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UNIVERSITÀ L’ORIENTALE

ANNO ACCADEMICO 2008/2009

ANTROPOLOGIA DELLE
RELAZIONI ETNICHE

PIERO VERENI
MATERIALI DIDATTICI
ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – PIERO VERENI PER L’ORIENTALE
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ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – M-DEA/01


PIERO VERENI
Programma e calendario

Il modulo seguente si pone come scopo preparare gli studenti ad articolare in maniera rigorosa e non
impressionistica i temi principali del dibattito corrente sull’etnicità e le relazioni etniche. A questo fine, nella
prima parte verranno presentate alcune questioni teoriche e “astratte” sulle forme dell’appartenenza e sul ruolo
dell’“altro” nella definizione dell’identità. Nella seconda parte verranno poi presentati casi specifici, attinenti al
contesto italiano e al quadro mondiale.

Le lezioni di marzo sono mutuate dal modulo di Etnologia (prof. Chiauzzi) e relativo programma

Le lezioni frontali del dottor Vereni inizieranno con il seguente calendario, giorno 10 marzo aula Stazione
marittima ore 10-12.

DATA ARGOMENTO TESTO DI RIFERIMENTO


1. 10 marzo ore 10 Il concetto antropologico di Vereni Dispensa docente
cultura PRIMA PARTE
2. 17 marzo ore 10 Il concetto antropologico di Vereni Dispense docente
cultura SECONDA PARTE
3. 24 marzo ore 10 Relativismo e razionalismo in Geertz, Anti-anti-relativismo
antropologia
4. 31 marzo ore 10 La critica postcoloniale Young Il postcolonialismo
5. 7 aprile ore 10 La critica postcoloniale Young Il postcolonialismo
6. 21 aprile ore 10 Identità albanese nella diaspora Vereni Dispensa docente
7. 28 aprile ore 10 Il contatto con l’altro Geertz, Gli usi della diversità
8. 05 maggio ore 10 Politica del riconoscimento Habermas & Taylor
PRIMA PARTE Multiculturalismo
9. 12 maggio ore 10 Politica del riconoscimento Habermas & Taylor
SECONDA PARTE Multiculturalismo
10 19 maggio ore 10 Critica del comunitarismo Habermas & Taylor
Multiculturalismo

Programma d’esame
• Dispensa Vereni (presso le copisterie). Comprende le fotocopie di:
Clifford Geertz, “Gli usi della diversità”
Clifford Geertz, “Anti-anti relativismo”
• Robert J.C. Young, Introduzione al postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005
• Jurgen Habermas e Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli,
1998.
A questo si deve aggiungere dal programma di Etnologia (prof. Chiauzzi) il volume Sentimenti velati, di Lila
Abu-Lughod. Ulteriori informazioni verranno date a lezione.

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APPUNTI PER LA PREPARAZIONE DEL MODULO DI SOCIOLOGIA DELLE RELAZIONI ETNICHE 2008 – PIERO VERENI - L’ORIENTALE
1. ALCUNI CONCETTI DI BASE APPRENDERE (quasi) tutto quello che fanno, e praticamente tutto quello che pensano
Nelle prime lezioni abbiamo articolato alcuni aspetti basilari dell’antropologia e dicono. In altre parole, la cultura ha la stessa funzione che ha negli animali il
culturale, insistendo esplicitamente su questi argomenti: corredo genetico (trasmettere un sapere: il gatto trasmette alla prole la capacità di
1) il concetto antropologico di cultura ritrarre gli artigli e di miagolare), ma si affida all’apprendimento, non alla
2) definizione e funzione dell’etnocentrismo biologia, e quindi può mutare in tempi infinitamente più rapidi, rivelandosi uno
3) il relativismo culturale e il suo senso antropologico strumento di adattamento senza pari. Se cioè un determinato comportamento
4) la riflessività innato si rivela non più adattivo (cioè non più adeguato a garantire la
5) la ricerca sul campo sopravvivenza per la specie che lo pratica) può portare all’estinzione di quella
specie. Immaginate cosa succederebbe alle api se, per qualche ragione, sparissero i
fiori… La cultura invece ha una flessibilità straordinaria, proprio perché la sua
trasmissione non passa per via genetica ma attraverso l’apprendimento.
1.1. LA CULTURA Immaginate che tra le sfortunate api rimaste senza fiori ce ne sia una che per
qualche mutazione genetica ha imparato a sopravvivere nutrendosi di qualcos’altro
Per quanto riguarda a), abbiamo detto che gli antropologi considerano cultura (poniamo, di grano). Certo, quell’ape potrà sopravvivere, ma per poter riprodurre
l’insieme dei comportamenti, delle pratiche dei manufatti e di qualunque altra questo comportamento (e per far sopravvivere le api come specie) dovrebbe
“cosa” prodotta dall’uomo e dotata di queste tre caratteristiche: accoppiarsi e sperare di avere un numero adeguato di successori con il suo stesso
1. è appresa corredo genetico (in grado cioè di nutrirsi con il grano invece che con il polline dei
2. è condivisa fiori). Immaginate invece ora un gruppo umano che si sia specializzato nella
3. ha una componente di natura simbolica caccia ai conigli, e che per qualche ragione i conigli spariscano d’improvviso.
Immaginate inoltre che tra i membri di quel gruppo umano uno abbia imparato
(seppure casualmente) a pescare o a procurarsi comunque del cibo diverso dai
1.1.A. LA CULTURA È APPRESA conigli. Le possibilità che questo nuovo comportamento si trasmetta al resto del
gruppo sono infinitamente maggiori che nel caso del mutamento comportamentale
Per quanto riguarda la NATURA APPRESA della cultura, ciò significa che non è delle api. Lo “scopritore della pesca”, infatti, non deve aspettare di riprodursi e
cultura qualunque COMPORTAMENTO INNATO dell’uomo (come la suzione dei neonati) sperare che la sua prole abbia ereditato le sue competenze in fatto di ami e di
e abbiamo visto come lo spazio dei comportamenti naturali (innati) negli esseri lenze, ma può “semplicemente” radunare i membri del suo gruppo e INSEGNARE loro
umani sia estremamente ridotto, tanto che anche la postura eretta (camminare su come si pesca. In questo modo, un comportamento nuovo e adattivo può
due piedi) deve in qualche modo essere “attivata” dal gruppo sociale nel quale trasmettersi in tempi portentosamente rapidi (se comparati ai tempi della biologia)
siamo inseriti (i bambini “selvaggi” allevati da animali non praticano la postura e attraverso individui diversissimi tra loro (dato che non serve assolutamente che
eretta). Mentre cioè gli altri animali si affidano in massima misura a abbiano lo stesso corredo genetico per condividere quel sapere). Ma se un nuovo
comportamenti innati, che cioè fanno parte del loro corredo genetico e che comportamento può diffondersi in tempi rapidissimi, altrettanto rapidamente può
possono essere trasmessi direttamente alla prole per via biologica (un’ape operaia andare perduto se non viene costantemente rinnovata la sua trasmissione alle
non impara a raccogliere il nettare, come non impara a fare le cellette esagonali: è nuove generazioni. Tutti voi, ad esempio, sapete che in Olanda ci sono moltissime
il suo modo naturale di comportarsi, e non può fare altro), gli esseri umani devono biciclette e molti servizi urbani sono organizzati proprio per facilitare gli
spostamenti in bici. Questo comportamento si è diffuso soprattutto dopo la
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seconda guerra mondiale, divenendo un segno distintivo dell’Olanda (soprattutto pescare se spariscono i conigli); c) è comunque non del tutto omogenea già
nelle sue aree urbane) in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta. Ciò all’interno del gruppo che ne sarebbe il tenutario principale (una comunità di
significa che le persone che oggi hanno all’incirca cinquant’anni sono cresciute in “pescatori” prevedrà comunque persone che pescano meglio e altre che pescano
un ambiente sociale e culturale per cui andare in bicicletta era considerato non peggio, “stili” e “tradizioni” diverse di pesca, addirittura “scuole di pensiero”
solo normale e sano, ma anche “giusto”. Le generazioni più giovani, quelle che conflittuali su cosa sia una buona attività di pesca).
hanno all’incirca la vostra età, premono invece perché nei centri storici venga Ma prima di ritornare su questo tema (della complessità “interna” delle culture)
consentito un accesso più semplice alle automobili e ai motocicli: se l’Olanda cioè riprendiamo il filo della trasmissione del sapere per via culturale, che ci consente
non trova un modo per trasmettere alle nuove generazioni la “giustezza” di chiarire ulteriormente il concetto antropologico di cultura. Il fatto che la cultura
dell’andare in bicicletta, è possibile che questo comportamento subisca un drastico sia un sapere appreso rischia di creare dei fraintendimenti proprio sulla natura di
calo nei prossimi anni, mano a mano che i giovani saliranno nelle stanze delle quel sapere. Quel che impariamo, infatti, può essere appreso in diversi modi e, per
amministrazioni e della politica. L’esempio serve solo a far notare come un così dire, a diversi livelli. State leggendo questi appunti perché volete imparare
comportamento, per quanto possa apparire vantaggioso, non viene mantenuto qualcosa di antropologia culturale. In questo caso tutto è piuttosto chiaro: chi deve
“automaticamente” tra le generazioni, ma ha bisogno di essere confermato e insegnare (i docenti), chi imparare (voi) e cosa state imparando (la storia della
rinforzato ad ogni passaggio generazionale. La trasmissione culturale, quindi, si cultura materiale). Altrettanto chiaro il modo in cui state imparando: grazie a un
presente come estremamente flessibile e mutevole: una generazione può rifiutare procedimento formalizzato (lezioni, studio) che passa soprattutto attraverso il
l’acquisizione della generazione immediatamente precedente. linguaggio. Pensate invece ai vostri gusti musicali, o alla vostra capacità di
Il fatto che gli individui che apprendono il nuovo comportamento siano praticare una certa attività fisica (uno sport, un gioco). Chi vi ha insegnato che
estremamente diversi tra di loro (ci sarà quello forte e quello timido, quello quel cantante “fa schifo” e quell’altro invece è bravo? Chi vi ha insegnato quello
intraprendente e quello pigro) costituisce un ulteriore fattore di adattamento stile di nuoto, a passare bene la palla, a muovervi su una pista da ballo? Avete
potenziale della cultura. Se infatti lo stesso insegnamento è appreso da persone imparato per imitazione, per rielaborazione, spesso senza sapere chi vi stava
diverse tra loro, è probabile che verrà elaborato in modi diversi: qualcuno non insegnando, oppure secondo modalità che non sono state principalmente
saprà che farsene di quell’insegnamento, altri lo ripeteranno pedissequamente, altri linguistiche (pensate al ballo, ad esempio, che non si impara “leggendo” o
ancora però vi apporteranno delle modifiche (abbiamo sempre pescato con gli ami “studiando”, ma “guardando” e “facendo”, anche se prendete delle lezioni:
fatti così, ma se li facciamo cosà peschiamo di più) che possono essere un’attività in cui la componente linguistica della trasmissione non è quella
vantaggiose e che possono “tornare” anche all’emissario di partenza (quello che principale).
aveva insegnato a pescare per primo). Nel caso delle api, invece, il sistema Dobbiamo quindi distinguere un sapere trasmesso in modo FORMALE (tutta
standard della trasmissione del sapere (come si cava del cibo dal grano) è l’educazione scolastica è di questo tipo) da uno trasmesso INFORMALMENTE (come i
fortemente omogeneizzante: è bene che chi eredita quel sapere lo erediti per intero gusti musicali ed estetici in generale), in cui cioè non è chiaro chi abbia il compito
e senza modifiche. Mentre cioè la trasmissione per via biologica tende di insegnare. Dobbiamo inoltre distinguere un sapere sostanzialmente di tipo
all’uniformazione entro la specie (un eccesso di mutamento genetico può produrre LINGUISTICO da un sapere DEL CORPO che non passa necessariamente o principalmente
un’incompatibilità riproduttiva e quindi una nuova specie, che farà la sua storia attraverso la spiegazione linguistica. Abbiamo poi accennato a un’altra
evolutiva separata dalla specie da cui è nata), la trasmissione culturale accetta un opposizione importante per chiarire il concetto antropologico di cultura, e cioè
grado pressoché infinito di variazione intraspecie. Detto altrimenti, mentre un’ape quella tra cultura ALTA e cultura BASSA, citando l’esempio della playstation. Una
che impara a mangiare il grano è probabile che smetta di essere un’ape (magari per consolle per videogiochi oggi richiede, da parte di un giocatore esperto, una
cominciare a somigliare a una cavalletta), un essere umano che impara pratiche notevole competenza e un duro addestramento: per l’antropologia interessata alle
culturali diverse diventa “ancora più uomo”, e non corre mai il pericolo di creare pratiche culturali il fatto che saper giocare alla playstation non sia particolarmente
attraverso la cultura una barriera insormontabile con altri esseri umani, dato che la prestigioso (che cioè non venga considerato parte della “cultura alta” come, ad
cultura che ha imparato: a) può essere trasmessa ad altri esseri umani che ancora esempio, suonare il violoncello) non muta l’interesse per questa pratica. Per
non la condividono; b) può essere mutata dallo stesso portatore (che impara a l’antropologia culturale capire come si impara a suonare il pianoforte, a giocare

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con la playstation o a intrecciare un canestro di vimini (tre attività manuali utilizzare tratti somatici (il colore della pelle, ad esempio) proprio per quanto
associate a livelli sociali estremamente diversi) è altrettanto importante, perché in abbiamo detto sul modo non biologico con cui si trasmette la cultura: tutti
tutti e tre i casi siamo di fronte a comportamenti appresi, e quindi di natura conosciamo diversi esempi di italiani di colore, e il caso è ovviamente ancora più
culturale. L’antropologia quindi non distingue tra una cultura alta e una cultura nitido nel caso di paesi con una storia più lunga e complessa di immigrazione
bassa come oggetti di studio: riconosce che gli uomini attribuiscono diversi valori (Gran Bretagna, Francia, Olanda, per non dire degli Stati Uniti). Questo per dire
(morali o economici) alle diverse competenze (per cui oggi saper giocare bene a che, indipendentemente da quello che potremmo presupporre dalle caratteristiche
calcio vale molto di più di quanto non valesse trent’anni fa, in termini economici, somatiche, gli esseri umani sono in grado di imparare qualunque sistema culturale
ma sapere sette lingue straniere è comunque considerato estremamente prestigioso, come “loro proprio” (si chiama processo di INCULTURAZIONE quel complesso
anche se chi le sa non è ricco) ma è interessata a tutte le forme di competenza. meccanismo di apprendimento della cultura “madre”, mentre si chiama
Anzi, uno degli oggetti di studio dell’antropologia è proprio il modo in cui le ACCULTURAZIONE qualunque processo di acquisizione di una cultura diversa,
diverse culture mettono su diverse scale di prestigio o valore le diverse successivamente al processo di INCULTURAZIONE). Questa evidente disponibilità delle
competenze dei singoli. culture ad essere apprese da chiunque deve però spingerci a riflettere proprio
Un ultimo aspetto, particolarmente interessante per le conseguenze sull’entità di quella condivisione. Molto spesso (per ragioni complesse che non
metodologiche che possiamo trarne, della cultura in senso antropologico è possiamo affrontare se non brevemente in questo modulo) tendiamo a
costituito dal fatto che non solo spesso non è chiaro chi insegna, non solo spesso “sopravvalutare” la compattezza delle culture, e a considerarle come entità
non è chiaro come quel sapere venga insegnato, ma a volte non è neppure chiaro completamente separate una dall’altra: di qui i Nayar, di là i Nuer. Da una parte i
che cosa venga insegnato. Può cioè capitare, quando si studia la cultura in senso Maya, e dall’altra gli Incas. Oppure (il che è lo stesso) da una parte gli Irlandesi e
antropologico, di incontrare forme di conoscenza che sono chiaramente apprese, da quella opposta gli Inglesi. In effetti, nessuno può dubitare che le culture
ma che i portatori di quella cultura non sono consapevoli di sapere. Abbiamo a tendano a coagularsi attorno ad alcuni elementi caratterizzanti, ma è altrettanto
questo proposito raccontato l’apologo dei due archeologi (uno italiano e uno vero che nella maggior parte dei casi la nettezza con cui crediamo di poter
straniero ma che parla l’italiano) che ritrovano dentro una nave un’ancora, un distinguere tra diverse culture è più apparente che reale. “Dentro” ogni cultura,
anello e un’anfora. Non ripeterò qui la storia (chi non fosse stato presente se la tanto per iniziare, vi saranno persone con conoscenze diverse, con valori non
faccia raccontare da qualche collega) ma il senso deve essere chiaro: chi conosce condivisi e spesso addirittura in conflitto tra loro. Pensate ad esempio a come la
“fino in fondo” una cultura? Sono gli “indigeni”, cioè i portatori di quella cultura, cosiddetta “cultura occidentale” stia in questi ultimi anni affrontando un
solo perché dentro quella cultura sono nati e cresciuti? Oppure anche un “esterno” ripensamento profondo della propria dimensione religiosa. L’Islam è compatibile
può imparare a conoscere come funziona una cultura che non gli è familiare? con “l’occidente”? Non importa rispondere a questa domanda (non in questa sede,
Come vedrete, questo è un tema che ricompare quando si affronta la ricerca sul almeno), mentre è interessante chiedersi cosa quella domanda dà per scontato, e
campo e la questione più generale di come sia possibile conoscere una cultura cioè che il Cristianesimo sia invece non solo compatibile, ma un vero e proprio
diversa dalla nostra. tratto caratteristico dell’Occidente. Ma se il Cristianesimo è alla radice
dell’Occidente, non è alla base dell’Occidente moderno anche il pensiero laico e
razionalista, il materialismo scientista e l’ateismo come prospettiva antropologica
1.1.B LA CULTURA È CONDIVISA DAI SUOI MEMBRI radicale? Chi potrebbe contestare che l’Illuminismo, il marxismo o la psicoanalisi
sono prodotti intellettuali assolutamente occidentali (europei)? Eppure è noto a
Su questo punto abbiamo insistito soprattutto per quanto riguarda la tutti che queste visioni del mondo hanno criticato duramente (pur se in modi
DELIMITAZIONE delle culture. A tutti noi appare evidente che un americano non è un diversi) proprio la radici cristiane del pensiero occidentale. Sto cercando di dire
francese, che un irakeno non è un argentino, che un basco non è un castigliano e che il Cristianesimo è un figlio legittimo della cultura che chiamiamo
così via. Ci sono ovviamente diversi elementi culturali che possiamo utilizzare “occidentale” quanto lo è l’Illuminismo, anche se i due sistemi di pensiero sono
come tratti discriminanti: la lingua, la religione, l’abbigliamento, il sistema di per molti versi inconciliabili. Invito gli studenti a pensare altri esempi di sistemi di
valori (cos’è bene e cos’è male, in quella cultura). Non possiamo, invece, valori in conflitto entro quella che apparentemente è la stessa cultura. Possiamo

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parlare di una cultura calabrese? Per molti versi sì, riconducibile a una famiglia Riconosciamo cioè i mutamenti in corso (i tatuaggi, i piercing, i ristoranti cinesi)
omogenea di dialetti e a un passato storico, artistico, politico e addirittura ma tendiamo a collocarli su uno sfondo di immutabilità che non ha alcuna
economico (il latifondo) ricostruibile con estrema precisione. Eppure chi non giustificazione storica. Quando pensiamo alla nostra cultura che oggi si cambia e
conosce le rivalità che oppongono in Calabria i diversi comuni? Scendendo ancora si modifica, si mescola e si intreccia con altre tradizioni culturali, dentro di noi
di livello, chi non si accorge, una volta a Cosenza, che si respira un’aria confrontiamo lo stato attuale (di modificazione e mescolamento) con uno stato
“culturale” per molti versi riconoscibile, che si è dentro uno spazio segnato da una precedente in cui invece la nostra cultura era pura, intonsa, non ancora mescolata
qualche forma di condivisione? Eppure mi chiedo che cosa avrebbero da dirsi un con altre. Il punto è esattamente questo: lo stato originario in cui le culture erano
giovane ultrà del Cosenza e la vecchia signora che tutti i giorni dice il rosario nella pure e separate NON È MAI ESISTITO, è un’invenzione del nostro modo di pensare al
chiesa della sua parrocchia, anche se sono tutti e due calabresi. Non dovrebbero passato, che salta non appena ci confrontiamo con la realtà storica.
condividere un’unica cultura? In realtà, c’è un margine di sovrapposizione tra Prendiamo un primo esempio. Cosa bevono gli inglesi alle cinque del
quanti partecipano alla “stessa cultura”, ma quasi mai una sovrapposizione totale, pomeriggio? Tè, si sa. Il tè è (assieme alle birre poco gassate e tiepide che servono
per le ragioni che dicevamo sul modo in cui apprendiamo modificando nei pub) la bevanda nazionale inglese (e britannica, più in generale). Si sa quanto
soggettivamente quel che impariamo. Nel caso calabrese, poi, l’appartenenza il tè con lo zucchero sia stato un alimento essenziale della classe operaia durante le
regionale è ulteriormente complicata dalla presenza di tradizioni linguistiche fasi più intense della rivoluzione industriale, ma anche un simbolo dell’emergente
specifiche: l’arbreshe e il grecano sono ancora parlati (soprattutto il primo), e borghesia. Questa bevanda è in grado di condensare la forza rude del proletariato
complicano notevolmente il sistema delle appartenenze. (che beve il tè mentre cena, nei mugs, le tazze cilindriche spesso in metallo) e il
Quindi, primo punto, le culture sono estremamente complicate già al loro gusto delle classi dominanti (che bevono tè in tazze svasate di porcellana,
interno, per il fatto che i loro membri si dispongono lungo fasce di età differenti rendendolo l’accompagnamento di spuntini nutrienti come i cucumber sandwiches
(gli anziani sanno cose che i giovani non sanno, e viceversa), su diverse scale o di cibi “astratti” come la pasticceria). Il tè è quindi non solo un elemento
sociali (in base al reddito, all’istruzione, all’origine familiare) e su diverse importante del sistema alimentare britannico, ma è quasi un simbolo prediletto di
strategie di competenza (chi ne sa “di più” tra un chirurgo e un pianista, tra un quel sistema e dell’idea di Britishness. Ma da dove viene quel tè? Non è certo un
botanico e un filologo, tra un idraulico e un elettricista? La domanda non ha prodotto indigeno, anzi. Il tè non cresce (non può crescere) nelle isole britanniche,
ovviamente senso, dato che ognuno ha una competenza specifica). Per questa è stato importato di recente (da pochi secoli vuol dire di recente) e la regina
ragione, nessuno possiede tutta la “propria” cultura, e nessuno possiede solo Elisabetta I o William Shakespeare (qualcuno oserebbe dire che non erano
elementi culturali comunque riconducibili alla “propria” cultura (collocatevi dove “tipicamente” inglesi?) non bevevano tè. Eppure oggi siamo disposti ad accettare
vi pare, ma se avete tatuaggi o piercing vi sfido a dimostrarmi che si tratta di il tè come una bevanda “tipicamente” o “tradizionalmente” inglese. Se qualcuno
elementi culturali tipicamente italiani, o calabresi o quel che volete). poi pensasse che l’usanza oggi tipicamente inglese di sorseggiare tè sia stata
Vista da questa prospettiva la differenza tra culture si fa meno rigida e meno assunta dai colonizzatori britannici durante la loro permanenza in India (come se
netta, dunque. Ma c’è dell’altro che dobbiamo aggiungere per capire quindi la recente tradizione britannica si basasse in effetti su una più antica
effettivamente come si realizza la condivisione culturale, e che forme assume. tradizione del subcontinente indiano) precisiamo che fino agli anni trenta
L’ultimo esempio che abbiamo fatto (i tatuaggi e i piercing) sembrerebbe dell’Ottocento il tè era prodotto solo in Cina, e di lì esportato tramite i
comunque appartenere alla famiglia delle eccezioni che confermano la regola: va commercianti olandesi. Fu solo dopo il 1834 che la coltivazione del tè venne
bene, il tatuaggio no, ma sono calabrese e cresciuto qui, prova a dimostrarmi che introdotta nel subcontinente indiano.
questo non è tipico e che non caratterizza la mia appartenenza in modo netto! Il caso della “pasta al pomodoro” – questa volta “tipicamente” italiano – è
Bene, ci provo, e per farlo anticipo in linea generale l’argomento che proverò a altrettanto indicativo: nei libri di cucina napoletani dei primi dell’Ottocento
dimostrare per via di esempi. Il punto è che le culture non solo sono immerse nel esistevano i “maccaroni” e esisteva la “pummarola”, ma i primi si mangiavano a
tempo (cambiano) ma sono nate nel tempo. È questo quello che tendiamo a timballo e venivano cotti al forno, la seconda invece si poteva associare alle carni,
dimenticare, anche quando siamo disposti ad ammettere i mutamenti in corso al pesce e alle verdure, ma non era mai “in coppa” alla pasta. Questo vuol dire che
(dovrei dire meglio: proprio quando ci lamentiamo dei mutamenti in corso). ci deve essere stato un momento nel corso dell’Ottocento in cui si è cominciato a

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mangiare la pasta con il sugo di pomodoro, e certamente in quel periodo nessuno la sequenza temporale si sviluppa dall’alto al basso, mentre le diverse linee e le
pensava che la pasta al sugo fosse un piatto “tradizionale” o “tipico”. (Ovviamente loro forme differenti stanno a indicare i diversi elementi culturali (ad esempio:
non accenno neppure al fatto che sia la pasta come la conosciamo noi sia il praticare l’agricoltura, fare i piercing, professare il monoteismo, far uso della
pomodoro sono stati introdotti in Italia da pochi secoli). televisione, non mangiare il maiale, eccetera, eccetera, eccetera). In questa figura
Ecco, quanto tempo ci vuole perché un’usanza culturale possa essere considerata ipersemplificata rispetto a qualunque condizione reale, gli elementi culturali
come caratteristica di quella cultura? Ovviamente la domanda non ha una risposta (raffigurati con i diversi tipi di linea) si spostano nel tempo (sul piano verticale) e
assoluta, ma va indagata caso per caso. E se si hanno informazioni sufficienti si nello spazio (sul piano orizzontale). Dato un qualunque momento storico (A, B,
potrà scoprire che, caso per caso, ogni elemento culturale ha una storia che è fatta C), è possibile individuare specifiche configurazioni culturali come “nodi” (N1,
di prestiti, commistioni e incroci. È la prospettiva da cui guardiamo alla realtà N2, eccetera) attorno a cui si “raddensano” alcuni elementi culturali. Come è
culturale che ci fa immaginare di provenire da un passato statico messo in crisi evidente, non c’è un momento “originario” per i singoli nodi, e non è neppure
dalla mutevolezza del presente. Le culture sono accorpamenti estremamente possibile stabilire con assoluta precisione dove finisca un determinato
permeabili e fragili di elementi culturali, che nel corso dei tempi hanno sempre raggruppamento culturale (anche se è possibile individuare per ogni nodo i punti
subito modificazioni. Del resto, non può che essere così, se pensiamo in in cui i singoli elementi culturali sono più fittamente intrecciati).
prospettiva storica: non ha senso pensare a una qualunque cultura come qualcosa Secondo invece la seconda figura, le culture sono entità nettamente distinte che
di originario che “poi” si sarebbe inquinato, dato che questa immagine presuppone preesistono a qualunque commistione, che è il prodotto della “corruzione” del
che le culture siano state create tutte contemporaneamente e tutte diverse, e che tempo. In questo modello, le culture
poi, eventualmente, si sarebbero incrociate e commiste. In realtà, il processo N N N sono l’entità primigenie che il tempo
storico è stato proprio l’opposto. La diversità culturale è cresciuta proprio grazie 1 2 3 A tende a mescolare o a fondere.
alla commistione. Se io che ho imparato a pescare da quello che me l’ha insegnato Quando quindi diciamo che la
ci metto del mio (uso le reti invece degli ami) ecco che sto creando una cultura cultura è costituita da elementi
della “pesca con le reti”, che si differenzia dalla “pesca con gli ami”. Se mi hanno culturali condivisi dai membri della
insegnato il latino e io lo parlo mescolandolo con le parlate italiche e germaniche, B comunità culturale, dobbiamo sempre
ecco che faccio nascere l’italiano. Potremmo dire che l’italiano è un latino stare attenti che non sia l’idea stessa
“inquinato”? O dovremmo invece pensare che l’italiano è sempre esistito, ma era di condivisione a generare l’illusione
stato “coperto” dal latino e si sarebbe “scoperto” nel corso del tardo medioevo? di una cultura intesa come entità
Entrambe le ipotesi sembrano vere sciocchezze: l’italiano non è una versione compatta, distinta, nettamente
“povera” del latino, e non è un’entità pura che sarebbe emersa nel suo splendore C separabile dalle altre culture. La
solo nel corso dei secoli. È piuttosto un condivisione è quindi un concetto
prodotto storico, come qualunque altro sempre relativo: i membri che diciamo (o che dicono) di appartenere alla cultura x
N A elemento di qualunque altra cultura. sono tali in quanto ciò che condividono tra loro è maggiore di ciò che condividono
1 È forse possibile dare una con altri individui, che si definiscono (o che definiamo) appartenenti ad altre
N raffigurazione grafica della concezione culture.
2 B antropologica di cultura come raggrup-
pamento in uno specifico momento
storico di alcuni elementi culturali, e 1.1.C LA CULTURA È SIMBOLICA
opporre questa raffigurazione al
N modello che vorrebbe invece le culture Quanto abbiamo detto sulla natura appresa e condivisa in senso relativo della
3 C
come entità separate e a rischio di cultura ci costringe a riflettere più a fondo sul meccanismo di base delle culture
commistione. Nella figura qui a fianco umane. Come abbiamo visto, far parte di una cultura vuol dire sostanzialmente

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condividere attraverso l’apprendimento una serie di pratiche, di valori e di invece più di un problema la natura di quello che finora non abbiamo ancora
istituzioni. Mentre cioè un’ape appartiene alla specie delle api perché è dotata del definito, e cioè il significato.
patrimonio genetico (e quindi comportamentale) che distingue le api da qualunque Senza voler ripercorrere la storia dello studio dei segni (che è ben più lunga
altro essere (animato o inanimato), un essere umano appartiene a una cultura della semiotica moderna) e senza neppure pretendere di riassumere un dibattito
perché ne condivide gli elementi avendoli appresi. L’apprendimento, come che coinvolge da sempre la riflessione filosofica, per i nostri scopi sarà sufficiente
abbiamo segnalato brevemente, non avviene in modo meccanico, ma attraverso dire che possiamo concepire due teorie del significato, che qui ci limitiamo a
complesse operazioni di trasmissione (formale e informale, a base linguistica e a definire brevissimamente.
base corporale, con contenuti espliciti o impliciti). Un qualunque elemento La prima è la cosiddetta TEORIA REFERENZIALE, per cui il significato di cane in
culturale (saper pescare) non può quindi essere trasmesso se chi riceve il qualche modo coincide con l’animale o con “l’immagine mentale” che abbiamo
messaggio non è in grado di interpretarlo, di rielaborarlo, di farlo proprio, ed dell’animale. Secondo questa teoria, quando dico /cane/ intendo riferirmi
eventualmente di inviare a sua volta messaggi per chiedere chiarimenti, per all’animale che ho in mente, o a quello che passa per la strada in quel momento.
sollevare dubbi o per porre critiche al messaggio ricevuto. Anche la più semplice Una teoria referenziale del significato è ben rappresentata dalle definizioni di un
operazione di trasmissione culturale deve accettare questo meccanismo di base, vocabolario: per ogni voce si dà una brevissima definizione, astratta da ogni
per cui chi impara deve essere in grado di farlo, il che significa che deve avere una riferimento contestuale.
parte attiva e non può limitarsi a ricevere passivamente l’insegnamento (provate a La seconda teoria invece si può definire TEORIA DELL’USO, e sostiene che il
insegnare una cosa qualunque al vostro tavolino, e capirete che cosa intendo). Gli significato è dato dall’insieme di norme, pratiche e consuetudini che possiamo
antropologi riassumono questa specificità della trasmissione culturale dicendo che associare a quel segno se vogliamo che sia comprensibile per chi ci sta ascoltando.
la cultura è un CAMPO SEMIOTICO o, con altro termine, un SISTEMA DI SEGNI. Per capire Secondo questa teoria, il significato di “cane” è dato da tutto quello che
di che si tratta vediamo brevemente alcune definizioni preliminari. potenzialmente possiamo “raccontare” (i semiologi professionisti riprendono il
La semiotica studia i segni (non solo linguistici) intesi come l’unione arbitraria di termine filosofico “predicare”) del segno “cane”. Per cui il significato di “cane” è
un SIGNIFICANTE e di un SIGNIFICATO. Il significante è la forma, il “mezzo” che assume il dato dall’uso che facciamo dell’insieme delle informazioni “enciclopediche” che
segno per essere veicolato (inchiostro se il segno è scritto, onde sonore se il segno è abbiamo di cane.
sonoro, qualunque materiale se il segno non è strettamente linguistico), per cui il Questa teoria dell’uso risulta a mia esperienza particolarmente ostica da
segno “cane” è costituito da un significante (che indichiamo convenzionalmente tra comprendere in termini astratti, ma solitamente diviene particolarmente evidente
barre oblique: /cane/) e da un significato (che indichiamo invece tra apici semplici: quando esplicitata attraverso esempi concreti (il che sembrerebbe confermare
‘cane’). Il significante può essere quanto di più vario possiamo immaginare: in proprio la “teoria dell’uso” del significato, visto che sto cercando di spiegarvi il
queste pagine, il significante è costituito dalle lettere che vedete scritte, e cioè /cane/, significato di “teoria dell’uso”, e so per esperienza che una sua “definizione” non
ma potrebbe anche essere qualcosa simile al disegno qui riportato. riesce a veicolarne il senso quanto una sua “narrazione”). Prendiamo il caso che io
Come appare per ora intuitivo, sia il disegno qui a fianco (per vi incontri e vi dica che ieri sera ho mangiato cotolette di cane. La cosa, oltre che
quanto maldestro) che le lettere comprese tra le barre oblique stupirvi, credo che metterebbe in dubbio il senso della comunicazione, e quasi di
/ cane/ veicolano lo stesso significato, sono cioè due significanti riflesso molti di voi insisterebbero per “chiarire il senso” della mia affermazione.
estremamente diversi che veicolano però lo stesso significato. Perché questa richiesta di “chiarimento”? Per la ragione che il vostro significato di
Questo intanto ci permette di dire che il RAPPORTO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO è “cane” non contempla che l’animale sia commestibile, e anzi associa a questa
ARBITRARIO, cioè non c’è nessuna ragione “naturale” per cui il significato ‘cane’ eventualità una vera repulsione. Insomma, una frase apparentemente chiara e
debba essere espresso con il disegno che ho fatto, con il significante /cane/, come banale come: “Ieri sera ho mangiato cotolette di cane” (che in alcuni paesi asiatici
fa la lingua italiana, o con il significante /dog/, come fa invece la lingua inglese. non susciterebbe alcuna richiesta di chiarimento) crea problemi di interpretazione
Se il segno come unione arbitraria di significante e significato e la natura non perché i singoli elementi non siano decodificabili (come se avessi detto: “Ho
convenzionale del significante sono due concetti facilmente comprensibili, solleva sambilato catonate di prane”) ma perché entrano in conflitto con la
rappresentazione enciclopedica del segno “cane”. Un ulteriore esempio, prima di

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trarre una conclusione importante. Se entrassi in aula e mi presentassi come di “capire le cose dal punto di vista dei nativi” oppure che l’antropologo studia i
Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, mi mettessi una mano nel panciotto “significati nativi”, o ancora che l’antropologia studia le “reti di significato”, che
e il dito mignolo dell’altra nell’orecchio, e capiste che “sto facendo sul serio”, sono “reti” perché i segni possono avere come significato un altro segno: se dico
probabilmente chiamereste l’ambulanza. Eppure “nella mia testa” e nella “vostra che in Italia il cane è “una specie di amico”, mi trovo a dover capire cosa significa
testa” potrebbe esserci un’idea alquanto precisa del significato del segno il segno “amico”; e se dico che in alcuni paesi asiatici il cane produce una “carne
“Napoleone Bonaparte”. Quel che non va, in questo caso, è che il “mio” segno prelibata”, dovrei capire cosa si intende per “prelibata”. I segni rimandano ad altri
(nella mia testa) e il “vostro” segno (nella vostra testa) non avrebbero uno spazio segni, e l’intreccio con cui i diversi segni si definiscono a vicenda produce una
condivisibile, non sarebbero “negoziabili” e – forti del vostro numero (tutto il “rete semiotica”. Ma su questo torneremo parlando della ricerca sul campo.
mondo contro uno) – potreste dire che il significato che io associo al mio segno è
“sbagliato”. Concludiamo qui invece le nostre brevi riflessioni sul concetto antropologico di
Quel che questi due esempi estremi e fittizi vorrebbero dimostrare è che il cultura. Riassumiamo quanto abbiamo stabilito finora: la cultura è costituita da
significato non può limitarsi a stare “dentro la nostra testa”, ma deve essere una rete di simboli appresi e condivisi; l’informazione culturale non passa per via
SOCIALMENTE CONDIVISIBILE. Detto altrimenti, “IL SIGNIFICATO È PUBBLICO”: è cioè il biologica ma attraverso forme di trasmissione che prevedono un ruolo attivo da
prodotto di pratiche sociali e ha poco a che fare con “l’oggetto rappresentato”. parte di chi apprende; non è detto che i portatori di un determinato sistema
Per capire cosa significa il segno “cane” nella cultura X devo quindi ricostruire culturale siano completamente consapevoli del contenuto delle loro pratiche
il significato di quel termine attraverso l’indagine degli usi potenziali e legittimi di culturali, dato che la trasmissione del sapere può essere formalizzata ma spesso
quel segno, per cui in Italia “cane” significa (tra le molte altre cose, e detto in passa per canali informali per cui è difficile stabilire chi insegna, chi impara, e che
modo estremamente semplificato): animale che quando torno a casa mi fa le feste cosa precisamente venga insegnato e appreso; la cultura in senso antropologico
e che devo portare a passeggio; una specie di strano amico poco esigente che mi può quindi essere alta o bassa, formale o informale, esplicita nei suoi contenuti o
aiuta a non sentirmi solo. implicita; le culture associano arbitrariamente significanti e significati producendo
Se invece cercassimo di capire qual è in significato del termine equivalente in segni culturali che hanno senso (sono riconosciuti come segni) solo se sono
coreano, dovremmo riuscire a concepire anche significati del tipo: animale che condivisi, e quindi possiamo dire che i significati sono pubblici, e non sono “nella
produce una carne prelibata e difficile da cucinare. testa” degli individui, ma invece costruiti dall’interazione comunicativa tra i
Come vedete, ha poca importanza (dal punto di vista dell’analisi culturale) membri di quella cultura; lo studio scientifico delle culture è costituito proprio dal
stabilire che il termine italiano “cane” e il termine corrispondente in coreano si tentativo di ricostruire le reti si significato di una determinata cultura, cercando
riferiscono allo stesso “oggetto”, dato che l’identità dell’oggetto fisico non quindi di vedere le cose “dal punto di vista dei nativi”.
muterebbe la sostanza del problema, e cioè che in italiano e in coreano i due segni Se tutto questo è vero, possiamo allora dire che il concetto antropologico di
vengono usati in modi estremamente diversi, il che equivale a dire che il segno CULTURA riassume tutte le pratiche umane che si oppongono alla NATURA, intensa
italiano “cane” e il corrispondente coreano non hanno lo stesso significato, e che proprio come apparato che precede l’uomo e entro il quale l’uomo si trova ad
l’unico modo per dar conto di questa differenza è ricostruire quale sia il significato agire. Fa parte della natura la nostra struttura biologica, il fatto che siamo
plausibile del segno nel suo specifico contesto culturale o, detto altrimenti, mammiferi bipedi, il fatto che abbiamo il pollice opponibile, che non possiamo
ricostruire il significato pubblico del segno. Ecco allora che siamo tornati alla sopravvivere al di sotto o al di sopra di determinate temperature, che il nostro
dimensione pubblica del significato. Non posso sperare di scavare nella mia testa apparato digerente non riesce a decomporre la cellulosa (per cui non siamo
per capire il significato di “cane” nella cultura coreana, ma sono costretto a erbivori), che i cuccioli della nostra specie hanno necessità di essere accuditi per
interagire con i rappresentanti di quella cultura, a cercar di capire attraverso un periodo eccezionalmente lungo prima di poter essere autosufficienti. Questi
l’osservazione dei loro comportamenti e l’interazione linguistica quale sia PER LORO “fatti naturali”, comunque sono modulati dal contesto culturale nel quale
il significato della parola “cane”. cresciamo e devono essere attivati entro gruppi organizzati: facoltà chiaramente ed
Ecco, questo è esattamente quello che cerca di fare l’antropologia. Ci sono esclusivamente umane come la postura eretta o il linguaggio articolato non si
diversi modi per esprimere questo concetto. Si dice a volte che l’antropologo cerca sviluppano naturalmente, cioè senza l’intervento di altri esseri umani che le

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attivano e le stimolano, mentre la capacità di miagolare di un gatto sarà presente contesto culturale) per la ragione che non sono stati mai rintracciati gruppi umani
nell’adulto anche se quell’adulto è stato allevato, poniamo, da una cagna ed è che non avessero una loro lingua, e se possiamo dire che la postura eretta è
cresciuto in mezzo ai cani. altrettanto naturale in quanto non ci sono giunte testimonianze di gruppi umani in
Il concetto antropologico di cultura è stato espresso nella sua forma canonica per cui non si cammini sui due piedi, sostenere che – ad esempio – la famiglia
le discipline antropologiche da E. B. Tylor nel suo Primitive Culture (1871): “La composta da padre, madre e figli che vivono sotto lo stesso tetto sia naturale è
CULTURA… è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, un’affermazione empiricamente dubbia, dato che conosciamo moltissimi casi di
l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine culture in cui il modello normativo e/o statisticamente più rilevante di famiglia
ACQUISITA dall’uomo come membro di una società”. non coincide con quello di madre, padre e figli riuniti in un’unica unità abitativa.
La cultura studiata dagli antropologi non si oppone quindi all’incultura L’etnocentrismo è quindi quella prospettiva che tende far coincidere con la natura
(ignoranza) ma alla natura dell’uomo intesa come insieme delle sue qualità INNATE. (quindi con l’inevitabile, o almeno con il giusto) le nostre pratiche culturali. Un
Per esemplificare, abbiamo ricordato il mito di Epimeteo, che si “dimenticò” di “vantaggio” immediato dell’etnocentrismo è che consente un notevole risparmio
preservare per gli esseri umani una qualche qualità innata (come invece aveva di energie cognitive: se il mio modo di cucinare è quello “giusto”, potrò
fatto per tutti gli altri animali creati da Giove) e quello di Prometeo, che proprio considerare qualunque altro modo semplicemente “sbagliato” ancora prima di
per compensare questa mancanza decise di rubare il fuoco agli dei (ingresso averne verificato l’efficacia o il gusto. In questo modo, posso risparmiarmi la
dell’uomo nella cultura). Come ulteriore esempio abbiamo ricordato il saggio di fatica di dover imparare modi nuovi di cucinare, o di procedere a comparazioni
Marcel Mauss, “Le tecniche del corpo” (ora contenuto nella raccolta Saggio sul complesse per decidere quale sia il modo migliore. Ma lo “svantaggio” evidente
dono e altri saggi di antropologia), in cui appare evidente che anche pratiche dell’etnocentrismo è che limita le capacità adattive dei gruppi culturali. Se i
considerate estremamente naturali come il camminare subiscono una modulazione conigli sono spariti ma io mi ostino a considerare la caccia al coniglio il “giusto”
da parte della cultura. modo per procurarmi il cibo e considero quindi la pesca un modo “barbaro”,
“immorale” o comunque “sbagliato”, è assai difficile che riesca a sopravvivere.
Prima di passare a come gli antropologi cercano di studiare le culture definite a Il problema dell’etnocentrismo è che i suoi “vantaggi” sono immediati
questo modo, aggiungiamo un altro paio di concetti che possono essere utili (rassicurazione, convinzione di essere dalla parte giusta e di appartenere al gruppo
nell’elaborazione di una concezione articolata di antropologia culturale. migliore, risparmio di impegno cognitivo), mentre i suoi “svantaggi” si rivelano
spesso sul medio o lungo periodo. Nelle pratiche culturali ordinarie possiamo dire
che l’etnocentrismo prevale come attitudine in moltissimi individui e moltissimi
2. ETNOCENTRISMO gruppi umani. L’antropologia culturale – spesso senza riuscirci – è una disciplina
che si pone esplicitamente e consapevolmente l’obiettivo di produrre una
È una conseguenza praticamente inevitabile dell’inculturazione entro una conoscenza delle culture umane cercando di superare l’etnocentrismo.
determinata società, e si può definire come la tendenza a misurare le culture altrui Con i dati che abbiamo fornito finora sembreremmo a questo proposito essere di
usando la propria come metro di paragone, per cui le altre culture sono giudicate fronte a un paradosso: abbiamo detto che le culture sono reti di significato, e che
in modo tanto più negativo quanto più si discostano dalla propria. Un altro modo ogni cultura costruisce le proprie configurazioni di significato. Abbiamo anche
per guardare all’etnocentrismo è quello di considerarlo una tipica strategia detto che non c’è altro modo di conoscere e interagire con il mondo, per gli esseri
culturale che si fa sentire come “ovvie”, “normali” e intrinsecamente “giuste” le umani, se non attraverso queste reti di significato. Le reti, in un certo senso,
scelte culturali che condividiamo. La cultura ha cioè tra i suoi strumenti anche costruiscono anche l’illusione di essere naturali. Com’è possibile che in questo
raffinati meccanismi di NATURALIZZAZIONE, che ci fanno credere “naturali” (cioè quadro di riferimento possa semplicemente esistere il progetto antropologico?
parte integrante dell’essere umano come la postura eretta o l’incapacità fisiologica Sembrerebbe che ogni individuo sia intrappolato dentro la rete della propria
di digerire la cellulosa) pratiche e giudizi che la semplice comparazione cultura, veda la realtà attraverso quella rete giudicando quel che vede il modo
etnografica ci rivela essere culturali. Se infatti possiamo dire che il linguaggio è giusto di vedere il mondo. Perché mai qualcuno dovrebbe essere interessato a
una qualità naturale degli esseri umani (che deve comunque essere attivata in un

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vedere il mondo dal punto di vista di qualcun altro? E soprattutto: com’è possibile dire che il nazismo e la democrazia sono due sistemi in qualche modo equivalenti
questo “salto” di prospettiva? in quanto “incommensurabili” (basati cioè su principi e assiomi incompatibili tra
Anche in questo caso, dobbiamo tornare a quanto dicevamo sulla delimitazione loro, rispetto ai quali sarebbe impossibile scegliere in modo “oggettivo”). Dire che
delle culture. Se è vero che ogni cultura costruisce la propria rete di significati, è il nazismo è ripugnante è una posizione morale che (dal mio punto di vista) non ha
anche vero che non esistono reti “isolate”: ci sono sempre punti di contatto, neppure bisogno di essere argomentata, per quanto la considero irrefutabile. Ma
“agganci” tra reti diverse, che consentono proprio quella comunicazione iniziale questo non risolve la questione antropologica del nazismo, e cioè: come vede(va)
che può fare da base per la comprensione più profonda. Pensate a come si il mondo un nazista? Entro quali reti di significato era immerso per far sì che
apprende una seconda lingua. Anche nel contesto più formalizzato possibile potesse pensare e agire a quel modo? Lungi dall’essere uno sterile esercizio
(lezioni in aula) se non ci fosse la possibilità per gli interlocutori di far riferimento filosofico, analisi di questo tipo possono avere anche ricadute pratiche, perché
a un comune sistema di significazione (cioè proprio alla qualità semiotica di possono permetterci di individuare specifici elementi culturali o materiali che
qualunque sistema culturale) non sarebbe possibile imparare un’altra lingua. In hanno contribuito in modo determinante all’emergere del nazismo, e possono
caso di apprendimento informale questo è ancora più evidente: comincerò magari quindi aiutarci a prevenirne l’insorgenza.
puntando il dito verso una serie di oggetti e mi farò dire il nome. Poi proverò a Specifico questo punto perché nella vulgata dei mass media sembra quasi che il
ripetere piccole formule di cortesia e saluto. Quindi proverò a individuare modi relativismo culturale sia la causa di tutti i mali che affliggono il genere umano. Si
per far accadere qualcosa (farmi dare un bicchier d’acqua, ad esempio) e così via, accusa l’Occidente di aver tradito i suoi valori cedendo a un relativismo che
entrando poco a poco nelle strutture della lingua che sto cercando di imparare. In appiattisce tutte le gerarchie morali, cadendo in un baratro di inazione che
modo sostanzialmente simile, lo studio antropologico delle culture cerca di entrare impedisce di fare delle scelte, tanto più necessarie quanto più il contesto che
negli intrecci dei significati “indigeni” partendo da quel che si ha a disposizione e viviamo sembra farsi via via più drammatico. Ora, a me pare che la situazione
da quel che si può condividere. Poco alla volta, pezzo per pezzo, si può provare a della politica internazionale segnali esattamente il problema opposto. Francamente
ricostruire il puzzle. Ecco quindi che, partiti da una prospettiva, possiamo sperare non vedo in giro grandi affratellamenti dell’umanità in nome del relativismo
di ricostruirne un’altra. culturale, e non mi pare che il mondo sia retto da politici e amministratori disposti
a cedere sui propri principi in nome di una tolleranza buonista nei confronti
dell’Altro. Per riuscire a imbottirsi di esplosivo e farsi saltare dentro una scuola
3. RELATIVISMO CULTURALE elementare; bombardare abitazioni dove si sa per certo che, assieme a uomini
armati, si trovano anche civili inermi; falciare con una raffica di mitra
Non ho molto da aggiungere a quanto indicato nel manuale su questo un’adolescente che non si è fermata a un posto di blocco; organizzare un comitato
ingrediente dell’approccio antropologico, se non che il relativismo culturale di controllo contro “gli immigrati”; compiere atti di teppismo e violenza durante
costituisce la conseguenza inevitabile del rifiuto dell’etnocentrismo. Non c’è molta una marcia pacifista; essere del tutto convinti che i nostri avversari politici stiano
alternativa rispetto a questo dualismo: o si è relativisti (e quindi si crede che gli agendo in completa malafede, e non guidati da un progetto politico semplicemente
esseri umani costruiscano gran parte dei loro sistemi semiotici in base ad diverso dal nostro; lamentarsi che questi o quelli “ci portano via le donne e il
associazioni arbitrarie tra significanti e significati (per cui il segno cane può voler lavoro”; sgozzare e decapitare con un coltello di fronte a una telecamera degli
dire “amico” o “carne prelibata” a seconda dei diversi contesti culturali) oppure si esseri umani completamente inermi; per poter fare tutto questo è necessaria una
è etnocentrici e si decide che il nostro significato (“amico”) è quello giusto e che tremenda convinzione nella giustezza delle proprie posizioni cioè, in altre parole,
chi non lo condivide è barbaro, stupido o immorale. una dose enorme di etnocentrismo.
Ovviamente il relativismo culturale non significa che tutti i sistemi culturali
abbiano pari valore o che un sistema vale un altro. Ma abbiamo il dovere di
distinguere le nostre scelte morali dal tentativo di conoscere e capire i sistemi
culturali diversi da quello che consideriamo nostro. L’esempio del nazismo sul
manuale è particolarmente calzante: non si tratta di giustificare il nazismo, né di

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4. RIFLESSIVITÀ fondamentale della professione antropologica fosse la raccolta diretta di dati


attraverso la RICERCA SUL CAMPO. Voglio capire come funziona quel sistema politico,
Anche questo è un elemento importante della costruzione del sapere o come è organizzata la divisione del lavoro in quella zona, o ancora quali sono le
antropologico. La riflessività significa sforzarsi di avere consapevolezza delle credenze religiose di quel gruppo? Non posso – dice la prospettiva empirista –
regole che guidano il nostro agire e le nostre convinzioni e cercare di ricostruire i affidarmi a resoconti di seconda mano (di ufficiali coloniali, missionari,
sistemi diversi dal nostro verificando in che misura le regole culturali dell’analista viaggiatori o commercianti) ma devo personalmente raccogliere i dati che
interferiscono con quelle della cultura analizzata. Nell’esempio serviranno alla mia analisi di quel determinato fatto culturale.
ancora/anello/anfora, la riflessività è la capacità di pensare e rielaborare le regole La ricerca sul campo è stata quindi considerata la forma canonica della raccolta
fonetiche della lingua italiana. In quell’esempio, la “scoperta” della regola dei dati antropologici. Come il biologo raccoglie i suoi dati nel laboratorio e lo
fonologica era il prodotto dell’interazione tra l’archeologo italiano (cioè storico compie le sue ricerca in biblioteca o negli archivi, così l’antropologo
l’“indigeno”) e quello straniero che conosce però la lingua italiana (che compie le sue ricerche stando sul campo, condividendo cioè un lungo periodo di
corrisponderebbe all’“antropologo”). È la comunicazione tra i due che permette a tempo (nella tradizione anglosassone almeno un anno) con la popolazione studiata.
entrambi di cogliere una nuova prospettiva: l’italiano si può rendere conto che La descrizione del suo lavoro, i dati raccolti e le analisi del fatto culturale indagato
quel che lui pensava come un unico suono è in effetti la realizzazione di tre suoni costituiscono l’ETNOGRAFIA di quel particolare caso o fatto antropologico. Sono
diversi, mentre lo straniero può rendersi conto che tre suoni diversi sono riuniti nel quindi state fatte etnografie sul sistema religioso dei Nuer, sugli “strani” scambi
sistema fonologico italiano in un unico fonema (non definiremo di che si tratta, ma commerciali dei Trobriandesi, sui giochi rituali dei Tikopiani, e su innumerevoli
possiamo pensarlo come a un suono “teorico” che può assumere diverse forme altri fatti culturali, praticamente in tutto il mondo (con una preferenza fino a tempi
“concrete”, dette allofoni). La riflessività quindi non è (un po’ come il significato) recenti per lo studio di comunità di piccole dimensioni, possibilmente “isolate”:
una qualità che sta dentro la testa delle persone, ma il prodotto di un’interazione quelle che un tempo si chiamavano società primitive).
sociale, che spesso gli antropologi definiscono dimensione DIALOGICA Se avete presente quel che abbiamo detto sulla natura semiotica della cultura
dell’etnografia. Ma con questo ci siamo definitivamente avvicinati al problema (una rete di significati) e sulla natura sociale e pubblica dei significati (che sono
della ricerca sul campo, cioè alla metodologia dell’etnografia. prodotti dall’interazione sociale, e non se ne stanno buoni buoni nella testa delle
persone) vi rendete già conto di quanto la ricerca sul campo descritta in questo
modo non corrisponda (o corrisponda molto poco) a quel che un antropologo fa
5. RICERCA SUL CAMPO effettivamente. I dati (o fatti) antropologici non possono essere “raccolti” proprio
perché sono di natura semiotica (sono segni, e quindi prodotti e riprodotti
Abbiamo visto cosa costituisca l’oggetto della ricerca antropologica, e cioè le costantemente dai membri della comunità e dall’antropologo che cerca di
reti di significati pubblici che chiamiamo culture. Non abbiamo però detto nulla su studiarla). Non posso arrivare sul campo e “raccogliere” il significato del termine
come, in pratica, gli antropologi si mettano a studiare queste reti. Il capitolo 3 del “cane”, perché non c’è nessun posto “empirico” dove questo significato se ne
manuale, dedicato alla ricerca etnografica, è esaustivo e sufficientemente starebbe rintanato per farsi scoprire. Come antropologo, posso guardare e
complesso. Qui ci limiteremo ad alcune riflessioni integrative volte a guidare gli ascoltare, posso fare domande e chiedere chiarimenti, confrontare quel che vedo
studenti nello svolgimento del loro “esercizio di etnografia”. con quel che so, cercare di mettere assieme i pezzi, formulare un’ipotesi
L’antropologia culturale (nell’impostazione del manuale che cerco di interpretativa su quel che vedo, chiedere in giro se la mia ipotesi è corretta,
trasmettermi) è una disciplina che nasce in un’epoca storica (la seconda metà modificare la mia ipotesi in base a quel che di nuovo mi è stato detto, confrontare
dell’Ottocento) e in una temperie culturale (il positivismo) segnate la mia ipotesi rispetto a quel fatto culturale nel quadro più vasto di altri fatti
dall’empirismo, cioè dalla convinzione che la realtà (sociale o naturale) andasse culturali di quella cultura (per esempio, confrontare il “cane” come “carne
indagata – per produrre conoscenza scientifica – attraverso l’esperienza diretta e la preziosa” con il rapporto che quella cultura ha con altri animali). Insomma, tutto
verifica sperimentale. Da questa tradizione epistemologica l’antropologia ha quello che posso fare, come antropologo, è cercare di INTERPRETARE quel che vedo,
ereditato la forte convinzione (tutt’ora caposaldo della disciplina) che un aspetto sento, chiedo, vivo, al fine di ricucire la rete di significato indigena che rende

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ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – PIERO VERENI PER L’ORIENTALE
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comprensibile ai nativi quel particolare fatto culturale. Vista in questa luce, la poterli raccogliere come se fossero funghi in un bosco. Ma non possono neppure
rilevanza della ricerca sul campo come esperienza diretta dell’antropologo non essere dati SOGGETTIVI, di cui io sono l’unico produttore e garante, perché così
viene meno, ma ha un senso diverso da quello previsto dal classico modello rischio quasi certamente di fornire interpretazioni che non corrispondono per nulla
empirista. Raccogliere i dati “direttamente” era importante perché si temeva che al “punto di vista dei nativi”. I dati antropologici sono intersoggettivi nel senso che
dei non professionisti (missionari, funzionari coloniali eccetera) potessero non esistevano prima della ricerca sul campo, ma devono avere un qualche senso
raccogliere dati “sbagliati”. Ma se ammettiamo che i dati antropologici (i condiviso per me e per le persone assieme alle quali li ho prodotti.
significati culturali) non stanno “lì”, come le mucche o le pietre, ma sono il Un altro punto fondamentale della dimensione scientifica e interpretativa della
prodotto dell’interazione interpretativa tra antropologo e persone che ricerca antropologica è la capacità di comunicare quei dati al di fuori del gruppo
appartengono alla cultura che sta studiando, ecco allora che il problema di interagendo con il quale sono stati prodotti. Poniamo che io voglia studiare la
accettare dati da fonti indirette è che non sappiamo come quei dati siano stati stregoneria in un contesto culturale, e che io sia in grado di entrare a tal punto
prodotti, non conosciamo cioè il processo comunicativo che ha prodotto quel dato dentro quella rete semiotica da farla mia, da diventare insomma un “indigeno”.
antropologico. L’antropologo che invece lavora direttamente sul campo dovrebbe Questo non è fare ricerca antropologica perché se divento un indigeno, e magari
essere in grado, attraverso la riflessività e la consapevolezza della dimensione divento uno stregone potentissimo, non sarò più interessato a comunicare il mio
semiotica della cultura, non solo di “arrivare” a quel particolare significato punto di vista al di fuori della mia comunità di riferimento. L’antropologo – dice
indigeno, ma anche di raccontare qual è stato il percorso che lo ha condotto a quel Clifford Geertz – non può fare uno studio sulla stregoneria come se fosse un
significato. ragioniere (disinteressandosi quindi completamente dei significati nativi, della rete
In buona sostanza, la ricerca sul campo è il tentativo di capire un punto di vista semiotica che produce il senso della stregoneria), ma non può neppure fare uno
diverso dal nostro, ma questa è un’operazione che facciamo costantemente. Ogni studio sulla stregoneria come se fosse uno stregone, perché se si rinchiude
volta che non siamo completamente isolati in noi stessi dobbiamo affrontare completamente dentro la sua rete di significati di stregone non consente a chi ne è
questo problema: il prof oggi mi ha spiegato il concetto di ricerca sul campo. Che esterno di comprenderla. L’impegno della ricerca antropologica è quindi quello di
voleva dire? La mia amica mi ha detto di aver letto quel libro, e ha detto che è un tenere collegate e reciprocamente comprensibili diverse reti di significato, quelle
libro “particolare”. Che significa? Mio padre ha detto che sarebbe ora mi dessi una indigena e quelle da cui proviene. Come un apripista o uno scout, l’antropologo
mossa con gli studi. Vuole che mi laurei presto? E perché mai? Vuole liberarsi di traccia percorsi mai battuti prima, provando a creare la strada che ci permette di
me quanto prima oppure ci tiene a che io divenga una persona autonoma? Cosa capire chi è diverso senza farlo diventare uguale a noi, ma senza ridurlo a una
voleva dire quel tale sull’autobus, quando ha detto che gli stranieri dovrebbero diversità assolutamente incomprensibile.
essere più rispettosi? E quell’anziano che si lamenta che le ragazze oggi sono L’esercizio di etnografia che vi ho chiesto di comporre si orienta quindi come un
“spudorate”, a cosa si riferiva? La vita degli esseri umani è un’incessante primo tentativo esplicito da parte vostra di fare i conti con questa dimensione
operazione di interpretazione, e in questo senso la ricerca antropologica somiglia interpretativa della descrizione e della comunicazione. Se è vero quel che abbiamo
alla vita. La differenza, la specificità che poniamo nella ricerca sul campo è la detto sui segni (convenzionali e pubblici nel loro significato, cioè prodotti
sistematicità con cui cerchiamo di mantenere consapevolezza dell’impegno dall’interazione comunicativa, cioè dalla reciproca interpretazione) non può
interpretativo. Lavorare con persone che parlano una lingua diversa, che praticano esistere una descrizione oggettiva di alcunché, ma invece una tensione
usi e costumi “evidentemente” diversi da quelli cui siamo abituati a vedere e interpretativa di quel che vedo, sento e dico. In altre parole, ogni descrizione non
praticare, ci costringe a mantenere all’erta i nostri meccanismi interpretativi. Come può che essere un’interpretazione, e quindi qualunque etnografia (anche una breve
antropologo, ho il dovere scientifico di rendermi conto del percorso specifico che relazione che cerchi di raccontare come una matricola entra all’università, come si
mi ha portato a produrre quell’interpretazione. Come antropologo, ho poi ulteriori interagisce con un datore di lavoro, come si divide la stanza con un compagno
obblighi: devo sempre tendere alla verifica della mia interpretazione comunicando invadente, eccetera) è il risultato di un complesso lavoro interpretativo. L’esercizio
le mie ipotesi (in forme comprensibili per le persone con le quali interagisco) e che vi chiedo è un primo passo per iniziare a riflettere sui meccanismi retorici che
valutando la reazione che suscitano. È questo il senso della natura INTERSOGGETTIVA vengono messi in atto in queste operazioni di descrizione.
dei dati antropologici. Non sono dati oggettivi nel senso che non posso sperare di

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A scanso di equivoci, dire che ogni descrizione dei fatti culturali non può che
essere un’interpretazione (dato che i fatti culturali sono di natura semiotica) non
significa assolutamente rinunciare alla scientificità della ricerca antropologia. Se
per scienza intendiamo lo sforzo costante di produrre conoscenza verificabile e
condivisibile, l’antropologia è e vuole essere una disciplina scientifica. Non può
però essere una disciplina che si basa sull’epistemologia dell’empirismo stretto,
quello per cui la realtà è tutta esterna e basta solo individuare il metodo preciso per
raccogliere i dati. Credo che questa prospettiva (che oggi è stata superata anche
per le scienze cosiddette “dure” come la fisica e la biologia), se viene imposta
come un feticcio, non produca conoscenza scientifica, in quanto non riesce a
produrre dati rilevanti per il progetto dell’antropologia culturale. Se pretendo di
studiare una cultura disinteressandomi dei significato indigeno dei segni che vedo,
quel che otterrò sarà una serie di segni di cui non so il significato, o cui attribuisco
un significato del tutto arbitrario.
L’antropologia è quindi una scienza interpretativa che sa che i suoi fatti sono
prodotti nell’interazione tra l’antropologo e i suoi informatori, e tra l’antropologo
e le sue competenze. Scrivere cercando di descrivere un fatto culturale è
un’operazione creativa senza essere arbitraria, intersoggettiva senza essere
bizzarra o frutto del capriccio. È difficile convivere con una strategia di ricerca che
non ci tranquillizza rispetto al metodo che dobbiamo usare. Non si sono regole
automatiche da applicare nella ricerca antropologica, non ci sono “protocolli”
rigorosi per la metodologia. Ci resta come punto di riferimento la volontà di
conoscere modi diversi di pensare e vivere: solo tenendo a mente l’obiettivo finale
della ricerca antropologica potremo raffinare nella pratica il modo in cui facciamo
ricerca.

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PASTORI E PINOCCHI, BALORDI E BALLERINI. IL MUTAMENTO DELL’IMMAGINE DEGLI ALBANESI NEI MEZZI DI COMUNICAZIONE ITALIANI (1997-2006)

PIERO VERENI di buona fama: noti alle cronache solo per i casi criminali, sembravano in generale
aver fatto tesoro del consiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese con
Eravamo ragazzini quando stavamo al paesino, c’era la guerra la più alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia) praticamente invisibili,
civile del 1997. L’unica cosa che ho imparato nella guerra civile è anche per via delle caratteristiche somatiche “mimetiche”.
stato ascoltare i Led Zeppelin e la musica rock. Perché noi Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo di verificare
andavamo al mare. Avevamo questa radio e la portavamo in riva rapidamente il modo in cui gli albanesi erano visti e giudicati dato che la crisi
al mare. Sentivamo radio Bari. Tra le nove e le dieci di sera finanziaria che stava devastando il Paese balcanico da gennaio iniziò presto ad
davano un programma di musica rock. “Ora ascoltiamo una attrarre l’attenzione dei mezzi di comunicazione italiani, soprattutto quando
canzone, una pietra miliare del rock, Stair Way To Heaven, loro produsse sollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese.
sono i Led Zeppelin”. Poi mettevano i Jethro Tull, i Deep Purple. Ne emerse un’immagine complessa ma sostanzialmente negativa degli
Guardavamo questo mare, le onde del mare, e intanto ascoltavamo albanesi, delle loro motivazioni e delle loro strategie culturali, la cui analisi
queste canzoni sparate a tutto volume. Io e il mio amico costituisce la parte centrale e più consistente di questo lavoro.
ascoltavamo e dicevamo: guarda il mondo come è bello di là… Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio in corso per
[Intervista a Elton Sinami, registrata a Firenze il 16 dicembre avanzare alcune riflessioni sul ruolo che un altro mezzo di comunicazione di massa
2006] ha avuto nella rappresentazione dell’identità albanese, e cioè la televisione
d’intrattenimento nei primi anni del nuovo millennio.
Introduzione Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo dei mass media
Tra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricerca sul campo nella formazione delle identità collettive, queste pagine sono piuttosto un primo
in Macedonia occidentale greca per il mio dottorato, mi sono recato diverse volte in resoconto di una ricerca tuttora in corso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico
Albania in visita a Gilles de Rapper, un collega francese che conduceva la sua dei mass media, strumenti di comunicazione sempre bidirezionali, che molto dicono
ricerca nell’area di confine tra Albania e Grecia. Durante uno di questi viaggi, a non solo sulla natura dell’oggetto rappresentato, ma anche sulle forme culturali del
Voskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, un professore di matematica soggetto che attua l’operazione di rappresentazione.
in pensione che parlava un elegante italiano imparato durante la prigionia in Italia
negli anni Quaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori mi raccontò Pastori e pinocchi
che aveva due figli, uno sposato che lavorava clandestinamente in Grecia (il Il 1997 è un anno di svolta per l’economia albanese. A partire dalla metà di
nipotino era figlio suo), e l’altro in Italia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette gennaio le numerose finanziarie sorte come funghi nel biennio precedente, attraendo
del mare stipate di uomini che tutti ricordiamo quell’estate. Il discorso che il padre i risparmi delle famiglie e le rimesse degli emigrati con prospettive di rendita
tenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: “Vai in Italia, cercati un elevatissime, stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il sistema piramidale della
lavoro lì e dimenticati di essere albanese. Sposati se puoi con una donna italiana e raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziare ad avere una rendita dal
cresci dei figli italiani. Adesso non è tempo di essere albanesi, non abbiamo una proprio investimento, doveva trascinare con sé una dozzina di nuovi utenti) era
dignità da difendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Tra qualche giunto a saturazione e il denaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era
anno, quando e se l’Albania ritroverà un suo onore, potrai dire ai tuoi figli che sono letteralmente volatilizzato. La crisi colpì la quasi totalità della popolazione residente
albanesi, ma non adesso, adesso dimenticati anche tu che provieni da questo Paese”. in Albania e l’inerzia del governo di Sali Berisha nell’affrontare per tempo la
Ricordo la forte impressione che mi suscitò questo imperioso comando di un padre a situazione provocò da febbraio un periodo di sommosse, sollevazioni popolari e
scordare la patria, la terra dei padri. All’epoca, gli albanesi non godevano in Europa
scontri anche violenti, periodo oggi è ricordato come la “guerra civile”, anche se non Paese […] trovammo un mondo arretrato e primitivo, una reggia da operetta e
è mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le parti contrapposte. attorno brava gente che custodiva greggi o buttava reti”, Corriere della Sera, 18/3.
Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu attivata in Albania Normale, viste le premesse, che quelli truffati siano descritti come “…gente che
tra il 15 aprile e il 12 agosto 1997 la “missione Alba”, condotta dalla Forza aveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezza attraverso lo scambio di
Multinazionale di Protezione per aiutare la popolazione albanese e sostenere carta; parossistica rappresentazione di un capitalismo da film di Frank Capra”,
attivamente il ritorno della stabilità politica. Per la prima volta, una missione Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Nessuno nota che quel concetto di capitalismo è
internazionale era a guida italiana, come italiana era la maggior parte delle truppe lo stesso che pochi anni prima aveva nutrito un meccanismo finanziario del tutto
coinvolte sul territorio. Si trattò quindi di un’importante occasione per fare vedere, simile, e cioè il sistema dei junk-bonds, i “titoli-spazzatura” utilizzati negli anni
sullo scacchiere della politica internazionale, quale potesse essere il ruolo militare Ottanta da squali della Borsa come Michael Millken. Si preferisce descriverli in
dell’Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. modo lapidario: “Gli albanesi sono dei pinocchi che credono nel Paese dei
L’intera vicenda ebbe un’intensa copertura mediatica globale, cui ovviamente Balocchi”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3, o li si deride con una curiosa inversione di
partecipò anche l’Italia. Nelle prossime pagine ricostruisco il modo in cui i “corsivi” oggetto che già sposta l’attenzione da “loro” a “noi”: “…quei gonzacchioni che si
di quattro quotidiani italiani hanno raccontato la crisi dell’economia albanese tra son fatti accalappiare da degli pseudo finanzieri d’assalto – non poi molto
febbraio e marzo 1997. Ho scelto il corsivo soprattutto per la sua implicita natura di diversamente da come noi stessi negli anni Cinquanta ci lasciammo infinocchiare
testo “autoriale”, volendo quindi porre un parallelo tra la scrittura giornalistica e la dai vari Virgillito and company”, il Giornale, Riva, 2/3.
scrittura della saggistica antropologica. I quotidiani selezionati sono stati: La In generale, in questa prima fase, che dura fin circa la metà di marzo, i corsivisti
Repubblica, il Corriere della Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l’intento di parlano ancora con toni compassionevoli, con indubbi risvolti da complesso di
fornire un quadro genericamente esaustivo del panorama disponibile all’epoca, pur superiorità: “…un popolo dall’animo vuoto più ancora delle tasche”, Corriere della
se costretto a tralasciare altri grandi quotidiani “d’opinione”. Sera, Cingolani, 2/3. Ma è meglio chiarire subito: “Gli albanesi non sono i nostri
‘fratelli separati’. Semmai sono i nostri cugini scalognati”, il Giornale, Riva, 2/3.
Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembrano prestare molta Cugini di cui è bene fidarsi poco, soprattutto se si pensa che sono “…una
attenzione a quel che accade in Albania, anche se i crolli finanziari si susseguono a popolazione che di violenza si è sempre nutrita”, il Giornale, Caputo, 4/3.
catena e non mancano le manifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo
nelle pagine interne, e quasi nulla che somigli a un corsivo. Posso citare due colonne Precoce è la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare, anche se non
non firmate su la Repubblica dell’11/2, anche perché, primo tra tutti, questo pezzo sono chiari i motivi o le forme di questo potenziale contagio, paventato con un non
mette a fuoco il tema che ossessionerà gli italiani di lì a qualche settimana: “E sequitur che risente evidentemente di un radicato stereotipo della “polveriera” che
quando, come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieri ritenute più così bene si accompagna al quadro “balcanico” (Todorova 1997): in Albania
solide da un punto di vista economico […] non resterà agli albanesi altro che tornare succedono sommosse, quindi c’è il rischio che si incendino i Paesi vicini.
a imbarcarsi sui traghetti, scafi e gommoni alla volta delle coste pugliesi”. “L’Albania non è un’eccezione, ma solo l’anello più debole di quella catena che
Quando l’interesse cresce, predomina un’immagine degli albanesi come “popolo collega la Serbia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania. Paesi diversi… legati da un
folclorico”: “…noi andammo all’attacco di quello che, allora, veniva definito ‘il comune destino: l’incapacità di gestire la transizione dal comunismo al mercato”,
nobile popolo schipetaro’. C’era un re che si chiamava Zogu e che aveva sposato Corriere della Sera, Cingolani, 2/3.
una contessina ungherese di nome Geraldine: un bel soggetto per un musical […] “Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita che nelle nuove
Vittorio Emanuele III diventò sovrano anche di quelle serene popolazioni dedite alla condizioni minaccia di infiammare il Kosovo, la Macedonia, e di lì tutti i Balcani”,
pastorizia e che hanno dato al mondo Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa da Corriere della Sera Venturini, 4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto
Bari”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3. Biagi ribadirà quest’icona tra l’agreste e il l’est ex-comunista: “Dunque: oggi in Albania, domani in Romania, in Bulgaria e,
comico pochi giorni dopo: “Quando stoltamente andammo ad occupare quel povero forse, in Russia?” Gazzettino, Ostellino, 4/3 e qualcuno prevede ripercussioni su
tutta l’Europa, senza distinzioni: “…una crisi che destabilizza ancor più l’area numerica della medesima), con il diritto di scuole in greco e tre quotidiani in lingua
balcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l’Europa” Gazzettino, Tito, e alfabeto greci. Proprio nell’agosto precedente la crisi albanese si erano aperte tre
14/3. nuove scuole elementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina, frutto
“Gli Stati Uniti […] sanno che dopo l’Albania può esplodere il Kosovo […] Poi dell’accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene (Human Rights
c’è la Macedonia, piena di soldati americani mandati a circoscrivere l’incendio dei Watch 1997). Restano questioni aperte per la minoranza greca in Albania, ma lo
Balcani. La Grecia, intanto, si allarma per le sorti della propria minoranza nel sud stesso organismo che all’epoca monitorava in Albania il rispetto degli accordi di
dell’Albania”, Corriere della Sera, Cingolani, 6/3. Helsinki ammetteva che “la minoranza greca è una parte integrante della società
“Un’altra Somalia, un altro Libano? No, perché l’Albania è qui, è in Europa e per albanese”. Questo tipo di giornalismo – che trasforma senza argomenti la Grecia in
massima disdetta è anche nei Balcani, nella nostra secolare e già tanto insanguinata uno Stato pericolosamente irredentista e l’Albania in un oppressore dei diritti delle
‘polveriera’”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3. minoranze – risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a
Un altro esperto dell’area sostiene una variante di questa teoria, per cui non si “balcanizzare i Balcani”, ad attribuire cioè pregiudizialmente a tutta l’area
tratterebbe, per l’Albania, del caso particolare di una regola generale, ma del genericamente “a sud est” istinti primordiali, siano essi di difesa del proprio gruppo
contagio subito dal Paese delle Aquile, della balcanizzazione di uno Stato fino ad o di oppressione di quelli altrui.
allora immune: “Il nuovo regime di Tirana ha infatti realizzato dopo il ´91 una
metamorfosi del tutto balcanica del paese […] Si è quindi sostenuta una Ma questa visione balcanizzante dell’Albania si intreccia con un’altra dimensione
‘balcanizzazione’ del paese invece di contrastarla”, la Repubblica, Cavallari, 6/3. dell’analisi, che indichiamo come “teoria del congelamento”. Secondo questa chiave
Una versione peculiare di questa teoria del “contagio balcanico” è quella proposta – applicata con sistematicità durante il crollo della Jugoslavia – quel che è accaduto
da Robi Ronza, che prende le mosse dai rischi di un intervento concertato europeo: in Europa orientale negli anni Novanta sarebbe la ripresa di dinamiche storiche che i
“Coinvolgere l’Europa vuol dire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica regimi socialisti e comunisti non avrebbe fatto altro che congelare. Così, si è
come cosa sua proprio quella regione dell’Albania meridionale attorno a Valona che interpretato il presente usando manuali di storia ed etnologia scritti prima della
è attualmente in piena rivolta contro il governo di Tirana; una regione dove tra guerra, presentando di solito la questione albanese come un token del type balcanico
l’altro è insediata una minoranza di lingua greca, la cui cultura è priva di qualunque (“Se si sfoglia un celebre libro sui Balcani, il secondo volume delle memorie di
tutela e riconoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare in quale Raymond Poincaré, intitolato appunto ‘Le Balkans en feu’, si vedrà quanto fosse
misura la rivolta in corso, così violenta e nel medesimo tempo così delimitata dal intrattabile già allora, nel 1912, la ‘questione albanese’”, la Repubblica, Viola,
punto di vista territoriale, non trovi il suo punto di forza nella minoranza greca, e 13/3); e si sono spiegati gli eventi caotici e cruenti come un ritorno alle origini,
nell’appoggio che le può provenire dalla madrepatria, la Grecia”, il Giornale, intendendo con ciò le condizioni socio-economiche precedenti all’insediamento dei
Ronza, 9/3. A parte il fatto che il cosiddetto “Epiro settentrionale” – e cioè i distretti regimi comunisti. In tutti i giornali considerati per questa indagine abbondano gli
di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Përmet, dove vive la minoranza articoli “storici” che mostrano le “analogie” tra l’Albania che subì l’invasione
grecofona d’Albania – è ben distante da Valona, città del tutto albanese per cultura e fascista nel 1939 e quella dell’operazione Alba. “In queste ultime due settimane è
lingua, la Grecia, in realtà, non “rivendica da sempre come sua” alcuna terra tornata in scena, infatti, dopo quasi mezzo secolo di stalinismo pastorale e qualche
d’Albania. Se è vero che diversi politici greci (di destra) hanno sfruttato la questione anno di parvenze democratiche, l’Albania dei libri di storia. Un paese arcaico, privo
dei territori dell’Albania meridionale abitati anche da popolazione di lingua greca, è di un vero cemento statuale, ancora fondato sulle divisioni regionali, il familismo, il
anche vero che nessun governo greco dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha clan e le lealtà tribali”, la Repubblica, Viola, 13/3. “Il recupero del passato, del
mai avanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso alcun organismo internazionale. resto, è una chiave fondamentale per interpretare il caso albanese. Il ‘fis’ (clan), il
In questi territori (più a sud e più a est di Valona) vive comunque una minoranza ‘kanun’ (la legge consuetudinaria), la ‘besa’ (parola d’onore), la divisione tra il Nord
di lingua greca e religione ortodossa, riconosciuta ufficialmente dallo Stato albanese ‘ghego’ e il Sud ‘tosco’, le tre religioni (musulmana in maggioranza, ortodossa nel
(c’è semmai contrasto tra governo e rappresentanti della minoranza sulla consistenza meridione, cattolica in alcune zone settentrionali): tutto ciò che era stato soffocato
sotto la cappa della dittatura ideologica, torna prepotentemente alla luce. La Storia apprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali”, Corriere della Sera,
rinasce, come in gran parte dei Balcani”, Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. Questo Cingolani, 14/3.
schema interpretativo della realtà albanese (presentata naturalmente come una “… Il climax assume toni da film horror: “In Albania tutto ciò che fa di una massa di
ennesima versione della ‘poudrière balkanique’…”, la Repubblica, Viola, 13/3) ha gente un “paese” ossia l’ordine, la legalità, la convivenza, l’amor di patria, la fiducia
la curiosa caratteristica di poter essere contraddetto senza andare in frantumi. Lo nell’avvenire, la tradizione, l’economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic]
stesso Cingolani, che ha appena scritto che la divisione in clan del Paese sarebbe nell’aria per effetto di una magia potente da Signore del Male”, il Gazzettino,
stata soffocata, congelata dal regime, aggiunge subito: “Le divisioni sono rimaste Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire dati essenziali alla comprensione o
pressoché intatte durante la dittatura di Enver Hoxha che impose un’egemonia dei proporre una griglia interpretativa per dati già noti, sembra rinunciare al suo ruolo,
clan meridionali (era nato ad Argirocastro). Ramiz Alia, suo successore, fu cedendo alle lusinghe della spiegazione “magica”: “L’Albania, a me sembra, è
appoggiato dal Nord, che vedeva giunto il momento di recuperare il potere perduto”, diventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamo attenti, noi
Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. italiani… Potremmo essere noi stessi, in un futuro non lontano, contagiati da una
Una delle forme più compiute in cui compare questa teoria è in un articolo di qualche forma di sindrome albanese”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono
Sandro Viola: “L’Albania si rivela in fin dei conti identica – almeno per un aspetto – dunque in preda al Male, o a una malattia contagiosa. Questa analisi “irrazionalista”
ad ogni altro paese su cui sia scesa la sventura del comunismo. L’aspetto cioè del della crisi albanese non è rara e qualche giorno dopo affiora prepotente in un nuovo
congelamento, dell’eclisse solo apparente e temporanea, durante il periodo commento: “…ma il grande nemico, lo spirito del male, è spesso invincibile perché
comunista, dei suoi mali più antichi. Come in Polonia e in Ungheria sono riemersi poggia sull’inganno, sulla frode, sul tradimento vergognoso dell’uomo. E in Albania
negli anni scorsi gli umori antisemiti, come in Jugoslavia sono esplose le avversioni sembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farci dubitare perfino della
etnico-religiose che avevano sempre diviso i popoli della Federazione, così in giustizia e della verità…”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di
Albania sono tornati a galla il disordine, l’irrequietezza dei clan, la pratica del venir infettati dagli albanesi si era appena parlato: “Questa, come abbiamo già detto,
brigantaggio che erano sempre stati i fattori della sua arretratezza. […] Quattro è piuttosto un’invasione di massa, […] una marea capace di esportare sul nostro
decenni e più di comunismo hanno lasciato sotto il ghiacciaio del sistema totalitario, territorio il virus del disordine e della rivolta”, la Repubblica, Valentini, 19/3, e ne
sotto la repressione dello stato di polizia, le cose come stavano. Nulla ha potuto accennerà ancora il decano dei giornalisti italiani: “…l’Albania con i suoi virus di
evolversi, maturare”, la Repubblica, Viola, 16/3. decomposizione e di guerra di bande”, Corriere della Sera, Montanelli, 30/3.
Il paradosso comunicativo è evidente. Nei corsivi sembra saltare qualunque
Banditi e invasori tentativo di spiegare razionalmente una sommossa popolare in gran parte
comprensibile data l’entità della crisi finanziaria, e si cede chiaramente proprio a
Quando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gli scontri diventano
quel richiamo “illogico” e “irrazionale” che affliggerebbe gli albanesi: di fronte al
più gravi e anche il governo di Tirana ammette che non si tratta più di “pochi
Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico, per allontanarlo (dalle
facinorosi”, allora sui giornali italiani si alza il tiro. “L’Albania si è dissolta”,
nostre coste, ovviamente).
Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. “In un paio di settimane la protesta dei truffati
ha cambiato natura, prima è diventata rivolta politica, poi insurrezione, infine
I corsivisti fanno presente fin dall’inizio quale sia il vero rischio di sottovalutare la
catastrofe umanitaria, politica, diplomatica”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A
crisi albanese: “È nostro interesse riportare a Tirana un dialogo corretto tra governo
questo punto il ministro degli Interni “potenziava le frontiere e chiudeva la porta a
e opposizione […] Se questo non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni di
nuove possibili ondate di profughi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Del resto,
profughi. Più di quelle che quotidianamente già abbiamo” Gazzettino, Cerruti, 2/3.
“L’Albania non c’è più”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3. “A Tirana è
Non è chiaro cosa intenda Cerruti per “invasioni quotidiane”, ma l’equivalenza tra
semplicemente crollato lo Stato”, il Giornale, Ricossa, 19/3. E che sia crollato solo
sottovalutazione della crisi e invasione di albanesi è ribadita anche sul Corriere
lo Stato è troppo poco per alcuni commentatori: “Ma l’insurrezione è sfuggita agli
della Sera: “L’Italia può e deve stanziare aiuti immediati […] ben sapendo che
costerebbe assai più caro un nuovo assalto alle nostre coste come quello dell’estate che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesi in predicazioni e sermoni a favore
’91”, Corriere della Sera, Venturini, 4/3. della tolleranza […] avrebbero aiutato un popolo di cinquantasette milioni di
Un’altra voce autorevole: “Adesso c’è il rischio di una invasione alla rovescia, il benestanti a mantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi per
terrore che la Guardia di finanza debba lanciare il grido delle vedette della l’invasione dei Visigoti”, la Repubblica, Polito, 27/3.
Wehrmacht sul Vallo Atlantico: ‘Sie kommen’, arrivano”, Corriere della Sera,
Biagi, 5/3. Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin dei conti ancora
La minaccia dell’invasione conferma la necessità di un intervento italiano, visto esotico, limitato all’oltre sponda, a questione interna italiana) si ridisegna anche
che se l’Italia non entrasse in gioco: “Quelle che vediamo arrivare sulle nostre coste l’immagine degli albanesi. Prima di tutto quelli lì, in Albania, che tendono a
diventerebbero allora le timide avanguardie di un popolo in fuga che non potremmo incupirsi nelle descrizioni dei corsivisti: “La ‘terra delle aquile’ è in mano agli
né avremmo il diritto morale di respingere”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3. sciacalli. Bande di uomini mascherati scorrazzano per le città e i villaggi”, Corriere
L’escalation prospettata è terribile: “A questo punto tutto è possibile, anche della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un’analisi politica e sociologica per
l’impensabile: cioè la sparizione di uno Stato, la disgregazione di ogni forma di spiegare il mutamento di prospettiva da cui osservare gli insorti: “…quella che
convivenza. Dal caos può uscire perfino un’orgia di rissa etnica senza confini ma sembrava una rivolta popolare contro una truffa finanziaria si è rapidamente
non senza precedenti”, il Giornale, Pasolini Zanelli, 14/3. Cosa si intenda per trasformata in una guerra di bande, gestite da loschi burattinai: ex dirigenti
“precedenti” è presto detto: “L’Albania potrebbe trasformare l’Europa nel ventre comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalità organizzata internazionale e
molle occidentale, come la trasformò la Bosnia”, Corriere della Sera, Caretto, 17/3. soprattutto italiana, cani sciolti della polizia segreta allenati a pescare nel torbido e a
“L’Albania, come la Bosnia, non è un fatto nostro: ma un problema dell’Europa. sobillare le masse”, la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invece
Può essere l’inizio di una catena di guai per tutti”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3. decisamente sulla fisiognomica: “Gruppi di rivoltosi presidiano i tornanti che si
Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che si potrebbero avere in inerpicano sulle montagne brulle. Volti di pastori, contadini, sottoproletari urbani si
Italia: “E speriamo, questo sì, che la loro presenza [in Italia] non inneschi da noi mescolano alle facce sanguigne di ex ufficiali alla ricerca di un riscatto, o alle
quei furori elettorali che in Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Francia sembianze oscure degli agenti disseminati dalla polizia segreta…”, Corriere della
soffiano ancora nelle vele del Fronte nazionale”, Corriere della Sera, Venturini, Sera, Cingolani, 14/3.
19/3. La natura attualmente feroce degli albanesi può essere messa in risalto anche dal
Le tinte fosche con cui si raccontano l’Albania e i suoi abitanti si incupiscono contrasto con la bontà italiana del 1991: “I pugliesi furono meravigliosi nel
ancor più dopo la metà di marzo, quando l’Italia si “rende conto” di dover affrontare protendersi verso questa gente che arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro
quel che più spesso viene definito un “esodo”. case, persino i bagni, e non è mica normale. E ci siamo ritrovati, dopo pochi anni,
“…l’esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto le proporzioni di una migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semafori schiavizzati dai loro zii.
fuga di massa…”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3. “…esodo albanese, che ha Che bella bontà”, il Giornale, Farina, 27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente
un sapore biblico”, il Giornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di “…Puglia invasa feroce degli albanesi e loro passato pacifico: “Un tempo avevano la religione, la
dagli albanesi […] La gente [italiana] si è comportata bene, ha mostrato di capire e tradizione, il buon senso dei contadini. Oggi non hanno più nemmeno queste cose. E
compatire malgrado l’impatto tremendo dell’invasione”, il Gazzettino, Pezzato, meno che mai la fierezza del proprio passato…”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3.
19/3. Forse, a distanza di anni, è utile ricordare che fino a quella data la cosiddetta Se questa è l’immagine sempre più fosca e insieme più vaga, meno dettagliata,
invasione riguardava meno di diecimila persone. degli albanesi d’Albania, quelli che cercano di arrivare qui sono studiati con più
Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visione apocalittica: “Stiamo precisione.
difendendo la nostra frontiera, le nostre città, le nostre famiglie e i nostri figli”, il Una delle descrizioni assieme più analitiche e più “fantasmatiche” di coloro che
Giornale, Giannattasio, 28/3. Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsivi stanno arrivando (a quanto pare albanesi e non, ma Arbasino è di proposito
improntati alla moderazione dei toni e degli animi: “È solo che ci saremmo aspettati abbastanza ambiguo da far sì che le accuse agli uni possano cadere anche sugli altri)
è quella proposta da un nome di grido: “Ospiti balcanici che si presentano in cattivi è in questi corsivi sempre netta e senza appello. È arduo distinguere i due
compagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio che (secondo gruppi in concreto, ma nessuno mette in dubbio che di due gruppi si stia parlando.
gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta del comunismo… Ospiti che “Quanti saranno i ‘poco di buono’ arrivati con gli 11 mila albanesi? Sta di fatto che
sistemano valigie di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine la fuga caotica di donne, uomini, e bambini verso la Puglia, e di qui verso il resto
minorenni sui viali ‘del vizio’, si sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati della Penisola, si è rivelata quello che il filtro della solidarietà non ci aveva
ogni giorno ai semafori… Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti consentito di vedere con chiarezza: un esodo in parte cinicamente organizzato dalle
per il controllo del territorio, secondo i costumi africani descritti dagli antropologi e mafie a un milione pro capite, viaggio gratis per i bambini perché inteneriscono gli
rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di colpa…”, la Repubblica, Arbasino, italiani e ammorbidiscono i controlli”, il Gazzettino, Pezzato, 20/3. È evidente la
15/3. Notevole, in questo fosco quadro, il ruolo attribuito all’antropologo… rappresentazione degli albanesi come popolo miticamente dicotomico rispetto alla
Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invece l’operazione morale, senza le ovvie sfumature, ambiguità e sovrapposizioni che ci caratterizzano:
inversa, di spiegare perché gli albanesi sarebbero così diversi dagli altri immigrati (e ognuno di loro può (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi.
così diversamente trattati): “…gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni (bimbi buoni,
panni dei nuovi schiavi dell’Occidente. Quindi, poco utili. Non sono cristianamente adulti cattivi) passa allora anche tra i sessi: “Capisco le donne e i bambini. Capisco i
remissivi come i filippini, non amano i bambini come le colf somale, non fanno i ragazzini di quindici anni, meglio qui che là a imbracciare Kalashnikov. Capisco i
muratori per quattro lire come i polacchi, non vendono cianfrusaglie come i vecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non capisco quell’orda di uomini d’età compresa
senegalesi. Più che essere comandati, a loro piace comandare”, la Repubblica, fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massa e intervistati confessano di non avere uno
Polito, 27/3. straccio di documento né di voler fornire le generalità e di non essere arrivati per
Senza essere categorici come Biagi (“Da loro riceviamo, per l’interscambio, accompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono qui per scelta
marijuana, e anche braccianti senza diritti, ragazze da avviare al marciapiede, e individuale, e l’ottuagenaria l’hanno lasciata in Albània [sic] a difendere la casa […]
organizzatissimi criminali. Punto”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i Sono giovani, forti. E scappano. Disertori non solo nell’esercito e nella polizia:
commentatori puntano comunque su una questione sentita come centrale, non disertori nell’animo e nella vita”, il Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Così riporta
appena arrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio? Coloro che Livio Caputo una discussione cui ha assistito tra “un sindacalista della Cgil e un suo
hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebbero essere scacciati? Il quesito amico della stessa parrocchia”: “Essi hanno sostenuto la tesi, tutt’altro che
rivela il diritto degli italiani a sospettare, sempre, in modo sistematico. “Per peregrina, che il governo doveva ammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i
intervenire efficacemente dovremmo avere notizie sicure e sapere se chi chiede aiuto bambini e gli anziani, spesso usati dai mafiosi come ‘schermo’ e rimandare invece
e asilo è veramente uno che chiede la carità (oggi si chiama solidarietà) oppure uno immantinente in Albania tutti gli uomini validi che, anche a giudicare dai loro ceffi,
che veste di abiti del derelitto e sfrutta, ingannandolo, chi è pronto a venirgli in non avevano davvero molto bisogno di protezione”, il Giornale, Caputo, 22/3.
soccorso”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte a una “… Sono pochi quelli che tentano una difesa “globale” degli albanesi in arrivo: “Via,
invasione di disperati, ma anche di delinquenti”, il Giornale, Giannattasio, 28/3. presi nell’insieme sono dei poveracci e fanno bene i nostri governanti a non avere il
Se per alcuni “…tra mamme e bambini si nascondono gruppi di evasi per i quali è cuore di buttarli a mare”, la Repubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverrà
previsto il rimpatrio automatico”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3, dando così comune tra qualche giorno, dopo una tragedia che segnerà uno spartiacque, il tema
l’impressione che tra i molti poveracci si nasconda qualche criminale, per altri il degli albanesi come nostri antenati, come doppio grottesco degli italiani: “Li guardi
rapporto è inverso: “…tra i boat-people dell’Adriatico ci sono più mafiosi che un po’ in faccia, questi immigrati, onorevole Brighella (onorevole Arlecchino,
fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino ad arrivare in porto quando le loro onorevole Pantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso, suo
carrette non ce la facevano ‘è stata una pazzia’”, il Giornale, Caputo, 22/3. nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quello che stava sulla groppa
L’aspetto che colpisce di più in questo tipo di argomentazioni è ciò che potremmo di un somaro? […] Fanno paura, evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri
chiamare “la natura oggettiva e dicotomica del male”. La distinzione tra buoni e nonni”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3.
Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo si comincia a parlare di canali di irrigazione erano mossi da una decennale carica di rancore per un regime
“…battelli stracarichi di falsi profughi (ossia di disperati che in realtà sono soltanto ormai morto e non degnamente sostituito […] La stragrande maggioranza degli
degli emigranti abusivi reclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)”, il albanesi vuole solo ritornare a una vita decente, ha come si è visto dalle trasmissioni
Giornale, Guarini, 25/3. A questo punto, il dilemma morale di distinguere tra televisive, un rispettabile nucleo di società civile, una tradizione culturale”, la
albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso soluzioni radicali: “I nostri Repubblica, Bocca, 12/4.
sentimenti sono confusi: adotteremmo i bambini albanesi, ma i loro padri li Ma col passare dei giorni l’Albania tende a sfumarsi in dissolvenza, per lasciare
sbatteremmo volentieri in galera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano”, spazio sempre di più all’Italia e alle conseguenze in Italia di un possibile intervento
il Giornale, Farina, 27/3. armato in Albania. Questo sia sul versante interno: “Al quinto giorno [dopo
Il giorno dopo, infatti, Venerdì Santo, la nave albanese Kater I Rades veniva l’affondamento] tutto o quasi è finito in politica interna…”, la Repubblica, Fuccillo,
speronata dalla nave Sibilia della marina italiana, che cercava di bloccarne l’ingresso 3/4; sia per l’immagine e il prestigio italiani: “Il successo dell’Operazione Alba vale
in acque italiane. A seguito dell’affondamento, morirono in mare almeno 58 dieci ‘manovrine’ per Maastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri partner nel già
albanesi. Lo choc è immediato. Sembra che si sia realizzato qualcosa di terribile, ma radicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini dell’Europa per il futuro
che tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfratto impresentabile della prevedibile”, la Repubblica, Caracciolo, 8/4. Per essere chiari: “…l’Italia si gioca
coscienza collettiva, desideravano che accadesse. più di quanto creda. Anzi, si gioca tutto. Perché l’incrocio con la tragedia albanese
strappa l’Italietta dell’Ulivo all’eterno teatrino e la pone davanti a un’alternativa
L’affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un punto di non ritorno grave. Se la missione Alba avrà successo, il nostro Paese e il governo ne riceveranno
nell’analisi dei corsivisti italiani. Assieme allo sgomento, si affacciano i primi seri enorme prestigio […] E a quel punto, parametri o non parametri, toccherà a
dubbi su come è stata raccontata, fino a quel punto, la “crisi albanese”: “In effetti, Germania e Francia preoccuparsi di imbarcare l’Italia nel pullman di Maastricht,
nessuno di noi potrebbe spiegare con un minimo di precisione che cosa stia anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba si tradurrà in un
accadendo in Albania. Tutto quel che ci è chiaro, dopo cinquanta giorni di disastro […] allora non ci saranno parametri o finanziarie o manovrine o larghe
convulsioni, è che l’Albania è un paese sconosciuto. Indecifrabile”, la Repubblica, intese che possano tenere…”, la Repubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l’Italia
Viola, 30/3. di quei giorni sembrò decidere di andare in Albania come via più diretta per “entrare
Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue reali dimensioni con in Europa”. L’impegno militare degli italiani veniva assunto, prima di tutto, di fronte
più fermezza: “Ma noi entriamo in crisi psicologica perché dodicimila albanesi sono alla comunità internazionale e ai partner dell’Unione Europea, per vedere che l’Italia
sbarcati (e già quasi duemila sono stati riportati al paese di origine con metodi non era più l’Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della seconda guerra
abbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno uno psicodramma con sindaci mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delle identità: non è l’Albania
muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati, rifiutano accoglienza…”, la che deve dimostrare di essere uno Stato e una Nazione. Questo carico simbolico ora
Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora: “Mi ribello all’idea che si nasconda razzismo, grava sull’Italia.
intolleranza, meschinità, dietro il paravento della drammatizzazione del problema Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin da quando un
dei quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasi sessanta milioni di abitanti in editoriale del Times critica la proposta di un intervento diretto italiano sul suolo
cui già si sono fra un milione e due milioni di extracomunitari. In realtà si tratta di albanese: “…l’editoriale del Times contro l’imminente intervento italiano in Albania
un problema relativamente modesto trasformato in un caso nazionale”, il Gazzettino, […] rispecchiava benissimo il senso di superiorità e gli stereotipi che da sempre
Acquaviva, 3/4. nutrono l’atteggiamento dei sudditi di sua Maestà verso gli italiani…”, Corriere
Nell’insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio e del tono: della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stesso Panebianco sottolinea poi a sua volta le
l’Albania è un Paese in crisi, ma non più quella bolgia infernale, quel non-luogo conseguenze politiche che la futura “operazione Alba” potrà avere non tanto
maledetto dagli dei raccontato solo una settimana prima: “In Albania non esiste una sull’Albania (tema questo del tutto secondario) quanto sull’immagine dell’Italia
guerra civile, quelli che hanno raso al suolo università, uffici, caserme, persino i all’estero: “abbiamo forse ora la possibilità, se sapremo comportarci correttamente
sia sotto il profilo tecnico che sotto quello politico, di assestare un colpo ai tanti di essere citata perché ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul “carnevale”
pregiudizi negativi – spesso non privi di fondamento – sugli italiani, da sempre albanese: “La prima ragione che ci viene in mente è che gli albanesi hanno la colpa
sedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti europee (non solo del di essere bianchi, somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi […] Poco,
Regno Unito)”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. L’Albania diviene dunque il diversi, troppo simili”, la Repubblica, Polito, 27/3.
luogo del riscatto dell’identità italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei la Ci si rende subito conto, dopo l’affondamento della nave, del ruolo attivo che
qualità della nazione. La questione italo-albanese va misurata non tanto per le hanno gli albanesi per la costruzione di noi stessi come italiani: “La vicenda degli
possibilità che oggettivamente l’Italia ha di migliorare la situazione politica ed albanesi ci ha messo a nudo […] davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio
economica del Paese oltre Adriatico, ma solo ed esclusivamente per quanto che riflette un’immagine reale e non deformata. Nessuna illusione ottica, siamo
l’Albania possa, nel bene e nel male, influire sull’immagine dell’Italia all’estero. proprio così”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non ama questa immagine, preferisce
invece attribuire agli albanesi un ruolo magico, di tricksters in grado veramente di
Il carnevale delle identità ribaltare l’Italia: “Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti,
l’inversione dei ruoli è proprio completata: la destra si fa sinistra e viceversa”,
Il nuovo tono nel parlare dell’Albania e l’attenzione sempre maggiore prestata al
Corriere della Sera, Merlo, 1/4. Lo stesso identico concetto, lo stesso giorno, ma su
ruolo che questo Paese può giocare per l’Italia possono essere visti come gli ultimi
un altro giornale: “…la sinistra ha lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio,
sintomi di un’inversione, di un “carnevale” provocato dagli albanesi con la loro
quando il Cavaliere ha ripetuto che un Paese di 50 milioni di abitanti non può
presenza e che aveva iniziato a manifestarsi già prima dell’affondamento: “…
lasciarsi dominare dal panico politico per l’arrivo di 10 mila profughi. C’è stata cioè
durante la trasmissione di attualità Italia Radio (emittente notoriamente vicina al
una singolare inversione dei linguaggi, se non delle parti”, la Repubblica, Mauro,
Pds), è intervenuta una signora romana: ‘Ho famiglia, siamo otto persone, tutte di
1/4.
sinistra. Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull’Albania. Ebbene, alla
Ma tutti – che si parli di svelamento o di ribaltamento dell’identità – sono
fine abbiamo convenuto tutti che aveva ragione Gasparri, il deputato di An cui
concordi sul senso totale di straniamento: “Strani [gli italiani], perché non si era mai
durante la campagna elettorale mi ero perfino rifiutata di stringere la mano. E su
visto un governo di centrosinistra, e per di più sorretto dagli ultimi comunisti,
certi punti aveva ragione perfino Tablandini della Lega. I miei, un disastro”, il
beccarsi del fascista persino dai giovani norvegesi. Strani perché con la stessa bocca
Giornale, Caputo, 22/3. Caputo non è l’unico ad ascoltare Italia Radio, quei giorni:
predichiamo la solidarietà e poi gridiamo ‘buttiamoli a mare’. Strani perché a
“Provate a sentire Italia Radio, l’emittente del Pds. Ogni mattina, al suo filo diretto,
guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il leader dei progressisti sia un
si scarica la rabbia di abituali buonisti che minacciano sfracelli se non si ferma
reazionario e quello dei moderati un rivoluzionario”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4.
l’invasione”, la Repubblica, 27/3.
Ancora una volta torna la metafora del contagio: “Sembra quasi che per contagio la
Un sintomo chiaro è la confusione tra destra e sinistra: “Qui [anche a sinistra] si
disgregazione albanese abbia colpito la nostra classe politica…”, il Gazzettino,
registra una ostilità dura e compatta contro gli albanesi. Una pioggia di telefonate
Sensini, 2/4. Fatto sta che “…dove finisca la maggioranza e finisca l’opposizione è
esprime sentimenti che sembrano costole della Lega”, Corriere della Sera, Zincone,
difficile dire”, la Repubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di “…un Paese
28/3. “‘Buttiamoli a mare, buttiamoli a mare’. Nei giorni scorsi l’invocazione
governato dall’incertezza, e con una maggioranza inesistente…”, il Giornale, Cervi,
sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La si sentiva nei bar del Nord, ma anche
4/4, non è più all’Albania che si fa riferimento, come due mesi prima (“Tutti sono
nei caffè del Centro o del Sud. I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere per
contro tutti. Non c’è più maggioranza, non c’è mai stata opposizione”, la
difendere la purezza delle loro città. Ma anche quelli di sinistra chiedono al governo
Repubblica, 11/2) ma all’Italia.
di risparmiarli, per carità, dall’invasione, supplicano di lasciare i barbari alle porte”,
La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembra estendersi dal
Corriere della Sera, Cingolani, 29/3. “Perché la parte più progressista della nostra
mondo politico per coinvolgere tutti: “…il nostro strano Paese assiste a troppi
opinione pubblica sta riservando agli albanesi un trattamento che mai si sarebbe
rigurgiti di intolleranza. Convinto di essere cattolico e solidaristico come pochi,
permesso nei confronti di somali e marocchini, senegalesi e filippini?”, la
all’improvviso si sveglia con la voglia di gettare in mare un popolo in fuga. E, cosa
Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibili risposte a questa domanda una val la pena
incredibile, per poco non ci riesce”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. “Italia: fino a ieri il È impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo “senza nazione e
paese dell’amore e del sole, tutto spaghetti, chitarre e mandolini. Oggi, razzista, senza Stato”, quando per un mese erano stati gli albanesi ad essere descritti così.
cinico e egoista”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. “…il ceto politico e la stampa Marcello Veneziani riprende l’argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco
rispecchiano gli elettori e i lettori che in questa fase della nostra storia non sembrano degli specchi incrociati: “Gli italiani temono ondate di immigrati albanesi non
più gli ‘italiani brava gente’ ma una collettività ansiosa, che non crede in se stessa, perché siano razzisti o sciovinisti, ma per due opposte ragioni. Perché vedono gli
che pensa di sopravvivere innalzando alle frontiere ‘cortine di acciaio’”, la albanesi come degli italiani affamati, li temono perché sono la nostra versione
Repubblica, Bocca, 3/4. “Prima c’era un paese che, tutto sommato compatto, primitiva. E temono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, la modernità:
pensava e diceva di trovarsi di fronte a un’immigrazione clandestina e di massa li spaventa l’arretratezza, la puzza del nostro passato. E poi li respingono non per
dall’Albania. Quindi: accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, orgoglio nazionalista ma al contrario, perché temono la fragilità del nostro
istituzioni, governo, maggioranza e opposizione stavano tutti più o meno scomodi sgangherato sistema Paese, con tante piccole Albanie e disoccupazione. Non si
dentro questo triangolo. Dopo i morti, gli immigrati sono ridiventati profughi e fidano dell’Italia e si sentono una comunità nazionale spappolata”, il Giornale,
ciascuno ha mutato la sua parte in commedia […] c’è stata quella notte, ha sconvolto Veneziani, 5/4.
gli animi e distorto i comportamenti”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4.
Un modo interessante di guardare al problema è quello proposto da Ernesto Galli Albanesi e ballerini
della Loggia, in un fondo apparso sul Corriere della Sera subito dopo Ma questo ripensamento di sé attraverso l’incontro/scontro con l’altro è
l’affondamento della Kater I Rades: “Ma come è possibile che una nazione di esattamente quel che gli albanesi, nel 1997, stavano sistematicamente vivendo da
sessanta milioni di abitanti, che una grande e ricca nazione europea come l’Italia si oltre un decennio, da quando cioè il cronico isolamento imposto dal regime –
faccia spaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal punto che sembra ricordo solo che il confine di stato era preceduto da un confine interno che creava
quasi non vi sia più una città, un paese, un comune disposti ad accoglierne neppure una fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevano accedere solo gli
qualche decina? […] È possibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di autorizzati – si allentò nella seconda metà degli anni Ottanta per crollare del tutto nel
perderlo, è la diffusione ormai senza limiti di valori e di stili di vita ispirati al 1990. L’apertura del confronto con l’altro (è noto in questo senso il ruolo giocato
materialismo e al consumismo […] La realtà è che se una nazione di sessanta dalla televisione italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anni una bassa
milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione come l’Italia si fa spaventare da autostima sociale.
una manciata di profughi albanesi è precisamente perché essa non si sente affatto Il più famoso intellettuale albanese, Ismail Kadarè, ha parlato all’epoca di una “…
una nazione. […] Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitanti di psicosi pessimista che imperversa da alcuni anni in Albania. Questa volontà di
questo vasto insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti di una somma di autodenigrazione, autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno e
comunità sparse, legate da un debole e malcerto vincolo. Gli albanesi spaventano e notte che questo paese è maledetto, non ha un futuro e merita di sparire è diventata
inducono al rifiuto precisamente perché sono visti non già come dei profughi che una moda in alcuni ambienti”, la Repubblica, Kadarè, 13/3.
arrivano in Italia, in una grande nazione, bensì come degli intrusi non invitati in Non vi è dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta, oltre che su uno
questa o quella delle tante comunità di cui sopra”, Corriere della Sera, Galli della spietato stato di polizia, anche sull’orgoglio nazionale, profuso in quantità massicce
Loggia, 1/4. La tesi trova consensi: “Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della dal potere attraverso tutti i canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondo
Sera ha analizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi, dice dopoguerra sono cresciuti nella ferma convinzione (suffragata da continui indizi di
l’autore, non siamo né razzisti, né egoisti, né insensibili, siamo soltanto orbi della tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e mai smentita da una verifica su modelli
nazione e orfani dello Stato […] Tutto questo è molto triste. Senza nazione e senza diversi, invisibili) di appartenere a una Nazione antichissima, fiera quante altre mai e
Stato non si va lontano, si può essere sconfitti anche in una battaglia non combattuta di gente industriosa e capace.
contro i pezzenti, nel canale d’Otranto”, il Giornale, Scarpino, 3/4. La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte alla necessità di far i conti
con il giudizio degli altri, delle altre nazioni di fronte alla propria. Gli antropologi
sanno benissimo quanto questo giudizio da parte dell’Altro sia un elemento lo apostrofa con un “Albanes!” che, dal tono con cui viene pronunciato, significa
fondamentale per la costruzione di sé come comunità etnica e/o nazionale (Jenkins con tutta evidenza: “Imbranato!”. Chiedo comunque a Madin di ripetere quel che ha
1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingenti la nazione albanese si era detto, forse ho capito male, e lui mi spiega in greco che quello “Odigài san alvanòs”,
costruita in quasi totale assenza del giudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno letteralmente: “Guida come un albanese”.
costituito il contatto con l’Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, Mi spiegherà poi che il termine è ormai d’uso comune, per indicare i fessi, gli
ma in entrambi i casi la possibilità di giudicare ed essere giudicati veniva di molto incapaci, gli ignoranti. La parola che in tutto il mondo indica gli albanesi è diventata
limitata dall’ideologia inter-nazionalista che faceva dei sovietici e dei cinesi non un in Albania un termine spregiativo usato come un insulto. Per la Shqipëria, fare i
Altro da valutare e da cui essere valutati, ma piuttosto un Simile. Tanto simile da conti con l’Albania, con le immagini delle navi cariche verso la Puglia, degli uomini
dover essere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il contatto non fosse rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontare un giudizio radicalmente diverso
strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesi avevano un’idea di sé che si e negativo e gli shqiptarë, tanto orgogliosi d’esserlo, fieri della loro storia e della
basava solo su un giudizio interno, giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto loro cultura, capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi.
prima mediatico e poi diretto con l’Occidente ha letteralmente spazzato via questo Ma quest’immagine sbiadita e irrimediabilmente negativa dell’identità
giudizio. Il fiero popolo albanese, cui era stato detto che stava costruendo il Paese albanese si è lentamente e parzialmente modificata, almeno in Italia. Il mutamento,
più evoluto del mondo, si è reso conto che gli equivalenti degli scassati trattori che riguarda assieme la categorizzazione esterna (cioè il modo in cui gli italiani
cinesi con cui coltivava la terra non erano più usati in occidente da diversi decenni; vedono gli albanesi) e l’identificazione interna (cioè il modo in cui gli albanesi
che le poche fabbriche nazionali producevano pezzi di qualità peggiore di qualsiasi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all’inizio del terzo millennio, grazie a
concorrente dell’ovest; che insomma la superiorità naturale del popolo albanese una serie di eventi in parte casuali.
veniva messa in discussione dalla realtà quotidiana che filtrava dalle televisioni e, Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi era anche un
dopo il 1990 sempre più frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggi ragazzo diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di “buona famiglia” (madre farmacista
all’estero. e padre docente universitario), Kledi è appassionato di danza fin da bambino, e i
C’è un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo di ricostruire genitori l’hanno iscritto a dieci anni all’Accademia Nazionale di Tirana, poco
un’immagine di sé come popolo che tenga conto del giudizio altrui. Come è noto distante dalla casa dove è cresciuto. È il 1984, Enver Hoxha sarebbe morto l’anno
“Albania” è un termine prima romano poi bizantino per designare una regione successivo, e in Albania diventa sempre più facile guardare i programmi della
chiamata invece dagli abitanti “Shqipëria”. Allo stesso modo, quelli che tutto il televisione italiana, prima per semplice debordamento hertziano, e poi tramite le
mondo chiama “albanesi” (con le diverse varianti, Albanians, Alvanoi, ecc.) parabole in grado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda la televisione
chiamano se stessi “Shqiptarë”. italiana, e le due attività diventano parte di un solo progetto, che così oggi viene
Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nel sud-est del Paese. raccontato nelle note biografiche del suo sito ufficiale
In macchina con noi c’era un ragazzo albanese, Madin. Lo conoscevo da tempo, e (<http://www.kledi.it/Biografia.html>):
normalmente comunicavo con lui tramite il mio collega Gilles, che però era tornato
in Francia. Madin fortunatamente parlava un po’ di greco, per cui riuscivamo a Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodo come
comunicarci l’essenziale. I due amici italiani vogliono visitare la moschea, costruita Heather Parisi, Lorella Cuccarini, Raffaella Carrà, Raffaele Paganini.
da poco. Con la macchina ci avviamo lungo una strada fangosa che presto si Ricordo che mi divertivo a sognare di ballare al loro fianco, in un
restringe a sentiero. Forse un chilometro prima della moschea la strada è bloccata da grande show.
una macchina in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l’autista al volante.
Potrebbe accostare alla sua sinistra, c’è uno spiazzo libero di fronte a una casa, ma si Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, un caso
vede che ha difficoltà a far manovra con scioltezza, e rischia quasi di venirci esemplare di quel che Appadurai (1996) chiama “immaginazione come pratica
addosso. Madin guarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il maldestro autista, e sociale”. Il 12 agosto 1991, “mentre era in vacanza a Durazzo”, si imbarca su una
delle navi che facevano la spola tra l’Albania e la Puglia cariche di disperati e Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo di ballo di Maria de Filippi) e
speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essere espulso dall’Italia quasi Leon Cino, ballerino molto dotato che infatti vinse quell’edizione, entrando anche
immediatamente. Rientrerà più di un anno dopo, chiamato da una compagnia di lui nel corpo di ballo stabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del
danza di Mantova che aveva avuto il suo nome dall’Accademia Nazionale di Tirana. 2005, ha visto la partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukas e Klajdi
Passa rapidamente alla televisione, diventando nel 1997 primo ballerino del Selimi. Quest’ultimo è stato sicuramente il personaggio chiave dell’anno, anche se
programma pomeridiano Buona domenica, dove rimarrà fino al 2003. Conosce così non ha vinto la gara: con la sua vena polemica, la costante rivalità con Marco, un
Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole con sé sia a C’è posta per te, sia ad Amici. altro allievo della scuola che non esitava a fare appelli agli “italiani” perché
Mentre il pubblico di Buona Domenica e C’è posta per te è in buona parte adulto, votassero lui invece di un “albanese”, e con il rispetto profondo mostrato verso il
l’audience di Amici di Maria de Filippi è tendenzialmente giovane e femminile, e ne pubblico che numerosissimo lo votava da casa, Klajdi ha catalizzato l’attenzione di
decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004 Kledi fonda a Roma la un pubblico sempre numeroso (i dati di ascolto del programma nella sua fase serale
“Kledi Academy”, una scuola di danza e musica che sta riscuotendo un buon si aggirano stabilmente attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finali i voti
successo e che organizza corsi annuali e stage estivi. Nel frattempo, è diventato da casa hanno sfiorato il milione a puntata, anche se la telefonata costava un euro).
anche un attore di successo sia per il cinema (Passo a due, La cura del gorilla, Anche le successive edizioni hanno visto la presenza di concorrenti albanesi, ma il
entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo (Domani è un altro giorno, 2006). programma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendo nella stagione 2006/2007
In sintesi, la figura di Kledi Kadiu è quella di un albanese “vincente”, il anche due concorrenti romeni (entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo.
primo a raggiungere in Italia notorietà per le sue qualità artistiche. Anche senza I protagonisti di Amici di Maria de Filippi sono riusciti a modificare in
enfatizzarne il ruolo individuale, certamente Kledi è stato il prodromo di una nuova modo sostanziale il giudizio di molti loro coetanei italiani sull’identità albanese. Se
generazione di albanesi, disposti a proporre agli inizi del terzo millennio una forma dieci anni fa albanese era sinonimo di immigrato clandestino, criminale, persona
alternativa di identità rispetto al modello “poveraccio o criminale” che si era pericolosa o comunque povera (in Grecia girava allora una terribile freddura: sai
imposto negli anni Novanta e che abbiamo visto essere particolarmente attivo qual è la barzelletta più corta del mondo? Turista albanese!) oggi tra molti giovani
durante la crisi del 1997. Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiani “albanese” significa anche spirito di sacrificio, caparbietà, orgoglio e
italiana come veicolo di informazione, sia dall’Albania attraverso le antenne determinazione. Per molte ragazze, poi, è innegabile che l’uomo albanese abbia
paraboliche, sia una volta giunti in Italia (Mai 2005, p. 558), ha consentito agli assunto connotazioni sexy del tutto impensabili fino alla comparsa di Kledi e dei
albanesi di fruire di una nuova immagine da articolare in modelli alternativi di suoi connazionali sul piccolo schermo.
appartenenza. Uno dei veicoli principali di questo nuovo modello identitario è stato Questa immagine prodotta dalla televisione italiana ha iniziato a
Amici di Maria de Filippi. riverberarsi sull’autorappresentazione degli albanesi, in Italia e in Albania (dove i
Il programma (si è conclusa nella primavera 2007 la sesta edizione e si programmi delle reti Mediaset sono particolarmente seguiti). Gli “eroi” delle sfide di
prepara per l’autunno la settima) è concepito come un game show in cui un gruppo Maria de Filippi sono intervistati sui settimanali popolari albanesi e proposti come
di giovani partecipa a tempo pieno a una scuola per artisti (cantanti, ballerini e modelli per la gioventù nazionale. Klajdi Selimi che, con la bandana in testa e
attori) che prevede una serie di sfide settimanali tra i partecipanti. Le sfide ripetute perennemente a torso nudo (come spesso Kledi), dichiara di sentirsi “un gladiatore
portano all’eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti in base al giudizio di più che un ballerino” incarna un modello appetibile per gli italiani e per gli albanesi.
una commissione e ai voti telefonici del pubblico a casa, fino alla proclamazione del La messa in scena del corpo come strumento di performance di eccellenza
vincitore assoluto. Già alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazza ricorda altri casi famosi: i giocatori di cricket indiani nelle squadre inglesi
albanese, Anbeta Toromani, che proveniva dalla stessa scuola di Kledi e che sarebbe (Appadurai 1996) o i campioni afroamericani negli Stati Uniti (Page 1997). Corpi
giunta seconda alla finale. Oggi Anbeta è una ballerina professionista e fa parte del senz’altro naturalizzati, addomesticati dallo sguardo egemone in funzione di un
cast stabile del programma. La stagione successiva (2003-2004) gli studenti albanesi godimento estetico rassicurante. Ma corpi capaci anche di riscattare un’identità
della scuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri (fratello minore di Ilir
smarrita se non esplicitamente sottomessa, in grado di riappropriarsi di una dignità fitness, la telegenia e la capacità di assecondare le fameliche richieste delle audience
personale che può diventare condivisa dall’intera comunità di riferimento. più giovani, notoriamente refrattarie al richiamo del piccolo schermo. Non vi è, in
Questo processo di manipolazione fisica e simbolica del corpo passa sia tutto questo, nulla di chiaramente orientato al passato (un’opzione impraticabile di
attraverso la storia “occidentale” della disciplina che si apprende, sia attraverso la fatto per gran parte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentire
genealogia delle proprie “origini”: come la “magia” indiana diventa capacità comune con i frammenti della modernità e della tradizione, senza temere il
funambolica sul campo da cricket, e come la “naturalità” africana diventa potenza mutamento ma accettandolo come parte inevitabile di un qualunque sano processo di
esplosiva sulle piste di tartan, così l’orgoglio “balcanico” degli albanesi diventa identificazione collettiva che non voglia sclerotizzarsi nella nostalgia dei bei tempi
capacità di disciplinarsi, di rimanere fedeli all’obiettivo senza cedere alle lusinghe andati, che per molti giovani albanesi semplicemente non esistono come ricordo
del facile successo. Così descrive una giornalista italiana le ragioni del successo di politicamente spendibile sul mercato delle appartenenze.
Kledi:
Conclusioni
Kledi non riflette il cliché del divo osannato e capriccioso, ma L’intento di queste pagine è stato quello di spingere a riflettere su alcune
trasmette l’idea del lavoratore scrupoloso, preparato e devoto al forme recenti delle appartenenze e delle identità. La “crisi albanese” del 1997 ha
pubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta con costretto alcuni noti opinionisti a ripensare pubblicamente il senso e il ruolo
fatica attraverso interminabili ore di preparazione (Seralisa dell’identità italiana, e le esigenze commerciali di un programma televisivo italiano
Carbone, sul sito Leonardo.it). hanno contribuito al riposizionamento dell’identità albanese, per gli attori e per gli
astanti. Ancora una volta, seppure con ingredienti insoliti, confermiamo quindi il
Questa rappresentazione dell’artista albanese si è rapidamente imposta sapere degli antropologi, che ci dice la natura necessariamente relazionale
come role model: Anbeta Toromani, Leon Cino e gli altri artisti albanesi sono noti dell’identità.
per la loro laconicità – non sempre dovuta a una scarsa conoscenza della lingua Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi di
italiana, ma alla esplicita contrapposizione tra dire e fare – oltre che per la loro comunicazione di massa e identità collettive, mi sento di azzardare il giudizio
tenacia e forza di volontà. Sono facilmente etichettati come persone “serie”, che complessivo (ormai acquisito nel dibattito teorico) che non vi è alcun rapporto
vanno al sodo e non si perdono in smancerie o inutili salamelecchi. Questa versione causale diretto tra rappresentazione nei media e percezione della propria identità.
alternativa dell’essere albanese oggi sta chiaramente contaminando Non basta, cioè, vedersi descritti come sciocchi o criminali o ballerini dai grandi
l’autorappresentazione degli albanesi in Italia, che seguono numerosi il programma mezzi di comunicazione di massa per percepirsi come tali, dato che il discorso dei
Amici di Maria de Filippi con veri gruppi di ascolto che partecipano attivamente al media entra nelle ordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. In
voto da casa. questo senso, possiamo dire che i mass media paventati da certi approcci teorici
Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, dato che la mia “non esistono”, se per mass media intendiamo un sistema di comunicazione
ricerca è ancora in corso, mi sembra plausibile ipotizzare un “ritorno” dell’identità autonomo e tendenzialmente “persuasore”, i cui effetti sociali possano essere
albanese tra gli immigrati in Italia, soprattutto tra i più giovani, che sembrano quindi resecati da quelli della più vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson 1991).
aver trovato una risposta alla richiesta del vecchio Dhori di dimenticarsi di essere Al contrario, un’analisi di taglio antropologico sui mezzi di comunicazione di massa
albanesi. Oggi, sembrano dire i giovani albanesi in Italia, è finalmente possibile ci rende sempre più consapevoli della natura “mediata” della vita sociale in generale
“ricordare” la propria identità. Come è evidente, è un ricordare spurio, che unisce in (Mazzarella 2004).
una miscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo come espressione Esistono cioè nuclei più o meno densi di comunicazione e aggregazione di
sociale, la scuola albanese di balletto classico, l’espressione di una virilità significati che non possono esistere se non in forma mediata, cioè comunicata: gli
estremamente fisica e poco “ciarliera”, lo spirito competitivo e l’orgoglio di un stili culturali da cui si proviene, le aspettative sociali, gli incentivi individuali, gli
popolo “tribale” con le esigenze del mercato televisivo, il sex appeal del body habitus come archivi consolidati e generatori sperimentali di pratiche, e i capitali
culturali ed economici di cui si dispone. Dentro questo quadro, agiscono i mezzi di
comunicazione di massa. L’antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare spesso
il loro ruolo in nome di un purismo dell’“autentica cultura” che non aveva ragione di
essere. Farebbe altrettanto male, credo, se iniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di
un determinismo che è altrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente.

Titolo citati
Appadurai, Arjun, 1996, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization,
Minneapolis-London, University of Minnessota Press; traduzione italiana
Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma,
Meltemi, 2001.
Human Rights Watch, 1997, “Albania”, in Human Rights Watch. World Report,
1997. Testo reperibile online all’indirizzo
<http://www.hrw.org/1997/WR97>.
Jenkins, Richard 1997, Rethinking Ethnicity. Arguments and Explorations, London,
Sage.
Mai, Nicola, “The Albanian Diaspora-in-the-Making: Media, Migration and Social
Exclusion”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 31, 3, 2005, pp. 543-
561.
Mazzarella, William, 2004, “Culture, Globalization, Mediation”, Annual Review of
Anthropology, 33, pp. 345-367.
Page, Helán E., 1997, “‘Black Male’ Imagery and Media Containment of African
American Men”, American Anthropologist, New Series, 99 (1), pp. 99-111.
Todorova, Maria N., 1997, Imagining the Balkans, Oxford, Oxford University Press,
257 p.
Tomlinson, John, 1991, “Media Imperialism”, in Cultural Imperialism: A Critical
Introduction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1991, pp. 34-67;
ora in Lisa Parks, Shanti Kumar, editors, Planet Tv. A Global Television
Reader, New York and London, New York University Press, 2003, pp. 113-
134 [non comprende il paragrafo “Laughing at Chaplin: problems with
audience research”, alle pp. 50-56 dell’originale].
GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN
R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]
1) Le due strade L’antropologia si è sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e
dell’antropologia idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro (71).
2) Oggi molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale: finiti i
L’omogeneizzazio cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non costituisce un problema per
ne culturale e la l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G. nota che questa “attenuazione del contrasto
legittimazione culturale” (“softening of variety”) ha prodotto una legittimazione (spesso implicita)
dell’etnocentrism dell’etnocentrismo da parte di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti
o avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è quell’atteggiamento in base
al quale la cultura, le abitudini e i valori sono considerati dal soggetto che li possiede naturalmente
e intrinsecamente superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la “loro”
è sbagliata].
3) Claude Lévi- Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma: “per non
Strauss: dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una certa impermeabilità” (p. 73).
l’etnocentrismo è L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto positivo, nella misura in cui previene
un preservativo l’omogeneizzazione rendendo le culture relativamente impermeabili le une alle altre.
necessario L’etnocentrismo, questa prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus
della globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili. “Sarebbe pertanto
illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi del tutto dall’etnocentrismo… se ciò
accadesse, non sarebbe affatto una buona cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale
concezione della cultura è implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?
4) L’impermeabilità si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre
imperméabilité culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia propria, e soprattutto
come una via per non danneggiare la creatività insita nella mia cultura. Secondo Geertz, questa accettazione
d’uscita tra dell’etnocentrismo attraverso il distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non
relativismo e potendo abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la facoltà di
assolutismo giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali
sembrano optare per quella sorta di imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata
da Lévi-Strauss” (p. 75).
5) Richard La posizione del filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a
Rorty: abbiamo enfatizzare gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella sua scrittura
bisogno l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano) [cfr. ad esempio il suo La
dell’etnocentrism filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di
o perché abbiamo filosofia come genere letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della
bisogno di conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione di simpatia e
coesione sociale e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli altri (Contingence, irony and
solidarietà di solidarity, 1989). Questo sentimento nei confronti della propria comunità è completamente de-
comunità teorizzato e sottratto a qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche
relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili, le culture degli altri
costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia “la dignità relativa di un gruppo… per effetto
di contrasto, per via del confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la
conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra superiorità.
6) Differenze G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il primo
tra questi due (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva l’integrità culturale, mentre per
modi di il secondo (filosofico e pragmatico) l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza
legittimazione collettiva. Uno insiste sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro,
dell’etnocentrism non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle emotive (abbiamo bisogno
o di disprezzare l’altro per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).
7) Il vero A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione: “vorrei dire che
problema una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi stessi, del coltivare la sordità e del
dell’etnocentrism rendere grazie per non essere nati tra i vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le
o: soffoca discipline, l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).
l’immaginazione Il vero problema dell’etnocentrismo non sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe
ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – PIERO VERENI PER L’ORIENTALE
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nelle credenze e nelle pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo
già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno dell’etnocentrismo a
questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra capacità e la nostra voglia di immaginare
(afferrare, com-prendere nel primo senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i
problemi sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la capacità di
percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che non ci appartengono… e che
neppure ci apparterranno, che non con la possibilità di sfuggire al fatto che preferiamo quel che
preferiamo” (p. 78).

8) Rifiutare Un’immediata conseguenza del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non
l’etnocentrismo solo protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle culture o alle
significa in prima comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini nitidi. Se uno ha ancora voglia di
istanza immaginare “come sia essere un pipistrello”, immaginare cioè la diversità culturale,
riconoscere la immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità non inizia lontano, lontano
diversità da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel momento in cui la diversità non è solo qualcosa
all’interno delle che sappiamo che esiste ma dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri
nostre società principi (come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza peggiore e
di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e unità (come vuole Rorty), ma è
qualcosa che veramente ci interessa; nel momento in cui la diversità culturale non solo uno
strumento per i nostri scopi (proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e
pervasività diventa evidente
9) Linguaggio, Com’è stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica delle
società e culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile perché si è applicata in modo
rapprensentazioni scorretto l’idea che il significato sia costruito socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra
monadiche delle linguaggio e conoscenza o, per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i
culture significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società attraverso i simboli
della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo “nel senso che i limiti del mio mondo sono i
limiti del mio linguaggio”, offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento
morale, mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p. 80). Non si
tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere analizzato con attenzione. La
prima frase, infatti, legittima l’indifferenza verso la diversità, mentre la seconda conduce alla
curiosità, all’immaginazione e all’apertura mentale.
10) Le culture In un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo nitido, era
erano veramente forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora siamo di fronte a prospettive del
pure e le società tutto inedite: “le questioni morali sollevate dal fatto della diversità culturale… che un tempo
veramente sorgevano, quando sorgevano soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno”
omogenee prima (pp. 81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare nell’argomentazione
della recente geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione culturale, lo contrappone a un passato di
ibridazione? Forse uniformità, quando invece sappiamo che la diversità è stata la situazione normale nella storia
Geertz sta dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di uniformazioni nazionali occorso dalla fine del
esagerando? Settecento alla fine della seconda guerra mondiale.

11) Un apologo Per fornirci un esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo di
dalla morale altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro, Geertz ci racconta la storia
incerta: l’indiano dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il valore morale della storia ha è legato a quanto
ubriacone e il rene questa si sviluppa a seguito della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che
artificiale, ovvero questo comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo le parti, di
l’incapacità di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far sembrare questo piccolo racconto
immaginare così deprimente… è il fatto che essi [indiano e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero
l’altro. della differenza, un modo per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).
12) Il ruolo Possiamo rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la “nostra”
dell’etnografia nel definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe includere? Geertz crede che nella
“colmare il salto” maggior parte dei casi siamo chiamati a uno sforzo di comprensione, se veramente vogliamo
della diversità (o vivere dentro una società, e non una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto
almeno nel inesorabilmente nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di una
provarci, “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84). Gli etnografi sono da
nell’immaginare tempo i professionisti delle mentalità aleiene: “Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le

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ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – PIERO VERENI PER L’ORIENTALE
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le possibilità di nostre teorie, noi etnografi abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi
riempirlo) altri, cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con l’ausilio di artifici
concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).
13) Il sapere Ora che la diversità è all’interno del noi, l’etnografia , raffinando e ricalibrando i suoi
etnografico è strumenti e i suoi fini, può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più
importante perché ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura delle lenti, l’etnografia
il relativismo (che è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua
può senz’altro esperienza per quella che Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di
sorgere da quel reciproca comprensione tra le diversità.
sapere) è molto
meno pericoloso
dell’indifferenza
alla diversità
14) Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità culturale, il
Conclusioni: relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con l’altro sono due strategie del tutto
l’etnografia è al inutili, anche se bisogna specificare che quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La
contempo prospettiva di un mondo popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da
un’esigenza aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo imminente; purtroppo, mi
scientifica e sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva di un mondo di persone tutte impegnate a
morale dei nostri glorificare i propri eroi e a demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi,
tempi è necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un campanilismo senza
pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere in un collage” (pp. 88-89).
15) Essere “Comprendere quello che, in un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di
attenti al diverso è minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di neutralizzarlo con l’indifferenza
“innaturale” ma dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma
necessario. Un non perciò meno illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta
manifesto del imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di una facoltà innata,
sapere socio- come la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro
antropologico affidamento. Gli usi della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in questo:
nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte.

Sunto
L’etnocentrismo, un tempo vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali, ha acquisito
da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe
quindi la sopravvivenza delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità peggiori” – una pratica
che rafforza la coesione della comunità di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva dell’etnocentrismo,
e con la sua legittimazione da parte di autorevoli studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile
approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi,
dato che la diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un tempo fosse tra società. L’etnografia con il
suo tradizionale pallino per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti migliori per capire quel che ci
è alieno, senza edulcorarlo, renderlo innocuo o liquidarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi morali e quelli
scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della
precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che richiedere un vero sforzo di
immaginazione) può contrastare una tendenza evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto, e il
sospetto in inimicizia.

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