, Lévy.
Una dimostrazione di indipendenza di pensiero, in Italia
quasi inimmaginabile.

Cesare Battisti, questo ex responsabile dei Proletari Arma-


ti per il Comunismo riconvertito alla – buona – letteratura
poliziesca e arrestato, l’altra mattina, dalla polizia france-
se. L’ho incrociato, una volta. Era presente – me ne rendo
conto rileggendo le mie annotazioni dell’epoca – alla riu-
nione organizzata nel novembre 1978, a Roma, dal quoti-
diano italiano Lotta Continua, in cui si dibatté, con Félix
Guattari e altri, se il terrorismo fosse o meno il figlio natu-
rale di una coppia diabolica, fascismo e stalinismo.
Oggi il tempo è passato. La guerra è finita. La rivoluzio-
ne anche. E tutti, tra i protagonisti del dibattito di allora,
sarebbero d’accordo nel ritenere che la scelta della “lotta
armata” fosse al tempo stesso assurda e criminale. Chi ha
interesse, data la situazione, a riaprire la vecchia piaga?
Perché, sebbene Battisti vivesse a viso aperto, con moglie,
figli, editori per i suoi romanzi, amici, indirizzo conosciu-
to, fare di colpo finta di scambiarlo per una sorta di clan-
destino? È veramente una buona idea, per un’Italia visibil-
mente minacciata da un nuovo tipo di terrorismo, pren-
dersela con chi si è ritratto dalla violenza antica maniera e,
nei suoi romanzi, ha fatto più di chiunque altro per riflet-
tere sul fenomeno, e dunque scongiurarlo?
In ogni caso, qui, in Francia, la questione non si pone
nemmeno. La camera d’accusa della corte d’appello di Pa-
rigi ha in effetti, tredici anni fa, già risposto no a una pre-
cedente domanda di estradizione. Tutti i governi, da allora

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in poi, hanno implicitamente ratificato una posizione det-


tata, in particolare, da quella peculiarità del diritto italia-
no che fa sì che un condannato in contumacia, se conse-
gnato, finisca direttamente in prigione, senza possibilità
di nuovo processo.
Di conseguenza, visto che nel frattempo non è affiorato
alcun elemento nuovo, le autorità francesi non hanno, og-
gi, che una parola da dire, che un gesto da fare: liberare
Cesare Battisti.

(Da Carmilla On Line, 22.2.2004)

OGGI L’UDIENZA. LA CITTÀ DI PARIGI A SOSTEGNO DI BATTISTI


di Jacqueline Coignard
Articolo apparso su Libération del 2 marzo 2004

Ci siamo. Oggi pomeriggio, alle 14, l’intera giunta comu-


nale di Parigi uscirà dal municipio con la sciarpa tricolore
a tracolla, alla guida di un corteo che si porterà fin sotto il
tribunale della città, dove deve essere esaminata l’istanza
di scarcerazione presentata dai legali di Cesare Battisti.
Intanto si è appreso che già il 20 maggio 2003, dietro
pressione del governo italiano, il guardasigilli francese
aveva presentato al Procuratore generale una richiesta di
estradizione, concernente Battisti e altri due rifugiati. Il 4
dicembre 2003 il Procuratore aveva annunciato al ministe-
ro l’archiviazione della pratica.
Tuttavia non c’è da essere troppo ottimisti, visto l’acca-
nimento del governo francese su insistenza di quello italia-
no (sono di ieri le pressioni indebite esercitate in Francia
su uno dei promotori del manifesto dei 430 intellettuali,
poi saliti a 500).
Cesare Battisti è “posto sotto la protezione della Città di
Parigi”. Così ha deciso, ieri, il consiglio municipale per so-
stenere lo scrittore italiano, ex attivista degli “anni di
piombo”, rifugiato in Francia nel 1990 e incarcerato il 10
febbraio in attesa di una eventuale estradizione. “Noi do-
mandiamo che la Francia rispetti i suoi impegni passati;
che tutti gli altri rifugiati politici italiani, che beneficiano
degli stessi impegni, non siano estradati; che Cesare Batti-

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sti possa beneficiare della protezione della Città”, ha spie-


gato Christophe Caresche (PS). Tra il sarcasmo dell’oppo-
sizione: “Volete farlo dormire qui?”.
Jacques Bravo, sindaco socialista del IX Circondario, in
cui Battisti viveva, replica: “Gli eletti di Parigi vigileranno.
Ci mobiliteremo per analizzare e difendere questo caso”.
D’altronde, un appello a manifestare dal municipio al pa-
lazzo di giustizia di Parigi è stato lanciato per mercoledì,
nel momento in cui i giudici esamineranno la domanda di
scarcerazione di Battisti. Con l’occasione, Pierre Mansat
(PCF) rinfresca la memoria di certi consiglieri : “Nel 1996
Cesare Battisti fu invitato d’onore di Jean Tiberi e di Jean-
Jacques Aillagon, allora direttore degli Affari culturali del-
la città (entrambi di destra; oggi Aillagon è ministro della
Cultura, NdR), per un incontro sulla letteratura italiana”.
La sinistra parigina si ritiene alla testa di un movimento
per fare riconsiderare all’Italia le “proprie leggi di vendet-
ta” e prevedere un’amnistia per azioni politiche che risal-
gono a trent’anni fa.
Ieri, a Tolosa, una manifestazione per Battisti ha radu-
nato 300 persone.

(Da Carmilla On Line, 3.3.2004)

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2. IL CASO BATTISTI.
LA RIFLESSIONE

L’INCUBO BATTISTI
di Giuseppe Genna

Quanto sta succedendo in queste ore, in questi giorni a Ce-


sare Battisti è, e lo è con esattezza scientifica, quanto sta
accadendo in questi anni all’Italia e all’Europa: la minac-
cia realizzata della violazione del diritto in nome di una
dottrina superindividuale e astratta, elettorale e ipocrita,
che mostra il suo vero volto quando si attiva per maciulla-
re idee e corpi. A rischio di apparire generalista e massi-
malista, affermo: c’è una continuità – che nemmeno più è
inquietante – tra il caso Battisti, la deriva del Vecchio Con-
tinente e l’orrore perpetrato in Afghanistan e Iraq. Si tratta
di un medesimo ente saturnino, vòlto con sistematica pre-
determinazione a divorare non i figli suoi, ma i figli del-
l’uomo. La nonchalance con cui oggi, in Europa, si censu-
rano le idee in tv e sui giornali, si sistemano i conti in un
ok corral indecente e amorale, si scatenano conflitti pre-
ventivi e si compiono alla luce del sole crimini patenti –
questo è il paesaggio che chi si ritiene ancora umano è
chiamato oggi a modificare con forza e fatica. I nodi ven-
gono al pettine: e sono nodi di capelli di un cuoio strappa-
to a viva forza dai crani di chi pensa, di chi tenta di ricor-
dare e di ridiscutere il passato per aprire il futuro. Sono
enormi le conseguenze implicite che sprigionano dalla

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scelta del governo italiano di domandare l’estradizione di


Battisti: costringono tutti noi a verificare con mano chi so-
no le persone che si schierano – non, questa volta, per una
battaglia armata, ma per una battaglia di idee. Battaglia
che, come si nota in questi ultimi anni, non è che comporti
meno sangue delle precedenti. Il prezzo della lotta per il
pacifismo, i diritti dell’uomo e la libertà, che sia condotta
con la potenza delle idee e dei sentimenti oppure con altri
supporti, è un prezzo amaro e pesante. Eppure ciò non to-
glie che lo tsunami di speranza in Movimento che si sta
scatenando finisca per travolgere chi vi si oppone: dimo-
stra la storia dell’uomo che quando si spalanca una crepa
ideale, una frattura da cui il bene può scaturire, per una
legge superfisica il bene emerge. Da anni, questo è il pun-
to, si sta rifacendo la Rivoluzione Francese: ed è una Rivo-
luzione Francese planetaria. Sorprenderebbe se fosse la
Francia la prima nazione a sfilarsi da una simile Rivolu-
zione Francese.
Per quanto concerne l’Italia, è necessario superare il di-
sgusto emetico che provoca la condotta di un governo cie-
co e reazionario come l’attuale. Il comportamento di Ber-
lusconi e dei suoi è, una volta ancora, di una leggerezza
che sa di tragico, e fa parte di una precisa strategia di in-
nalzamento delle quote di conflitto e di ansia collettiva in-
terne al Paese. La soluzioncina, che soltanto un ragiunatt
brianteo poteva trovare geniale, di riaprire in questo modo
una falla devastante nell’autocoscienza di una nazione, è
una trovata degna di uno Scaramacai quale in effetti è il
coboldo governativo. Non si toccano in questo modo im-
morale i meccanismi di elaborazione storica, faticosissima
per l’Italia, di un decennio tragico come i Settanta: un pe-
riodo che si vorrebbe decontestualizzare dal periodo stes-
so, una guerra civile autentica che si vorrebbe fare passare
per scaramuccia tra serial killer splatter – come a tutti gli
effetti è stato dipinto dai media nazionali Cesare Battisti,
in questo caso vittima emblematica di un meccanismo di
stritolamento memoriale e politico.
Si badi bene: non è qui questione della colpevolezza ve-
ra o presunta (nel caso di Battisti, ben meno che presunta,
se nell’originale richiesta di estradizione gli sono stati ac-

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collati due omicidi, uno a Milano e uno a Venezia, avvenuti


nello spazio di mezz’ora...). Qui è in gioco una questione
enorme, che non è mai slittata fuori dal consorzio civile ita-
liano. La stagione di piombo non ha schiacciato o segnato
una generazione soltanto: in realtà non ha mai smesso di
condizionare la vita nazionale. Se pensiamo allo spaurac-
chio rosso, agitato nel perenne periodo pre-elettorale che
Berlusconi ha imposto alla vita politica del Paese, osservia-
mo come il proprietario di Mediaset abbia preordinata-
mente evocato, più che i rigori russi dello stalinismo, il bri-
vido eversivo che fece tremare la borghesia italiana. Una
borghesia, tra l’altro, che rientra negli obbiettivi dell’attuale
governo italiano impoverire fino alla cancellazione. La pre-
senza dei rifugiati a Parigi è sempre stata avvertita come
minaccia memoriale costante, come spada di Damocle sul-
la testa di ogni coalizione politica. Sopita al di là delle Alpi,
questa minaccia non cessava di allarmare i sonni dei poten-
ti transeunti del Belpaese. A nulla è valso l’obnubilamento
degli Ottanta, quando si è cercato di fare bere più di una
città agli italiani. A niente ha condotto la stagione del giu-
stizialismo che ha figliato, come ogni parto giustizialista,
un reazionariato che biascica dialetto lombardo.
Io penso che la questione dei postumi del terrorismo e
della rivolta di massa italiana sia un fenomeno unico in
Europa e che non sia stata risolta; penso che non tocchi
semplicemente una componente ideologica di sinistra, ma
anche personaggi di destra, il che non significa che spero
in una soluzione a base di tarallucci Mulino Bianco e vino
all’etanolo; penso che si sia tentata oltre ogni limite una
politica di imposizione dei processi di rimozione colletti-
va, cosa che presupporrebbe una condizionabilità del
mondo e della storia e dell’uomo, il che è opera non soltan-
to impossibile, ma criminale; penso che questo tentativo di
imporre la rimozione a un’intera collettività sia stata effet-
tuata attraverso strategie consapevoli di condizionamento
psichico, attraverso l’inoculazione di un virus sottocultu-
rale che ha il suo apice nel berlusconismo di massa; penso
che pochissimi ma spettacolari elementi umani della gene-
razione che fece i Settanta dovrebbero vergognarsi, non
semplicemente per l’abiura compiuta verso una prospetti-

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va storica che praticarono, ma per l’incredibile e strenua


opera di conversione al potere costituito da nessuno, che li
ha incoronati re per un giorno e piazzati su troni di carta-
pesta e cartastampata; penso che costoro, ben lungi dal-
l’essere memoria storica di un passato che non passa an-
che senza di loro, costituiscano un ostacolo di abnorme
entità sulla strada della rielaborazione di ciò che fu e ciò
che non fu; penso che l’attuale classe dirigente sia emersa
non dalla reazione ai fatti recenti di una bufala rivoluzio-
naria condotta nelle aule di tribunale, bensì dall’impossibi-
lità di affrontare criticamente lo spettro degli anni Settan-
ta; e penso che le nuove generazioni si siano rotte i coglio-
ni di osservare inermi questa incredibile messa in abisso di
una questione che non è sovrastorica, ma storica, e che co-
me tale è naturale che sia metabolizzata.
Per l’appunto, io faccio parte della generazione che, ai
tempi, giocava a pallone ai giardinetti. La stessa generazione
che però ricorda bene il volto impietrito della madre quando
fu ritrovato il cadavere di Moro e ascoltò le parole disanima-
te: “Qui finisce un decennio, adesso arriveranno i carrarmati
per strada”. La madre che non intuiva che i carrarmati non
sarebbero giunti in strada, ma nell’etere, è uno dei legami
più veri e vivi che gli attuali trentenni mantengono con una
stagione che vissero non da adulti, ma da bambini, con il
portato di un’innocenza scevra da croste ideologiche, capace
di osservare le storie di sangue con un terrore lontano da
ogni aspettativa, per quello che erano: storie di sangue.
Penso che quell’innocenza bambina, non disgiunta dal-
la vita della storia che si fece e che continua a farsi, sia og-
gi la premessa necessaria per arrivare presto a quanto arri-
veremo: sciogliere il nodo, non tagliarlo. È la medesima
premessa che mi fa vergognare di essere italiano quando
l’Italia fa in modo che si vada a prelevare Cesare Battisti e
lo si traduca in carcere, per un’attesa kafkiana che riguar-
da non soltanto il suo destino, ma quello di tutti noi. E poi-
ché il destino è soltanto il presente, si intende qui che quel-
l’incubo in cui hanno gettato Battisti è l’incubo del mio e
del nostro presente.

(Da Carmilla On Line, 14.2.2004)

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TRE PASSI NEL DELIRIO (DEI DELITTI E DELLE PENE)


di Girolamo De Michele

Girolamo De Michele è autore di Tiri mancini. Walter Benja-


min e la critica italiana (Mimesis, 2000), Felicità e storia
(Quodlibet, 2001), e numerose voci filosofiche dell’enciclope-
dia multimediale Encyclomedia e di diversi saggi sul pensiero
filosofico contemporaneo. È anche coautore (assieme a Um-
berto Eco) di una storia del concetto di Bellezza in Cd-rom
(Opera Multimedia). Ha curato un volume su Deleuze (Gilles
Deleuze. Una piccola officina di concetti, Discipline filosofi-
che 1, 1998), l’edizione italiana di Michael Hardt, Gilles Deleu-
ze, Un apprendistato in filosofia (a/change, 2000) e un inedito
di Èlie Wiesel (La memoria e l’oblio, in “arcipelago” 4, 1999).
Nei primi mesi del 2004 Einaudi Stile Libero darà alle stampe
il suo primo romanzo, Tre uomini paradossali.

Proviamo a fare non uno, ma tre passi oltre l’immediata


emotività che si è espressa nella mobilitazione seguita al-
l’arresto di Cesare Battisti. Tre passi, cioè tre aspetti che bi-
sogna saper disgiungere entro la complessità umana, trop-
po umana della vita di Cesare. Ma soprattutto: tre diversi
compiti, tre campagne che dobbiamo avere il coraggio di
osare, a partire dalle agende politiche del movimento sin
dalle assemblee preparatorie della giornata del 20 marzo,
perché anche questa è guerra interna.
In primo luogo, va denunciato il carattere odiosamente
vendicativo della “campagna acquisti” in atto da parte del
ministro Castelli tra i rifugiati politici italiani, iniziata il gior-
no in cui Castelli si recò in Francia con una lista di 12 “sov-
versivi” (tra i quali Persichetti e Battisti). Vale la pena di ram-
mentare che i réfugiés sono in Francia per effetto di un con-
tratto morale siglato tra loro e lo Stato francese ai tempi di
Mitterrand, contratto al quale si era attenuto, in nome della
continuità dello Stato attraverso il mutare dei governi, lo
stesso Chirac quando divenne capo del governo.
Persichetti, Battisti e compagni sono oggetto di una
vendetta assolutamente gratuita (cos’hanno da aggiungere
a ciò che già sappiamo alla ricostruzione degli anni ‘70?), e
il loro eventuale “pentimento” sarebbe null’altro che un’a-

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biura inquisitoria, a uso e consumo del compiacimento dei


suppliziatori; laddove i vari stragisti sono depositari delle
pagine più nere della nostra storia, e uomini e istituti/isti-
tuzioni che il loro silenzio copre sono tuttora attivi, sem-
pre ben radicati nella società illegale.
Castelli, va sempre tenuto a mente, è il ministro che vi-
sitò Bolzaneto nella notte delle torture; è l’uomo che ha in-
consciamente rivelato il suo odio di classe nel paragonare i
torturati di Bolzaneto agli operai della sua fabbrica (“esse-
re costretti a restare in piedi per alcune ore non è tortura:
nella mia fabbrica gli operai sono abituati a lavorare in
piedi otto ore senza lamentarsi”, dichiarò più o meno in
questi termini in Parlamento). Questo spirito vendicativo è
tanto più pericoloso in quanto non è indirizzato verso un
soggetto sociale (la “classe antagonista”), ma è un residuo
allucinatorio, la persistenza di una memoria malata che,
come un orologio molle, cola giù su qualunque individuo
abbia la ventura di richiamare, come un distorto déjà vu,
le forme fordiste dell’antagonismo: tanto più pericoloso in
quanto il bisogno di emergenza che esso rivela può colpire
in modo indiscriminato.
In secondo luogo, dobbiamo avere la capacità di prati-
care il terreno giuridico, di fare critica del diritto anche at-
traverso l’uso dei suoi strumenti formali.
Lo status giuridico di Cesare Battisti è quello di un lati-
tante condannato in contumacia a due ergastoli, commi-
natigli in misura della sua asserita colpevolezza rispetto a
tutti i reati attribuiti ai Proletari Armati per il Comunismo.
Com’è noto, Cesare non si è difeso in tribunale, ma ha pra-
ticato l’evasione (il che lo renderebbe inestradabile, giac-
ché la Francia non riconosce la validità delle condanne in
contumacia). Il punto è proprio questo: evadendo, Battisti
scelse di non difendersi perché le condizioni processuali
oggettive lo rendevano impotente a fronte delle dichiara-
zioni dei pentiti.
È necessario ricordare che la gestione dei pentiti a Mi-
lano è stata particolarmente vendicativa e spesso ai margi-
ni della “legalità”? Ora, è un fatto che il diritto penale – in
modo esplicito dall’entrata in vigore del rito accusatorio –
ha per oggetto il verosimile, ricostruito in base all’evidenza

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della prova, afferente alle singole persone, e non il giudizio


politico complessivo (dal quale, via pentiti, alcuni giudici
deducevano, applicando il rito inquisitorio, la colpevolez-
za dei singoli, spesso privilegiando le cosiddette “figure di
confine” tra legalità e illegalità). E dunque sarebbe impor-
tante ricostruire con precisione la sua vicenda processua-
le, per dimostrare che, da un punto di vista puramente giu-
diziario, le violazioni delle più elementari norme a tutela
del diritto di difesa rendono di fatto inaccertabili i reali li-
velli giuridici di responsabilità, indipendentemente dagli
specifici eventi attribuibili a Battisti.
Qui non parlo solo di alcune palesi incongruità dell’ori-
ginaria domanda di estradizione – come faceva Cesare ad
essere nell’arco di mezz’ora a Milano e a Mestre? Parlo del
fatto che, a fronte della illusoria pretesa che il diritto com-
porti un’opzione secca tra innocenza e colpevolezza, esiste
un’area di indecidibilità, nella quale si trovano quelli che
George Boole, il fondatore della logica binaria (1=vero,
0=falso) chiamava “residui indefiniti”: traducendo la logi-
ca di Boole in quella processuale, nel determinare di quan-
te accuse Cesare è colpevole non è possibile discernere tra
nessuna, alcune e tutte.
La cosa non deve sembrare bizzarra, perché è usuale nei
processi americani: basterà rammentare il “caso O.J. Sim-
pson”, o il proscioglimento dei fondatori dell’organizzazio-
ne armata dei Weathermen: questi imputati sono non-pro-
cessabili, e dunque a piede libero, perché le prove a loro ca-
rico furono raccolte violando il diritto di difesa, e dunque le
accuse loro rivolte si rivelano indecidibili. Ebbene, è proprio
quello che avviene se trasliamo la rilevanza processuale del
pentito dal rito inquisitorio (dove la sua parola era legge, an-
che in assenza del dichiarante in aula) al rito accusatorio
(nel quale al dichiarante è richiesto di fornire prove certe e
ostensibili a sostegno delle sue accuse).
Oggi, riaprendo molti processi per “banda armata” o
“terrorismo”, molte condanne si tramuterebbero in assolu-
zioni: questa constatazione non è inficiabile dal principio
che non si può processare due volte per lo stesso reato un
imputato (ma questo principio deve valere anche per l’esa-
me della richiesta di estradizione di Cesare). Non si tratta

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di riaprire i processi, ma di appalesare l’illogicità rebus sic


stantibus di molte posizioni giudiziarie, magari per reim-
postare in modo più attento e giuridicamente sensato una
campagna per l’uscita dai cosiddetti “anni di piombo”.
Vengo al terzo punto. A partire da una contraddizione
interna al diritto, che va allargata dalla critica materialisti-
ca: la contraddizione tra la certezza del diritto (che impo-
ne la punibilità, anche temporalmente differita, del delit-
to) e lo scopo della pena, che è la “riabilitazione” del reo.
A costo di essere realisti sino al cinismo: che finalità
(una volta esclusa quella emergenziale di usare la pena
come grimaldello per ottenere una confessione utile alle
successive indagini) ha condannare un individuo che ha
vissuto una vita palesemente difforme dal reato commes-
so per un quarto di secolo or sono, praticando una solu-
zione di continuità di spessore esistenziale? E dove va a fi-
nire l’uguaglianza formale degli uomini davanti alla legge,
se alle elezioni abbiamo visto e vedremo candidarsi no-
stalgici e inquisiti eccellenti che i complessi disegni del di-
ritto rendono “non punibili” per rispettabilissime alchi-
mie procedurali – ma pur sempre pervicacemente intenti
a condurre dubbie politiche, senza soluzione di conti-
nuità, mentre altri come Cesare Battisti hanno, come al-
ternativa esistenziale, la galera o una stentata vita ai mar-
gini della miseria? Hic Rhodus…

(Da Carmilla On Line,16.2.2004)

CESARE BATTISTI E LE LIBERTÀ IN ITALIA


di Wu Ming 1

“La vera questione politica posta dal terrorismo è sì sapere


come vi si entra, ma soprattutto come se ne esce.”
François Mitterrand, 1985

“È noto che io sono per l’indulto. È una cosa notoria. È co-


me chiedermi: ma lei ha i capelli bianchi? Certo. Sarei sta-
to favorevole anche all’amnistia.”
Francesco Cossiga, “La Repubblica”, 31/07/1997

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“Purtroppo ogni tentativo mio e di altri colleghi della de-


stra o della sinistra di far approvare una legge di amnistia
e di indulto si è scontrato soprattutto con l’opposizione del
mondo politico che fa capo all’ex-partito comunista.”
Francesco Cossiga, lettera a Paolo Persichetti, s.d. [2002]

L’appello per la liberazione di Cesare Battisti, arrestato a Pa-


rigi il 10 febbraio scorso, ha avuto in pochi giorni un sor-
prendente numero di adesioni. La sera di domenica 15 si
era a quota 1360. Scrittori, registi, produttori cinematogra-
fici, deputati, docenti universitari, giornalisti, addirittura
missionari, e “semplici” cittadini/e hanno voluto esprimere
la loro solidarietà.
Oltre a questo appello ne esistono altri, in italiano e so-
prattutto in francese, uno dei quali ha raccolto molte migliaia
di firme. C’è anche una lettera aperta al Presidente Jacques
Chirac, firmata da alcuni scrittori. A Parigi è tutto un vortica-
re di iniziative, assemblee, conferenze stampa, e oggi (16 feb-
braio) c’è stata una manifestazione (non autorizzata) di fron-
te alla Santé. Quattro deputati (tre verdi e il trotzkista Alain
Krivine) sono entrati e hanno chiesto di parlare con Cesare. Il
ministro della giustizia Dominique Perben ha dato ordine di
impedirglielo, cosa che pare essere illegale.
Per tornare in Italia, la casa editrice DeriveApprodi ha
mandato in ristampa il romanzo di Battisti L’ultimo sparo,
pubblicato nel 1998, e devolverà tutti i proventi alla difesa
legale. Credo che tutti gli editori solidali con Cesare do-
vrebbero acquisire i diritti dei suoi libri non ancora pub-
blicati in Italia, o pubblicati ma fuori catalogo, e mandarli
in libreria con la stessa clausola.
L’esame della situazione di Cesare da parte della magi-
stratura francese sarà più lungo di quanto ci s’immaginava.
Il problema principale è che, se il 3 marzo non dovesse esse-
re accolta la domanda di libertà provvisoria presentata dai
suoi avvocati, questo periodo lo trascorrerà tutto in galera.

Nei giorni scorsi, qualcuno ha espresso legittimi dubbi e


perplessità su questo caso e sull’ appello. Qualcuno altro
ha detto e scritto vere e proprie idiozie, frutto di incancre-

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nimento ideologico e/o disinformazione sui temi dell’e-


mergenza e della giustizia. Con questo articolo vorrei met-
tere le cose in prospettiva per quanto mi è possibile, con-
tribuire a fare chiarezza, senza il pesante linguaggio ideo-
logico solitamente utilizzato per discutere di questi temi.
Per prima cosa farò un breve compendio della “Dottri-
na Mitterrand” e della situazione dei rifugiati italiani in
Francia; dopo qualche cenno sul contesto in cui Cesare
Battisti fu processato e condannato, descriverò il contesto
di oggi, quello del nuovo “allarme terrorismo”, passando
brevemente in rassegna alcune bufale propinateci dopo
l’11 Settembre; nel paragrafo successivo cercherò di ri-
spondere ai dubbi suscitati dall’appello, infine chiuderò
con un personalissimo commento sullo stato delle libertà
nel nostro Paese.
È un compito che reputo urgente ma che non è facile.
Spero mi verranno perdonati i tagli con l’accetta e le inevi-
tabili sbavature.

1. La “Dottrina Mitterrand” fino all’arresto di Persichetti

Nel 1984 viene ufficializzata la cosiddetta “Dottrina Mit-


terrand” (espressione imprecisa ma largamente utilizzata)
sui rifugiati politici italiani. Più di un centinaio di reduci
degli “anni di piombo” ottengono il permesso di restare in
Francia. In cambio devono rendersi visibili alle autorità e
rinunciare in modo inequivoco alla violenza politica. L’e-
splicito intento dello stato francese è concedere a costoro
una via d’uscita dalla clandestinità, ma è altrettanto deter-
minante il fatto che le autorità italiane presentino dossier
raffazzonati e lacunosi. Caso dopo caso, si fa evidente che
quelle persone hanno subito processi (basati sulle leggi
d’emergenza del periodo 1975-82) che il diritto francese
considera iniqui.
Per la comunità dei rifugiati, questa differenza di cultu-
ra giuridica diverrà un secondo livello di tutela, anche a
prescindere dalla “Dottrina Mitterrand”.
La Francia non va idealizzata, sia ben chiaro, però là
non esistono bizzarre fattispecie di reato come “concorso

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morale” o “compartecipazione psichica”. Al contrario, gli


italiani sono abituati alla violazione di uno dei più antichi
princìpi del diritto: “Cogitationis poenam nemo patitur”
[Non si punisca nessuno per il pensiero].
Il codice penale francese, a differenza di quello italiano,
non prevede uno sparverso di reati associativi distinti solo
da trucchetti semantici che significano diversi anni di ga-
lera in più o in meno. Eclatante l’esempio degli artt. 270 e
270 bis, rispettivamente “associazione sovversiva” e “asso-
ciazione sovversiva con finalità di terrorismo e di eversio-
ne dell’ordine democratico”. La descrizione del reato è
praticamente identica, solo che nel primo caso rischi da 5
a 12 anni, nel secondo da 7 a 15. Un lascito della legge
n.15, 6/02/1980, meglio nota come “Legge Cossiga”.
In Francia è ben raro condannare un imputato in base alle
dichiarazioni di un solo testimone. In Italia, invece, è consue-
tudine: tutti i processi del caso “7 Aprile” erano costruiti sulle
deposizioni di Carlo Fioroni; le condanne a Sofri, Bompressi
e Pietrostefani sono basate sulla chiamata in correità di Leo-
nardo Marino. Una sola persona che accusa è ritenuta più
credibile di decine di testimoni che scagionano.1
Infine in Francia, come accade in tutti i paesi europei e
come è previsto dalla Convenzione Europea sui diritti
umani del 1954, una condanna in contumacia non può di-
ventare definitiva. Se un condannato in contumacia si pre-
senta o viene catturato, la sentenza è annullata e il proces-
so si rifà in sua presenza.
Di contro, la prassi giudiziaria italiana in materia di
contumacia è in totale dispregio del principio romano “Ne
absens damnetur” [“Non si condanni un assente”]. La Cor-
te Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, la Corte
Costituzionale italiana e la Corte di Cassazione (a sezioni

1
. Ecco altre due caratteristiche tipiche del nostro sistema giudizia-
rio/mediatico: la prima è l’inversione dell’onere della prova, ovvero non
è lo Stato che deve dimostrare la tua colpevolezza, sei tu che devi prova-
re la tua innocenza; la seconda è l’escrescere dei “pentitismi”, delle dela-
zioni, delle chiamate di correo, dei “super-testimoni”. Il lavoro d’indagi-
ne viene quasi interamente sostituito dalle rivelazioni del tale o del tal
altro, sostituzione che si è fatta sistema con la legge sui pentiti del 1982
ed è oggi considerata naturale.

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unite) hanno chiesto alla magistratura di rispettare la Con-


venzione Europea, che in teoria lo Stato italiano ha recepi-
to con la legge n.848 del 4/8/1955. I tribunali ignorano que-
sta richiesta, e continuano a pronunciare condanne defini-
tive in contumacia. Secondo il giornalista Stefano Surace,
anch’egli vittima di questa prassi, in Italia sono 5000 i de-
tenuti condannati in questo modo.2
Tornando alla Francia: per diciotto anni non vi sono
estradizioni, fino all’agosto 2002, quando Paolo Persichetti
viene arrestato e rimpatriato, in base a un decreto d’esradi-
zione firmato nel 1994 dall’allora primo ministro Edouard
Balladur. È il segnale di un cambio di fase. Il guardasigilli
Perben dichiara che d’ora in avanti le vicende dei rifugiati
italiani saranno valutate caso per caso.

2. Dare a Cesare quel che è di Cesare

L’enfasi posta dal diritto penale italiano sui reati associati-


vi (e in particolare sulla “fattispecie terroristica”) ha spes-
so portato i Pm a ignorare le responsabilità individuali in
fatti concreti, che hanno via via perso importanza a van-
taggio del “fine ultimo”. Talvolta si è processata prima l’i-
deologia degli imputati, vera base della “fattispecie terro-
ristica”, e in seconda battuta i reati specifici di cui erano
accusati.
A memoria di questa tendenza, andrebbe scolpita nel
marmo una dichiarazione di un giudice istruttore del pro-
cesso “7 Aprile” (spezzone romano), rilasciata al “Corriere
della Sera” il 27/5/1979: “Stiamo cercando di ricostruire il
percorso ideologico che ha portato l’imputato a commette-
re i gravissimi reati di cui è accusato... L’imputato non si è

2
. Nel 2002 Stefano Surace, sessantanovenne, fu arrestato e incarce-
rato a causa di tre condanne per oscenità risalenti a più di trent’anni pri-
ma, quando dirigeva la rivista “Le Ore”. Surace non sapeva nulla di quei
processi, si era trasferito in Francia ed era stato condannato in contu-
macia. Al suo ritorno in Italia fu arrestato. La vicenda fece un certo scal-
pore, per ottenerne la liberazione si mossero la FNSI e Reporters Sans
Frontières.

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ancora accorto di questo e continua ad attendersi che gli


venga contestato un fatto preciso”.
Il 5 luglio dello stesso anno, sullo stesso giornale si po-
teva leggere un’intervista al giudice, titolare dello “spezzo-
ne veneto” dello stesso processo, in cui il magistrato defi-
niva “ingenuo e sbagliato” pretendere “prove di fatti terro-
ristici specifici”.
Tra l’altro, questo ha portato alla progressiva scompar-
sa di reati intermedi come il “favoreggiamento”: si è tutti
terroristi e basta.
Con un clima del genere, era prassi quotidiana che a un
imputato fossero attribuiti tutti i crimini commessi dal grup-
po di cui faceva parte, anche quando circostanze oggettive
ne rendevano impossibile la presenza e partecipazione.
Successe anche a Cesare Battisti, condannato per vari
omicidi, due dei quali avvenuti lo stesso giorno a Milano e
Venezia.
Per tali reati, dei quali si proclama innocente, fu con-
dannato in contumacia con sentenza definitiva. Soprattut-
to per questo il 29 maggio del 1991 la Chambre de Accusa-
tion di Parigi si oppose all’estradizione, in quanto contra-
ria alla Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Poiché il governo italiano non ha presentato nessun
nuovo documento, di fatto l’arresto, la carcerazione e il
nuovo riesame della situazione di Battisti violano un prin-
cipio che sta molto a cuore ai francesi: non si può essere
processati due volte per lo stesso reato, cosa che in questi
giorni hanno fatto notare anche il Syndicat de la Magistra-
ture e il Syndicat des Avocats de France.

3. DAI PACCHI-BOMBA AI BOMBAROLI-PACCO

Il ministro degli interni Pisanu ha definito l’arresto di Bat-


tisti “un ulteriore significativo passo in avanti nella lotta al
terrorismo”.
Stiamo parlando di un uomo che ha abbandonato la
lotta armata e da più di vent’anni non commette alcun rea-
to. Nel frattempo, non solo è rimasto perfettamente visibi-
le e reperibile da chiunque, vivendo alla luce del sole e la-

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vorando come portinaio di un condominio, ma è addirittu-


ra divenuto un personaggio pubblico, uno scrittore che la-
vora con prestigiose istituzioni culturali e i cui libri sono
pubblicati da grossi editori.
Stiamo parlando di una persona il cui rimpatrio non
aggiungerebbe alcunché alla nostra comprensione della
lotta armata degli anni Settanta.
Aver messo le mani su questa persona viene spacciato
come una brillante operazione anti-terrorismo.
Anche l’estradizione di Persichetti fu presentata come
un eroico blitz o un’operazione da 007. La realtà era ben
diversa: Persichetti era docente a contratto all’Università
di Paris VIII, i suoi orari di lezione e ricevimento erano ap-
pesi in bacheca e disponibili sul sito web dell’ateneo. Non
era poi difficile “scovarlo”.
Purtroppo, dopo l’11 Settembre e il nefasto ritorno delle
“nuove BR”, in nome dell’allarme-terrorismo si può propi-
nare all’opinione pubblica qualunque cazzata, anche ma-
dornale.
Negli USA l’isteria sul terrorismo ha portato a leggi di
abnorme liberticidio come il Patriot Act o l’Homeland Se-
curity Act, e a inviti ridicoli alla popolazione, come quello
a sigillare gli infissi delle case con nastro isolante per far
fronte a possibili attentati chimici.4
In Italia, oltre alle farse mediatiche e alle storie di ma-
nette facili, è partita una grande seduta spiritica per evoca-
re i fantasmi del passato.
Ai movimenti è stato imposto un dibattito senza capo né
coda su violenza e non-violenza, le contiguità tra lotte sociali e
terrorismo, la presa di distanza dai pacchi-bomba (come se la
distanza non fosse già oggettiva e ben evidente). Trappola reto-
rica in cui il ceto politico “no global” è caduto a faccia in giù,
quando proprio non ci si è buttato con un’incudine al collo.
Il già citato art. 270 bis figura negli avvisi di garanzia
consegnati dalle Alpi alla Sicilia a occupanti di centri so-

. Quello del nastro isolante era un consiglio dell’amministrazione


3

Bush. Poi si è scoperto che la più grande ditta produttrice di nastro iso-
lante negli Stati Uniti aveva contribuito alla campagna elettorale repub-
blicana. Cfr. www.thenation.com/doc.mhtml?i=20030331&s=drmarc

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ciali, sindacalisti di base, attivisti anti-guerra e reduci dalle


manifestazioni anti-G8 di Genova.4
Sul versante della caccia al terrorista islamico, abbia-
mo assistito a ripetute campagne d’allerta su attentati dati
per imminenti, per poi scoprire che non avevano alcun
fondamento.5
Altrettanto gravi sono i numerosi casi di “mostrificazione”
dei musulmani, gente sbattuta al fresco e sui Tg di prima se-
rata sulla base di indizi inconsistenti, in seguito (quando gli è
andata bene) liberata senza clamore e senza una scusa.
A Bologna, il 20 agosto 2002, cinque persone vengono
arrestate all’interno della basilica di S. Petronio, in Piazza
Maggiore. Secondo la Procura, stavano facendo un sopral-
luogo per preparare un attentato. Il reato di cui sono accu-
sati è il solito 270 bis. Acriticamente, i media amplificano
la notizia. Il “Corriere della Sera”, infischiandosene della
presunzione d’innocenza, titola: “Al Qaeda voleva colpire a
Bologna. Piano per un attentato alla basilica di San Petro-
nio sventato da un’operazione dei carabinieri. Nel mirino
l’affresco con Maometto all’Inferno”.
Ma chi sono gli arrestati? Si tratta di un professore ita-
liano e quattro cittadini marocchini, in visita turistica a
Bologna, entrati in S. Petronio con una videocamera e sor-
presi a chiacchierare in arabo davanti al famoso affresco,
che per i musulmani è altamente blasfemo. Del resto, co-
me reagirebbe Baget Bozzo se gli arabi scrivessero “Dio la-
dro” a caratteri cubitali sui muri delle moschee?
In meno di ventiquattr’ore, per fortuna, la vicenda si
sgonfia. L’equivoco è chiarito, i cinque vengono scarcerati,
la Procura di Bologna e i media (locali e nazionali) hanno
fatto una gran figura di merda, ma tanto verrà dimenticata
nel giro di pochi giorni.
È solo un piccolo preludio alla grande demonizzazione
dei musulmani in Italia.

. Cfr. l’arresto di alcuni militanti di Cosenza e Taranto nel novembre


4

2002, storia raccontata da Claudio Dionesalvi nel suo libro Mammagial-


la, Rubbettino, Cosenza 2003.
5
. Cfr. www.repubblica.it/2003/k/sezioni/cronaca/terroita/bodava/bo-
dava.html.

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Nei due anni successivi, a orientare le indagini dell’Anti-


terrorismo sarà il mito della “cellula terroristica in sonno”,
cioè non attiva ma pronta a diventarlo (il famoso reato “a
consumazione anticipata”).
Le indagini sono nutrite di cultura del sospetto e interpre-
tazioni capziose al limite del paranoico. Come nei giorni del
“7 Aprile” e dintorni, una conversazione telefonica in arabo
su una partita di calcio diventa un messaggio in codice su un
attentato da preparare in Germania. Comunissime espres-
sioni idiomatiche arabe diventano inquietanti squarci su esi-
stenze clandestine. Sulla confusione tra un verbo e un altro
si costruiscono altissimi castelli di carte.
Tutto queste emerge nel processo di Milano contro i
membri della moschea di Viale Jenner, sospettati di legami
con Al Qaeda. Certo, si tratta di appartenenti all’Islam ra-
dicale, ma di per sé non è un reato. Alla spinosa questione,
Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo dedicano un pezzo ap-
parso su “La Repubblica” del 27 gennaio scorso, dal titolo:
“Quando la caccia ad Al Qaeda mette a rischio lo stato di
diritto”. È una presa di posizione importante, dato che sul
loro stesso giornale ha scritto per molto tempo Magdi Al-
lam, i cui articoli e libri criminalizzanti hanno contribuito
non poco a diffondere la peggior cultura del sospetto.6
L’articolo include una dichiarazione virgolettata di Ren-
zo Guolo, studioso dei fondamentalismi contemporanei:
“È problematico provare che proselitismo e propaganda
ideologica si traducono automaticamente in favoreggia-
mento delle organizzazioni terroristiche. La distinzione
tra l’appartenenza all’Islam radicale o alla sua ala jihadista
è spesso sottile, ma paradossalmente coincide con quella
che separa i reati d’opinione da quelli di terrorismo”.7
Cogitationis poenam nemo patitur, appunto.

. L’unica opera di controinformazione su Magdi Allam è la memora-


6

bile serie di articoli “Il Pinocchio d’Egitto”, scritti da Valerio Evangelisti


nella prima fase della guerra in Iraq e pubblicati su carmillaonline.com:
www.carmillaonline.com/cgi-bin/mt-search.cgi?IncludeBlogs=2&sear-
ch=Magdi+Allam
7
. L’articolo si trova qui in formato pdf: www.difesa.it/ministro/rasse-
gna/2004/gennaio/040127/56dq0.pdf

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Pochi giorni fa, il 12 febbraio scorso, all’aeroporto di


Venezia viene bloccato un volo Alitalia per Roma. Motivo?
A bordo c’è un passeggero di cittadinanza irachena. Un
terrorista iracheno? No, un iracheno e basta. Volo ritarda-
to di due ore, tutti scesi, si passa il metal detector mentre
la polizia interroga il sospetto (ma sospetto in base a che?)
e gli perquisisce i bagagli, già passati al check-in senza
problemi. Risultato: il tizio è un rifugiato politico residen-
te in Norvegia, che ha un appuntamento all’ambasciata
turca di Roma per ottenere un visto.8
Che l’allarme terrorismo sia il più delle volte esagerato
pare rivelarlo un fatto recentissimo: i famosi Nuclei Terri-
toriali Antimperialisti (banda armata attiva nel Nord-Est
su cui si indagava dalla metà degli anni Novanta) in realtà
non sarebbero mai esistiti. Tutto un bluff portato avanti da
un ex-giornalista di destra un po’ mitomane, tale Luca
Razza, 36 anni, nel 1998 candidato alle amministrative del
comune di Udine nella lista di “SOS Italia”, piccolo movi-
mento filo-Haider. Aveva preso un unico voto. Presumibil-
mente il suo.
E i documenti degli NTA? Copia-e-incolla da articoli di
giornale e vecchie “risoluzioni strategiche” delle BR trova-
te sul web. Gli attentati? Roba da ladri di polli: qualche
auto incendiata e poco più. Razza avrebbe anche rivendi-
cato azioni non compiute da lui, ad esempio facendo una
telefonata dopo l’omicidio Biagi. “Ho iniziato a scrivere
quei documenti per fare uscire il mio disagio e la mia rab-
bia. Anche professionale: mi piace molto scrivere, è la mia
passione, e nel 1992 sono stato allontanato da un quoti-
diano dove lavoravo come giornalista pubblicista. [...] Ho
fatto tutto questo senza intenzione di uccidere alcuno e
senza volontà di eversione dell’ ordinamento”. Una bella
sequenza di “scherzi” per i quali lo avrebbero aiutato due
burloni amici suoi.
Nel bel mezzo di tutto ciò, l’arresto di Battisti viene de-
finito “un ulteriore significativo passo in avanti...” ecc.

8
. Cfr. www.repubblica.it/2004/b/sezioni/cronaca/islammilano2/vene-
zia/venezia.html

57
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4. L’appello, le reazioni, la “soluzione politica”

Secondo alcuni che si atteggiano a lucidi strateghi della


realpolitik, non sarebbe il momento di criticare il sistema
giudiziario, perché la priorità è liberarsi di Berlusconi, e
oggi il “garantismo” è strumentalizzato dal governo e dob-
biamo distinguerci e così via.
Per prima cosa, quello del governo non è garantismo.
Certo, questa destra cerca di depenalizzare una ristretta ti-
pologia di reati commessi solo dai ricchi, nascondendo il
privilegio di classe e l’indole golpista dietro una caricatura
di garantismo. Al contempo, però, impone a tutti gli altri
leggi autoritarie e liberticide sulle droghe, sull’immigrazio-
ne, sui diritti dei lavoratori, sulla fecondazione assistita,
sui manicomi, sugli orari dei locali pubblici e chi più ne ha
più ne metta. Vorrebbero addirittura vietare ai bambini
sotto gli undici anni di partecipare a manifestazioni (“fatta
eccezione per le udienze papali”).9
Non va dimenticato che mentre Lorsignori ingaggiava-
no un braccio di ferro con la magistratura sulle questioni
che li toccavano direttamente, non hanno mai smesso di
comportarsi da partito d’ordine: se ne fottono se le carceri
scoppiano (facendosi scavalcare “a sinistra” da Wojtila:
forse dovrebbero vietare ai bambini anche le udienze pa-
pali); non vogliono dare la grazia a nessuno; fanno sparare
sui manifestanti...
Al rimpatrio coatto dei rifugiati a Parigi sembra tenerci
particolarmente il ministro Castelli, bell’esempio di “ga-
rantista”, che ha affrontato più volte il problema col colle-
ga Perben. Ci tiene perché vuole utilizzare le estradizioni
nel clima di allarme descritto al paragrafo precedente.
Non c’è dunque nessuna contraddizione tra la lotta contro
le estradizioni e per il superamento dell’emergenza, e la
lotta contro questo governo che strumentalizza le paure
della gente per negare i diritti fondamentali.

9
. Da “Panorama” del 4/2/2004: “La parlamentare Alessandra Musso-
lini è assolutamente contraria a una proposta ‘che’ sostiene ‘dà un’im-
magine deteriore della politica, la politica è importante, fa parte della vi-
ta, io stessa da piccola leggevo il quotidiano anziché Topolino’.

58
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In secondo luogo, è vero che la priorità è detronizzare


l’Unto, ma se per farlo si deve imporre un nuovo Pensiero
Unico sulla magistratura, intesa come casta d’eroi da vene-
rare e a cui dare sempre e solo ragione, si passa da un au-
toritarismo all’altro, dal messianesimo forzitaliota al mes-
sianesimo giudiziario, senza superare l’emergenza e ben
lontani dal risolvere i problemi del nostro ordinamento,
anzi, quasi certamente aggravandoli.
Aggiungo che, parlando delle leggi speciali, non possia-
mo tacere sulle gravi responsabilità del PCI, che appoggiò
con entusiasmo – e talora addirittura propose – le misure
più autoritarie. Allo stesso modo non possiamo tacere sul-
le responsabilità dei suoi eredi, prima PDS poi DS, che negli
ultimi vent’anni non hanno fatto né assecondato un solo
passo per uscire dalla cultura dell’emergenza e chiudere
quella pagina di storia. Anzi, a più riprese e su diversi temi
i DS si sono presentati come il campione dei partiti d’ordi-
ne, invariabilmente “più realisti del re”, anche per paura di
essere lasciati “fuori dalla modernità”. Brrrrrr...
Insomma, lottare contro la destra non può significare
mettersi la mordacchia e non criticare più la sinistra istitu-
zionale, o la magistratura.
Oggi a proporre una soluzione politica all’emergenza è
proprio uno dei principali protagonisti della repressione,
Francesco Cossiga. Fin da quand’era al Quirinale sostiene
la necessità di un indulto, un’amnistia, comunque un atto
che parta dalla ri-contestualizzazione della lotta armata, la
sua restituzione a una dimensione (nel bene e nel male)
politica. Nel 1997, in un’intervista a “Sette”, dichiarò:
“Non avevamo a che fare con criminali comuni. L’amnistia
non è il perdono. È uno strumento politico: vuol dire chiu-
dere politicamente un periodo storico. Quella del ‘68 e del
‘77 è stata una generazione di militanti. E anch’io sono un
militante.” Con dichiarazioni come questa, l’ex-Presidente
si è più volte esposto a una pioggia di strali, cosa che sem-
bra divertirlo un mondo.
Se lo stesso Cossiga – che sulla più allucinante delle leg-
gi speciali ci mise addirittura il nome – afferma che la so-
luzione al problema non può essere trovata dentro il dirit-
to penale e nelle pieghe delle vicende individuali, si capisce

59
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quanto siano fuori contesto le obiezioni del tipo: “Ma per-


ché Battisti non torna in Italia ad affrontare la giustizia,
anziché comportarsi come Craxi?”, “Ma perché non va in
galera? Al massimo chiederà la grazia”, o addirittura: “Ma
perché è fuggito? Non poteva comportarsi come Adriano
Sofri?”.
Son tutti integerrimi, quando si tratta della galera de-
gli altri.
Innanzitutto, togliamo di mezzo il paragone con Craxi.
A Cesare Battisti è stato riconosciuto lo status di rifugiato
politico, e per motivi più che buoni. A prescindere da qua-
lunque valutazione sulla vicenda giudiziaria ed esistenzia-
le dell’ex-leader socialista, sono due situazioni diverse sot-
to ogni punto di vista.
Chi fa questo genere di obiezioni ha una visione com-
pletamente schiacciata su un presente che crede eterno,
senza principio e senza fine. Non sa nulla del contesto di
fine anni Settanta, non sa da cosa alcuni sono fuggiti: pro-
cessi grotteschi per la negazione del diritto di difesa; impu-
tati ammassati in gabbie, sovente in pessime condizioni
psicofisiche, reduci da mesi o anche anni di carcerazione
preventiva in culo al mondo, nelle carceri speciali; in que-
ste ultime c’erano anche i cosiddetti “braccetti della mor-
te” (sezioni di isolamento assoluto) e vigevano angherie da
parte degli agenti di custodia, perquisizioni corporali inti-
me ripetute ogni giorno etc.; nel frattempo i capi d’accusa
“lievitavano” per allungare a dismisura i termini del carce-
re preventivo; infine, i media prima contribuivano alla tua
“disumanizzazione”, facendo di te un mostro, poi si scor-
davano che esistevi. Tutte cose denunciate da Amnesty In-
ternational nei suoi rapporti di quegli anni.
È del tutto privo di senso il paragone con quanto subìto
da Adriano Sofri, per quanto grave: altra epoca, altra co-
pertura mediatica dei processi, condizioni di detenzione
completamente diverse. Sofri scrive su due o tre quotidia-
ni e un rotocalco, appare in tv, scrive libri, ha intorno a sé
una vastissima rete di solidarietà, la lotta per la sua grazia
è portata avanti da un’alleanza politica trasversale, “terzi-
sta”. Inoltre ha una certa età. Situazione completamente
diversa da quella di un ventenne-venticinquenne mandato

60
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in un carcere speciale alla fine degli anni Settanta. E co-


munque Pietrostefani, co-imputato di Sofri, ha fatto la
stessa scelta di Cesare Battisti, e nessuno gli ha rotto i co-
glioni, nemmeno Sofri, il quale non ha mai preteso che le
sue scelte valessero per tutti. Ma poi, scusate, si fugge da
che mondo è mondo, e solo in Italia la contumacia è consi-
derata prova di colpevolezza.
La grazia. Sofri, che nemmeno l’ha chiesta, assiste (im-
magino in preda al disgusto) al delirio che la proposta ha
scatenato. Massimo Carlotto spinse il suo metabolismo
impazzito oltre i 140 chili e sulla soglia della morte prima
che gli fosse concessa. A Curcio non la diedero anche se la
proponeva Cossiga, allora Capo dello Stato.
Battisti, a differenza di Sofri, non ha grossi agganci po-
litici. A differenza di Carlotto, gode di buona salute. A dif-
ferenza di Curcio, è accusato di reati di sangue. Insomma,
il più morto dei binari morti.
Un’altra obiezione all’appello, di natura del tutto differen-
te, è questa: “Si è messa troppa enfasi sul fatto che Battisti è
uno scrittore”. Può pure darsi. È un appello scritto rapida-
mente (non da noi, ma da alcuni amici di Cesare), e – soprat-
tutto – rivolto all’opinione pubblica di Francia, dove la perso-
na in questione non è descritta come un macellaio, un aguzzi-
no, una belva assetata di sangue, bensì come uno scrittore. In
parole povere: in questi giorni non è in galera il Cesare Batti-
sti del 1980, ma quello del 2004, e l’appello descrive quest’ulti-
mo. L’appello è rivolto ai francesi perché, allo stato attuale e
per tutti i motivi descritti sopra, in Italia una campagna d’opi-
nione non sortirebbe alcun effetto.
Termino questo paragrafo con una riflessione da cinefi-
lo: in Inghilterra, sulle aberrazioni delle loro leggi antiter-
rorismo, ci hanno realizzato un film come “Nel nome del
padre”. In Italia, di vicende come quella di Gerry Conlon e
compagnia ne abbiamo letteralmente centinaia, anche più
spaventose di quella. Dove cazzo sono i film?10 Se ve ne vie-
ne in mente qualcuno comunicatemelo.

. Con la lodevole eccezione de Il fuggiasco di Andrea Manni, che


10

racconta la vicenda di Massimo Carlotto.

61
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5. Lo stato delle libertà in Italia

In parole poverissime: in questo Paese c’è una grandissima


voglia di spaccare i maroni al prossimo. Si vuole metter becco
nella libera scelta di una persona di non farsi amputare un
piede, ci si indigna perché i testimoni di Geova rifiutano le
trasfusioni di sangue, si vorrebbero risolvere complicate que-
stioni di bioetica con scorciatoie come il silenzio-assenso, si
infilano nei consultori preti per convincere le ragazze a non
abortire, si propone la “castrazione chimica” per i pedofili, AN
ha una proposta di legge contro le sette sataniche...
Nel 1998 alcuni membri dell’allora Luther Blissett Project
scrissero un corposo saggio intitolato Nemici dello Stato: cri-
minali, mostri e leggi speciali nella società di controllo, pubbli-
cato da DeriveApprodi, nel quale si parlava di “molecolarizza-
zione dell’emergenza”, cioè “un suo spingersi dalla res publi-
ca ai microlegami sociali, dall’ordine pubblico alla privacy, fi-
no ai recessi delle differenze singolari. In altre parole: dal Po-
litico (territorio già completamente colonizzato e strutturato)
al Culturale (in senso lato, antropologico) allo... Spirituale”.
Non riporto qui nemmeno uno dei numerosissimi
esempi contenuti in quel saggio. Mi limito a dire che, da
allora, la situazione è nettamente peggiorata, e non è solo
una questione di destra e sinistra, o di comunicazione me-
diale viziata dal conflitto d’interessi. La questione va molto
più a fondo: è in atto un’offensiva contro la libertà d’e-
spressione in tutte le sue accezioni, dalla libertà di culto a
quella di cura e scelta terapeutica.
Sovente il nostro presunto “oltranzismo” su questi temi
(che è poi lo stesso oltranzismo di Voltaire) ci ha attirato
molte critiche (e addirittura calunnie e tentativi di censu-
ra). Alcuni di noi hanno preso posizione per la libertà di
parola degli storici negazionisti contro la legge Fabius-
Gayssot,11 dei neofascisti contro la Legge Mancino, dei dis-

11
. Appunto, non è il caso di idealizzare la Francia. La legge Fabius-
Gayssot, approvata dal parlamento francese il 13/7/1990, all’art. 8 puni-
sce (con pene da un mese a un anno di reclusione, e/o con un’ammenda
da 2000 a 300.000 franchi) “coloro che avranno contestato… l’esistenza
di uno o più crimini contro l’umanità come li si è definiti nell’articolo 6

62
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sidenti in materia di HIV/AIDS. In vicende ben note abbiamo


difeso la libertà d’associazione dei satanisti. Per noi non si
transige: alle idee, per quanto rivoltanti o sconvenienti le si
possa considerare, vanno comunque opposte altre idee,
non la forza dello Stato in armi. Per l’ennesima volta: cogi-
tationis poenam nemo patitur. E ci interessano i “casi-limi-
te”, perché su di loro si sperimenta la restrizione delle li-
bertà di tutti quanti.
Questo non può essere un pezzo esaustivo, ad esempio
non potevo certo citare tutti gli episodi di falso allarme sul
terrorismo. Spero però di aver dissipato alcuni equivoci.
Di lavoro da fare ce n’è tantissimo, e non si creda che con
la caduta di Berlusconi lo stato delle libertà in Italia, lo sta-
to di queste libertà, registri un sensibile miglioramento.
Bisogna lottare, non lasciarsi imbavagliare, rifiutare per
quanto possibile i ricatti morali della realpolitik.

15-16 febbraio 2004

CESARE BATTISTI DEVE TACERE


di Valerio Evangelisti

Il presente articolo è stato pubblicato dal quotidiano Le Soir


di Bruxelles mercoledì 25 febbraio 2004.

Se un lettore dei giorni nostri vuole documentarsi sulla


stagione di sangue che si abbatté sull’Italia verso la fine de-
gli anni ’70, può trovare saggi e memorie di valore disegua-
le. Trova però poche fonti letterarie davvero convincenti e
artisticamente persuasive: certe pagine di Erri De Luca e i
romanzi di Cesare Battisti.
Questi ultimi si presentano come romans noirs, ma so-
no molto di più. In essi Battisti ha trasfuso la sua stessa,

dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’accordo


di Londra dell’8 agosto 1945, e che sono stati commessi dai membri di
un’organizzazione dichiarata criminale in applicazione dell’articolo 9
del suddetto statuto, o da una persona riconosciuta colpevole di tali cri-
mini da una giurisdizione francese o internazionale” (trad.nos.)

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tormentata biografia: da delinquente comune, a militante


dei gruppi “autonomi” giovanili tentati dall’esperienza del-
la lotta armata, alla conseguente vita di esule braccato da
un continente all’altro, fino all’asilo offerto dalla Francia.
Come tanti altri giovani italiani della sua generazione, Bat-
tisti si è trovato a vivere una condizione di perenne evaso,
prolungatasi anche quando ogni ipotesi di insurrezione in
Italia era tramontata da quasi un trentennio. A differenza
dei coetanei che hanno condiviso il suo destino, ha trasfu-
so il proprio vissuto in parola scritta. Pagine amare, talora
ironiche, spesso intrise di cinismo. La storia del tramonto
di ideali che, se mai vorranno riproporsi, dovranno trovare
altri mezzi e altri protagonisti. È questa sincerità, colma di
consapevolezza storica e aliena, proprio in ragione di ciò,
dalla nozione moralistica del pentimento, che non gli è
stata perdonata.
Capace di descrivere come pochi altri le ragioni di una
sconfitta e l’esilio dei vinti, Battisti è quasi assente dalle li-
brerie italiane. Si cercherebbe inutilmente, per esempio, il
suo ultimo romanzo, Le Cargo Sentimental: straordinaria
descrizione di un istinto di ribellione che passa da una ge-
nerazione all’altra, e che fornisce un quadro sintetico ma
persuasivo della storia d’Italia dalla resistenza al fascismo
ai giorni nostri. E ciò attraverso le vicende intrecciate di
gente semplice spinta alla rivolta senza avere affatto la
tempra, dura e spietata, del rivoluzionario di professione.
Nessun editore italiano ha avuto finora il coraggio di
pubblicare un romanzo così. Destra e sinistra fanno invece
a gara per offrire versioni semplificate della storia. La pri-
ma – la destra – regola vecchi conti, riapre dossiers polve-
rosi e, mentre chiude benevolmente un occhio sui crimini
attribuibili a organi dello Stato o a militanti neofascisti,
scatena la caccia ad attempati contestatori che si sono ri-
fatti una vita qua e là per il mondo, con l’alibi oggi comune
della “lotta al terrorismo”.
La seconda – la sinistra italiana – ha costruito un intero
mito di rifondazione repubblicana sulla chiusura carcera-
ria e repressiva del “capitolo” degli anni ’70, e stenta ad
ammettere l’uso distorto della magistratura, il ricorso si-
stematico a “pentiti” che tutto avevano da guadagnare dal

64
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loro pentimento, l’impiego della tortura nelle questure per


giungere a condanne rapide e sommarie, che nascondesse-
ro il problema senza svellerne le radici.
Ecco dunque Battisti, imprigionato dal governo fran-
cese su pressione di quello italiano, messo in carcere in
attesa di un’estradizione che lo cancellerà per sempre,
come uomo e come scrittore. Poco importa che il manda-
to di cattura gli imputi delitti assurdi, commessi in luo-
ghi diversi alla stessa ora. Poco importa che la magistra-
tura francese abbia già negato una volta l’estradizione,
scandalizzata dagli atti processuali che le provenivano
dall’Italia, al punto di definirli, citando Clemenceau, frut-
to di una “giustizia militare”. Poco importa il rispetto del
principio Ne bis in idem procedatur, tra i fondamenti di
ogni diritto.
Cesare Battisti non era un rivoluzionario, ma un ribelle.
Specie pericolosa per ogni regime. Che paghi, dunque. Che
non scriva più. Potrebbe riesumare verità inquietanti.
Questo il ragionamento nascosto (ma non tanto) del
partito dell’estradizione. L’Europa assisterà in silenzio?

(Da Carmilla On Line, 28.2.2004)

BENTORNATO, CESARE! UNA PRIMA VITTORIA


di Valerio Evangelisti, a nome di tutta la redazione di Carmilla

Oggi noi tutti di Carmilla eravamo così emozionati da non


riuscire a parlare. Si era appena sciolta una tensione dura-
ta un giorno intero, punto estremo di quell’angoscia che si
trascinava ormai da un mese: da quando il nostro amico
Cesare Battisti era stato arrestato.
La notizia, appena pervenuta dalla Francia, era che il
tribunale di Parigi aveva deciso per Cesare la libertà prov-
visoria, contro tutte le pressioni esercitate dal governo
francese e, attraverso questo, da quello italiano. Solo la se-
ra prima il ministro della giustizia Dominique Perben (co-
gnome pochissimo adeguato a chi lo porta) aveva approfit-
tato di un canale televisivo per vomitare su Cesare tutte le
ignominie raccolte dal giornale-immondezzaio “Le Figa-

65
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ro” (autore, per mano del suo redattore Guillaume Per-


rault, di deliranti invenzioni su un Battisti che minaccia di
morte i vicini di casa, che fugge dal carcere pugnalando un
secondino, che finisce le proprie vittime con un colpo alla
nuca, ecc.). L’intento di Perben era quello di influenzare la
magistratura, che pure già a fine 2003 non aveva ritenuto
di dare seguito a una precedente proposta di estradizione.
Dal canto suo il portavoce del governo, Jean-François
Copé, aveva cercato (come i ministri italiani Pisanu e Castel-
li) di legare il caso Battisti al quadro fumoso del “terrorismo
internazionale”, oggi pretesto a ogni violazione del quadro
democratico. Come se Cesare e tutti gli altri italiani rifugiati
in Francia o altrove, tornati da quasi un trentennio a una vita
nei limiti del possibile ordinaria, avessero qualcosa a che ve-
dere con integralisti islamici o dinamitardi di varia specie.
Pur senza ancora affrontare la questione dell’estradizio-
ne, i giudici parigini hanno quanto meno sancito, con la li-
berazione di Cesare, la sua non pericolosità. Quest’ultima,
se esisteva, era semmai legata alla sua capacità di scrivere;
però in Francia – pur con il governo che si ritrova – ciò non
pare essere avvertito come una minaccia.
La sentenza decisiva è attesa per il 7 aprile. Data che in
Italia suona emblematica. Quello stesso giorno, nel 1979,
venivano arrestati Toni Negri, Oreste Scalzone e un cospi-
cuo gruppo di intellettuali e docenti universitari italiani,
accusati, sulla base del cosiddetto “teorema Calogero”, di
essere i capi delle Brigate Rosse. Ci vollero anni perché
quell’imputazione, totalmente assurda, venisse lasciata ca-
dere, ma nel frattempo i capi d’accusa erano stati via via
modificati, per renderli funzionali a una sentenza di con-
danna. A quel tempo la Francia accettò di ospitare quanti
degli accusati erano riusciti a varcare la frontiera, orripila-
ta da una gestione così disinvolta della giustizia. Ci augu-
riamo che i suoi magistrati, al momento di decidere sull’e-
stradizione di Cesare Battisti, si ricordino di quello stato
d’animo, all’origine della successiva “Dottrina Mitterrand”.
E si ricordino delle immagini raccapriccianti viste a Ge-
nova, nei giorni del G8, delle violenze nella scuola Diaz,
delle sevizie nella caserma di Bolzaneto. Dello spettacolo
scandaloso dei poliziotti di Napoli che circondano la Que-

66
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stura, a proteggerla dalle indagini sui loro colleghi colpe-


voli di avere infierito con selvaggio accanimento su mili-
tanti no-global quasi adolescenti, come documentato da
immagini che hanno fatto il giro del mondo.
Sotto il profilo della ferocia repressiva, l’Italia non è af-
fatto cambiata, rispetto agli anni ’70. Questo resta il paese
dell’impunità totale rispetto alle schegge dello Stato (scheg-
ge importanti) che si macchiano di sangue. Stragi spavento-
se non hanno mai avuto una soluzione giudiziaria, o ne han-
no avute di comodo. Le inchieste sulla morte di tanti giova-
ni – Saltarelli, Zibecchi, Varalli, Franceschi, Serantini, Lo-
russo, Masi ecc. (chi si ricorda più di costoro?), fino a Carlo
Giuliani – si sono arenate o sono finite in assoluzioni anche
quando dei colpevoli si sapeva nome e cognome, leggibile
sulla mostrina della divisa. Adriano Sofri è in prigione, però
il volo dalla questura dell’innocente Giuseppe Pinelli fu de-
rubricato in suicidio, malgrado una massa impressionante
di prove contrarie.
Cesare Battisti ha scritto più volte che le scelte estreme
compiute da lui e da altri giovani della stessa generazione
nacquero da questo quadro di radicale ingiustizia. Lo stesso
quadro che vide un procuratore della Repubblica milanese,
nell’ambito di un processo in cui fu coinvolto lo stesso Cesa-
re (pieno di “pentiti” e di confessioni poi ritrattate), scrivere
in tutta tranquillità di coscienza, a proposito delle violenze
cui furono sottoposti i fermati: “Nel caso che dalle violenze
non derivi malattia, ma solo transitoria sensazione dolorosa
senza obiettivabili alterazioni organico-funzionali, si par-
lerà di un altro reato: quello di percosse (art. 581 CPP). In
quest’ultima ipotesi, i fatti diventano di impossibile accerta-
mento sul piano tecnico proprio perché in assenza di malat-
tia manca qualsiasi elemento obiettivo”. Un’asserzione ob-
brobriosa, che fa il paio con l’assoluzione preventiva accor-
data, in tempi molto più recenti, dal vicepresidente del con-
siglio (ex fascista) e dal ministro degli interni (ex piduista)
agli autori dei macelli di Genova e di Napoli.

Se tutto ciò è vero, a una frase apparentemente ragionevo-


le del corrispondente del Corriere della Sera da Parigi,
Massimo Nava, che martedì 2 marzo si chiedeva cosa pen-

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seranno di una sentenza favorevole a Battisti i congiunti


delle vittime dei Proletari Armati per il Comunismo (i de-
litti attribuiti a Battisti in prima persona sono oggetto del-
la confusione più totale), ci sentiamo di replicare: e cos’a-
vranno pensato i congiunti dei giovani uccisi e delle vitti-
me delle stragi che ho menzionato più sopra, usi a vedere
piovere assoluzioni ogni volta che l’autore del crimine ap-
parteneva a un apparato dello Stato? Se si vogliono riapri-
re quei dossiers, che li si riapra tutti; se li si vogliono chiu-
dere, che li si chiuda tutti assieme. La soluzione più logica
sarebbe avviare una discussione serena e informata (dun-
que, alla larga certi giornalisti, in riferimento all’attributo
“informata”!) sugli anni ’70. Non è una soluzione, invece,
andare a pesca trent’anni dopo dei presunti “colpevoli” in
disarmo ai quattro angoli del mondo, per poi seppellirli,
spogliati della loro storia, in una Guantanamo locale sotto
forma di penitenziario a vita. Viene il sospetto che, assie-
me alle prede, si voglia seppellire – in modo particolare nel
caso di Battisti – anche la loro memoria, e quella collettiva.
Comunque non vogliamo dilungarci, in questo giorno
di festa, memorabile per vari motivi. Anzitutto Cesare è di
nuovo fra noi. Poi, abbiamo assistito a una straordinaria
mobilitazione di intellettuali capace di scuotere poteri e
coscienze di uno dei principali paesi europei (mentre, su
La Stampa, il corrispondente dalla Francia Cesare Marti-
netti, d’ora in poi chiamato “il volpino”, parlava di “intelli-
ghenzia in disarmo”: va’, va’, povero untorello, non sarai tu
che spianterai Parigi). Abbiamo anche notato la capacità
della narrativa di genere, in cui Carmilla è specializzata, di
mobilitare via via altri settori della cultura, sino a risve-
gliare settori importanti del potere politico. Si noti che
quasi tutto il movimento è nato da un sito sulla letteratura
noir e di fantascienza, denominato “Mauvais Genres”.
Quasi la dimostrazione di ciò che Carmilla ha sempre so-
stenuto, circa la narrativa che è viva e quella che non lo è.

Infine una piccola soddisfazione personale: le 2.200 firme


a sostegno di Cesare Battisti raccolte fino ad ora in Italia
sono tutte dovute al nostro sito web, nella sua modestia, e
ai siti alleati: I Miserabili, Wu Ming Foundation, Indyme-

68
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dia e pochissimi altri. Se la stampa straniera ci ha dedicato


grande attenzione, quella italiana ci ha ignorati o – in un
paio di casi – sostenuti in modo fiacco. Noi volevamo anzi-
tutto dimostrare che anche in Italia (e non solo in Italia)
c’era chi – tra intellettuali e comuni cittadini – non era af-
fatto disposto a lasciare solo Cesare e quanti, Oltralpe, si
stavano battendo per lui e per gli altri esiliati.
La soddisfazione maggiore, però, è pensare che potre-
mo rivedere Cesare, ridere con lui, bere con lui, subire i
suoi scherzi e restituirli. Sappiamo che la battaglia non è
affatto finita (continuate a firmare, gente!), ma adesso Ce-
sare ha di nuovo la parola. Se l’userà nel modo peggiore –
quell’uomo è il sarcasmo fatto persona – lo perdoneremo
facilmente. Perché si tratta di un amico, di un collega, di
un compagno. Per usare un’unica parola, di un fratello.

(Da Carmilla On Line, 4.3.2004)

LETTERA A GIUSEPPE GENNA


di Paola De Luca

Paola De Luca è rifugiata in Francia. Questa sua lettera è del


6.3.2004

Caro Giuseppe Genna,


(...) Mi permetto di aggiungere un punto che mi sta a cuore.
“Cesare Battisti non si è mai pentito”. Considero questa
frase la più significativa del testo. Senza pretendere di analiz-
zare in poche righe la compatta convenzione ideologica del
giornalismo glamour italiano, nè la sua antilaicità militante,
mi pare legittimo osservare che il vero crimine evocato e
aborrito non è tanto l’assassinio di questo o quel povero cri-
sto, ma il rifiuto di passare sotto la gogna della delazione.
L’istituto dell’infamia, invece di essere sotterraneamen-
te usato (ragione di stato comprensibilissima!) e rapida-
mente abbandonato o comunque celato (ricostituzione del
terreno sociale terremotato in quegli anni) è diventata
un’insegna di cui vantarsi e da esibire orgogliosamente in
nome della propria aderenza alla parte “sana” della nazione.

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In effetti, i crimini dei “pentiti ufficiali” sono stati molto


rapidamente abbonati sia dal punto di vista giudiziario che
da quello sociale (si è mai visto un microfono d’un giornali-
sta sotto il naso di un familiare delle vittime d’un pentito?).
Come spesso, la mitopoeiesi in Italia sostituisce trion-
falmente la storia. Come se i fatti e la verità fossero, per le
menti ufficiali della penisola, vessatori e insoddisfacenti.
I “misteri” del caso Moro sono sempre “aperti”, un vaso
di Pandora scoperchiabile ad libitum: non importa che
tutto si sappia ormai perfettamente (quante versioni del
processo? cinque, sei, ventuno?), si potrà sempre aggiun-
gere una tesi, un riferimento geopolitico, un nemico da ab-
battere, un’allusione o una minaccia.
Il “telefonista” può essere stato Toni Negri, o forse Scia-
scia o magari anche Cossiga, da quando ha cominciato a
denunciare le sue stesse leggi d’emergenza.
Si è riusciti a fare delle verità (e delle prove, con buona
pace del sig. Ostellino che si sciacqua abbondantemente la
bocca con la filosofia del diritto) orpelli postmoderni, obso-
leti e – diciamolo! – inutilmente pedanti. Giustizia sostan-
ziale, dicono questi “buoni maestri”, invece che formale.
Presto ci domanderemo – o le nuove generazioni do-
manderanno a gran voce – perché rivolgersi alla giustizia
per dirimere l’eventuale conflitto; la giustizia sostanziale è
più efficace se applicata dallo stesso offeso. O no?
“Cesare Battisti non si è mai pentito”. Questo è il vero
crimine. Ed è questo che lui e noi altri non pentiti paghere-
mo ad vitam aeternam. Il peccato mortale imperdonabile.
L’istituto giudiziario della prescrizione e quello sociale
dell’amnistia (sempre con buona pace degli evocatori della
filosofia del diritto) non possono applicarsi su un tessuto
sociale che si è voluto ricompattare sull’infamia e sulla de-
gradazione. Per essere riaccettati come italiani si deve es-
sere delatori, non basta dichiararsi vinti e convinti che le
tendenze insurrezionali non potevano essere “coniugate”
al modo indicativo. Occorre anche piegare la testa davanti
al Giano che dichiarava giudiziariamente che i nostri era-
no crimini contro la personalità dello Stato e nello stesso
tempo non accettava la qualificazione di “politici” degli
stessi, si deve religiosamente “pentirsi” e dichiarare che

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tutte le lotte antiautoritarie e antimperialiste che si sono


condotte erano insane e che occorreva delegarle alla sag-
gezza e alla sagacia dei partiti di governo, unici garanti
della convivenza democratica.
Si deve inoltre accettare la perennità ormai normale di
quell’arsenale giuridico d’eccezione che è stato, è e sarà un
moltiplicatore di pene utilissimo per sbaragliare tutti, ter-
roristi, rivoluzionari, nemici politici, mafiosi, anarchici di
16 anni o newglobal, per i quali le leggi democratiche, il di-
ritto alla difesa, la presunzione d’innocenza, la responsabi-
lità individuale provata non sono che “margaritas ante
porcos”, fronzoli formali da agitare, eventualmente, solo
per persone impegnate in lotte straniere e fuori confine.
Confermando e confortando, tra altre sciagure, il sem-
plicismo imperdonabile (quello sì!) con cui molti della mia
generazione avevano liquidato la “forma democratica”.
Restituire storia alla storia, uscire dal mito, dalla retori-
ca e dalla religiosità pelosa del pentimento, potrebbe forse
evitare che vecchi “demoni” vadano all’assalto delle nuove
generazioni, che magari immaginano di ridare lustro alla
teoria dell’avanguardia armata di leninistica memoria con
nuove e atrocemente inutili azioni.

COME FABBRICARE UN MOSTRO. CESARE BATTISTI E I MEDIA ITALIANI


di Valerio Evangelisti

Articolo pubblicato in versione ridotta da L’Humanité del


16.3.2004

“Quell’imbecille! Quell’imbecille!” Così si esprimeva l’o-


norevole socialista Ottaviano Del Turco, giovedì 11 marzo,
durante una trasmissione di Rete 4 intitolata “Zona Ros-
sa”. Su uno schermo sfilavano le immagini di Cesare Batti-
sti che usciva di prigione. Poco prima, l’ex magistrato Fer-
dinando Imposimato si era rivolto al pubblico, tutto fiero:
“Noi non leggiamo i romanzi di quel signore, non è vero?”
Spettatori fin lì passivi avevano applaudito, entusiasti.
Ciò dà un’idea del clima di linciaggio che i media hanno ali-
mentato in Italia dopo che Cesare Battisti ha ottenuto la libertà

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provvisoria. Ci sono trasmissioni contro di lui due o tre volte al


giorno, su tutti i canali televisivi e radiofonici. Gli uomini politi-
ci, dall’estrema destra ai partiti di centro-sinistra, dall’ex fasci-
sta Fini all’ex comunista D’Alema, sono uniti da un crescendo
di accuse contro Battisti e dalla domanda che sia estradato e
rinchiuso per sempre in un penitenziario. Si parla di una “Italia
intera” che si rivolta, come se un sistema dei media asservito a
un sistema politico a maggioranza ultrareazionaria, e un’oppo-
sizione debole e spesso complice, potessero davvero rappresen-
tare la società italiana nella sua complessità.
Bisogna capire bene questo punto. L’Italia è il paese in cui
una ex presidente della Camera dei Deputati, Irene Pivetti, di-
venuta soubrette, presenta oggi un varietà televisivo sulla chi-
rurgia estetica. In cui l’ex sottosegretario alla Cultura Vittorio
Sgarbi faceva pubblicità a una marca di caffè mentre era an-
cora nel pieno esercizio delle sue funzioni.
E l’Italia è anche il paese in cui una parte degli ex comuni-
sti, i DS, dopo avere approvato tutte le guerre “umanitarie”,
“preventive”, “democratiche” ecc., rifiutano di votare contro il
finanziamento della presunta “missione di pace” in Iraq volu-
ta da Berlusconi; in cui è quasi impossibile scoprire differen-
ze tra il programma economico della maggioranza di destra e
l’opposizione di centro-sinistra, imperniati come sono en-
trambi sulla “flessibilità” (vale a dire la precarietà del lavoro)
quale sistema per uscire dalla crisi; in cui Massimo D’Alema,
quando era capo del governo, si macchiava di vergogna ricon-
segnando alla Turchia il leader curdo Ochalan, rifugiato in
Italia. D’altronde, tra questo gesto e la richiesta di estradizio-
ne di Battisti, esiste, a ben vedere, una sinistra coerenza…
Ma, al di là del mondo politico, sono soprattutto i grandi
quotidiani (salvo Il manifesto e Liberazione) che si sono in-
caricati di modellare l’opinione pubblica e di fare di Cesare
Battisti un mostro, nell’intento poco nascosto di influenza-
re la stampa francese, dunque il pubblico, dunque i magi-
strati di Parigi…
Qui bisogna distinguere tra i quotidiani italiani popola-
ri e quelli che godono di una certa reputazione, benché il
fine ultimo sia lo stesso.
Tra i primi, vi sono per esempio tra giornali apparte-
nenti allo stesso gruppo editoriale: Il Resto del Carlino

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(Bologna), La Nazione (Firenze), Il Piccolo (Trieste). Sono


usciti, sabato 6 marzo, recando sulla prima pagina, una fo-
to di Cesare Battisti che faceva una smorfia orrenda, e il ti-
tolo, enorme, “Non è un martire, è un assassino”. Il conte-
nuto era altrettanto volgare. Soprattutto si erano andati a
pescare intellettuali francesi favorevoli all’estradizione nel
nostro caso Max Gallo e André Bercoff, direttore di France
Soir. Poco imbarazzati, si sarebbe detto, di figurare tra ti-
toli che grondavano odio.
Altro tratto comune ai media popolari – quotidiani di
basso livello, televisione pubblica o privata (in realtà non
ce n’è che una, in Italia), radio – è, oltre al linguaggio esa-
cerbato, la continua esibizione di “vittime di Battisti”, vere
o presunte. Abbiamo visto ormai infinite volte in televisio-
ne il figlio paraplegico del gioielliere Pier Luigi Torregiani
o il figlio del macellaio Sabbadin, uccisi dai PAC lo stesso
giorno (16 febbraio 1979) con mezz’ora di intervallo, l’uno
a Milano e l’altro presso Venezia.
Eppure, se c’è qualcosa di certo nella vicenda giudizia-
ria di Cesare Battisti, è che egli non eseguì questi omici-
di, in nessuno dei due casi. Il suo principale accusatore,
Pietro Mutti – che, divenuto un pentito solo dopo l’eva-
sione di Battisti, faceva parte di un’altra organizzazione
(Prima Linea) e rilasciò confessioni quanto meno dubbie
(secondo lui, le Brigate Rosse sarebbero state armate dai
Palestinesi, ma la cosiddetta “inchiesta veneta” non ap-
prodò a nulla) – negò sempre la partecipazione diretta di
Battisti all’attentato Torregiani, mentre i magistrati gli
attribuirono solo un ruolo di copertura per l’omicidio
Sabbadin (simultaneo all’altro). Battisti avrebbe parteci-
pato alla loro organizzazione in quanto membro dei PAC.
Il pentito Mutti, d’altra parte, riferiva voci raccolte nel-
l’ambiente. Altri personaggi da lui accusati vennero poi
assolti con formula piena.
D’altra parte, il caso Torregiani illustra bene il funziona-
mento della giustizia italiana, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio
degli anni ’80. Torregiani uccise uno dei due rapinatori che
avevano assalito il ristorante in cui cenava, il 22 gennaio 1979.
Un cliente innocente morì nella sparatoria. Meno di un mese
dopo, Torregiani fu ucciso a sua volta, davanti alla gioielleria

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di cui era proprietario. Per errore colpì il proprio figlio, che ri-
mase invalido (buona parte della stampa italiana continua a
ripetere che il ragazzo fu ferito da Battisti in persona).
Durante l’istruttoria, rivolta contro un collettivo autono-
mo di quartiere, vi fu una quantità di confessioni “sponta-
nee”, di cui alcune totalmente assurde. Tredici “rei confessi”
denunciarono in seguito di essere stati selvaggiamente per-
cossi e torturati dalla polizia. I magistrati (nessun poliziotto
che abbia ucciso o torturato dei “contestatori” è mai finito in
prigione, in Italia; e il caso di Carlo Giuliani è sotto gli occhi
del mondo intero) archiviarono tutte le denunce. Fu la prima
volta che Amnesty International si pronunciò contro un pae-
se occidentale – l’Italia – per ricorso alla tortura.
Il resto del processo – fondato inizialmente sulle confessio-
ni di un giovane vittima di gravi turbe psichiche, che in segui-
to ritrattò senza che se ne tenesse conto, di una ragazzina di
quindici anni handicappata mentale, ecc. – brancolò nel buio
fino alla comparsa, in una seconda fase, del “pentito” di turno.
Tutto ciò è ben descritto nel libro di Laura Grimaldi
Processo all’istruttoria (ed. Milano Libri, 1981), che fa ben
comprendere come funzionasse la giustizia italiana duran-
te gli “anni di piombo”. Il figlio di Laura Grimaldi fu a sua
volta accusato di avere ucciso Torregiani. Tra le prove, il
rinvenimento a casa sua del disegno di un uomo con un fu-
cile in una mano e una bomba nell’altra. Peccato che que-
sto disegno non fosse opera del giovane, come fu afferma-
to. Era stato eseguito nel 1944 da un partigiano iugoslavo,
e figurava sulle mostrine dell’esercito della Jugoslavia.
Gli anni ’70 e i primi anni ’80 in Italia erano d’altronde
quelli in cui si arrestava un povero diavolo per aver dise-
gnato, sul tovagliolino di carta di una pizzeria, una stella
simile a quella delle Brigate Rosse; in cui si gettava in pri-
gione una venditrice ambulante ottantenne (“Nonna
Mao”) quale complice dei terroristi. In cui Toni Negri e
una dozzina di docenti universitari venivano imprigionati,
il 7 aprile 1979, come “capi delle BR”, salvo poi riconoscere
che non era vero e modificare il capo d’imputazione per man-
tenerli ugualmente in prigione o in esilio; in cui si esaminava-
no, sezione per sezione, le schede elettorali per vedere se
qualcuno vi aveva tracciato slogan o disegni sovversivi; ecc.

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È chiaro che la stampa e i media popolari non hanno al-


cun interesse a frugare in questo passato non precisamen-
te pulito. A loro basta avere trovato il “mostro” a cui attri-
buire tutti i delitti possibili, trascurando le altre confessio-
ni poco utili del suo “pentito” personale; basta, senza sape-
re nulla del processo, esporre alle lacrime del pubblico i fi-
gli delle sue “vittime” – più probabilmente vittime di una
procedura giudiziaria viziata, senza confronto reale con
l’accusato, giudicato in contumacia (e privato del diritto a
un nuovo processo se arrestato, che l’Italia, sola eccezione
in Europa, ancora non prevede).
Veniamo ora alla “grande stampa” italiana, quella che
conta: La Stampa, La Repubblica, Il Corriere della Sera, più
alcuni settimanali. In questo caso, è evidente un proposito di
più largo respiro: parlare ai confratelli “intellettuali” francesi
e farli ricredere. Cominciamo con Barbara Spinelli, corri-
spondente molto rispettata da Parigi de La Stampa. Il suo ar-
ticolo (7 marzo 2004) si intitola “Cari amici francesi, su Bat-
tisti sbagliate. Non lui, ma altri, sono le vittime degli anni di
piombo”. È stato tradotto su Le Monde del 13 marzo.
Barbara Spinelli accusa gli intellettuali che hanno fir-
mato le petizioni pro Battisti di ignoranza: per via della lo-
ro propensione all’ospitalità e della loro simpatia per i ri-
belli, si sarebbero fatti ingannare. La ricostruzione degli
“anni di piombo” in Italia a cui credono sarebbe quella dei
rifugiati, e non avrebbe nulla a che vedere con la verità.
Battisti sarebbe stato il “capo” dei PAC e, senza eseguirli
personalmente (in ciò Barbara Spinelli è più cauta della
maggioranza della stampa italiana), avrebbe “ordinato” gli
assassinii di Torregiani e Sabbadin.
Gli intellettuali francesi, nobili nella loro difesa di Drey-
fus e di Solzenicyn, non dovrebbero lasciarsi ingannare
dal fatto che Battisti sia uno dei loro, “uno di Gallimard”.
Dovrebbero informarsi meglio: Alberto Toscano, corri-
spondente da Parigi di Panorama, ha gia scoperto che il di-
rettore de La Marianne non sa nulla dei delitti concreti at-
tribuiti a Battisti. Se gli intellettuali francesi avessero visto
in tv, come Barbara Spinelli, il povero figlio di Torregiani
sulla sua carrozzella da invalido, avrebbero capito meglio
da che parte stia la giustizia…

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Ecco un esempio di disinformazione intelligente. Ve-


diamo dunque gli elementi che avvicinano Barbara Spinel-
li ai suoi colleghi “di rango”:
Si ignora, o si finge di ignorare, che il rifiuto di estradare
Battisti poggia su principi che non hanno nulla a che fare
con la sua presunta colpevolezza. Le questioni in gioco, in
Francia, sono la possibilità che una stessa Corte si pronunci
nuovamente su materia già giudicata, che uno Stato sottrag-
ga di colpo a un rifugiato il diritto d’asilo che aveva concesso
per tredici anni, che accetti che un prigioniero sia consegna-
to alla “giustizia” di un paese che mantiene procedure tipi-
che dell’Inquisizione, come la condanna in contumacia sen-
za ripetizione del processo in caso di cattura, o come l’abiura
del prigioniero quale via per la libertà, affidando all’autorità
l’esame della sua coscienza individuale.
Si ignora praticamente tutto del caso giudiziario di cui si
tratta. Nessuno ha accusato Battisti di essere “il capo” dei PAC,
salvo una parte della stampa italiana più volgare, innamorata
dei titoloni. Ancora oggi, Battisti è tutto salvo che un ideologo
(lo si nota anche dall’impaccio di certe sue dichiarazioni). Se
lo si accusa di qualche cosa, è di avere “partecipato” (così si
legge nella richiesta originale di estradizione) a due dei quat-
tro assassinii che gli sono attribuiti, nonché a una sessantina
tra rapine e aggressioni che gli sono addebitate per avere fatto
parte dell’organizzazione (60 persone) che le rivendicò. Le al-
tre due accuse di omicidio eseguito direttamente provengono
dal “pentito” di cui ho già parlato.
Prima di scrivere una sola riga bisognerebbe sapere
queste cose, se si ha il senso dell’onore, e non accusare i
propri colleghi francesi (più interessati ai principi in gio-
co) di un’ignoranza che si condivide. D’altra parte, il “me-
todo Spinelli” è comune alla maggior parte degli editoria-
listi della stampa italiana e dei conduttori di talk-show.
Così Mario Pirani, ex comunista ed ex dirigente dell’ENI
di Enrico Mattei, fa su La Repubblica del 4 marzo un ri-
tratto di Battisti totalmente campato in aria: “ex brigati-
sta rosso”, “riparato in Nicaragua” subito dopo l’evasio-
ne, convertitosi in scrittore solo perché ciò poteva garan-
tirgli una vita “confortevole e sicura” in mezzo agli intel-
lettuali del Quartiere Latino (mentre Battisti creò la pro-

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pria rivista letteraria Via Libre quando si trovava in Mes-


sico), ecc. È evidente che Pirani non sa nulla di Battisti.
Si pronuncia sul destino di un uomo senza essersi nem-
meno preso la briga di informarsi.
Stessa cosa per Alberto Toscano, uno dei riferimenti di
Barbara Spinelli (anche, supponiamo, per ciò che riguar-
da il supposto “partito di Gallimard”: Toscano scrisse in-
fatti che tutti i romanzi di Battisti erano usciti presso
Gallimard, mentre ciò è vero solo per i primi tre, su una
dozzina. Vabbé, bazzecole).
Ebbene Toscano, sul settimanale Panorama, subito
dopo avere accusato Philippe Cohén, de La Marianne, di
non sapere di cosa stesse parlando, descrive in dettaglio,
fidandosi di una “fonte qualificatissima del ministero
della Giustizia”, il modo in cui Battisti avrebbe personal-
mente “finito con gelido sadismo” il macellaio Lino Sab-
badin, mentre questi giaceva ferito al suolo.
Abbiamo visto che Battisti non è stato accusato di avere
eseguito materialmente questo crimine (attribuito a un altro
imputato, di cui riporto le sole iniziali: D.G.). Dunque quello
di Toscano non è nemmeno più del giornalismo. È violenza
allo stato puro, contro qualcuno che si sa impotente a reagi-
re per via giudiziaria, con una querela per diffamazione. È
la fabbricazione deliberata e paziente di un mostro, fino a
darne un’immagine che permetta di schiacciarlo contro il
muro. È il “gelido sadismo” che si vuole attribuire a Battisti.
Non più il “metodo Spinelli”, ma il più generale “metodo ita-
liano” di questi giorni.
Termino col peggio, che ci viene da un altro corrisponden-
te de “La Stampa” da Parigi, Cesare Martinetti. Costui tradu-
ce per il pubblico italiano una frase apparsa sul quotidiano
L’Humanité, di questo tenore: Cesare Battisti a été condamné
en 1987 par la justice d’exception – un tribunal militaire –, ré-
servée aux procès des militants de l‘ultra gauche.1
La frase tra lineette – “un tribunale militare” – è dei giu-

Il 19 marzo L'Humanité ha pubblicato una replica di Cesare Marti-


netti de La Stampa a questo articolo, circa il modo in cui lo stesso Mar-
tinetti aveva tradotto "une justice d'exception - un tribunal militare".
Sostanzialmente, il giornalista avrebbe mantenuto i trattini. Ciò non

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dici francesi che per primi respinsero la richiesta di estra-


dizione di Cesare Battisti. Quanto al fatto che una legisla-
zione d’emergenza sia stata applicata ai militanti italiani
di estrema sinistra, nessuno oserebbe negarlo (a parte al-
cuni magistrati ed ex magistrati italiani a suo tempo coin-
volti in pesanti distorsioni del diritto, e che oggi sembrano
ammettere tra le righe che stavano in qualche modo “ven-
dicando” il loro collega Alessandrini).
Ma ecco come il pubblico italiano ha potuto leggere la
frase de L’Humanité, nella traduzione di Martinetti: “Bat-
tisti è stato condannato nel 1987 da un giudice speciale di
un tribunale militare riservato ai processi dei militanti
dell’estrema sinistra.”
Dubito che Martinetti, corrispondente da Parigi di uno dei
principali quotidiani italiani, ignori la differenza tra “réservé”
(l’oggetto sarebbe il tribunale militare) e “réservée” (l’oggetto
è la legislazione d’emergenza). Eppure questa traduzione è
passata di quotidiano in quotidiano, di settimanale in setti-
manale, fino a divenire la prova della cattiva conoscenza che
non solo L’Humanité, ma più in generale gli intellettuali fran-
cesi che hanno firmato l’appello contro l’estradizione, i citta-
dini solidali con Battisti – per farla breve, buona parte della
Francia – avrebbero dell’Italia degli “anni di piombo”, perce-
pita come simile al Cile di Pinochet.
Tutto fa brodo, dunque – dalla pura menzogna alla tradu-
zione “adattata” astutamente, dal “metodo Spinelli” alla scel-
ta delle foto più idonee – perché il “mostro” Battisti e i suoi li-
bri cessino di essere testimonianza di ciò che si vuole nascon-
dere: l’adozione in Italia di “leggi d’emergenza” in gran parte
ancora operanti, che hanno permesso centinaia di processi-
farsa, migliaia di arresti senza prova e il massacro sommario
di tutta una generazione di ribelli.

(Da Carmilla On Line, 16.3.2004)

toglie che, trattini o no, "justice d'exception" è divenuto "giudice specia-


le", invece di ciò che indicava ("procedura d'emergenza"). Lo stesso Mar-
tinetti non ha chiesto rettifiche al Corriere della Sera, a Panorama e agli
altri giornali che hanno riportato la nostra stessa frase.

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“L’ARCO UNICO” DELLA REPRESSIONE


di Mauro Bulgarelli

Mauro Bulgarelli è deputato del partito dei Verdi

Sui giornali dei giorni scorsi campeggiavano – spesso af-


fiancate – due notizie. La prima riguardava l’arresto a Pa-
rigi di Cesare Battisti, ormai noto più in veste di affermato
scrittore noir che come latitante dei Proletari Armati per il
Comunismo; l’altra, la relazione semestrale del Sisde che,
fedele a un formulario per la verità un po’ consunto, ripro-
poneva la teoria dell’ ‘unico arco eversivo’, nel quale stipa-
va a vario titolo brigatisti, anarco-insurrezionalisti e disob-
bedienti. L’accostamento delle due notizie, in effetti, ri-
specchia efficacemente la filosofia che muove istituzioni e
investigatori che, quando si tratta di fare i conti con il con-
flitto sociale, si ritrovano sulla strada che conoscono me-
glio: quella dell’emergenza. A nessuno può sfuggire che
l’attenzione repressiva che da qualche tempo le nostre au-
torità riservano agli esuli degli anni ‘70 trova una sua logi-
ca nell’adesione convinta del governo italiano alle nuove
politiche disciplinari europee che, in materia di sicurezza,
riesumano da un lato lo spettro terroristico e dall’altro
quello del deviante (sia esso il migrante, il tossicodipen-
dente o la marginalità ‘eccedente’ delle metropoli). Sotto
questo profilo, le centinaia di esuli si trasformano in veri e
propri ostaggi da dare in pasto all’opinione pubblica per
corroborare e rendere più efficace sul piano simbolico le
virtù muscolari dello Stato, soprattutto laddove esso attra-
versi una crisi di autorevolezza e di consenso sociale. Pro-
prio quest’ultima considerazione ci riporta all’altro asse
del problema, quello che investe il movimento, destinata-
rio, negli ultimi tempi, di un rinnovato zelo inquisitorio. È,
infatti, l’incapacità di governare l’insorgenza di pratiche di
insubordinazione sociale che minacciano di massificarsi e
di autoriprodursi – penso alle lotte degli autoferrotranvie-
ri, alle mobilitazioni spontanee della società civile a Scan-
zano Jonico, La Maddalena, a Terni, nonché alla capacità
da parte dei lavoratori atipici e intermittenti di portare in
superficie la propria condizione di “senza diritti”– che con-

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siglia di colpire quei movimenti che hanno mostrato di sa-


per dialogare, di intrecciarsi, con queste realtà.
Lo Stato, insomma, sembra da una parte voler riaffer-
mare la vocazione emergenziale del diritto penale assem-
blato nei “tribunali di guerra” degli anni settanta e, dall’al-
tra, far retrocedere brutalmente la soglia della ‘legalità’ do-
po che il grande movimento nato a Genova e cresciuto nel-
le straordinarie mobilitazioni contro la guerra l’aveva si-
gnificativamente spostata in avanti, affermando un princi-
pio nuovo: non esiste illegalità di massa che possa essere
sanzionata se essa si propone di contestare i crimini in-
commensurabilmente più grandi perpetrati dai potenti
della terra attraverso la globalizzazione del comando capi-
talistico e i massacri della guerra preventiva. E proprio sul
versante della piazza i segnali preoccupanti non mancano:
botte e processi a chi lotta per la casa, a chi si oppone alla
costruzione di quei lager camuffati che sono i Cpt, a chi
contesta le scelte guerrafondaie di questo governo.
Sulla lettura penale degli anni ‘70 e la criminalizzazione
delle lotte dei nostri giorni – testimoniata dal nugolo di proce-
dimenti aperti contro il movimento – si sostanzia la logica del
redde rationem innescata dallo Stato, che la sinistra commet-
terebbe un errore tragico se non tentasse di arginare in qual-
che modo. Per far questo, la strada è lineare e non si presta a
scorciatoie: rilanciare la campagna per la soluzione politica di
quegli anni, imperniandola attorno a un progetto credibile di
amnistia generalizzata, e impedire, a partire dall’inizio del
processo per i fatti di Genova, che una nuova generazione di
lotte venga data in pasto alla repressione e alle patrie galere. In
quanti, anche tra gli scranni del Parlamento, abbiamo magni-
ficato “lo spirito di Genova” come una sorta di soffio vitale che
poteva rianimare una politica agonizzante? Bene, ora si tratta
di difenderlo. A Genova centinaia di migliaia di uomini e don-
ne hanno sfidato, con forme e linguaggi diversi, l’arroganza
delle zone rosse: è stato, a mio avviso, uno dei momenti più al-
ti di democrazia dal basso che questo paese abbia mai espres-
so, un patrimonio che va difeso e sottratto alle stanze dei tri-
bunali, quelle stesse stanze dove nessuno è mai entrato, e forse
entrerà mai, per l’assassinio di un ragazzo, Carlo Giuliani.

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3. IL QUADRO STORICO

IL COLLETTIVO AUTONOMO BARONA: APPUNTI PER UNA STORIA


IMPOSSIBILE
di Primo Moroni e Paolo Bertella Farnetti

da Primo Maggio n. 21, primavera 1984.

Abbiamo voluto scrivere una storia “impossibile”. Impossi-


bile perché affonda le sue radici in procedimenti giudiziari
ancora aperti. Perché giornali, magistrati, Digos e “pentiti”
ne hanno raccontato e distorto i pezzi che gli servivano.
Perché molti compagni l’hanno ignorata, o rimossa, o trop-
po rapidamente archiviata con un giudizio sommario. Per-
ché i percorsi personali, collettivi e politici si intrecciano
fra loro in modo ingarbugliato, su un terreno inquinato
dalle delazioni, dalle reticenze e dalle autocensure.
Questa è la nostra versione, basata sui documenti, sulle
cronache, sulle testimonianze dirette, nello sforzo che ab-
biamo intrapreso di raccontare noi, per frantumamenti e
avvicinamenti progressivi, la storia di questi ultimi anni.
Il quartiere Barona si trova alla periferia Sud di Milano,
in un vasto triangolo compreso tra il Naviglio di Abbiate-
grasso e il Naviglio Pavese di Pavia. Insieme ad altri quar-
tieri (S.Cristoforo, Moncucco, Boffalora, Conca Fallata,
Gratosoglio, Chiesa Rossa) prende il nome dalle grosse ca-
scine agricole che formavano il territorio dei cosiddetti

81
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“Corpi Santi” esterni alle mura spagnole. Un tempo Comu-


ni, vennero inglobati nella grande Milano dall'amministra-
zione fascista, che iniziò in queste zone un programma di
edilizia popolare: tra il 1931 e il 1938 l’Istituto Case Popo-
lari costruì i primi insediamenti collettivi proprio alla Ba-
rona, affiancandoli a quelli degli anni venti nelle zone Sta-
dera e Naviglio Pavese. Negli anni cinquanta sarebbero se-
guiti S.Cristoforo, ancora la Barona, via Conchetta e via
Torricelli. Infine negli anni sessanta, in concomitanza con
la grande immigrazione interna, vengono costruiti ex novo
Chiesa Rossa, Gratosoglio Nord, Sud e Torri, S.Ambrogio I
e II, Lodovico il Moro (Negrelli). Molte di queste costruzio-
ni sono IACP e questo determina la formazione di una vasta
zona a carattere proletario e popolare.
Il vertice di questo triangolo tra i due Navigli è rappresen-
tato dalla Darsena di Porta Ticinese, determinando una com-
plessa relazione di scambi umani e politici tra le due zone,
tanto che nella “geografia del politico” milanese la zona Sud
é stata sempre considerata un prolungamento logico della
capacità di produzione politica del quartiere Ticinese-Geno-
va, che é stato senza dubbio il quartiere di massima concen-
trazione delle sedi politiche del “movimento” cittadino.
Il CAAB (Collettivo Autonomo Antifascista Barona) na-
sce nel novembre del 1974 per iniziativa di Fabio, quindici
anni, e di Umberto, quattordici anni, amici da sempre. Nel
giro di pochi mesi si aggiungono altri amici, soprattutto ex
compagni di scuola media di Fabio, come Sante, Bob, Iva-
no, Fabrizio, Marco, Tonino: “ci si trovava in uno scantina-
to, in un bar oppure per strada e si parlava di noi e di che
cosa ci offriva il futuro, era il tempo del Collettivo Autono-
mo Antifascista Barona, un gruppuscolo di ragazzi che
senza cercare nessun appoggio e senza allinearsi su posi-
zioni di Partiti e movimenti politici esistenti volevano cer-
care di costruire politicamente qualcosa di nuovo in zona.
(Eravamo nati soli e volevamo fare tutto da soli)”.1
Il passaggio all’impegno politico di quella che era una
compagnia o banda di quartiere avviene per gradi e quasi

1
. Sei giorni troppo lunghi, dattiloscritto non pubblicato di Um-
berto Lucarelli, pag. 92.

82
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naturalmente. All’inizio la compagnia si ritrovava in Piaz-


za Miani, intorno a una panchina. Alcuni venivano solo
per la passione della pallacanestro o per organizzare delle fe-
ste, ma si parlava anche delle manifestazioni e dei problemi
del quartiere-ghetto, senza campi di gioco o palestre, senza
spazi associativi per i giovani. Con il passare del tempo l’ami-
cizia si impasta con i bisogni, con la cultura e l’emarginazione
proletaria. C’é la voglia di organizzare qualcosa che dia senso
alla vita quotidiana, c’é l’incontro alla scuola media con i figli
degli occupanti di viale Famagosta,2 uno dei primi grandi mo-
vimenti di occupazioni di case a Milano. Alcuni di loro hanno
cominciato a disegnare col pennarello i pugni chiusi sui ban-
chi di scuola, poi hanno continuato a riempire i muri del
quartiere di scritte “per sentito dire”, firmandole MS o AO an-
cora prima di sapere cosa significassero queste sigle.
Poi ci sono i contatti a livello personale con gli extra-
parlamentari che cercano di muoversi nei quartieri e la
crescita per affinità culturale con i modelli della cultura
del mitico ‘68, che passa anche attraverso la esperienza
scolastica, secondo un percorso che accomuna la grande
parte dei Collettivi giovanili dei quartieri proletari ai mar-
gini di Milano. È per ciò che i Collettivi vanno estendendo-
si in tutti i quartieri a tradizione operaia e proletaria come
Rozzano, Gratosoglio, Piazza Abbiategrasso, Conchetta al
Ticinese, Barona, S.Ambrogio, Tessera, Giambellino, Bag-
gio, Quartiere Olmi, congiungendosi poi con quelli più a
Nord di Pero, Limbiate, Cinisello per saldarsi infine con la
grande area di Crescenzago, Padova, dove operano Collettivi

2
. Occupazione iniziata nel 1974 negli stabili IACP e organizzata
principalmente da Lotta Continua e Avanguardia Operaia. Durerà
alcuni anni, diventando un punto di riferimento politico per tutta
l’area Sud. Nel marzo 1975 circa quattrocento famiglie partecipano
all’occupazione degli stabili IACP di piazza Negrelli, coordinandosi
con gli occupanti di viale Famagosta. In particolare, dal 1975, le oc-
cupazioni si estendono in tutta la zona, interessando particolarmen-
te gli stabili IACP ma anche quelli privati. Si registrano quindi occu-
pazioni in via Teramo, a Stadera, Gratosoglio, ChiesaRossa, Mon-
cucco, Gallaratese, via Conchetta, via Torricelli, ecc. Molti Centri So-
ciali e Circoli Autogestiti, trovano nelle case occupate, consolidando
il proprio rapporto organico con il quartiere.

83
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nelle zone Loreto, Leoncavallo, Lambrate, Ortica, Segrate. Si


comincia quasi sempre da temi astratti come l’antifascismo,
la Cina, il Vietnam e l’antimperialismo, ma per la loro collo-
cazione nella vita e nella memoria del quartiere i Collettivi
passano rapidamente a tematiche concrete e di classe, tra cui
la lotta per la casa e le occupazioni, le autoriduzioni, la lotta
contro il lavoro nero, il collegamento scuola-lavoro.
Su questi temi concreti, sull’inchiesta nel quartiere si avvia
l’impegno politico del Collettivo, fin dall’inizio deciso a man-
tenere il controllo sulle proprie azioni e sul proprio spazio, in
accordo con la sua identità e omogeneità di banda di compa-
gni e amici. Per questo il Collettivo si definisce prima di tutto
“autonomo”, senza nessun riferimento a quell’autonomia
operaia che proprio in questo periodo si esprime attraverso
Rosso, ed è ancora sconosciuta alla Barona. Nell’altra defini-
zione che si dà il gruppo, “antifascista”, c’è sia un’eco della
cultura di movimento di questi anni, dove tutto è antifascista
(è anche il periodo degli scontri fisici con i “sanbabilini”), sia
una nuova interpretazione del tipico obiettivo di una banda
di quartiere: “sorvegliare” la propria zona con una vigilanza
antifascista, cercare un nuovo modo di egemonizzare politi-
camente uno spazio dove non possono giungere o comunque
non sono tollerate iniziative esterne.
Il Collettivo non si identifica con tutta la compagnia di
amici della Barona: quando nel 1975 acquista una fisiono-
mia più precisa è formato da una decina di militanti molto
attivi, in grado di coinvolgere, a seconda del tipo di iniziati-
va, altri venti o trenta ragazzi che costituiscono o frequenta-
no la compagnia. In questo stesso anno il CAAB trova una se-
de provvisoria nello scantinato di un fiorista e comincia i
suoi primi interventi sulle occupazioni di viale Famagosta: i
primi volantini vengono fatti a mano e attaccati con il Vina-
vil. Una delle prime uscite “ufficiali” è al Fabbrikone,3 un vec-

3
. Si tratta di una vecchia fabbrica di via Tortona, smantellata da
molti anni e occupata nel 1975 dal Coordinamento Autonomo Inquilini
Ticinese-Genova. L’occupazione nasce come risposta allo sgombero po-
liziesco del Teatro Uomo di corso Manusardi, richiesto dal parroco della
chiesa di S.Gottardo a cui il teatro è annesso. Il Teatro Uomo è infatti
destinato a diventare, insieme alla chiesa di S.Lorenzo alle Colonne uno
dei centri propulsori dell’emergente Comunione e Liberazione. L’occu-

84
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chio stabile occupato in zona Genova, dove si fanno notare


per la loro divisa: giacca militare, camicia dell’aereonauti-
ca, scarpe anfibie e basco con la stella rossa. Se la divisa
si ispira all’iconografia di Che Guevara e della guerriglia
sudamericana, le loro letture preferite sono soprattutto
nord americane: Prateria in fiamme dei Weathermen,
L‘autobiografia di Malcolm X, Col sangue agli occhi di
George Jackson, la storia e gli scritti delle Pantere Nere;
ostici e lontani i classici del marxismo e i loro epigoni. I
film più ammirati e discussi sono quelli di Costa-Gavras
come Zeta e L‘Amerikano.
Fin da quando il quartiere comincia ad avvertire la pre-
senza del Collettivo, l’atteggiamento della sezione locale del
PCI è ostile: nel corso degli anni il giornaletto comunista di
zona, La sedicesima, non mancherà di attaccare i giovani
autonomi, anche se i rapporti personali non arriveranno
mai allo scontro fisico. Atteggiamento per altro generosa-
mente ricambiato dal Collettivo, non solo per la generale
cultura antirevisionista che circola nel movimento, ma an-
che per l’opposto giudizio sul fallimento dell’esperimento
cileno di Allende, che porterà il partito comunista all’elabo-
razione della strategia del “compromesso storico”.
Anche il rapporto con i gruppi extra-parlamentari si
presenta subito in modo conflittuale. Trattati dai militanti
dei gruppi “da sbarbati”, per la giovane età e l’inesperien-
za, sono però costretti a frequentare le loro organizzazioni
per poterne utilizzare i mezzi tecnici, come per esempio il
ciclostile per la quasi quotidiana produzione di volantini.

pazione del Fabbrikone andrà avanti alcuni mesi tra “scazzi” continui
tra le varie componenti che si sono rapidamente aggregate, soprattutto
tra i militanti del Coordinamento, che fanno capo all’Assemblea Auto-
noma Alfa Romeo e quelli di “Rosso”. I primi intendono usare il luogo
come centro di propulsione di lotte, secondo una tipica ottica operaia,
mentre “Rosso” tende a legittimare una serie di soggettività e comporta-
menti di tipo “nuovo” che la parte operaia rifiuta di riconoscere come
autonomi” e respinge liquidandoli come “Frikettoni”. Nel corso di una
festa discretamente “spinellata” si determinano comportamenti distrut-
tivi del luogo stesso e “espropriazioni” delle attrezzature. Questo episo-
dio, insieme a una sterminata polemica sulle responsabilità, determina
una progressiva decadenza del Fabbrikone, che diventerà sempre più
un asilo di “tossici”.

85
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Tutti di famiglie proletarie, i giovani autonomi soffrono di


una carenza cronica di soldi e di mezzi per la loro attività;
per questo si divertono a identificarsi con gli eroi del popo-
lare fumetto di Max Bunker, Alan Ford e l’agenzia TNT: una
banda di scalcagnati che sopperiscono con il volontarismo
e i miracoli d’inventiva all’assenza di fondi e di mezzi. Bob
è Grunf, l’autore dei “miracoli tecnici”, Ivano è Alan Ford,
Fabio è la Cariatide e così via.
Il contatto con i gruppi produce dei tentativi di recluta-
mento, che diventeranno abituali nel corso della storia del
Collettivo. Il Movimento Studentesco è la prima organiz-
zazione a corteggiare gli autonomi della Barona. Fanno in-
sieme delle riunioni e delle ronde antifasciste in zona, di-
scutono di antifascismo e di temi come l’Italia fuori dalla
NATO. Il CAAB si stanca presto di questo rapporto, problemi
come quelli della NATO o del Fronte Popolare sono troppo
lontani e non trovano seguito nel quartiere, i membri del
Collettivo si sentono alieni dalla logica di organizzazione,
dalle gerarchie, dai dirigenti e dai quadri. Si divertono di
più con l’autoriduzione al cinema o la organizzazione di
feste diverse, “proletarie” nel quartiere. Conducono una
grossa campagna contro l’ATM per avere migliori collega-
menti con il centro e contro l’aumento del prezzo dei bi-
glietti. Riempiono i mezzi pubblici di scritte spray, ci sal-
gono sopra col megafono a fare propaganda. La loro pre-
senza nel quartiere cresce e nel settembre 1976 producono
un giornaletto ciclostilato, Revolucion, un po’ per la “libi-
dine” di vedersi scritti e un po’ per mettersi alla prova: scri-
vono di aver voluto dimostrare “che dei ragazzi anche se
non intellettualisti (per fortuna) possono prendere iniziati-
ve di qualsiasi tipo!”. In questo primo numero i pezzi forti
sono un articolo sul problema delle abitazioni nel quartie-
re-ghetto e una ricostruzione grafica degli scontri di via
Mancini finiti con la morte di Zibecchi, travolto da un ca-
mion dei carabinieri. Lo slogan finale è “Contro lo stato
della violenza ora e sempre resistenza”. Incredibilmente il
ciclostilato, distribuito all’edicola di via Santa Rita, viene
venduto tutto e questo li spinge a continuare la esperienza
in un rapporto col quartiere non più personale e frettoloso.
Il Collettivo, ora semplicemente CAB (Collettivo Autono-

86
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mo Barona), fa uscire altri due numeri. In quello di otto-


bre/novembre ci sono analisi del quartiere, tipico ambien-
te “AFRIKANO” (rione negro), temi esistenziali, una “CAB
story” un identikit del nemico delle masse comuniste: “non
è solo il fascistello sanbabilino, il burocrate DC, il clero rea-
zionario, ma anche chi professandosi comunista, tradisce
gli interessi della classe operaia”, temi di politica interna-
zionale. Concludono avvertendo: “Con questo numero ab-
biamo cercato di eliminare le pecche e le eventuali inge-
nuità che caratterizzavano il primo numero (speriamo di
esserci riusciti). Ma nel numero di dicembre sentono il bi-
sogno di sottolineare : “Questo giornale è scritto da dei
compagni adolescenti”, concludendo con questo slogan :
“La nostra lotta cresce di zona in zona siamo i PELLEROSSA
della Barona”.
Il giornale esce come supplemento di Katù - Flash (Vo-
gliamo Tutto); il rapporto con i compagni che fanno capo a
questa esperienza aiuta i membri del CAB a “smaliziarsi”
nel linguaggio e nell’impegno politico e li fa entrare in con-
tatto con Rosso. Accettano di vendere questa rivista nel
quartiere, ma lo fanno soprattutto come occasione per
contattare la gente; non riescono a leggere più di due arti-
coli per numero e lo trovano troppo difficile. Anche il ten-
tativo di leggere collettivamente Proletari e Stato di Toni
Negri si fermerà alla prima pagina e il libro sparirà, proba-
bilmente bruciato nella stufa.
Quando Vogliamo Tutto confluisce in Rosso i membri
del Collettivo non approvano questa operazione e si tengo-
no distanti. Ma se il percorso del Collettivo, con una storia
simile a quella di tanti altri micro-organismi autonomi, si
sviluppa comunque “dentro, fuori, ai bordi dell’area del-
l’autonomia organizzata”, rimane vivo il rapporto di scam-
bio e non di subalternità con le organizzazioni maggiori,
tipo quella che fa capo a Rosso. Tramonta invece definiti-
vamente ogni possibilità di rapporto con gruppi come
Avanguardia Operaia e Movimento Studentesco, con i qua-
li il CAB e altri collettivi (S.Ambrogio, via Teramo, “Forna-
ce”, piazza Negrelli) occupano la Cascina Boffalora per
farne un centro comune: il contrasto fra il “dirigismo” dei
gruppi e l’autonomia dei collettivi farà fallire in breve tem-

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po questa esperienza. Da qui in poi il rapporto fra gruppi e


autonomi sarà quasi sempre conflittuale, contraddistinto
spesso dallo scontro fisico.
L’apertura al quartiere dà buoni frutti e la gente segue
con simpatia le iniziative del CAB, ormai riconoscibile e ri-
conosciuto alla Barona. Attraverso l’inchiesta di massa si
impegnano nei problemi di zona come lo sfruttamento, il
carovita, le abitazioni, l’eroina, il lavoro nero. Su questi
punti i membri del Collettivo formano delle commissioni
di intervento. Organizzano frequenti mostre fotografiche
davanti al supermarket di viale Famagosta, sull’ATM e all’o-
spedale San Paolo, una struttura-fantasma che potrebbe,
se funzionante al completo, garantire una maggiore assi-
stenza sanitaria e uno sbocco di lavoro agli abitanti della
Barona. In questo lavoro collaborano con il gruppo anar-
chico di via Conchetta. Contro il lavoro nero il CAB organiz-
za delle ronde proletarie tutti i sabati: in circa una trenti-
na, con striscioni e volantini, entrano nelle piccole fabbri-
che della zona e invitano gli operai a sospendere il lavoro
nero e a non fare gli straordinari. A volte l’intervento fun-
ziona, gli operai ascoltano o discutono, in qualche caso se-
gue l’assunzione con i libretti. Se questo è possibile nelle
fabbrichette con più di dieci operai, più problematico è
l’intervento in quelle con pochi lavoratori, spesso legati da
parentela con il padrone. Impossibile risulta intervenire
sul lavoro nero fatto in casa, come quello delle casalinghe
che fanno i giocattoli per poche lire al pezzo. Sui muri ven-
gono scritte le denunce contro i padroni del lavoro nero,
ogni giorno cancellate e puntualmente riscritte. L’interven-
to nel territorio, nel giro di tre anni, è diventato capillare e
quasi quotidiano:

“Lavorare nel territorio per la ricomposizione proletaria su


basi rivoluzionarie, non è affatto facile: è un progetto di lun-
ga durata che viaggia tra mille difficoltà di ogni genere, ma
che abbiamo fatto nostro da sempre, sgombrando il campo
da ogni ambiguità democraticistica. Rompere la tranquil-
lità sociale nel territorio significa intervenire complessiva-
mente, anche in situazioni o su temi specifici che ci erano
sconosciuti o che avevamo sottovalutato, spesso ricomin-
ciando tutto da campo o addirittura da O, in ogni aspetto

88
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della quotidianità metropolitana per materializzare colletti-


vamente i bisogni proletari. Usare l’inchiesta di massa come
dato di partenza, costruire un rapporto continuo con gli
abitanti per non autoemarginarsi dagli emarginati”.4

ll quartiere si è ormai abituato alla presenza del CAB, alle


mostre fotografiche e ai cortei, ai volantini su vari problemi
lasciati nelle caselle delle abitazioni, agli interventi nel con-
siglio di zona e alla distribuzione dei giornali. Il vero giorna-
le del Collettivo è rappresentato dalle scritte murali che tap-
pezzano la zona, accompagnate da una germinazione spon-
tanea di messaggi di ignoti che si firmano CAB. Anche i nego-
zianti collaborano di buon grado alla raccolta di fondi per
rinsanguare le magre finanze del Collettivo. Si allargano an-
che i contatti con gli organismi autonomi limitrofi come
Chiesa Rossa, Gratosoglio, Zona Sud; ottimi sono i rapporti
col circolo giovanile di S. Ambrogio, con cui spesso si lavora
insieme e si organizzano delle feste. Importante è anche la
collaborazione con il Co-Cu-Lo,5 che per alcuni mesi affian-
ca il CAB nell’intervento sul lavoro nero. A differenza di quel-
lo con i gruppi, si tratta di un rapporto abbastanza corretto:
non ci sono i soliti pesanti tentativi di cooptazione, vengono
messi a disposizione del Collettivo il ciclostile e altri mezzi
tecnici per la propaganda.
Nel 1977 si trovano finalmente una sede, occupando
due locali in via Modica, ornati dai murales di Sante, il
“grafico” del Collettivo. Il CAB si autoseleziona, la politica
diventa una attività a tempo pieno: dei nuovi compagni di
origine sarda, Sisinnio, Marco e Sebastiano trovano nel-

. “Black Out”, numero zero, 1 febbraio 1977, pag. 6.


4

. Comitato Comunista (m-l) di Unità di Lotta, con sede in via Vige-


5

vano, nel Ticinese, dove fonda il Circolo Siqueiros. Pubblica fino al


1979 il giornale “Addavenì” e, in concomitanza della crisi organizzati-
va, “Controvento”. Il Co-Cu-Lo è formato da militanti operai di varie
fabbriche della zona sud e da conosciuti intellettuali di formazione
marxista-leninista che fanno un uso dialettico e originale della cultura
maoista. È presente nella fondazione dei Coordinamenti Autonomi zo-
na Sud e in gran parte delle iniziative di massa della seconda metà de-
gli anni settanta. Può essere collocato nella tendenza m-l dell’area del-
l’autonomia, ma con forti differenze politiche organizzative nei con-
fronti dell’altra componente m-l che fa capo al giornale “Voce Operaia”.

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l’attività del Collettivo una risposta alle loro istanze di emi-


grati delusi ed emarginati.
Il 1977 segna un passaggio qualitativo per tutti gli orga-
nismi autonomi milanesi: è l’anno di via De Amicis e del-
l’Assolombarda, dei cortei armati e del dibattito di massa
sulla lotta armata. A livello nazionale c’è l’uccisione di Lo-
russo, la cacciata di Lama dall’università di Roma, il movi-
mento del ‘77, il convegno di Bologna.
I collettivi autonomi milanesi, con la loro identità e la
legittimità di massa frutto del rapporto con il proprio
quartiere, nell’urgenza di un progetto politico che unifichi
le loro esperienze, si trovano esposti alla superiore organi-
cità progettuale delle organizzazioni maggiori che si muo-
vono nell’ area dell’autonomia. Queste, sia clandestine che
di massa, sono guidate da quadri politici formatisi sin dal-
la metà degli anni sessanta. Un quadro politico che rimane
sostanzialmente di tipo leninista e tende quindi a legitti-
mare le aggregazioni spontanee di movimento nella pro-
spettiva di forzarne i contenuti per arrivare a un successi-
vo loro reclutamento organico al proprio interno.
In questo periodo le dinamiche delle organizzazioni
dell’autonomia sono scosse dalla discussione su due pro-
blemi fondamentali: l’emergenza massiccia della “tenden-
za armata” e la fine della “centralità operaia”. Il dibattito si
ripercuote in modo confuso nelle strutture dei collettivi
senza che questi abbiano gli strumenti per comprendere
pienamente le diversità di motivazioni, di strategie che de-
terminano le posizioni tattiche, le alleanze, le proposte che
circolano. Alle riunioni dei collettivi partecipano spesso
militanti organici delle organizzazioni e, viceversa, i collet-
tivi partecipano spesso alle riunioni nelle sedi delle orga-
nizzazioni: tutto ciò oltre a determinare un forte scambio
di suggestioni politiche, costruisce una grande comples-
sità di rapporti soggettivi e di solidarietà, che troverà la
sua espressione più clamorosa nei cosiddetti “cortei arma-
ti”, dove si troveranno quindi a convivere “immaginari”
della pratica armata e militanti organici della stessa.
In questa zona di incontro-scontro fra la cultura della
violenza di massa contro il sistema, propria del movimento,
e la messa in atto minoritaria e clandestina della lotta arma-

90
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ta, non è semplice decifrare i percorsi e le collocazioni dei


singoli (e infatti si sa che è stato molto più facile fare di ogni
erba un fascio, affidandosi al criterio ignobile ma funziona-
le della “contiguità”).
In questa situazione di confusione e di accelerazione, di
verticalizzazione e di indurimento della lotta politica cittadi-
na, si muove anche il CAB, partecipando con i collegamenti
Sud Ovest, cioè con S.Ambrogio, Chiesa Rossa e Co-Cu-Lo, a
manifestazioni, a interventi nelle scuole e in fabbriche come
l’Alfa Romeo. All’inizio dell’anno si impegnano in interventi
contro il lavoro nero insieme al Collettivo Autonomo Romana
Vittoria, in cui si fa notare per il suo protagonismo Marco Bar-
bone. Avvertono in questo contatto delle spinte esplicite a
muoversi nella direzione di Rosso e si allontanano da questa
esperienza dopo le forzature dei cortei armati (come quello di
via De Amicis che finisce con l’uccisione dell’agente Custrà),
dove si accorgono che personaggi come Barbone cercano di
provocare scontri armati all’insaputa della maggior parte dei
compagni che partecipano al corteo. Si sentono estranei ai “di-
rigentini” che vanno nelle situazioni a indicare cosa si deve fa-
re. Pur rifiutando di diventare portavoce di Rosso frequentano
il collegamento di via Disciplini6 per sapere cosa succede, per
essere in contatto con gli altri organismi. A settembre parteci-
pano alla tre giorni di Bologna, che sembra preludere a una
organizzazione nazionale delle varie situazioni autonome.
Dopo Bologna l’aria diviene sempre più calda, c’è una gran

6
. Sede storica della rivista “Rosso” nella sua seconda versione, che
nasce nel 1975 e dura ininterrottamente fino al 1979, quando viene ar-
restata praticamente tutta la redazione. Sede del CPO (Collettivi Politi-
ci Operai) e dei CPS (Collettivi Politici Studenteschi), può essere consi-
derata una delle sedi più stabili dell’area dell’autonomia nel corso degli
anni settanta. A periodi alterni e in rapporto al diffondersi dei collettivi
autonomi, diventa anche “struttura aperta” di Coordinamento di situa-
zioni di lotta (fabbrica, scuola, quartiere). Sostanzialmente da questa
sede sono passate gran parte delle strutture dell’autonomia milanese in
un complesso mosaico di dibattito-scontro-rottura che ha permesso ai
magistrati e ai “pentiti” le più diverse interpretazioni. Quello che è cer-
to è che non è mai esistita una struttura centralizzata dell’autonomia
milanese e che, pur essendo “Rosso” dotato di una propria progettua-
lità politica spesso in duro contrasto con le altre tendenze, teneva la se-
de “aperta” tentando di porla “al servizio” del movimento.

91
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fretta, il discorso sulle forme di organizzazione e di pratica po-


litica diventa quotidiano e spasmodico. Per qualche mese il
Collettivo continua a frequentare via Disciplini, dove il coordi-
namento è sempre più sottoposto da varie parti a spinte e ur-
genze di organizzazione. Nel telegrafo senza fili del movimen-
to i coordinamenti e le situazioni collettive sono pieni di sus-
surri e grida, le idee di formazioni come le BR o Prima Linea
sembrano avere dei portatori qua e là, ma il quadro è molto
confuso, solo voci e discorsi per sentito dire, mai proposte di-
rette. Il CAB si sente però estraneo a queste forme di organizza-
zione, dalla simpatia per le prime attività non cruente delle BR,
dagli slogan provocatori a loro favore, è passato alla distanza
politica nei loro confronti dopo le “quintalate”di sparamenti.
I giovani autonomi della Barona si rendono conto al coor-
dinamento che ancora una volta il discorso è quello di acca-
parrarsi gente per la propria organizzazione, di reclutare.
Inoltre, una buona metà della gente che frequentava via Di-
sciplini era diversa da loro, “stava bene”, sapeva parlare con
sicurezza, aveva il culto del personaggio senza incertezze,
“andiamo, facciamo”. Non c’erano grandi rapporti sul piano
personale: si sentono spinti a intervenire ai sabati dell’Alfa
Romeo contro il lavoro straordinario, ma provano disagio,
sono troppo distanti dal problema, la gente non li segue.
Nella crisi di Rosso vengono sollecitati a prendere posizio-
ne sia da parte del gruppo che continua a fare capo al giorna-
le, sia dallo spezzone transfugo di Barbone, ma non seguono
nessuno e si allontanano definitivamente da via Disciplini.
Nel corso del 1977 hanno pubblicato un paio di numeri
del Bollettino del Collettivo Autonomo Barona che ha so-
stituito Revolucion, e hanno collaborato alla redazione di
Black Out, un giornale di collegamento delle lotte autono-
me ritenuto “più utile” di Rosso, con un linguaggio più
chiaro e inserti sui quartieri che ne rendevano più facile la
diffusione in Barona. Ma è forse troppo tardi per un’inizia-
tiva di questo tipo: è il momento in cui cominciano a mol-
tiplicarsi le testate autogestite dell’“ala creativa”, lontane
dalla vecchia terminologia, come Apache, Sesto senso, La
pera è matura, Wow, Viola, Crach, ecc.
Nel 1978, il CAB viene sfrattato dalla sede in via Modica,
e usa come punto di riferimento il centro di S.Ambrogio,

92
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frequentando anche la “Fornace”, il collegamento zona


Sud Ovest e l’affollato coordinamento proletario della zo-
na Sud in via Momigliano.
A questo punto della loro storia i membri del Collettivo co-
minciano a cercare una strada politica che, da una parte,
li faccia uscire dal ristretto ambito della zona, anche per
rispondere alla generale spinta a una organizzazione più
allargata, e dall’altra li differenzi dalle altre proposte che
circolano nel movimento. In risposta all’ipotesi avanzata
da Rosso di fondare un partito dell’autonomia, fanno
uscire Eppur si muove... un ‘foglio per l’organizzazione
proletaria nella metropoli”, come primo tentativo di ana-
lizzare le esperienze comuni dei collettivi territoriali mi-
lanesi e di dare delle indicazioni teoriche e pratiche per
la realizzazione di un progetto collettivo, passando dal-
l’autonomia diffusa all’organizzazione proletaria nella
metropoli. Dopo avere descritto la grande diffusione dei
comportamenti antagonisti e la risposta capillare e pre-
ventiva delle forze repressive statali e private, capiscono
“come a questa estensione sociale di sovversione corri-
sponda sostanzialmente l’incapacità delle varie forze del-
l’autonomia cosiddetta organizzata di essere momenti di
organizzazione e direzione. Finché le proposte di mili-
tanza rivoluzionaria saranno ricche di ideologia e mora-
lismo, l’autonomia diffusa ne rimarrà sempre più estra-
nea: lasciamo agli intellettuali e militanti, che negano la
radicalità dei loro stessi bisogni, menarsela su forme par-
titiche più o meno intergalattiche, salvo poi annegare
queste menate frustranti nel pessimo e costoso vino delle
varie “operette”.7
L’unico terreno di organizzazione praticabile rimane
quello del territorio: “il fondare il nostro progetto di orga-
nizzazione solo e unicamente assumendo il territorio co-

7
. La definizione di operette prende il nome dal locale “L ‘Ope-
retta di corso di Porta Ticinese”, aperto intorno al 1977 da un furbo
commerciante che aveva capito e interpretato i primi segnali di ri-
flusso e disgregazione. Il modello è stato poi fatto proprio da molti
altri, soprattutto provenienti dalle formazioni di sinistra e molto
spesso dalla fabbrica. In questo ultimo caso i capitali iniziali ven-

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me momento centrale di ricomposizione proletaria, è il


frutto di anni di lotte e di esperienze territoriali lungamen-
te praticate qui a Milano spesso ritenendole terreno se-
condario o comunque complementare all’organizzazione
di fabbrica. Movimenti di massa autonomi dal capitale si
sono sviluppati nelle scuole, nei servizi, nei quartieri
ghetto, nelle piccole fabbriche e nelle prigioni, il movi-
mento giovanile ed il movimento delle donne, fino al mo-
vimento del ‘77 hanno posto fine alla parola centralità
operaia... La via dell’organizzazione si fa ora più com-
plessa e tortuosa e non può che essere il risultato di una
lotta sul territorio, collettiva e di massa, per e dentro la
ricomposizione di classe. Per essere dentro a questo pro-
cesso è necessario attaccare le attuali sedimentazioni or-
ganizzative. L’esigenza di classe non è quella di trovare
alleati, ma di ricomporsi sul territorio battendo ogni ten-
tativo corporativo e riformista. Questa è la prospettiva:
officina per officina, casa per casa, unità per unità pro-
duttiva.” Non si crede più nella possibilità “di agire auto-
nomamente in ogni singola zona e di ritrovare poi mo-
menti specifici di coordinamento su iniziative delimitate
e mai stabili”: questo ha impoverito il dibattito e impedi-
to la circolazione dei contenuti delle forme di lotta,
“creando di fatto una mentalità da banda, che ha provo-
cato seri e infantili settarismi, quando non addirittura ri-
valità fra i singoli collettivi.”
Ora è necessario “ricercare tutti i settori del Proleta-
riato metropolitano, comportamenti antagonisti espressi
da una parte, spezzoni di organizzazione autonoma già
dati dall’altra e dall’insieme di queste due cose porre le
basi dell’organizzazione proletaria stessa.” Con l’antici-
pazione repressiva del capitale e con il decentramento
produttivo non si può più “intendere il contropotere co-

gono realizzati principalmente attraverso super liquidazioni otte-


nute spesso per il ruolo di avanguardia di lotta che i futuri gestori
delle osterie svolgevano nel luogo di lavoro. Il fenomeno si è diffu-
so parallelamente alla crisi dei modelli politici e alla conseguente
chiusura di molte sedi. Il bar serale diventa quindi un punto di ri-
ferimento e di aggregazione.

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me una trincea da scavare sul posto di lavoro e la trattati-


va come modo per imporre i bisogni operai: il contropo-
tere diventa immediatamente lo scontro con il capitale,
uno scontro quotidiano e continuato che vede nel terri-
torio l’unico campo di battaglia, senza più linee di de-
marcazione e mediazione tra capitale e proletariato...
Costruire le ronde proletarie che vadano a visitare l’or-
ganizzazione del lavoro e la composizione di classe terri-
toriale, far nascere commissioni e gruppi di intervento
che vanno a scovare i covi del lavoro nero, gli spacciatori
d’eroina che seminano morte: formare commissioni di
controinformazione per avere la conoscenza totale della
militarizzazione a cui siamo sottoposti; ronde contro il
carovita che impongono il controllo dei prezzi e la qua-
lità della merce venduta dai bottegai vari; gruppi di stu-
dio che analizzano la nocività della vita metropolitana:
scarichi industriali, lavorazioni pericolose, avvelena-
mento degli inceneritori, dell’immondizia e delle fabbri-
che della morte (vedi Seveso), rumorosità e igiene del
territorio dove i proletari vivono. Questi non sono che i
primi momenti di organizzazione e conoscenza che vo-
gliamo costruire. La nostra pratica di intervento deve da
subito essere estesa omogenea e contemporanea su tutta
la metropoli.”
Un altro punto accennato è la difesa dei proletari detenuti
“comuni” accanto a quella dei politici. Netto è il rifiuto della
pratica esemplare armata: “Niente a che vedere con azioni
più o meno esemplari e con relative pretese di insorgenza
proletaria attorno a questi attacchi. Intendere il contropotere
attacco indiscriminato e propagandistico agli apparati dello
stato diffuso e ai centri di comando della fabbrica diffusa, si-
gnifica impossibilità di tracciare un terreno di ricomposizio-
ne e rimanerne fuori... Eliminando lo spacciatore di eroina
non si elimina la rete organizzativa di spaccio, la stessa cosa
vale per ogni settore dell’offensiva proletaria nelle metropoli,
che intendiamo organizzare.”
Questo tentativo di elaborare un progetto politico par-
tendo dalla propria esperienza territoriale arriva in una si-
tuazione metropolitana dove si sta chiudendo la forbice re-
pressione- lotta armata e sta maturando la crisi del dopo

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Bologna, dopo l’impatto esplosivo del movimento del ‘77.


Il piano repressivo elaborato dal governo di Unità Nazio-
nale, l’accettazione organizzativa delle formazioni armate,
l’impossibilità per l’autonomia organizzata di attestarsi co-
me bastione ai confini dell’illegalità producono per conse-
guenza l’impossibilità per i collettivi di proseguire nella
pratica di autodeterminazione, esponendoli per primi al-
l’ondata repressiva.
Il CAB continua il confronto e la collaborazione con al-
tri collettivi, come quelli del Gallaratese e di viale Unghe-
ria. Inizia un rapporto con il Collettivo Politico Ticinese,
con il quale organizza delle ronde contro l’eroina in piaz-
za Vetra. Le iniziative si incrociano, come dimostrano i
numerosi volantini del periodo firmati di volta in volta da
diversi raggruppamenti di organismi autonomi, ma sen-
za omogeneità e senza più controllo sulla situazione. I
membri del CAB, in questo tentativo di allargare l’inter-
vento politico al di là della propria zona, rallentano i con-
tatti con il quartiere e si perdono un pò di vista anche fra
loro, muovendosi a volte in situazioni diverse. In modo
unitario mandano avanti il discorso politico sul carcere.
Nel 1978, in occasione della morte in prigione di Mauro
Larghi, producono un eliografato sulla sua morte, costa-
to dei sacrifici in termini di denaro, “San Vittore come
Stamheim”, anche per reagire all’indifferenza di Rosso e
di altri gruppi. Nello stesso anno si ritrovano per una ma-
nifestazione con striscioni OPAM, insieme al collettivo “gli
Unghari” e al Collettivo Proletario S.Ambrogio contro il
carcere e la militarizzazione del territorio; emettono un
volantone, “Dovere di tutti è essere liberi”. All’inizio del
1979 sono tra i fondatori del Comitato Metropolitano
Contro il Carcere alle Colonne di San Lorenzo.
Il 16 febbraio del 1979 un orefice della Bovisa viene uc-
ciso da due giovani a volto scoperto. Si tratta di Pier Luigi
Torregiani, già entrato nella cronaca per avere ucciso in un
locale pubblico un rapinatore. I due giovani salgono a bor-
do di una Opel Ascona, al volante della quale c’è un terzo
giovane, e dopo poche centinaia di metri si trasferiscono
su una Renault 4 rossa, che risulterà poi appartenere alla
madre di Sante Fatone, un membro del CAB. Fra il 17 e il 18

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febbraio scatta un’operazione della Digos, coadiuvata dal-


la Squadra Mobile di Milano, che porta all’arresto di cin-
que membri del Collettivo Autonomo Barona, mentre altri
due, Sante Fatone e Sebastiano Masala, si rendono irrepe-
ribili. I giornali, inaugurando la tecnica del “processo a
mezzo stampa” danno grande rilievo agli arresti e “sbatto-
no i mostri in prima pagina”: i titoli sono del tenore “sgo-
minata la cellula degli autonomi che ha assassinato Torre-
giani”; si parla dei killers dell’autonomia, della “banda” po-
litico-criminale della Barona. Riferendosi ai membri sardi
del CAB, Sissinnio Bitti e i fratelli Masala, il Corriere della
Sera titola il 21 febbraio: “Come un pastore sardo può di-
ventare un killer degli autonomi”. Mentre la stampa prose-
gue il suo linciaggio, il Presidente della Repubblica si con-
gratula con il ministro Rognoni per la brillante operazio-
ne. Ma il 24 febbraio tre dei membri del Collettivo arresta-
ti, Umberto Lucarelli (18 anni), Fabio Zoppi (19 anni) e
Roberto Villa detto Bob (18 anni), vengono scarcerati per
assoluta mancanza di indizi. Gli altri due arrestati, Sisin-
nio Bitti (31 anni) e Marco Masala (18 anni), indicati come
gli esecutori materiali del delitto, hanno un alibi di ferro,
confermato da molte persone: all’ora del delitto erano pre-
senti sul posto di lavoro e in seguito verranno completa-
mente scagionati dall’accusa.
Lo scagionamento e l’estraneità all’omicidio Torregiani
rendono più allucinante e significativo il trattamento subi-
to dai giovani durante l’“operazione”: inaugurando una
tecnica che avrà in seguito altre applicazioni, gli autonomi
della Barona vengono torturati selvaggiamente da agenti e
funzionari della Digos per costringerli a confessare il delit-
to. Pestaggi a pugni e schiaffoni, cerini accesi sotto i piedi
e i testicoli, bastonate sul torace attraverso una coperta
per non lasciare segni, ingerimento forzato di acqua me-
diante un tubo di gomma, botte sulle tempie con le nocche
delle mani e cosi via; due degli arrestati devono essere ri-
coverati in ospedale. Il Collettivo Autonomo Barona, ben
conosciuto organismo autonomo, continuamente corteg-
giato dai “partitini” della città, senza nessuna copertura
politica e perfettamente noto alla polizia per la sua freneti-
ca attività, si dimostra all’occasione il modello ideale per la

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criminalizzazione e la distruzione di una pratica politica


incontrollabile e irriducibile. Il Collettivo viene “scelto”
per le sue caratteristiche, come esempio per inquinare
un’area già fortemente sospetta agli occhi dell’opinione
pubblica e per inaugurare un nuovo corso, più selvaggio e
indiscriminato, della repressione, che porterà a una lettu-
ra esclusivamente criminale di un lungo e complesso per-
corso politico.
L’impatto devastante con le torture e la prigione, la fero-
cia dell’esperienza subìta insieme alla consapevolezza di
essere innocenti, in un primo tempo rinsaldano i rapporti
fra i compagni del Collettivo e li rafforzano nella convin-
zione di avere ragione, di avere le idee giuste. Nonostante
che il caso Torregiani abbia distorto completamente, so-
prattutto attraverso la diffamazione della stampa, la loro
immagine e la loro attività politica, i membri del CAB conti-
nuano ad essere attivi, soprattutto sul problema del carce-
re. Intervengono alla Palazzina Liberty, partecipano al cor-
teo per i ragazzi di via De Amicis, formano comitati di libe-
razione, emettono dei volantini contro la repressione, fan-
no dei piccoli cortei di quartiere con una cinquantina di
persone e ronde nei negozi a spiegare la situazione dei
compagni incarcerati e a raccogliere sottoscrizioni.
Ma la repressione diventa sempre più incalzante, l’attività
dei vari collettivi si riduce sempre più all’autodifesa, sempre
con meno cose da dire o sempre le stesse. La costituzione di
comitati di liberazione non riesce a tenere dietro agli arresti,
l’operazione del 7 aprile dà la misura della portata e della
qualità del disegno di criminalizzazione nazionale di tutta
un’area di movimento e focalizza su di sé gran parte dell’im-
pegno antirepressivo. Tutto questo contribuisce a rimpiccio-
lire il caso degli autonomi della Barona; in questo clima la
magistratura archivia con motivazioni grottesche l’inchiesta
avviata dopo le denunce contro la tortura.8 L’estremo tentati-
vo di coordinamento fra i collettivi sul problema della re-
pressione finisce per sciogliersi anche perché ognuno lavora
su questo punto per conto proprio.

8
. Vedi Laura Grimaldi, Processo all’istruttoria, Milano Libri Edi-
zioni, Milano 1981.

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Per il Collettivo della Barona il problema più grave è la


progressiva perdita di rapporto con il quartiere, l’attività sul
territorio che da sempre aveva funzionato come elemento di
coesione e di forza. Il quartiere all’inizio reagisce bene al
coinvolgimento nel caso Torregiani, dimostrando, dopo il
disorientamento provocato dalla campagna diffamatoria,
piena solidarietà con gli autonomi scarcerati e gli altri del
collettivo. La gente si congratula e si indigna per la vicenda,
offre sottoscrizioni, si ferma comunque a parlare con i “mo-
stri” o con gli “eroi”. Ma il seguito giudiziario e altri avveni-
menti sbricioleranno a poco a poco questo rapporto.
Sui compagni latitanti, nonostante la pochezza degli in-
dizi, è gioco facile della magistratura imbastire una serie
di nuove accuse. I nuovi arresti di presunti membri del CAB
in relazione all’omicidio Torregani, come Grimaldi o Me-
meo, creano confusione e sono difficilmente giustificabili.
Anche se si tratta di persone mai state membri del CAB,
vengono indicati come tali dalla magistratura: questo non
viene smentito né dal collettivo, per un senso di solidarietà
con i nuovi arrestati, né da questi ultimi, per avere una le-
gittimazione della loro azione politica. È un meccanismo
che incrina di nuovo la loro immagine, giustificato però
dalla vissuta esperienza carceraria. È lo stesso meccani-
smo che agisce nell’emanazione di un nuovo numero di
Eppur si muove... nel dicembre del 1979. Nel nuovo nume-
ro si difendono tutti i detenuti politici, si vuole affermare
la legittimità di tutti i comportamenti antagonisti allo Sta-
to; “Nessun comunista è innocente per lo stato! Nessun co-
munista è colpevole per il Proletariato!” È un tentativo di
mantenere un atteggiamento unitario e omogeneo, di fron-
te alle paure e ai sospetti di una situazione di “caccia al co-
munista”, dove i compagni si smarrivano per strada e tutti
i progetti politici si riducevano alla sopravvivenza e all’in-
tervento sul carcere. Ma il bisogno di non fare i giudici, di
difendere tutti quelli che comunque pagavano il loro modo
di essere contrari allo Stato, è anche il risultato dell’espe-
rienza della prigione, della solidarietà intensa nata dentro
questa istituzione totale, che aveva fatto dimenticare le
collocazioni, le appartenenze. Si tratta comunque di un er-
rore: difendendo le persone si difendono anche i loro pro-

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grammi, ma il Collettivo, che ora si firma Organismi Prole-


tari della Barona per staccarsi dalle etichette di killers do-
vute alla campagna diffamatoria, se ne rende conto solo
dopo l’uscita del giornale.
Il grosso dei superstiti del Collettivo si unisce a una par-
te dei giovani del centro di San Ambrogio e continua una
limitata attività sotto il nome di CASBA (Comitato Autono-
mo S.Ambrogio Barona). Un brutto colpo per gli autonomi
della Barona è l’arresto di Sebastiano Masala, uno dei lati-
tanti del collettivo, preso con delle armi che apparteneva-
no a Prima Linea. È la crisi quasi definitiva dei rapporti
con gli abitanti del quartiere: la gente non crede che il pas-
saggio sia avvenuto “dopo”, che questo possa essere uno
sbocco naturale della latitanza nel particolare clima del
momento. Per la gente del quartiere i nuovi arresti di co-
siddetti partecipanti al Collettivo, il passaggio alla lotta ar-
mata di Sebastiano, la latitanza di Sante Fatone, che viene
considerata prova della sua non innocenza, sono tutti ele-
menti che dimostrano o una pratica clandestina armata af-
fiancata a quella fatta alla luce del sole o perlomeno la
strumentalizzazione di una banda di sprovveduti presi in
un gioco più grande di loro. A questo si affianca l’attività
dei “reclutatori” dei gruppi armati che cercano di trarre
vantaggio dalla situazione e inquinano i tentativi di fare
chiarezza dei superstiti del Collettivo.
Poco tempo dopo il rilascio degli arrestati viene ucciso
il poliziotto del quartiere, Campagna, proprio sotto la ex
sede del CAB. L’azione, recentemente rivendicata dai PAC
(Proletari Armati per il Comunismo), fu seguita allora da
un volantino che lo accusava di essere un torturatore. L’in-
fluenza politica negativa di questo fatto agisce a dispetto
dei tentativi di prendere le distanze e denunciare l’assur-
dità del gesto. Cominciano ad apparire scritte delle Brigate
Rosse sotto le abitazioni dei membri del Collettivo e volan-
tini di reclutamento delle BR nelle caselle dove questi erano
soliti porre i loro fogli. Compaiono volantini rivendicanti
l’omicidio di Torregiani nelle scuole o nelle assemblee in
cui gli scarcerati del Collettivo vanno a fare dibattiti sul lo-
ro caso o sulle torture subìte.
Contro questo pedinamento continuo di fantasmi non

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sanno cosa fare, se non infuriarsi a vuoto e stare male. Al-


l’inizio del 1980 la colonna Walter Alasia delle BR uccide
tre poliziotti del commissariato Tabacchi della Barona,
con una rivendicazione fatta in zona. I giornali escono con
pezzi che danno per mandanti gli autonomi della Barona.
I resti del Collettivo decidono di intervenire al comizio or-
ganizzato dalle forze politiche della città per commemora-
re gli agenti uccisi, presentandosi con un volantino intito-
lato “Per fare chiarezza...” dove fra l’altro si dice: “In rela-
zione all’uccisione dei tre poliziotti di via Tabacchi avvenu-
ta ancora una volta nel nostro quartiere, gli organismi pro-
letari della Barona prendono posizione sull’accaduto: ci
sono totalmente estranee queste assurde azioni le quali
non praticano nessun tipo d’intervento politico reale spe-
cialmente in un quartiere proletario come il nostro. Fac-
ciamo presente che da quando abbiamo iniziato il nostro
intervento politico di zona sul lavoro nero, precario, sotto-
pagato, contro l’espandersi dell’eroina, gli sfratti e per l’a-
pertura dell’ospedale S.Paolo, non si è mai sentito parlare
di poliziotti assassinati (vedi A.Campagna, Santoro, Tatulli
e Cestari), né di bancari (vedi A. D’Annunzio ucciso per
sbaglio dalla P.S.), in quanto la nostra pratica politica di
massa toglieva e toglie spazio tuttora ad azioni esemplari
di questo tipo”, fino alla campagna infamante del caso
Torregiani. Il volantino si conclude affermando: “Siamo
stufi di essere chiamati in causa tra false righe da tutta la
stampa ogni qualvolta succeda un qualsiasi fatto di crona-
ca in Barona o in zone limitrofe e diffidiamo qualsiasi
strumentalizzazione ai danni dei nostri compagni”. La Di-
gos ferma e sequestra i volantini perché manca l’indirizzo
di dove sono stampati; tutti vengono schedati e processati
per direttissima.
Un mese dopo, alla Barona si tenta di fare un grosso
corteo degli organismi proletari contro la repressione. Do-
po aver concesso l’autorizzazione, la polizia manda a pren-
dere a casa due membri del vecchio CAB, fra gli scarcerati
del caso Torregiani: il vice-questore minaccia di arrestarli
se la manifestazione avrà luogo. Non serve affermare di
non rappresentare le altre cinquanta persone che vogliono
fare il corteo. I due sono costretti a ritornare al centro di

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Sant’Ambrogio, già circondato dalle forze di polizia, per


convincere gli altri a rinunciare alla manifestazione. L’AN-
SA aveva già dato la notizia della richiesta dell’autorizza-
zione e il Giorno aveva scritto che gli autonomi della Baro-
na avrebbero fatto il corteo contro il divieto della questura.
Così all’interno del centro, nel quartiere spaventato e asse-
diato dalle forze di polizia, si tiene semplicemente una
conferenza stampa per i giornalisti accorsi per documen-
tare lo “scontro”; nei giornali del giorno dopo non verrà
pubblicato nulla. È uno degli ultimi atti politici organizza-
ti dal Collettivo, seguito solo da sporadiche raccolte di fon-
di e dal Comitato per la liberazione di Marco Masala, o da
alcuni volantini come quello sulla chiusura dell’istruttoria
Torregiani.
Tagliato il cordone ombelicale con il quartiere, confuso
con la pratica dei gruppi armati, assottigliato dai sospetti e
dalle paure, sempre nel mirino della Digos o della questu-
ra, il collettivo è costretto a rinunciare alla straordinaria
voglia di lottare che lo ha sempre accompagnato. Fenome-
ni analoghi hanno devastato tutto il tessuto connettivo de-
gli organismi spontanei della metropoli. Nessuna iniziati-
va unitaria è più possibile, neanche a scopo difensivo, per-
ché i superstiti di ogni gruppo sono costretti a frantumarsi
nella difesa dei propri “prigionieri”, ognuno nel proprio
quartiere, chiusi per mantenere un briciolo della loro iden-
tità e per non inquinarsi di fronte al pentitismo dilagante,
a partire da quello di Barbone verso la fine del 1980. Il
pentitismo viene usato per leggere nel senso voluto dalla
magistratura i diversi percorsi politici, serve per colpire
soprattutto chi non ha delazioni e conferme da scambiare
con il potere per attenuare le proprie imputazioni giudi-
ziarie, giungendo così a un’iniqua distribuzione delle pene,
che vede pluriomicidi in libertà e persone condannate in
modo sproporzionato anche per reati modesti. Il pentiti-
smo si presta utilmente anche alla persecuzione giudizia-
ria degli autonomi della Barona. Per Sisinnio, Marco, Fa-
bio e Umberto gli ultimi anni sono stati un continuo entra-
re e uscire dal carcere.
Sisinnio Bitti, prosciolto dall’omicidio Torregiani, è sta-
to condannato a tre anni e mezzo per “partecipazione a

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banda armata”, perché il pentito Pasini Gatti lo avrebbe


visto “discutere con altre persone” nello scantinato di via
Palmieri, considerato dai magistrati un covo della lotta
armata. In realtà, il luogo è un punto aperto di ritrovo del
Collettivo di via Momigliano, messo a disposizione dal
PDUP. Il 14 maggio 1983 viene imputato di “concorso mo-
rale per duplice omicidio” (Torregiani e Sabbadin, un ma-
cellaio veneto ucciso contemporaneamente all’orefice),
perché un altro pentito, Pietro Mutti, lo avrebbe sentito
dire che era d’accordo con le due uccisioni. Attualmente è
detenuto.
Marco Masala, scagionato per il caso Torregiani, è attual-
mente in carcere, condannato a nove anni per un attentato
contro una caserma di carabinieri, sempre su indicazioni di
pentiti. Fabio Zoppi, accusato di “esproprio proletario” di un
negozio di Hi-Fi dai pentiti Pasini Gatti, Andrea Gemelli e An-
na Andreasi, è attualmente agli arresti domiciliari. Poiché si è
ostinato a dichiararsi sempre innocente del fatto, il magistra-
to lo ha definito “irriducibile e socialmente pericoloso”. Ha
trascorso due anni e due mesi in carcere. Umberto Lucarelli è
attualmente in libertà provvisoria; insieme con Fabio Zoppi
deve rispondere di un esproprio e del bruciamento di tre “co-
vi” del lavoro nero.
Alla fine del 1980, di fatto, il Collettivo non esiste più a
parte sporadiche iniziative di qualcuno dei superstiti. Chi
è rimasto fuori dalle disavventure giudiziarie se n’è andato
o si è spoliticizzato; anche il legame di amicizia per molti
non funziona più. L’apatia e l’impotenza hanno portato al-
cuni della vecchia commissione sull’eroina a provare su di
sé questa sostanza, che ormai ha invaso la zona soprattut-
to dopo la costruzione del ponte di collegamento con il
Giambellino, il centro di spaccio della droga di Milano. La
Barona, dopo aver conosciuto anni di militarizzazione a
partire dal 1979, sembra oggi ritornata al normale letargo
di un ghetto-dormitorio. Non ci sono più collettivi: è rima-
sto il centro sociale di S.Ambrogio, dove alla sera si gioca a
Risiko, e ogni tanto si suona.
Non ci sono neppure più volantini come questo, del
gennaio ‘80: “la grande stagione della caccia al terrorista si
è aperta. I cittadini sono invitati a partecipare e alla fine

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del gioco saranno sorteggiati ricchi premi per tutti. Ma noi


non ci stiamo. La nostra sola pratica di lotta è una condan-
na al terrorismo. Non ci nascondiamo dietro al mirino di
una pistola, né conduciamo vite parallele, di giorno bravi
ragazzi di notte brigatisti spietati, né siamo disposti a
chiuderci in casa e far parlare per noi i vari boss dei partiti
costituzionali di zona. Siamo decisi, e sempre lo abbiamo
fatto, ad intervenire politicamente in prima persona e alla
luce del sole nel nostro quartiere.”

ANNI ‘70: STATO “D’EMERGENZA” E TERRORISMO


di Nanni Balestrini e Primo Moroni

Alcuni estratti da L’Orda d’oro, ed. SugarCo, 1988; ed. Feltri-


nelli, 1997

La “strategia della tensione” era stata sconfitta da tre gran-


di componenti sociali e politiche: la conflittualità dell’au-
tonomia di classe, la pratica militante, il radicalismo de-
mocratico. La posizione estrema e sintetica delle forma-
zioni armate aveva storicamente prodotto “la forma-vio-
lenza organizzata in partito”, ma questa componente era
rimasta fino a tutto il 1976 sostanzialmente minoritaria
(Bonisoli, uno dei protagonisti della fondazione delle BR,
dirà che a quell’epoca i militanti non arrivavano a cento in
tutta Italia) e proprio nell’emergere del “movimento ‘77” si
era trovata in gravi difficoltà progettuali: anche se il riferi-
mento immaginario e politico alla tendenza armata si po-
teva leggere in modo diffuso, non era tale però da autoriz-
zare un’unità di intenti tra progettualità armata e pratica
della violenza diffusa.
Crisi dei “modelli organizzativi”, radicalità del “bisogno
di comunismo”, ristrutturazione profonda e autoritaria del
ciclo produttivo, ricomposizione della “forma stato” sono
gli elementi dello scontro.
Confrontata con il periodo ‘69-’73, la novità più rilevan-
te del ‘77 è data dal duro irrigidimento istituzionale, condi-
viso ora dalla quasi totalità delle forze politiche rappresen-

104
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tate in Parlamento. Il progetto di ordine pubblico, che pas-


serà alla storia come “legislazione di emergenza”, ha rap-
presentato nel ‘77 “la base dell’accordo fra i partiti dell’arco
costituzionale ed è stato la condizione per la cooptazione
del Pci nell’area “democratica” o di governo; per la prima
volta nella sua storia il Pci si è dichiarato favorevole a un
massiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costi-
tuzionali e si è impegnato in campagne ideologiche — ulti-
ma quella del “referendum” sulla legge Reale — dirette ad
alimentare consenso popolare nei confronti del processo di
restaurazione autoritaria” (L. Ferraioli, D. Zolo).
“Benché, come giustamente nota uno degli storici e dei
testimoni più lucidi delle vicende istituzionali e degli appa-
rati giudiziari italiani, una forte spinta all’inasprimento
delle sanzioni penali sia già cominciata nel ‘74-75, “il 1977 è
l’anno chiave” (Romano Canosa). Tra l’altro viene posta una
pesante ipoteca sugli avvocati che esercitano una difesa po-
litica, consentendo di sospendere dall’esercizio della profes-
sione chi incorre in procedimenti penali a suo carico o chi
viene colpito da mandato di cattura” (Sergio Bologna).
È anche il periodo in cui vengono autorizzate — e mai
legiferate — le “carceri speciali”, autentici lager destinati
alla distruzione psicofisica dei detenuti, e viene estesa la
possibilità di ricorrere all’uso delle armi per impedire le
evasioni facendo intendere che se ci saranno altre “stragi
di Alessandria” non dipenderà dall’iniziativa personale e
forzata di qualche magistrato, ma sarà obbligo di legge.
Non a caso l’incarico di dirigere questo settore viene affi-
dato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che di quella
“strage” era stato uno dei protagonisti.
In effetti, se la “strategia della tensione” era stata ma-
novrata da settori dello Stato per “comunicare” al conflit-
to di classe il ricatto terroristico di una possibile involu-
zione reazionaria, la “legislazione di emergenza” è l’as-
sunzione a livello istituzionale di una pratica sostanzial-
mente “illegale”, involutiva, reazionaria, rivolta a condi-
zionare e reprimere qualsiasi espressione organizzata o
spontanea di ribellione sociale. Diverse sono le forme in
cui si manifesta la risposta dell’avversario di classe ma
identiche le finalità.

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Nella percezione comune di migliaia di militanti — ma


anche di settori democratici — lo Stato nel coprire (tolle-
rare od organizzare) le trame della “politica delle stragi”
era stato delegittimato del monopolio esclusivo dell’uso
della violenza, e d’altronde questo supposto privilegio “de-
mocratico” è tra i più ambigui e contraddittori. Norberto
Bobbio (uno dei padri della Costituzione) nell’intervenire
su queste problematiche affermava: “Che i gruppi rivolu-
zionari giustifichino la propria violenza considerandola
come una risposta, l’unica possibile, alla violenza dello
Stato, è più che naturale. [...] Del resto, questo stesso argo-
mento è usato dallo Stato per giustificare l’uso della vio-
lenza propria, della violenza cosiddetta istituzionalizzata,
nei riguardi della violenza rivoluzionaria”. È dentro questa
specularità che, secondo Bobbio, i “democratici conse-
guenti” elaborano le Costituzioni e le tavole delle leggi. Il
compito di questi apparati “disciplinari” dovrebbe essere
quello di equilibrare il diritto di rappresentanza dei movi-
menti sociali con le esigenze di gestione e di riproduzione
delle democrazie. Quando ciò non avviene, quando vengo-
no alterati unilateralmente gli statuti e le regole del gioco,
si apre un conflitto dagli esiti imprevedibili.
A metà degli anni Settanta l’arretratezza conservatrice
del potere democristiano aveva prodotto un “blocco” del
sistema democratico, le cui avvisaglie si avvertivano fin dal
1974 (quindi molto prima della fase del cosiddetto perico-
lo “terrorista”) con il varo della legge che raddoppiava i
termini di carcerazione preventiva, si consolidava con la
reintroduzione dell’interrogatorio di polizia, per completa-
re una prima fase involutiva con la legge Reale (1975):
un’autentica “licenza di uccidere” delegata alle “forze del-
l’ordine” (provocherà 350 vittime nei primi dieci anni di
applicazione).
Vista a distanza di anni, la dinamica autoritaria si pre-
senta quasi come un disegno organico: da un lato “il terro-
re delle stragi” favorito dagli apparati di sicurezza dello
Stato, e dall’altro una progressione di provvedimenti giu-
diziari sempre più autoritari, giustificati con la necessità
di difendere una non meglio definita “democrazia” minac-
ciata dalla violenza, a sua volta genericamente evocata.

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Tutto ciò in risposta alla profonda modificazione della “co-


stituzione materiale del sistema politico italiano”. Modifi-
cazione che partendo dalla fabbrica e integrandosi nel so-
ciale aveva profondamente alterato i rapporti di forza tra
le classi. Si era formato il sindacato, anzi l’unità sindacale,
voluta dalla base, dall’operaio massa.
Il sindacato, unico strumento di mediazione tra il pote-
re della classe operaia e il sistema dei partiti (di tutto il si-
stema dei partiti), diventava anche la principale cinghia di
trasmissione tra la società civile e lo Stato, indebolendo
così in maniera drammatica e irreversibile il tradizionale
potere dei partiti, e in particolare di quelli di sinistra. Nella
fabbrica e nella società i movimenti si sottraevano pro-
gressivamente all’egemonia del PCI, che per la prima volta
dal dopoguerra perdeva l’egemonia sulle fabbriche. Le for-
me di lotta, la “conflittualità permanente”, i movimenti
che portavano avanti il conflitto sul salario, sul reddito, sui
servizi, sul consumo produttivo della forza lavoro, erano
quasi tutti autonomi e indipendenti dal sistema dei partiti.
L’unica forza che tentava contraddittoriamente di rappre-
sentarli era il sindacato nelle sue varie articolazioni, den-
tro le quali prevalenti diverranno rapidamente le istanze di
base — mette conto di notare che la grande maggioranza
degli iscritti al FLM (l’organismo intersindacale dei consigli
di fabbrica) era priva di una qualsiasi tessera di partito —
fino a scontrarsi duramente con i vertici.
“Una intera società pare in trasformazione accelerata,
mentre si verifica una violenta e perdurante crisi di iden-
tità della borghesia, che inizia dalla perdita della sua iden-
tità culturale e delle residue eredità democratiche formate-
si durante la Resistenza, ma si sostanzia in un suo conflit-
to-modificazione di poteri interni alla sua composizione”
(Sergio Bologna). È dentro questo scenario che si forma
una tendenziale unificazione del quadro politico attorno al
progetto di difesa dello “Stato democratico”.
[…]
Nel pre ‘77 è proprio il PCI che tenta di rivedere in
profondità i propri statuti materiali, i propri referenti e si-
stemi di poteri interni. È anche il partito che in una prima
fase ottiene i maggiori vantaggi dalla spinta al rinnova-

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mento complessivo che proviene dalla società civile. Le vit-


torie elettorali del ‘75-76 (massimi storici del dopoguerra)
sono anche il risultato di un grande immaginario collettivo
che nel “sorpasso” elettorale della Democrazia Cristiana
condensa una parte dei bisogni espressi dal quinquennio
precedente. Ma tutto si rivela una tragica illusione. Il PCI,
per strategia storica, per cultura politica, non è in condi-
zione di recepire un bisogno di cambiamento così radica-
le, ma al contrario persegue con ostinazione l’obiettivo di
entrare nell’area di governo. Così si spiega l’abbandono
della discriminante contro la NATO (storica battaglia fin da-
gli anni Cinquanta) e la scelta di lottare per ricostruire la
“produttività” capitalistica duramente intaccata dalle lotte
sociali e di fabbrica.
Obiettivo indispensabile di questa strategia di avvicina-
mento al potere è la necessità di ricondurre il sindacato
dentro l’egemonia del partito e della sua strategia. Il sinda-
cato era, come abbiamo visto, l’unica forza di mediazione
del conflitto. “Privo dei sindacati, il sistema politico italia-
no non reggerebbe alle spinte di classe, alle spinte sul red-
dito, ai nuovi bisogni” (Sergio Bologna). Qualsiasi ricom-
posizione dall’alto del potere non poteva avvenire senza la
collaborazione del sindacato.
Su questa progettualità si innesca la politica dei sacrifi-
ci mobilitando tutte le “teste fini” a disposizione. Trentin
scrive un lungo testo di riflessione (Da sfruttati a produtto-
ri) per spiegare la necessità del patto tra produttori per ri-
costruire, vedi il caso, il percorso di “egemonia democrati-
ca” del movimento operaio. Berlinguer, nel famoso discor-
so agli intellettuali, spiegherà che il governo di sinistra non
è tanto un’ipotesi impossibile, quanto indesiderabile fin-
ché il terreno della “produttività” non è “un’arma del pa-
dronato” ma “un’arma del movimento operaio per manda-
re avanti la politica di trasformazione”. Lama, dal canto
suo, in una famosa intervista a “La Repubblica”, ribadirà
in forma organica gli stessi concetti, appoggiato dall’auto-
rità dell’economista Sylos Labini che in maniera più incisi-
va dichiara che “la sinistra deve deliberatamente e senza
cattiva coscienza aiutare la ricostituzione di margini di
profitto, oggi estremamente depressi, anche proponendo

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misure onerose per i lavoratori. Questo può essere un pas-


so nella direzione dell’egemonia gramsciana [sic]”. Questa
ultima sintesi teorica verrà fatta propria dal PCI durante la
sua “partecipazione” al governo.
Ma una scelta strategica di questa natura non può svilup-
parsi senza conseguenze drammatiche sul conflitto sociale.
Essa significa l’esatto capovolgimento del conflitto capitale-
lavoro sviluppatosi durante la fase rivoluzionaria precedente.
Significa annullare tutte le conquiste dell’”autunno caldo” e
l’egemonia conquistata con il “partito di Mirafiori”. Si posso-
no usare tutti gli artifici linguistici (i licenziati, ad esempio,
diventano “esuberanti”), ma nella realtà sia gli operai che i
movimenti che agiscono nella società non intendono rinun-
ciare alle conquiste già fatte, vogliono anzi andare oltre.
La “legislazione d’emergenza” nasce proprio come deter-
rente, come prevenzione del possibile scontro che si inne-
scherebbe con la modifica delle “regole del gioco”. Il governo
di “solidarietà nazionale” come espressione del taumaturgi-
co e interclassista “stato democratico” tende ad assorbire in
sé nel Parlamento qualsiasi forma di conflitto, mentre quelli
incompatibili diventano materia penale e giudiziaria.
La forma-stato sotto la figura del “sistema dei partiti”,
che da sempre è una forma latente della storia italiana, rie-
merge allora con forza e progettualità.
[…]
Mentre nel ‘77 il Parlamento vara un pacchetto di “leggi
eccezionali”, le conseguenze delle pratiche insurrezionali
del movimento e il disperato arroccarsi nelle fabbriche
delle avanguardie operaie sconvolgono l’intero panorama
dei movimenti rivoluzionari. Mentre l’autonomia e la ric-
chezza del “movimento del ‘77” si confrontano con il de-
serto della scomposizione soggettiva e il dilemma “avanti
come, avanti dove?” assume significati esistenziali, le
avanguardie di fabbrica vivono drammaticamente il “tra-
dimento dei vertici”. L’uso politico della cassa integrazio-
ne, il decentramento degli impianti, i continui licenzia-
menti motivati da discriminanti politiche puntualmente
legittimate dallo straripante potere della magistratura,
sembrano — e in effetti sono — ostacoli insormontabili al-
la ripresa dell’iniziativa.

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È forse il periodo più oscuro dal dopoguerra. Se l’ango-


scia dei primi anni Sessanta era stata una delle molle della
rivolta, la “paura” operaia produce disperate omologazio-
ni. La battaglia “contro il terrorismo” viene usata come
“cavallo di Troia” per far passare un progetto molto più va-
sto e molto più complesso. Innanzitutto, da un lato, l’eli-
minazione dal panorama politico italiano di una serie di
forze di opposizione rivoluzionarie; dall’altro capo l’elimi-
nazione del corpo centrale delle avanguardie di fabbrica
che avevano reso ingestibile il comando padronale sulla
fabbrica stessa. Per far ciò si mette in moto non soltanto
un meccanismo processuale e legislativo che fa a pezzi lo “
stato di diritto”, ma anche un formidabile apparato dei
media, una cultura, un modo di leggere e falsificare la sto-
ria degli anni Settanta con l’obiettivo di privare della “me-
moria” qualsiasi soggetto antagonista.
Nei giovani militanti si produce una sindrome terribile ri-
spetto all’inutilità di qualsiasi forma di autorganizzazione di
base. Le scelte paiono essere solo di tipo estremo e radicale:
una spirale dove da una parte c’è il diffondersi di massa dell’e-
roina (10.000 drogati nel ‘76, 60-70.000 nel ‘78) come espres-
sione di una radicale negazione dell’esistente; dall’altra, come
in un diffuso bisogno di scelte di rigore e ordine morale, l’af-
flusso in massa dentro le formazioni armate.
L’organizzazione armata che storicamente godeva del
massimo prestigio era quella delle Brigate Rosse. Con una
solida origine dentro la classe e un organico impianto teo-
rico sempre più mutuato dalle esperienze della Terza In-
ternazionale (dopo un lungo inizio decisamente più “ope-
raista” e guerrigliero), le BR parevano un’organizzazione
impenetrabile e imprendibile, dotata di una micidiale ca-
pacità operativa. Il rapimento e l’uccisione dell’on. Moro,
che si preparava a inserire direttamente il Pci nei livelli
dello Stato, facevano delle BR gli interpreti di un desiderio
di risposta diffuso in modo contraddittorio nei resti dei
movimenti. Larghi settori di avanguardie di fabbrica vede-
vano con ammiccante simpatia i valori simbolici della vi-
cenda Moro, e in molte aree movimentiste aveva destato
grande impressione l’efficienza militare esibita nel corso
del rapimento dello statista democristiano.

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Nei primi mesi del ‘78 e dopo la tragica conclusione della


vicenda di Aldo Moro, si assistette ad un continuo moltipli-
carsi dei gruppi e delle pratiche armate. Affluiscono dentro le
formazioni maggiori centinaia di militanti dell’autonomia
diffusa e intere sezioni di avanguardie di fabbrica — esem-
plare a questo riguardo la vicenda della Brigata Walter Alasia
di Milano, per la gran parte costituita da giovani operai.
Mentre il “sistema dei partiti”, apparentemente destabilizza-
to dalle sue stesse scelte politiche, delega i poteri di controllo
e repressione alle forze dell’ordine e alla magistratura, che
acquisisce poteri insindacabili e assoluti, scrivendo una delle
pagine più nere nella storia degli “stati di diritto” moderni.
Le Brigate Rosse nel rapire e uccidere l’on. Aldo Moro
realizzavano simbolicamente un passaggio della strategia
di “attacco al cuore dello Stato” elaborata a partire dal
1975-76 come conseguenza del giudizio dato sulla ipotesi
del “compromesso storico”. Nella Risoluzione della dire-
zione strategica dell’aprile 1975 le BR avevano definitiva-
mente abbandonato il modello dell’autointervista per porsi
con un documento ufficiale che aspirava a essere una sorta
di programma generale come nelle tradizioni dei partiti
storici della Terza Internazionale. Già questa scelta, appa-
rentemente formale, era indicativa di un porsi dell’orga-
nizzazione armata come elemento egemonico della com-
plessità del processo rivoluzionario in atto. Non più quindi
un organismo armato clandestino come polo di riferimen-
to delle esperienze più radicali dello scontro di classe, ma
vera e propria organizzazione che, ponendo la “lotta arma-
ta” come unica linea strategica dello scontro di classe, co-
me la “forma” della rivoluzione, tendeva a riqualificare al
proprio interno tutte le esperienze prodotte dalla comples-
sità del movimento reale. Una scelta strategica di questa
natura non poteva che operare una drastica riduzione del-
la stessa complessità e ricchezza dei percorsi organizzativi
e, dentro questa riduzione, provocare una progressiva con-
trapposizione con altre esperienze di lotta non solo nei re-
sti dei gruppi extraparlamentari ma anche nell’area del-
l’autonomia organizzata e diffusa. Queste divisioni si man-
terranno negli anni successivi provocando continue dina-
miche di comprensione-rifiuto della pratica delle BR, ma

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sostanzialmente mai una loro completa delegittimazione


fino alla divaricazione complessa e contraddittoria che si
verificherà durante il “caso Moro”.
Nel rapire lo statista democristiano le BR intendevano
sicuramente attaccare il progetto del “compromesso stori-
co”, ma in realtà l’obiettivo più ambizioso era indirizzato a
prendere l’egemonia, ad anticipare l’inevitabile scontro tra
“centralità operaia” e Stato del capitale che nelle analisi
delle BR veniva dato per certo, imminente come storico,
“naturale” risultato dell’attacco che il capitale e lo Stato
stavano portando all’egemonia espressa dall’”operaio mas-
sa”. Anticipare la “guerra civile dispiegata” attraverso le
azioni esemplari e militari con l’obiettivo di prendere la di-
rezione del movimento reale nel momento stesso in cui
questo per genesi propria si sarebbe incontrato con il pro-
getto BR. Questa progettualità tutta ideologica e indicativa
del progressivo separarsi dal movimento reale avrebbe ri-
cevuto una clamorosa smentita nella grande e traumatica
sconfitta operaia alla Fiat nel 1980: decine di migliaia di
operai sospesi, di fatto espulsi dalla produzione, si disper-
devano nel sociale diventando “invisibili” soggetti impau-
riti e deprivati della propria identità di massa, mentre i
gruppi armati ormai innescati dalla pratica esclusivamen-
te militare non erano più in grado di rapportarsi alle modi-
fiche profonde intervenute nello scenario dello scontro.
“Negli ultimi mesi del ‘78 e nei primi del ‘79 cede la for-
mula del governo di unità nazionale e parallelamente ven-
gono liquidate anche le ultime barriere di mediazione.
L’assassinio del magistrato Alessandrini (ad opera di Pri-
ma Linea) acquista a questo punto un significato partico-
lare perché rimette in discussione tutto il funzionamento
e la storia della magistratura nella gestione dei processi
politici degli ultimi dieci anni. Cadono le distinzioni che
ancora settori politici e giudiziari facevano tra terrorismo
organizzato e movimenti di contestazione. La magistratu-
ra, come corpo separato, ha una reazione d’autodifesa che
va al di là dei ritmi e dei tempi voluti dagli stessi corpi o
nuclei speciali antiguerriglia, agisce contro tutto e tutti,
ficcando in galera teorici e politologi, tecnici e giornalisti”
(Sergio Bologna).

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In effetti la teoria di un’unica direzione tra gruppi armati


e movimento era stata portata avanti dalla magistratura pa-
dovana e dagli articolisti comunisti di “Rinascita” fin dal
1976-77, ma, come abbiamo visto nel dibattito relativo al
movimento ‘77, era “passata” solo parzialmente provocando
aree di resistenza e di rifiuto non solo tra gli intellettuali ma
anche in consistenti settori dei magistrati democratici. Con
la vicenda Alessandrini quest’ultima fragile barriera di agi-
bilità si frantuma definitivamente contribuendo a dare fon-
damento all’efficacia falsificatrice e devastante del “teorema
Calogero”. Deprivato violentemente dei propri strumenti di
comunicazione (vengono incarcerati e inquisiti centinaia di
redattori), schiacciato dall’efficacia dei gruppi armati, ora-
mai pressoché privo di alleati o “compagni di strada”, il mo-
vimento si disperde in mille rivoli. È la fase dei “suicidi mili-
tanti” seguita da quella ben più consistente dei “suicidi ope-
rai” (più di duecento nella sola Torino tra i cassaintegrati).
La fase in cui lo Stato ricostruitosi come apparato fa dell’e-
mergenza un autentico e micidiale metodo di governo fun-
zionale a ridisegnare in termini autoritari tutta la “geografia
del conflitto” facendo a pezzi qualsiasi forma di rappresen-
tanza che non si pieghi alle nuove esigenze produttive. “L’e-
conomia sommersa” (leggi “lavoro nero”) porta alla ribalta
una nuova generazione di imprenditori spregiudicati, ag-
gressivi e preparati a confrontarsi con la tradizionale “razza
padrona” industriale, che dopo aver desertificato le fabbri-
che dalle soggettività rivoluzionarie espresse dall’”operaio
massa”, può finalmente inglobare la scienza operaia dentro
la ristrutturazione tecnologica e informatica.
La “cultura d’impresa” e l’”individualismo proprietario”
si capovolgono in valori positivi difesi ed esaltati dai media
e dagli intellettuali che dentro il “pensiero debole” del
“quotidiano” e del “basso profilo” della difesa dei propri
privilegi paiono trovare l’alibi alla loro fuga.
La teoria delle “due società”, che poteva sembrare
un’eccessiva schematizzazione durante il movimento ‘77,
assume all’inizio degli anni Ottanta una dimensione di
massa: centinaia di migliaia di giovani “non garantiti”, mi-
lioni di sottoccupati sono l’asse portante e privo di rappre-
sentanza della nuova ricchezza.

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Nei grandi labirinti metropolitani regna il silenzio della


separatezza e dell’impotenza, i volti “serializzati” dei “poli-
tici” ripetono parole prive di senso dagli schermi televisivi.
Sono iniziati gli anni Ottanta. Gli anni del cinismo, dell’op-
portunismo e della paura.

CONDANNATI ALLA NORMALITÀ. I RIFUGIATI POLITICI IN FRANCIA


di Vincenzo Ruggiero

da Vis-àVis n. 2, 1994.

Questo articolo è stato concepito originariamente per un


pubblico non italiano. L’enormità riguardante la situazio-
ne dei rifugiati politici in Francia, che è nota tra noi so-
prattutto tra i meno giovani militanti della sinistra, è infat-
ti del tutto sconosciuta in altri paesi. L’intento di questo
contributo era perciò di documentare una storia e denun-
ciare una condizione di cui, vuoi tra accademici illuminati
vuoi tra gruppi politici, pochi erano a conoscenza. Redatto
in inglese, l’articolo era rivolto ai due suddetti gruppi di
lettori, ed è già apparso in una rivista di sociologia critica
del diritto che, sebbene in un numero ridotto di esemplari,
circola nelle maggiori università del mondo (si tratta di
Crime, Law and Social Change, Vol. 19, N. 1, 1993).
Alcune delle semplificazioni contenute nel testo si devo-
no al tentativo dell’autore di descrivere a un pubblico in-
ternazionale il clima politico italiano degli anni ‘70-’80. I
lettori di anziana milizia politica troveranno perciò alcuni
passaggi un pò scontati, mentre altri ravviseranno delle
approssimazioni, a volte delle forzature. Altri semplice-
mente discorderanno da alcuni spunti analitici che sono il
frutto esclusivo, ovviamente, delle esperienze e delle opi-
nioni dei rifugiati politici contattati e di scrive.
Sono stato incoraggiato a tradurre questo articolo dalla
redazione di Vis-à-vis, che mi ha assicurato circa l’oppor-
tunità della sua divulgazione. Mi è stato fatto notare, infat-
ti, che anche il pubblico italiano più politicizzato, special-
mente quello giovane, non è al corrente degli episodi che si
narrano qui di seguito. Gli avvenimenti che hanno coinvol-

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to la precedente, e la mia, generazione vengono avvertiti,


mi è stato detto, come una eco lontana da chi fa politica
oggi. D’altro canto, la storia dei rifugiati politici italiani,
conosciuta da pochi e trasmessa solo oralmente, rischia di
lasciare poca traccia se non fissata, seppure sommaria-
mente, in uno scritto. Spero che questi incoraggiamenti e
rassicurazioni, che ho trovato persuasivi, abbiano colto
nel segno e che trovino riprova nell’interesse di chi legge.

Premessa

Gli anni ‘70 in Italia sono stati più conflittuali che altrove.
I movimenti sorti nel corso degli anni ‘60, infatti, si sono
mantenuti vitali per due decenni e, contrariamente a
quanto verificatosi in altri paesi europei, il loro declino ha
avuto inizio solo nei primi anni ‘80. Questa anomalia di
natura temporale riflette dei contenuti politici altrettanto
anomali. Sebbene coinvolgesse gli attori sociali più dispa-
rati (operai, studenti, donne, insegnanti, medici, avvocati,
giornalisti, detenuti, ecc.), il movimento riusciva ad eleg-
gere per tutti delle strategie indipendenti e dei terreni ex-
tra-istituzionali di lotta. Le stesse forme del conflitto, mol-
to spesso, trascendevano i rituali della contrattazione per-
manente. Le aspirazioni, in altre parole, non venivano ne-
goziate, ma davano luogo a delle pratiche. Le definizioni
“pratica dell’obiettivo” e “decreto operaio” riassumevano
un atteggiamento e insieme un programma: una volta in-
dividuati dei bisogni collettivi e stabilite le modalità per
soddisfarli, queste modalità andavano subito e autonoma-
mente messe in campo e non negoziate.
Poco importava se, aggirando la negoziazione, le forme
e i contenuti delle lotte venivano ufficialmente ritenuti ille-
gali. La stessa illegalità, infatti, non veniva ritenuta illegit-
tima, essendo proprio la costituzione di una nuova legalità
e di una nuova moralità uno degli obiettivi di quelle lotte.
La formazione di numerosissimi gruppi armati, inter-
namente ai movimenti della sinistra, non è in fondo che
un’espressione di questa ricerca di nuove legalità e mora-
lità, ricerca condotta con le sfumature diverse nella scelta
degli obiettivi e degli strumenti e conformemente alle spe-

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cifiche convinzioni politiche dei gruppi stessi. Per un lun-


go periodo, prima che avesse inizio una sorta di cacofonia
di azioni militari, era persino possibile riscontrare una
certa coerenza tra le convinzioni di un gruppo, la sua ana-
lisi politica e sociale e gli “obiettivi armati”, se non le mo-
dalità di operazione, con le quali l’obiettivo stesso veniva
praticato.
La storia italiana di quegli anni non è stata ancora com-
piutamente ricostruita, né una tale ricostruzione rientra
nei compiti di questo contributo. Di seguito, ci si limita ad
analizzare uno degli esiti di quella stagione. Tra gli anni
‘70 e la metà degli anni ‘80, il sistema della giustizia crimi-
nale in Italia ha “raggiunto” oltre 20.000 rei politici. La ci-
fra record dei detenuti politici della sinistra è stata di
4.000. Un paio di centinaia di militanti rimangono ancora
detenuti. Molti, invece, non appena conseguita la libertà
provvisoria, hanno preferito lasciare il paese e aspettare “a
distanza di sicurezza” le fasi finali del processo che li ri-
guardava.
Alcuni sono riusciti ad evadere, altri sono stati scarce-
rati per motivi di salute. Altri ancora sono fuggiti non ap-
pena hanno avvertito come imminente l’arresto. Uno ha la-
sciato il carcere in quanto eletto deputato del Parlamento.
Oltre 400 persone si sono raccolte a Parigi, luogo tradi-
zionale dei rifugiati politici dove, ironicamente, già i co-
munisti e socialisti italiani di inizio secolo avevano trovato
ospitalità durante il periodo fascista.
Le testimonianze che seguono sono il frutto di conver-
sazioni e interviste non strutturate effettuate nell’arco di
alcuni anni. Solo dopo ripetute visite a Parigi, infatti, il
gruppo di rifugiati più frequentemente contattato ha av-
vertito la necessità di far scaturire da quelle conversazioni
un capitolo scritto, seppur breve, della propria storia.
Da queste testimonianze emerge che l’esilio è una for-
ma di pena, una punizione “impropria”, sulla quale poeti e
romanzieri si sono spesso intrattenuti, ma che raramente è
stata oggetto di analisi da parte vuoi di sociologi critici
vuoi di militanti politici. Siamo qui di fronte a cittadini eu-
ropei che chiedono asilo politico all’interno della cosiddet-
ta fortezza Europa, avendo costoro valicato soltanto le

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frontiere interne di questa fortezza. Un fenomeno che si


crede riguardare esclusivamente le vittime di una dittatura
sud-americana o i transfughi altamente spettacolarizzati
degli ex paesi comunisti, si verifica invece tra noi, nella de-
mocratica Europa unita.

Una anomalia giuridica

La condizione dei rifugiati italiani in Francia presenta un pa-


radossale dilemma giuridico. Relativamente ad asilo politico
ed estradizione, il trattato in forza tra i due paesi viene siglato
nel 1979, quando una serie di paesi europei adotta una strate-
gia comune di lotta al “terrorismo”. Ma sebbene il trattato in-
troduca delle sostanziali limitazioni al diritto d’asilo, alcuni
importanti elementi delle legislazioni dei singoli paesi euro-
pei non vengono completamente cancellati.
Secondo la costituzione italiana e francese, ad esempio,
l’estradizione non può essere concessa qualora la persona
venga accusata di aver commesso reati politici. Questo
principio si basa sull’assunto secondo cui, nei diversi pae-
si, esistono notevoli differenze nel valutare quali siano i li-
miti giuridicamente accettabili entro i quali l’attività poli-
tica può essere legittimamente svolta. A questo proposito,
la costituzione italiana indica che tra due paesi che non
condividono la stessa nozione di legittimità politica, una
“cooperazione repressiva” non può aver luogo.
D’altra parte, la stessa costituzione italiana indica che i
reati commessi con l’intento di sovvertire i principi della li-
bertà e della democrazia non vanno ritenuti reati politici.
Controverso è anche l’art. 26 della nostra costituzione, che
così recita: l’estradizione va considerata possedere natura
politica anche quando, pur se concessa per reati comuni,
mira in realtà alla persecuzione politica di un individuo.
Infine, è principio internazionale condiviso che, una
volta negata l’estradizione, abbia inizio una procedura che
assicuri l’asilo politico a “chi viene impedito l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche nel proprio paese”
(art. 10 della costituzione italiana).
Ignorando questi principi fondamentali, le autorità ita-
liane hanno richiesto l’estradizione dei rifugiati non appe-

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na divulgatasi la notizia della loro presenza a Parigi. Tutta-


via, le scelte a loro disposizione erano piuttosto limitate.
Tra le formule più ovvie che potevano accompagnare le ri-
chieste di estradizione vi era, ad esempio, l’asserzione che i
rifugiati avevano agito con lo scopo di sovvertire i principi
di libertà e democrazia sui quali è basata la repubblica ita-
liana. È questa un’affermazione piuttosto difficile da corro-
borare, anche perché più adatta a descrivere gruppi e mili-
tanti della destra. La sua originaria formulazione, tra l’altro,
risale all’era post-bellica, quando tale norma costituzionale
mirava ad impedire il risorgere del fascismo nel paese. Pote-
va perciò esser utilizzata, al massimo, nel richiedere l’estra-
dizione di rifugiati neo-fascisti. Al contrario, molti degli esu-
li italiani in Francia avevano un passato di anti-fascismo, in
alcuni casi anche violento, circostanza che impediva alle au-
torità francesi di accettare le richieste di estradizione da
parte di quelle italiane. Imputare a dei marxisti, libertari or-
todossi o critici che siano, una condotta di stampo tipica-
mente fascista veniva interpretato dalle autorità francesi co-
me una contorsione politica davvero implausibile.
Altra scelta a disposizione delle autorità italiane consi-
steva nel reclamare la natura non politica dei reati com-
messi dai rifugiati. Ma anche questa strada si dimostrava
impervia in quanto molti esuli erano imputati in processi
collettivi con altri membri di questa o quella organizzazio-
ne. Tali processi, per altro, erano conosciuti vuoi dai me-
dia vuoi dai magistrati che li istruivano col nome delle
stesse organizzazioni politiche che fungevano da imputati.
Ora, dimostrare che gruppi quali le Brigate Rosse o i Pro-
letari Armati per il Comunismo non fossero altro che asso-
ciazioni di delinquenti comuni richiedeva un bizantinismo
giuridico più spiccato di quanto anche i più fantasiosi ma-
gistrati non posseggano. Per questo motivo, quando tra le
imputazioni a carico dei rifugiati figuravano reati quali la
detenzione di arma o il furto d’auto, le autorità francesi at-
tribuivano anche a questi reati una connotazione politica
che la loro controparte italiana attentamente ometteva. Di
nuovo, l’estradizione veniva negata in quanto questi reati
venivano ritenuti “reati mezzo”, o preliminari, propedeuti-
ci, intesi a perseguire dei fini, in ultima analisi, politici.

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Ulteriore, seppure lontana, possibilità consisteva nell’im-


putare i rifugiati di strage. Il codice penale italiano contem-
pla questo reato, definendolo, più o meno, come assassinio
o massacro intenzionale e indiscriminato. È improbabile
che questa imputazione, quando rivolta a militanti della si-
nistra, metta in moto la procedura di estradizione. È cono-
scenza comune infatti che la strage negli anni ‘70 è reato ti-
pico della destra, o degli apparati deviati dello stato. Per di
più, nel richiedere l’estradizione per l’assassinio di un ma-
nager della Cloracne (responsabile del disastro di Seveso), o
di un maresciallo delle guardie di custodia (responsabile di
tortura ai danni dei detenuti), le autorità italiane potevano
difficilmente utilizzare l’aggettivo “indiscriminato” che con-
ferisce plausibilità all’imputazione di strage.
La procedura di estradizione può aver luogo solo quan-
do il reato commesso nel paese richiedente sia considerato
tale anche nel paese cui viene inoltrata la richiesta. Il codi-
ce penale italiano definisce questo il principio della “dop-
pia perseguibilità” o la “considerazione bilaterale di un
comportamento come reato”. Anche su questo punto i ma-
gistrati italiani hanno incontrato non poche difficoltà.
Reati quali “associazione sovversiva” o “partecipazione e
costituzione di banda armata”, coniati in epoca fascista
con l’intenzione di criminalizzare la sinistra (e riesumati
dopo la Resistenza per criminalizzare i gruppi di destra)
non hanno alcun significato giuridico in Francia. Di nuo-
vo, l’estradizione veniva negata in quanto la cultura extra-
giuridica di un paese, sulla quale si basavano le stesse defi-
nizioni giuridiche, non corrispondeva alla cultura extra-
giuridica dell’altro. Quando imputazioni vaghe quali asso-
ciazione sovversiva o banda armata si dimostravano insuf-
ficienti alla concessione dell’estradizione, le autorità italia-
ne ricorrevano a un’altra contorsione giuridica. Ad esem-
pio, se un’organizzazione era ritenuta responsabile di uno
specifico reato, tutti coloro che erano imputati di far parte
di quella specifica organizzazione venivano ritenuti re-
sponsabili di quello specifico reato. Questa logica transiti-
va rendeva superflua la ricerca delle prove tecniche riguar-
danti le responsabilità individuali. Alcuni potevano perciò
essere accusati di un reato sulla base della semplice conti-

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guità fisica, o dell’assonanza politica, con coloro che erano


accusati di quel reato. Questo procedimento logico veniva
ritenuto dalle autorità francesi al pari di un sillogismo, e di
nuovo l’estradizione veniva negata. La magistratura italia-
na, che utilizzava la formula della “corresponsabilità mo-
rale” nei procedimenti che si svolgevano in Italia, credeva
di poter usare la stessa formula nelle richieste di estradi-
zione. La cosa era inaccettabile in Francia.
Il rifiuto di concedere l’estradizione ha causato inizial-
mente un serio imbarazzo. Occorre considerare, infatti, che
l’estradizione viene comunemente rifiutata quando vi è ra-
gione di credere che gli imputati, restituiti al proprio paese,
verranno perseguitati e discriminati sulla base della loro raz-
za, religione, sesso, nazionalità o convincimento politico
(Art.698 del Codice italiano di Procedura Penale). I giudici
italiani non potevano subìre una simile umiliazione, almeno
non pubblicamente. D’altra parte, anche le autorità francesi
si trovavano in una situazione imbarazzante, in quanto, una
volta rigettata la richiesta di estradizione, avrebbero di logica
dovuto concedere ai rifugiati italiani l’asilo politico. Vediamo
come sia i francesi che gli italiani hanno cercato simultanea-
mente di nascondere l’umiliazione e l’imbarazzo rispettivi.

Un limbo segreto

Alcuni rifugiati hanno lasciato l’Italia come forma precau-


zionale immediatamente dopo l’arresto di qualche loro
compagno. Alcuni, già ricercati dalla polizia, hanno fatto
uso di documenti contraffatti. Uno di loro ha preso il treno
Milano-Parigi insieme alla moglie e alla figlia. Indossando
parrucca e baffi finti, alla frontiera è stato trattato amabil-
mente. Un altro è scappato in motoscafo. Con l’aiuto di
amici benestanti, ha organizzato una breve crociera che
dalla riviera ligure lo ha condotto sulla costa francese. Un
altro ancora ha attraversato la frontiera sugli sci. Infine,
qualcun altro se l’è fatta a piedi.
In maggioranza, i rifugiati italiani hanno reso imme-
diatamente pubblica la loro presenza in territorio francese
in quanto hanno costituito un’associazione di difesa lega-
le. Alcuni giuristi e avvocati francesi hanno aderito all’asso-

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ciazione e offerto prestazioni spesso gratuite. Le immediate


pressioni esercitate dalle autorità italiane, che pur dubitava-
no che l’estradizione sarebbe stata concessa, hanno condot-
to all’arresto di molti dei rifugiati. Costoro, di regola, dete-
nevano documenti falsi, reato che in Francia viene punito
con una pena di sei mesi. Ma per i rifugiati, ovviamente, sei
mesi in un istituto francese diventavano accettabili se para-
gonati alle lunghe pene da scontare in istituti italiani.
La procedura per l’estradizione, osservata più in detta-
glio, prevede due stadi distinti. Dopo il verdetto della corte
(nel caso francese della Chambre D’Accusation), la decisio-
ne finale perché una persona venga estradata va assunta in
via ufficiale dal governo. In molti casi, a fronte del parere fa-
vorevole espresso dai tribunali, il governo francese ha il più
delle volte capovolto o ignorato questo parere. Nella mag-
gioranza dei casi, insomma, l’ingiunzione ufficiale non è
mai stata redatta. Lentamente, ha preso forma una sorta di
accordo informale tra l’associazione dei rifugiati italiani e il
ministero della giustizia francese. L’illuminato dicastero di
Mitterrand ha dato a intendere che gli italiani non sarebbe-
ro stati estradati se avessero tenuto un “basso profilo” politi-
co. Per evitare imbarazzi ufficiali, però, non sarebbe stato
loro concesso l’asilo politico, in quanto la concessione di
quest’ultimo avrebbe significato un’aperta condanna del re-
gime e della legislazione del paese vicino. Per molti degli
esuli, comunque, questa vaghezza di status non si è mai di-
mostrata ideale. In qualsiasi momento, infatti, il governo
poteva ufficializzare l’estradizione, specie se insoddisfatto
del “comportamento” di questo o quel rifugiato.
Nella testimonianza che segue si ha prova degli effetti
imprevedibili causati da quella che viene interpretata da
molti come una spada di Damocle:

“Alcuni rifugiati si sono allontanati da Parigi, in modo da


avvicinarsi alla frontiera italiana e rendere più agevole la
visita di loro parenti o amici. Bene, sono stati seguiti dalla
polizia e arrestati. Nelle zone meno centrali della Francia,
la polizia ti arresta e ti consegna immediatamente ai colle-
ghi al di là delle Alpi. Tutta la procedura legale viene in-
somma sospesa”.

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Un episodio bizzarro si è verificato in occasione della


visita di Ronald Reagan a Parigi. I più noti rifugiati italia-
ni, ma anche molti baschi, irlandesi e latino-americani, so-
no stati prelevati dalle loro abitazioni alcuni giorni prima
dell’arrivo di Reagan. Uno degli involontari protagonisti di
questo episodio ricorda:

“Non mi rendevo conto di cosa stava succedendo. Un mat-


tino, di buon ora, si sono presentati tre agenti in borghese,
ed io ho pensato: ecco, è finita. Come per altri, la corte
aveva dato parere favorevole alla mia estradizione, ma il
governo non aveva ancora dato l’avallo ufficiale. Mi hanno
portato alla stazione, dove ho trovato amici ed esuli di al-
tri paesi pronti a partire. In realtà, ci hanno portati in una
cittadina a ridosso della frontiera spagnola, da dove si go-
deva la vista dei Pirenei. Ospitati in albergo, siamo stati te-
nuti lontani da Parigi lo stretto necessario perché la visita
di Reagan non venisse disturbata. Temevano, non si sa
mai, che stessimo per organizzare qualcosa. È stata in
fondo una breve e piacevole vacanza”.

In altri casi, le autorità francesi si sono rese responsabili di


illegalità più gravi. Una decina di rifugiati, ad esempio, sono
stati prelevati e accompagnati alla frontiera spagnola. Conse-
gnati alla polizia di confine, sono stati condotti in carceri spa-
gnole in attesa che le autorità italiane inoltrassero le richieste
di estradizione. Il governo spagnolo, a sua volta, ha pronta-
mente accettato le richieste ed estradato quel gruppo di italia-
ni. In questa maniera, la reputazione della Francia come pae-
se tradizionalmente generoso nei confronti degli esuli politici
di tutto il mondo è rimasta ufficialmente intatta.
Un altro gruppo di rifugiati è stato letteralmente messo
su un aereo con un biglietto di sola andata. Destinazione:
un qualche paese africano. Le autorità francesi presenta-
vano come particolarmente generosa questa pratica, in
quanto, rassicuravano, non esiste trattato che regoli l’e-
stradizione tra i paesi africani e l’Italia. Ad alcuni questa
opzione è stata, con grande clemenza, offerta in anticipo
per poter essere considerata. Altri sono stati semplicemen-
te portati all’aeroporto senza che venisse loro comunicata
la destinazione.

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Come già notato, la condizione dei rifugiati italiani a Pari-


gi costituisce una anomalia giuridica. Non viene loro conces-
so l’asilo politico, sebbene la loro presenza venga informal-
mente tollerata. Non vengono estradati, eppure il loro inter-
locutore, che è un’autorità astratta e irraggiungibile, può
prendere una decisione improvvisa a proposito, circostanza
che consente di esercitare un costante ricatto su di loro.
Impigliati in un apparato burocratico, non ne conosco-
no la logica e sono a loro oscure le procedure decisionali.
Il modello di giustizia che i rifugiati si trovano di fronte è
insomma di tipo “carismatico”, modello che è adottato sia
dal loro paese d’origine che dal paese che li ospita. La leg-
ge, per loro, non possiede le caratteristiche di calcolabilità
e prevedibilità razionale che dovrebbero esserle proprie. È
piuttosto una legge dai toni magici, quei toni che Max We-
ber attribuiva ai modelli arcaici di giustizia. La loro condi-
zione è legata alle convinzioni di un giudice italiano che li
ha indotti a fuggire. D’altro canto, l’incertezza del loro sta-
tus attuale è legata all’indecisione di un giudice francese
che, per motivi extra- giuridici, non può concedere loro l’a-
silo politico. È questa una cosiddetta “giustizia di Kadi”,
per cui le controversie vengono risolte da un’autorità ora-
colare internamente ad una sfera di arbitrio: le decisioni
assumono le sembianze dei dicta profetici. Nel caso dei ri-
fugiati, si tratta di dicta politici travestiti da decisioni giu-
ridiche, decisioni che non hanno però alcun valore norma-
tivo, essendo soggette a improvvise mutazioni.
Imprevedibilità e vaghezza di status sono di per sè parte
della punizione inflitta ai rifugiati politici italiani. Negan-
do loro un interlocutore, un avversario con cui battersi o
negoziare, li si priva anche di identità politica. Vige una
sorte di sospensione della pena nei loro confronti, sospen-
sione che riguarda simultaneamente la loro esistenza di
individui e di cittadini. Alcuni episodi, sparsi nel tempo,
confermano periodicamente la precarietà della loro condi-
zione. Sembrano messaggi deliberati: uno di loro viene ar-
restato, un altro pedinato, un altro minacciato da persone
non identificabili: questi episodi creano ansia permanente
e dissuadono dal condurre attività politica. Il fatto che sia-
no privi di diritti è comprovato dalla circostanza per cui

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non saprebbero a chi rivolgersi se volessero rivendicare dei


diritti. La deprivazione politica di cui sono oggetto li collo-
ca in un limbo, una nicchia segreta che è impervia al-
l’informazione ufficiale. Aprire questa nicchia significhe-
rebbe produrre imbarazzo politico ingestibile da parte
vuoi della Francia che dell’Italia.

Sconfitta politica come emarginazione

La generazione politicamente attiva negli anni ‘60 e ‘70


sembra consapevole della propria sconfitta. Agli sconfitti
viene negata un’identità collettiva e viene perciò simulta-
neamente negata la possibilità di riprodursi politicamente.
Gli italiani esiliati a Parigi assaporano inoltre un supple-
mento di sconfitta, in quanto si scoprono privi di un locus,
geografico e sociale, nel quale la riproduzione politica può
avere luogo. Parlo qui di una civitas, un luogo concepito
come universo pubblico. Per definizione, la civitas ha ca-
rattere collettivo, non ci appartiene come individui. Ciono-
nostante, ne abbiamo bisogno in quanto individui più di
quanto la civitas abbia bisogno di noi; la sua esistenza pro-
cede egregiamente anche in nostra assenza: è questa una
delle tragedie dell’esilio politico. Il paese che garantisce in-
tegrità fisica ai rifugiati, allo stesso tempo, proibisce loro
di giocare un qualche ruolo nella sua vita politica. I com-
portamenti e gli atti dei rifugiati vengono perciò privati di
significato sociale. L’esilio, in questo frangente, riduce l’in-
dividuo a un “corpo”, perseguitato da un paese e condizio-
nalmente protetto da un altro.
Per i rifugiati politici italiani tutto questo si traduce an-
che in emarginazione sociale, materiale. In altre parole, la
deprivazione politica impedisce loro anche una decorosa ri-
produzione materiale. Ma come vedremo di seguito, questa
circostanza non riguarda tutti i rifugiati, essendo in opera
un processo selettivo di cui si cercherà di tracciare il profilo.
Molti esuli a Parigi avevano un lavoro in Italia. O me-
glio, usavano il proprio lavoro come puro strumento di so-
pravvivenza, dedicando la maggioranza del tempo alla lo-
ro vera attività: l’attività politica. L’esilio forzato, a questo
proposito, si traduce per molti in una punizione insoppor-

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tabile, in quanto comporta la completa ristrutturazione


del proprio tempo. I rifugiati, ad esempio, sono costretti a
privilegiare il tempo produttivo nel senso ufficiale del ter-
mine, a cercare un lavoro, a rincorrere una qualche forma
di reddito. Poco tempo rimane per il loro lavoro non paga-
to, segnatamente quello che attiene alla riproduzione poli-
tica. È immaginabile poi a quale tipo di lavoro possa acce-
dere uno straniero a Parigi. T.S. (tutte le iniziali sono fitti-
zie), ad esempio, che in Italia era un impiegato nel servizio
postale, spiega:

“Non è che io non voglia lavare i piatti in un ristorante, ma


non voglio farlo per dieci ore al giorno pagato una mise-
ria. Ho lottato tutta la vita contro lo sfruttamento, e guar-
da ora come sono ridotto; non avevo idea che nella “civile”
Europa esistessero condizioni di questo genere. Siamo
trattati come animali dai quali ci si aspetta gratitudine per
un piatto di minestra. Dove lavoro sono ossessionati dal
cibo, come se le soddisfazioni personali si misurassero in
calorie e proteine. È una vita ridotta al minimo: siamo dei
tubi digerenti. Non ho tempo di far niente, ma la cosa vie-
ne vista come normale dai miei colleghi di lavoro. Mi dico-
no: ma cosa vuoi di più, lavori, mangi, e hai un tetto dove
stare al riparo”.

Per molti, la barriera della lingua ostacola l’accesso a


un lavoro accettabile. È questa però una barriera di natura
spesso artificiale, eretta dai datori di lavoro a mo’ di discri-
minazione nei confronti degli stranieri e di ricatto nei con-
fronti di coloro che tra questi sono così “fortunati” da tro-
vare un impiego. Non è raro, tra l’altro, che la polizia
informi il “generoso” datore di lavoro sul passato e l’iden-
tità di chi è stato inavvertitamente assunto: un ricercato
per terrorismo. Alcuni rifugiati, infatti, vengono improvvi-
samente licenziati senza apparente motivo, dopo strane al-
lusioni riguardanti il loro passato da parte dei datori o dei
compagni di lavoro. In questi casi, condannati alla “nor-
malità” di un lavoro, agli esuli non vengono garantite le
condizioni di questa pur detestabile normalità. In altri ca-
si, gli esuli rifiutano le condizioni di lavoro o innescano un
conflitto che li porta al licenziamento. E.P. è stato assunto

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in un ospedale in qualità di analista di laboratorio. In Ita-


lia svolgeva un lavoro simile, ma nella nuova condizione:

“Si davano tutti un gran da fare a darmi degli ordini. C’erano


un senso della gerarchia e un clima di disciplina che non ho
mai visto in nessun altro posto di lavoro. Eravamo anche
soggetti a delle sottili umiliazioni quotidiane, fatte di piccoli
ricatti e dispettucci un po’ infantili. Avevano tutti paura di la-
mentarsi e di dare risposta alle vessazioni. Mi sono licenzia-
to dopo due mesi. Ricordo che in Italia comportamenti di
questo tipo non sarebbero stati tollerati. Pensa al clima negli
ospedali italiani: si sarebbe indetto subito uno sciopero, i ca-
pireparto avrebbero avuto paura di noi, non noi di loro”.

Gli esempi di seguito danno conto dell’emarginazione


materiale di molti rifugiati a Parigi. Una trentina di loro in-
segna italiano per qualche ora alla settimana in istituti pri-
vati: possono essere licenziati in qualsiasi momento. Chi in
Italia lavorava nella pubblicistica, ora si adatta occasional-
mente a correggere bozze. Alcuni sono venditori ambulanti,
altri muratori o imbianchini, lavori ad alto rischio per via
delle condizioni di illegalità in cui vengono reclutati. Verso
la fine degli anni ‘80, una trentina di loro, esausti di queste
condizioni, ha deciso di lasciare Parigi e tornare in Italia e
accettare la condanna loro inflitta. A loro modo di vedere, le
condizioni di detenzione cui spontaneamente si sottopone-
vano erano preferibili alle condizioni di lavoro che erano co-
stretti ad accettare: bizzarra contraddizione del principio
della “minor eleggibilità del carcere”. Avendo negoziato il ri-
torno in Italia, è stata loro garantita una qualche alternativa
alla custodia dopo un certo periodo in carcere. Queste nego-
ziazioni sono state condotte direttamente con direttori di
istituti di pena, con magistrati di sorveglianza, o a volte con
la mediazione di cappellani carcerari. Altri (un centinaio),
preoccupati del mutevole clima politico francese, hanno de-
ciso di trasferirsi altrove: in altri paesi mediterranei, in Su-
damerica o in America Centrale.
Tra quelli rimasti a Parigi, molti sono disoccupati, e so-
pravvivono grazie alla rete informale di solidarietà che è
ancora funzionante, o vengono “mantenuti” da parenti e
amici residenti in Italia. Alcuni si sono ammalati, e sareb-

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be interessante verificare se la malattia da cui sono colpiti si


debba alle condizioni stesse dell’esilio. Alcuni sembrano
percorrere la via dell’alcolismo, altri trascorrono periodi in-
termittenti in ospedale psichiatrico. Un gruppo, qualche an-
no addietro, ha cercato di risolvere i problemi di reddito con
l’estorsione ai danni delle famiglie dei”pentiti”, loro compa-
gni di una volta che li avevano denunciati. Chiedevano una
sorta di risarcimento da parte dei “traditori” per essere stati
ridotti in quelle condizioni. Un numero non identificabile,
sebbene limitato, fa ricorso ad attività illecite: compra-ven-
dita di oggetti di poco chiara provenienza, o piccole rapine.
Altri sono diventati tossicodipendenti, e due di costoro
hanno deciso di lasciare Parigi e trovare sistemazione in
regioni del mondo dove le droghe circolano con maggiore
facilità. In Tailandia, dove il loro livello di vita si è rivelato
inferiore a quello sperato, si sono accaniti in una reciproca
ostilità ruotante attorno a soldi e droghe: ci è scappato il
morto. La stampa italiana ha erroneamente trattato l’epi-
sodio alla stregua di un atto di guerra tra trafficanti inter-
nazionali in concorrenza.
M.G. ha lasciato Parigi a metà degli anni ‘80, e in un pae-
se dell’America centrale, dove si è stabilito, ha collaborato a
riviste della sinistra. Non molto tempo fa ha deciso di far ri-
torno in Francia, dove risiede sua figlia. Nessun problema
all’aeroporto di Parigi, dove sembra non venire identificato.
Viene in realtà seguito da un gruppo di agenti in borghese
per qualche giorno. Alla fine, gli agenti decidono di interve-
nire, sebbene privi di uno specifico mandato di cattura. Si
ritiene che M.G. possa essere armato, ragione o pretesto che
induce i poliziotti a massacrarlo con i calci della pistola pri-
ma che lui si renda conto di quanto stia per accadere. So-
pravvive, e dopo i sei mesi canonici di carcere per possesso
di documenti falsi, è ora a Parigi libero e senza una lira.
Simbolicamente, l’esilio forzato equivale a spingere l’in-
dividuo al suicidio. Un suicidio politico legato allo smarri-
mento del senso di collettività. Evocando toni durkheimia-
ni P.N. osserva:

“In tempo di guerra i suicidi quasi scompaiono: l’identifica-


zione con una causa comune produce una spinta vitale ver-

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so il conseguimento di obiettivi collettivi. Per la maggioran-


za di noi era questa la situazione in Italia. Ma qui, tutte
quelle norme di tipo etico e ideale hanno cominciato a crol-
lare. Alcuni sono messi in condizione di commettere una
sorta di suicidio. Si lasciano andare, diventano apatici. Altri
si distruggono con l’alcool o semplicemente rinunciano a
pensare o a condurre un’esistenza critica. È questo uno dei
risultati dell’esilio: un incoraggiamento al suicidio”.

L’esilio si presenta insomma come estrema accentua-


zione della sconfitta, come supplemento di punizione di
cui si è oggetto proprio in quanto si è stati sconfitti. Alcuni
rifugiati sembrano letteralmente aver perso il senno: vaga-
no per le strade rifiutando di accettare la loro nuova condi-
zione. Con ingenuità, alcuni cercano di capitalizzare sulla
condizione di rifugiati, ostentando il loro status e usando-
lo ai fini di ricavarne vantaggi e credibilità. Uno di costoro
avverte come un suo diritto, lui rivoluzionario, l’ospitalità
di chi, piccolo borghese, gli mette da tempo la casa a di-
sposizione. C.D. racconta:

“Alcuni miei vecchi amici credono che il tempo si sia fer-


mato quando loro sono arrivati a Parigi. Il fatto è che la lo-
ro esistenza è tutta nel passato. Parlano sempre degli anni
‘70 e delle loro imprese, presentando un’immagine di sè di
sedicenti guerriglieri dalla vita avventurosa. Sembrano un
po’ quegli anziani partigiani che non la smettono mai di
parlare della Resistenza. Vengono tollerati come perso-
naggi un po’ buffi, o come degli scocciatori che si finge di
ascoltare ma su cui non si fa affidamento”.

Alcuni girano il mondo credendo che la polizia sia sulle


loro tracce, ma è questa solo una proiezione dell’immagine
che hanno di se stessi. In realtà, sono stati semplicemente
dimenticati: sono soldati dispersi che non hanno mai fatto
ritorno dal fronte.

Una soave inquisizione

Come si è accennato, non tutti gli esuli italiani sono econo-


micamente e politicamente emarginati. La condanna al si-

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lenzio politico scaturisce solo dal mancato diniego del pas-


sato. Alcuni, al contrario, hanno preso distanza dalle pro-
prie pratiche ed idee precedenti. A Parigi come a Canossa?
Una sottomissione di natura confessionale in cambio del-
l’integrità fisica?
A coloro ai quali è stata offerta una nuova civitas viene
imposto di farne un uso appropriato. In un certo senso, le
autorità italiane sono riuscite ad esportare in Francia le
procedure e il clima di restaurazione imperanti nel loro
paese. In questo modo, la restaurazione ha finito per colpi-
re anche coloro che dal paese hanno preferito fuggire. Ma
per analizzare queste procedure e questo clima occorre
muovere un passo a ritroso.
Le migliaia di attivisti politici processati in Italia hanno
dovuto fronteggiare un sistema della giustizia in cui molti
commentatori hanno ravvisato una forma, seppure soave,
di Santa Inquisizione. Le cosiddette leggi di emergenza,
infatti, avevano introdotto nella legislazione delle catego-
rie di tipo chiesastico e delle nozioni che sono connaturali
a un’autorità sacrale e alla sua celebrazione. Le leggi in
materia di terrorismo venivano da alcuni paragonate al
Decreto Pontificio del 1181, il cui nocciolo si sostanziava
nella cosiddetta “sola suspicio”, vale a dire nell’idea che il
sospetto da solo potesse dar luogo a una punizione preven-
tiva. Ma il sospetto, nell’opinione di molti giuristi, non ap-
parteneva alla vantata tradizione dei principi illuministici.
Piuttosto, era parte di un concetto di verità e di fede asso-
lute. Il sospetto veniva anche interpretato come uno stato
patologico della mente, o come un’ossessione religiosa. E
in effetti, in tribunale ci si preoccupava più di affermare
una verità assoluta che non di stabilire la verità giudizia-
ria. I reati come fatto materiale tendevano a dissolversi,
mentre le precise responsabilità giudiziarie perdevano
ogni valore di fronte alle convinzioni politiche. Erano solo
queste ultime il vero oggetto del procedimento giudiziario.
La personalità degli imputati era insomma più importan-
te, ai fini della condanna, che non le azioni da loro com-
piute. Un esempio: l’autocritica degli arrestati doveva suo-
nare come abiura, da declamare pubblicamente e non da
maturare nell’intimità. Possibilmente la si doveva divulga-

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re in aula, spettacolare e celebratoria. L’autorità insomma


faceva di tutto per recitare forme moderne di autodafé
Tra le categorie affiorate negli anni dell’emergenza,
“dissociazione” e “pentimento” si distinguono per aver la-
sciato tracce vistose nella attuale legislazione. La prima
comporta la presa di distanza da parte dell’imputato vuoi
dagli specifici atti compiuti vuoi dalla comunità politica
nella quale quegli atti sono giunti a maturazione. Disso-
ciarsi comporta un’azione positiva pubblica, un’azione che
sia riproducibile in virtù della propria insita potenza pro-
mozionale. Il pentimento, a sua volta, comporta una coo-
perazione concreta, e inizialmente segreta, con le agenzie
ufficiali dello stato. Al pentito si richiede di rivelare nomi e
indirizzi di complici o presunti tali, di assegnare responsa-
bilità specifiche a individui e organizzazioni. Il pentimen-
to, in altri termini, possiede una distinta natura militare:
alcuni soldati semplicemente passano dalla parte del ne-
mico. Ma paradossalmente, il danno sociale prodotto dai
pentiti è circoscritto, limitandosi a smantellare una orga-
nizzazione clandestina e a penalizzare i membri che la co-
stituiscono. La dissociazione invece è misura di più ampio
respiro sociale, in quanto crea un precedente ideologico,
produce disaffezione e scoraggiamento non nelle file di
una specifica organizzazione, ma internamente ai movi-
menti sociali in generale. La dissociazione si rivolge perciò
a un numero elevatissimo di individui, ed è potenzialmen-
te più insidiosa in quanto trascende la semplice sconfitta
militare. Il pentimento adotta il linguaggio dell’esercito,
mentre la dissociazione attinge dal vocabolario comunica-
tivo della società civile.
Coloro che si sono distanziati dal proprio passato han-
no avuto, il più delle volte, la possibilità di riprendere o
iniziare una professione. La loro “autocritica” assume rile-
vanza non in quanto maturata nell’intimo delle convinzio-
ni personali, ma in quanto si presta ad essere riprodotta e
trasmessa al altri individui e gruppi. Ai dissociati si chiede
di agire da testimoni di una sconfitta generazionale, di
promuovere una memoria di sconfitta che non si esaurisca
nel tempo passato e presente, ma che conservi un impatto
significativo anche relativamente al futuro. È un fatto che,

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per coloro che sono stati coinvolti in processi politici, dis-


sociazione ha anche significato reinserimento e spesso la-
voro. Molti altri hanno dovuto emigrare. Tra i primi, lo sta-
tus pubblico di dissociati si è sostanziato in messaggi e ap-
pelli chiari, inequivocabili, lanciati dalle pagine dei giorna-
li o dagli schermi televisivi.
Vi è da aggiungere che, tra gli effetti della legislazione,
si annoverano la liberazione di coloro che, pur responsabi-
li di omicidi, operano chiamate di correità, e l’accanimen-
to punitivo contro chi, non responsabile di reati di sangue,
rifiuta di rilasciare dichiarazioni dissociative pubbliche.
Come si è già fatto notare, questa cultura e queste pro-
cedure hanno attraversato il confine italiano, finendo per
informare anche le procedure delle autorità francesi nei
confronti dei rifugiati. Anche in Francia, perciò, l’avvio di
una carriera rispettabile è subordinata a qualche forma di
“declamatio”, di professione di fede, che rassicuri l’auto-
rità circa le proprie idee e progetti. Questa “declamatio”,
anche qui è di natura attiva e coinvolge non solo chi ne è
artefice: nel dichiarare la propria innocenza e i propri buo-
ni propositi per il futuro, si finisce spesso per indicare la
colpevolezza o di denunciare la bellicosità dei propositi di
altri. I rifugiati che coltivano ambizioni accademiche, ad
esempio, sono costretti ad annullare il proprio attivismo
passato tramite un contro-attivismo di natura e contenuto
opposto.

Condannati al mercato

Il fatto che la soave inquisizione abbia attraversato il confine


non è dovuto ad accordi segreti tra Italia e Francia. È l’esilio
stesso che può incoraggiare dissociazione e pentimento.
Le organizzazioni politiche italiane degli anni ‘70 erano
composte da individui provenienti da diverse classi sociali.
Ma le differenze di status tra i membri delle stesse organiz-
zazioni venivano (frettolosamente?) dimenticate. A Parigi,
le stesse persone una volta impegnate nella comune atti-
vità politica sono ridotte a fare affidamento sulle proprie
risorse economiche o professionali. Superate o rimosse, le
differenze di status riemergono. Secondo T.B., quando i

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principi del mercato e della pura realizzazione individuale


vengono rapidamente interiorizzati, sono inevitabili dei
processi di intima conversione. Così argomenta:

“L’esilio è per definizione carenza di opportunità e man-


canza di sostegno. È isolamento in tutti i sensi. Quando
sono arrivato a Parigi, ho trovato una situazione di “robin-
sonismo”, la nostra isola di naufraghi essendo questa
grande metropoli col suo mercato del lavoro sovraffollato.
Come Crusoe, molti hanno pensato di potersi salvare solo
grazie alle proprie risorse personali, vale a dire, titolo di
studio, specializzazione, amici influenti. La nostra sconfit-
ta si può leggere anche in questo: il trionfo dell’individua-
lismo e la scomparsa di un punto di riferimento collettivo.
Molti rifugiati rifiutano persino di parlare del passato, e la
carriera intrapresa qui comporta la rottura con altri che
hanno il loro stesso passato. Mi sento un po’ come nel ro-
manzo “Il signore delle mosche”, dove un gruppo di bam-
bini, presumibilmente in condizioni di eguaglianza nella
loro vita quotidiana, fanno naufragio su un’isola scono-
sciuta. Qui, mettono in piedi la peggiore delle società, con
gerarchie di ferro e autoritarismo brutale. Si deve forse
pensare che anche nella loro vita di tutti i giorni quei bam-
bini non erano poi così “uguali”, ma che solo una sorta di
artificio li faceva sembrare tali”.

L’esilio comporta il ritorno delle clientele, dei patronati o,


nella migliore delle ipotesi, delle reti amicali e familiari che,
sole, sono in grado di garantire riproduzione. R.P. osserva:

“Durante gli anni ‘70, il lavoro che uno faceva aveva poca
importanza. Nella mia organizzazione, a dire la verità, io
non sapevo nemmeno come i miei compagni si guada-
gnassero da vivere. Senza essere troppo nostalgici, le cose
molto spesso si dividevano, non perchè si praticasse una
forma primitiva di comunismo, ma perché in quel fran-
gente politico la nostra identità non dipendeva dal lavoro
ufficiale che uno svolgeva. Qui invece siamo costretti a
venderci sul mercato. Così, quelli che stanno bene sono
coloro che hanno una specializzazione che viene loro rico-
nosciuta, che in passato hanno avuto modo e tempo di ac-
cumulare esperienze e abilità utilizzabili nel mercato del
lavoro ufficiale. D’altra parte, trovi qui della gente che let-

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teralmente non sa fare niente, sa fare solo politica, aven-


dolo fatto per tutta la vita”.

Gruppi di status e circoli occupazionali sostituiscono


tra i rifugiati quelli che erano i raggruppamenti politici e
ideologici del passato. Coloro che si sono deliberatamente
assentati dal mercato si trovano ora ad affrontare un clima
estremamente competitivo, le cui regole non conoscono o
trovano difficile accettare. A Parigi, perciò, ha avuto luogo
una selezione secondo la quale solo alcuni si trovano a
proprio agio: possono ora disporre delle proprie abilità e
del proprio capitale umano, e come conseguenza, la loro
posizione nel mercato tende a differenziarsi. Insomma, le
restaurate condizioni di mercato hanno reintrodotto delle
divisioni che molti ritenevano superate.
Come già ricordato, alcuni rifugiati che in Italia svolge-
vano attività accademica non hanno trovato difficile conti-
nuare la stessa attività in Francia. Ma questa circostanza
non è legata a un semplice e doveroso riconoscimento del-
la loro professione. In alcuni casi, continuare la propria
professione ha significato ristrutturare la propria identità
fino a farla coincidere esclusivamente con la professione
medesima. Tra i rifugiati c’è chi lamenta:

“Se vuoi un posto all’università devi dimostrare di essere


affidabile, ma devi anche dimostrare che il tuo unico
obiettivo è di essere un buon professore. Inoltre, non devi
limitarti ad assumere un ruolo passivo, ma devi essere un
propagatore attivo di quella che si chiama una buona
deontologia professionale. Ad esempio, può essere di una
certa utilità denigrare pubblicamente altri professori che
sono “distratti” dalla politica; devi denunciare chi ha rap-
porti con “gruppi pericolosi”; insomma devi infangare al-
tri in modo da promuovere te stesso. Solo in questo modo
puoi presentarti al mondo accademico come un intellet-
tuale puro, al di sopra delle fazioni”.

Il passato si rivela orrido

Nelle osservazioni di uno dei rifugiati italiani, l’esilio è co-


me una finestra che si apre sull’abisso: vengono le vertigini

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a guardarci dentro. Un altro paragona la situazione dei ri-


fugiati a quella di sopravvissuti di un naufragio, laddove la
disperazione può spingere al cannibalismo. Ma questa si-
tuazione non si limita a produrre sentimenti estremi rela-
tivamente al solo presente, relativamente cioè a una situa-
zione che è di per sè estrema. L’esilio, secondo I.L., rivela
“il normale processo di costituzione della soggettività”. Il
suo effetto è peggiore del prodotto di una situazione estre-
ma. L’esilio rivela non come si è oggi, ma come si era in
passato. Il passato, allora, diventa orrido altrettanto quan-
to il presente.
Narcisismo, competitività, panico di status appaiono
improvvisamente a rivelare di essere sempre stati tra noi.
E.G. fa notare che l’esilio è un rivelatore molto vivido degli
errori previamente commessi, quando il movimento rivo-
luzionario era in ascesa. Le questioni riguardanti la re-
sponsabilità personale, ad esempio, non venivano mai dav-
vero affrontate nella sinistra. I problemi etici erano assenti
dall’orizzonte dei militanti politici, i quali tendevano a mi-
metizzare la propria individualità all’interno della vaghez-
za molto accogliente del “collettivo”. I processi di rivolu-
zione intima riguardanti l’individuo venivano rimandati a
un futuro indeterminato, a un’epoca di epifania politica
improbabile quanto indefinita.
Un altro rifugiato spiega:

“Eravamo convinti di far parte di una comunità morale i


cui valori erano opposti alla moralità ufficiale e a quella
dello stato. Il nostro era invece una forma di “familismo”,
simile in un certo senso al familismo tradizionale delle so-
cietà segrete e dei gruppi chiusi. La nostra moralità ci le-
gittimava in tutto quello che facevamo, e giustificavamo
ogni comportamento individuale facendo appello a una
collettività di cui non dubitavamo il sostegno. Un sostegno
però che a volte era reale a volte solo immaginario. E tut-
tavia, si riusciva a trovare un punto di equilibrio, un artifi-
cio ideologico che ci consentiva di evitare ogni senso di
colpa. Qualsiasi cosa si facesse veniva interpretata come
una necessità e non come l’esito di una scelta personale.
Noi non ne avevamo colpa, essendo sempre dell’imperiali-
smo la colpa”.

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La negazione della responsabilità, la condanna di chi


condanna, l’appello ad una più alta lealtà, sono categorie
che echeggiano altrettante tecniche di neutralizzazione
molto celebri in discipline quali la sociologia della devian-
za. Ma nei comportamenti extra-legali di natura politica
queste tecniche non fungono da rassicurazione per l’indi-
viduo, mirano piuttosto a cementare una collettività, sep-
pure talvolta artificialmente, attraverso l’esercizio di un
contro-potere. Quest’ultimo, nell’Italia degli anni ‘70, veni-
va interpretato come depositario di una più alta moralità
rispetto allo stato. Come ricorda P.F.:

“La certezza di avere ragione ci proveniva da quella che ci


appariva come una grande coerenza morale. Rinunciare al-
la vita privata e agli interessi personali, trascurare gli aspet-
ti dell’individualità, ci sembravano una garanzia e una pro-
va inconfutabile del nostro altruismo. Se si faceva una rapi-
na, ad esempio, i soldi non andavano ad aumentare il reddi-
to di chi la faceva, ma servivano a finanziare l’organizzazio-
ne. Questi meccanismi di auto-giustificazione sono stati di-
latati al punto da coprire ogni tipo di comportamento. Così
anche episodi orribili venivano a volte accettati con com-
piacimento, in nome di interessi collettivi astratti”.

Ai rifugiati non viene solo negato un presente, viene an-


che negato un passato. Quest’ultimo non viene cancellato
ma appare in una luce diversa. Gli individui e i loro atti ne
vengono sfigurati, mentre la personalità dei primi e la logi-
ca dei secondi rivelano tratti inaspettati. G.L. afferma di
essere stato shockato da come persone da lui credute
straordinarie si siano invece rivelate scandalosamente or-
dinarie:

“Molti di quelli che si sono rifugiati qui hanno ucciso, lo


sappiamo tutti. Lo scandalo è che, una volta neutralizzato
il senso di colpa, e una volta pentitisi, hanno cominciato a
mostrare una serie di valori con i quali anche i reazionari
di vecchio stampo si sentirebbero a disagio. Mia nonna è
più progressista di loro”.

La punizione insita nell’esilio, insomma, produce effetti

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anche sul passato di chi la recepisce. E contrariamente alla


distopia orwelliana, il passato non scompare, ma torna più
vivido e spaventoso. Forse quelle persone sono sempre sta-
te “scandalosamente ordinarie” come si rivelano essere
adesso. La punizione inflitta con l’esilio sembra suggerire
che non c’è via di scampo, e che il sistema “clona” i suoi
oppositori: coloro che si presentano come antagonisti, in
realtà, posseggono lo stesso repertorio di valori contro i
quali sembrano combattere. Secondo D.S., ad esempio, il
tipo di carrierismo di alcuni rifugiati è simile al carrieri-
smo che si avvertiva anche negli anni più conflittuali. C’era
una lunga lista d’attesa per entrare nelle Brigate rosse, ha
detto, come oggi c’è una lista d’attesa per avere un impiego
di prestigio dopo essersi pentiti.
Questa continuità nell’atteggiamento intimo degli indi-
vidui, nonostante i drastici cambiamenti presunti, ha tro-
vato espressione letteraria in Camus. Il Rinnegato è un
sanguigno missionario che si impegna a convertire un po-
polo notoriamente crudele. In effetti sarà lui a venir con-
vertito da questo. Quando, dopo un periodo di convivenza
col suo nuovo popolo, gli arriva notizia che un altro mis-
sionario ha assunto il suo impegno precedente, si arma di
tutto punto e lo uccide in un’imboscata. In questa simme-
tria di comportamenti, in realtà non è mai cambiato.

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4. APPENDICI

INTRODUZIONE A CESARE BATTISTI, L’ULTIMO SPARO


di Valerio Evangelisti

Non sono mancati libri di memorie, film e romanzi sugli


anni in cui migliaia, e forse decine di migliaia, di giovani
italiani decisero di prendere le armi contro un sistema che
giudicavano intollerabile, mentre altre decine di migliaia,
e forse centinaia di migliaia, manifestavano la loro opposi-
zione senza arrivare a scelte così radicali. In tutta l’abbon-
dante produzione sul tema è stato però quasi sempre as-
sente l’aspetto esistenziale, talora tragico ma talvolta festo-
so, se non goliardico, di quell’esperienza. Ne è risultato un
ritratto a tinte uniformemente grigie, e spesso fosche, di
una realtà senz’altro drammatica, ma variegata e viva, an-
che se indecifrabile dall’esterno.
Personalmente, pur avendo fatto scelte diverse da quel-
le di Cesare Battisti, ho vissuto, tra la fine degli anni ’70 e i
primi anni ’80, in mondi contigui al suo. Ricordo bene co-
me nei bar di piazza Verdi, roccaforte bolognese di quello
che veniva definito semplicemente “il Movimento”, si al-
ternassero discussioni sulla lotta armata ad altre, intermi-
nabili, sull’origine dell’universo, sul teatro o sul cinema;
come per molti di noi quella stagione, vista da fuori quale
una sorta di inferno, coincidesse con i primi amori e le pri-
me, arruffate, esperienze sessuali; come serpeggiasse un

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particolare tipo di ironia, fondata sul paradosso, che in se-


guito avrebbe fatto la fortuna di programmisti radiofonici
e televisivi. Quando chi nel ’77 era democristiano, o addi-
rittura fascista, rivendica un percorso analogo a quello del
Movimento, mi viene da sorridere, perché il suo vissuto lu-
dico non può essere stato simile al nostro.
Cesare Battisti, per la prima volta, rievoca tutto questo,
in un romanzo che non può essere scambiato per un’auto-
biografia, ma che ha senz’altro il sapore agrodolce della ve-
rità. Le storie d’amore – e anche, molto tradizionalmente, di
corna – che si intrecciano all’interno del gruppo dei clande-
stini; lo sguardo distaccato e umoristico; la deriva inelutta-
bile verso uno scontro campale che nessuno si sente di af-
frontare, e a cui nessuno è disposto a sottrarsi: tutto questo
non era mai stato descritto con altrettanta efficacia e altret-
tanta passione. Dove passione non significa però rivendica-
zione. Battisti non è affatto pentito (della storia non ci si
pente), ma nemmeno auspica una continuità impossibile.
Sentimento naturale in chi incontrò sulla propria strada un
movimento granitico – le Brigate Rosse, ispirate alla tradi-
zione comunista ortodossa – pronto a fulminare le eresie
spontaneiste del proletariato giovanile, salvo imporgli livelli
di scontro inauditi e, più tardi, a sconfitta ormai compiuta,
costringerlo ad assistere allo spettacolo di un pentimento
collettivo e piagnone, quale nessun movimento guerrigliero
al mondo aveva mai conosciuto.
È molto difficile rievocare l’atmosfera di quegli anni, in
Italia, e far capire perché la suggestione della lotta armata
riuscisse a conquistare tanti adolescenti. Un contesto cul-
turale asfittico, in cui le vie di fuga erano dominate per in-
tero dal modello americano; una classe politica screditata
come poche e destinata, di lì a quindici anni, a soccombere
sotto il peso della propria corruzione; una serie intermina-
bile di stragi impunite, messe in atto per puntellare il siste-
ma e invocare soluzioni di forza; un fascismo strisciante e
insidioso, fatto più di cinismo che di prese di posizione
ideologiche, più di ottusità e di resistenza al cambiamento
che di nostalgie.
Contro tutto ciò si era condensato, a partire dalla metà
degli anni Sessanta, un vero e proprio culto dell’eguaglian-

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za. Anche chi lo disprezzava fingeva di aderirvi; chi ne era


colpito dava mostra di stare al gioco. L’opportunismo degli
intellettuali italiani, riletto oggi, impressiona. Soprattutto
quando li si vede farsi cantori di un neoliberismo spietato
e rabbioso, che in comune con l’antico populismo ha solo
l’arroganza e il sostrato autoritario.
Accadde che, impregnati di ideali egualitari, tantissimi
giovani (non certo la maggioranza, e meno che mai un’inte-
ra generazione) si ribellassero alla gabbia di squallore che li
imprigionava. Si formarono aggregazioni variopinte e sel-
vagge, in cui lo studente fuorisede viveva in simbiosi con il
piccolo delinquente politicizzato, la femminista con il ra-
gazzo cresciuto tra lavori precari e la frequentazione del bar
di quartiere. Una teoria nuova e stimolante, che si pretende-
va marxista ma che di Marx accoglieva solo le suggestioni di
alcuni scritti giovanili o secondari, dava un’identità politica
a questa coesistenza. Tramontata la centralità della vecchia
classe operaia, emergeva l’ “operaio sociale”, disgregato sul
territorio e tuttavia funzionale ai processi di accumulazione
imposti dal sempre più accentuato ricorso alle macchine;
oppure il “non garantito”, figura di proletario che, esclusa
dal sistema produttivo, non aveva accesso ai benefici del
Welfare State e li rivendicava.
Il passaggio alla lotta armata non fu né automatico né
graduale. Una società che aveva saputo assorbire senza
troppi traumi la protesta del ’68, si trovò paralizzata a fronte
delle istanze egualitarie ben più radicali del ’77. Probabil-
mente non riusciva ad afferrare l’ “umanità” di fondo di cui
masse di giovani – caratterizzate, al loro interno, dall’assen-
za quasi totale di violenza, che riversavano invece all’esterno
– erano portatrici. Reagì con impaccio e con rabbia. Ebbe la
risposta che in fondo si era andata a cercare.
Una risposta che forse il potere auspicava, in quanto
capace di semplificare un universo troppo complesso per
essere fatto oggetto di repressione indiscriminata. Le Bri-
gate Rosse, con le loro rozze teorie terzinternazionaliste,
con la loro demenziale ridda di sigle (MPRO = Movimento
proletario rivoluzionario offensivo, SIM = Sistema impe-
rialista delle multinazionali, ecc.), con le loro esecuzioni
individuali spacciate per guerriglia (fino all’orrore asso-

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luto dell’assassinio di un’anziana vigilatrice di Rebibbia,


tra singhiozzi e colpi di tosse), diedero a chi governava
l’apporto definitivo, consentendo la liquidazione del Mo-
vimento e, di conseguenza, la fine del culto dell’egua-
glianza.
Cesare Battisti ci parla di tutto questo, col tono aspro,
l’ironia e l’assenza di retorica che gli sono consustanziali.
Devono essergli grati non solo i lettori generici, ma anche
gli studiosi dei comportamenti collettivi, dai sociologi
agli storici: non hanno mai avuto tra le mani una testi-
monianza pari a questa, e probabilmente non ne avranno
altre in futuro.
Ci voleva uno scrittore condannato all’esilio dal suo
paese, dopo un’evasione e una sentenza di taglio militare
assurdamente severa, per ripercorrere senza animosità ma
con passione anni di cui, in Italia, è ancora difficile parla-
re, a meno di non rendere omaggio alle fumisterie di com-
plotti inesistenti o di spargere lacrime di contrizione. Bat-
tisti è un tipo poco incline al piagnisteo, e poco disposto a
chiedere perdono per sé o per altri. La luce che gli brilla
negli occhi, dopo un decennio di sofferenze e di fughe, è
ancora quella del sarcasmo. Ha l’aria di un ragazzino dal
sorriso beffardo, intento a premeditare una nuova monel-
leria. L’aria che avevano quasi tutti i partecipanti, fuori dai
ranghi delle “armate regolari”, a una guerra perduta in
partenza, ma che si riteneva valesse comunque la pena
combattere.

PAROLE DI UN FUGGIASCO: L'INTERVISTA CENSURATA


di Cesare Battisti

Il romanzo di Cesare Battisti L'orma rossa (Einaudi Vertigo,


1999) aveva a corredo una serie di dichiarazioni dell’autore
raccolte da Valerio Evangelisti. Il testo fu pesantemente ta-
gliato dall’editore, cui peraltro va dato atto di avere avuto il
coraggio di pubblicare un romanzo oggettivamente “scomo-
do”. Riproponiamo ora le dichiarazioni di Cesare nella loro
integralità.

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Una narrativa che nasce dalla carne

Una decina di anni fa cominciai a buttare giù le prime


linee di un romanzo. Allora non sapevo ancora dove anda-
vo a parare, cercavo disperatamente una storia, un prete-
sto dal quale snodare un riesame esistenziale. Senza esser-
ne cosciente, stavo scrivendo l’ultimo capitolo dei miei an-
ni Settanta…
Nel mio primo romanzo, Travestito da uomo (…per non
essere niente, era il titolo completo), Claudio, il protagonista,
si dibatte per sopravvivere al purgatorio degli esiliati italiani
a Parigi. Finirà per abbandonare definitivamente la scena
nel solo modo possibile. Tolta di mezzo questa mina vagante,
mi sono detto allora, potrei tentare di spingermi oltre, di ri-
salire ancora un po’ il tempo per gettare uno sguardo a un
passato meno recente. E un libro dopo l’altro, mi sono ritro-
vato improvvisamente sulla soglia degli anni Settanta.
La prima reazione è stata quella di tornare indietro di
corsa, ma la macchina del tempo non funzionava più. Non
mi restava altro che avventurarmi in quel deserto di men-
zogne dove brillavano le ossa di altri incauti. Non ci tenevo
a fare la stessa fine, allora mi sono inventato una favola,
un pretesto psicologico che mi liberasse dalla tara ideolo-
gica. Solo inseguendo la fantasia potevo ricostruirmi un
passato ricco di dettagli tragico-umoristici; un passato
che, se anche fosse appartenuto alla vita di un altro, non
sarebbe stato meno reale del mio. In questo modo avevo
pensato di avere il personaggio biografico ideale. Non do-
vevo fare altro che allineare narrativamente immagini rea-
li, e inserirle nella storia per flash disordinati, purché
profondamente nitidi e genuini, in modo da tessere il filo
dei miei anni Settanta.
Il risultato si chiama L’ultimo sparo. Né autobiografia
né fiction, ma una ricerca del reale in cui raramente si va
nella direzione di quel che ci si aspetta. Perché nella vita
vera le reazioni sono sempre insensate, assurde, talora rac-
capriccianti.
“Guarda, guarda… Impara a guardare!” E in quell’i-
stante lo scrittore sparisce. Questa è l’unica conclusione
che pretende L’ultimo sparo.

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L’evasione e la fuga in Messico

Il 4 ottobre 1981 mi lasciavo alle spalle il carcere di Frosi-


none. Non a testa bassa né svuotato nello spirito, come
avrebbero voluto i signori della repressione, ma con un’ar-
ma in pugno e il petto che mi scoppiava dalla gioia. Alcuni
scrissero di un’azione militare perfetta: senza colpo ferire,
un gruppo di compagni penetrò all’interno del carcere e lo
occupò i tempo necessario per permettermi di varcare una
decina di cancelli.
L’aspetto “militare” dello sforzo di migliaia di giovani,
che in quegli anni osarono sfidare il potere più selvaggio e
corrotto dell’Occidente, era l’unico linguaggio accessibile
ai media e a tutti coloro che rifiutavano vigliaccamente di
guardare in faccia la realtà. No! Sono stati l’amore e la so-
lidarietà, lo spirito libero e generoso di quei meravigliosi
anni Settanta che mi hanno strappato dalla prigione, non
quattro pistole arrugginite.
Purtroppo non mi fu possibile gioire a lungo della ritro-
vata libertà. Qualche giorno dopo seppi degli infami ra-
strellamenti effettuati dai carabinieri. A nessun membro
della mia famiglia, da una nipote di appena tredici anni a
mio padre morente di tumore, fu risparmiato l’abituale
trattamento riservato ai “terroristi”: arresti, ricatti, percos-
se, tortura e condanna nel caso di una sorella colpevole di
avermi reso visita in carcere. Con il groppo in gola fuggii
un’Italia disgraziata. In Francia non mi vollero, all’epoca
accettavano solo i fuggiaschi che si erano sporcate le mani
esclusivamente d’inchiostro. Le mie erano un immondez-
zaio, andai a lavarmele in Messico.
E fu un bagno d’ossigeno. In un paese così lontano dal
grigiore degli anni Ottanta in Italia, dove la frattura sociale
perdurava in un clima di sconfitta da un lato e nell’isteria
individualista e megalomane dall’altro, incontrai un popo-
lo straordinario.
Ridendosene delle morali e di certi valori come la coe-
renza, che laggiù è un lusso che non si permettono nean-
che i parolai professionisti, il Messico mi ha insegnato a
guardare me stesso e il mondo da un angolo inaccessibile
alla cultura dominante occidentale. Al Messico devo la na-

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scita di mia figlia, la voglia impellente di scrivere e quel ca-


lore umano che la democrazia italiana aveva relegato nel
profondo delle carceri speciali.

L’approdo in Francia

Nel ’90 sono dovuto tornare in Francia per ragioni familia-


ri, ma anche perché restava il solo paese al mondo a tolle-
rare la presenza dei fuggiaschi italiani. Il ritorno alla ville
lumière per me fu un trauma. Difficile riabituarsi a un in-
trico di norme sociali che, in nome dell’ordine democrati-
co, ti succhia la vita. Con affitti da capogiro, senza docu-
menti e quindi senza lavoro, insomma nella miseria totale
e con una famiglia da mantenere. Come se non bastasse,
nello stesso giorno mi informarono che durante l’esilio
messicano era morto mio padre e avevo subìto una con-
danna all’ergastolo. Al momento non realizzai, mi sembra-
va talmente troppo che non riuscii a versare una lacrima.
In seguito, l’avvocato mi fece pervenire una valigia di
atti processuali. Dopo averne letto qualche pagina, fu tan-
to il disgusto per quell’ammasso di menzogne che decisi di
buttare tutto nella spazzatura. Nell’illusione di liberarmi
definitivamente di una storia che non mi apparteneva più,
che era stata disonestamente rivista e corretta, mi misi a
scrivere come un forsennato.
Nel ’92 uscì il mio primo libro, poi il secondo e così via. Gli
editori e il pubblico francese si interessarono progressivamen-
te a uno stile che la stampa definiva di volta in volta viscerale,
crudo, picaresco. Intanto continuavo a remare come un pazzo
in un mare di stenti. Ma da un paio d’anni le cose sono miglio-
rate, nel senso che ora riesco a vivere dei miei romanzi.

I conti col PCI

L’ombra rossa è un altro passo a ritroso, un ulteriore tentati-


vo di capire cosa mi / ci era successo negli anni Settanta, che
pure avevo vissuto da protagonista. Venendo da una fami-
glia religiosamente comunista mi sentivo autorizzato a rovi-
stare tra i panni sporchi del PCI. Inoltre, in quel periodo
mantenevo una corrispondenza ricca di informazioni stori-

143
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che con un illustre membro del partito silurato insieme a


Pietro Secchia.
Al PCI rimprovero l’ambiguità calcolata, la lingua bifor-
cuta con cui da un lato alimentava i sogni di tutti gli sfrut-
tati, spesso mandandoli al massacro, e dall’altro si ripro-
duceva come partito di potere intento a spartirsi la torta
con la Democrazia Cristiana. Del PCI detesto l’anima stali-
nista, complottista e persecutrice che già durante la secon-
da guerra mondiale giocò un ruolo di primo piano nella vi-
gliacca distribuzione politica dei popoli europei.
Più tardi, durante la tragedia degli anni Settanta, cre-
dendosi ormai a un passo dall’Olimpo, tutte le maschere
caddero e il PCI si rivelò per quello che era in realtà. Baste-
rebbe ricordare le numerose espulsioni degli iscritti al par-
tito che si rifiutavano di etichettare il movimento contesta-
tario come una devianza di destra; gli sgherri di Lama al-
l’assalto dell’università di Roma, spranga alla mano; le au-
toblindo del sindaco di Bologna; le pattuglie armate contro
i comitati autonomi dell’Alfa e della Fiat; la brillante idea
di Giuliano Ferrara, allora consigliere comunale a Torino,
di lanciare un censimento porta a porta con lo scopo di
promuovere la delazione verso ogni comportamento in
odore di sovversione. E via di questo passo, fino alla coper-
tura di assassinii, di torture, di decine di migliaia di licen-
ziamenti, dell’arresto di oltre diecimila compagni.
Mi è difficile non credere che, se negli anni Settanta il PCI
avesse accettato il dialogo con il Movimento, si sarebbe potuto
evitare un massacro. Invece hanno fatto come i fascisti, si so-
no schierati con i cattolici dando il via alla caccia alle streghe.
Del resto, dopo il ’43, non si contano i quadri del Fascio ricicla-
tisi nel cosiddetto partito dei lavoratori. In comune avevano il
concetto del lavoro: per gli uni rappresentava il fulcro della li-
berazione (in URSS gli stakhanovisti lavoravano senza stipen-
dio), per gli altri un’espressione del rafforzamento della razza.

Un’amnistia improbabile

Seconda Repubblica, voltare la pagina degli orrori, risana-


mento sociale, giustizia, e chi più ne ha più ne metta. Paro-
le che solo un paese con un governo politico forte può per-

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mettersi di concretizzare. Vista da lontano, questa povera


Italia con i suoi governucci tecnici o di transizione, che
sono una manna per la satira politica internazionale, al
massimo riesce a rattoppare qualche vecchio buco, se i
soliti clan glielo permettono, beninteso. Per le soluzioni,
quelle limpide, ci vuole il coraggio di uscire allo scoperto,
ma dov’è? Forse nella pagina dei commenti de “La Repub-
blica”, dove uno sprovveduto, se non malintenzionato,
Franco Coppola,* per scongiurare un’eventuale amnistia,
pasticcia tra terrorismo e lotta armata, tra stragi di Stato
e rivolta sociale, tra Ustica o la Uno Bianca, cito testual-
mente, e il Partito armato. E se si mettessero sullo stesso
piano anche Mussolini e Togliatti, che avrebbero da ridire
questi buffi angeli vendicatori?

CESARE BATTISTI: AVENIDA REVOLUCIÓN


di Giuseppe Genna

Avenida Revolución è edito in Italia per Nuovi Mondi Me-


dia. Il brano che segue è l’introduzione di Giuseppe Genna
alla versione italiana del romanzo.

Signore e signori siamo lieti di presentarvi il massimo tra


gli autori noir italiani, uno dei più appassionanti e impor-
tanti scrittori di genere a livello europeo, e anche uno degli
intellettuali di nuova specie che stanno facendo e faranno
il culo alla cattiva globalizzazione con cui certa gentaglia
pensa di imbrigliare il pianeta: Cesare Battisti.
Nell’introdurre la figura di questo adrenalinico zingaro
dello spirito e delle geografie, vorrei evitare la facile retori-
ca esistenzialista che, qui da noi, finora l’ha accompagna-
to. Mi limiterò a ricordare le linee essenziali di un’avventu-
ra umana che, almeno a mia conoscenza, non ha pari nel-
l’Italia degli ultimi trent’anni. Chi finora ha avuto la fortu-
na di leggere i romanzi e gli interventi di Cesare Battisti
può avere pensato che si tratti di scritti politici. Il fatto,

*. F. Coppola, I carnefici e le vittime, “La Repubblica”, 16 feb-


braio 1999.

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però, è che Battisti è un narratore e ci mette davanti a una


scomoda verità: la narrazione è un fatto politico e la fic-
tion è una forma di potere, esattamente come lo è il raccon-
to di un’autobiografia. In parole povere: i libri di Battisti so-
no tutti scritti politici, ma a una profondità che davvero non
ha nulla a che vedere con le parentele superficiali che sono
finora state attribuite a questo imperdibile autore.
La vita di Cesare Battisti è un viaggio e, in un certo sen-
so, i suoi romanzi possono apparire una forma innovativa
e impazzita dei resoconti di viaggio. Se uno si legge L’ulti-
mo sparo, formidabile reportage su se stesso, ha l’impres-
sione di trovarsi di fronte a un Truman Capote che, per di-
sperazione o necessità, ha assunto qualcosa di stupefacen-
te, pur di reggere alla potenza di un racconto tanto intimo,
politico e sbalorditivo: una sorta di A sangue caldo per
amanti della letteratura benzedrinica. Molti luoghi, molte
persone, molte esperienze ha attraversato Cesare Battisti
nel corso della sua vicenda esistenziale. Abbandonata l’Ita-
lia, via Francia va in Messico – a Puerto Escondido, il che
vi ricorderà qualcosa di cinematografico –, passa per Ma-
nagua, ritorna a Parigi e diventa il massimo scrittore ita-
liano di genere nero. In Francia è acclamatissimo: gli dedi-
cano speciali televisivi, pagine di giornale, trasmissioni ra-
diofoniche. In occasione dell’uscita dell’ultimo suo lavoro,
lo splendido Le cargo sentimental, capita di vivere scene
come questa che racconto. Sono alla FNAC accanto alla
Grande Arche, entro, chiedo a un commesso l’ultimo libro
di Battisti e quello, accorgendosi che sono italiano, mi do-
manda se lo conosco di persona, mi supplica di portargli
un saluto affettuoso da parte di un fedele lettore. Sono in
tanti: non i commessi FNAC, ma i fedeli lettori dei romanzi
di Cesare Battisti. Anche in Italia si contano schiere di fe-
delissimi, che rimasero letteralmente incantati dalla po-
tenza narrativa e civile di testi come L’ultimo sparo (Derive
Approdi) e L’orma rossa (Einaudi). Adesso che si prepara
un rientro editoriale di grande richiamo, su Cesare Battisti
è prevedibile che si scatenerà di nuovo la tentazione di far-
ne un culto letterario. Non è il caso. Il culto è la degenera-
zione dell’amore e tutti i romanzi di Battisti altro non sono
che un tentativo di impedire proprio questa degenerazio-

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ne. Il che garantisce a tutti i suoi lettori un’esperienza che


sembrava perduta: quella di amare un scrittore e ciò che ci
regala – vale a dire: amare la letteratura.
La tentazione critica da cui vorrei deviare, parlando
dell’opera di Cesare Battisti, è questa: Battisti è interessan-
te perché ha vissuto a fondo la stagione politica e i suoi so-
no romanzi politici. Non è così. Sembra così, per alcuni ti-
toli, ma non è mai così, come dimostra il libro che avete in
mano e che si intitola sì Avenida Revoluciòn ma non ha
precisamente nulla a che vedere con un’interpretazione su-
perficialmente politica ed esistenziale. Certo, uno prende
in mano L’ultimo sparo e dice: è la storia dei miracoli di un
fuggiasco, è il resoconto finale di una generazione perduta
al sogno di libertà. Anche qui: solo in apparenza. L’ultimo
sparo è molto di più: in tempi in cui nessuno si filava i ro-
manzi brevi, glaciali e sconvolgenti di Jean-Patrick Man-
chette, prima della postuma riscoperta che dell’autore di
Nada ha fatto il massimo e più celebrato scrittore noir (ma
non solo), Cesare Battisti aveva scritto l’unico romanzo
italiano avvicinabile a Manchette. Teso, ritmato come una
piatta onda vibratoria, L’ultimo sparo otteneva proprio l’ef-
fetto di un ultimo sparo: colpiva alla fronte il lettore e lo
segnava indelebilmente. Tra l’altro, esito non secondario,
riproponendo, ma in maniera genialmente algida e rinno-
vata, la questione assai tradizionale e letteraria dello spa-
zio di scelta (o di non scelta) tra vita e morte, tra libertà e
necessità, tra fatalità (termine precisamente manchettia-
no) e rivolta, tra sogno e realtà. Ecco a che cosa giunge la
scrittura politica di Battisti: alla totalità dell’esistente, che
è la vita vivente, con tutto il suo glorioso massimalismo,
che ripete in perfezione e in presenza l’altrettanto gloriosa
tradizione epica. Non soltanto perché L’ultimo sparo, sto-
ria largamente autobiografica, è un bilancio generaziona-
le. È soprattutto perché si affronta il rapporto ambiguo,
deficitario o trionfante che sia, tra l’individuo e la comu-
nità che L’ultimo sparo si costituisce quale vibrante e su-
percompressa epica contemporanea. Non è una storiogra-
fia che Battisti tenta. Siamo fin troppo disinibiti per crede-
re che la storia di un drop out, per quanto reattivo, sia
semplicemente quello che sembra: le sue valenze allegori-

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che, diciamo così, sono ben più politiche di qualunque ri-


mando semplicistico alla vicenda in sé, che è politica an-
ch’essa.
Questo stravolgimento della storiografia, potentemente
rovesciata in narrazione epica, è un tentativo a cui Battisti
è rimasto fedele in tutti i suoi romanzi, fino a questo Ave-
nida Revoluciòn. Basta semplicemente considerare che,
seppure in senso non soltanto fisico, L’orma rossa è quella
di Palmiro Togliatti: un approccio quasi shakespeariano
(non ovviamente sul piano linguistico: sto parlando del
piano tematico) a tutta la messinscena che il Potere tenta
di allestire nella sua opera di espropriazione dell’umano.
Proprio di questo si parla in Avenida Revoluciòn: dell’u-
mano espropriato da se stesso. Qui Battisti ha calibrato in
maniera sconvolgente l’utilizzo non soltanto di un genere,
ma di molti generi, tutti coagulati in uno. Non voglio sot-
trarre una particola di piacere alla lettura rivelandone la
trama: perché Battisti è uno dei pochi scrittori italiani che
funzionano prendendoti alla gola e non lasciandoti più.
Parlerò piuttosto delle suggestioni che questo romanzo
veicola e da cui è a sua volta veicolato. Avenida Revoluciòn
è una storia dell’Interzona: un luogo di mezzo, di conteni-
mento e di contenzione, di libertà sfrenata e di duello al-
l’ultimo sangue con l’alienazione, con gli altri e con se stes-
si (è da tenere presente, questa notazione, quando si leg-
gerà il finale e si osserverà da una prospettiva tutta nuova
la sorte di Antonio Casagrande, il protagonista). Citare
l’Interzona significa evocare immediatamente lo spettro di
William Burroughs – ed è esattamente ciò che desideravo
fare. Non nel senso che lo stile di Battisti è una macchina
complessa e barocca e magari illeggibile di tagli e montag-
gi: no, Avenida è un libro leggibilissimo secondo il caratte-
re di linearità a cui lo “spettatore” occidentale pare essersi
abituato. È piuttosto la mescola di tematiche tra cui l’auto-
re fa scoccare archi voltaici impressionanti ad avvicinare
questo romanzo a quelli del genio del Pasto Nudo. Qui c’è
tutto il corredo tradizionale della letteratura: amore, mor-
te, lavoro, sesso, senso, confine, sogno, utopia, lotta, misti-
ficazione. È un percorso iniziatico che in Avenida viene
raccontato, compiendo il quale Antonio Casagrande, uno

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che la casa la lascia e che grande non è affatto, verrà ad at-


traversare l’esperienza definitiva, ma sempre mobile, della
Casa Nomadica e della Grandezza dell’Uomo. Burocrazie
complesse e macchiniche, artificiali e stritolatrici, vengo-
no ad affrontare de visu l’uomo che cerca la propria eman-
cipazione, tentando di attaccarlo al muro dell’apparenza e
del condizionamento. Muro che, peraltro, è uno dei massi-
mi protagonisti del romanzo, che raggiunge il suo apice in
una Tijuana onirica ed epifrenica, in cui Battisti condensa
gli esotismi noir dell’Orson Welles de L’infernale Quinlan e,
va da sé, il retrogusto anfetaminico dell’Ellroy di Tijuana
mon amour. L’iscrizione oraziana che “non è cambiando
cielo che si cambia anima” viene incisa a viva forza sulla
pelle dell’ex contabile Antonio Casagrande, in una via cru-
cis che conduce da Milano al Messico (ma soprattutto nel-
l’Altrove): esperienza ultimativa grazie a cui l’uomo si tro-
va davanti al Leviatano, che non è il Potere ma Se Stesso, e
deve prendere una risoluzione. E la risoluzione è questa: o
di là o di qua, o si passa il confine o si resta dietro di esso,
pur sapendo che molto spesso ciò che si trova al di là del li-
mite è un’inversione – e si torna al di qua. Il gesto radicale
dell’uomo in cerca di emancipazione significa questo: sot-
trarsi al gioco incoerente della vita , al trucco con cui il de-
stino presenta le sue tre carte tentando di gabbarci.
In mezzo a tutto ciò, secondo la precisa tradizione alla
Burroughs (che, insieme a Kafka e al Dick di Ubik, mi pare
il nume tutelare del libro di Cesare Battisti), farete l’espe-
rienza da incubo di intermezzi apparentemente distonici,
divaricati secondo la logica dell’allucinazione storiografica
a cui Battisti lavora con alacre impegno. Giusto per farvi
assaggiare la potenza civile, spiazzante e rivelatrice, di
questi inserti in forte connessione tra loro, ecco come cul-
mina uno snodo importante di quella rete in cui sarete feli-
cissimi di farvi prendere: “Oh, so bene chi sei: un artista
della sublimazione; altrimenti detto, un falsario della
realtà. Ora però ti senti come un prestigiatore a cui hanno
sottratto conigli e cilindro. Dài, cittadino, mostraci come
farai a recuperare il potere delle tue pagine”.
Mentre nel successivo Cargo sentimental Battisti scon-
volge il romanzo realista plurigenerazionale, entrando nel-

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l’abisso della costante uomo tra epoche diverse (per inten-


derci: una versione avantpop di Bacchelli: di quella cosa lì,
insomma), in Avenida egli realizza il sogno di un romanzo
fantastico e realista, cioè eminentemente, violentemente
politico, al di fuori dei comodi canoni del realismo fanta-
stico alla sudamericana. Qui si avverte l’asprezza della bat-
taglia di un uomo contro di sé, di un uomo che ha vissuto
con profondità sempre e ovunque, non lasciandosi incan-
tare dagli esotismi dell’alienazione, ma tentando la radica-
lità, individuale e collettiva, come via primaria alla libera-
zione dal giogo e alla riappropriazione del gioco. Cesare
Battisti, come del resto Valerio Evangelisti, operano sul
fantastico e sul politico un lavoro di non tanto segreta ela-
borazione. L’epoca che stiamo vivendo, la battaglia di mo-
vimento che si sta preparando certificano quanto costoro,
che sono tra gli ultimi umanisti, abbiano oggi ragione. Per
questo li dobbiamo amare.

CESARE BATTISTI: CARGO SENTIMENTALE


di Hubert Artus

Le Cargo Sentimental (Eds. Joëlle Losfeld, febbraio2003) è


probabilmente il capolavoro di Cesare Battisti. Ancora intra-
dotto in Italia, il romanzo è stato recensito da Hubert Artus
sul sito francese Mauvais Genres. Pubblichiamo la traduzio-
ne di quell’articolo.

Le cargo sentimental è una sommatoria di destini fami-


liari, messi in vertiginosa centrifugazione. Sulla linea del
romanzo che precedentemente Battisti aveva pubblicato
da Losfeld, Dernières cartouches (linea che si potrebbe
sintetizzare così: desiderio, amore, intensità dei ricordi,
rabbia del vinto, forza della volontà rivoluzionaria), il car-
go imbarca tre generazioni (il padre, il figlio narratore,
una giovane figlia) per tracciare un bilancio sulla vita e
sulle lotte di ciascuno: la resistenza al fascismo di Mussoli-
ni, gli anni di piombo e la resistenza all’economia liberista.
Il narratore, esule egli stesso dall’Italia in Francia, pen-
dola tra il presente affannoso e il passato in cui ha agito

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senza specchietto retrovisore. Con la sua tipica strategia


linguistica di spostamento sulla linea di confine, Battisti
innova il suo tentativo di parlare del passato al di fuori di
qualunque nostalgia... ammesso che ci sia una verità da
catturare.
In Battisti, la frontiera tra realtà e fiction è sempre sotti-
le; e quella tra reale e interpretazione del reale, anche. Que-
sto romanzo, semplice soltanto in apparenza, esige un’at-
tenzione costante e intensa in ogni momento. La lingua di
questo autore esprime rabbia e lascia trapelare sottintesi.
Per Battisti, le origini dell’ingiustizia commessa nei
confronti dei rivoluzionari italiani risale alla Guerra: una
guerra perduta che non ha permesso di affrontare compiu-
tamente, in Italia, il fascismo. Sollevazione narrativa – co-
me si deduce da una frase come questa, che Battisti ripete
più volte: “Non è l’uomo che crea le circostanze, sono le
circostanze che creano l’uomo”. Il personaggio scopre, in-
tera, non soltanto la storia del padre, ma anche la propria,
tra gli stessi residui luminosi del proprio destino.
Due generazioni di combattenti per il medesimo risul-
tato: nessun passaporto per vivere. Una terza generazione
che, i documenti, li ha. Il parallelo stabilito tra questi de-
stini (che, per forza di cose, si intrecciano) offre una pro-
spettiva di romanzo a più livelli e una dimostrazione di al-
gebra politica implacabile. Battisti, che dispone di una vi-
sionarietà acida, si congeda da noi, a fine libro, con un’im-
magine (su una duna) di sfrenata poesia.
Se il potere, qualunque cosa esso sia, divide (lotte e ge-
nerazioni) per meglio imperare, questo romanzo ricostrui-
sce il legame e comprova l’intensissima esigenza intellet-
tuale e letteraria di Cesare Battisti.

APPELLO PER LA LIBERAZIONE DELLO SCRITTORE CESARE BATTISTI

I servizi speciali francesi hanno arrestato lo scrittore Cesa-


re Battisti, rifugiato in Francia ormai da quattordici anni.
Su di lui pende una domanda di estradizione presentata
dal governo italiano, sulla base di una condanna pronun-
ciata in contumacia oltre un ventennio fa.

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È bene ricordare che a Cesare Battisti fu concesso asilo


politico solo dopo che un magistrato francese ebbe vaglia-
to le “prove a suo carico”, e le ebbe giudicate contradditto-
rie e “degne di una giustizia militare”. A Battisti erano stati
addossati tutti gli omicidi commessi da un’organizzazione
clandestina a cui era appartenuto negli anni ‘70, anche
quando circostanze di fatto e temporali escludevano una
sua partecipazione.
Dal momento della sua fuga dall’Italia, prima in Messi-
co e poi in Francia, Cesare Battisti si è dedicato a un’inten-
sa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’espe-
rienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centi-
naia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nella
lotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordi-
naria e ineguagliata riflessione sugli anni ‘70, quale nessu-
na forza politica che ha governato l’Italia da quel tempo a
oggi ha osato tentare.
La vita di Cesare Battisti in Francia è stata modesta,
piena di difficoltà e di sacrifici, retta da una eccezionale
forza intellettuale. È riuscito ad attirarsi la stima del mon-
do della cultura e l’amore di una schiera enorme di lettori.
Ha vissuto povero ed è povero tuttora. Nulla lo lega a “ter-
rorismi” di sorta, se non la capacità di meditare su un pas-
sato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi da
criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tut-
ti coloro che, nella storia anche non recente, hanno affida-
to alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro
riscatto.
Certo, c’è chi ha interesse a che una voce come quella di
Cesare Battisti venga tacitata per sempre. Chi, per esem-
pio, contribuì alle tragedie degli anni ‘70 militando nelle fi-
le neofasciste o in quelle di organizzazioni – clandestine
quanto i Proletari armati per il comunismo – chiamate
Gladio o Loggia P2, e sospettate di un numero impressio-
nante di crimini. Chi fa oggi della xenofobia la propria
bandiera. In una parola, una gran parte del governo italia-
no attuale.
Noi invece vorremmo che di scrittori capaci di affronta-
re di petto il passato come Cesare Battisti ce ne fossero
tanti, e che i cittadini francesi capissero chi rischiano di

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perdere, per la vigliaccheria dei loro governanti: un uomo


onesto, arguto, profondo, anticonformista nel rimettere in
gioco fino in fondo se stesso e la storia che ha vissuto. In
una parola, un intellettuale vero. Non era tradizione della
Francia privarsi di uomini così, per farli inghiottire da una
prigione. Ci auguriamo che la Francia non sia cambiata
tanto da tacere di fronte a un simile delitto.
Sì, delitto. Avete letto bene.

Seguono 2200 firme, tra cui le seguenti:

Valerio Evangelisti (scrittore), Serge Quadruppani (scritto-


re, Francia), Daniel Pennac (scrittore, Francia), Marco
Muller (direttore della Mostra del cinema di Venezia, pro-
duttore cinematografico), Wu Ming (scrittori), Vauro (di-
segnatore), Giuseppe Genna (scrittore), Lello Voce (poeta),
Nanni Balestrini (scrittore e critico), Antonio Moresco
(scrittore), Tiziano Scarpa (scrittore), Marco Philopat
(scrittore ed editore), Luigi Bernardi (scrittore ed editore),
Helena Janeczek (scrittrice), Giorgio Agamben (filosofo,
scrittore), Aldo Nove (scrittore), Davide Ferrario (regista),
Guido Chiesa (regista), Dario Voltolini (scrittore), Loreda-
na Lipperini (giornalista) Ivano Ferrari (poeta), Massimo
Carlotto (scrittore), Florence Thinard (scrittrice, Francia),
Tommaso Pincio (scrittore), Pino Cacucci (scrittore), Gil-
les Perrault (scrittore, Francia), Roberto De Caro (critico
musicale, direttore di Hortus Musicus), Dominique Ma-
notti (scrittrice, Francia), Paolo Cento (deputato Verdi),
Mauro Bulgarelli (deputato Verdi), Stefano Tassinari
(scrittore), Carla Benedetti (critica letteraria), Laura Gri-
maldi (scrittrice e traduttrice), Gianfranco Manfredi (scrit-
tore e musicista), Michele Monina (scrittore), Beppe Seba-
ste (scrittore), Jean-Marie Laclavetine (scrittore, Francia),
Octavio Carsen (giurista, Argentina), Giovanni Russo-Spe-
na (deputato, PRC), Graziella Mascia (deputato, PRC),
Massimiliano Governi (scrittore), Christian Raimo (scrit-
tore), Sandrone Dazieri (scrittore), Jacques Tardi (disegna-
tore, Francia), Christian Britsch (docente università di Zu-
rigo), Anne-Marie Métailié (editrice, Francia), Deanna

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Shemek (docente università della California), Monica Del-


l’Asta (docente università di Bologna), Jacopo De Michelis
(editor)…
…e altri duemila tra intellettuali, operai, sindacalisti,
imprenditori, fotografi, impiegati, artisti, musicisti, attori,
cineasti, docenti, giornalisti, scrittori, studenti, dall’Italia,
dall’Europa e da altri due continenti.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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OPERE DI CESARE BATTISTI

Les habits d’ombre, Série Noire Gallimard, Parigi 1993 (ed.


italiana: Travestito da uomo, Granata Press, Bologna 1993)
Nouvel an, nouvelle vie, Ed. Mille et une Nuits, Parigi 1994
L’ombre rouge, Série Noire Gallimard, Parigi 1995 (ed. italia-
na: L’orma rossa, Einaudi Vertigo, 1999)
Buena onda, Série Noire Gallimard, Parigi 1996
Copier coller (romanzo per ragazzi), Flammarion, Parigi 1997
J’aurai ta Pau, Coll. Le Poulpe Ed. Balene, Parigi 1997
Dernières cartouches, Ed. Joelle Losfeld, Parigi 1998 (ed. ita-
liana: L’ultimo sparo, ed. DeriveApprodi, Roma 1998)
Jamais plus sans fusil, Ed. du Masque, Parigi 2000
Terres brûlées (antologia a cura di CB), Ed. Rivages, Parigi
2000
Avenida Revolucion, Ed. Rivages, Parigi 2001 (ed. italiana:
Avenida Revolucion, Nuovi Mondi Media, Ozzano E. 2003)
Le Cargo sentimental, Ed. Joelle Losfeld, Parigi 2003
Vittoria (romanzo illustrato da Alain Karkos), Ed. Eden Pro-
ductions, Parigi 2003

TESTI UTILI ALLA COMPRENSIONE DEL PERIODO

AA.VV., La mappa perduta, 4 voll., Sensibili alle foglie, Roma 1994


AA. VV., Settantasette, DeriveApprodi, Roma 1997

157
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Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. 1968-1977, la


grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esisten-
ziale, a cura di Sergio Bianchi, SugarCo, Milano 1988; Fel-
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Giorgio Bocca, Il caso 7 Aprile. Toni Negri e la grande inquisi-
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Giorgio Bocca, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata rico-
struiti e discussi con i protagonisti, Garzanti, Milano 1985
Romano Canosa, Le libertà in italia. I diritti civili e sociali nel-
l'ultimo decennio, Einaudi, Torino 1981
Lucio Castellano (a cura di), Aut. Op., Savelli, Roma 1980
Centro di iniziativa Luca Rossi (a cura di) 685. Libro bianco
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Collettivo redazionale La nostra assemblea, Le radici di una
rivolta, Feltrinelli, Milano 1977
Comitati Autonomi Operai di Roma, Autonomia Operaia, Sa-
velli, Roma 1976
Comitato 7 aprile e collegio di difesa (a cura di), Processo al-
l’Autonomia, Lerici, Milano 1979
Pasquino Crupi, Processo a mezzo stampa: il 7 Aprile, Com 2
Editrice, Venezia 1982
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lano 1993
Franco Fortini, Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990.
Prospero Gallinari, Linda Santilli, Dall'altra parte. L'odissea
quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, Mi-
lano 1995
Laura Grimaldi, Processo all'istruttoria. Storia di un'inquisi-
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Sergio Spazzali, Chi vivrà vedrà. Scritti 1975-1992, Calusca
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PRINCIPALI SITI INTERNET DEDICATI AL CASO BATTISTI:

In Italia:

www.carmillaonline.com
www.miserabili.com
www.wumingfoundation.com
www.indymedia.it

In Francia:

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http://cesarebattisti.free.fr

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