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IL FASCINO SUPERFICIALE
DELLA BUFERA
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scuola (visto che lui fa una specie di telelavoro e quindi potrebbe restarsene a
casa) che non per il timore del ritardo.
“Papààààà non è colpa mia è Giulio che sta chattandoooo”.
La delazione dei più piccoli.
“Giuro che quell’affare ve lo stacco e quando tornate vi rinchiudo per un’ora
nello sgabuzzino”.
“No papiiiii, ti pregooo, lo sai che quando torniamo devo controllare la posta,
daiiiii, se mi ha scritto LUI èffondamentale, papi ti prego lo devo sapere, lo sai
che mi sento troppo male per lui, mi tremano le gambe. Ufffaaaaa. La verità è
che IO sono innamorata, per fortuna, mentre voi siete solo degli aridi senza
cuore!”
Il vicino è ormai anche lui sul pianerottolo, gli occhi rivolti al cielo e i capelli
pure. Si accorge di me e finge imbarazzo: in realtà questa scena l’abbiamo già
ripetuta mille volte. Accenno un sorriso di compassione e, come ogni volta,
penso che io non ho mai avuto tutto questo dialogo con mio figlio: schivare il
confronto ha il pregio di non intralciare la puntualità.
Potrei cambiare leggermente l’orario delle mie abitudini mattutine per evitare
questo incrocio con i drammi familiari dei miei vicini. Ma sono allergico ai
cambiamenti.
Alla fermata dell’autobus ripercorro mentalmente gli impegni con i quali mi sono
imbottito il programma della mattinata: la banca, la posta, un salto dal medico a
ritirare una prescrizione, la farmacia. Anche l’età pensionabile ha i suoi fattori di
stress. A me più che altro causano stanchezza, fatica: a 78 anni e qualche
acciacco ci si deve industriare per fare in modo che non manchino panchine nel
percorso tra un impegno e l’altro. Ma l’importante è sottrarmi per qualche ora
alla mia bufera casalinga e rimandare per un po’ il mio essere risucchiato nel
vortice che mi aspetta. E così arranco.
Metto la banca per prima, perché non ha posti a sedere per l’attesa e io sono
ancora fresco di energie mattutine. Saluto i ragazzi allo sportello con sorrisi e
cenni di familiarità e, quando arriva il mio turno, non rinuncio ad una
conversazione fatta di lamentele (mie) sul governo, le tasse, le pensioni e le
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cacche dei cani, ricambiate da una carrellata di cortesi “eh sì… certo… non me
ne parli…” (loro). Quanto basta per sfogare le mie esigenze di socialità e
soddisfare il mio bisogno di appartenenza.
Arrivo alla posta a metà mattinata, all’apice del suo affollamento, così posso
contare su almeno un’ora di intrattenimento. Lì ci sono le sedie di legno e, alla
mia età, c’è sempre qualche filippino gentile che ti lascia il posto. A volte provo
a puntare il mio sguardo colpevolizzante su qualche sgallettata al cellulare che
finge di controllarsi lo smalto solo per non mettere a fuoco me e il suo dovere
morale di lasciarmi il posto. Ma ormai ci ho rinunciato e posso solo fare
affidamento sulla cortesia di altre culture.
Una volta accomodato mi posso dedicare a me.
Apro la valigetta di stoffa e controllo innanzi tutto il telefonino, come sempre
muto. Tanto muto che spesso mi viene il dubbio di averlo dimenticato a casa.
Non che se accadesse mi sentirei in nessun modo tagliato fuori dal mondo, ma
ricordo solo con spiacevolezza che l’unica volta che mi è accaduto, pochi giorni
dopo che mio figlio me lo aveva regalato, sono arrivato a casa trafelato perché
sopraffatto dall’ansia e dalla speranza delle occasioni perdute. Ci avrei voluto
trovare una chiamata, un messaggio inaspettato di qualcuno (e di chi, visto che
quasi nessuno ha quel numero?), di un fantasma del passato che magari non
ho saputo capire al momento giusto e l’ho fatto quando era troppo tardi: in
effetti ho sempre avuto la sensazione e la paura che la mia vita fosse stata una
serie di appuntamenti a cui arrivavo sempre, irrimediabilmente in ritardo. Un film
assurdo, insomma, ma anche quelli più inverosimili sanno lasciare in bocca
l’amaro della delusione. E quindi, da quel giorno, metto il telefono vicino alle
chiavi di casa, per non dimenticarlo, così posso avere in tempo reale, e senza
false speranze, la percezione delle assenze.
A pensarci bene, oggi, essendo mercoledì, potrebbe arrivare la telefonata di
Marco, mio figlio, che normalmente mi conferma con qualche giorno di anticipo
la sua visita della domenica, con il vassoio dei pasticcini e lo sguardo
brontolone di una nuora che vorrebbe essere altrove, in un centro commerciale
forse, piuttosto che a ripetere il ritornello di come mi trovano bene in salute, di
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- paura di chiedere, per non trovarmi sommerso dai suoi problemi di lavoro. E
questo non era riposo, perché c'era tutta la fatica della vita in trincea.
Ma la ciliegina era la sua punizione preferita: “Andiamo al cinema”. A me non è
mai piaciuto andare a cinema, ho sempre preferito il divano di casa e i
programmi di sottofondo, non quelli che richiedono partecipazione. Sono un
uomo che consuma la superficie, pare. Eppure cedevo, e a cinema ci andavo.
Ma subito m'incazzavo, perché in strada lei mi precedeva come sempre, a
passo spedito, andava da sola, come se io non esistessi. “Ma allora – pensavo
- cha cavolo mi chiedi a fare di andare al cinema? Vacci da sola, così come sei
abituata a fare, e lasciami ai miei pensieri e alla mia pigrizia fisica e mentale”.
Eppure ci ricascavo sempre, in silenzio. Era la mia punizione, quella.
Tante volte sentivo una voce dentro che mi diceva di partire, andare, fare, che
non dovevo fermarmi. E io, incazzato, cercavo di replicare che ovvio che avrei
voluto andare, ma come? E mi ricordavo di quando, prima del matrimonio,
giravo per l’Italia vagabondo e senza casa, a quell’epoca rappresentante di
aspirapolvere, quando dormivo in macchina per risparmiare sugli alberghi:
vivevo in una casamobile, mi sentivo libero di essere e di non avere, libero di
partire e di viaggiare, libero di cambiare.
Ma quei tempi erano sepolti e ormai l’età non era già più quella in cui si pensa a
una vita da rifarsi, quando il corpo ha cominciato a cedere e la salute è già
latente. Non era tempo di rimettersi sul mercato. E quindi andavo avanti così, a
parlare con me stesso, anche per ore, ma – si sa – io sono allergico ai
cambiamenti.
A cambiare, però, ci ha pensato lei, riempiendomi un intero set di valigie con
cravatte che non uso e ricordi di ex abitudini, di una ex casa, di un ex conto in
banca e di un’ex automobile. Premurosa, si è ricordata di metterci i cedolini
delle rate della macchina ancora da pagare. E così sono finito fuori dalla porta.
E’ in quel momento, un attimo prima che la porta si chiudesse, che mi sono
sentito apostrofare come marito ipercolesterolemico, iperglicemico,
iperautoreferenziale e... di superficie.
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E’ quindi cominciata una nuova vita, non molto diversa dalla precedente, se non
per un nuovo indirizzo, una nuova linea dell’autobus e per le assenze che prima
non conoscevo.
Marco per fortuna era già abbastanza grande da poter fronteggiare la rottura e
riciclarsi nella versione del figlio da weekend. Solo che allora i pasticcini li
compravo ancora io la domenica.
Quello è stato anche il periodo in cui con Marco siamo stati sull’orlo di una fase
amicale, forse perché lui sentiva di dover offrire un surrogato di affetto
coniugale, o forse perché voleva sottolineare il fatto che non intendeva
prendere le difese della madre e che sarebbe invece rimasto neutrale, tanto da
potermi dare pacche sulla spalla in segno di complicità virile. Fatto sta che
l’amicizia tra genitori e figli, ammesso che sia una scelta corretta, non si inventa
dopo quasi 20 anni, altrimenti produce solo situazioni imbarazzanti.
Come quando un sabato sera mi sentii scuotere e proporre "Dai ti offro da bere,
ti porto al pub”. Ero sbigottito, sapevo che andare con lui in uno dei suoi covi di
giovani sarebbe stato ridicolo, per tutti e due, ma temevo al tempo stesso di
offendere le sue buone intenzioni. Così riuscii soltanto a replicare in un gergo
stonato "Ok, una pinta e poi però torno a casa". Mi sono addirittura lasciato
offrire un birrozzo e non mi sono mai sentito tanto fuori luogo in vita mia, con
quella musica folk in sottofondo, accerchiato da ragazzi e ragazze pieni di risate
e di fumo. Ma non ce l’ho neanche fatta a scappare, mi sono sentito un po’ in
colpa e un po’ in trappola, ma il secondo giro l'ho offerto io, questo lo ricordo.
Del resto invece ricordo poco, perché di giri di birra devono essercene stati altri,
tanto che sono finito sbronzo, con mio figlio appena diciannovenne, nel
supermercato all'angolo, quello aperto fino a mezzanotte, alla disperata ricerca
di Emmenthal: sì, non so perché, ma da quando ero ragazzo quando bevo più
del dovuto mi viene sempre voglia di Emmenthal. Ma al supermercato di
quartiere hanno solo il Lerdammer e io mi sono sentito uno schifo, con Marco
che si ritrovava a dover consolare un padre ubriaco, deluso dalla mancanza di
Emmenthal. Ricordo solo che mi diede una pacca sulla spalla rassicurandomi
"E’ una fase... non ti preoccupare poi passa”. E in quello stesso momento sono
passati anche i nostri tentativi di complicità.
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discorsi minimali: lei arriva ogni mattina a tirare a lucido quel poco di disordine
che riesco a creare, a riempire un frigorifero e un piatto, per poi sparire il
pomeriggio in una vita che non conosco. Io mi lascio sballottare, assalito da
quelle che avverto come ore di caleidoscopio stordente in una vita altrimenti
grigia. E’ la mia dose quotidiana di sogno e profumi di spezie.
Ogni tanto mi ritrovo seduto in poltrona a leggere, mentre lei canticchia dietro
un aspirapolvere (oggetto che rievoca per me un passato di libertà, i tempi
prima dell’altare), e allora perdo il fuoco sulle parole e mi astraggo, abbagliato
da colori d’africa, di mari e di mercati che non ho mai visto.
Teresa non è particolarmente bella, avvolta nel suo corpo a tratti tondo di un’età
non più giovanissima che non mi interessa sapere. Ma ha il garbo di donna e
una naturale sensualità senza malizia. E’ la mia bufera.
Intendiamoci, le mie non sono età e salute da reazioni corporee e istinti da
tenere a bada: l’attrazione non arriva a trasformarsi in desiderio di possesso,
ma si sublima in uno strato di brividi epidermici che ti avvolge e inebria per un
po’. Ho sempre pensato che i giochi dei corpi appartenessero al bello della
giovinezza, ora ho il pudore della pelle sottile e assetata.
Il mio lasciarmi trasportare da queste onde sinuose di piccoli sogni, quindi, non
è visibile, o almeno lo spero: io tento di travestirlo da momenti di torpore, e mi
nascondo dietro palpebre abbassate. E se il cuore diventa tamburello spero che
l’aspirapolvere riesca a sovrastarne il rumore.
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Nonostante le mie insistenze Teresa non mangia quasi mai con me, forse per
sfuggire all’alibut, o per quella timidezza che porterebbe anche me a fare lo
stesso. “Ho piluccato mentre cujinavo sior Miguele”.
Finito il pasto, infilo il tovagliolo nel suo anellino colorato, retaggio di un tempo
in cui mi serviva a distinguerlo da quello altrui. Poi vado in bagno a lavarmi
mani e denti e mi accorgo, alzandomi, che mi fa ancora male l’alluce pestato.
Se ne accorge anche Teresa e mi chiede “che successo sior?”. Attenzioni
sincere che valgono, per chi le riceve, più di mille dichiarazioni d’amore.
“Niente Teresa, non ti preoccupare, mi hanno solo pestato il piede sull’autobus”.
“Ossior, dobbiamo controllare”.
“Non c’è bisogno, è una sciocchezza, passerà”, tentando di allontanare tutta
questa imbarazzante attenzione verso di me.
Dopo un po’ mi rifugio in poltrona nella mia lettura pomeridiana, quella nella
quale tento di affogare i turbamenti della mia pace: e avrò un bell’affogare con
questo tomone che Marco mi ha regalato da poco a Natale, con un titolo che
quando l’ho spacchettato ho pensato volesse essere una maldestra e
sconveniente allusione al mio rapporto con la madre, Uomini che odiano le
donne. Poi ho capito che era stata solo una scelta da classifica di libreria e mi
sono lasciato convincere ad affrontarlo.
Così mi siedo e aspetto e puntualmente, non oltre la terza pagina, mi perdo, tra
una vera sonnolenza e il turbinio di pensieri capoverdini.
All’improvviso avverto una delicata sensazione di calore alla caviglia: in un
primo momento penso che sia l’effetto fisico di sogni esotici, poi invece apro gli
occhi e mi accorgo che Teresa sta tentando di sfilarmi la scarpa in silenzio.
“No Teresa non c’è bisogno”, oppongo con voce roca e viso paonazzo.
“Massior, dobbiamo controllare”. Dolcissima prepotenza.
La bufera aumenta di intensità, mi sovrasta, il cuore tamburella e l’aspirapolvere
è maledettamente spento. Non mi resta che abbandonarmi, inerte.
Un’eternità quella scarpa che si slaccia, si sfila, il solletico di quel calzino che
scivola. E se questa non è più l’età della fisicità, la pelle d’oca mi è rimasta.
“Ma qui ci vuole pomata” è il verdetto dell’esperienza da dito blu.
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Così, dopo un rapido sparire, riecco Teresa con un tubo di pomata dagli effetti
miracolosi. Non per il piede, ovviamente.
Non so delle conseguenze sulla contusione, ma sono sicuro che quel
massaggio, quel contatto con una pelle extra-me sono altamente controindicati
per i cardiopatici della mia età. Avvertenze che nel bugiardino non ci sono.
Mi ritrovo così, alla fine, al centro di una scena ridicola: uomo anziano in
poltrona, la testa riversa all’indietro, gli occhi chiusi, le labbra (probabilmente)
dischiuse, un libro voluminoso aperto sulla pancia, un piede calzato di
polacchina marrone, l’altro nudo, unto e incellophanato, adagiato su uno
sgabello in plastica, un gatto che fissa un alluce blu, un aspirapolvere in
sottofondo.
A ridestarmi dal torpore di una beatitudine al profumo di unguento e isole
esotiche è lo spegnimento dell’aspirazione. Guardo l’orologio e capisco che la
mia bufera quotidiana sta per terminare.
Infatti puntuale alle 16.30 Teresa compare incappottata davanti a me per il suo
congedo abituale: “Sior Miguele io vado, si vedemo domani”. Questa volta
aggiunge, guardando il piede scalzo, “Mi raccomando no cammini così guarisce
prima”.
Già, e chi glielo dice al medico che mi ha ordinato di fare una passeggiata tutti i
pomeriggi? Comunque ringrazio con un sorriso per il suggerimento premuroso
e, con lo stesso sorriso, ricambio il saluto aggiungendo “A domani Teresa,
buona serata e grazie di tutto”. Un ringraziamento che nulla ha a che vedere
con il piede, ovviamente, la stessa gratitudine che le esprimo ogni giorno per lo
scompiglio che porta nelle mie emozioni riordinando la mia casa.
La porta si chiude e la tempesta viene risucchiata nell’ascensore. A me restano
solo l’improvviso silenzio della quiete e l’infinito tempo per rallentare la
macchina dei sogni.
Lascio decantare il tutto. Sarà questa quella che chiamano la pace dei sensi?
quella del dopo?
Impiego mezz’ora per riappropriami dell’immobilità di ogni cosa all’interno
dell’appartamento e della mia vita. Poi infilo di nuovo il calzino senza nessuna
pelle d’oca, calzo la polacchina mancante e, disubbidendo all’oracolo della
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Ma, dopo tanti anni, ho paura di una vita con qualcuno, dell' idea di entrare in
casa, dopo un po’, e sentire non più musica ma silenzio. La paura di non avere
niente da dirsi, che certe cose si scoprono solo col tempo.
Ho paura di vedere la tempesta scemare comunque, ma – peggio - per sempre
e di guardarmi indietro e scoprire che prima non si stava poi male. Ho paura di
condividere la casa con una donna che non conosco affatto e di trovarmi legato
a qualcosa che non voglio più, o non voglio come credevo.
Almeno ora so per certo che questo ménage mi assicura una breve, ma intensa
parentesi quotidiana alla mia grigiosità: non vorrei vedere sbiadire anche lei nel
mio grigio, a forza di routine.
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“Guarda che quando muori, non senti né caldo né freddo, né sete né fame, né
dolore né sofferenza, né gioia né tristezza...niente di niente... ed è per questo
che la morte non va temuta, perché quando ci siamo noi non c'é lei e quando
c'é lei non ci siamo noi”.
A quel punto, lui sopraffatto o da una filosofia spiccia non richiesta o dalla
confidenza che mi sono preso, si gira a guardarmi per mettermi a fuoco e io,
alzandomi e calzandomi meglio il cappello pronto ad andare via, chiudo con la
ciliegina:
“...quindi non ti angosciare e prova a godertela, che in fondo, alla nostra età,
basta infilare qualche piccola tempesta qua e là”.
Porto una mano al cappello, come per sfiorare - in segno di saluto - una falda
che non ha, e mi allontano verso l’uscita dei giardini. Non mi volto a esaminare
le reazioni a quello che avrà pensato essere un ottantenne sciroccato, ma me lo
sono immaginato tornare impassibile alla sua pozzanghera e ai suoi pensieri di
morte, ormai reso impermeabile dall’età alle parole “godimento” e “tempesta”.
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Mi distraggo tra un canale e l’altro fino alle 22, poi potrebbe essere tempo di
riposo, e io vorrei davvero riposare. Nel senso più letterale del termine.
Dormire.
Così metto in atto i riti della sera, lavo i denti, spengo le luci, chiudo il gas. Ma
anche a letto il pensiero mi disturba. Il pensiero è ciò che più mi ossessiona, il
suo essere sempre presente, sempre costante, mai leggero.
E' sempre stato così, da quando ho il mio primo ricordo: ho cinque o forse sei
anni, la casa quella dei piccoli sogni, quelli spensierati, tra tappi e figurine.
Eppure la vita era già allora un contrasto, amaro, tra troppi perché.
Pensiero ancora invadente, assillante, eterno perché. Sembra quasi che non
voglia dormire, per trovare risposta ad una domanda che apparentemente ho
smesso di pormi. Ciò che non chiedo più a me stesso, ma che continua a
ossessionarmi da sempre. Come un baco, un virus latente. Come una fitta in un
fianco, come una cicatrice che non guardi più. Eppure resta lì.
Perché?
Quella domanda è maturata nel tempo, ha assunto contorni via via più precisi e
oggi si è alla fine condensata in un piccolo tormento serale: perché non ho mai
saputo decidere e mi sono sempre lasciato decidere? Essere uomo di
superficie è una condanna irreversibile impressa a fuoco nel dna o ha ancora
senso immaginare di poter guidare la propria vita?
Questa è l'incertezza che mi porto sotto le lenzuola, in questa casa che non è
vera casa, senza un’anima residente.
Per anni ho pensato che la mia casa fosse fatta di pareti, pavimento e soffitto:
ne ho cambiate tre (genitoriale, coniugale e divorzile), eppure oggi mi sento
randagio senza tana, come se ogni sera la mia casa cambiasse indirizzo, non
si facesse trovare. La cerco, eccome se la cerco, la cerco fino a consumarmi,
ma non basta. Cercarla non significa trovarla. Di contro non trovarla significa
che da qualche parte ancora c'è. E allora continuo a cercare. Almeno nei miei
sogni da uomo di profondità, cerco una casa che sia tale, animata, vissuta, e
non solo da me.
E quando avrò smesso di illudermi e a casa non ci tornerò, allora vorrà dire che
avrò cominciato a decidere, a lasciare la superficie.
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Oppure farò mia l’anima di qualcun altro, mi intrufolerò nella sua vita e nella sua
casa e ci entrerò, per sbaglio, credendola mia: nulla sembrerà familiare. Ci sarà
un’aria diversa, facce diverse che mi guardano, le macchine parcheggiate fuori,
perfino il colore dei muri, il mare in fondo al giardino, l’Africa...
Questi deliri scomposti normalmente tradiscono un inconscio che domani avrò
dimenticato; preannunciano il sonno alle porte.
Mi addormento così, sfinito, parzialmente incellophanato, traghettato verso la
tempesta di domani.
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