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N. Casalini
Coloro che si dedicano allo studio di quel testo del Nuovo Testamento,
convenzionalmente chiamato Lettera agli Ebrei, erano in attesa del commento di E. Grsser. Ora che uscito il primo volume sui capitoli 1-6 (An
die Hebrer I. Teilband Hebr 1-6, EKK XVII/1, Zrich - Neukirchen:
Neukirchener Verlag, 1990), devo dire che non delude. Si presenta realmente come una sintesi discorsiva, puntuale e precisa della ricerca fin qui
attuata. Oltre al commento vero e proprio, secondo lo stile e il metodo
tipico della serie Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament, il testo arricchito da una serie di note storiche e semantiche su
alcune parole o concetti tipici dellautore. Da questo punto di vista il suo
lavoro soddisfa pienamente per la completezza delle informazioni che
mette a disposizione del lettore per aiutare linterpretazione. Credo che ci
abbia dato il meglio che si poteva aspettare.
Per essere utile a chi lo legge, ho deciso di sottoporre a discussione alcune scelte esegetiche che risultano problematiche, non chiare, oppure senza
sufficiente giustificazione, procedendo da alcuni problemi generali allanalisi dei singoli capitoli. Facendo questo, comunico a lui, che suppongo competente, le riflessioni che io stesso ho fatto confrontandomi costantemente col
commentario mentre preparavo il mio, che ho appena pubblicato: Agli Ebrei,
Discorso di esortazione (SBF Analecta 34), Jerusalem 1992.
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Di fronte a una testi cos esplicita, ci si aspetterebbe che lautore adduca le prove su cui si fonda. E evidente che non basta il tenore o tono
paolino per attribuire quei versi ad un autore diverso da quello del testo. Se
si procede con rigore metodologico, nell'assoluta mancanza di prove esterne, lunica ipotesi scientificamente corretta che si potrebbe fare che chi lo
ha scritto abbia imitato lo stile di Paolo, dal momento che manca la firma
esplicita di questo o qualche parola con cui lapostolo garantisce con la sua
autorit lo scritto di un suo diretto collaboratore. In assenza di questi due
indizi, storicamente necessari, si deve parlare di una pseudonimia indiretta, intenzionale o voluta e non di una aggiunta estranea (H. Koester,
Introduction to the New Testament, vol 2, Berlin - Philadelphia - New York
1982, 273). Quindi, dal punto di vista scientifico e storico, ci che E.
Grsser propone gratuito. Di conseguenza non meriterebbe neppure di essere preso sul serio.
La composizione
Sul problema della composizione o struttura del testo, lautore del commento assume una posizione particolare, che non pare coerente a chi legge.
A p 29 propone un suo schema in tre parti: A Grundlegung Der Weg des
Erlsers 1,1-6,20, B Entfaltung Das Hohepriestertum des Sohnes 7,1-10,18,
C Folgerungen 10,19-13,21.
Nella parte A, pone una prima sezione (I) in 1,1-3,6 e una seconda (II)
in 3,7-4,13. Ci desta stupore perch 3,7 inizia con un diov, perci, che lo
collega sintatticamente e logicamente a ci che precede, traendo le conseguenze della esposizione effettuata in 3,1-6. Quindi difficile separare
lesortazione di 3,7-4,13 dalla sua motivazione, addotta in 3,1-6. Se poi si
constata che alle pp 157 e 173 egli perfettamente daccordo con questa
relazione, la separazione appare doppiamente ingiustificata.
A p 157 considera 3,1-6 come elemento di passaggio tra il fondamento
cristologico dei capp. 1-2 e la grande esortazione dei capp. 3-4; e a p 158
dice che o{qen di 3,1 trae la conseguenza logica di ci che precede. Anche
se ci giustifica il legame logico con la parte precedente, tuttavia, poich
seguito da un solenne appellativo, fratelli santi, partecipi di una vocazione
eterna (ajdelfoi; a{gioi, klhvsew" ejpouravniou mevtocoi), il lettore costretto a considerare 3,1 una conclusione logica che d inizio a un nuovo sviluppo, in quanto ci che detto in 3,2-6, di fatto, risulta una spiegazione
dellappellativo pistov", dato al Cristo sommo sacerdote in 2,17 (A.
Vanhoye, La structure littraire de lptre aux Hbreux, 1976, 2a ed., 86).
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Poich questa condizione del Cristo il motivo per cui in 3,7-4,13 invita i
destinatari allascolto, evidente che 3,1-6 non pu essere unito a ci che
precede (1,1-2,18), ma deve essere congiunto a ci che segue, perch la
premessa teologica dellesortazione che vi sviluppata.
Nel trattamento di 4,14-6,20 manifesta notevole titubanza e incertezza,
che denota una certa incoerenza su questo problema. Dallo schema che d
a p 29 risulta che 4,14-5,10 costituiscono la terza sezione (III), col titolo
Das hohepriesterliche Amt Jesu e 5,11-6,20 la quarta sezione (IV) della
parte A 1,1-6,20 col titolo Vorbereitung auf den Christus-Logos.
Data questa definizione, che corrisponde realmente al contenuto, uno si
aspetterebbe di vedere 5,11-6,20 collocato allinizio della parte B, in quanto costituiscono la preparazione allargomento trattato in 7,1-10,18. Di
questo anche lui cosciente, come risulta da p 317. Perci il lettore resta
perplesso perch non vede il motivo per cui abbia posto 5,11-6,20 come
fine o conclusione della parte precedente (A), se di fatto la preparazione a ci che segue in B.
Questa perplessit viene rafforzata quando legge alle pp 241-242 che
4,14-6,20 costituiscono una specie di Zwischenstck tra 1,1-3,6 e 7,110,18. Procedendo in questo modo, non appare neppure coerente con se
stesso. Se 5,11-6,20 una esortazione che ha lo scopo di preparare alla trattazione che segue, come lui stesso dice, evidente che non pu essere unita
a 4,14-5,10, a cui riconosce la funzione di mostrare ci che detto in 2,17:
labbassamento ha reso il Figlio idoneo a compatire le nostre debolezze
(4,14-16) e ad assumere la funzione sacerdotale (5,1-10). Quindi 4,14-5,10
risulta una spiegazione del titolo ejlehvmwn ajrciereuv" dato a Ges in 2,17
(A. Vanhoye, La structure littraire, 86.105). Di conseguenza va unito a ci
che precede.
E evidente quindi che non possibile considerare 4,14-6,20 una unit
di transizione, perch ci non coerente: non corrisponde alla logica del
discorso, che egli stesso riconosce. Occorre perci unire 4,14-5,10 con ci
che precede, perch ne la logica conclusione, e 5,11-6,20 con ci che segue, di cui la preparazione.
Nella introduzione lautore non dice espressamente quali sono i presupposti del suo commento. Ci sarebbe stato opportuno. Ma non si pu considerare una mancanza perch allo stesso modo si comportano e si sono
comportati tutti coloro che prima di lui hanno edito un commentario a que-
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sto testo. Questa consuetudine per non toglie il difetto. Di fronte alle esigenze di chiarezza scientifica, questa lacuna abituale un errore reale di
metodologia. Cio non possibile tacere i propri presupposti ermeneutici,
quando il loro uso introduce nel testo delle categorie che possono apparire
estranee e che disorientano il lettore, in quanto lo pongono di fronte a modi
di dire e di pensare di cui non trova riscontro in ci che legge.
Ci si verifica anche in questo commento. Lautore fa uso di principi
interpretativi, che non dice, ma che di fatto condizionano decisamente la
sua interpretazione. Ne indico solo due, perch sono i pi evidenti. Il primo dovuto alla confessione cristiana luterana, a cui aderisce. Il secondo
deriva dalla sua adesione alla tendenza scientifica che considera il testo
un prodotto nato sotto linflusso delle correnti gnostiche del primo secolo
(cf E. Ksemann, Das wandernde Gottesvolk, FRLANT 37, Gttingen
1961, 4a ed).
a) Il principio confessionale
Quanto al primo, si trova operante nellesegesi di alcuni punti specifici ed
ha come effetto la deformazione del contenuto. A p 107, commentando 2,3
uJpo; tw'n ajkousavntwn eij" hJma'" ejbebaiwvqh, dagli uditori a noi confermato, esclude che gli ajkouvsante" siano uomini qualunque (beliebige
Menschen), ma esclude anche che siano gli apostoli (Apostel) o portatori autorizzati di una funzione ecclesiale (kirchenamtlich autorisierte
Funktionstrger).
Poi aggiunge a spiegazione di questa molteplice esclusione: Denn nicht
den apostolischen Verkndigungstrgern und damit der apostolischen
Vertrauenswrdigkeit der Botschaft als einem amtlich abgesicherten
traditum gilt das Interesse des Hebr. Im Gegenteil! Er hat es vermutlich
bekmpft, indem er die Tradition konstituiert sein lsst im Akt des
lalei'sqai und ajkouvein, der rechtskrftig ist durch das kontingente Zeugnis
Gottes, Poich linteresse dellautore non va ai portatori apostolici dellannuncio e con ci alla affidabilit apostolica del messaggio come
traditum ufficialmente garantito. Al contrario! Probabilmente egli lo ha
combattuto perch lascia costituire la tradizione nellatto del lalei'sqai e
ajkouvein, che convalidato dalla contingente testimonianza di Dio.
E evidente che, in questo modo, scompaiono i mediatori, cio i portatori del messaggio. Ci confermato da p 109 dove dice: Die Hrer dritter
Hand sind gleichgestellt denen erster Hand, Gli uditori di terza mano sono
posti sullo stesso piano di quelli di prima mano.
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b) Il principio gnostico
Pi complesso il problema che suscita il principio ermeneutico ispirato
dallipotesi che lautore del testo abbia scritto sotto linflusso di idee gnostiche. Di per s non ci sarebbe nulla di grave. Ma la questione non affatto risolta, come invece E. Grsser lascia credere. sufficiente leggere le
sintesi pi recenti per rendersi conto della problematicit delle cose (A.
Vanhoye, Hebrerbrief, TRE 14 [1985] 502; H. Feld, Der Hebrerbrief,
ANRW II 25.4 [1987] 3558-3560). Anzi, le minuziose e puntuali ricerche di
O. Hofius hanno mostrato che non possibile fare ricorso a categorie gnostiche per spiegare il modo di pensare dellautore (Katapausis, WUNT 11,
Tbingen 1970, 152-153; Der Vorhang vor dem Thron Gottes, WUNT 14,
Tbingen 1972, 95-96)
Nonostante questo stato di cose e la problematicit della ipotesi, E.
Grsser usa con disinvoltura categorie da lui supposte gnostiche per avvalorare la sua interpretazione. Ci non depone a favore della sua correttezza
metodologica.
Quindi, da questo punto di vista e su questo specifico problema, il suo
commento non conforme alle esigenze della metodologia storica. Non solo,
ma il lettore addetto a questa ricerca fa bene a mantenere la testa fredda e la
debita distanza, perch ci che legge nel commento gli presenta una
Weltanschauung pessimista e denigratoria della condizione umana che non
conforme al testo commentato.
Il ricorso alle ipotesi gnostiche si ha soprattutto in alcuni punti: nellesegesi di 2,10-11.14-15 (pp 132-133. 136.144.190 nota 44), nella spiegazione
dei concetti di katavpausi" (Gottes Ruhe: pp 209-211), sabbatismov" (pp
218-220) e katapevtasma in 6,19 (pp 384-386). Tralascio gli ultimi tre, che
sono concetti limitati, e fermo la mia attenzione solo sul primo che di fatto
condiziona e guida linterpretazione di tutta la prima parte del testo.
A p 132, esaminando il concetto di ajrchgov", usato in 2,10, sembra favorevole allipotesi che abbia avuto origine nel giudaismo ellenistico, con
riferimento al gruppo degli Ellenisti, di cui si parla in Atti 6. Ma poi dice
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con gli angeli santi. Questa venuta, che noi chiamiamo seconda, presuppone il ritorno al luogo da cui era venuto la prima volta, dal momento che
non c dubbio che Ges, in questo testo, cos come ora sta scritto, parla di
se stesso. Lo conferma Mc 14,62. Alla domanda se il Cristo, risponde:
Vedrete il Figlio delluomo seduto alla destra della potenza e venire con le
nubi del cielo (kai; ejrcovmenon meta; tw'n nefelw'n tou' oujranou'). Poich
comprendono che parla di s, in Mc 14,64 dicono che ha bestemmiato e lo
ritengono reo di morte.
Per quanto riguarda il nostro ritorno, c una traccia evidente in Apoc
22,1-5, da cui risulta che nella Gerusalemme celeste c il giardino di Eden,
o paradiso, da cui fu cacciato Adamo al principio. Dunque, in qualche
modo, anche noi ritorniamo al luogo divino dellorigine, che il nostro,
anche se noto che solo Adamo vi abbia vissuto.
Quindi lo schema della venuta dallorigine divina, cio da Dio, e del
ritorno a Dio, si trova nel cuore stesso del messaggio cristiano. Se si dice
che in Paolo hanno influito idee gnostiche, chi lo potrebbe dire per Marco,
dove si trova lo stesso pensiero? Se poi si costata che quel pensiero parte
essenziale della fede che professiamo, e che i testi gnostici di riferimento
sono tutti posteriori agli scritti del Nuovo Testamento, allora lipotesi che
tale schema di pensiero sia gnostico non solo non ha fondamento, ma un
puro falso storico.
Tuttavia lautore del commento lo considera uno schema gnostico e per
giustificare la discesa o venuta del Figlio e dei figli nel mondo, a p 133
non esita a parlare di incarnazione delluno e degli altri. Egli ripete questa
idea con insistenza a p 136 e a p 141. A p 136, spiegando, ejx eJno;" pavnte",
dice che la comune origine divina ha analogie con la dottrina della comune
suggevneia, parentela, in Dio (cf p 133), di cui crede di trovare testimonianza in Filone e in testi valutati come gnostici. Questi sono citati nella
nota 187 di p 136: Act[a] Andr[eae] 15; ActThom 39,5 (suggenhv") 61, 4
116, 11 (suggevneia). Di conseguenza siamo suoi fratelli, ajdelfoiv, proprio in relazione a questa comune origine. Quindi anche per noi c stata
una incarnazione, parallela a quella del Figlio.
Come effetto di questa interpretazione, interpreta 2, 14 in modo conforme, ma non troppo comune. Il testo dice: ejpei; ou\n ta; paidiva kekoinwvnhken
ai{mato" kai; sarkov", lui traduce: Da nun die Kinder Anteil haben an Blut
und Fleisch, poich i figli hanno parte al sangue e alla carne (il corsivo
mio). A p 144 ripete la stessa idea, spiegando: Die Kinder haben Anteil
an Blut und Fleisch, sie sind es nicht ganz und gar und leben auch nicht
einfach - paulinisch gesprochen - im Fleisch , I figli hanno parte al san-
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gue e alla carne, essi non lo sono completamente e non vivono semplicemente nella carne - detto in modo paolino.
Da ci consegue che con lincarnazione nel mondo gli uomini vengono
a trovarsi in una dannata situazione, non salvifica (Unheilssituation). Leffetto di questa situazione descritto a p 145 con categorie prese in prestito
da Filone e considerate come diretto pensiero dellautore: der Anteil an
Blut und Fleisch als Gefangenschaft des eigentlichen Selbst in der Materie,
als Belastung, Knechtschaft, Sarg und Urne empfunden wird (Philo, Gig
31; Her 268; Migr 16; Agr 25; Imm 2), la partecipazione al sangue e alla
carne viene sentito come prigionia del proprio (o autentico) io nella materia, come peso, schiavit, sarcofago e urna. Quindi la materia del corpo
sarebbe la tomba dellanima.
La prova testuale che questo sia lautentico pensiero dellautore tratta
da 12,9 in cui Dio chiamato path;r pneumavtwn (p 136), in cui pneu'ma
indicherebbe lo spirito delluomo, creato da Dio e pre-esistente. Egli riconosce che la dottrina della preesistenza dellanima non esplicitamente insegnata dallautore, ma aggiunge: er argumentiert damit, egli ragiona
con essa.
Nonostante la massima apertura di mente che uno possa adoperare per
comprendere una tale ricostruzione, a nessuno sfugge che E. Grsser attribuisce allautore una visione del mondo di cui anche il pi acuto lettore
esita a trovare tracce reali nel testo. Che la nostra origine sia da Dio e in
Dio, non c dubbio. E un dogma fondamentale dellannuncio cristiano
(cf Atti 14,15 17,24.26). Ma che le nostre anime fossero preesistenti e che
poi si siano incarnate nei corpi e nel mondo (p 144), diventando schiave
della materia (p 147) in seguito ad un bando (Bannung) divino, per cui
sono state costrette a diventare partecipi del sangue e della carne che le
rendono schiave del diavolo, signore della morte (p 148), non chiaramente attestato nel Nuovo Testamento, ed un concetto che risulta estraneo a ci che lautore di Eb pensa del corpo (sw'ma) delluomo, come
risulta da 10,5: Perci, entrando nel mondo [il Cristo] dice: sacrificio e
offerta non volesti, ma un corpo mi hai adattato (o formato) (sw'ma de;
kathrtivsw moi). Se dice queste parole sublimi del corpo del Cristo incarnato, evidente che invita luomo che crede a pensare la stessa cosa di
se stesso. Di conseguenza non si vede come chi ha scritto queste parole
possa condividere le idee che gli vengono attribuite, che tendono a fare
della materia del corpo una schiavit e una prigionia dello spirito e dellanima.
A ci si deve aggiungere che linterpretazione di path;r tw'n
pneumavtwn di 12,9, su cui si fonda tutta la ricostruzione, molto discuti-
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I sacramenti
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esattamente il contrario di ci che ha affermato a p 345 e che ho commentato nelle righe precedenti. Per questo motivo, iniziando la discussione su questo argomento, ho detto che il commentatore non coerente nella
trattazione del soggetto. Quindi, anche in questo caso, occorre leggere il
suo commento con molto spirito critico, perch non sempre conforme al
testo.
La svalutazione delle realt sacramentali, a cui il testo allude, si nota
anche nella interpretazione di altre espressioni. A proposito di a{pax
fwtisqevnta" di 6,4a, a p 348 fa notare che non si riferisce al battesimo,
ma una metafora che indica il passaggio dalla schiavit della morte alla
luce della comunione con Cristo. Ma questo evento spirituale, che la metafora del verbo potrebbe indicare, non esclude il riferimento al rito del battesimo, che il segno che la indica e la effettua. Il dubbio sarebbe
storicamente legittimo e metodologicamente corretto se non avessimo dati
di conferma esterni al testo. Ma poich noto che nel secondo secolo
Giustino chiama fwtismov" il battesimo in Apologia 1, 61,12 65,1 e in Dialoghi con Trifone 122,5 123,2 pi conforme al metodo storico supporre
che a{pax fwtisqevnta" possa alludere ad esso, piuttosto che negarlo e ipotizzare il contrario o andare in cerca di un senso diverso.
Commentando lespressione di 6,4b: geusamevnou" te dwrea'" th'"
ejpouranivou, che hanno gustato il dono del cielo, alle pp 350-351, dice che
questo gustare avviene nella liturgia (der Gottesdienst), in cui ci raggiunge
loggi della parola di Dio. Ci lascerebbe supporre che per lui il dono celeste (dwrea; ejpouravnio") potrebbe essere la parola. Ma questa interpretazione esclusa dal testo, perch lautore parla espressamente del gustare la
parola di Dio in 6,5a in cui dice: kalo;n geusamevnou" qeou' rJh'ma. Ci significa che occorre dare un altro significato alla metafora di 6,4b.
Se si applica con coerenza il metodo storico-critico, restano due possibilit: un parallelismo con Giov 6,31-33, in cui parla del pane del cielo,
a{rton ejk tou' oujranou', con riferimento alla manna, e una allusione alla
eucarestia. Ma E. Grsser, che conosce questa interpretazione (p 350 note
32 e 34), non la prende neppure in considerazione. Si limita a far notare
che il dono determinato solo qualitativamente: si sa che celeste, ma
non si dice che cosa .
Trattandosi di una metafora, occorre cercare nellaltra realt con cui
coordinata per capire che cosa significa, cio kai; metovcou" genhqevnta"
pneuvmato" aJgivou, e partecipi diventati di Spirito Santo. Quindi la prima
ipotesi che si dovrebbe fare con coerenza metodologica che il dono celeste possa essere una metafora che indica lo Spirito Santo. Ci troverebbe
una convalida in Atti 8,20 in cui lo Spirito chiamato th;n dwrea;n tou' qeou'.
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Capitolo 1
1,5 Commentando shvmeron di LXX Sal 2,7, a p 75 esclude che si debba riferire a un evento specifico della vita di Cristo (per es battesimo, trasfigurazione,
resurrezione); esclude anche che possa riferirsi alla esaltazione. Egli Figlio
da sempre; solo che viene constatato in un modo per cos dire solenne in occasione della esaltazione e della parusia. Ci non esatto. Lintroduzione della citazione fatta con ei\pen disse, che si riferisce al passato. Ci esclude
subito la parusia, che un evento futuro. Ma il legame esplicito di LXX Sal
2,7 con LXX Sal 109,4 (110,4) in 5,5-6, e il riferimento implicito ad esso in
7,28, non lasciano dubbi sul fatto che oggi il momento della esaltazione alla
destra di Dio, a cui si riferisce LXX Sal 109,1 (110,1), che lautore del testo
rievoca indirettamente in 1,3d ma che cita direttamente solo in 1,13.
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cose non scuotibili (ta; mh; saleuomevna), che in 12,28 ricevono lappellativo di regno non scuotibile (basileiva ajsavleuto") che permane quando
la creazione visibile ha subito la sua mutazione.
Purtroppo non c nessun testo che permette di identificare questa realt immutabile con la oijkoumevnh hJ mevllousa di 2,5, perch questa in 2,8.9
identificata col ta; pavnta che la creazione visibile, destinata alla mutazione. A meno che non si intenda questa mutazione come levento con cui
Dio trasformer luniverso transitorio nel regno incrollabile che noi riceveremo alla fine.
Capitolo 2
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ge subito con un dev avversativo: nu'n de; ou[pw oJrw'men aujtw'/ ta; pavnta
uJpotetagmevna, ma ora non vediamo ancora a lui tutto sottomesso.
Poich il discorso in 2,8c riguarda il suo dominio su tutto, non conforme alla sua logica riferire 2,8d alla visione parziale che ora noi abbiamo
di esso; mentre pi logico riferire lespressione non ancora (ou[pw) alla
sua estensione universale, che non si vede ancora perch non stata ancora
effettuata in forma perfetta. Infatti ci sono dei nemici che devono essere
ancora debellati e che si oppongono al suo potere, come risulta dalle parole
di Dio in LXX Sal 109,1 (110,1), citate in 1,13.
2,10 Commentando teleiw'sai, perfezionare, di 2, 10d, alle pp 129-130,
afferma che il suo significato deve essere dedotto da dovxh/ kai; timh'/
ejstefanwmevnon di 2,9c e da ajgagei'n eij" dovxan 2,10c e va interpretato
come vollenden (durch die Erlangung der himmlischen Herrlichkeitsexistenz), perfezionare (per mezzo del conseguimento della esistenza gloriosa celeste). In questo senso equivarrebbe a dozasqh'nai di Giov 11,4
13,31 15,8 ecc. Di conseguenza esclude sia il significato cultuale consacrare (sommo sacerdote) sia quello morale-religioso di rendere perfetto, con riferimento alla perfezione interiore conseguita dal Cristo nel suo
processo di maturazione.
Purtroppo proprio ci che lui esclude sembra stare a cuore all autore che
vuole spiegare. In 2,10 teleiw'sai ha certamente un significato cultuale, perch come effetto di questo perfezionare, operato da Dio, il Figlio diventato oJ aJgiavzwn, il santificatore, o colui che santifica, come risulta da 2,11a,
a cui anche E. Grsser riconosce un significato cultuale, cio indicherebbe
lattivit del Figlio sommo sacerdote, con riferimento a 2,17 (cf p 134). Quindi, se riconosce questo, non comprendo perch voglia eliminare dal verbo
teleiw'sai la valenza cultuale che la logica metaforica del discorso richiede.
Nessuno dubita infatti che dia; paqhmavtwn di 2,10 sia un riferimento
esplicito alla passione di morte, to; pavqhma tou' qanavtou, di cui parla
in 2,9. Ugualmente tutti sono daccordo nel dire che in 2,14-17 la sua morte presentata come ci che egli ha dovuto subire i{na ejlehvmwn gevnhtai
kai; pisto;" ajrciereu;" ta; pro;" to;n qeovn, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fidato nelle cose di Dio. Quindi il verbo teleiw'sai,
di 2,10d si riferisce alla investitura del Figlio al sommo sacerdozio, di
cui 2,17b. Di conseguenza non c nessuna ragione per togliere ad esso il
significato cultuale che gli compete, traducendolo con rendere perfetto, e
spiegando che lequivalente semantico del nostro consacrare (al sacerdozio). Il linguaggio cultuale dellautore va rispettato, perch egli lo desume
intenzionalmente dal culto dellantica alleanza, descritto nella scrittura
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(LXX), per presentare il Cristo come sommo sacerdote della nuova, che ha
reso totalmente superfluo quello dellantica.
Capitolo 3
3, 2-6 Nella interpretazione della parola oi\ko", casa, manifesta una certa incoerenza che non giova alla spiegazione da lui data. A p 157 traduce
lespressione di 3,2 ejn o{lw/ tw'/ oi[kw/ aujtou', in seinem (Gottes) Haus, e
a p 158 traduce lespressione di 3, 6 ejpi; to;n oi\kon aujtou', ber sein
(Gottes) Haus. In questo caso pone anche la traduzione tra virgolette, per
far capire al lettore che lespressione ripresa da LXX Num 12,7 dove
la casa, oi\ko", inequivocabilmente di Dio, perch Dio dice: ejn o{lw/
tw'/ oi[kw/ mou.
Se questo il riferimento, non mi sembra coerente con questa premessa ci che dice a p 167 interpretando 3,3: al Cristo compete pi gloria
perch egli il costruttore della casa, e Mos il servo nella casa. Ma se
ammette che la casa di Dio, evidente che lui deve essere considerato
il costruttore e non il Cristo, che Dio stesso ci ha posto sopra la casa come
Figlio (3, 6).
Non desta quindi meraviglia che commentando 3,4, in cui Dio presentato come colui che costruisce tutto, oJ de; pavnta kataskeuavsa", crede di dover rilevare una contraddizione nel testo, che poi risolve affermando
che un paragone analogico. Ma ogni paragone ha senso perch dice in
immagine ci di cui tratta il discorso. In questo caso, perfettamente coerente col punto di vista dellautore del testo, che considera Dio il costruttore
della casa, con riferimento a Num 12,7.
Quindi, poich Ges il Figlio di questo Dio, costruttore della casa,
evidente che degno di una gloria maggiore di quella di Mos, il cui onore
dipende solo dalla posizione da lui avuta nella casa da Dio costruita. La
gloria del Cristo maggiore di quella sua per il semplice fatto che il
costruttore (sc. Dio), di cui Figlio, ha un onore maggiore della casa da lui
costruita, in cui Mos fu onorato, ma come suo servo (3,5)
Ugualmente non mi sembra coerente con la premessa la interpretazione
che egli d di 3,6 ou| oi\kov" ejsmen hJmei'". A p 168 la considera equivalente
di oi\ko" Cristou', casa di Cristo, anche se poi si affretta a specificare che
non una casa diversa dalla oi\ko" qeou', perch sono la stessa cosa (cf anche p 157) Questa precisazione era necessaria, ma linterpretazione proposta non conforme alla logica del discorso. Se da 3,2.5 risulta che la casa
di Dio, per il riferimento a Num 12,7, non conforme alla sua logica dire
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che il relativo ou|, da cui dipende oi\ko" in 3,6,si pu riferire sia a Dio sia al
Cristo, perch il testo non permette questo equivoco, cio non lascia adito
al dubbio che lesegeta si concede per interpretare in altro modo, non conforme al suo senso.
Se si interpreta nel modo da lui proposto perde anche di significato il
confronto che lautore stabilisce in 3,5-6 tra Mos e il Cristo, in cui la loro
diversa dignit indicata dalla diversa funzione che hanno nella stessa casa:
Mos come servo (wJ" qeravpwn), il Cristo come Figlio (wJ" uiJov"). Ci
ha senso perch la casa di Dio. Quindi il Cristo stato ritenuto degno di
una gloria maggiore perch nientemeno che il Figlio di Dio, cio del
costruttore di quella casa, in cui Mos non altro che un servo (cf 3,3-4).
Ma se si dice che la casa del Cristo, viene meno tra loro il termine di confronto, costituito dal loro diverso rapporto con Dio, e dalla loro diversa funzione che egli ha loro assegnato nella casa che ha costruito. Se la casa fosse
del Cristo, Mos semplicemente un suo subalterno. Quindi ogni confronto per principio escluso.
Ma non questo il senso del discorso che lautore sviluppa in 3,1-6.
Per mostrare che il Cristo superiore a Mos, per prima cosa in 3,2 mostra che gli simile. Per questo dice wJ" kai; Mwu>sh'", come anche Mos.
Poi, in 3,3, afferma esplicitamente che stato ritenuto degno di una gloria
maggiore di Mos pleivono"...dovxh" para; Mwu>sh'n hjxivwtai e in 3,5-6
mostra che ci dipende dalla diversa posizione che hanno nella casa di
Dio: Mos dentro (ejn) come servo, il Cristo sopra (ejpiv) come Figlio.
La perplessit sulla interpretazione proposta da E. Grsser su questo
punto, diventa maggiore quando il lettore legge a p 172 che la oi\ko", di cui
si parla in 3,2.3.4.5.6 non solo chiamata di nuovo Haus Christi, ma si
afferma che appartiene al mondo futuro, di cui si parla in 2,5. Di conseguenza, la essenza della chiesa (das Wesen der Kirche) a cui la metafora
della casa allude, quella di essere ecclesia invisibilis (corsivo suo).
Non so se ci sia proprio quello che lautore del testo vuole dire. Anzi,
ci sono buone ragioni per dubitare. In 3,6 afferma che la sua casa siamo
noi; e poich il noi di cui parla si riferisce a noi credenti, nessuno osa
mettere in dubbio che siamo una realt visibile. Se poi si riflette che la
casa di Dio, di cui parla il testo, costituita dal popolo di Dio, come lascia
supporre il riferimento a Num 12,7, veramente difficile pensare che lautore alluda a una entit futura e invisibile.
Quindi, per questo contesto, la definizione dellessenza della chiesa
come ecclesia invisibilis fuori luogo; mentre potrebbe essere al suo posto
in 12,22-24, in cui, descrivendo la citt del Dio vivente, la Gerusalemme
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Capitolo 4
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da lui annunciata. Senza badare a questa differenza, egli le interpreta insieme dicendo che questa la parola vivente, lovgo" zw'n, di cui si parla in
4,12-13 e la definisce Predigt der Verheissung, predica (o annuncio) della
promessa. E evidente che questa definizione appropriata per le prime due
referenze (1,1-2 2,2-3); ma non adeguata a definire le parole di LXX Sal
94,7-11 citate in 3,7-11 perch, se sono lette con cura, ci si rende conto che
non contengono nessuna promessa, ma solo una pressante esortazione ad
ascoltare la sua voce, accompagnata dalla terribile minaccia della parola di
Dio, che giura di non fare entrare i disobbedienti nel suo riposo. Quindi
lespressione lovgo" zw'n , con cui lautore presenta la parola di Dio come giudice in 4,12-13 si adatta solo a 3,7-11, mentre fuori luogo riferirla anche a
1,1-2, al parlare di Dio nel Figlio, che da 2,2-4 risulta essere lannuncio di
una salvezza, la cui grandezza tale che il disprezzarla meriterebbe una pena
ben pi grave della violazione della legge, che prevedeva la morte (cf 10, 28).
Continuando la spiegazione dellespressione, a p 205 mette oJ lovgo" th'"
ajkoh'" in parallelo con kalo;n...qeou' rJh'ma, la buona parola di Dio di 6,5a,
di cui lautore del testo dice che gli illuminati hanno gi gustato. E evidente che che questa espressione suppone che la parola (rJh'ma) abbia un
sapore piacevole e per questo la definisce buona (kalovn). Di conseguenza lespressione si pu riferire solo alla promessa che resta (kataleipomevnh ejpaggeliva) di cui parla in 4,1a e che certamente equivale
allannuncio di salvezza di cui dice in 2,3; e non alla parola detta voce di
lui in 3,7-11, che piuttosto amara, in quanto la minaccia giurata di
Dio di annullarla per chi pecca di disobbedienza.
Ci sufficiente a mostrare che occorre distinguere tra il parlare di Dio
nel Figlio (1,1-2) che annuncia la salvezza (2,3) e dona la fiducia della speranza (3,6) e la parola vivente di Dio (4,12-13), che minaccia la rovina
(3,7) e che giudica e condanna chiunque per incredulit ha peccato di
disobbedienza (4,12-13 cf 3,16-19). Quindi oJ lovgo" th'" ajkoh'" di 4,2b non
si pu riferire anche a 3,7-11 ed diverso da oJ lovgo" zw'n di 4,12, perch il
primo si riferisce alla promessa, come lo conferma il fatto che coloro che
lo ricevono sono chiamati gli evangelizzati (eujaggelismevnoi), cio coloro che hanno ricevuto una buona notizia. Il secondo invece si riferisce al
giudizio, come lo conferma il fatto che a lui [] per noi il conto (pro;" o}n
hJmi'n oJ lovgo") come dice in 4,13.
4,3 Nel trattamento di pisteuvsante" il lettore trova una nuova accumulazione semantica che lo disorienta. Inizia dicendo che indica Standhaftigkeit,
stabilit, che egli spiega come lo stare saldi presso Dio (das Festsein
bei diesem Gott) che latteggiamento tipico della fede. Ci adeguato,
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perch il participio indica proprio coloro che credono, cio noi, i credenti. Ma poi, subito dopo, afferma che questa stabilit ha molti nomi
(viele Namen) a cui segue lelenco gi trovato a p 170 per la definizione di
parrhsiva, naturalmente con laggiunta di questo nome: parrhsiva, fiducia (3,6 4,16 10,19.35); ejlpiv", speranza (3,6 6,11.18 7,19 10,23);
uJpovstasi", fermezza o consistenza (3,14 11,1); uJpomonhv, pazienza
(10,36 12,1); makroqumiva, magnanimit o perseveranza (6,12[15]);
plhroforiva, pienezza (6,11 10,22).
Ci attesta ancora una volta che il commentatore non fa distinzione tra il
diverso valore semantico indicato dalle differenti parole che lautore del testo usa per indicare realt diverse. Cio non si rende conto che tutte quelle
parole da lui elencate come se fossero di significato simile a fede, in realt
non indicano la stessa cosa, ma alcune significano virt spirituali che sono
causa di altre virt spirituali, a loro non identiche. Per non ripetere la dimostrazione, rimando ai testi che ho gi esaminato a proposito di 3,6.14, dai
quali risulta che la fede il mezzo per conseguire la promessa che oggetto della speranza perch da lei scaturisce la perseveranza e la pazienza per
perseverare fino alla fine nella prova, senza peccare di disobbedienza.
4,4 Riferendosi a LXX Gen 2,2, citato nel testo, afferma che la katavpausi", riposo, annoverato dallautore tra le opere di Dio. Eppure, se
uno legge attentamente, ci si rende conto che vuole dire il contrario. La citazione dice: kai; katevpausen oJ qeo;"...ajpo; pavntwn tw'n e[rgwn aujtou', e
ripos Dio...da tutte le sue opere. Quindi katavpausi" riposo, non indica una delle opere da lui create, ma il riposare di Dio dalle sue opere, cio
lo stato di quiete da lui conseguito dopo avere compiuto le opere del creato. Ci confermato da 4,9 in cui katavpausi" considerato equivalente di
sabbatismov", (riposo o giorno) sabbatico, che indica lo stato o condizione di riposo che attende il popolo di Dio e che equivale al riposo di Dio,
a cui destinato, come risulta da 4,10.
Dunque non si tratta n di una opera di Dio n di un luogo celeste,
ma di una condizione di riposo dalle opere, come risulta da 4,10: colui
che infatti entra nel suo riposo (eij" th;n katavpausin aujtou'), anche lui si
riposa dalle sue opere (katevpausen ajpo; tw'n e[rgwn aujtou') come dalle
proprie Dio. E evidente che, in questo caso, il verbo entrare
(eijsevrcesqai), usato nellespressione colui che entra (oJ eijselqwvn),
solo una metafora simbolica, perch si riferisce a una condizione di riposo
sabbatico che si consegue alla fine, e non ad un luogo in cui si deve
entrare.
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solo Ps-Clem Hom 17,10,1 e Cl Al Exc Theod 49,2 63,1 che, come tutti sanno, sono di molto posteriori al testo di Eb.
Ci costringe a riflettere e il lettore, contro sua voglia, costretto a nutrire seri dubbi sulla correttezza metodologica del commentatore. Anche
ammesso che al tempo dellautore di Eb, circolassero varie idee su un luogo di riposo celeste (cf H. Braun, An die Hebrer, HNT 14, Tbingen 1984,
90-93; 0. Hofius, Katapausis, 59-74), mi sembra che non sia coerente con
il metodo storico-critico adoperato dal commentatore, affermare che egli ha
subito senzaltro linflusso di idee gnostiche sullo stesso luogo (p 209, nota
61) in mancanza di prove esterne sicure e di fronte alle sue affermazioni
esplicite che non danno adito a simile interpretazione.
Considerando bene le cose, lespressione riposo (sc. di Dio) deriva
direttamente da LXX Sal 94, 11 in cui Dio dice, minacciando e giurando:
[Lo vedranno] se entreranno nel mio riposo (eij" thn katavpausivn mou).
Lautore non aggiunge nulla di pi a queste parole, ma le spiega alla luce di
LXX Gen 2,2: e Dio riposo (katevpausen) da tutte le sue opere. In questo modo, il mio riposo di cui parla il salmo, diventa il riposo eterno di
cui gode Dio dalla fondazione del mondo.
Egli giunge a questa conclusione teologica per via di esclusione, suggerita dalla logica spirituale della fede. Constata in 4, 7 che le parole di Dio
nel salmo sono dette in Davide (ejn Danivd), quando erano gi nella terra
promessa. Quindi, se li minaccia, invitandoli a non imitare i padri ai quali
giur non entreranno nel mio riposo, significa che Giosu, introducendoli nella terra promessa, di fatto non li ha condotti al riposo (4, 8) . Perci
il mio riposo di cui parla Dio nel salmo non la terra della promessa, ma
letteralmente il suo, cio il suo riposo eterno, in cui egli si trova dallinizio
del mondo, cio da quando si ripos da tutte le sue onere (4,3-4 e 4,9.10)
(cf H. Hegermann, Der Brief an die Hebrer, 101-103).
Mi sembra quindi che la lettura che lautore fa del testo biblico sia pi
frutto della sua interpretazione spirituale suggerita dalla fede, che non effetto dellinflusso di categorie gnostiche, le quali, oltre tutto, sono documentate in qualche testo posteriore, prodotto da sette cristiane devianti o
eretiche.
Capitolo 5
5,1-10 Commentando il rapporto tra il sommo sacerdote e il Cristo in 5,14 e 5,5-10 alle pp 269 e 286, E. Grsser usa categorie interpretative di cui
non c traccia nel testo. Sostiene che lautore pone Aronne e Cristo luno
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Quanto a ci che costituisce la reale somiglianza tra il sommo sacerdote e Cristo, E. Grsser appare perplesso e incerto; e questa sua incertezza la
comunica anche al lettore con affermazioni non sempre univoche. A p 268,
con drastica obiettivit, fedele al testo, afferma che formalmente (formell)
il paragone stabilito dallautore solo su un punto: la chiamata divina del
sommo sacerdote (Aronne) e del Cristo, proclamato da Dio sommo sacerdote con le parole di Sal 110,4. Ma poi non sempre coerente con questa
premessa, imposta dal testo e dalla sua lettera. A p 267 dice che i punti di
confronto sono due: a) legittimazione (preso dagli uomini, chiamato da
Dio), b) la funzione (offrire doni e compatire). Ma, a ben guardare, i punti
indicati sono quattro e non due: 1) preso dagli uomini, 2) chiamato da Dio,
3) per offrire doni, 4) sa compatire.
Questa mancanza di precisione denota non chiarezza, che si mostra tutte le altre volte che ritorna su questo problema: accanto alla chiamata di
Dio, che ricorre ogni volta, laltro elemento (che per lui sarebbe il primo
punto del confronto) varia. A p 267, nota 2, ne indica di nuovo due: a) la
funzione, b) lordinazione. A p 268 ripete che sono due, ma il primo non
pi lo stesso: a) uomo, b) ordinato da Dio. A p 286 si trova la stessa
affermazione. I punti del confronto sono ancora due, ma il primo di nuovo variato: a) egli serve gli uomini, come uomo, b) egli chiamato da Dio.
Questo procedimento ermeneutico attesta che egli non distingue tra le
corrispondenze che lui, come commentatore, ama proporre per rendere comprensibile il testo dellautore, e ci che lautore dice espressamente. Per
costui uno solo lelemento decisivo del confronto tra il sommo sacerdote
(Aronne) e il Cristo, ed quello che realmente stabilisce tra loro una reale
somiglianza: come luno cos laltro sono stati chiamati da Dio ad assolvere il compito. Tutto il resto non suo e le molteplici corrispondenze che
noi tracciamo per renderci familiare il testo e usarlo per il nostro scopo non
corrispondono al fine che egli si proposto. Questo un commentatore non
pu dimenticarlo, altrimenti si corre il rischio di attribuire allautore del testo un pensiero ed un fine che non gli appartengono.
10 Capitolo 6
6,1c A p 338, volendo interpretare lespressione metanoiva ajpo; nekrw'n
e[rgwn cerca di stabilire il significato da dare a nekra; e[rga, che deduce da
9,14 ragionando in questo modo. Poich in quel testo si dice che il sangue
di Cristo purificher la nostra coscienza dalle opere morte, ajpo; nekrw'n
e[rgwn, per servire al Dio vivente, eij" to; latreuvein qew'/ zw'nti, ne dedu-
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N. CASALINI
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per accedere alla perfezione. Le due frasi quindi, unite insieme, avrebbero
questo significato:verso la perfezione portiamoci (...) e questo faremo se
Dio permette.
Faccio notare che questa interpretazione non ragionevole, perch non
coerente con la logica del discorso. Introducendo largomento che vuole
trattare, in 5,11 ha gi detto: su questo abbondante [] a noi il discorso e
difficile da dire; e in 5,12 ha giustificato la difficolt con la loro condizione spirituale. Rimproverandoli,osserva che per il tempo potrebbero essere maestri, evidentemente di altri; invece constata che hanno di nuovo
bisogno che qualcuno insegni loro gli elementi del principio dei discorsi
di Dio. Poi in 5,13 fa notare che la istruzione elementare, che egli paragona al latte (gavla), si addice a chi infante (nhvpio") mentre dei perfetti (teleivwn) il cibo solido (sterea; trofhv) cio il discorso che lui
deve fare. Quindi in 6,1 trae la conseguenza da questa premessa e dice:
Perci, lasciando il discorso del principio di Cristo, portiamoci verso la
perfezione, cio verso la condizione necessaria per il discorso difficile che
deve fare e che richiede lo stato di perfetti.
Da ci risulta che ha gi deciso senza indugio il discorso che vuole fare
e che si riferisce al Cristo sommo sacerdote secondo lordine di
Melchisedek, come ha indicato in 5,9-10. Perci non conforme alla logica del discorso dire che egli lo far se Dio concede. Se una decisione che
ha gi preso e se il discorso, di fatto, gi incominciato in 5,11 che d inizio al suo preambolo, il permesso di Dio non pu riferirsi a questo, ma a
qualche cosa messa in programma per il futuro, come indica il verbo faremo (poihvsomen).
A ci si aggiunge un secondo motivo che rende la proposta ugualmente
inadeguata. Se si considera kai; tou'to poihvsomen di 6,3a una diretta coordinata di ejpi; th;n teleiovthta ferwvmeqa di 6,1b, la frase che si trova tra
loro in 6,1c-2 risulta una semplice parentetica: mh; pavlin qemevlion
kataballovmenoi metanoiva" ajpo; nekrw'n e[rgwn kai; pivstew" ejpi; qeovn,
baptismw'n didach'" ejpiqevsewv" te ceirw'n, ajnastavsewv" te nekrw'n kai;
krivmato" aijwnivou, non gettando di nuovo il fondamento delle opere morte e della fede in Dio, della istruzione dei battesimi e della imposizione delle
mani, e della resurrezione dai morti e del giudizio eterno.
In questo caso ci che detto in 6,4-6 verrebbe a trovarsi nella posizione sintattica di essere la giustificazione diretta delle affermazioni di 6,1ab.3. Ci che ne risulta un vero controsenso. Propongo la traduzione
affinch il lettore valuti da solo lassurdit del ragionamento: Perci, lasciando il discorso dellinizio di Cristo, portiamoci verso la perfezione (...)
e questo faremo, se permette Dio. [E] impossibile infatti (gavr) coloro che
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una volta sono stati illuminati, e hanno gustato il dono celeste e sono diventati partecipi di Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e
le potenze del secolo futuro, e [che] sono caduti, [ impossibile] di nuovo
rinnovare a conversione.
Da ci risulta che essi devono portarsi verso la perfezione perch (gavr)
impossibile rinnovare di nuovo a conversione coloro che sono stati una
volta illuminati e [poi] sono caduti. Ci significa che, per la logica di questa interpretazione, coloro che sono invitati ad andare verso la perfezione
sarebbero gli stessi che hanno gi ricevuto lilluminazione, e che poi sono
caduti; e poich impossibile rinnovarli di nuovo per la conversione, a loro
non resta altro da fare che diventare perfetti. Insomma, loro che sono caduti, non hanno altra scelta che portarsi verso la perfezione, perch il loro rinnovamento impossibile. Poich non possono essere rinnovati, devono
diventare perfetti. Credo che una assurdit logica pi grande di questa non
si potrebbe partorire!
Per evitarla necessario riferire la giustificazione (gavr) addotta in
6,4-6 non a ci che afferma in 6,1ab, ma a ci che dice in 6,1c-2.3. Avendo esortato in 6,1-2 a portarsi verso la perfezione per ricevere una istruzione pi perfetta e non gettare di nuovo il fondamento, cio per non
ripetere di nuovo la istruzione fondamentale ricevuta, in 6,3 aggiunge promettendo: anche questo faremo, se concede Dio. Ci significa che egli
ritiene possibile la ripetizione della istruzione iniziale, anche se ci pone
un problema. Ripetere tale istruzione significa in qualche modo ripetere
liniziazione alla fede; e questo, a sua volta, presuppone una diserzione o
un abbandono della stessa fede, che egli paragona a un cadere (6,5a).
Ci sarebbe una cosa veramente grave. Per questo si appella allassistenza della grazia di Dio, aggiungendo in 6,3b: se concede (o permette)
Dio. Una situazione del genere non cosa da poco e lo dice apertamente in 6,4-6, che serve a giustificare la sua titubanza a ripetere listruzione
della iniziazione, che tuttavia non ritiene impossibile, perch il loro caso
non cos grave, anche se si esprime con parole severe, come si affretta
a chiarire in 6,9.
Pertanto, per rispettare la logica di questo discorso, necessario riferire
tou'to poihvsomen di 6,3a non allandare verso la perfezione di cui in 6,1b,
ma al non gettare di nuovo il fondamento, cio a 6,1c: mh; pavlin qemevlion
kataballovmenoi che non pu essere considerata una frase parentetica, ma
deve essere valutata come una participiale con il valore di verbo finito, coordinata asindeticamente con la principale (Blass - Debrunner - Rehkopf
468,1) Il senso che ne risulta sarebbe il seguente: verso la perfezione portiamoci e non gettiamo di nuovo il fondamento della conversione dalle ope-
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re morte e della fede in Dio, della istruzione dei battesimi e della imposizione delle mani, e della resurrezione dai morti e del giudizio eterno. Anche questo faremo, se concede Dio.
6,15 Commentando ou{tw" makroqumhvsa" spiega che ou{tw", cos, di
6,15a, non da riferire al participio makroqumhvsa", perseverando, che
segue, ma a ci che precede in 6,13-14, e pi particolarmente al giuramento di Dio. Il senso che ne risulta sarebbe questo: E cos (cio: poich Dio
aveva giurato), pazientando, ottenne la promessa. Di conseguenza il participio makroqumhvsa" non sarebbe congiunto, con valore causale (Blass Debrunner - Rehkopf 418, 1), ma circostanziale, con riferimento a J.
Swetnam, Jesus and Isaak, AnBib 94, Rome 1981, 185.
Evidentemente non si rende conto che, interpretando in questo modo, il
caso di Abramo perde la funzione di esempio, che poi il vero motivo per
cui rievocato, come si pu agevolmente desumere dalla logica del discorso.
In 6,11-12 dice: Desideriamo per che ciascuno di voi mostri lo stesso
zelo per il compimento della speranza fino alla fine, affinch non diventiate pigri ma imitatori (mimhtaiv) di coloro che per fede e perseveranza (dia;
pivstew" kai; makroqumiva") ereditano le promesse. Da ci risulta che per
lautore la fede e la perseveranza (makroqumiva) sono il mezzo indispensabile per diventare eredi delle promesse.
Ci che segue in 6,13-15 ha lo scopo di giustificare questa affermazione. E introdotto con un gavr in 6,14a e le frasi che seguono sono coordinate con kai; ou{tw" di 6,15, il quale di necessit deve essere unito al participio
makroqumhvsa", dovendo giustificare laffermazione di 6,12, e cio che per
mezzo ... della perseveranza (dia;...makroqumiva") si diventa eredi delle
promesse. Il senso che ne risulta il seguente: Infatti Dio, facendo la sua
promessa ad Abramo, poich per uno pi grande [di s] non aveva da giurare, giur per se stesso dicendo: [vedrai] che certamente benedicendo benedir te e moltiplicando moltiplicher te. E cos [cio] perseverando,
ottenne la promessa.
Quindi linterpretazione proposta da E. Grsser non pertinente n adeguata, perch per lautore del testo la garanzia di conseguire la promessa
non solo nella grazia della parola divina, ma anche nella fede e nella perseveranza delluomo a cui stata annunciata. Ci risulta da 4, 2 in cui dice
che la parola dellascolto non giov a loro che lavevano ricevuta perch
non si erano mescolati (o non si era mescolata) per fede (th'/ pivstei) a
coloro che lavevano udita (o alle cose udite). E soprattutto da 10,36 in
cui dice: Avete bisogno di pazienza (uJpomonh'"), affinch la volont di Dio
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N. CASALINI
facendo, conseguiate la promessa. Questo il pensiero dellautore, e poich Abramo un esempio tipico di questo paziente perseverare, egli lo ha
additato come modello ai suoi destinatari in 6,13-15, affinch ne diventino
imitatori, come li ha esortati ad essere in 6,12.
Concludo questa lunga verifica. Avrei potuto scrivere il doppio di queste pagine per elogiare i meriti dellopera. Ma ci non avrebbe giovato a
nulla, perch il lettore competente, a cui mi riferisco, capace di valutare
da solo i pregi del commento. Perci ho ritenuto pi utile per me e per lui
indicare quei punti in cui lesegesi del commentatore risulta problematica
perch non solo non aiuta a chiarire il pensiero dellautore del testo, ma
spesso lo tradisce. E ci esattamente il contrario di quello che uno si attende da un libro di questo genere.
Nello Casalini, ofm
Studium Biblicum Franciscanum, Jerusalem