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[Questa
intervista
Marianella
Sclavi
labbiamo
estratta
dal
sito
(www.unacitta.it) del bel mensile "Una citta'", sul cui n. 80 dell'ottobre 1999
l'intervista e' stata pubblicata.
Marianella Sclavi insegna antropologia presso il Politecnico di Milano. Ha
pubblicato La signora va nel Bronx, Anabasi, Milano, e A una spanna da
terra, Feltrinelli, Milano]
- "Una citta'": In un'intervista di alcuni numeri fa Guido Armellini, in
polemica con la pedagogia corrente, invitava a rimettere al centro
dell'insegnamento la relazione professore-studente. Qual e' il problema
principale del rapporto tra insegnanti e studenti?
- Marianella Sclavi: Questo e' un problema anche teorico ed epistemologico:
qual e' l'elemento piu' importante per far funzionare un rapporto umano? A
mio avviso e' la capacita' di gestire i conflitti in modo creativo, di
valorizzare il conflitto come un modo per riaffermare il riconoscimento e
il rispetto reciproco. Questo non significa applicare una certa metodologia
didattica, pedagogica o un'altra, ma proprio andare al cuore della dinamica
del rapporto. Partire dal conflitto significa necessariamente distinguere
il livello relazionale da quello dei comportamenti. Nel libro Buone notizie
dalla scuola, nell'intervento sulle emozioni, faccio l'esempio standard del
conflitto: se una persona mi da' un pugno e io rispondo dando a mia volta
un pugno, a livello del comportamento mi oppongo, a livello della relazione
collaboro, perche' dandomi il pugno mi invita alla lotta e io collaboro
alla lotta. Quindi il conflitto e' il momento della verita' del modo in cui
le persone costruiscono le cornici del senso reciproco.
Diciamo allora che la dote dei bravi insegnanti che operano in condizioni
difficili, in quartieri a rischio, non e' ascrivibile a una competenza
professionale di tipo specifico, ma e' da ricondurre a una competenza di
comunicativa generale, a quella, cioe', che e' una competenza di base di
ogni essere umano: sapersi relazionare all'altro attraverso la strada del
riconoscimento e rispetto nonostante il dissenso. Il che vuol dire, nel
campo delle scienze sociali, essere allenati ad una ermeneutica pratica
dell'osservare, dell'ascoltare, della comunicazione a partire dalla
conflittualita'. Ecco, un allenamento all'ascolto attivo: saper accogliere
il punto di vista dell'altro anche se e' opposto al nostro, senza
rinunciare al nostro. Significa passare da un'abitudine a un pensiero del
tipo: "Io ho ragione, tu hai torto", o viceversa, a un pensiero in cui
tutti hanno ragione e nello stesso tempo non possono averla tutti. E' la
situazione del giudice saggio che ascolta il primo litigante e gli dice:
"Hai ragione", ascolta il secondo litigante e gli dice: "Hai ragione", e a
una terza persona che si e' alzata e ha detto: "Ma non possono aver ragione
tutti e due", risponde: "Hai ragione anche tu".
E' esattamente questo a cui bisogna allenarsi, perche' questa e' la magia
che consente questa dinamica: io devo riconoscere che quello la' ha
ragione, nello stesso tempo ho ragione io che la penso e continuo a
pensarla in modo opposto, e pero' non possiamo aver ragione entrambi,
quindi dobbiamo metacomunicare su come vediamo il mondo e non solo nel
merito.
Tutte queste situazioni richiedono una messa in discussione della
relazione, non tanto dei comportamenti, perche' attraverso la relazione poi
anche i comportamenti cambiano.
- "Una citta'": Tu nel tuo libro fai riferimento a questa scuola di Harlem...
- Marianella Sclavi: L'esperienza di questa scuola di Harlem e' raccontata
in un libro intitolato Miracolo ad Harlem. Tutto inizia dal fatto che a una
signora che io ho conosciuto, Debora Mayer, che aveva insegnato in varie
scuole, e' stato proposto dal provveditore agli studi di New York di fare
una sperimentazione molto libera. Quindi una scuola pubblica pero' in
totale autonomia. Ora, la' tutte le scuole erano dei veri manicomi, con gli
insegnanti costretti a far le ronde, a fare i poliziotti, in un clima di
sfiducia radicale e di comunicazione offensivo-difensiva reciproca che si
riproduceva in continuazione. Allora, come fare a bucare questa bolla di
sospetto e innestare un rapporto umano di tipo diverso?
La Mayer, per accettare, ha posto le sue condizioni. Una e' stata che le
ispezioni, almeno quelle ufficiali, per veder come stava funzionando
l'esperienza, fossero posticipate di due anni. Potevano andar la' in ogni
momento a vedere, pero' per una valutazione ufficiale e organica doveva
passare un po' di tempo, quello necessario perche' l'esperienza potesse
crescere. L'altra condizione e' stata quella di poter scegliere quali
insegnanti andavano bene, e questo e' stato certamente fondamentale. Ma
attenzione, di solito si pensa che per certe esperienze ci vogliono delle
persone superdotate, con le spalle quadrate, mentre proprio l'esperienza di
Harlem dimostra che le persone devono certamente avere entusiasmo, ma per
imparare. Quindi c'e' una preselezione, con degli insegnanti che decidono:
"Io voglio fare per alcuni anni questo tipo di esperienza", poi, pero',
data la disponibilita' a misurarsi con queste difficolta', l'allenamento
High school, hanno diviso la scuola in tante scuole piu' piccole, in modo
che gli studenti fossero divisi in gruppi. Pur contando la scuola 400
studenti, erano divisi in "scuolette" di 80 studenti; poi c'erano anche
insegnanti che seguivano per certe ore gruppi di 12. Diciamo che c'era una
grandissima enfasi a valorizzare gli studenti come persone e non come
studenti, accogliendo la storia personale di ognuno e premiando il rapporto
personale.
E' un capovolgimento. Pensiamo che quando e' nata la scuola di massa il
fatto di considerare le persone come "studenti" era un fatto di promozione
e di uguaglianza, perche' era l'affermazione che tutti di fronte alla
scuola pubblica sono uguali, indipendentemente dalla professione dei
genitori. Oggi per portare avanti l'uguaglianza devi accogliere la persona,
devi fare un lavoro di conferma di identita' sociale che la societa' civile
non fa piu'. Quando e' nata la scuola di massa uno socialmente era il
figlio del mugnaio, del dottore, del professionista, ed eri indicato a
vista come quella persona li'; e quindi il fatto di dimenticare questo era
un fatto di uguaglianza. Oggi non conta piu' niente, non sei piu' indicato
a vista, al limite sei indicato come quello che abita in periferia, nel
Bronx, oppure al centro, e il problema, non solo dei giovani, e' diventato
quello di affermare il proprio protagonismo. E a questo la scuola deve
assolutamente collaborare. Oggi non si puo' piu' imparare la grammatica o
la matematica senza contemporaneamente affrontare anche il problema del
riconoscimento e del rispetto, che non e' affatto un problema solo nei
rapporti interetnici. L'interculturalita' caratterizza in modo radicale
tutta la nostra societa'. Viviamo in una societa' in cui i rapporti tra
genitori e figli, tra insegnanti e studenti, fra uomo e donna e tra
professionista e cliente richiedono di accogliere punti di vista diversi
dai nostri e quindi con difficolta' di comprensione di tipo interculturale.
L'incomprensione che sorge non e' risolvibile solo con un aumento delle
informazioni: devi farti carico delle cornici, cioe' del modo in cui
l'altro vede il mondo. Quindi l'ascolto passivo, l'ascolto che prescinde
dalle cornici, non e' piu' sufficiente in molti casi. Devi passare
all'ascolto attivo che e' l'ascoltare le cornici, cioe' modificare il modo
di inquadrare le cose.
Questo vuol dire che se io devo raccontare cosa succede nelle scuole non
basta che racconti cosa succede normalmente, ma devo raccogliere una
casistica di incidenti, situazioni di conflittualita', sia nella
quotidianita' della classe sia all'interno della scuola. E poi devo
raccogliere una casistica delle modalita' con cui quella conflittualita' e'
stata affrontata. Il bisogno piu' sentito tra insegnanti e studenti e'
nella tua cultura. Le emozioni sono indicazioni che non posso interpretare
come informazioni sul fatto che quelli la' effettivamente mi stanno
offendendo, perche' distorcerei la conoscenza: non e' assolutamente detto.
Sono informazioni di cornice e nella condizione dell'osservazione di
un'altra cultura questo e' particolarmente chiaro, perche' che la stessa
cosa sia interpretabile in modo opposto e' dimostrato dal fatto che tutti
loro lo interpretano in modo diverso. Se io ho la sicurezza della mia
esperienza e della mia cultura, che e' un'esperienza collettiva, sociale,
anche loro ce l'hanno.
E' il caso specifico di Hall. Poi capita di tutto, addirittura lo mandano
in un altro albergo, a quel punto lui era diventato davvero paranoico,
immaginava una discriminazione contro gli stranieri. Comunque lui resiste
in atteggiamento di attesa-intesa, quindi di distacco e coinvolgimento, e
alla fine arriva a capire cosa succede. Racconta il fatto a degli amici
giapponesi, i quali si meravigliano che l'abbiano trattato cosi', perche'
gli hanno fatto un grande onore. I giapponesi attribuiscono enorme
importanza al senso di appartenenza collettiva, senza la quale non c'e'
nemmeno identita' personale. E questo vale anche quando si fa un "check in"
in un albergo: ti registri e diventi parte di un'ampia famiglia mobile, che
ruota attorno a quell'hotel, il che comporta tutta una serie di doveri ma
anche di privilegi: ogni volta che tu torni in quell'albergo, siccome sei
membro della famiglia, hai un'anzianita' che ti permette, se vuoi, di
prenotare la stessa camera che avevi in precedenza, anche con mesi di
anticipo. Cosi' succede che questi alberghi hanno tutte le camere prenotate
e la gente nuova che arriva sa gia' che dovra' riempire i buchi. Quindi era
del tutto vero che stavano trattando Hall come un tappabuchi, ma in nome
del fatto che anche lui era un membro giovane della famiglia e questo e' un
onore che gli veniva reso. Gli amici giapponesi gli hanno detto: vedi, loro
hanno capito che tu desideravi essere membro della famiglia, perche' senno'
verso gli stranieri non si adotta un atteggiamento del genere.
Allora, il raccontare questa storia vuol dire partire da una situazione
contingente nella quale io ho un certo tipo di interpretazione, che e'
quella della mia cultura d'origine, e riuscire a seguire il processo
attraverso il quale da questa interpretazione, che rimane tale (perche' nel
mio paese se mi cambiano stanza senza dirmelo, mi arrabbio e ho ragione),
si arriva a cogliere anche l'altra. Insomma, un atteggiamento che
interpreta la stessa cosa in modo opposto e che quindi vede il ridicolo nel
mio comportamento.
Ora, la dinamica di osservazione e di narrazione che mi permette di fare