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Gianfranco Dalmasso, La genesi del discorso. Inconscio e nichilismo (Filosofia TorVe...

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Gianfranco Dalmasso

La genesi del discorso. Inconscio e nichilismo


1. Cristianesimo e nichilismo
2. Nichilismo come sintomo
3. Etica del soggetto ed etica del logos

La coppia di termini che compare nel titolo di questo convegno, nichilismo e redenzione, tira in
campo inevitabilmente la questione del rapporto fra il cristianesimo e il linguaggio. Il primo
termine, nichilismo, nella sua genesi teorica e storica, non si costituisce come un termine
innocente. Questo termine non innocente perch non si pone come un concetto originario,
in grado di comandare il gioco della sua comprensibilit. Questo termine sembra funzionare
come di rimando, alludere ad una debolezza, ad un mancamento che implicano, nella loro
struttura un termine di riferimento altro da s. Il secondo termine della coppia, redenzione
complica e surdetermina ulteriormente il discorso specificando qualcosa di essenziale alla
natura di tale altro da s. Il tale altro da s funzionerebbe, qui s, come un punto di riferimento
in grado di comandare il gioco del suo significato e del costituirsi stesso di tale significato.
Redenzione implica un elemento, comunque lo si concepisca a cui o verso cui la realt ritorna:
un elemento cio che non solo precede la realt, l ma in grado di porsi come riferimento ed
dotato di forza sufficiente ad attirare un movimento che avrebbe la forma della ripetizione. Qui
nel discorso esplode anche l'ambiguit del termine redenzione: la ripetizione, che vi in
questione, che rapporti intrattiene con tale elemento originario, quali sono cio la struttura e
il tempo di tale movimento?
pur vero che tale modo di prospettare le cose pu riferirsi non solo a questioni che ineriscono
al linguaggio cristiano, ma anche al linguaggio dell'ontologia greca. I concetti di forza positiva
delle cose, di divenire di ritorno e quel concetto che rende possibile i concetti evocati in
precedenza e cio la nozione di Uno, riguardano le movenze fondamentali del pensiero greco.
Prima e indipendentemente dall'influsso del linguaggio ebraico-cristiano. Tuttavia anche vero
-- e tale verit mi sembra evocata provocatoriamente dal titolo di questo convegno -- che
nichilismo e redenzione segnalano l'intreccio, difficilmente dipanabile, che i due termini,
nella loro direzione e nel loro sviluppo, hanno intrattenuto con il pensiero ebraico-cristiano.
Da una parte nell'ottica di tale linguaggio il giudizio su una mancanza nella positiva forza degli
enti legato alla comparsa di un elemento che modifica radicalmente la struttura dei giudizi. Il
venir meno riferito non tanto e solo alla natura di ci che vien meno, ma a una positivit
diversa che entra in gioco nella struttura del divenire e del discorso: cio l'Incarnazione del
Verbo. La debolezza del mondo, cio degli enti e della totalit degli enti, vista come tale in
relazione ad un elemento, in questo caso misterioso, una sorta di x, in forza del quale il
mondo non pi l'unica realt, cio la totalit degli enti. D'altra parte quest'intervento che
sarebbe l'Incarnazione del Verbo inaugura una forma del pensare che funziona come scoperta
della verit del mondo: scoperta di una verit che pensata non sussistere in se stessa ma nella

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forma del cambiamento. Mi riferisco alla concettualit ebraica e poi cristiana della metanoia,
della ricapitolazione e della visione apocalittica della storia.

1. Cristianesimo e nichilismo
Queste battute iniziali intendono riproporre due problemi oggi meno visibili nel dibattito sia
filosofico sia teologico, rispetto a qualche decennio fa. Il primo problema riguarda la natura
dell'esperienza greca e la natura del pensiero filosofico inaugurato dai greci in rapporto
all'atteggiamento religioso. In particolare la strategia della filosofia platonica che tipo di
percorso ha inaugurato e reso possibile nel sapere occidentale? Come interpretare la
costituzione del logos greco di un discorso che nato demarcandosi dai saperi medioorientali
che lo hanno preceduto e in cui del resto tale pensiero ha trovato le sue radici mitiche e
cosmologiche? Il dibattito rilevante non solo per decifrare i caratteri del rapporto tra filosofia
e religione negli antichi pensatori greci, ma anche per impostare correttamente la questione dei
rapporti fra Annuncio cristiano e filosofia greca.
Qualche decennio fa, come prima fugacemente accennavo, il dibattito sulla de-ellenizzazione
aveva occupato per qualche tempo e con una certa ampiezza il campo ermeneutico e teologico.
Si era imposta ed era diventata addirittura prevalente la prospettiva secondo cui il logos greco
costituirebbe un assetto di pensiero inassimilabile e per di pi pericoloso per la purezza e
l'integrit dell'Annuncio evangelico. Quest'ultimo, nella tradizione ebraica che lo precede e lo
rende possibile e nella persona stessa di Ges Cristo, si formula secondo linguaggi e stili di
pensiero che poco o nulla avrebbero a che fare con la mentalit greca. L'intervento perci del
linguaggio greco e della concettualit che in esso si esprime sarebbe stata fuorviante rispetto al
nucleo essenziale dell'esperienza cristiana. Gli esempi ed i banchi di prova pi rilevanti erano
allora individuati nei concetti di anima di universale di mondo, di episteme. Questo lessico,
attraverso san Paolo e poi nei primi Apologeti e Padri della Chiesa, si sarebbe imposto
ridefinendo nella gabbia di impostazioni metafisiche, intellettualistiche, rassicuranti
l'autenticit tutta storica, fattuale, narrativa della verit cristiana.
Il dibattito sulla de-ellenizzazione da vari anni si esaurito ed oggi interessa molto poco sia gli
studiosi sia la considerazione corrente dei rapporti tra cristianesimo e filosofia. Non mi pare
tuttavia che il dibattito si sia esaurito per il conseguimento di risultati critici e/o di una
maturazione teorica della autocoscienza dell'esperienza cristiana. Mi sembra al contrario che
l'esaurimento di tale dibattito sia dovuto alla congiuntura culturale attuale in cui non solo la
tradizione umanistica e storicistica, ma anche e pi semplicemente il senso storico, nella
considerazione dell'esperienza umana, entrato profondamente in crisi. La valutazione di
esperienze e problemi stata sempre pi sradicata, nella mentalit diffusasi in questi ultimi
anni, dal suo contesto storico fino a rasentare la barbarie culturale. Il correlato di tale
atteggiamento stato il diffondersi di un problematicismo poco avvertito delle sue origini e
della sue motivazioni ed irrigidito in una sorta di autoreferenzialit individualistica il cui unico
destino sembrato essere un nichilismo, pi o meno venato di pragmatismo. In campo
cristiano questo atteggiamento si espresso come fideismo, cio come quella posizione che si
compiace ed approva delle impossibilit dell'impresa della ragione di arrivare ad affermazioni
definitive e vede perci non solo nell'incapacit veritativa della scienza, ma anche nella
incapacit veritativa della metafisica e della filosofia greca dei motivi per garantire alla fede
cristiana un diritto di cittadinanza.
Mi sembra che questo modo di impostare le cose faccia correre all'esperienza cristiana che
cerca di pensare se stessa rischi ben maggiori dell'intellettualismo metafisico. Il nichilismo che
sembra inficiare oggi il pensiero cristiano non riguarda una presunta debolezza a livello di
affermazioni metafisiche o comunque di affermazioni forti riguardo alle realt del mondo,

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dell'uomo e di Dio. Riguarda invece, io credo, l'incapacit di pensare, da parte di un soggetto al


problema della sua origine e alla genesi del suo discorso. In termini sia storici sia teorici. Nel
dibattito fra Atene e Gerusalemme spesso, direi quasi sempre censurata Alessandria: cio il
luogo dove si sviluppata fino a diventare corpus filosofico e teologico il fatto che, fin
dall'inizio, fin dal tempo dei primi apostoli, degli ebrei, convertiti a Cristo, hanno cominciato a
pensare in greco.
Riguardo alla realt cristiana e ai criteri della sua pensabilit rispetto alla filosofia e alla
saggezza umane mi sembra che oggi continui ad essere operante, anche se in modo nascosto e
non teorizzato metodologicamente il criterio, proprio della teologia liberale degli inizi del
Novecento, secondo cui il cristianesimo autentico risiederebbe tutto e solo nella purezza delle
origini. L'idea di un puro pensato senza tradizione, anche nel senso radicale,
metodologicamente, di traduzione, mi sembra un abbaglio ideologico che altera il dibattito
filosofico e teologico sul cristianesimo, ma anche pi ampiamente il dibattito sulla natura delle
tradizioni religiose. Cos assistiamo oggi allo sviluppo di un dibattito interreligioso e
interculturale spesso quasi totalmente sprovvisto del senso critico della genesi delle posizioni e
degli interventi. Nel caso del cristianesimo la questione di una verit della realt di Cristo
non sta, certamente, in una metafisica e/o in una visione del mondo, ma piuttosto in una
esperienza originaria di s in grado di attraversare il mondo e le culture riscoprendo
incessantemente il punto sorgivo della propria esperienza e del proprio discorso. Mi sembra
perlomeno ingenuo auspicare una capacit di apertura e/o di inculturazione dell'esperienza
cristiana in popoli e in culture extra-europee, senza riferirsi alla prima grande apertura ed
inculturazione che stata per le prime comunit cristiane la traduzione in greco del proprio
modo di pensare all'Annuncio. perch fu tradotto in greco che il Kerima pot proporsi in
termini missionari cio in grado di attraversare e quindi di rendere ragione dell'autenticit della
propria esperienza. Attraverso questo gesto di traduzione i primi si resero conto dell'autenticit
di un'esperienza che era ed traduzione nella sua essenza, in termini elementari, direi quasi di
popolo, senza scomodarsi a citare Hammann e la teoria romantica secondo cui il parlare umano
traduzione di un linguaggio divino.
Tradotto una prima volta, il linguaggio cristiano pu essere tradotto in altre lingue. Una prima
volta che non essa stessa mai prima, perch una purezza vergine ed originaria introvabile.
Per quanto riguarda il logos greco, non qui la sede di un affronto del carattere religioso o
meno del suo discorso e delle sue implicazioni esistenziali ed antropologiche. certo tuttavia
-- mi limito qui a porre il problema -- che la forma contemporanea del nichilismo non verrebbe
ad inficiare una presunta compattezza metafisica od anche onto-teologica, ma lavorerebbe
semmai fin dall'inizio la concezione platonica della parola. Basti pensare al dialogo platonico
del Parmenide e ai dibattiti, antichi e recenti, sulla sua interpretazione.

2. Nichilismo come sintomo


Nei termini del dibattito contemporaneo intorno al nichilismo mi sembra che la
contrapposizione tra pensieri deboli e pensieri forti non aiuti a cogliere il significato del
termine ed anche le impasses teoriche e di esperienza nel nostro attuale ordine teorico e
linguistico. Mi sembra piuttosto che la questione della razionalit vada affrontata secondo
interrogativi e punti di leva che possano spiazzare il senso stesso di una contrapposizione come
quella prima accennata. Tale contrapposizione sembra ricalcare in ogni caso un modello di
razionalit intellettualistico nel senso di chiuso, speculare e auto-riflettente. Al di l di certe
sedimentazioni post-rinascimentali mi sembra che la nozione di razionalit nel pensiero
occidentale abbia sempre implicato un movente, una legge ed una destinazione. Per l'uomo
arcaico, che si concepisce come incastonato in un cosmo finito e avvolgente il suo corpo e la

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sue esperienza, il Logos, con la sua comparsa soprattutto greca, si posto come progetto di
controllo, ma anche vertigine di un individuo che ha paura di essere travolto dalle forze
soverchianti della natura. Anche se avanza verso il futuro non sprovvisto di strumenti (vedi il
primo stasimo dell'Antigone).
La concezione della ragione antica, sia quella greca sia quella cristiana, che stata una
conversione e una radicale riformulazione della ragione greca, ha avuto, come sappiamo, uno
scollamento decisivo in relazione al soggetto moderno della scienza. Un sapere, da Descartes a
Galileo, si posto come produzione di un linguaggio in grado di descrivere e dominare le cose.
Un sapere tuttavia che senza soggetto, come hanno commentato autori da Heidegger a Lacan:
un sapere che esclude le domande sulla sua genesi. Cos ci che pi interessa il soggetto
proprio ci che fuori dal cerchio della scienza. 1
A questo punto il soggetto non riesce a controllare ci che dice. I legami, anche di discorso,
una volta dicibili come legami cosmologici, mitici, religiosi, giuridici, diventano soltanto
interiori, psicologici secondo una modalit di interiorit che relativa ad una certa
concezione della coscienza e dell'esperienza come tutta di dentro, psicologica, rispetto ad un
fuori, ad un esterno. Cos l'individuo diventa cittadino, nel senso di citoyen, ma anche
sradicato e, per di pi in una strutturale difficolt a ripensare radicalmente i suoi legami. Tale
cittadino, il borghese ottocentesco, gi pronto per il lettino di Freud.
A tale figura del soggetto moderno della scienza legata la figura attuale del nichilismo. Il
sapere intrecciato alla costituzione della scienza modernamente intesa, un sapere che opera
delle mani del soggetto del conoscere, costituito a prezzo di una messa tra parentesi del
mondo, questo sapere pu non riuscire, pu fallire. Il fallimento una possibilit presente e
funzionante anche nel sapere antico, ma esso inerisce ad una difficolt pensata come esistente
nelle cose oppure anche nel rapporto fra la ragione e le cose. Tuttavia tale fallimento non
inerisce perci stesso ad una sfiducia nella ragione come tale. Tale coscienza si espressa
soprattutto in Nietzsche e in Heidegger. Nel primo come attacco allo schema scientista e
moralistico di uomo funzionante nel sapere borghese ottocentesco, per cui tale uomo va
superato, nella prospettiva dell'oltre-uomo. Nel secondo di questi pensatori, Heidegger, il
sapere-sapersi dell'uomo moderno si costituisce nella dimenticanza della sua origine. Si tratta
di un soggetto che non pensa l'origine del suo discorso: il nichilismo sintomo di questa
dimenticanza.
Ma in base a che cosa il soggetto moderno del conoscere opera questa mossa esorbitante? Cio
qualcosa che non gli compete e che non suo. Viene qui in primo piano la questione della
genesi del soggetto conoscente. Questione gi presente nel neo-platonismo nella tradizione
classica, ripreso oggi ad esempio da Lvinas e da Derrida che pongono la questione di un
punto sorgivo dell'io come questione che l'io non in grado di dominare.
Credo che oggi il dibattito sul sapere non riguardi tanto la riuscita o meno di una dottrina
metafisica, ma qualcosa di pi radicale e cio il legame costitutivo dell'io nel suo sapersi. Cio
una tenuta che viene prima del dubbio scettico e/o nichilista e che riguarda il movimento
produttivo del sapere che l'io ha o pretende di avere su di s. Il nome di Hegel qui d'obbligo
come riferimento che tuttora avvolge il nostro linguaggio. Anche se in Hegel questa
consapevolezza di metodo inficiata dal debito ed insieme dal condizionamento del concetto
moderno di coscienza.

3. Etica del soggetto ed etica del logos

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Queste problematiche non sono inedite anche per un orizzonte di linguaggio lontano dal nostro.
Nei termini della filosofia classica la mens o il nous o il sapere (disciplina, legesthai ecc.),
nell'economia del discorso condotto finora, significano la strutturale imprendibilit, da parte
dell'io, dell'origine del suo discorso. Questo spiazzamento, gi in quell'orizzonte di pensiero,
non significava affermazione di tipo agnostico e scettico, quanto piuttosto il metodo di
costituzione della razionalit.
L'idea di legame e di ordine, calibrata nel linguaggio filosofico classico e poi patristico stanno
ad indicare l'impossibilit di pensare alla struttura della razionalit al di fuori del problema di
un movente e di una destinazione. 2
Nei Soliloqui di Sant'Agostino tale idea significa anche il problema della consistenza stessa
dell'io, della mens di fronte alla ratio. Nel montaggio teatrale del Dialogo la Ragione chiede ad
Agostino:
Ed ora supponi di aver trovato qualche cosa: a chi lo affiderai per passare ad altro? 3

Qui la nozione di memoria, che per Agostino fa tutt'uno, come sappiamo, con la nozione di
conoscenza, si rivela impotente a rendere conto dei criteri di costituzione di uno scritto, senza
di cui non si d trasmissione, traccia, tradizione.
R. la memoria forse tanto ampia da conservare adeguatamente tutti i risultati della
ricerca?
A. difficile, anzi impossibile.
R. Pertanto opportuno scrivere. Ma che cosa fare, ch la tua salute non ti consente la
fatica dello scrivere? E queste tue riflessioni non si possono dettare perch richiedono la
perfetta solitudine.
A. Hai ragione. Non so proprio come fare. 4

Che rapporto intreccia il sapere, che implica in questo testo l'interiorit dell'anima (me
stesso, queste tue riflessioni), con la parola e con lo scritto? Il rapporto del sapere con la
parola e con lo scritto sembra inestricabile, abissale
Invocherai salvezza e aiuto per raggiungere il tuo intento. Quindi consegna allo scritto
anche la tua invocazione in maniera da sentirti rinvigorito da tale inizio. 5

Si tratta cio di costruire uno scritto che contenga la struttura dell'invocazione. La sorta di
dottrina generale sulla realt, che segue immediatamente dopo nei Soliloqui, esposta nella
forma di un indirizzo a Dio come a un termine di preghiera, ad un che, ad un uno che oggetto
di preghiera.
Il triangolo memoria-invocazione-scritto Agostino lo monta consapevolmente, cercando di
costruire un testo che sia in grado di contenere come sua struttura un'invocazione.
O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale... 6

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Di sfuggita Domenico Gentili, curatore dell'edizione dei Soliloqui nell'Opera Omnia, richiama
la denuncia agostiniana del materialismo epicureo e stoico. 7 Il materialismo sembra essere
il bordo di questo testo, il crinale del rapporto fra la memoria e lo scrivere. Che cosa infatti
scrivere, nell'accezione che qui Agostino esamina, se non assicurare, garantire il rapporto fra
l'io e il sapere? Scrivere significa in questo senso dominare, tenere in pugno il sapere.
Operazione paradossale perch questo dominio risulta ultimamente impossibile: esso
implacabilmente fallisce. L'impresa di un sapere, legato all'interiorit e alla memoria dell'io, si
infrange nel suo funzionamento, nel muro di un impossibilit, di un'esteriorit incontrollabile,
invincibile dall'io e dall'avventura, necessariamente interiore, del sapere. Per materialismo di
Agostino intendo qui la dipendenza dalle cose che non pu essere ricompresa e riassunta dalla
luce della coscienza (cio della ragione e della libert). Il materialismo la linea di confine fra
l'io e le cose in cui l'io si infrange. Il materialismo, nei limiti e nell'accezione di questo accenno
di lettura, il lato della morte di questo rapporto fra l'io e il sapere, il lato della morte del
rapporto fra chi sa e il sapere. Esso quindi la memoria vista in se stessa: memoria che ricade
in se stessa.
O Dio che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale...

La questione del chi ricorda, del chi agisce nella memoria fa tutt'uno per Agostino con il
problema dell'accoglienza di Dio. 8
La struttura del testo di Agostino non ha due dimensioni, ma tre. Nel rapporto fra la memoria e
lo scrivere il terzo chi rimemora e chi scrive. La questione di un dominio cosciente da
parte dell'io non pu funzionare n dalla parte della memoria, intesa come sapere, n dalla
parte dell'impotenza del sapere di fronte all'altro da s, cio di fronte al problema della perdita,
della materia, della morte. La struttura dell'invocazione in un testo a tre dimensioni inaugura un
tipo di sapere radicalmente diverso che il possesso: sia come spirito possessore sia come il suo
correlato che la materia da cui si posseduti.
Nello spazio tridimensionale che il testo dei Soliloqui delineata una scena teatrale, la scena
di un'azione. I due personaggi del dramma sono Agostino e la sua ragione, parti teatrali di un
unico movimento che quello del logos (all'improvviso mi disse qualcuno, non so se io stesso
o qualcuno fuori di me o dentro di me... ). 9
Qual il criterio in base a cui si pu giudicare del funzionamento del logos? Quale criterio si
deve perseguire per realizzare l'avventura agostiniana del sapere, cio la scienza di Dio e
dell'anima? La questione sembra per un aspetto irrisolvibile poich Agostino afferma di non
conoscere un criterio in base a cui produrre affermazioni fondate (nescio quomodo mihi
demontrari debeat ut dicam: sat est). Dio sfugge ad un criterio di discordo su di lui:
Non vedo come ci possa avvenire. Non ho mai avuto nel pensiero un oggetto tanto simile
a Dio da poter dire di voler pensare Dio come penso quell'oggetto. 10

Come avere dunque un sapere di un discorso su Dio? In questa struttura di pensiero si incunea
la nozione di verit e il problema del suo percorso.

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Molti parlano, con abbondanza di parole, di cose di cui non hanno scienza allo stesso
modo che anch'io ho manifestato il desiderio di avere scienza delle cose di cui ho parlato
nella preghiera. 11

Quando un soggetto cosciente parla, a partire da che cosa e a chi parla? Questione che nel De
magistro di Agostino trova la sua affermazione paradigmatica. Per Agostino la coscienza di se
stessi si costituisce nella catena produttiva della memoria come rapporto della coscienza di s
con una ripetizione-ritrovamento che generativa del significato (il maestro interiore).
Tanto che la ricerca della verit si formula in tale testo come un consulerem veritatem,
prendere posizione, prendere posizione, decidere, consultare.
La questione, gi platonica, della memoria diventa metodologicamente raddoppiata in
Agostino: diventa coscienza dell'essenziale impossibilit, da parte dell'io cosciente, della mens,
di dominare l'origine del proprio discorso. Di modo che il prendere posizione rispetto ad un
non proprio costitutivo in azione nel proprio (?) stesso discorso viene scoperto come il rigore,
etico e logico insieme, che custodisce l'idea di razionalit.
Nel libro decimo delle Confessioni Agostino parla non solo di una veritas lucens, ma di una
veritas redarguens. La verit che attiva in ci che dico, di per s imprendibile, ma efficace, e
conoscibile nei suoi effetti, una verit che mi rimprovera. Che mi spiazza e mi urge alla
coscienza di un cambiamento di me stesso, cambiamento che inerisce alla coscienza e al
metodo di rapportarmi all'origine di ci che dico.
Questo criterio tanto poco interpretabile, come riferito ad una terminologia odierna
esistenzialistica in senso meramente interiore, che Agostino lo pone in termini dispiegati e
pubblici come regola metodologica nel Prologo del De doctrina christiana, cio nel testo in
cui egli ambisce a porre niente meno che le leggi costitutive e regolative del sapere per un
cristiano.
Il vero e il falso, l'obiezione e l'errore, riguardano in quel testo una correttezza non
esclusivamente logica, ma al tempo stesso morale. C' una contraddizione giusta ed una
contraddizione ingiusta. Agostino sfida i suoi interlocutori: chi potr contraddire con giustizia
il carattere obbligante del mio sforzo? . 12
La verit non essendo un'idea nel senso di una rappresentazione e di un punto di vista, avvolge
e precede sia Agostino sia il suo interlocutore. Al di l dell'accordo e del disaccordo,
l'interlocutore non pu obiettare al modo con cui Agostino si rapporta al luogo, per cos dire,
della verit sua e del suo interlocutore.

Note
1. Vedi J. Lacan, La scienza e la verit, in Scritti, a cura di G. Contri, Torino, Einaudi. Testo
2. Su questa tematica cfr G. Dalmasso, Consulere veritatem. Soggetto del discorso e soggetto
dell'etica in S. Agostino, in AA.VV., Di-segno. La giustizia nel discorso, a cura di G. Dalmasso,
Jaca Book, Milano, 1984, pp. 71-106. Testo
3. Soliloqui, a cura di D. Gentili, Citta Nuova Editrice, Roma, 1970, p. 383. Testo
4. Ibi, p. 383. Testo
5. Ibi. Testo
6. Ibi, p. 387. Testo
7. Cfr Epicuro, Ep. A Erod.; per gli Stoici cfr in Diogene Laerzio, 7, 156. Testo

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8. Se si dicesse: chi ricorda, l'attore della memoria spirito e non materia, direbbe solo l'altra
faccia di questo bordo che la memoria. La struttura del testo di Agostino non afferrabile
come un dibattito fra lo spirito (libert, trascendenza sul visibile e sul mondo) e la materia
(condizionamento e trama cosmica, dipendenza dalla trama mondana). Testo
9. Soliloqui, p. 383. Testo
10. Ibi. Testo
11. Ibi, p. 397. Testo
12. Possit huic officioso labori nostro non recte aliquem contradicere. Testo
Informazioni sul sito | Ultimo aggiornamento: 21 agosto 2002

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