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SFORZO MORALE: “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi, “IX Quaderno italiano”, Marcos y

Marcos, Milano, 2007.

In questa seconda raccolta di Massimo Gezzi continua a rivelarsi il tentativo – reiterato e quindi
cruciale in prospettiva di un orizzonte tematico comune a molta poesia contemporanea – di
concentrazione linguistica sull’evento, allo scopo di salvaguardarne i presupposti, cioè le realtà, i
frammenti che costituiscono un mondo.
Se ne “Il mare a destra” il linguaggio si spiegava in una nominazione ancora fuggevole, ne
“L’attimo dopo” si avverte una lieve virata stilistica: la realtà è sempre più corporea e solo
l’esperienza e la memoria del soggetto lirico riescono a penetrare la pellicola di materia che riveste
gli oggetti e il paesaggio: “Reperti// Nella terra si leggono moltissime/ vicende, mi accorgo mentre
faccio/ un sentiero di campagna che non avevo/ più percorso: i tronchi segati al pari/ del terreno
resistono per secoli;/ qualche volta riaffiora un oggetto/ che pare extraterrestre, tanta è la distanza/
che lo separa dal presente. Un giorno per esempio/ ho trovato nel piccolo giardino/ antistante la
mia casa una macchina/ per cucire in miniatura, ciarpame o giocattolo,/ nera e scrostata ma del
tutto/ conservata, che a pulirla avrebbe dato/ un’eleganza démodé ad un mobile/ antico. Più di
rado si rinvengono/ coriandoli di carta, a volte di giornali pornografici,/ altre di firme e scritture
impronunciabili,/ slavati dalle bave o rifilati/ da chissà che mandibola paziente. Io so anche dire/
dove sono tumulati i miei due cani, bianchi/ e poderosi, seppelliti da mio padre/ dopo anni di
passeggi serali/ e di carezze. Chissà cosa resiste, adesso,/ di quei corpi, se i lunghi filamenti/ del
pelo o le zanne dei canini, oppure se è come/ se non fossero affatto transitati/ in quella terra, stinti
del tutto, divorati da insetti/ che magari avrò schiacciato senza troppa/ attenzione, non capendo
che nel cric/ di quegli scheletri echeggiava il guaito/ familiare dei miei cani, la saliva che lasciava/
minuscoli globi più scuri sul cemento,/ brevi costellazioni evaporate/ in un secondo, subito sparite
in altre forme/ anche loro”.
Era importante inserire l’intero componimento perché ogni parola concorre alla nominazione
umilmente sacrale degli oggetti, anche attraverso il ricordo, anzi, soprattutto grazie ad esso pare
ricrearsi quella relazione che il soggetto pareva aver perso col suo contesto. Continua il lavoro sulla
tradizione - letteraria certo, ma ancor di più etica – nel tentativo di un recupero di bagliori di mondo
non del tutto perduto. Continua, nell’elencazione di oggetti e situazioni, lo sforzo di rinominare le
cose, purtroppo questo sforzo sembra tradire una rinuncia: la significazione richiede un maggior
sacrificio, un andar oltre che rinnovi la realtà attraverso uno slancio di relazione. Purtroppo l’elenco
sembra mummificare l’agire linguistico e di conseguenza museificare la realtà – o è proprio questo
il messaggio?
Non sembra questo il messaggio, non lo è se leggiamo attentamente due poesie successive: “Sul
molo di Civitanova” e “ La memoria di una terra”. La prima ci dice le difficoltà processuali di ogni
esistenza, anche di chi “liricamente” vive in una piccola provincia occidentale e le contraddizioni di
quello stesso mondo, difficoltà concernenti il senso e la lettura della propria realtà attraverso
un,avvenuta cancellazione dei valori, e ce lo dice in una tonalità pacatissima che rasenta
l’ineffabile; ci sembra di dondolare su quelle onde che investono il molo (noto gli enjambement
utilizzati frequentemente che ci dispongono ad una lenta oscillazione) e che si apra uno spazio
diverso, nei nostri sensi è il quotidiano che si ripete mai uguale: “non è mai finita, penso mentre
guardo/ i tuoi capelli rovistati dal grecale:/ finché non muore tutto c’è speranza/ di risolverlo il dilemma/
che mette il segno uguale tra vita/ e non vita, in quest’angolo di porto/ occidentale che ogni volta è se stesso
ma insieme/è anche altrove”.
Quel mettere il segno uguale tra vita e non vita rappresenta il nodo tematico cruciale non solo del
componimento, ma anche di un’intera stagione di pensiero filosofico e poetante. L’interesse tout
court per il linguaggio, per la comunicazione e per la trasmissione di un messaggio nell’immediato
ma soprattutto al futuro, è la testimonianza di sempre che l’uomo ha saputo scegliersi per trasferire
una tradizione. Il dire di Gezzi riesce ad addossarsi ancora il peso del dono insito nella scrittura,
riesce ancora ad avvertire la responsabilità, il valore, in una parola la comunione, con quel lettore-
destinatario che sembrava ormai disperso nel buio ermeneutico di ogni identità. Il lavoro che Gezzi
compie riguarda proprio l’eventualità di una ri-appropriazione: attraverso una saggia fiducia nel dire
(e mi riferisco a quanto detto sopra a proposito della trasmissione di un messaggio), s’incomincia a
intravedere un mondo con dei nuovi attori (persona, personaggio, sarebbe banale continuare a
insistere sull’etimologia di queste parole e sulla loro ambiguità), le cui azioni sembrano ristabilire
quel contatto con “l’altro” oggettuale e umano.
In tutto il processo non si è perso di vista il versante umano, appunto, e questo pare avvicinare
Gezzi ad una posizione conservatrice, non reazionaria ovviamente, in cui finalmente si compie una
scelta e si avvia un percorso: quello dell’amore e della pietas in un mondo post-umano.
Nella seconda poesia a cui abbiamo fatto riferimento (“La memoria di una terra”), è ribadita con
forza la scelta di Gezzi, sia sul versante morale che linguistico (aspetti che vanno di pari passo). Già
l’incipit “Questa terra è pesante di memoria” apre una vertigine di senso; non si tratta di una
pacifica constatazione, lo dimostra quell’aggettivo in mezzo al verso, decisivo perché introduce un
discorso sulla nuova responsabilità di chi ha attraversato un’epoca: il postmoderno e l’ironizzazione
della realtà – tutto sembrava essere stato detto perché ogni azione sembrava costipata nella sua
possibile ripetitività, ma nel prosieguo si arriva addirittura ad una visione (apocalittica?) della vita
sulla terra. Dalla ripetizione dei processi vitali al decadimento dell’essere pre-disposto ad essere
rifagocitato dalla natura in un ciclo indissolubile che si riallaccia tematicamente alla pesantezza
introdotta sin dall’inizio. Sono sincero, in questo componimento sento una ricaduta, qualcosa di
trapassato sembra emergere, una dominazione annichilente, una natura madre conglobante rende
stantia la forza etica di dire un mondo nuovo, si ricade nel vecchio desiderio autodistruttivo, un
valore ripetuto, una certa stanchezza creativa.
Dopo tre poesie molto intense sulle relazioni interpersonali (forse le più belle della raccolta), si
giunge ad un gruppo di poesie che definirei “percettive”. Con questo intendo dire che i
componimenti in questione si concentrano, partendo da uno spunto sempre quotidiano, su piccoli
eventi che in sé sembrano racchiudere dei macroeventi che coinvolgono, in visuale più ampia, gli
oggetti e la mutata prospettiva, empirica, fenomenologica, di considerarli. Mi riferisco a “Venere
davanti al sole”, “L’accordo”, “La stanza”, “La tempesta”, si tratta di componimenti intermittenti
che sembrano appartenere a un’altra stagione o riflettono un residuo di conoscenza – letture, studi
giovanili. Ne “La tempesta” leggiamo: “…è quello della gente/ protetta dal suo covo e che forse,/ come
te, sta cercando un abbraccio” parole che mi conducono direttamente a “Nell’abbraccio” (“Schizzati
fuori dalle loro tane/ si spandono nell’aria/ nell’acqua del mondo/ sul tepore della terra al sole/
inchiostri annaspanti/ cercano di formare/ una salda cintura un equatore/ nell’abbraccio del
mondo”) di Bartolo Cattafi (in “Segni”, Milano, Scheiwiller, 1986).
“Il seme del tiglio” e “Insonnia” continuano sulla strada, appena tracciata, di una fenomenologia
minima e pronta ad accendersi; da un dettaglio sembra sprigionarsi la scintilla che permette la
nominazione e quindi ogni immagine poetica. Così si arriva ad “attendere gli indizi di una nuova
comparsa”, nuova apparizione, epifania del reale che però non crea aspettative o false illusioni, ma
solo la semplice constatazione dell’esistere e sua unica “magia” (“Quattordici foglie”, v. 15). Magia
del precario e di un lavoro o lavorio che accompagna l’uomo dagli esordi in una fugacità senza
scampo, talmente cruda da apparire glaciale e che è inevitabilmente tale, concreta, durevole filo di
Arianna delle relazioni di cui il singolo uomo è infinitesimale approdo e ripartenza; come una soglia
non sigillabile (“Grottammare”).
La concretezza a cui si accennava è conservata, anzi ribadita, nel componimento finale: preghiera
rivolta all’altro, alla considerazione di un mondo e alla consapevolezza di una ambiguità e fugacità
che nell’apparente male ri-dona una speranza, attraverso la constatazione di una fisicità che, da un
punto di vista strettamente personale (ma credo di poter leggere, nelle intenzioni di Gezzi, la stessa
esigenza), nella sua fragilità abbisogna di maggior rispetto (“Una risposta”).

Gianluca D’Andrea

http://www.nabanassar.com – diritti riservati – gennaio 2008

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