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2009/2010 Ecclesiologia 1
Ecclesiologia
Ist. Superiore Scienze Religiose – Sanremo don Goffredo Sciubba
A.A. 2009/2010 Ecclesiologia 2
Le origini della Chiesa sono nascoste nel più profondo del mistero di Dio. La Chiesa è del
Padre, perché da Lui voluta dall’eternità, nel disegno gratuito del suo amore per gli uomini. É la
comunità della salvezza che abbraccia dal primo all’ultimo dei giusti della storia. La Chiesa è di
Dio perché è preparata dall’elezione di Israele. É stata posta in essere nella pienezza dei tempi dalla
missione del Figlio e dello Spirito Santo. La Chiesa è di Dio perché è chiamata a celebrare lungo
tutti i secoli della storia la gloria del Padre, riconducendo a Lui l’universo intero. «Piacque a Dio di
santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle
costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse» (LG 9).
Il disegno di salvezza e di unità di Dio Padre non esclude nessuno, e si rivelerà pienamente
alla fine dei secoli quando tutti i giusti, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto saranno riuniti presso
il Padre nella Chiesa universale (v. LG 2).
Ecclesia ab Abel
1. Cristo e l’universalità della salvezza
Se Cristo è la salvezza, perché è venuto così tardi? L’obiezione che i pagani rivolgevano ai
cristiani stimolò la riflessione dei credenti per approfondire ciò che il Nuovo Testamento insegnava
a riguardo dell’universalità della riconciliazione operata da Gesù nel mistero della sua Pasqua. Da
sempre la Chiesa è esistita nel cuore di Dio. Il suo mistero si manifesta nel tempo, ma non si risolve
nel tempo. «Non crediate che la Sposa, cioè la Chiesa, esista soltanto alla venuta del Salvatore nella
carne; essa esiste dall’inizio del genere umano, anzi fin dall’inizio della creazione del mondo; anzi
(…) prima ancora della creazione del mondo» (Origene).
La tesi secondo la quale la Chiesa esisteva fin dalle prime origini dell’umanità sembra
sostenuta anche dalle parole dell’inno cristologico, con il quale si apre la lettera di S. Paolo agli
Efesini: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha (…) scelti in Cristo
prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della
sua volontà» (Ef. 1, 3-6).
Agostino darà forma compiuta a questa teologia della Chiesa, prima della Chiesa,
evidenziando come il problema che qui si pone è quello dell’unicità e dell’universalità della
mediazione di Cristo. Egli è l’unico Salvatore, e nessuno può andare al Padre se non per mezzo di
Lui (cfr. Gv. 14, 6). «Siamo tutti simultaneamente membra del Cristo, e suo Corpo, non solo quanti
siamo qui, in questo luogo, ma anche quanti sono sparsi per tutta la terra; né solo quanto siamo in
questo tempo, ma anche – che dirò? – da Abele giusto fino alla fine del mondo, (…) ognuno dei
giusti che passa per questa vita» (S. Agostino, Sermone 341).
b) I tempi e la fede
Agostino sottolinea il carattere spirituale e personale della salvezza. La fede è veramente la
sostanza della salvezza. (…) Gli antichi giusti, che sono vissuti prima dell’incarnazione del Cristo,
sono stati giustificati e salvati per la stessa fede che giustifica e salva noi. (…) Gli antichi credevano
al Cristo venturo, mentre noi crediamo al Cristo venuto. Ciò che cambia sono i tempi, non la fede.
Con la loro fede aperta al Mistero, gli antichi Padri hanno potuto appartenere al Corpo di Cristo che
è la Chiesa, perché sono entrati non in un rapporto vitale di salvezza con Cristo, unico mediatore tra
Dio e gli uomini.
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La Chiesa e Israele
Nel disegno salvifico di Dio, il popolo eletto, Israele, ha un ruolo decisivo e centrale. La
Chiesa stessa non può comprendere la propria identità e la propria missione senza situarsi in
rapporto a quella che Paolo chiama la santa radice (Rom. 11, 16). Con immagine audace, che
contrasta evidentemente con l’esperienza, l’Apostolo vede l’oleastro innestato sull’olivo, e non,
come sarebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica. Questa immagine evidenzia
l’importanza che Paolo attribuisce alla radice ebraica, perché non è la comunità cristiana a potare la
radice, ma è la radice che porta lei.
Paolo afferma la continuità tra Israele e la Chiesa, non meno della novità che costituisce il
popolo dei credenti in Cristo. Pensare la relazione fra i due popoli nell’unico disegno di Dio e il loro
specifico ruolo, è allora la questione aperta che si presenta fin dalle origini cristiane alla coscienza
di fede del credente. Con una suggestiva immagine, la Chiesa antica ha sintetizzato efficacemente i
termini della domanda. Nell’asta da cui pende il grappolo d’uva portato dagli esploratori inviati
nella terra di Canaan (cfr. Num. 13, 23 ss.) i Padri della Chiesa hanno visto il legno della croce, da
cui pende Cristo; mentre nei due portatori, uniti e separati dal legno, hanno riconosciuto Israele e la
Chiesa. In quanto essi marciano l’uno dietro l’altro, chi precede vede solo davanti a sé, ed è la
figura del popolo d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa; chi viene dietro vede invece colui
che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno, ed è
perciò figura della Chiesa, che ha in Cristo crocifisso la chiave di lettura anche dell’Antico Israele e
della promessa fatta ai padri. In questo modo risalta sia la differenza tra l’Antico e il Nuovo
Testamento, sia la continuità che li lega reciprocamente. Ambedue hanno lo sguardo rivolto alla
stessa meta. Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dalla croce di
Cristo.
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eletto dalla terra d’Egitto. La continuità fra Israele e la Chiesa si manifesta anche a livello di
linguaggio. Gli stessi termini «Chiesa» e «popolo di Dio» hanno radici veterotestamentarie. Come
Israele, anche la Chiesa nascente si concepisce come popolo in esodo, Israele di Dio (Gal. 6, 16).
Gesù stesso, scegliendo dodici apostoli, mostra di intendere la sua comunità in continuità con il
popolo di Israele. Gerusalemme, nella tradizione ebraica punto di raccolta dei dispersi e luogo santo
della salvezza donata da Dio, cantata dai Salmi delle ascensioni quale meta e patria di tutti
pellegrini del Signore, resta anche nella coscienza cristiana la città escatologica, nella quale si
disvelerà pienamente il dono di salvezza offerto da Dio agli uomini; e al tempo stesso è il centro
storico in cui si compie la redenzione e da cui parte l’annuncio a tutti i popoli.
Ma è soprattutto nella relazione con il Dio dell’Alleanza che possiamo riscontrare
l’elemento di continuità fra l’Antico e il Nuovo Testamento. Israele riconosce di esistere grazie a
Dio e per Dio: Egli lo ha preso per mano (cfr. Ger. 31, 31 s.; Eb. 8, 9), con braccio potente lo ha
liberato dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Es. 6, 6; 15, 13). «Tu infatti sei un popolo consacrato al
Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli
che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti
gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha
voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt. 7, 6-8; cfr. Os. 11, 1. 4). Israele ama
esprimere l’assoluta singolarità della relazione fra Dio e il suo popolo utilizzando svariate
immagini, come quelle della vigna (cfr. Is. 5, 1-7), il gregge (cfr. Is. 40, 11), il servo (cfr. Is. 41, 8),
il figlio (cfr. Os. 11, 1), la sposa (cfr. Os. 1-3) del Signore; le stesse immagini saranno utilizzate
anche dalle comunità neotestamentarie, in profonda continuità con la riflessione di Israele, per
parlare della Chiesa, nuovo popolo di Dio. Infine come Israele riconosce la sua missione nell’essere
segno e strumento della salvezza di Dio per tutte le genti, seppure in una continua tensione fra
particolarismo e universalismo, la Chiesa si sentirà chiamata a portare la salvezza fino agli estremi
confini della terra.
Ne consegue, in conclusione, la fondamentale unità tra il popolo di Dio dell’Antico
Testamento e quello del Nuovo Testamento. «E così i padri dell’Antico Patto appartenevano allo
stesso corpo della Chiesa al quale noi apparteniamo»1. Se non possiamo negare questo rapporto di
profonda continuità tra l’Antica Alleanza e il nuovo popolo di Dio, non possiamo affermare che
esista un’unica alleanza. Potremmo incorrere in un duplice rischio: da una parte quello di ricadere
nell’antica eresia secondo la quale la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito nell’Antico
Israele; secondariamente quello di ridurre la novità cristiana ad una dimensione quantitativa, come
se l’opera di Cristo sia consistita solo nell’accogliere in seno all’Alleanza i popoli pagani.
1
S. TOMMASO, Summa Theologiae, III, quaestio VIII, art. 3, ad tertium “Utrum Chistus sit Caput omnium
hominum”.
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avuti rispettivamente dalla donna schiava e dalla donna libera, afferma che «tali cose sono dette per
allegoria, le due donne rappresentano le due Alleanze» (Gal. 4, 24). L’esegesi allegorica, come
suggerisce lo stesso termine, è tesa a riconoscere il non detto nel detto. Poiché Paolo usa questo
termine in un contesto di esegesi tipologica, mirante ad accentuare un valore anticipatorio delle
realtà antico testamentarie, il risultato di questo modello allegorico sarà lo svuotamento dell’Antico
Testamento operato dal di dentro, in quanto lo priva della sua intenzionalità propria
immettendovene un’altra, spesso del tutto estranea al senso originario. Gli effetti di questa
operazione si ritorcono però sullo stesso Cristianesimo, che viene indebolito nei suoi fondamenti
storici. La tendenza allegorica, spiritualizzando la lettera, finirà col destoricizzare la stessa fede
cristiana.
Il modello antologico, a sua volta, si presenta come un procedimento di integrazione. Il resto
d’Israele, inteso come il meglio che l’Antico Testamento ha saputo esprimere, viene assunto e
integrato nell’identità spirituale della Chiesa. Operando una specie di strumentalizzazione delle
antiche Scritture, ad esse si ricorre selettivamente, privilegiando ciò che appare più facilmente
interpretabile in chiave cristologica. L’origine di questo modo di interpretare sembra risalire
addirittura al fatto che, quando il canone neotestamentario non era ancora redatto né fissato, i
cristiani si sforzavano di cogliere nell’unico canone a loro disposizione, quello veterotestamentario,
la storia di Gesù. Di qui all’interpretazione apologetica dell’Antico Testamento infatti il passo fu
breve. Si ritenne motivo indiscutibile di credibilità della rivelazione cristiana la narrazione
anticipata degli eventi della storia di Gesù, ritrovati sotto i veli delle parole profetiche e storiche
delle antiche Scritture. Questa interpretazione però presenta il limite di una vanificazione della reale
progressività storica della rivelazione e inoltre non fa sufficientemente spazio alla novità
rappresentata dalla rivelazione cristiana, rendendo in ultima analisi perfino superflui gli scritti del
Nuovo Testamento.
Il modello della complementarietà cerca allora di salvaguardare nel rapporto tra la Chiesa e
Israele il valore dell’Antica Alleanza in se stessa e il permanente significato religioso d’Israele
affermata da Paolo in forza della fedeltà di Dio al suo Patto. Il vero centro e cuore dell’ebraismo è
l’Alleanza con Dio. Tutto per l’ebreo si riferisce al Patto. Tutto attraverso l’ascolto dell’Eterno si
orienta a Lui. Gesù stesso ha vissuto in questa struttura fondamentale dell’Alleanza. Gesù è il sì
all’Alleanza (cfr. 2 Cor. 1, 20), il compimento nella sua stessa persona del Patto di amore eterno tra
Dio e il suo popolo, l’Israele realizzato secondo il cuore di Dio, il Dio della Promessa fattosi carne
per amore dell’uomo. L’economia del Patto è quindi una sola, ma i tempi, le forme e il grado di
realizzazione cambiano. Fra i due popoli dell’economia dell’Alleanza non può che esserci una
complementarietà. «Essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei,
questo Sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima»
(NA 51).
La Chiesa e le genti
Nell’unità del disegno salvifico universale del Padre, la Chiesa è chiamata a realizzare la
missione affidatale dal Padre al servizio di tutte le genti. Sorgono allora tre domande sul rapporto
tra la Chiesa e le genti:
- come intendere la necessità dell’unico mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù?
- Quale legame esiste fra il Popolo di Dio e la mediazione di Cristo?
- In che modo la mediazione di Cristo e il servizio ad essa reso dalla Chiesa entrano nella
realizzazione del Regno di Dio?
Esaminiamo queste domande una per una, cercando di darvi una risposta adeguata.
1) La singolarità del mediatore.
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Nell’insegnamento di Gesù, il Figlio di Dio chiede nei suoi confronti una decisione netta,
per o contro di Lui. Anche la fede cristiana fin dalle origini è apparsa caratterizzata da un’analoga
pretesa di assolutezza e di radicalità. «Io sono la via, la verità e la vita – dice Gesù – (…) Nessuno
giunge al Padre se non attraverso di me» (Gv. 14, 6). Proprio su questo dato si fonda la missione
universalistica della Chiesa, che deve raggiungere gli ultimi confini della terra.
Questa esigenza radicale di fede, di sequela nei confronti di Cristo, si scontra, nella temperie
culturale della modernità, con le pretese della ragione di emanciparsi dalla dipendenza nei confronti
di Dio e di chicchessia; e dall’altra parte con il valore del dialogo interreligioso, che si presenta
come un’esigenza imprescindibile di un mondo multicolore e profondamente interconnesso. Di
fronte alla richiesta di Cristo di assoluta radicalità nella fede e nella sequela di Lui - «chi non è con
me è contro di me» - che spazio rimane per l’alterità dell’altro e la sua dignità?
I primi scrittori cristiani si muovono all’interno dell’idea-forza secondo la quale in Cristo è
offerto all’uomo il Lògos universale, nel quale soltanto la verità può essere cercata e scoperta
(sufficienza cristica). In Cristo è dato tutto ciò che di buono, di vero, di bello è possibile attingere, e
tutto questo è contenuto nelle Scritture (sufficienza biblica). Allegoria e simbolismo rappresentano
gli strumenti individuati dai Padri per scavare nelle Scritture al di là della lettera e penetrare nelle
profondità inesauribili del Mistero. Infine la Chiesa si presenta allo sguardo spirituale dei Padri
come il luogo in cui si incontra la verità di Cristo e delle Scritture (sufficienza ecclesiale).
La cultura della modernità che colloca il soggetto in una nuova posizione di centralità
rappresenta un importante spostamento culturale, per cui la totalità viene colta non più in Cristo,
nella Scrittura e nella Chiesa, ma a partire dal soggetto. Nell’ottica della cristologia antropologica,
Cristo rappresenta la sola risposta radicale all’apertura trascendentale dello spirito umano che cerca
risposta alla sua sete di infinito. Cristo non è tanto l’astratta verità del mondo, ma la verità
dell’uomo, supremo compimento delle attese, degli interrogativi e della ricerca della ragione
umana. L’Illuminismo rappresenta la crisi della modernità e l’affacciarsi di un modello nuovo che
potremmo identificare come cristologia storica, secondo il quale Cristo appare, di fronte all’inquieta
ricerca dell’uomo, come il luogo in cui si compie l’incontro dell’umano andare e del divino venire.
Cristo è il senso della storia, non la totalità del cosmo, non la totalità dell’uomo, ma l’orizzonte di
senso.
Tutti tre i modelli cristologici individuabili nel passato sono accomunati da una medesima
pretesa di totalità. In questo sta la ragione della loro debolezza, nel generale declino delle visioni
totalizzanti del mondo e della vita. Ogni tentativo di spiegare il Cristo come verità totalizzante è
destinato al naufragio. Perché se ciò fosse vero, la sua novità apparterrebbe all’orizzonte di questo
mondo, e non rappresenta più il dono totalmente nuovo ed inesigibile offerto da Dio; e la storia.
stessa sarebbe svuotata della sua complessità e della sua tensione verso un compimento che
appartiene al futuro.
Perché l’assolutezza del Cristianesimo non si risolva in ideologia, occorre pensare la
singolarità di Cristo a partire dalla sua fondamentale paradossalità. Nella tradizione greco-latina, ri-
velazione è contemporaneamente manifestazione della presenza e nascondimento dell’assenza; è lo
svelarsi di ciò che è nascosto ed il velarsi di ciò che è rivelato. Il termine revelatus comporta questa
duplice opposta semantica, che si riferisce al gioco di un Dio rivelato e nascosto, conoscibile ma
superiore ad ogni nostra possibile indagine umana.
Alla rivelazione di Dio corrisponde perciò l’obbedienza della fede, che è ascolto di ciò che
sta sotto e oltre rispetto alla parola direttamente udita: oboedientia da ob-audire. Ascoltare la Parola
di Cristo significa ascoltare ciò che sta oltre la parola, il silenzio dell’origine da cui essa proviene.
Questa stessa concezione paradossale della singolarità di Gesù Cristo si ripropone anche a
proposito della mediazione storica della sua Chiesa. Di fronte a questa singolarità misteriosa di
Cristo rimane la libertà dell’uomo, sollecitata a prendere una decisione pro o contro di lui, in nome
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dell’obbedienza della fede. Cristo non può essere imposto a nessuno, può essere solo proposto. La
libertà dell’uomo si esercita nei confronti di un dato esterno al soggetto, che viene ripresentato dalla
mediazione di una comunità di testimoni. E non è mai un fatto intimistico, ma è sempre decisione
consapevole e libera di fronte a un dato esterno al soggetto.
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feconda la storia e il lievito che cresce verso la realizzazione promessa. Il Concilio afferma: «La
Chiesa (…) di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente
crescendo, anela al Regno perfetto» (LG 5). Tra Chiesa e Regno esiste una relazione di identità
dialettica, una tensione fra il «già» e il «non ancora». Nel loro inizio storico, nel loro sviluppo e
nella loro crescita, Chiesa e Regno sono inseparabili. La Chiesa è al servizio del Regno, e si può
parlare di essa come sacramento del Regno, intendo che essa ne è il segno vivo e visibile, abitato
dalla realtà già presente, ma che il Regno al tempo stesso trascende la Chiesa, come il compimento
definitivo comunicato dal sacramento trascende il segno. La trascendenza del Regno rispetto alla
Chiesa si identifica con l’opera dello Spirito, che soffia dove vuole, e risponde al disegno salvifico
universale del Padre, che vuole raggiungere tutti gli uomini, spesso per vie che solo la sua grazia
conosce.
L’ecclesiologia cristocentrica va quindi letta all’interno e maturata verso una cristologia
trinitaria e rispettosa anche di una corretta teologia delle religioni. Se il Regno di Dio è presente
anche nell’«altro», al di là dei confini visibili della Chiesa, questi ha una dignità e un valore che il
cristiano è chiamato a riconoscere proprio in obbedienza alla fede nell’amore salvifico universale di
Dio. Si può dire perciò che le diverse tradizioni religiose contribuiscono, in un modo misterioso,
alla costruzione del Regno di Dio fra i loro seguaci e nel mondo. Questo atteggiamento di apertura e
di profondo rispetto nasce dalla consapevolezza che Cristo si è consegnato alla morte per tutti, e che
il dono che il Padre ha fatto in Lui al mondo è attualizzato in pienezza dalla Chiesa, ma nello Spirito
è all’opera anche al di là dei confini visibili di essa, purché non vi sia contrasto con il
comandamento fondamentale del Vangelo, cioè l’amore. «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto
è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere,
quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa
crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli
uomini» (NA 2).
Questo atteggiamento di profondo rispetto, non toglie però alla Chiesa la responsabilità di
vivere la novità della sua fede in maniera piena e totalizzante, nello stile del dialogo e della
proclamazione, del rispetto e dell’annuncio. «Tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi
hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della
terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà
e il disegno di salvezza si estendono a tutti; finché gli eletti si riuniscano nella Città Santa, che la
Gloria di Dio illuminerà e dove i popoli cammineranno nella sua luce» (NA 1).
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servizio di coloro che hanno autorità (cfr. Lc. 22, 24-27), e Giovanni vede nell’episodio della
lavanda dei piedi l’espressione perfetta del senso interiore dell’istituzione dell’Eucarestia, di cui
egli non parla (v. Gv. 13, 1-30). In forza della fraternità conviviale, la comunità eucaristica deve
comunicare alla sorte del Servo-Gesù, diventando anch’essa serva. Nel memoriale pasquale la
Chiesa nasce come comunità di servizio.
Nell’Ultima Cena Gesù presenta infine la tensione escatologica del suo memoriale: egli
annuncia che non berrà più del frutto delle vite fino al giorno in cui lo berrà nuovo con i suoi nel
Regno del Padre (cfr. Mt. 26, 29 e Mc. 14, 25). Il banchetto della nuova Pasqua rimanda al
banchetto definitivo del Regno, di cui è anticipazione e promessa e verso il quale fa procedere la
storia del mondo.
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b) Gesù e le genti
La missione verso i popoli pagani si viene esplicitando in concomitanza con il dramma
dell’indurimento di Israele. La mensa del Regno, a cui sono invitati innanzi tutto i patriarchi di
Israele, sarà aperta a tutte le genti: «Ora vi dico che molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente, e
siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli, mentre i figli del Regno
saranno cacciato fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti» (Mt. 8, 11-12). «Preparerà il
Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un
banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is. 25, 6-8). La missione profetica
di Gesù ha quindi un andamento graduale e progressivo, quanto ai suoi destinatari.
Dinanzi al rifiuto, l’abbondanza dei beni messianici viene offerta a tutti i popoli. I Dodici
rappresentano il vero Israele, che, accogliendo la Buona Novella, esercita la sua funzione di
«raccolta» per tutti i popoli.
Non si possono quindi contrapporre la missione ad Israele e l’universalismo della salvezza
all’interno dell’unica missione di Gesù, perché ambedue si collocano nell’orizzonte dell’annuncio
del Regno di Dio che viene. Secondo la parola di S. Paolo, se «a causa della loro caduta [dei
membri del popolo ebraico], la salvezza è giunta ai pagani» (Rom. 11, 11), questi diventano a loro
volta strumenti della futura reintegrazione di Israele: «L’indurimento di una parte di Israele è in atto
fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rom. 11, 25-26).
c) Gesù e i discepoli
Nella prospettiva della «raccolta» del Popolo di Dio escatologico, si situa anche la relazione
fra Gesù e i discepoli. I discepoli sono coloro che, accogliendo il messaggio del Regno, si mettono
al seguito del Maestro, in un rapporto analogo a quello esisteva fra i rabbini e i loro allievi. La
novità della sequela di Gesù è però evidente: non sono i discepoli a scegliere Lui, ma è Lui a
chiamarli, insegnando loro non la Torah ma il messaggio dell’avvento del Regno legato alla sua
persona. Le esigenze della sequela sono radicali, eppure la cerchia dei discepoli è abbastanza ampia,
e non poche sono le donne. Questa comunità costituisce l’escatologica famiglia in cui Dio è il Padre
e dove tutti sono fratelli, sorelle, madri intorno a Gesù; è una comunità che vive con semplicità e
gioia e chiamata a rinunciare ad ogni violenza (Mt. 5, 39-42) e ad ogni sicurezza umana («né pane,
né bisaccia, né denaro nella borsa…» Mc. 6, 7-11), per essere aperta e accogliente verso tutti,
poveri, storpi, zoppi e ciechi. Il raduno dei discepoli ha il carattere dell’anticipazione rispetto alla
comunità della Nuova Alleanza che nasce dalla Pasqua di Gesù.
Il Cristo e la Chiesa
In conformità con la volontà di Gesù, la Chiesa nasce come popolo escatologico, chiamato a
mostrare al mondo, con la sua presenza, la sua vita e la sua opera, che il Regno di Dio è già presente
e operante. I prodigi e i miracoli che si compiono nella Chiesa delle origini lo testimoniano. É una
comunità consapevole della salvezza già ottenuta in Cristo, ma di una salvezza anche ancora attesa
nel suo pieno compimento, che deve ancora manifestarsi. In quanto consapevole di essere la
comunità escatologica, la comunità apostolica si presenta come alternativa; in essa le divisioni
sociali, razziali, sessuali che vigevano nella cultura del tempo perdono di significato, a favore di una
fraternità che nella comune fede lega tutti i cristiani. «Tutti voi siete figli di Dio. (…) Non c’è più
giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna» (Gal. 3, 26-29).
L’infuocata parola di S. Paolo si impegna per far maturare il passaggio dalla schiavitù nei
confronti delle osservanze formali e legali caratteristiche dell’Antico Testamento, alla libertà nuova
della fede in Cristo. La lettera scritta a Filemone testimonia anche la forza dirompente dello spirito
fraterno che animava la Chiesa apostolica, tale da smantellare la legislazione schiavista e instaurare
una società alternativa dove ogni tipo di divisione viene meno. Anche la discriminazione uomo-
donna viene eliminata, in una comunità dove, secondo le parole stesse di S. Paolo, uomini e donne
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lavoravano insieme per la diffusione del Vangelo, secondo il mandato del Signore.
Il carattere alternativo della Chiesa del Nuovo Testamento risplende però soprattutto nel
primato della carità. Il comandamento di Gesù impegna ad amare tutti, anche i nemici, ma in primo
luogo a vivere rapporti nuovi, di unione, di fraternità e di pace al suo stesso interno. Nessuno deve
farsi più grande degli altri, ma al contrario riconoscersi solidale con tutti e a tutti uguale in dignità.
L’immagine della Chiesa Corpo di Cristo è il frutto più maturo del pensiero ecclesiologico
neotestamentario.
Nello stadio più antico l’idea di corpo è concepita per indicare il rapporto dei membri della
Chiesa fra di loro. «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno
tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e
ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rom. 12, 4-5). Tra i membri esiste una
complementarietà tale che essi sono in Cristo non una somma eterogenea, ma un vero “corpo”:
ciascuno ha il suo dono e deve svolgere il ministero che gli è stato affidato, riconoscendo e
rispettando quello degli altri, nella permanente tensione verso l’unità, di cui il corpo ha bisogno per
vivere.
L’origine la massima espressione di questa profonda unità che unisce inscindibilmente la
comunità dei discepoli e il Corpo stesso di Cristo è nella Cena del Signore: «Il pane che noi
spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor. 10, 16-17). Accanto a
questo la partecipazione all’unico Battesimo rende i molti un corpo solo nello Spirito: «In realtà noi
tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o
liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Cor. 12, 13). Ciò che è già realizzato dal
Battesimo, ossia la comunione ecclesiale tra i discepoli di Cristo, viene fondato e consolidato in
profondità mediante l’Eucarestia. In questo corpo ecclesiale esercitano un ruolo peculiare di unità
coloro che fungono da capo-famiglia del banchetto pasquale, al posto dei Dodici, a cui il capo-
famiglia dell’Ultima Cena aveva affidato il mandato di celebrare nel tempo a venire il suo
memoriale.
Le lettere agli Efesini e ai Colossesi rappresentano uno sviluppo teologico nel senso di una
stretta identità fra il Cristo e il suo corpo ecclesiale. Cristo è il fondamento perenne della Chiesa,
l’origine e il fine del suo dinamismo interiore. «Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di
crescere in ogni cosa verso di Lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben scompaginato e
connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro,
riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef. 4, 15-16).
L’unione con il Signore Gesù comporta l’unione con i fratelli condiscepoli, vissuta nella
piena concretezza dei rapporti ecclesiali. La relazione originaria e costitutiva stabilita tra Cristo e i
suoi è espressa dalla lettera agli Efesini con l’immagine della Chiesa Sposa unita allo Sposo: «E
voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per
renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di
farsi comparire davanti la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma
santa e immacolata. (…) Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!»
(Ef. 5, 25-27.32). La Chiesa è amata e continuamente oggetto delle cure dello Sposo, a cui essa
corrisponde nella dedizione obbediente. É la relazione d’amore tra Cristo e i suoi che costituisce la
Chiesa nella sua nascita, nella sua crescita, nella sua destinazione gloriosa.
unisce nella comunione e nel servizio, la guida nel tempo perché resti fedele al suo Signore e alla
sua identità, ma anche la rinnova e la santifica senza sosta. Vediamo quindi ora questi tre aspetti
dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa più in dettaglio.
La comunione ecclesiale
La êïéíùíßá come partecipazione alla vita divina si esprime e si verifica nella comunione
ecclesiale. «Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e
non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in
comunione gli uni con gli altri» (1 Gv. 1, 6-7). Giovanni vede la fraternità cristiana come frutto
diretto della comunione con la vita divina realizzata mediante l’incontro con il Signore Gesù. La
comunione d’amore che lega il Figlio al Padre e agli uomini è allo stesso tempo il modello e la
sorgente della comunione fraterna che dovrà legare i discepoli fra di loro. Giovanni esprime questo
concetto teologico con la proposizione êáèþò (come) in diversi lòghia nei quali viene stabilita una
corrispondenza tra la vita di Dio e la vita ecclesiale. Il legame permanente grazie al quale la vita del
Maestro si prolunga in quella dei discepoli è costituito dallo Spirito. «Dove c’è la Chiesa, lì c’è
anche lo Spirito di Dio; e dove lo Spirito di Dio, lì la Chiesa e ogni grazia» (sant’Ireneo, Adversus
Haereses, III, 24, 1).
La comunione fra i credenti non è uno statico possesso, ma impegno e dinamismo vitale per
la causa del Vangelo. La Chiesa primitiva, consapevole della comunione donata dallo Spirito Santo,
era anche una comunità concreta che viveva le problematiche di una comunione da consolidare
sempre, da sanare dalle lacerazioni che si producevano, e da vivificare nonostante le differenze e le
divisioni di fede. La Chiesa dell’amore è anche la Chiesa della verità, intesa innanzi tutto come
fedeltà al Vangelo. La comunione nella fede si visibilizza nella comunione fra le diverse forme in
cui l’unico servizio al Vangelo si realizza storicamente. Un’espressione della comunione ecclesiale
particolarmente evidente nel Nuovo Testamento è la solidarietà verso i più deboli e i più poveri. La
comunità cristiana dovrà essere caratterizzata sempre dalla sollecitudine per le necessità dei fratelli
e dalla premura nell’ospitalità, dalla corresponsabilità per il sostegno di chi si dedica all’istruzione
nella fede, dalla condivisione delle gioie e dei dolori, dalla cooperazione al servizio del Vangelo.
Ist. Superiore Scienze Religiose – Sanremo don Goffredo Sciubba
A.A. 2009/2010 Ecclesiologia 15
Tradizione è la koinonìa dello Spirito Santo nella sua dimensione temporale, è la continuità
organica dell’edificio in crescita, che è il Tempio santo, sempre sostenuto dal fondamento
apostolico e tenuto insieme dalla pietra angolare che è Cristo, e sempre vivificato dallo Spirito
Santo.
Questa Tradizione è apostolica nelle sue origini: i Dodici trasmettono fedelmente il dono ricevuto,
che è la Buona Novella del Regno venuto in Gesù Cristo; la comunità dei discepoli, che così nasce,
si riconosce fondata sulla testimonianza di coloro che per primi hanno fatto esperienza del Signore;
ed è impegnata a trasmettere ad altri se stessa come presenza attuale del Signore e del suo Mistero
pasquale. «Ciò che fu trasmesso dagli Apostoli comprende tutto quanto contribuisce alla condotta
santa e all’incremento del Popolo di Dio. Così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo
culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (DV
8). La Tradizione è la storia dello Spirito nella storia della sua Chiesa.
Quali rapporti allora possiamo stabilire tra la testimonianza della Sacra Scrittura e la
Tradizione apostolica? Da una parte la Scrittura giudica la Tradizione, perché essa contiene la
rivelazione da cui la Tradizione vivente nasce e su cui essa si fonda: un dottrina o una consuetudine
in aperta contraddizione con la testimonianza della Scrittura non può certamente appartenere alla
genuina Tradizione apostolica. D’altra parte, l’interpretazione delle Scritture potrebbe essere
soggetta ad ogni arbitrio – come la storia del Cristianesimo insegna – se non vi fosse un criterio
oggettivo su cui misurarla. Eppure oggi siamo consapevoli che ogni interpretazione è segnata dalla
storicità, perché legata al soggetto interpretante, alla sua situazione, cultura e psicologia.
Possiamo dire che laddove un’interpretazione della rivelazione esprime il consenso unanime
degli interpreti della Chiesa nel tempo, essa ha titoli sufficienti per essere considerata parte della
fede apostolica. É il criterio formulato da S. Vincenzo di Lérins intorno alla metà del V secolo:
«Nella Chiesa cattolica bisogna avere la più grande cura nel ritenere ciò che è stato creduto
dappertutto, sempre e da tutti (quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est)».
Questo autorevole insegnamento non è tuttavia privo di limiti, perché l’accordo o il
disaccordo di una maggioranza non è sufficiente, nella sua materialità, a garantire il patrimonio
autenticamente apostolico della fede della Chiesa. Esso, poi, da solo, comporta il pericolo di un
immobilismo che lega la fede esclusivamente al passato, privandola di quella carica profetica che la
rende feconda nell’oggi e illuminante in riferimento al futuro. Al «canone leriniano» dobbiamo
quindi aggiungere altri criteri fondamentali per il discernimento della verità della tradizione
apostolica.
Il primo è quello del «senso di fede (sensus fidei)», che si rivolge all’attuale sensibilità
propria dell’intero corpo dei credenti: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello
Spirito Santo non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che le è particolare
mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando ‘dai vescovi fino agli ultimi
laici’ esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi. Infatti, per quel senso della
fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro
magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie non la parola degli uomini, ma, qual è in
realtà, la Parola di Dio, aderisce indefettibilmente ‘alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi’,
con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita » (LG 12).
Un terzo criterio è quello che i teologi chiamato la «recezione (receptio)», ossia il processo
di discernimento e di assimilazione progressiva della fede, a cui concorrono la conoscenza
teologica, il magistero dottrinale e l’intelligenza spirituale dei credenti, frutto dell’esperienza dello
Spirito. La Chiesa infatti costantemente approfondisce e sviluppa la sua fede con il contributo che
ogni generazione di cristiani apporta alla ricchezza già accumulata nel passato. «La Tradizione, che
trae origine dagli apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la
comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo
studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi
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provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale
hanno ricevuto un carisma certo di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende
incessantemente alla pienezza della verità divina» (DV 8).
Tanto il criterio del sensus fidei quanto quello della receptio implicano un’opera di
discernimento che non è sempre univoca: ciò che non è recepito oggi potrebbe esserlo domani, e ciò
che il senso della fede ritiene oggi parte integrante delle fede evangelica può non essere stato affatto
tematizzato nel passato. Perciò nella Chiesa è necessario un ministero dotato del carisma del
discernimento della verità per l’utilità comune. Per la teologia cattolica la Parola non è distinta e
autonoma dalla Chiesa, ma vive nella Chiesa, come la Chiesa vive della Parola, in una relazione di
reciproca dipendenza.
3
CLEMENTE ROMANO, Ad Corinthios, 42. 44.
4
S. IRENEO, Adversus Haereses, III, 3, 1.
5
S. IRENEO; Adversus Haereses, IV, 26, 2.
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sull'apostolicità della dottrina e della fede, nel senso che non si è successori degli Apostoli se non
restando nella fede degli Apostoli: «I vescovi salvaguardano la oro autorità nella misura in cui
concordano con il Cristo: ugualmente la perdono se sono in disaccordo con lui» 6. Perciò Scrittura,
Tradizione e Chiesa non andranno mai separate. Esse rappresentano i mezzi che Dio ha insieme
disposto, sotto l'attività e l'influenza sempre attuale dello Spirito Santo, per comunicarci la
rivelazione fatta una volta per tutte. L'unica «koinonìa» dello Spirito nel tempo si esprime così in
una «pericoresi» di aspetti, che costituiscono la complessità, ma anche la ricchezza e la bellezza del
mistero della Chiesa nella storia: Chiesa, Vangelo e Tradizione stanno insieme o cadono insieme.
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«luoghi»dell’incontro con Dio nel tempo che sono i sacramenti. La celebrazione liturgica e
sacramentale rappresenta la fonte e il culmine della santità della Chiesa. Alle sorgenti della liturgia
il cristiano attinge la Grazia, vivendo la comunione con gli altri credenti ed edificando il Parola di
Dio che cammina nella storia. Nell’evento liturgico si manifesta il carattere escatologico dei
sacramenti, in quanto in essi la Grazia si fa presente nel tempo come anticipo e caparra di eternità.
La santità nella Chiesa non è altro che un anticipo della gloria nel tempo del pellegrinaggio, che
tende ed aspira alla pienezza futura.
Attraverso al comunione ai sacramenti, la Chiesa genera figli a Dio, diventando essa stessa
sorgente di vita e di santità nello Spirito. In questo senso i Padri della Chiesa usavano la bellissima
immagine della «Mater Ecclesia». Essa esprime l’idea di una Chiesa che si realizza nella
comunicazione dello Spirito dall’uno all’altro dei credenti, che è ambiente generatore fede e di
santità. La Chiesa esercita una vera funzione di mediazione nella salvezza, accogliendo in sé il
Seme divino, e generando, nutrendo e allevando i suoi figli.
Per gli antichi Padri, la Chiesa è Madre dei viventi, Chiesa del dolore e Regina eterna.
Madre dei viventi, perché, come Eva dal primo Adamo, nasce dal nuovo Adamo morente in croce.
Il momento in cui possiamo riconoscere la nascita della Chiesa è proprio quello della morte del
Crocifisso, cioè quello in cui si compie la redenzione dell’umanità dal peccato. Nel sangue effuso
da Gesù durante la passione, e reso presente nei sacramenti, la Chiesa è genitrice di vita nuova nello
Spirito. Essa poi è Chiesa dei dolori, non solo a causa delle persecuzioni che le vengono scatenate
contro, ma soprattutto per i tradimenti, i fallimenti, i ritardi e le contaminazioni dei suoi figli.
Confortata dalla Grazia dei sacramenti e dalla consolazione dello Spirito Santo, la Chiesa sostiene i
suoi figli sofferenti, condividendone la fatica e il dolore. La Chiesa infine è Regina eterna, non solo
perché attende la gloria, ma perché questa è già presente incoativamente in essa.
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pellegrini non è ancora realizzato, e indica che la promessa di Dio è senza pentimento.
Il luogo in cui la Chiesa fa particolare esperienza della comunione dei santi è la preghiera,
specialmente la preghiera liturgica. La preghiera cristiana è una relazione profonda con Dio che si
rivolge nello Spirito, per il Figlio al Padre. In questo movimento trinitario la preghiera fa
sperimentare la “comunione dei santi”, e cioè il vincolo profondissimo che lega nello Spirito Santo
non solo la Chiesa pellegrina a quella celeste, ma anche nel tempo presente l’intercessione degli uni
a favore della sofferenza e del cammino degli altri. L’affidarsi alla beatissima Vergine Maria, il
chiedere aiuto alla preghiera altrui e l’offrire con generosità la propria sono espressioni spontanee
della carità della preghiera.
LA CHIESA COMUNIONE
La Chiesa, come abbiamo visto, viene dalla Trinità ed è destinata alla Trinità, e dunque essa
a immagine della SS. Trinità, è strutturata una nella diversità. La Chiesa è il popolo adunato dalla
SS. Trinità, partecipe della sua vita divina e modellato sulle relazioni che uniscono le divine
Persone nella loro distinzione e nell’insondabile unità del loro amore essenziale. “La Chies
universale si presenta come ‘un popolo adunato dall’unità del Padre del Figlio e dello Spirito Santo’
(cfr. S. CIPRIANO, De Oratione Dominica, 23)” (LG 4). A immagine e somiglianza di quanto
avviene nella vita trinitaria, l’unità nella Chiesa fonda e alimenta ogni distinzione e articolazione
particolare. L’unità ecclesiale è perciò detta “cattolica”, perché porta in sé l’idea della totalità, della
completezza, dell’universalità. Concretamente l’unità cattolica si esprime nella varietà delle sue
concretizzazioni, così come nel mistero della SS. Trinità la mutua in abitazione (“pericoresi”) delle
Persone divine si compone con la loro distinzione. La Chiesa universale, similmente, si manifesta
come comunione di Chiese; potremmo dire, si manifesta nel mistero di una “pericoresi” delle
Chiese.
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impedisce cioè che una certa partecipazione all’unità cattolica prodotta dallo Spirito possa trovarsi
al di fuori dei suoi confini visibili.
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usualmente di Cristo. La Chiesa infatti è sacramento in rapporto a Cristo: «Per una non debole
analogia, la Chiesa è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta è al
servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito, in modo non
dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la
crescita del corpo» (LG 8).
Poiché la Chiesa è “sacramento”, questa sua dimensione si attua nella maniera più piena
attraverso i sacramenti, ossia quei “luoghi” dell’incontro con Dio, dove il dono della salvezza
raggiunge le persone e le situazioni per rigenerarle nella comunione con la SS. Trinità e fra di loro.
In particolare è nell’eucarestia che il Corpo di Cristo ci rende Corpo di Cristo. Possiamo dire che
l’eucarestia è il sacramento della Chiesa, che è il sacramento di Cristo, che è il sacramento di Dio.
Nell’evento eucaristico si condensa tutta l’economia della salvezza e si attua nella sua forma più
piena la comunione umano-divina operata da Cristo.
Non a caso gli antichi cristiani chiamavano con la stessa terminologia «Corpus Christi» il
corpo storico, il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale di Cristo, mostrando così le profonde
connessioni del mistero dell’unità salvifica in tutti i suoi aspetti.
La concezione sacramentale della Chiesa, per la quale il visibile e l’umano sono il segno e lo
strumento dell’invisibile e del soprannaturale, consente il superamento di ogni visione riduttiva
della Chiesa, tanto nel senso del visibilismo, che esaspera l’aspetto istituzionale, quanto nel senso
dello spiritualismo, che assolutizza l’elemento interiore.
Cristo, di cui la Chiesa è sacramento, riconciliando gli uomini nel Padre nel Suo Spirito, li
ha riconciliati tra loro come fratelli. «La Chiesa è ‘l’universale sacramento della salvezza’, che
svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (GS 45).
Questa realtà sacramentale della Chiesa si dilata per tutta la lunghezza della storia salvifica,
per tutti i secoli, fino a quando scomparirà la stessa economia sacramentale, poiché ai segni
subentrerà allora la realtà.
In questo tempo intermedio si situa anche il dramma dell’infedeltà della Chiesa, che mette in
ombra la luminosità del segno, che essa deve elevare tra tutti i popoli. Il peccato rientra nelle
possibilità del tempo posto fra la salvezza già presente e operante nella storia e il suo compimento
definitivo, non ancora arrivato. In questo senso la Chiesa è una realtà complessa: è Chiesa dei
peccatori e comunione dei santi, è la realizzazione transitoria del senso finale della storia, e cioè
l’unità e la pace tra gli uomini e tra i popoli mediante la loro unione con Dio.
Communio Ecclesiarum
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dell’Eucarestia nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente
presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (CD 11). Il decreto
conciliare sull’ecumenismo, nella parte dove si riferisce ai rapporti tra Chiesa cattolica e Chiese
Orientali, sottolinea come nella comunità eucaristica la Chiesa non solo è presente ma anche cresce
e viene edificata e si sviluppa. «Per mezzo della celebrazione dell’Eucarestia nelle singole Chiese la
Chiesa di Dio è edificata e cresce e per mezzo della concelebrazione si manifesta la loro
comunione» (UR 15).
La comunione della Chiesa locale, raccolta attorno al vescovo, come l’intera Chiesa
cattolica sono chiamate a vivere una comunione più ampia con le altre Chiese sul fondamento
dell’unica Eucarestia. La dialettica universalità/località non è una dialettica di contrapposizione, ma
chiede di venir letta in termini di «pericoresi» trinitaria. Il significato fondamentale della Chiesa
locale nell’ecclesiologia eucaristica di comunione risulta anche da una considerazione di ordine
antropologico. Tutti gli esseri umani esistono solo in quanto situati entro rapporti storici radicati in
una tradizione, in una cultura. Il messaggio salvifico va «inculturato», cioè tradotto nelle categorie
proprie del contesto storico, linguistico, sociale e culturale in cui viene annunciato. La massima
espressione di questa inculturazione della Parola e della Comunità che ne è portatrice è l’Eucarestia,
celebrata nelle concrete coordinate spazio-temporali. In essa la Chiesa parla il linguaggio dei suoi
figli, pensa con le loro categorie, vive le tensioni e le contraddizioni che essi vivono, e fa risuonare
in esse la forza liberante e vivificante del Vangelo. É entro queste considerazioni che il Concilio
Vaticano II riscoprì il fondamentale valore ecclesiologico della Chiesa locale, attribuendo ad essa a
pieno titolo il valore di soggetto ecclesiale e garantendole l’indispensabile spazio di autonomia e di
creatività.
In conseguenza di tutto ciò venne anche affermata la dignità sacramentale del ministero
episcopale, in quanto proprio il vescovo è il pastore-guida della Chiesa diocesana. La soggettività
ecclesiale della Chiesa locale esige però l’esercizio reale del principio di sussidiarietà, secondo il
quale quanto può essere fatto a livello locale non deve essere rimandato ad un livello superiore.
Anche a livello pastorale è necessario riscoprire tutto il significato e le conseguenze della Chiesa
locale nella sua dignità e autonomia.
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In considerazione di tutto quanto affermato fin qui, possiamo dire che la natura della Chiesa,
così come la intendeva la prima tradizione cristiana, è la comunione, è Chiesa di Chiese, e che la
relazione alla comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo resta per essa costitutivo ed
essenziale.
L’idea di una «pericoresi» ecclesiologica radicata nel mistero stesso della partecipazione
alla vita divina nello Spirito si offre come la più profonda per esprimere la communio ecclesiale.
Potremmo tradurre in questi termini, con il Congar: «Esiste una presenza mutua della Chiesa totale
nella Chiesa particolare, e della Chiesa particolare nella Chiesa totale». Da una parte la Chiesa
esiste nelle Chiese locali, nel senso che si fa presente in esse e vi trova la sua espressione storico-
concreta; dall’altra parte, però la Chiesa universale non è somma di parti, ma l’unica Chiesa di Dio
ovunque diffusa; non è una federazione di entità diverse e autonome, ma l’espressione dell’unità
cattolica, che fa di tutte una sola Chiesa. Non si può dunque contrapporre la Chiesa locale, espressa
nel suo vescovo, alla Chiesa universale, rappresentata dai vescovi in comunione con il vescovo di
Roma. Come l’Eucarestia è una ed unica in tutte le assemblee eucaristiche in cui viene celebrata,
così il mistero della Chiesa cattolica è uno ed unico in tutte le sue realizzazioni locali o particolari,
anche se in ciascuna l’unità della Chiesa prende volto nella concretezza dei rapporti storici. Si può
dire che le Chiese locali esistono veramente solo nella Chiesa cattolica e a partire da essa.
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l’intima esigenza dell’unità trova nel ministero di comunione al tempo stesso la sua espressione, il
suo garante e lo strumento che la attua.
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a) La sacramentalità dell’episcopato.
Il Vaticano II presenta l’origine dell’episcopato a partire dall’iniziativa di Gesù, che, dopo
aver chiamato i Dodici, «costituì nella forma di un collegio, o di un gruppo stabile, del quale mise a
capo Pietro, scelto di mezzo a loro» (LG 19). Ciò che costituisce il collegio apostolico non è una
convergenza di interessi umani, ma il mistero assolutamente trascendente dell’elezione divina. È su
questo collegio che Gesù fondò la Chiesa universale. Prova ne è, tra l’altro, che ad esso Egli volle
affidare il memoriale pasquale nell’Ultima Cena.
Proprio perché questa missione dovrà durare fino alla fine dei secoli, fu necessario che gli
Apostoli si costituissero dei successori. «I vescovi hanno ricevuto il ministero della comunità con
l’aiuto dei presbiteri e dei diaconi, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui sono i pastori, quali
maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri di governo. […] Il sacro Concilio insegna che
i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli, quali pastori della Chiesa:
chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e Colui che ha mandato Cristo» (LG
20).
Il Vaticano II afferma con chiarezza la sacramentalità dell’episcopato. L’atto che conferisce
il dono dello Spirito Santo per il ministero è la consacrazione episcopale, costituita dall’imposizione
delle mani da parte dei vescovi ordinanti e dalla preghiera. «Il santo Concilio insegna che con la
consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine» (LG 21). Il
termine «pienezza» sta ad indicare la totalità, alla quale gli ordini inferiori partecipano, ed esprime
la prospettiva discendente adottata dal Concilio Vaticano II: dall’episcopato, pienezza, al
presbiterato e al diaconato, partecipazione. Questa prospettiva risulta così radicalmente innovativa
rispetto a quella ampiamente diffusa nel passato nella teologia cattolica, che vedeva l’episcopato a
partire dal presbiterato come una semplice estensione giuridica di compiti, tenendo in
considerazione che l’episcopato non comportava alcun potere aggiuntivo superiore a riguardo
dell’Eucarestia. Il testo conciliare, affermando che il compito di santificare, di insegnare e di
governare è conferito nell’atto dell’ordinazione episcopale, dà una forte radicazione sacramentale a
tutto il ministero del vescovo. Non si tratta quindi aridamente di un’estensione di giurisdizione - per
cui il servizio episcopale non può essere ridotto ad un fatto di amministrazione canonica fatta per
delega dall’autorità suprema -, ma è vero dono di Grazia.
b) La collegialità episcopale.
La collegialità episcopale si rende visibile in modo particolare nei concili regionali, che non
sono da intendere solo come luoghi di decisione comune, ma come veri e propri eventi liturgici.
Nella medesima linea possono essere visti i Concili ecumenici, nei quali si ha la più alta
manifestazione della comunione delle Chiesa e della collegialità dei loro vescovi. Ma il fondamento
sacramentale della collegialità episcopale risalta dall’ininterrotta tradizione liturgica della Chiesa,
secondo la quale la presenza di più vescovi è richiesta per la consacrazione di un nuovo vescovo. La
consacrazione episcopale appare in questo modo quasi come un piccolo concilio: è l’ammissione in
un collegio, che si attua mediante il collegio. Per entrare a far parte del collegio è richiesta quindi
anzitutto la radice sacramentale, per la quale lo Spirito infonde nell’eletto il carisma del ministero, e
a questa si aggiunge la comunione effettiva col capo e con gli altri membri del collegio.
Le relazioni fra il collegio dei vescovi e il vescovo di Roma sono da intendersi in base al
principio che la distinzione non è fra il Romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma fra il
Romano Pontefice separatamente e il Romano Pontefice insieme con i vescovi.
«L’ordine dei vescovi […] è insieme con il suo capo, il Romano Pontefice, e mai senza di
esso, soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se
non con il consenso del Romano Pontefice» (LG 22).
Il papa, in quanto capo del collegio episcopale, può agire sia da solo sia unito ai vescovi; il
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collegio non può agire che col papa, che ne fa parte come capo. In entrambi i casi, il papa da solo o
il papa con i vescovi, hanno sulla Chiesa una potestà piena e suprema.
Il collegio episcopale è icona della comunione trinitaria per la feconda correlazione che
esiste tra unità e varietà. In quanto composto da molti, esso esprime la varietà e l’universalità del
Popolo di Dio, in quanto raccolto sotto un solo capo, esprime l’unità del gregge di Cristo.
L’armonia fra l’uno e l’altro aspetto è frutto dell’azione dello Spirito Santo.
In questa comunione, di cui il collegio episcopale è espressione e strumento, ogni singolo
vescovo rappresenta l’unità della propria Chiesa particolare, nella quale si realizza la Chiesa
cattolica. «I vescovi, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle
loro Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle
quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa,
e tutti insieme col papa rappresentano tutta la Chiesa» (LG 23). Ogni vescovo è investito di una
«sollecitudine per tutte le Chiese», ed è chiamato ad esprimerla soprattutto nella corresponsabilità e
nella cooperazione nell’opera missionaria. Poiché ogni Chiesa particolare non è solo una parte, ma
è veramente Chiesa, colui che sta a capo di una Chiesa ha necessariamente importanza per tutta la
Chiesa in generale.
LA CHIESA IN MISSIONE
«La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del
Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre. Quanto in lui [Cristo] si
è compiuto per la salvezza del genere umano, deve essere proclamato e diffuso fino alle estremità
della terra […], così che ciò che una volta è stato operato per la comune salvezza, si realizzi
compiutamente in tutti nel corso dei secoli» (AG 2. 3. 4.). come avviene nel mistero trinitario anche
per la Chiesa la missione scaturisce dal più profondo del mistero della sua comunione. Scaturendo
dalla Trinità, la missione della Chiesa ha come suo ultimo compimento e destinazione la comunione
trinitaria dell’universo riconciliato.
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1) Comunione e missione.
Si può affermare che la missione non è altro che “cattolicità” della Chiesa nel suo aspetto dinamico.
Il dinamismo missionario è stato variamente vissuto e pensato nello sviluppo storico del Popolo di
Dio.
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In questo senso si può parlare di una triplice cattolicità relativamente alla missione: la
cattolicità del soggetto missionario, quella del contenuto dell'annuncio, che è la fede cattolica,
quella del destinatario della missione, che è tutto l'uomo, ogni uomo.
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L'ecclesiologia di comunione vede l'unità arricchita e non mortificata dalla diversità, riconoscendo
l'opera originale dello Spirito Santo in ciascun battezzato e in ciascuna Chiesa particolare.
La laicità nella Chiesa comporta anche il primato della coscienza e della motivazione
interiore rispetto ad una osservanza puramente esteriore e formale. La laicità della Chiesa chiama
alla corresponsabilità di tutti i battezzati nel processo di mediazione fra la salvezza e la storia,
coniugando la fedeltà al mondo presente alla fedeltà al mondo che deve venire, mantenendoli
entrambi in un rapporto dialettico.
Riconoscere il valore della "laicità" in ecclesiologia comporta da parte della Chiesa
l'assunzione della dignità propria e dell'autonomia delle realtà terrestri. Una Chiesa in dialogo e al
servizio di tutti gli uomini riconosce di non essere la depositaria esclusiva del bene e del vero. Pur
restando fermo il primato della Parola di Dio, che è normativa per la vita di fede, la Chiesa saprà
entrare in rapporto positivo anche se critico con le culture, riconoscendo le specificità di ciascuna,
per metterla in comunicazione feconda con il Vangelo, rifiutando ogni identificazione esclusiva fra
il messaggio della fede e una specifica cultura.
c) Comunione, testimonianza e servizio.
Il rapporto fra la Chiesa e il mondo può essere descritto efficacemente dal triplice
atteggiamento della comunione, della testimonianza e del servizio.
La Chiesa si presenta al mondo anzitutto come luogo di pace, dove la carità è principio
ispiratore e norma suprema. La lunga storia di conflitti e lacerazioni all'interno della comunità
ecclesiale rappresenta una dolorosa contraddizione rispetto a questa sua vocazione essenziale.
La Chiesa poi non annuncia se stessa, ma il Signore e a Lui sa di essere totalmente relativa.
In una dialettica di prossimità e di separazione. di compassione e di confronto dialettico sta la
specificità della testimonianza che i seguaci di Cristo devono rendere al mondo, dando ragione della
speranza che è in essi (cfr. 1 Pt. 3, 14-16).
Il servizio, infine, rappresenta lo stile con cui la Chiesa si rapporta al mondo. E'
l'atteggiamento scelto da Gesù stesso: "Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (Lc. 22, 27). Nel
servizio ecclesiale si riflette lo stesso movimento della carità divina che ha spinto Gesù, da ricco
che era a farsi povero per noi, perché noi diventassimo ricchi" (cfr. 2 Cor. 8,9). Secondo la non
debole analogia che unisce Incarnazione e Chiesa, il servizio in cui si esprime la missione ecclesiale
comporta la condivisione delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce, della povertà e
dei beni, della cultura e del linguaggio, tipiche degli uomini. Ma all'"essere con" si unisce pure
l'"essere per", ossia l'azione profetica, che è sempre purificatrice rispetto alle ambiguità intrinseche
ad ogni espressione umana.
8.3 Missione ed "éschaton".
La Chiesa che viene dalla Trinità non ha il suo destino ultimo in questo mondo, ma va verso
la Trinità nel cammino del tempo. La risurrezione di Cristo ha inaugurato i tempi nuovi; il tempo
della Chiesa è il "frattempo" fra il dono già ricevuto e la promessa non ancora pienamente
realizzata.
a) L'indole escatologica del Popolo di Dio.
L'uomo non cessa di appartenere alla città terrestre, ma, una volta redento, non è più legato
ad essa con vincoli esclusivi e totalizzanti. La redenzione, già presente e all'opera, grazie alla
riconciliazione compiuta da Cristo e all'azione santificatrice dello Spirito, non è ancora pienamente
compiuta: il tempo della Chiesa è il tempo "penultimo", nel quale deve essere portata al suo pieno
compimento la salvezza già inaugurata. La dimensione escatologica, quindi, caratterizza l'intera
realtà ecclesiale.
Il luogo in cui il "già" si fa presente nella comunità ecclesiale per condurla verso il "non
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ancora" è per eccellenza l'Eucarestia. Essa è il sacramento della speranza ecclesiale, nel quale "ci è
dato il pegno della gloria futura" (liturgia); è l'alimento grazie al quale l'attesa delle cose ultime è di
continuo ravvivata e nutrita nel Popolo di Dio.
Da questa "indole escatologica" deriva alla Chiesa la consapevolezza della propria relatività:
essa riconosce di essere solo uno strumento e non un fine.
Il Popolo di Dio sa di essere in cammino. La Chiesa è chiamata ad un incessante
rinnovamento e ad una continua purificazione.
L'indole escatologica porta la Chiesa a relativizzare anche le grandezze di questo mondo e la
sua superbia. La Chiesa non può identificarsi con nessuna ideologia, forza sociale, o sistema
politico o economico, ma di tutti deve essere coscienza critica, richiamo dell'origine prima e alla
destinazione ultima.
b) L'universale vocazione alla santità nella Chiesa e la vita religiosa come segno.
La Chiesa, per la sua incondizionata appartenenza a Dio, è chiamata a risplendere per la sua
santità, ed è santa sul piano dell'ontologia della grazia, perchè santificata da Cristo con il suo
sangue, e mantenuta nella santità grazie allo Spirito che la pervade incessantemente. La chiamata
alla santità nel Popolo di Dio è universale, e ogni concezione individualistica della santità va
superata in questo orizzonte ecclesiale.
La santità è anzitutto un dono, la cui essenza profonda è la carità. A questo dono i credenti
devono corrispondere con la loro libertà: in questo senso la santità è pure un impegno, adesione
libera ed esigente al disegno del Signore su ciascuno, risposta che invita a ricambiare gratuitamente
quanto gratuitamente ci è stato donato.
Un vero e proprio segno profetico dell'impegno di risposta della Chiesa alla chiamata alla
santità lo può riconoscere nella vita religiosa. Esso rende visibile per tutti i credenti la presenza già
in questo mondo dei beni celesti, testimonia la bellezza della vita nuova ed eterna acquistata dalla
redenzione di Cristo. Lo stato religioso fedelmente imita e continuamente rappresenta nella Chiesa
la forma di vita che il Figlio di Dio fece sua quando venne nel mondo per fare la volontà del Padre e
che propose ai discepoli che lo seguivano. I religiosi sono chiamati a testimoniare l'assoluto primato
dell'opera di Dio sull'uomo, specialmente facendo propria la dimensione contemplativa della vita, in
cui la creatura si lascia docilmente plasmare dalla grazia dello Spirito.
La Chiesa però, santa per la chiamata e la fedeltà di Dio, per parte sua è anche peccatrice
nelle colpe dei suoi figli. Il perdono la trasforma da prostituta in sposa, ed è Chiesa per grazia. "La
Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto
istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno" (UR 6).
c) Maria, "icona" escatologica della Chiesa.
Maria è membro vivo ed eminente del Popolo di Dio, ma è anche riconosciuta quale
immagine ed eccellentissimo modello nella fede e nella carità. Questo essere membro della Chiesa e
allo stesso tempo immagine e modello non sono dimensioni inconciliabili tra loro.
Innanzi tutto consideriamo in Maria la sua condizione verginale. La Vergine Maria e la
Vergine Chiesa sono entrambe totalmente rivolte al primato di Dio: la loro verginità consiste
innanzi tutto nel custodire pura la fede, che le rende accoglienti davanti al Mistero; e nel vivere la
loro obbedienza a Dio con fedeltà.
Maria è anche icona della maternità della Chiesa. Quest'ultima diventa essa pure Madre,
perché con la predicazione e il Battesimo genera a vita nuova e immortale i figli concepiti ad opera
dello Spirito Santo e nati da Dio (cfr. LG 64). Le testimonianze patristiche in questo senso sono
innumerevoli. La Chiesa sa di imitare la Madre di Dio quando fa nascere Cristo nel cuore degli
uomini, soprattutto attraverso l'annuncio della Parola, la celebrazione dei sacramenti e l'esercizio
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della carità. Maria, Madre della Chiesa, "col concepire Cristo, generarlo, nutrirlo, presentarlo al
Padre nel Tempio, soffrire con il Figlio suo morente sulla croce, ella ha cooperato in modo tutto
speciale all'opera del Salvatore, con l'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per
restaurare la vita soprannaturale delle anime" (LG 61). "Assunta in cielo, ella non ha deposto
questa missione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci i doni
della salvezza eterna" (LG 62).
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