You are on page 1of 14

L’eredità moderna di

TUTHMOSI III
Di Massimo Barbetta

A volte può capitare, nel corso delle vicende umane, che una importante figura
storica, soprattutto se molto antica, venga in parte dimenticata o resa
leggendaria da racconti mitici, che possono formare una vera e propria epopea,
disgiunta parzialmente o totalmente dal contesto storico in cui essa visse. Uno
dei più grandi Faraoni della storia dell’Antico Egitto, insieme a Sesostri III ed a
Ramses II, fu sicuramenteTuthmosi III.
Questo re condusse l’Egitto alla massima espansione territoriale della sua
plurimillenaria storia; si distinse come assennato organizzatore dello stato,
eccelse come costruttore di templi ma, stranamente o casualmente, (questo
studio cerca infatti di appurarlo) è conosciuto, ancora oggi, in ambito esoterico
sia occidentale che orientale, come il potenziale creatore di una scuola
iniziatica e misterica davvero segreta, che si sarebbe mantenuta tale per
migliaia di anni.
Di questo ‘ateneo’ segreto, logicamente, non si ha nessuna informazione
ufficiale o documentaria, ma si ritiene fosse connesso ai sacerdoti del culto di
Amun od a quelli del culto del dio di cui il Faraone portava il nome: Djehuti,
alias Thot. Esso aveva la funzione di salvaguardia e mantenimento del sapere e
della cultura egizia, che, all’epoca di Tuthmosi III era già onusta di 3.000 anni di
fasti e di storia. Ma, attraverso ulteriori 3.500 anni di storia, le conoscenze
ancestrali od archetipiche del “Primo Egitto”, raccolte da questa scuola,
sarebbero giunte sino a noi, vivificate e sublimate via via dalle culture che si
appropriarono, nel corso dei secoli, degli arcani sentori della terra del Nilo, per
essere infine plasmate in un inaspettato “corpus” letterario.

Secondo Laurence Gardner (Le misteriose origini dei re del Graal, pag. 534),
Tuthmosi III era stato, infatti, il fondatore di una Grande Fratellanza Bianca,
erede di antiche scuole misteriche, così appellata forse per la veste bianca dei
suoi membri, a suo dire, sacerdoti di Ptah ma, più verosimilmente, per
l‘interesse per la misteriosa polvere bianca chiamata erroneamente, dallo
scrittore inglese, “mfkzt”, in luogo di “M-fkat”, ritrovata dall’egittologo inglese
W.M. Flinders-Petrie nell’area circostante l’antico sito templare di Serabit el-
Khadem, nel Sinai. (Archeomisteri nr. 12 e 13).
Secondo Harvey Spencer Lewis (1883-1939), (The mystical life of Jesus),
fondatore della “Loggia Suprema dell’Antico e Mistico Ordine dei Rosacroce”, e
secondo Michael Howard (The occult cospiracy) questa Fratellanza occulta
egizia aveva sede nel Tempio di Tebe, ora Luxor; constava di 39 membri, con
uomini e donne deputati a preservare i sacri misteri e, perciò, considerata
come “Scuole di misteri”. l candidati moderni all’iniziazione dell’istituzione
fondata da Spencer Lewis, l’AMORC, acrostico di “Antiquus Mysticusque Ordo
Rosae Crucis”, secondo alcuni derivato dell’”Antiquus Arcanus Ordo Rosae
Rubeae et Aurae Crucis”, dovevano prestare giuramento davanti alla Sfinge ed
essere ispirati profondamente alla matrice culturale egizia..

Questa scuola misterica, secondo la tradizione rosa-crociana, era stata fondata


direttamente da Tuthmosi III (1479-1425 a.C.).
Non a caso l’AMORC riconosce come proprio anno di fondazione il 1450 a.C.,
data di morte di Tuthmosi III, secondo certe cronologie.
Secondo la leggenda comunemente nota, erano stati proprio i sacerdoti (Kheri-
Hebs) di Amun a sceglierlo ritualmente, quale legittimo successore al trono,
durante una cerimonia religiosa avvenuta durante il regno della regina Hat-
Shep-Sut.
Il racconto leggendario fatto istoriare sul tempio di Karnak, ben 42 anni dopo gli
avvenimenti in questione, da un maturo Tuthmosi III ed analizzato per la prima
volta da Henry Breasted, vuole, infatti, che il giovane Tuthmosi frequentasse
abitualmente il grande tempio di Amun. Durante una processione in cui la
statua del dio, posta su di un tabernacolo a forma di barca, veniva portata a
spalla dai sacerdoti, il giovane si prostrò a terra ma, quando la statua era
giunta presso di lui, il dio rese il peso insopportabile ai sacerdoti-portatori, che
furono costretti a fermarsi, invitando il giovane principe a rialzarsi.
In realtà, sembra che furono gli stessi sacerdoti ad escogitare questo trucco,
quale un vero e proprio ‘deus ex machina’ ‘ante-litteram’, conferendo a
Tuthmosi la benevolenza e l’apprezzamento della loro gruppo, tramite il
simulacro di Amun. Come conferma Alan Gardiner (La civiltà egizia, pag.166),
vi era un potente partito, sostenuto dal clero di Amun, che prediligeva senza
remore il giovane principe; e che Tuthmosi potrebbe aver confermato come
esistenza, privilegi ed organizzazione, una volta ratificata la sua ascesa al
trono.
Sotto il profilo storico, quindi, è teoricamente verosimile che il giovane
Tuthmosi abbia voluto tutelare la memoria e la struttura di queste scuole
misteriche, unificandone e strutturandone l‘assetto, con la sua consueta
energia e determinazione (anche se l‘evento potrebbe non essere avvenuto in
questo modo).
Come ebbe a scrivere, con tono enfatico e spirito romanzesco, lo stesso
Spencer Lewis (Rosicrucian questions and answers with complet history of the
Rosicrucian Order, Rosicrucian Library, vol. I), “Una ristretta cerchia di iniziati
era ammessa alle stanze personali del faraone. l membri di questi gruppi
divennero sempre più selezionati, con insegnamenti sempre più profondi e le
discussioni sempre più dialettiche; tanto che nacque una società autocratica e
segreta di grandi menti, ponendo le basi della grande Fratellanza Bianca”... “Fu
Tuthmosi lll che modellò, strutturandola, la forma fisica di questa Fratellanza”...
“Un giorno Tuthmosi propose che la ‘classe’ che si incontrava nelle sue stanze
divenisse un ordine chiuso e segreto. Si tramanda come questo incontro si
svolgesse nella settimana tra il 28 Marzo ed il 4 Aprile del 1489 a.C. (Anche qui
le datazioni non consentono di esprimere un parere univoco; tuttavia, se
esaminiamo la maggior parte delle cronologie degli egittologi, in questo anno
Tuthmosi III o non era nato o era un bambino!), più precisamente Giovedì, 1°
Aprile, successivamente connesso ad un giovedì santo”... “Alla riunione
parteciparono 3 donne, tra cui la moglie di Tuthmosi e 9 uomini; e fu deciso,
per sicurezza, di non dare un nome alla Fratellanza”... “Nel 1447 a.C. vi erano
39 membri; e gli incontri avvenivano in una sala del Tempio di Karnak,
all’esterno della quale vi erano due obelischi del faraone”... . ”Le riunioni
venivano vidimate dal sigillo, con cartiglio del sovrano; che divenne, così,
emblema dell’Ordine. E Tuthmosi stesso non mancava di emettere uno
scarabeo recante il suo cartiglio ed un simbolo noto a tutti i mistici. Uno di
questi è stato donato a noi (AMORC)” “Questo cartiglio è contenuto
nell’obelisco di Central Park, che si ipotizzò “sarebbe stato poi eretto “nel
paese dove l’Aquila distende le sue ali” (un po’ di sano patriottismo a “stelle e
strisce” non guasta!)

Secondo Michael Howard, le iscrizioni dell’obelisco egizio fatto incidere


daTuthmosi III, da lui definito trisavolo di Mosè, presente a New York, nel
Central Park, e chiamato confidenzialmente, ma erroneamente, “l’Ago di
Cleopatra”, furono identificate, da Spencer Lewis, come simboli criptati “di tipo
massonico”. D’altro canto la spedizione dell’obelisco negli “States”, da
Alessandria d’Egitto, fu curata proprio da “massoni”.
Non stupisce, a questo punto, sapere che, al di sotto del basamento
dell’obelisco di Tuthmosi III, furono ritorovati, 7 oggetti di uso pratico, ma di
fortissimo valore simbolico massonico, fatti interrare da un gruppo di massoni,
durante una cerimonia rituale, per le generazioni future. Evidentemente
l’associazione culturale tra Tuthmosi III, che dell’obelisco era l’autore, e
l’“intellighentia” statunitense non era solo prerogativa dell’AMORC.
Altri obelischi del faraone sono a Roma, nei pressi del Laterano; a Londra, nei
pressi del ‘Victoria Embankments’ sul Tamigi; e all’ippodromo di Istambul.
Laurence Gardner, un po’ disinvoltamente, ci fa sapere che una filiazione di

quest’ordine, fondato da Tuthmosi III, diede origine ai ‘Terapeuti egizi’ che, in


Giudea, a quanto riporta Spencer Lewis, furono identificati con gli Esseni di
Qumran, di cui Gesù faceva parte; forse antesignani della sapienza di quelli
che diverranno, secoli dopo, i Rosa+Croce. Inoltre, come apprendiamo da Alan
Gardiner (La civiltà egizia, pag. 51): “Il vocabolo egizio originario “Per Aa”,
significava semplicemente “Grande Casa”, ed era uno dei modi per designare
il palazzo reale. In seguito, durante il regno di Tuthmosi III incominciò ad
essere usato per il re stesso.... Di qui la parola “Faraone” passò nelle Sacre
Scritture ebraiche e da queste nel nostro vocabolario.”
Si può così inferire che il termine “Faraone” abbia iniziato a comparire nella
Bibbia proprio sulla scorta della figura di Tuthmosi III.
Un indizio indiretto di una versatilità di Tuthmosi III per tutti i campi dello
scibile, ci giunge dalle parole di un suo funzionario. Il vizir Rekh-Mi-Ra lasciò
infatti scritto nella sua tomba, a proposito del suo re: “Sua maestà era sempre
informato di tutto; non v’era nulla in cui fosse ignorante. Era come Thot, e non
vi era argomento che egli non sapesse trattare”.
Al di là del consueto tono celebrativo ed encomiastico dell’ampolloso stile
egizio, ed oltre al gioco di parole tra Toth-mosi ed il dio Toth, spicca il fatto che
il Faraone guerriero, era tutt’altro che uno sprovveduto in termini di cultura e di
apertura mentale, tanto da essere paragonato al dio Thot, dio della scrittura e
delle scienze.

Poiché abbiamo detto che l’AMORC raccoglieva l’eredità spirituale e culturale


dei Rosa+Croce, vediamo di sapere qualcosa di più a riguardo.
Le leggende fiorite intorno ai Rosa+Croce, di cui l’AMORC di Spencer Lewis si
diceva custode, parlavano di una diceria secondo cui l‘Ordine alternava 108
anni di “attività” a 108 anni di “quiescenza”, al termine dei quali si procedeva
ad una nuova rinascita dell’Ordine dei Rosa+Croce, mediante l‘apertura di una
“tomba” in cui vi era il “corpo” di un “Gran Maestro C. R. C.” insieme a
manoscritti ed antichi gioielli.
La sigla “C.R.C.” si riferiva, con tutta probabilità, al leggendario e virtuale
creatore dell’Ordine, “Christian Rosenkreutz”; il cui nome corrisponde, in
tedesco, lingua dei fondatori della tradizione rosa+crociana, a “Rosa Croce
Cristiana”, evidenziando, sin dall’inizio, un tentativo, durato secoli e che
permane ancora oggi, di conciliare l’esoterismo e l’alchimia, con tematiche
cristiane.
Nel XIII secolo comparve il “Rosarium Philosophorum”, di Arnaud de Villeneuve,
che sembra essere il primo testo scritto che parla della tradizione della
Rosa+Croce. Nel 1533, invece, fu edito da Paracelso il “Liber resurrectione e
corporum glorificatione” che accenna al simbolo della Rosa+Croce.
Nel 1614, 1615 e 1616 videro la luce, i tre manifesti paradigmatici delle
tematiche rosa-crociane: “Fama fraternitatis” “Confessio fraternitatis”, “Nozze
chimiche di Christian Rosenkreutz”, che Spencer Lewis pensava fossero dovuti
alla penna di Francesco Bacone; mentre altri studiosi, quali Roland Edighoffer,
riteneva essere stati composti dal “Cerchio di Tubingen”, un gruppo di
esoteristi, kabbalisti ed alchimisti, originari della cittadina tedesca.
Nel 1693, inoltre, un gruppo di rosa+crociani, guidati dal maestro Johannes
Kelpius (1673-1708), sbarcarono a Wissahickon, vicino a Philadelphia,
stabilendosi negli Stati Uniti e trasferendo il germe della cultura rosa+crociana
negli U.SA.
Nel 1907 Harvey Spencer Lewis, futuro studioso delle tematiche rosa+crociane,
e fondatore della “New York Society for Psichical Research”, sentì parlare
dell’esistenza dei Rosa+Croce da May Bank Spacey.
Nel 1909 Spencer Lewis si recò in Francia per incontrare alcuni esponenti
dell’ordine, conosciuti tramite Clovis Lasalle. Dopo averne soppesato e vagliato
la levatura intellettuale e la cultura, i membri transalpini decisero di iniziare
Spencer Lewis a Tolosa, dandogli l’incarico di preparare la rinascita americana
dell’ordine. Fu così che Lewis istituì l‘AMORC nel 1915, per ricevere poi la carica
di “Imperatore” dell’Ordine, ed essere ribattezzato con l’appellativo di “Sar
Alden”. L’AMORC era organizzato, secondo la struttura massonica, in “Logge” di
almeno 50 membri ognuna, “Capitoli” di almeno 30 membri ciascuna, “Pronai”
di almeno 15 membri.

La locandina dell’AMORC, tuttora disponibile sul “web”, mostra una croce con
una rosa al centro circondata dalla scritta ad emicerchio “Antiquus Mysticusque
Ordo” e, sotto la croce ed in grassetto, la dizione “Rosae Crucis”.
In alto compare, a sinistra, la sigla “CRO”, probabile acronimo di “Christian
Rosen Kreutz” (Rosa croce cristiana) ed, a destra, la parola “Maat”, che in
egizio significa “Armonia”, “Verita”, “Equilibrio cosmico”, impersonata
dall’omonima Dea o principio divino, talora applicata dagli egittologi alle
vicende umane; e tradotta, in questo caso, con un, invero riduttivo, significato
di “giustizia”.
Come vedremo, nella tradizione gnostica iniziatica di ispirazione massonica, il
concetto della “Maat” egizia è molto presente e strutturalmente di estrema
importanza.

Ai due lati della locandina, dissimulati quasi come un elemento decorativo,


compaiono i due cartigli di Tuthmosi III, presente con il suo nome ‘Nesut-Biti’
(Re dell’Alto e Basso Egitto) di “Men-Kheper Ra” (“Stabile la trasformazione di
Ra”). A Harvey Spencer Lewis, che resse la carica di ‘lmperator” dal 1915 al
1939, successero in seguito il figlio Ralph Maxwell Lewis (‘imperator’ dal 1939
al 1987), Gary L. Stewart (dal 1987 al 1990) Christian Bernard (dal 1990 fino al
1997) e l’attuale Yves Jayet.
Dopo aver fondato le prime sedi dell’AMORC a New York, Tampa, San Francisco,
San Josè, poi elevata a rango di sede centrale, Spencer Lewis iniziò a
collezionare reperti ‘orientali’, donati dai primi membri e sponsorizzò gli scavi,
nel 1921, a Tell el-Amarna, la dimenticata Akhet Aton, la capitale fondata da
Akhen Aton, alias Amenhotep IV.

Seguirono poi la creazione, nel 1918, del “Rosicrucian Egyptian Oriental


Museum”, e l’organizzazione di diversi “Gran Tour of Egypt” tra i suoi membri.
Sicuramente interessante, ma dibattuta, è la collaborazione tra l‘AMORC di
Spencer Lewis e l’europeo O.T.O. (Ordo Templi Orientis).
Se infatti la stessa segreteria dell’AMORC conferma i rapporti di collaborazione
culturale ed organizzativa con il tedesco Theodor Reuss (1855-1913), fondatore
dell’Ordo nel 1906, assai controverse, invece, sono le frequentazioni con
Edward Alexander, detto Aleister Crowley (1875-1947), la “Bestia”, occultista
ed esoterista ‘nero’, proveniente dalla “Golden Dawn”, e membro dell’O.T.O. dal
1911. Per molti anni, infatti, Spencer Lewis non vide affatto di buon occhio
Crowley; e, solo tardivamente, gli concesse qualche considerazione.
Secondo Robert Vanloo (Les Rose-Croix du Nouveau Monde. Aux sources du
rosicrucianisme moderne) Theodor Reuss avrebbe conferito nel 1915 a
Spencer Lewis l’attestato di affiliazione all’Ordo Templi Orientis. Lo stesso
Reuss, peraltro, riteneva l’O.T.O. la “facciata esterna del rosicrucianesimo”.

In un’intervista, presente nel portale ‘web’ dell’AMORC, il penultimo


’imperator’, Christian Bernard così si esprime: “Nessuno può negare che
l’Egitto è la culla non solo delle scienze “fisiche” (medicina, astronomia,
geometria,...), ma anche delle scienze sacre, tra le quali l’esoterismo. Molte
opere dei secoli passati ne fanno, in effetti, La sorgente di una Tradizione
Primordiale, cioè di una conoscenza assoluta che Dio ha rivelato a pochi eletti
e che è stata trasmessa attraverso una filiazione di Iniziati: Ermete Trimegisto,
Mosè, Zoroastro, Orfeo, Pitagora...”
Come vedremo, le prime due figure, qui citate ed accomunate, Ermete
Trimegisto e Mosè, facevano parte di antiche conoscenze, filtrate dall’Oriente e
giunte in Italia già molto tempo prima della nascita formale della tradizione
rosa+crociana Secondo gli “Annali” dell’AMORC le persone particolarmente
significative, che sono appartenute ai Rosa+Croce, venivano precedute
dall’appellativo “Sar”, forse corrispondente al fonema mesopotamico “Shar”,
“re”, analogo al numero 3.600, entità di tempo strettamente connesso con le
divinità.
Non bisogna dimenticare, peraltro, che il nome “Sar” secondo gli egizi,
corrispondeva, in base alle ricerche da me condotte, alla stella Aldebaran, la
stella gigante rossa conosciuta come Alfa del Toro, l’“occhio del Toro”.

LA CONNESSIONE MASSONICA

Ma la correlazione tra Tuthmosi lll ed il concetto divinizzato di “Maat”,


l’“Armonia Cosmica”, non è soltanto prerogativa dell’AMORC. Christopher
Knight e Robert Lomas, autori de “La chiave di Hiram”, massoni apprezzati per
l‘impegno e le ricerche compiute sulle radici storiche e culturali della
Massoneria (ma anche talvolta disapprovati per la mancata segretezza di molte
loro rivelazioni sull’associazione di cui facevano parte) affrontano il tema di una
filiazione egizia delle matrici e dei germi culturali che hanno segnato l’inizio
della Massoneria in epoche antiche.
Knight e Lomas, esaminando la parola sacra rituale della cerimonia di
passaggio al 3° grado, quello di Maestro, e scomponendola nei fònemi che la
costituiscono, trovano che si tratterebbe di parole egizie.
Questa loro scoperta, appare così rilevante, da connotare la copertina del
libro da loro stessi composto. Le parole egizie, come leggiamo a pag. 156,
sarebbero “Maat Neb Men Aa” seguite da “Maat Ba Aa”, la cui traduzione
potrebbe essere “Stabile e Grande il Signore dell’Armonia” e “Grande è lo
Spirito dell’Armonia”. La traduzione di Knight-Lomas è invece: “Grande è il
Maestro massone eletto” e “Grande è lo spirito della Massoneria”, da cui si
evince, secondo gli autori, che la Massoneria, in un alto e nobile ideale di
universalità, corrisponderebbe a “Maat”, l’“Armonia Cosmica”.

l due ricercatori inglesi così si giustificano per la loro scelta lessicale (pag. 156):
“Al termine “Maat” abbiamo fatto corrispondere la parola “massoneria”,
perché la lingua moderna è priva di un’espressione atta a convogliare il
composito significato originale de! termine, che racchiude in sé concetti quali
“verità, giustizia, lealtà, armonia e rettitudine morale, simboleggiati dalla
regolare purezza delle fondamenta, perfettamente squadrate e diritte, di un
tempio”.
Occorre sottolineare come il concetto di “Maat” sia essenzialmente connesso al
cosmo, anzi al ‘macrocosmo’, e, solo secondariamente, alle vicende umane che
del cosmo sono una parte significativa, anche se estremamente esigua.
Tutto ciò in pieno rispetto dell’aforisma ben conosciuto, emblema della scuola
ermetica, connessa pertanto ad Ermete Trimegisto. “Come sopra, così sotto”.
Ricordiamo, fra l’altro, che la Regina HatShep-Sut aveva scelta come proprio
nome “Nesut Biti”, (Re dell’Alto e Basso Egitto) “Maat-Ka-Ra” (“Armonia Spirito
vitale di Ra”), evidenziando un particolare interesse e rispetto per la dea
dell’Armonia cosmica. Non è quindi un caso che il giovane Tuthmosi III, che
dalla ‘matrigna’ era, suo malgrado, condizionato, possa aver assimilato certi
ideali culturali e religiosi ancora prima di salire al regno.
Altri Faraoni quali Amenhotep III, Seti I, Ramses II e buona parte dei sovrani
ramessidi, non mancarono di inserire, nei propri cartigli reali la dea “Maat”.
Knight e Lomas (pag. 118) riferiscono, inoltre, come il racconto di Tuthmosi III
“presenta forti analogie con la storia di Jahvè trasportato nell’arca (un
tabernacolo a forma di imbarcazione) dagli Israeliti, tali da indurci a rileggere il
libro dell’Esodo sotto una nuova luce, consentendoci di rilevare una singolare
impronta egizia nella leggenda di Mosè e del popolo eletto”.
Altro fatto interessante, che coordina il nome di Tuthmosi III con una sorta di
“Maat” cosmica, è la levata eliaca (prima del sorgere del Sole) della stella Sirio
(Sothis), che avvenne proprio durante il regno del Faraone guerriero.

Il dio egizio Thot, chiamato anche Djehuti dal corpo di uomo e dalla testa di
ibis, figlio di Ra e sposo di Maat, arbitro della contesa fra Seth ed Horus, era il
dio lunare della scrittura e degli scribi, del tempo, della storia, della geometria,
tramandate in seguito in Grecia da Pitagora e da Platone e, tardivamente,
dell’alchimia.
Uno dei suoi appellativi era “Colui che calcola nel Cielo, colui che enumera le
stelle, il numeratore della Terra”.
In certi miti ad Hermopolis Parva, città dove era adorato,Thot aveva creato il
mondo tramite il ‘verbum’, in qualità di Demiurgo Universale. Grazie a questo,
egli concretizzò 4 coppie di dei, che formarono l’Ogdoade. Principalmente
adorato a Khemenu, od Hermopolis Magna, l’attuale el-Ashmunein, detta
“città degli otto”, chiamata, appunto, in gergo città dell’Ogdoade, dalle otto
divinità che ne caratterizzavano il culto, e che catalizzavano l‘attenzione sul
“cielo delle stelle”. Ma Thot era conosciuto dai neoplatonici con il nome di
Ermete, o Hermes.

ERMETE TRISMEGISTO E LA TARSIA DEL DUOMO DI SIENA


Una delle rare raffigurazioni di Ermete Trismegisto, che non siano litografie,
xilografie, o stampe d’epoca, risalenti al XVl-XVII secolo, ci giunge dalla
pregevole tarsia, posta sul pavimento del Duomo di Siena.
Come apprendiamo dall’erudito, poliedrico ed esaustivo “Nei giardini di Toth;
Cultura ermetica e arti magiche a Siena nel Rinascimento” a cura di Mario
Ascheri e Vinicio Serino, questa ed altre pregevoli tarsie furono volute e fatte
istoriare dall’“Operaio” senese Alberto Aringhieri, Cavaliere di Rodi, in pratica
Cavaliere dell’Antico Ordine degli Ospitalieri che, insieme ai cavalieri
dell’Ordine del Tempio, era stato uno dei baluardi della cristianità in Terrasanta,
durante le epiche Crociate. L’opera risale al 1488 ed è di Giovanni di Stefano.
La tarsia di Ermete Trismegisto si inserisce nel contesto di molte altre pregevoli
tarsie, presenti nelle navate del Duomo che raffigurano le 10 Sibille, l’Allegoria
della Fortuna (Colle della Conoscenza), la Morte di Assalonne, la Lupa senese,
con i simboli delle città alleate, la Ruota della Fortuna, David con il salterio (che
ripropone alcune tematiche da me già presentate sul tema della “zoppia sacra”
in Archeomisteri nr. 38).
Il periodo in cui furono ideate e realizzate queste opere risente in pieno dei
germi culturali che pervadevano la Toscana del pieno ‘Rinascimento’. Questa
parola esprime appieno il desiderio di riscoperta della cultura classica e neo-
classica, arricchita di influssi arabi ed ebraici, dei secoli passati.
Nel 1460 Cosimo de’ Medici inviò il monaco Leonardo da Pistoia, in Macedonia,
a recuperare un importante manoscritto ellenistico, di cui aveva sentito parlare
(approfondire i rapporti di Cosimo con Gemisto Pletone, Mario). ll monaco fece
il suo dovere e, agli sbalorditi fiorentini, riportò una rara versione integrale del
“Corpus Hermeticum”.
Cosimo consegnò il manoscritto greco al suo più valente traduttore, Marsilio
Ficino, raccomandandogli di fare presto a tradurlo, perché egli era già avanti
negli anni, e voleva leggerne la traduzione prima di morire. Cosimo, morto
nel 1464, riuscì solo a leggere la prima frettolosa stesura di Ficino; ma, con la
seconda versione, del 1471, si può quasi dire che iniziò la cultura italiana
ermetica, quale appendice peculiare del Rinascimento.
In questo ipotetico crogiolo di fermenti che vedeva a Firenze il suo capoluogo,
ma che diffondeva benefici influssi su tutta la Toscana e, quindi, anche a Siena,
si sviluppò l’Accademia Medicea, con Angelo Ambrogini, detto il Poliziano,
Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Luigi Pulci. Ecco così che la traduzione del
‘Corpus Hermeticum’, ispirato alla figura mitizzata di Ermete Trismegisto, fece
nuovamente conoscere nei cenacoli culturali della Toscana, prima, e dell’Italia,
poi, il complesso di idee e filosofie gnostiche ermetiche scomparse in Europa
già dal II - III secolo d.C.
Questo rinnovato interesse culturale e spirituale verso questi ‘nuovi’ aspetti del
pensiero, sublimati e rivisitati alla luce del pensiero cattolico cristiano, più o
meno esteriore, consentì che, indirettamente, tutti gli ambienti culturali delle
città ne fossero favorevolmente condizionati; al punto che furono inseriti
allegorie o simbologie di ispirazione gnostica o ermetica (e il Duomo di Siena
ne è l’esempio più cristallino) in un luogo di culto cattolico. Questo avvenne
solo e soltanto nel periodo del Rinascimento, in quanto nel Medio-Evo i
fermenti culturali non esistevano, semplicemente perché mancava la
conoscenza dei testi.
Nell’Età della Controriforma, invece, il timore delle eresie e delle deformazioni e
devianze dalla retta morale cattolica, oscurarono lo spirito umanistico.
Con tutta probabilità, infatti, se Alberto Aringhieri fosse vissuto solo 100 anni
dopo la sua epoca, le pregevoli tarsie, che ora fanno bella mostra sul
pavimento del Duomo di Siena, le potremmo vedere soltanto nella villa privata
del nobile senese.
Come afferma Roberto Guerrini, non a caso le tarsie del Duomo di Siena
costituiscono “un eccezionale caso di sincretismo tra filosofia pagana e
cristiana; vi sono infatti esposti i misteri fondamentali del Cristianesimo
attraverso la lettura degli ‘Oracoli sibillini’, compiuta da Lattanzio e mediata
dallo spirito rinascimentale”.
Un particolare interesse era legato, per i senesi del periodo rinascimentale, alla
struttura stessa del Duomo, considerato, oltre che simbolo ecclesiale, anche
luogo sacro a ‘prescindere’; sulla falsariga delle maggiori cattedrali gotiche
europee, edificate su preesistenti vestigia di antichi luoghi di culto di epoca
gallica, greca, romana, forniti di importanti valenze geomagnetiche.
Girolamo Gigli, non a caso, ci riferisce, a proposito dell’attuale Duomo di Siena,
che “questa nostra insigne Basilica, oggi Metropolitana, servì anticamente ai
Gentili di Tempio dedicato a Minerva... essendo...che quel popolo...serbasse il
culto per quelle deità che erano le più caste: ond’è che in altri tempi si
venerava pur da Sanesi antichi Diana.”
In tempi molto remoti, quindi, il Duomo di Siena aveva la duplice valenza di
luogo dedicato a Minerva ed a Diana. Non è allora una casualità che una lapide
del Duomo riporti la frase: “Castissimum Vir/ ginis Templum/ Caste
Memento/ingredi”. Formalmente la traduzione recita: “Ricordati di entrare
castamente nel castissimo Tempio della Vergine”, tuttavia alcuni esegeti
pongono l‘attenzione sul fatto che l‘iscrizione focalizza troppo il luogo in se
stesso, invece che il suo valore simbolico quale luogo di culto cristiano, senza
dimenticare che la “Vergine” non è collegata, nell’iscrizione, al nome “Maria”,
inequivocabile allusione alla Madre di Gesù.
Questa “Vergine” era forse l’omonima costellazione o una divinità antica quale
Diana o Minerva, note per la loro castità? Sottigliezze formali da sofisti o credi
gnostici dissimulati? Difficile affermarlo con sicurezza!
Non dimentichiamo che Marsilio Ficino, traduttore del “Corpus Hermeticum”
affermò che “L’astrologia non è altro che la traduzione in un linguaggio celeste
della realtà, una proiezione figurata ed ingrandita dei moti della psiche,
dell’agitarsi degli affetti. Leggere gli astri significa leggere in noi; leggere nel
nostro spirito significa leggere nell’Universo; e l’Universo non è che un grande
vivente”.
Marsilio ebbe anche a dire: “Nel tempo in cui nacque Mosè, fioriva l’astrologo
Atlante, fratello del fisico Prometeo e zio materno di Mercurio il vecchio, il cui
nipote fu Ermete Trismegisto”

Anche se lo stesso Marsilio riteneva, peraltro, che Mosè ed Ermete Trismegisto


fossero la stessa persona: “Non dobbiamo meravigliarci che costui (Ermete
Trismegisto) sapesse tutto, se Mercurio altri non era che lo stesso Mosè”.
La tarsia di Ermete Trismegisto del Duomo di Siena, a detta di molti autori,
sembra essere una sorta di crittografia, quasi una specie di “tarsia”
enigmistica, che mostra certi simboli e altri ne lascia da far decrittare dal
visitatore, più che mai invitato ad essere fine “osservatore” di che cosa si
presenta ai suoi occhi.
L’iscrizione sul libro aperto che Ermete dona all’allievo, posto alla sinistra
dell’osservatore, mostra questa frase sulla pagina di sinistra: “Suscipite o
licteras”; e, su quella di destra, “et leges egiptii”. Se noi verifichiamo il senso
di lettura tradizionale, pienamente ispirato al “Corpus Hermeticum”, abbiamo
questa traduzione: “Fate proprie la letteratura e le leggi di un egizio”.
Vediamo come vi sia un riferimento ad acquisire, da parte dell’eventuale
osservatore, il patrimonio culturale lasciatoci dall’“egizio” Ermete Trismegisto.
Tuttavia, come afferma Mario Luccarelli (Nei Giardini di Toth, pag. 126), è
possibile attribuire al termine “licteras” la valenza di “geroglifici” figurati, a
funzione alchemica o iniziatica: “ll ben noto Ermete Trismegisto in Duomo che
invita chi entra a leggere, osservare, interpretare come legge etica i
“geroglifici” ben presenti nel Tempio pagano/cristiano. Questa - a mio giudizio –
l’esatta lettura del ter maximus: “Orsù, voi che entrate, suscipite (accogliete)
licteras (i geroglifici, il linguaggio sacro, misterico) dell’Egizio, posti in questo
luogo sacro e osservateli come norma di vita (leses)”.

Se, tuttavia, ammettiamo che vi sia, all’“interno dell’iscrizione della tarsia, un


significato criptato, non a caso definito ‘ermetico’, è possibile verificare,
sfruttando le variabilità di significato dei vari vocaboli latini, e approfittando
della mancanza dell’articolo, propria della lingua di Cicerone, che consente
traduzioni ‘nascoste’, se qualche parola dell’iscrizione si presti a duplici
significati.

La parola chiave dell’iscrizione, in questo caso, è “leges”, “leggi”, che, oltre ad


essere il plurale di “lex”, è la 2a persona singolare del futuro di “lego”. Questo
verbo, contrariamente a quello che si può abitualmente pensare, ha il
significato di “raccogliere, cogliere, scegliere, nominare” e, solo
secondariamente, di “leggere”, nel
senso di “raccogliere le lettere”, che, guarda caso, sono proprio contenute
nell’iscrizione stessa (licteras). La frase dell’iscrizione, pertanto, potrebbe
vedere nel “suscipite” un generico monito, simile ad un “memento” per poi
proseguire con “et leges o lictera egiptii”, per una traduzione generale di:
“Fate attenzione!...e tu (visitatore) raccoglierai le lettere (del nome) di un
egizio”.
Verrebbe, quindi, suggerito all’eventuale ‘investigatore’ del mistero di ricercare
lettere che compongono il nome di un egizio Ma dove?
L’unico luogo, nella tarsia, che fa ipotizzare un possibile ‘codice’ nascosto, è il
“titolo posto ai piedi di Ermete Trismegisto, che contiene alcune stranezze e,
soprattutto, una informazione che non ci saremmo aspettati, specie in un’opera
di fine ’400.
L’iscrizione del titolo, in basso nella tarsia reca la seguente dizione: HERMIS
MERCURlUS TRIMEGISTUS CONTEMPORANEUS MOYSI che, tradotta in italiano,
diviene. “Ermete Mercurio Trismegisto, contemporaneo di Mosè”.
Emergono alcune stranezze linguistiche: la prima è l’uso di “Herm-i-s”, in luogo
di “Herm-e-s”, la seconda è l’utilizzo della dizione “Trimegistus” al posto di “Tri-
s-megistus”, latinizzazione del greco τρισμεγιστοσ. Altro particolare inconsueto
è la ridondanza o la tautologia di usare “Mercurius”, quando già si era usato il
termine “Hermes”.
Ma il fatto davvero interessante, tuttavia, è la frase che riporta come Ermete
Trimegisto fosse “contemporaneo di Mosè”.
Il “Corpus Hermeticum”, pur risalendo al I-II secolo a.C. nella sua matrice
formativa, poi estesa, nella sua divulgazione, fino al II-III secolo d.C., si riferisce
ad un passato estremamente lontano rispetto a questa epoca, ma non
localizzato con precisione.
Schwaller de Lubicz collocava le “Tabule Smaragdine”, donate da Ermete
Trimegisto, in un periodo compreso tra l’Antico ed il Medio Regno, mentre
C.R.S. Mead (Thrice greatest Hermes) ritiene che l’espressione “Trismegisto”
sia per lo meno contemporanea a Tolomeo Epifane che, infatti, definisce
Hermes con l’appellativo di “grande e grande”.
Sul fatto che Ermete fosse definito “Trismegistus” c’è una certa variabilità di
interpretazioni.

Secondo alcuni il “tre volte grande” sarebbe un semplice superlativo di stima;


secondo altri, invece, si tratterebbe di una figura che si sarebbe incarnata,
secondo i dettami della metempsicosi, impregnata, quindi, di sentori pitagorici,
per tre volte. Secondo altri ancora, poi, vi sarebbero state tre ‘persone’ diverse
che, nel corso del tempo, avrebbero portato questo nome; di cui il terzo,
sarebbe stato quello dotato di maggiore “carisma” e spessore morale e
filosofico.
Quest’ultimo avrebbe raccolto e condensato un patrimonio di conoscenze
molto più antiche della sua epoca, probabilmente perse nella notte dei tempi.
Egli stesso avrebbe poi favorito, presso saggi e sacerdoti, l’ulteriore
coagulazione e fusione di conoscenze dalla sua epoca fino al periodo tolemaico,
quando il “Corpus Hermeticum” prese la sua forma sostanziale.
La contemporaneità tra Ermete e Mosè, espressa dall’iscrizione, focalizza,
invece, un’epoca - seppure non localizzata, a tutt’oggi, con estrema precisione
- con una connotazione più precisa.
La “querelle” sull’epoca e, di conseguenza, sul Faraone che sarebbe vissuto ai
tempi di Mosè, spazia (dal più recente al più antico), fra Merenptah e Ramses II,
della XIX Dinastia, ed Amenhotep IV, alias Akhenaton, fino a Tuthmosi III, della
XVlll Dinastia, estendendosi tra il 1212 a.C. ed il 1480 a.C. circa.
Sono però diversi gli autori che affermano o una contemporaneità tra Mosè e
Tuthmosi III, o una sostanziale sovrapposizione delle due figure storiche.
D’altro canto nella Bibbia vediamo Dio che invita Mosè a “costruire un serpente
di bronzo ed a porlo intorno ad una verga”, con specifica funzione apotropaica
curativa, in pratica un “caduceo”, tipico della futura iconografia (anche medica)
di Mercurio, ma anche delle rappresentazioni egizie del dio Thot.
La stessa prestigiosa Encyclopedia Britannica propone, per la datazione
dell’Esodo di Mosè dall’Egitto, una data che cadrebbe durante il regno di
Tuthmosis III; ipotesi condivisa, peraltro, anche da Ian Wilson (The Exodus
enigma) e da J.I. Packer, Merril C. Tenney, William White jnr (The Bible
almanac).
La tradizione esoterica, ma di tipo occultista, fece propria la contemporaneità
tra Mosè ed Ermete, cioè, il Thot egizio, creando il nome di Toth-Moses, forse
senza sapere che questo era il nome stesso di un importante Faraone.
Antiche leggende vogliono poi che Ermete Trismegisto fosse stato il nome
simbolico di una “Scuola esoterica dei misteri dell’Antico Egitto”, curiosamente
la stessa idea introdotta dall’AMORC di Spencer-Lewis, che vi poneva, invece, a
capo Tuthmosi III.
La creazione di una realtà leggendaria intorno alla figura di Ermete Trismegisto,
è possibile anche in virtù del vistoso lasso di tempo trascorso dal “Corpus
Hermeticum” all’epoca di Tuthmosi III. In pratica, tra la comparsa della
leggenda di Ermete Trimegisto ed il periodo in cui visse Mosè e, di
conseguenza, l‘Ermete storico, vi sarebbero, infatti, 10-12 secoli.
Per fare un esempio moderno, tale lasso di tempo sarebbe la differenza
cronologica esistente fra i nostri tempi, e quelli di Carlo Magno; non a caso,
figura molto romanzata e resa leggendaria per le sue vicende, proprio come
accadde al mitico Ermete.
Se ora noi torniamo all’iscrizione del titolo della tarsia, alla luce del
suggerimento preliminare nel “libro” che Ermete dona all’adepto, aggiunte alla
seconda parte dell’iscrizione stessa, abbiamo questa crittografia, sulla vera
identità di Ermete: “Fate attenzione!... e tu raccoglierai le lettere (del nome) di
un egizio, contemporaneo di Mosè”.
Applicandola alla prima parte della frase: “HERMIS MERCURIUS
TRIMEGISTUS”, otteniamo alcune ulteriori considerazioni.
“Mercurio” è il dio latino che corrisponde all’Ερμησ greco, derivato dal dio
egizio Thot.
Non è, infatti, un caso, che l‘identificazione “Mercurius-Thot”, sia stata già
proposta e sottolineata da Mario Ascheri e da Vinicio Serino, tanto da dare
titolo alla loro opera (Nei giardini di Thot).
“Trimegisto” è una latinizzazione del greco μηγιστοσ, che significa
“grandissimo”. Ora, poiché l‘etimologia del nome “Faraone”, introdotta, guarda
caso, proprio ai tempi di Tuthmosi III, era “Per Aa”, “grande casa”,
sottolineando l’aggettivo “grande”, μεγαλοσ in greco, non si può davvero
escludere che, in questo senso, “Megistus”, corrispettivo di μεγιστοσ ellenico,
sia un appellativo di “Re”, Faraone”.
Nella tarsia del Duomo di Siena il numerale “Tri”, senza la “s”, che di solito
separa “tri” da “megistus”, potrebbe, pertanto, essere correlato al nostro
“Terzo”. L’uso del termine “Her-mes”, se noi lo interpretiamo in senso
geroglifico o di “lettere egizie”, come chiedeva l‘iscrizione, contiene la parte
iniziale che compone la parola “Her”, la fonetica egizia di “Horus”, il dio Falco
figlio di Osiride ed Iside, di cui il Faraone costituiva l’incarnazione, tant’è vero
che nella titolatura reale ben 2 dei 5 nomi del re, lo contenevano (nome Horo,
nome Horo d’Oro).
Il suffisso “mes”, parte finale di “Her-mes”, in geroglifico egizio corrisponde al
termine “nascita, origine”.
Riarrangiando, quindi, in base a questi nostri procedimenti di analisi, l‘intera
decrittazione della frase, secondo la lingua egizia: HERMIS MERCURIUS
TRl(S)MEGISTUS otteniamo così un incredibile “Horus Mes Thot 3° Faraone”,
vale a dire: il “Faraone Horus Tuthmosi III”
Ma un altro dettaglio, apparentemente insignificante, depone per questa
interpretazione.
Nell’opera “Aegyptiaca” dello scriba Manetone da Sebennito, (che prese il “la”
proprio quando stava per cominciare a farsi strada la leggenda di Ermete
Trismegisto), elaborata su commissione della Dinastia dei Tolomei, per porre
ordine nella plurimillenaria storia della terra del Nilo, vi erano citati molti
Faraoni.
Pur essendo andata perduta nel suo originale, l’opera di Manetone è citata da
molti autori successivi, che l’avevano letta di persona.
Il nome che Manetone riservava, nelle sue cronologie, a Tuthmosi III era
“Misafris”. Sarà un caso ma, senza nessuna ragione apparente, nell’iscrizione
della tarsia del Duomo di Siena, invece del corretto “Hermes”, troviamo la
dizione “Herm-is, dove “Mis” è proprio la sillaba iniziale con cui era noto
Tuthmosi III (Misafris); proprio ai tempi, come detto poc’anzi, della nascita del
mito di Ermete Trimegisto. Inoltre lo storico di Sebennito afferma che l’Esodo
degli Ebrei dall’Egitto sarebbe avvenuto durante la parte iniziale della XVlll
Dinastia, non molto distante dal regno di Tuthmosi III.
D’altro canto già lo storico Artapanus (I, II secolo a.C.) correlava Mosè ad
Ermete Trismegisto
Il fatto che può far storcere il naso a questa mia interpretazione non è tanto
l’utilizzo di un codice di crittazione figurato che mostra una buona conoscenza
della struttura della lingua egizia, rimasta apparentemente sepolta nel suo
mistero fino a Champollion, cioè fino ai primi decenni del XIX secolo, ma,
soprattutto, il fatto che siamo alla fine del XV secolo, a Siena, quando la
diffusione della cultura e del pensiero della letteratura classica, era limitata da
molteplici cause, anche logistiche.
Tutto però potrebbe essere rivalutato, se pensiamo a chi ha voluto le tarsie
all’interno del Duomo della sua città: Alberto Aringhieri che, essendo cavaliere
di Rodi, come si evince dal dipinto che lo ritrae nella Cappella di San Giovanni,
apparteneva all’Ordine degli Ospitalieri.
Questi antichi cavalieri, al pari dei cavalieri Templari, erano venuti in contatto
con il mondo arabo in Terrasanta e, sicuramente, con quello copto-egizio,
durante alcune campagne militari; nella parte dell’Egitto prospiciente
Alessandria d’Egitto e nelle zone limitrofe.
Come sostenuto da molti autori, questi cavalieri potrebbero aver assimilato un
certo bagaglio di conoscenze, non disgiunte da documenti rinvenuti in loco o
da antichi manoscritti copti, eredi dell’antica tradizione degli Egizi, facendoli
poi propri. Grazie all’intuizione preziosa, innovativa e, forse, un po’ temeraria
per l’epoca, Aringhieri decise così di trasmetterla e confidarla, in ambito
iniziatico, semicriptato, per coloro che fossero stati disposti ad approfondire
tale tematica in tutte le epoche, presenti e future.

Il binomio Ermete Trimegisto-Mosè che emerge dalla tarsia del Duomo di


Siena, doveva, infatti, essere stato la chiave di conoscenze segrete di
ispirazione gnostiche che Alberto Aringhieri poteva aver plasmato e forgiato
nel suo cenacolo culturale; e di cui, come afferma Vinicio Serino, è probabile
che facesse parte lo stesso pittore Bernardino di Betto, meglio conosciuto
come “il Pinto(u)ricchio”. Bernardino aveva già effettuato il ritratto di Alberto
Aringhieri, che era stato posto nella Cappella di S. Giovanni Battista. Vinicio
Serino riporta che il quadro era oggetto di uno strano gioco di luce, foriero di
una sacralità cattolica cristiana di indubbio spessore ed impatto emotivo; ma
che riproduceva fenomeni analoghi dei maggiori templi Egizi, vivificati dal
raggio di sole all’alba, che raggiungeva il ’Sancta Sanctorum’. Il 13 giugno
2005 che, in conseguenza della riforma del calendario gregoriano,
corrispondeva al 24 giugno, festa di San Giovanni, patrono dell’Ordine degli
Ospitalieri, fu osservato un raggio di luce che, proveniente da una piccola
apertura della parte di fondo della Cappella, porta una piccola luce sul ritratto
di Aringhieri. Questo fascio di luce “centra” la croce patente color argento,
posta sul mantello del Cavaliere di Rodi, risalendo ancora sul “cielo” del
ritratto, formando strane figure, in forma, evidentemente, del tutto
intenzionale. Il Pinto(u)ricchio prima di aver, peraltro, realizzato per Alberto
Aringhieri, la splendida tarsia del “Colle della Conoscenza” sul pavimento del
Duomo di Siena, nel 1505, decora tra il 1492 ed il 1494, le stanze
dell’appartamento Borgia, di Papa Alessandro Vl, a Roma con affreschi del ciclo
della “Storia di Iside ed Osiride”.
Uno di questi affreschi mostra, guarda caso, proprio “Ermete Trismegisto e
Mosé posti ai lati di una figura femminile che potrebbe benissimo essere
un’ipostasi apparente della Madonna, ma il contesto “laico” o “gnostico” dei
due personaggi fa identificare come Io-Iside.
Mentre la figura di Mosè, a destra, ha un normale atteggiamento plastico,
testimone di una piena vitalità, la postura di Ermete Trimegisto, a sinistra, ad
onta di un aspetto estremamente giovanile del volto, con guance paffute ed un
incarnato giovanile, presenta una certa staticità ma, soprattutto, una
particolare postura delle mani e dei polsi, incrociate e conserti al petto. Le dita
delle mani, inoltre, sono estremamente ossute e magre, quasi scheletriche, e di
colorito biancastro, molto diverse da un vitale incarnato roseo.

Perché il Pinto(u)ricchio ha scelto questa modalità raffigurativa per Ermete?


È un dato di fatto che la postura con le braccia incrociate sul petto è tipica dei
Faraoni egizi che, sia in vita che dopo morti, impugnavano i due scettri,
emblemi peculiari della regalità sulla terra del Nilo: il pastorale (Hega in egizio)
e lo ‘scacciamosche’ (Nekhekh in egizio).
L’aspetto delle mani di Ermete Trismegisto, nel dipinto del Pinto(u)ricchio, fa
pensare a dita esangui, ossute e scheletriche, tipiche di una morto, come
quelle di una figura mummificata, come sono, in realtà, i Faraoni sepolti
all’interno dei loro preziosi sarcofagi.
Al di là del comune valore simbolico abitualmente attribuito ad Ermete
Trismegisto, sembrerebbe che il Pinto(u)ricchio, con questa scelta
raffigurativa iconografica per le mani, attribuisca valori criptici di Faraone
semi-mummificato al creatore del “Corpus Hermeticum”.
Anche il Pinto(u)ricchio sapeva, forse, grazie al suo “Mentore”, Alberto
Aringhieri, che esisteva una tradizione esoterica che collegava Ermete
Trimegisto a Tuthmosi III, il più importante Faraone della XVIII Dinastia e, forse,
dell’intera storia dell’Antico Egitto.
Secondo Vinicio Serino, è, infatti, del tutto verosimile che Bernardino di Betto
fosse stato “iniziato” e reso membro del cenacolo culturale di Alberto
Aringhieri, uomo dalla conoscenze culturali ed esoteriche invero rare, per
l’epoca.
Il Pinto(u)ricchio avrebbe poi fatto tesoro delle conoscenze acquisite a Siena,
ponendo in atto una sorta di messaggio criptato, per iniziati, imperniato sulla
figura di Ermete Trismesgisto, una volta giunto a Roma, per decorare
l‘appartamento del Papa Alessandro VI Borgia.
Abbiamo così dimostrato, nel corso di questo articolato studio, come vi fosse
una tradizione culturale, di cui i Rosa+Croce e la Massoneria erano tardivi
movimenti culturali ed associazioni di ricerche a sfondo esoterico che
custodivano, nobilitandolo, il bagaglio culturale di epoche davvero lontane,
all’ombra delle Piramidi, nella Terra bagnata dal Nilo.
Ma il fatto più incredibile è che vi fosse già una tradizione ‘rinascimentale’ che
preservava, al pari delle due più recenti ed a noi note, questo patrimonio di
conoscenze, incentrate sulle figure di Ermete Tri(s)megisto e di Mosè,
usualmente mitizzate e tra loro dissociate cronologicamente; ma che
potrebbero, invece, essere tra loro connesse sia in senso storico che
cronologico; essendo focalizzate, sia pure in forma criptata, sulla figura del più
grande faraone dell’Antico Egitto: Tuthmosi III.

You might also like