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S APERE
L a co no s c e n z a n e l l’età
d e l la g l o b a l i z z a z i o n e
ETEROT O P I A
MIMESIS
© 2003 – Associazione Culturale Mimesis
Alzaia Nav. Pavese 34 – 20136 Milano
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Progetto grafico: Daniela Dalla Vigna
Tutti i diritti riservati.
I ndice
EDITORIALE p. 7
IL SISTEMA SCIENTIFICO-PROFESSIONALE
Mario Perniola p. 43
LINGUAGGIO E POLITICA
Paolo Virno p. 115
GLOBALIZZAZIONE E DEMOCRAZIA.
QUALCHE RIFLESSIONE SU
LA GLOBALIZZAZIONE E I SUOI OPPOSITORI
DI J.E. STIGLITZ
Giorgio Cadoni p. 199
E ditoriale
7
sce la reale comprensione dei testi filosofici), dall’altro alla
necessità neoliberista di estorcere più denaro possibile agli
studenti, che si vedono costretti ad affrontare un iter di studi
asfittico nei contenuti, il quale, pur creando l’illusione oppo-
sta, va prolungandosi in modo indeterminato nel tempo.
Rispetto ai vecchi 4 anni (teorici) l’attuale sistema 3+2, con
aggiunta di ulteriori 2 anni nelle SISS, ha costi crescenti per
ogni ciclo e la prospettiva concreta di costringere gli studen-
ti a tornare ad iscriversi, pagando, ogni volta che avranno la
necessità di riconfigurare la propria “professionalità mono-
valente” funzionale alla flessibilità occupazionale.
Una mostruosità, ma a quel che ci dicono dobbiamo adat-
tarci.
Ribellarsi è giusto e concesso solo quando si tratti di chie-
dere finanziamenti, soprattutto nei modi e nei tempi ritenuti
opportuni dai dipartimenti, quando cioè gli interessi dei ver-
tici dell’istituzione universitaria vengano frontalmente attac-
cati da manovre finanziarie particolarmente maldestre. Solo
allora quelle stesse critiche, in altri momenti giudicate infon-
date e pretestuose, ricevono la benedizione dei baroni.
Quindi come giudicare, in questo quadro, un piccolo
movimento che occupa una facoltà per rivendicare la libertà
della conoscenza e l’autodeterminazione dell’istituzione uni-
versitaria, in vista della produzione di contenuti nuovi ed
originali che realmente incentivino un avanzamento della
conoscenza?
Difficile non rimuovere con bieca indifferenza un’occupa-
zione che chiede tempo, spazio e modo per imparare a cono-
scere criticamente e a non accontentarsi di uno studio “da
Bignami” della filosofia. Occupazione degli spazi/Autogestione
dei saperi, è una formula che ha poco senso per chi concepisce
l’università come un’azienda, la cui unica prerogativa critica
è rialzare la testa quando vede messo in discussione il pro-
prio status economico.
Dunque cosa accade all’interno di un’istituzione deputata
all’insegnamento e all’apprendimento, quando le rivendica-
zioni ad essa legate si limitano a mere crociate mercenarie?
Tematizzare il sapere dentro l’università è diventato, iro-
nia della sorte, una rivendicazione, di cui comunque molti
studenti sono consapevoli dell’esigenza di farsi carico.
8 EDITORIALE
L’università deve essere tale, non un mero surrogato. Il
sapere non è una merce scambiabile e addomesticabile alle
esigenze del dominio.
Queste sono le riflessioni che hanno animato un movi-
mento solitario, guardato con scandalo e angoscia da alcuni
che dopo aver fatto la propria rivoluzione culturale nel ’68
ora vorrebbero fare in santa pace la propria controrivoluzio-
ne formativa.
Parte dei contributi contenuti in questa raccolta, di cui a
volte ancora traspare l’originaria oralità, sono invece frutto
di un’esperienza di antagonismo e di autogestione del sape-
re, il ciclo seminariale Occupazione degli spazi/Autogestione dei
saperi. Questo seminario, a cui hanno partecipato anche
Judith Revel con l’intervento Potere e sapere in Michel Foucault
e il collettivo di ufologia radicale Men In Red con l’interven-
to Strategie di guerriglia comunicativa, ha avuto luogo durante
l’occupazione della facoltà di Filosofia della università La
Sapienza di Roma (26 ottobre – 17 novembre 2002) in cui i
componenti di Antasofia erano solo una piccola parte.
EDITORIALE 9
C ondorcet e l’elogio
dell’istruzione pubblica
di Marco Bascetta1
davvero un formidabile
È paradosso incontrare una
siffatta affermazione nel bel mezzo di un progetto politico-
filosofico sull’istruzione pubblica, un progetto che chiama
proprio il potere politico a garantire, diffondere e organizza-
re l’istruzione di tutti i cittadini. Che esige, in altre parole,
dall’autorità la distribuzione universale degli strumenti che
consentono di proteggersene o addirittura di negarla. Non è
il solo felice paradosso che attraversa le pagine delle Cinque
memorie sull’istruzione pubblica, date alle stampe nel 1791 da
Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, marchese di
Condorcet, ma è forse quello più decisivo, ardito e anticipa-
tore di tutta una tradizione di pensiero critico che indaga sul
rapporto tra il potere politico e l’autonomia del sapere, tra la
“volontà generale” e la libertà dei singoli, tra le norme e la
capacità individuale di giudizio.
Le Cinque memorie di Condorcet, che nella forma di un pro-
getto istituzionale racchiudono un’agenda teorica tra le più
avanzate e acute, ci restituiscono, invece, nitidamente, la
11
complessità e l’articolazione di una elaborazione critica tanto
radicale quanto solida. Ben poche delle idee correnti sulla
formazione e sulla sua riforma, sulla funzione della scuola e
sui suoi rapporti con la società, sul bene pubblico e sulla
libertà dei singoli, sul sapere e sulla produzione della ric-
chezza, reggerebbero al vaglio di questo potente strumenta-
rio concettuale elaborato più di due secoli fa, negli anni
appassionati e tumultuosi della rivoluzione. Condorcet, elet-
to alla Convenzione nel 1791, cadrà presto vittima del
Terrore. Vicino ai girondini, (arrestati nel giugno del 1973), è
catturato, dopo diversi mesi di latitanza, nel marzo del 1794
a Clamart. Muore, suicida o di stenti, nella prigione di Bourg-
Egalité, il 29 marzo, subito dopo il suo arresto e prima di
essere trasferito a Parigi. Ma non è tanto una appartenenza di
fazione, peraltro piuttosto lasca, quanto il sostanziale radica-
lismo democratico delle sue posizioni a porlo in rotta di col-
lisione con Robespierre e con la politica del Comitato di salu-
te pubblica.
Condorcet è un nemico dichiarato della trascendenza del
potere, contro cui cerca di elaborare tutti i possibili antidoti
legislativi. La “volontà generale” come potere costituito
legittimato dalla delega-rinuncia dei singoli, come confluen-
za delle volontà particolari in un destino comune che le
sovrasta, gli è invisa. Non gli sfugge la stretta parentela tra la
“volontà generale” di stampo rousseauviano, in cui il popo-
lo troverebbe la sua unità e la sua espressione, e il pactum
subiectionis che fonda lo stato assolutista. Ogni autorità deve,
a suo parere, sottomettersi perennemente al tribunale razio-
nale della verità e dell’errore. Ma questo tribunale non è pre-
sieduto da un’idea astratta di Ragione resa oggetto di culto,
o, peggio, da un corpo di verità dogmatiche stabilite dalla
tradizione e dai suoi custodi. Esso consiste piuttosto in un
processo immanente che vive e agisce attraverso il giudizio
critico della generalità dei singoli, che si accresce, si trasfor-
ma e si rinnova nella loro interazione. Singoli che non posso-
no mai essere espropriati dei loro diritti naturali, né del dirit-
to di giudicare di volta in volta e di rimettere in questione
l’autorità costituita e il suo principio di legittimazione. In
questo modo di vedere, che può anche essere letto come un
primato del sapere razionale (che è però anche capacità di
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12 DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
giudizio sul proprio benessere e sul bene comune) sulla
volontà politica (che è però anche trascendenza e autorefe-
renzialità del potere), Condorcet è molto più vicino a Spinoza
che a Rousseau, alla varietà immanente della moltitudine che
all’unità trascendente della nazione.
Il suo universalismo antidogmatico e autoriflessivo, che
poggia sull’“amore per l’umanità” e sulla pretesa di una giu-
stificazione razionale delle scelte e delle azioni, si configura
come un sostrato, un patrimonio comune, capace di artico-
larsi, in virtù della sua stessa generalità e della sua aspira-
zione alla verità, nel giudizio autonomo dei singoli, il quale,
a sua volta, sarà posto a fondamento di un governo raziona-
le della cosa pubblica. Questo nesso decisivo tra universali-
smo e libertà degli individui è da sempre, e ancor oggi, il ber-
saglio principale di ogni controrivoluzione, da quella della
Santa alleanza fino a quella neoliberale degli ultimi decenni.
L’individuo proprietario, contrapposto al “comune”, al quale
sottrae e si sottrae, sottoposto alla trascendenza del mercato,
e l’identità collettiva, conformista al suo interno e bellicosa
verso l’esterno, sottoposta alla trascendenza della nazione,
che ne costituiscono l’orizzonte invalicabile, si oppongono
strenuamente a qualsiasi processo di individuazione non
meno che all’universalità dei diritti.
Questi presupposti filosofici prendono forma concreta nel-
l’idea di “istruzione pubblica” e nel suo contrapporsi, imme-
diatamente ed esplicitamente, all’idea giacobina, ma non
solo, dell’“educazione nazionale”, con i suoi miti spartani, la
sua soffocante ritualità laica e il suo feroce conformismo
patriottico, che prevarrà dopo il 1793 per volere di
Robespierre. Istruzione contro educazione; pubblico contro
nazionale: questi i termini di una contrapposizione che meri-
ta di essere giocata fino in fondo. Trasmissione di un sapere
razionale e degli strumenti della critica, contro l’integrazione
dei singoli in una comunità organica predeterminata, con il
suo sistema di valori e i suoi stili di vita. “Pubblico”, inteso
come condivisione delle risorse e delle possibilità, come
immanenza dei diritti che conferisce una base concreta
all’autonomia dei singoli, contro “nazionale”, inteso come
appartenenza e identità, come sacrificio e dedizione, come
precetto dell’amore per l’ordine costituito.
MARCO BASCETTA 13
È propriamente questa idea di “pubblico”, che sebbene
investa lo stato del compito e del dovere di garantire a tutti i
suoi cittadini l’istruzione, esclude non meno decisamente che
questa rivesta qualsivoglia carattere statale. Poiché è nella
sfera pubblica, nel confronto e nell’interazione dei giudizi
razionali, resi possibili dalla diffusione del sapere, che il
Politico trova il suo fondamento e la sua legittimità, sempre
reversibile. Senza questi lo stato stesso diverrebbe illegitti-
mo, arbitrario, prevaricatore. Ma, paradossalmente, solo lo
stato con le sue leggi può garantire il carattere non statale
dell’istruzione. Può garantire, insomma, l’autonomia della
conoscenza dal potere politico che così, di quest’ultimo, può
divenire, al tempo stesso, giudice e fondamento, critica e
legittimazione. La sfera pubblica non è il bene comune, ma
quel luogo nel quale del bene comune si può giudicare e, così
facendo, produrlo. Nessuna entità sovradeterminata ne è
depositaria, né per diritto divino, né per delega terrena.
Ma Condorcet si guarda bene dal concedere allo stato il
monopolio dell’istruzione (e gli nega esplicitamente ogni
interferenza nell’educazione, che riserva piuttosto alla fami-
glia). All’istruzione privata deve essere consentito di compe-
tere con quella pubblica, come alternativa, stimolo e termine
di paragone. Ma non si può affidare all’interesse particolare,
a una libera scelta, a una valutazione contingente di oppor-
tunità, il compito di assicurare ciò che sta a fondamento stes-
so del vivere collettivo secondo ragione, né la dimensione
egualitaria che necessariamente gli si accompagna. Non si
può pretendere che la famiglia impartisca una educazione
“non familiare”, né che una istituzione privata offra una
istruzione “non privata”. Solo lo stato può garantire, attra-
verso una complessa architettura di leggi e contrappesi, una
istruzione “non statale”. Naturalmente può fare anche l’esat-
to contrario e, generalmente, lo ha fatto.
Ma se il potere pubblico non può delegare né alla famiglia,
né all’iniziativa dei privati un elemento che è costitutivo
della possibilità stessa di una Repubblica, quale l’istruzione,
esso dovrà nondimeno accettare, nella sua configurazione, il
condizionamento e in parte la guida di quei settori della
società che producono, conservano e accrescono autonoma-
mente il sapere. Di quella che oggi chiameremmo la comu-
CONDORCET E L’ELOGIO
14 DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
nità scientifica. Il potere pubblico non produce sapere, né è in
grado di giudicarne la verità o l’importanza, di valutare le
competenze e i talenti. Questo compito spetta allora alla
comunità degli studiosi, ai cultori delle scienze e delle arti.
Per Condorcet, nelle condizioni del suo tempo, questa
comunità è rappresentata essenzialmente dalle accademie e
dalle società dei dotti. Di queste egli conduce una strenua
difesa contro le frequenti accuse di cui sono fatte oggetto, per
esempio da parte di Jean Paul Marat, di proteggere interessi
corporativi e privilegi acquisiti, inibendo l’innovazione e
favorendo il conformismo. Sebbene queste accuse fossero
spesso tutt’altro che infondate, quel che rileva è che l’autore
delle Cinque memorie delinea, attraverso le accademie (fos-
s’anche idealizzandole) una organizzazione collettiva del
sapere, diffusa, articolata, autonoma e dotata di forme di
autogoverno, che non è assimilabile né alla sfera privata, né
a quella statale. E ad essa conferisce un ruolo determinante
nel sistema dell’istruzione pubblica. Non quello di insegna-
re, occupazione che la distoglierebbe dalla funzione innova-
tiva della ricerca che le è propria, ma il compito di preparare
testi, di scegliere gli insegnanti e contribuire alla loro forma-
zione, di stilare programmi e sorvegliarne l’aggiornamento.
È, in altri termini, la collettività del lavoro intellettuale che è
chiamata nella sua autonomia, nel suo essere sfera pubblica
non statale (e non nella forma di una servile consulenza del
pubblico potere) a determinare orientamenti e qualità dell’i-
struzione pubblica.
Quello che invece appare penalizzato in tutta questa archi-
tettura istituzionale è il corpo degli insegnanti di base.
Condorcet, sebbene conceda ampi margini alla libertà indivi-
duale di insegnamento, vieta loro ogni forma di organizza-
zione e autogoverno collettivo. La sua non è, tuttavia, un otti-
ca “antisindacale”, del tutto estranea all’orizzonte del suo
tempo, ma un’istanza rivolta a contrastare lo strapotere delle
congregazioni religiose e, più in generale, i rischi di un mono-
polio di casta sulla delicata funzione dell’insegnamento.
Questa impostazione rispecchia una concezione ben preci-
sa della conoscenza e del suo progredire, del tutto antitetica
a quel sapere di casta che fonda il suo potere sul segreto e
sull’esclusione:è l’idea di un sapere prodotto collettivamente
MARCO BASCETTA 15
e fruito pubblicamente, fondato su una verità che altro non è
se non l’autonomia della conoscenza, sottoposta a un proces-
so ininterrotto di verifica. Il sapere, insomma, è il bene
comune per eccellenza, il linguaggio razionale della colletti-
vità. E l’istruzione pubblica è lo strumento che ne fornisce
l’accesso, rendendolo così effettivo. Nulla di più lontano e
confliggente non solo con il catechismo statalista dell’“edu-
cazione nazionale”, ma anche con quell’idea di proprietà
intellettuale che presiede l’attuale corsa alla recinzione del
sapere e la sua generale riduzione a merce. La proprietà intel-
lettuale contraddice infatti fin nei fondamenti il concetto e la
possibilità stessa dell’istruzione pubblica, poiché questa non
può che poggiare sull’idea del sapere come bene comune ina-
lienabile e universalmente accessibile, non in conseguenza di
un principio morale, ma in quanto condizione materiale
della convivenza civile.
Ma se il libero operare dell’intelligenza collettiva deve
distinguersi senza ambiguità dallo stato ed essere al riparo
dai suoi precetti, altrettanto deve distinguersi dal mercato ed
essere sottratto alle sue leggi e ai suoi condizionamenti.
Condorcet distingue le professioni in due grandi categorie: la
prima comprende quelle attività che vengono esercitate per
recare immediato beneficio a colui che le esercita, anche se,
nei loro effetti e nelle loro interazioni, possono contribuire al
benessere generale. La seconda comprende quelle occupazio-
ni che si rivolgono, costituzionalmente, all’interesse generale:
CONDORCET E L’ELOGIO
16 DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
nostri, sia detto per inciso, questa “funzione pubblica” del
lavoro intellettuale non è più appannaggio di una ristretta
élite, ben distinta dal resto del corpo sociale, né di una certa
categoria di professioni, ma riguarda piuttosto quelle diffuse
capacità cognitive, che vengono tuttavia negate proprio nella
loro dimensione “pubblica”, per poter agire come forza pro-
duttiva ed essere scambiate come merce.
L’autonomia dell’intelligenza collettiva, tanto dallo stato
quanto dal mercato, ha inoltre un altro compito decisivo: pre-
servare quelle attività e quelle conoscenze che non rivestono
nell’immediato un interesse evidente, che non suscitano
appetiti, né promettono una facile notorietà.
MARCO BASCETTA 17
ta a inculcare i valori della nazione, ma, come vedremo, la
stessa facoltà di giudizio, l’esercizio della critica, il metro
della verità cui qualsiasi affermazione e qualsiasi azione
deve essere sottoposta. Che i soggetti non si risolvano nella
loro professione, nella loro posizione sociale, che si trovino in
uno stato di perenne tensione con il ruolo che son chiamati a
ricoprire, grazie a quel “di più” di consapevolezza che l’i-
struzione può offrire, è una condizione imprescindibile di
qualsiasi politica democratica. E proprio in questa identifica-
zione con il ruolo Condorcet indicava una delle ragioni più
forti di attaccamento all’ancien régime:
CONDORCET E L’ELOGIO
18 DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
“Adam Smith – si legge nella Prima memoria – ha notato che
quanto più le professioni meccaniche si dividono, tanto più il
popolo è esposto a contrarre quella stupidità naturale agli uomi-
ni chiusi in un circolo uniforme di idee. L’istruzione è il solo
rimedio a questo male, tanto più dannoso in uno stato in cui le
leggi hanno stabilita maggiore uguaglianza”.
MARCO BASCETTA 19
del minimo investimento per il massimo risultato, del rap-
porto ottimale tra input di materia prima e output di prodot-
to, risulta inapplicabile o dannosa. Questa volta non in rela-
zione alla quantità di istruzione impartita ai singoli, ma alla
quantità di singoli cui viene impartita l’istruzione. Un tenace
pregiudizio considera l’eccellenza una qualità innata, più o
meno identificabile in tenera età e una qualità auspicabile in
proporzioni limitate. L’istruzione ai suoi gradi più avanzati
dovrebbe dunque essere limitata a un numero ristretto di
individui, ritenendosi uno spreco o una disfunzione il fatto
che un certo numero di coloro che ne fruiscono non consegua
alla fine il risultato di eccellenza desiderato. Questo punto di
vista, che ispira tutte le politiche attuali di differenziazione
dei percorsi formativi e di restringimento degli accessi, non
rispecchia solo un gretto calcolo economico, ma anche una
concezione idealistica e del tutto infondata dell’eccellenza
come emergenza individuale, come eccezione senza regola,
o, diversamente, come percorso programmabile, sottratto
alle interazioni del caso.
Condorcet, che non disdegnava la statistica e i modelli
matematici come arti di governo, ha una visione assai più
chiara e realistica dei processi collettivi che producono l’in-
novazione, la scoperta, l’eccellenza:
CONDORCET E L’ELOGIO
20 DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
to di un processo antieconomico, di una dilapidazione, di
uno spreco.
Tanto evidente è questo carattere extra o antieconomico
insito nel progredire della cultura che lo ritroviamo espresso
con la massima decisione anche in uno dei più fieri avversa-
ri dell’istruzione di massa, quel Friedrich Nietzsche che nelle
Cinque conferenze sull’avvenire delle nostre scuole, redatte esat-
tamente cento anni dopo le Cinque memorie del marchese di
Condorcet, scriveva: “il vero segreto della cultura deve ritro-
varsi qui, nel fatto cioè che innumerevoli uomini aspirano
alla cultura e lavorano in vista della cultura, apparentemen-
te per sé, ma in sostanza solo per rendere possibili alcuni
pochi individui”. Ma dietro il feticcio romantico e neopaga-
no del Genio, verso cui Nietzsche fa convergere, foss’anche
inconsapevolmente, ogni sforzo, sappiamo nascondersi la
personificazione di quel procedere collettivo della conoscen-
za che richiede un investimento di risorse infinitamente
superiore al suo prodotto spendibile.
La critica aristocratica del modello di istruzione borghese,
che Nietzsche conduceva con una lucidità che ha pochi egua-
li, denunciava l’affermarsi di due tendenze parallele: da una
parte “l’impulso ad ampliare e diffondere quanto più possi-
bile la cultura”, dall’altra “l’impulso a restringere e indeboli-
re la cultura stessa” , in modo che questa “si ponga al servi-
zio di una qualche altra forma di vita, per esempio lo stato”.
Per il filosofo tedesco queste tendenze non erano disgiungi-
bili, conducendolo così inevitabilmente a concludere che “la
cultura comune a tutti è, per l’appunto, la barbarie”. C’è del
vero e del falso in questa affermazione. Poiché se, da un lato,
il sapere generalmente condiviso scardinerebbe davvero l’or-
dine gerarchico della civiltà, (producendo non già la “barba-
rie”, come paventava Nietzsche, ma una forma più evoluta
di società democratica), dall’altro, venendo ridotto al lavoro
salariato e alle sue funzioni, all’esecuzione meccanica di
compiti predeterminati, o alle piccole astuzie del conformi-
smo, tutt’al contrario, lo confermano e lo consolidano. A sal-
vaguardare l’ordine gerarchico avrebbero provveduto pro-
prio quelle caratteristiche dell’istruzione moderna che tanto
orrore suscitavano nell’entusiastico ammiratore della cultura
aristocratica greca.
MARCO BASCETTA 21
Lo scopo che Condorcet si proponeva un secolo prima nel
suo progetto di riforma, era esattamente quello di disgiunge-
re queste due tendenze. Combattendo, con ogni mezzo, il
rischio che la conoscenza e la sua trasmissione potessero
essere poste al servizio “di qualche altra forma di vita, per
esempio lo stato”, come denunciava Nietzsche, ma anche del
mercato, potremmo aggiungere noi. L’autonomia dal potere
costituito e l’eccedenza rispetto agli scopi immediatamente
pratici dell’istruzione (oggi diremmo rispetto alle esigenze
del mercato del lavoro) rappresentavano, per Condorcet, gli
strumenti principali di questa battaglia. E la concezione stes-
sa dell’eguaglianza di cui si faceva promotore, doveva sotto-
stare a questi due principii di libertà. Il suo progetto di istru-
zione si rivolgeva a tutti e a ciascuno, puntava ad accentuare
anziché mortificarle le differenze individuali e la diversità
dei talenti, prevenendo tuttavia il rischio che questa differen-
za si potesse tradurre in gerarchia politica e sociale. Il suo
intento consisteva essenzialmente nel valorizzare quel diva-
rio tra funzione produttiva e sapere, tra ruolo e persona, che
doveva opporsi alla formazione di una aristocrazia non già
dei talenti, ma delle professioni. Eguaglianza e diffusione del
sapere si ponevano, per l’autore delle Cinque memorie in un
rapporto di reciproca necessità, che il potere pubblico solo
poteva garantire, a patto di non lederne l’autonomia.
Il progetto di Istruzione pubblica, promosso da Condorcet,
costituisce in realtà un’idea e un progetto complessivo di
società. Una visione d’insieme che tocca tutte le questioni
nodali della filosofia politica del suo tempo ed oltre. Non c’è
da meravigliarsi che il gruppo dirigente giacobino lo respin-
gesse e lo combattesse con tanta veemenza, non perché celas-
se l’intento di salvaguardare qualcosa del passato, ma pro-
prio per la radicalità democratica del suo impianto.
L’istruzione pubblica proposta nelle “Cinque memorie” aveva
infatti indicato, spingendo lo sguardo molto oltre il suo
tempo, uno spazio e un interlocutore che non era né il bour-
geois, né il citoyen. Al primo sarebbe bastato il sapere utilita-
ristico dei mestieri e delle scienze applicate. Al secondo l’in-
segnamento delle leggi e dei principii morali, l’amor patrio e
il talento retorico. Al soggetto scisso della modernità borghe-
se un’opportuna miscela dei due. Diversamente, quella
CONDORCET E L’ELOGIO
22 DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA
dimensione pubblica che Condorcet chiama in causa attra-
verso l’istruzione, getta lo scompiglio in questa partizione,
facendola attraversare da un istanza critica che intende giu-
dicarne le pretese e le regole. Questa sfera pubblica che non
è stato e non è mercato, che non è interesse particolare né
“volontà generale”, sono appunto i “lumi” intesi come intel-
letto generale della società, come intelligenza collettiva nel
suo vivo operare e nel suo agire di concerto e, nello stesso
tempo, come facoltà che appartiene a ogni singolo. Né il
dispotismo, né l’interesse particolare possono essere rischia-
rati dai lumi che ne costitiscono anzi la negazione. Questa
sfera non si colloca, infatti, pacificamente al fianco delle altre,
lasciandone indenni prerogative e privilegi. Essa costituisce
la premessa e la condizione di una nuova politica repubbli-
cana, non statalista, non liberista. Nell’impianto delle Cinque
memorie, l’autonomia del sapere e il primato del principio
epistemologico non si pongono come una sfera separata e,
men che meno, come una nuova casta di sapienti ( il ruolo
assegnato ai “lumi” non ha nessuna parentela con l’antica
utopia del “governo dei filosofi”), ma come una forma di
azione e di reazione che attraversa ogni ambito della società,
valutandone e trasformandone gli assetti. L’istruzione pub-
blica non è per Condorcet che il processo di produzione di
nuova società. Non insegna l’amore per la legge, come vor-
rebbe l’ “educazione nazionale” giacobina, ma gli strumenti
per giudicarla e trasformarla. Non insegna l’interesse parti-
colare e le sue astuzie pratiche, ma l’amore per l’“umanità”,
come appartenenza comune, popolata di individui autonomi
e non da feroci identità collettive.
Le Cinque memorie si rivolgevano a una società ancora
essenzialmente agricola, e agli albori dell’industria manufat-
turiera. In cui non solo il sapere era appannaggio di una
ristretta élite, ma era anche ben lungi dal rappresentare una
forza produttiva decisiva. Eppure, nelle nostre società, attra-
versate da cima a fondo dall’acculturazione di massa e nelle
quali il sapere è divenuto il principale fattore di produzione
della ricchezza, l’infernale accoppiata di catechismo dei valo-
ri e di sapere strettamente funzionale, contro cui si batteva
Condorcet più di due secoli or sono, è lungi dall’essere stata
debellata. Tutt’al contrario si rafforza nell’incontro tra dottri-
MARCO BASCETTA 23
ne liberiste e tradizioni di pensiero autoritario e conservato-
re. Le identità collettive, nei loro tratti conformistici ed esclu-
denti al tempo stesso, tornano in auge insieme al più stretto
utilitarismo del mercato e alla negazione di ogni patrimonio
“comune” che gli è propria. L’idea dell’azienda, dell’impresa
produttiva che, come ogni altro ambito sociale (o sottosiste-
ma, come direbbero i sociologi) domina anche quello dell’i-
struzione cancella quella ricchezza extra-economica, quella
“eccedenza”, quel moltiplicarsi delle occasioni e delle combi-
nazioni inedite che è alla base di ogni percorso di libertà,
individuale e collettivo.
Come ogni oggetto di appropriazione privata, come ogni
altro fattore economico, la conoscenza non deve costare più
di quel che rende e la sua diffusione non deve essere più
vasta di quel che serve. Il contesto relazionale e collettivo in
cui si produce è rimosso e negato da una gabbia sempre più
fitta e complessa di regolamentazioni giuridiche. Il sapere e
le facoltà di giudizio, la comunicazione stessa tra i singoli e
gli strumenti che la consentono sono stati trasformati da
quella qualità politica che Condorcet voleva porre a fonda-
mento della Repubblica, del governo della cosa comune, in
qualità della forza di lavoro, in condizioni di subordinazione,
in sfruttamento e autosfruttamento. La posta più alta cui
miravano le Cinque memorie del 1791 è dunque ben lontana
dall’essere stata conseguita, in un tempo storico, il nostro, in
cui gran parte degli ostacoli oggettivi che lo impedivano
sono stati rimossi e in cui l’appropriazione privata del sape-
re e le gerarchie sociali che se ne alimentano, si mostrano in
tutta la loro cruda arbitrarietà.
È un’ottima ragione per eleggere il vecchio marchese rivo-
luzionario a nostro contemporaneo.
24
M ax Weber, l’università,
la sua crisi
di Stefano Catucci1
25
gettarlo “nel mezzo della corrente del lavoro collettivo”. In
particolare le lezioni serali tenute in ospedale per i soldati
convalescenti erano eccezionalmente “fresche e vivaci”, scri-
ve ancora la moglie. Dopo un primo momento di partecipa-
zione e di entusiasmo, Max Weber fu tra i pochi, in Germania,
a dimostrarsi pessimista circa l’esito finale del conflitto, a giu-
dicare ogni battaglia vinta dall’esercito tedesco un passo indie-
tro sulla strada della pace, a ritenere che il conflitto armato,
giustificabile solo come “difesa”, dovesse cessare al più presto.
E in un’epoca nella quale i professori universitari tedeschi ven-
nero spesso coinvolti in iniziative pubbliche di sostegno alle
truppe, Max Weber fu tra i pochi a tener ferma con molto rigo-
re la distinzione fra insegnamento e propaganda o – come dice
nella conferenza in questione – fra l’atteggiamento del “mae-
stro” e quello del “capo”, fra i doveri della “cattedra” e i
discorsi dei “profeti” e dei “demagoghi”.
Non tutti, e non sempre, riuscirono a tenersi saldi su que-
sto crinale. Basti pensare che persino un professore di solito
misurato come Husserl, tenendo nel 1917 un discorso sull’i-
deale fichtiano dell’umanità si fece trascinare da quello che i
suoi allievi definirono un insospettabile Professorenpathos, da
un coinvolgimento oratorio che andava oltre i confini del
tema trattato.
Il 1917 è anche l’anno del misuratissimo e quasi “freddo”
discorso di Weber, nel quale solo una volta si sente il richiamo
a “fratelli d’armi e sorelle d’armi”, ma anche in questo caso
subito seguito dall’ammonimento a non scambiare il professo-
re con una guida intellettuale per l’azione politica o per la
decisione morale, a non farne surrettiziamente un capo.
La data esatta della conferenza è il 7 novembre 1917. Il
luogo, la Steickensaal di Monaco di Baviera. Siamo dunque a
un anno dalla fine della Grande Guerra – l’armistizio è del 3
novembre 1918 -, e anche se non vi sono accenni concreti
all’evento bellico, anche se non si fanno riferimenti a quanto
nelle stesse ore sta avvenendo a Pietroburgo, dove i
Bolscevichi stanno formando il primo governo provvisorio
dell’Unione Sovietica, non c’è dubbio che questa “coinciden-
za” – uso il termine coincidenza così come lo ha usato, di
recente, Gore Vidal – sia importante per i fini che mi propon-
go oggi.
STEFANO CATUCCI 27
Viene da pensare a John Stuart Mill, aggiunge Weber,
secondo il quale “partendo dalla pura esperienza si giunge al
politeismo”.
In questa condizione, dunque, si trovano ancora gli uomi-
ni al principio del XX secolo, e in questa situazione Weber
rilancia la sua professione di fede nell’importanza dell’uni-
versità, del lavoro scientifico, della vocazione scientifica
come scelta di vita: era stato proprio lui, in una lunga nota
dell’Etica del capitalismo e lo spirito protestante, a sottolineare la
matrice religiosa del termine Berufung, traduzione luterana
del latino vocatio: la chiamata, la scelta professionale come
riflesso di un appello spirituale, come scelta dettata dall’ani-
ma, non solo dalle circostanze pratiche.
Ora, io credo che tutte le domande, i suggerimenti e le
prese di posizione di Weber possano essere utili per tentare
una diagnosi della nostra condizione di fronte alla crisi di
un’istituzione come l’università. Crisi attuale, e crisi che non
dipende solo da una riforma, ma che ne investe alle radici il
ruolo, la funzione storica, la sua importanza come luogo sia
di formazione, sia di ricerca.
Oggi siamo nel pieno di un rivolgimento che cambia mol-
tissimi aspetti del sistema industriale nel quale hanno preso
forma anche l’università e la ricerca, così come le abbiamo ere-
ditate da un recente passato. L’epoca che chiamiamo “postfor-
dista”, con un termine forse spesso ridotto a slogan, ma che
indica la direzione di un cambiamento, sta mettendo in discus-
sione il rapporto dell’università con il processo di formazione
del sapere degli individui. Nel ’68, l’apertura dell’università a
soggetti che non fossero già favoriti dalle condizioni economi-
che e culturali della famiglia, corrispondeva anche a un preci-
so desiderio di promozione sociale. Detto in maniera banale:
mandare un figlio all’università significava prospettargli un
avvenire diverso e migliore dalla vita dei genitori. Al tempo
stesso, per gli studenti l’università era il luogo nel quale si
esercitava una sorta di educazione alla critica, all’autonomia
del pensiero. Un’occasione di crescita che si nutriva anche
della partecipazione a movimenti di contestazione che mette-
vano in gioco la vecchia struttura dell’università.
Oggi non facciamo fatica a constatare che le cose sono
molto cambiate. Che l’università non è più in grado di garan-
STEFANO CATUCCI 29
l’esperienza vissuta, dall’Erlebnis, nella convinzione che solo
la vita possa dar senso alla vita. Weber fa accenno al mito
della caverna, a Platone, e mostra come la situazione si sia
paradossalmente rovesciata: partita dalle tenebre per conqui-
stare il sole della filosofia, la verità della scienza, l’umanità, e
in particolare la gioventù, sembra voler tornare indietro,
come se la “vera realtà” palpitasse solo “in ciò che per
Platone costituiva il gioco d’ombre delle pareti della caver-
na”5. È una parte molto bella e molto complessa del discorso
di Weber, nella quale più volte riecheggia il nome di Tolstoj,
lo scrittore che con più radicalità si era chiesto se il progres-
so scientifico contenga “un qualche significato che vada al di
là del fatto meramente pratico e tecnico”6.
La III parte è un’analisi di come debba comportarsi un
uomo di scienza, nella ricerca e nell’insegnamento. È qui che
risuonano i suoi appelli alla “probità intellettuale”, alla
necessità di non prendere, ex cathedra, posizioni demagogi-
che, al bisogno assoluto di tenere da parte le proprie “opi-
nioni di partito” per “far parlare i fatti”, espressione che
Weber virgoletta, ma che possiamo tranquillamente ricon-
durre alla sua idea del carattere “avalutativo” delle scienze,
in particolare delle scienze sociali. Weber cita a questo pro-
posito l’esempio di un docente cattolico che tenga un corso
sulle forme ecclesiastiche o sulla storia delle religioni. Finché
parla da uomo di scienza, dice Weber, dunque finché studia,
pubblica o tiene lezioni, anche lui dovrà attenersi a regole di
base, come per esempio l’esclusione della “rivelazione” o del
“miracolo” tra i suoi elementi di spiegazione, spingendo così
i suoi allievi a rendersi conto anzitutto dei fatti che sono per
lui “imbarazzanti”, senza scioglierli con professioni di fede –
o di partito. Abituare gli ascoltatori all’imbarazzo di fronte
alle proprie opinioni, dice Weber, è un’”opera morale”, un
dovere per il docente, “per quanto una simile espressione
possa suonar troppo patetica applicata a un fatto così sem-
plice e ovvio”7. Voglio ricordare una posizione ripetutamen-
te presa da Foucault, che rifiutava, da intellettuale, di ergersi
STEFANO CATUCCI 31
ne”. Ma un salario c’è, e ci sono condizioni da rispettare,
pena il licenziamento, come quella di insegnare “ad aula
piena”, cosa che non avviene in Germania, dove un docente
viene abilitato una volta per sempre, anche se a condizione di
9 M. Weber, ibidem.
10 Cfr. M. Weber, ivi, pag. 8.
STEFANO CATUCCI 33
Weber, però, ha preparato un colpo a effetto, e aggiunge:
“noi respingeremo una simile opinione formulata in questi
termini. Bisogna però domandarsi se non si annidi un noc-
ciolo di verità in questo modo di sentire che di proposito ho
voluto spingere fino all’estremo”14. E dopo avere ulterior-
mente dissuaso l’uditorio a rifiutare l’identificazione tra un
“maestro”, un “professore”, e un “capo” – è qui che risuona
il suo appello a “fratelli e sorelle d’armi” – insiste nel pre-
sentare qualcosa che suona pur sempre come la storia del-
l’erbivendola e del ragazzo americano: “la scienza offre
nozioni sulla tecnica per padroneggiare la vita, rispetto agli
oggetti esterni e all’azione umana, mediante il calcolo”15. E
inoltre offre qualcosa che non assomiglia più ai prodotti del-
l’erbivendola: “i metodi del pensare, gli strumenti e la pre-
parazione” per il controllo di quei metodi. E se ancora tutto
questo facesse pensare ai “mezzi” con i quali diventa possi-
bile procurarsi degli ortaggi, Weber aggiunge la “chiarezza”,
ovvero lo spirito critico di fronte alle nozioni del sapere, e
ancora il “senso di responsabilità” che deriva dall’avere
appreso a pensare in autonomia, secondo i precetti della
scienza e non secondo quelli dell’utilità pratica immediata o
della fede in una dottrina appresa senza riflessione indivi-
duale16.
È un richiamo per il quale vale ancora il termine scomo-
dato poco fa, quello dell’”opera morale” del docente e dello
scienziato, e intorno al quale Weber cerca di fornire motiva-
zioni che non hanno più nulla di scientifico, ma investono il
proprio sentire nei confronti dell’esistenza, dell’arte, della
cultura, potremmo dire, anche se non sentiremo pronunciare
questa parola nel suo discorso, trattandosi di una parola
tutt’altro che neutra e avalutativa nel pensiero tedesco di
quegli anni, come si potrebbe mostrare pensando a tutta la
storia dell’opposizione concettuale fra Kultur e Zivilisation.
Lasciamo per un momento Weber e proviamo a pensare la
questione del modello industriale applicato all’università.
Come vedete, non è storia di oggi, e neppure di ieri ma – per
14 M. Weber, ibidem.
15 M. Weber, ivi, cit. pag. 35.
16 Cfr. M. Weber, ivi, pag. 35-37.
STEFANO CATUCCI 35
late in precedenza. Una buona parte dei provvedimenti
“scientifici” nati dopo il 1980 per elevare il grado di forma-
zione dei laureati, sono stati anche, se non solo, maniere di
sostenere con piccoli espedienti una massa di giovani studio-
si che l’università e gli istituti di ricerca non erano più in
grado di assorbire: Dottorato di Ricerca, Post-Dottorato, e da
pochi anni anche la figura ambigua degli Assegni di Ricerca,
sono una specie di cordone sanitario offerto a persone che
svolgevano e svolgono a pieno titolo funzioni di ricerca e di
insegnamento, ma che l’università non è in grado di stipen-
diare. Sto parlando di forme generali, non di situazioni par-
ticolari che, come già diceva Weber, oggi più che mai sono
governati dal “caso”17.
Potrà sembrare inadeguata la ricostruzione che sto facendo,
o forse estrinseca alla crisi dell’università, ma non è così. Se da
quasi vent’anni, i tempi del precariato universitario si sono
allungati, se oggi la media di attesa fra la laurea e un incarico
universitario stipendiato è di 15 anni, quello che vi riporto non
è un dato esclusivamente sociologico, ma strutturale.
L’autonomia contabile degli Atenei ha introdotto per la
prima volta forme di contratto docente di tipo privato: con-
tratti di insegnamento, e ora si prefigura anche di Ricercatore
e di Docente a contratto, che assomiglierebbero di più al
sistema americano di cui parlava Weber quasi cent’anni fa, se
non fosse per la loro convivenza con un insieme di figure
docenti che invece godono di contratti stabili, così da ripro-
durre forme di dipendenza che non possono essere descritte
se non con un vocabolario ancora una volta di tipo feudale, e
comunque ben poco somigliante al sistema capitalistico del-
l’azienda a cui faceva riferimento Weber.
Se “plutocrazia” non è più il termine adeguato per defini-
re il sistema della ricerca scientifica, quello che si può dire è
che il lavoro intellettuale, la ricerca, diventa per molti, e per
lunghi anni, un “doppio lavoro”, da svolgere accanto a quel-
lo con cui si provvede al proprio mantenimento, così che
parole come la dedizione esclusiva alla scienza, al sapere, o
la vocazione – il vocabolario a cui faceva riferimento Weber
STEFANO CATUCCI 37
cludere, che di nuovo aggancerei a Weber, alle sue osserva-
zioni sull’industrializzazione dell’università. La mia idea è
che l’adozione di un principio aziendale, oggi, sia una rispo-
sta tardiva e non realistica. Una risposta che cerca di tampo-
nare una situazione di cui sono chiari i contorni economici,
spesso disastrosi, ma di cui molto meno chiaro è l’impatto
sociale e culturale, oserei dire filosofico, se non altro perché
fin qui di filosofia ho parlato poco.
Vorrei accenare allora ai luoghi nei quali si compiono,
oggi, i processi di formazione dell’individuo, e nei quali
viene messa in gioco la questione del sapere, inteso sia come
dispositivo critico che come strumento applicabile al domi-
nio del lavoro.
Partiamo da alcuni dati statistici: alla fine del XIX secolo
c’erano circa 20.000 scienziati e ricercatori di professione. Nel
1976 erano 1 milione. 2 milioni nel 1986. 3 nel 1996, un terzo
dei quali nei soli Stati Uniti. Ogni dieci anni, dunque, la
popolazione degli scienziati e dei ricercatori è letteralmente
raddoppiata, e con questi numeri non c’è dubbio che il feno-
meno di “industrializzazione” della scienza e della cultura,
di cui parlava Weber, sia oggi un fatto compiuto. Negli ulti-
mi dieci anni, tuttavia, c’è stata una battuta d’arresto, non
ancora una flessione, anche se gli analisti sostengono che nel
XXI secolo questa flessione si verificherà, non fosse perché gli
stati hanno sempre maggiori difficoltà a finanziare la ricerca.
Sono molte le conseguenze che si potrebbero trarre da
questi dati: per esempio il fatto che la trasformazione di
gran parte dei ricercatori in prestatori d’opera specializzati,
in molti casi anche estremamente specializzati, ma sempre
più privati di alcun controllo sui mezzi di produzione, e
persino sul loro funzionamento, ha sottratto alla professio-
ne scientifica quei caratteri etici che Weber le attribuiva,
facendone nient’altro che un settore particolare del più
generale sistema della divisione del lavoro. Non c’è da stu-
pirsi, perciò, se già negli anni venti e trenta si era diffusa la
sensibilità per cui dedicarsi alla scienza, alla ricerca e all’in-
segnamento non presupponeva più alcuna opzione morale,
come dimostra il caso del ruolo avuto dalla scienza nel
Terzo Reich, o anche lo stretto legame fra ricerca e sviluppo
degli apparati militari.
STEFANO CATUCCI 39
del postfordismo20– nel momento in cui l’industria culturale è
diventato il modello “dell’intera produzione sociale”21, il
numero dei ricercatori e degli scienziati di professione stia
cominciando a diminuire, per la prima volta in cent’anni.
Anzi: nei confronti della scienza, del sapere in genere, del
ruolo che l’opinione dei docenti universitari svolge nella
determinazione di un modo di pensare comune, si avverte
oggi spesso un’insofferenza per molti aspetti paragonabile a
quella descritta da Weber nei giovani desiderosi di “espe-
rienza vissuta” o alla ricerca di capi. Riprendo da Paolo Virno
ancora una riflessione: nel postfordismo, il lavoro
STEFANO CATUCCI 41
nelle facoltà tecniche, le ricerche “per conto terzi” – e persino
nei confronti degli studenti, veri e propri “clienti”, ormai, di
un sistema che premia la loro semplice iscrizione, il loro
numero, poiché da questo dipende in moltissimi casi la
sopravvivenza di un corso di laurea.
Un docente di questa facoltà, ormai molti anni fa, amava
ripetere che se aveva 1 studente, voleva dire che stava facen-
do erudizione, con 2 voleva dire che stava facendo ricerca,
con 3, divulgazione. Vorrei sapere ora come la pensa, e come
ritiene stia cambiando la sua stessa attività scientifica, vista –
per esempio – la contrazione di mercato della saggistica tra-
dizionale e il – relativo – successo degli strumenti a uso
didattico, antologie, manuali e altro: tutti aspetti che concor-
rono a modificare molto, rispetto al passato, il tipo di rap-
porto fra il docente e la sua produzione intellettuale.
Trincerarsi sull’idea della critica, della formazione come
preparazione all’autonomia intellettuale ed etica dei giovani,
barricarsi dietro il bisogno di pensare diversamente la società
in cui siamo, e non di limitarsi a metterne in esposizione i
principi, è un modo di tenere i piedi nel passato, di non vede-
re quel che sta accadendo, oppure è un modo per rivendica-
re le prerogative di un’istituzione destinata a un progressivo
indebolimento?
Certamente l’idea della critica è tutt’uno con la lezione
della filosofia moderna, e come tale non è solo una trincea,
ma è un valore positivo che deve essere rivendicato. E tutta-
via, la questione può essere affrontata anche molto più sem-
plicemente, sul piano della formazione delle competenze.
La filosofia, sua lezione moderna. Pensiero critico. Non
sempre lo ha fatto nelle università. E non è detto che l’uni-
versità debba restare per sempre il suo luogo di elezione. Si
educa a filosofare, non a una filosofia, diceva Platone. Ma il
filosofare appartiene a una dimensione della sfera pubblica
che non coincide necessariamente con la comunità universi-
taria. Oggi però è ancora così. Ed è giusto che si difenda que-
sto spazio, poiché non ne è dato un altro. La riforma non è
“il” problema. Semmai è un sintomo del mutamento che la
sta attraversando. Su questo mutamento bisogna riflettere –
lasciatemelo dire – filosoficamente.
42
I
l sistema scientifico-professionale
di Mario Perniola1
43
sempre animata, di essere perseguita per sé stessa e non per
le conseguenze che comporta; oppure lo è sempre stata, se si
pensa alle applicazioni pratiche che da essa sempre sono
state tratte. Sociale la scienza è diventata perché si è appro-
priata completamente della realtà, escludendo da questa
tutto ciò che restava irriducibile al suo approccio metodico: la
sua socialità non è separabile da una intuizione metafisica
fondamentale che pensa l’essere dell’ente come oggettività
del reale. Parimenti importante è osservare che la società è
diventata scientifica non perché abbia acquistato un grado di
complessità tale da sollecitare una considerazione sistemati-
ca: complessa la società lo è sempre stata almeno dall’avven-
to della divisione del lavoro, oppure non lo è mai stata, né è
successivamente mutata, se si pensa al controllo che sul lavo-
ro essa ha sempre in qualche modo esercitato. Scientifica la
società è diventata mediante l’introduzione di un sistema
scolastico e universitario che conferisce a coloro che hanno
seguito e superato l’intero corso di studi il monopolio non
solo dell’esercizio delle professioni colte, ma anche della
direzione del lavoro esecutivo: la scientificità non è separabi-
le da una organizzazione della cultura che rende scientifico
tutto il lavoro umano e che fa della scientificità la condizione
della sua efficacia.
Il sistema scientifico-professionale ha potuto assumere l’e-
redità dell’ordine metafisico-ecclesiastico e far concorrenza
all’ordinamento umanistico-partitico, perché possiede come
questi una dinamicità intrinseca che rende il suo compito
sempre incompiuto e interminabile. Non si tratta infatti di
trasmettere e di applicare un insieme di conoscenze stabilite
una volta per tutte, ma di essere coinvolti, per quanto con-
cerne sia l’attività scientifica che quella professionale, in un
processo di continuo approfondimento e ampliamento del
sapere e della sua operatività. Perciò il concetto fondamenta-
le su cui si costruisce il sistema scientifico-professionale è la
ricerca: ciò che la caratterizza essenzialmente è lo sforzo con-
tinuo di tenere sotto controllo il mutamento, delineandolo
innanzitutto in un progetto, seguendolo attraverso un proce-
dimento, facendolo pervenire ad un risultato. Sebbene filoso-
fia ed organizzazione della cultura, scienza e professione,
elaborazione di nuove conoscenze e loro applicazione socia-
44 IL SISTEMA SCIENTIFICO-PROFESSIONALE
le siano distinte, esse si coappartengono reciprocamente in
modo occulto. Da un lato infatti la scienza è intrinsecamente
operativa perché il suo progetto deve essere verificato attra-
verso l’esperimento, attraverso la critica delle fonti, attraver-
so la comparazione: proprio questa operatività intrinseca la
separa dalla mera osservazione, dalla mera erudizione, dalla
mera cronaca. Dall’altro la professione è intrinsecamente
scientifica, perché la sua prestazione si fondasi un corpo di
conoscenze sistematicamente ordinate e in continuo svilup-
po: proprio questa costante innovazione rigorosamente con-
trollata la separa dal mestiere, oltre che ovviamente dal ciar-
latanismo e dalla magia.
La scienza si costituisce come professione parallelamente
al costituirsi della professione come scienza. Questa coap-
partenenza risulta evidente nell’università moderna e nella
figura del professore universitario, che è insieme docente e
ricercatore, docente di un sapere professionale proprio per-
ché professionalmente dedito all’incremento di questo sape-
re, e ricercatore di una conoscenza sperimentale al servizio di
tutti perché libero professionista della scienza. Viceversa la
riduzione del professore ad impiegato dell’università è
parallela alla recisione di ogni legame tra attività professio-
nale e ricerca: tale fenomeno mostra a contrario in primo
luogo che la dimensione scientifica che distingue il professo-
re dall’insegnante è proprio derivata dal carattere professio-
nale delle conoscenze che egli trasmette e in secondo luogo
che la dimensione etica che distingue il professionista dagli
altri lavoratori è proprio derivata dal carattere scientifico
delle conoscenze che detiene.
Attraverso il sistema scientifico-professionale l’intero
sapere diventa sociale e l’intera società diventa culturale,
perché l’umanità stessa è coinvolta in un progresso illumina-
to il cui motore è il lavoro. Questo non ha più nulla di priva-
to o di naturale: la ricerca fonda la sua socialità e la sua cul-
turalità separandolo dal passatempo o dalla operosità degli
animali. Questo processo di socializzazione del sapere e di
culturalizzazione della società non riguarda solo gli scienzia-
ti e i professionisti, ma coinvolge tutti. La progressiva scien-
tificizzazione di tutti i campi del sapere è evidente nella tra-
sformazione delle discipline umanistiche in scienze dello spi-
MARIO PERNIOLA 45
rito e di queste in scienze umane, processo che non è solo
nominale, ma implica una progressiva estensione dell’attitu-
dine scientifica a tutti gli ambiti della vita, contemporanea-
mente allo svolgersi di un processo che trasforma in lavori
professionali attività precedentemente praticate in modo
meramente privato, come la psicoterapia o l’osservazione
della società…: non a caso perciò i nuovi oggetti della ricerca
scientifica sono proprio quei fenomeni che sono rimasti fino-
ra estranei ad un’indagine sistematica, come la vita quotidia-
na. Rispettivamente la scolarizzazione universale non è sol-
tanto l’alfabetizzazione, ma il coinvolgimento dell’umanità
intera in un processo di promozione culturale ininterrotto
che, attraverso corsi di perfezionamento, di aggiornamento,
di riqualificazione, tende a conferire un alto livello speciali-
stico e quindi uno statuto professionale a tutte le attività:
anche in questo caso lo sforzo è orientato verso la creazione
di nuove carriere che soddisfino le carenze lasciate dall’eser-
cizio corrente delle professioni tradizionali non solo nell’as-
sistenza tecnica ma soprattutto nella partecipazione persona-
le ed emotiva ai problemi del cliente.
La coappartenenza di scienza e professione, come rappor-
to che lega metafisica e chiesa, umanismo e partito, resta tut-
tavia implicita: una completa esplicitazione di tale reciproco
rimando metterebbe in mostra la sostanziale ambiguità su
cui l’intero sistema scientifico-professionale si regge. Infatti
la scienza rivendica una totale autonomia, indipendenza e
precedenza nei confronti di qualsiasi uso o applicazione, e,
per quanto esili e gracidi possano sembrare i suoi appelli ad
un puro valore del sapere, tuttavia essi mostrano che la sua
dimensione teorica è qualcosa di essenziale e non di mera-
mente autocelebrativo; analogamente la professione rivendi-
ca una totale dedizione al servizio e alla società, un totale
rifiuto della attività dilettantesche o meramente ludiche e per
quanto esili e gracili possano sembrare i suoi riferimenti alla
vocazione e alla completa dedizione ad un compito sociale,
tuttavia essi mettono in evidenza che la sua dimensione pra-
tica è qualcosa di essenziale e non di meramente autoapolo-
getico. Da un lato abbiamo una teoria che subordina a sé la
pratica, dall’altro una pratica che subordina a sé la teoria. Il
luogo in cui queste opposte esigenze dovrebbero trovare una
46 IL SISTEMA SCIENTIFICO-PROFESSIONALE
conciliazione e un’armonizzazione è l’università, perché in
essa da un lato la scienza nella sua dimensione più teorica è
perseguita come professione, dall’altro la professione consi-
ste proprio nella formazione e nella comunicazione di un
sapere professionale: In realtà l’università è proprio per ciò
anche il luogo della massima ambiguità non tanto o non sol-
tanto per il sommarsi dei compiti di ricerca e dei compiti di
docenza nella figura del professore universitario, ma più
essenzialmente da un lato la scienza universitaria è nella sua
stessa struttura più profonda al servizio del fare e del pro-
durre, e dall’altro la professione è nella sua stessa essenza più
profonda, professione della conoscenza. È tuttavia impossi-
bile alla scienza riconoscere esplicitamente il fatto di essere
scienza delle professioni senza oscurare l’aspetto essenziale
della ricerca disinteressata e ridurre così l’università ad una
scuola superiore, e parimenti è impossibile alla professione
riconoscere esplicitamente il fatto di essere professione di
scienza, senza oscurare l’aspetto essenziale del servizio for-
nito a clienti ben determinati e ridurre così l’università ad
una accademia.
Di questa ambiguità si rende conto il pensiero contempo-
raneo quando fa oggetto il sistema scientifico-professionale
di una critica più che mai convincente e perspicua. Da un lato
la nuova epistemologia mostra che la pretesa della scienza di
identificare la realtà con l’oggettività non ha affatto un valo-
re razionale assoluto, che la stessa opposizione fondamenta-
le tra scienza e mito è priva di giustificazione, che perfino l’i-
dea più antica o assurda può migliorare la conoscenza.
Dall’altro il movimento per l’educazione permanente sostie-
ne che la scolarizzazione della società, secondo cui il ruolo
professionale di ciascuno è stabilito da un curriculum scola-
stico e universitario, è insieme antieducativo e antisociale,
che la concezione scientifico-progressiva del lavoro e del
sapere è in realtà fonte infinita di frustrazioni, che lo svilup-
po attuale del professionismo e della specializzazione è
causa di nuovi errori e di nuovi insuccessi, mentre le istitu-
zioni delegate a pianificare e a risolvere scientificamente un
qualsiasi problema provocano il risultato opposto a quello
che si propongono. L’interesse delle critiche rivolte alla scien-
za e al lavoro professionale dalla nuova epistemologia e dal
MARIO PERNIOLA 47
movimento per l’educazione permanente sta nel fatto che
esse nascono all’interno stesso della problematica scientifica
e formativa: da ciò tuttavia deriva anche il loro limite, per-
ché, nutrendo rispettivamente interessi solamente scientifici
e solamente educativi ed operazionali, spezzano la connes-
sione che nel sistema scientifico-professionale legava implici-
tamente la filosofia all’organizzazione della cultura. Di tale
sistema essi perciò avvertono solo la miseria, non la gran-
dezza.
Il fatto che la scienza intesa come teoria della razionalità
costituisca un ostacolo allo stesso progresso scientifico e che
la professione intesa come esercizio pubblico di una compe-
tenza fondata sul percorso di un curriculum universitario
finisca coll’essere inefficiente, può anche avere in fondo
un’importanza molto relativa, dal momento in cui ci si pone
fuori dalle prospettive teoriche e organizzative del sistema
scientifico-professionale: proprio l’estraneità rispetto a tale
sistema e alle preoccupazioni che ne hanno influenzato la
dinamica consente di comprendere la sua enorme rilevanza
filosofica e storica assai meglio di quanto possano fare i
nuovi epistemologi e i nuovi educatori, i quali restano
sostanzialmente prigionieri dei moventi che lo hanno anima-
to e quindi non sono in grado di cogliere la sua grandezza
che è extra-scientifica ed extra-professionale quanto la sua
miseria.
Col sistema scientifico-professionale il pensiero viene
socializzato non solo più nella forma di una verità sull’esse-
re, come nella metafisica, o di una verità sull’uomo come nel-
l’umanesimo, ma come verità sul mondo: questa verità non è
segreta, ma appartiene a tutti coloro che hanno la volontà e
la costanza di impararla in modo sistematico e progressivo e
di svilupparla in modo ordinato e metodico. La scienza ere-
dita ed amplia il carattere sociale della metafisica e dell’uma-
nismo: essa conferisce a tutti la possibilità di porsi come
padroni dell’oggettività del reale. Analogamente in questo
sistema la società viene culturalizzata, non solo più nella
forma del popolo di Dio, come nella chiesa, o nella forma del
soggetto collettivo, come nel partito, ma come nella noosfera,
cioè come un universo la cui continua evoluzione è determi-
nata dalla scolarizzazione di tutti e dalla progressiva scienti-
48 IL SISTEMA SCIENTIFICO-PROFESSIONALE
ficizzazione del lavoro. Così la noosfera eredita ed amplia la
culturalizzazione avviata dalla chiesa e dal partito: la lotta
contro l’ignoranza e l’insuccesso conferisce un significato
culturale anche ai lavori più umili e modesti.
Sfugge tuttavia a tale socializzazione e culturalizzazione
quanto non può essere calcolato, né fondato: per quanto il
sistema scientifico-professionale tenda incessantemente ad
ampliare i suoi limiti, annettendosi nuovi oggetti e creando
nuove specializzazioni, sempre si ricostituisce un resto che si
sottrae ad ogni indagine e che smentisce ogni progetto: la
storia della modernità che è scandita dai successi della ragio-
ne scientifica e del lavoro intellettuale è anche segnata dalla
ineliminabilità di una opposizione poetica che nessuna este-
tica riesce a sopprimere e di una opposizione sociale contro
la scuola e il lavoro che nessun incentivo professionale e nes-
suna organizzazione sindacale riesce ad abolire. Contro il
razionalismo leibniziano-kantiano nasce e si sviluppa la
rivolta poetica dallo Sturm und Drang in poi; contro il movi-
mento che promuove le nuove università e le nuove classi
produttive sorge e continue per tutta la modernità il movi-
mento che contesta radicalmente l’organizzazione del lavoro
professionale e industriale. La pretesa di totalità del sistema
scientifico-professionale è perciò sempre frustrata: il suo
carattere progressivo nasconde l’incompiutezza dell’intermi-
nabilità del suo compito. Insieme alla ricerca e ai curricula
scolastici, il sistema scientifico-professionale crea un opposi-
zione strutturale a se stesso, che si manifesta nella rivolta
poetica e nel luddismo.
Lo sforzo per andare al di là del sistema scientifico-profes-
sionale deve partire da una considerazione più approfondita
dell’ambiguità strutturale di una teoria che è esplicitamente
pura teoria che è implicitamente anche pratica e di una pra-
tica che è esplicitamente pura pratica mentre è implicitamen-
te anche teoria. Questa ambivalenza che ha caratterizzato la
filosofia occidentale fin da Platone ed Aristotele è rimasta in
uno stato di incubazione sino all’età moderna, quando ha
trovato la sua manifestazione nel principio di ragion suffi-
ciente formulato da Leibniz, secondo cui nulla è senza ragio-
ne. Tale principio su cui si basano le verità di fatto, implica la
distinzione tra due nozioni fondamentali che si coapparten-
MARIO PERNIOLA 49
gono reciprocamente, la ragione e il fondamento. La ragione
è appunta la facoltà dinnanzi alla quale vengono presentate,
rese, esposte le proposizioni riguardanti questioni di fatto, le
quali perciò non sono necessarie, ma contingenti, cioè posso-
no essere sottoposte ad essa in modo opposto senza che
sorga una contraddizione: essa funziona come un tribunale
che calcola, pesa, confronta ciò che gli viene proposto e quin-
di dà un giudizio sulla sua razionalità; ha quindi un compi-
to eminentemente teorico, proprio nel senso di stare a guar-
dare soppesando ponderando e riflettendo. Il fondamento è
invece la cosa che viene presentata alla ragione come causa,
ragion d’essere, condizione della possibilità delle proposizio-
ni di fatto su cui essa è chiamata a giudicare: il fondamento è
il risultato di un mettere, di un produrre, di un effettuare, è il
punto di arrivo di un fare che si presuppone poter essere
approvato dalla ragione, proprio perché già intanto ha una
sua ragion sufficiente per esistere; esso è la base di un com-
pito eminentemente pratico, proprio nel senso di compiere
proponendo, promuovendo e trattando. La ragione è la
dimensione teorica del sistema scientifico-professionale, è la
scienza; il fondamento è la dimensione pratica del sistema
scientifico-professionale, è la professione. La loro coapparte-
nenza non è solo quella esplicita che sussiste tra chi giudica
e chi è giudicato, tra chi sanziona e chi fonda, tra chi guarda
e chi fa; tra ragione e fondamento, tra scienza e professione
c’è una coappartenenza implicita che non può essere ricono-
sciuta apertamente da loro, sia perché metterebbe in eviden-
za il circolo vizioso su cui in ultima analisi il loro rapporto si
struttura, sia perché compromettendo l’autonomia della
scienza e l’efficacia della professione dissolverebbe il siste-
ma. Questa coappartenenza implicita, da loro impensata ma
segretamente operante, dipende da due fattori. In primo
luogo la ragione intanto può sapere, in quanto sa fare: essa ha
il suo fondamento in un saper potere, che sebbene non abbia
mai l’autorizzazione all’esercizio, tuttavia costituisce la base
ultima del suo giudicare. In secondo luogo il fondamento
intanto può fare, in quanto fa sapere: il resoconto che viene
presentato alla ragione presuppone un conto e una ragione
che l’abbia già trovato giusto; sebbene questa produzione di
sapere resti senza legittimazione esplicita, essa costituisce la
50 IL SISTEMA SCIENTIFICO-PROFESSIONALE
razionalità del fondamento. Oppure detto altrimenti: in
primo luogo la scienza è sapere puro di una realtà che è già
scientifica e quindi il possesso della scienza garantisce la pos-
sibilità di operare all’interno di tale realtà; in secondo luogo,
la professione è fare puro che può fare non solo perché può
mostrare in ogni momento di sapere ciò che sta facendo, ma
soprattutto perché produce effetti nella misura in cui ha pro-
dotto sapere.
Tutto ciò mostra che scienza e professione formano una
struttura le cui singole parti sono inseparabili l’una dall’altra.
Esse costituiscono un sistema teorico-pratico nel senso più
profondo: cioè le stesse nozioni di teoria e di pratica sono
nella loro fondamentale ambiguità poste da un modo di filo-
sofare che presuppone occultamente l’organizzazione pro-
fessionale della cultura e da un modo di organizzazione della
cultura che viceversa presuppone occultamente la scienza.
Tanto più insostenibili e inefficaci appaiono le posizioni dife-
se dalla nuova epistemologia e dal movimento per l’educa-
zione permanente: la prima, sostenendo i diritti di una scien-
za più ampia della ragione perviene ad esiti ultra-teorici, per-
ché taglia quegli occulti rapporti col fare professionale che
conferivano alla ragione una dimensione implicitamente
pratica. La seconda inversamente, sostenendo i diritti di una
operatività più ampia della professione, perviene ad esiti
ultra-pratici, perché taglia quegli occulti rapporti con la
ragione che conferivano alla professione una dimensione
implicitamente teorica. Ma ultra-teoria e ultra-pratica, scien-
za senza ragione e lavoro senza fondamento, sciolto ogni
legame col principio di ragion sufficiente diventano fram-
menti che non si sostengono, bensì si confondono l’un l’altro:
il principio secondo cui qualsiasi cosa può andar bene è
suscettibile di una interpretazione ultra-teorica o di una
interpretazione ultra-pratica, ma in ambedue i casi resta pri-
gioniero della concezione scientifico-professionale di un pro-
gresso illimitato di cui l’umanità è la protagonista.
MARIO PERNIOLA 51
S apere e valore
tra mondo della vita
e processi produttivi
di Antonio Conti
53
alla riproduzione materiale della società che si dà la scienza
empirica e i saperi di tipo tecnico-scientifico; è nell’interesse
alla vita pratica, alle forme di intesa e consenso che innerva-
no e costituiscono i legami sociali che si dà il sapere di tipo
storico-ermeneutico; è nell’interesse emancipatorio dagli
attuali e vigenti rapporti sociali e produttivi che si danno i
saperi critici. A questa ripartizione delle forme del sapere,
Habermas fa corrispondere rispettivamente il lavoro, il lin-
guaggio e il potere. Quello che vale la pena discutere qua,
non è tanto la tassonomia in sé, ma la corrispondenza di
secondo grado che da essa si dipana. Che cosa vuol dire che
i saperi tecnico scientifici hanno competenza sulla sfera del
lavoro, che quelli storico-ermeneutici hanno competenza
sulla sfera dell’agire comunicativo, sul mondo della vita e
che sui secondi si fonda un sapere emancipatorio? Ha senso
imporre così rigide sfere di competenza? Che succede se nel
mondo della vita avvengono meccanismi di captazione del
valore propri della sfera produttiva?
Forse abbiamo anticipato troppo, meglio andare con ordi-
ne. Dunque, abbiamo qui una tassonomia che si fonda a par-
tire da due esigenze fondamentali, che sono anche tradizione
della scuola di Francoforte: quella di essere una teoria critica,
una teoria, quindi, che non solo vuole descrivere l’esistente,
ma anche superarlo, ponendo le condizioni per cui i rappor-
ti di potere vigenti possano essere messi in discussione; quel-
la di fondare filosoficamente le condizioni stesse della critica
fuori dall’agire strumentale, da quella ratio che si vuole por-
tatrice fatale dell’attuale ordinamento sociale. Fuori dalla
ratio strumentale significa fuori dai processi produttivi: il
lavoro, a cui competono i processi di agire strumentale, in cui
il dominio delle macchine sull’uomo e dei rapporti che nel
sistema di macchine si concretano, è una sfera da cui non ci
si può emancipare in maniera diretta. O meglio, in cui non si
può fondare una teoria critica. Il che è dire, più o meno, la
stessa cosa. Questo significa anche che i saperi tecnico-scien-
tifici non contengono base alcuna per l’emancipazione della
società: essi sono condizionati nel loro sviluppo dalla stessa
ratio che pone i rapporti di dominio nella società, sono per
così dire caratterizzati da una sorta di peccato originale da
cui non è possibile liberarsi. Arriviamo così alla formulazio-
ANTONIO CONTI 55
discussione gli attuali assetti di dominio e dei rapporti di
produzione. L’ipotesi che vorremmo mettere in campo è che
la teoria dell’agire comunicativo, fondata sull’ideale di una
comunicazione libera da dominio, non produca un dispositi-
vo politicamente efficace per affermare l’etica sua propria, e
sia fondamentalmente un’immagine fuorviante, proprio per-
ché posta ad un livello politicamente inattingibile, dei nessi
sociali complessivi della società postindustriale.
Un fantasma che si rileva, per assenza, nella produzione
teorica di Habermas è quello della riflessione sull’industria
culturale, che pur grande spazio e motivo di approfondi-
mento ha avuto nella produzione teorica della scuola di
Francoforte, Adorno e Horkheimer in primis. Motivo di quel-
la che appare essere una vera e propria operazione di rimo-
zione, suggeriamo qui malignamente potrebbe essere il corto
circuito teorico che verrebbe a ingenerarsi tra lavoro e intera-
zione, tra agire strumentale e agire comunicativo, se venisse
approfondito il ruolo della comunicazione come mezzo, stru-
mento e prodotto di valori di scambio, di razionalizzazione
capitalista, e non di processi di costituzione di una sfera pub-
blica di uomini e donne di buona volontà, orientati all’intesa
reciproca. Proseguiamo nell’aporia: quale rapporto viene a
definirsi tra l’autoaccertamento sociale del linguaggio e la
sua etica, con la seducente razionalizzazione del sistema
mediatico dell’industria culturale, tra la sfera pubblica della
ragion critica e la sfera pubblica della ragion mediatica? Qui
Habermas potrebbe rispondere sottolineando, con esempio
calzante, la differenza qualitativa tra la sfera pubblica televi-
siva e la sfera pubblica dell’agire comunicativo informatico.
Da una parte i nessi comunicativi della razionalizzazione
mercantile, dall’altra la condivisione di linguaggi e saperi.
Potrebbe farlo, ma salterebbe , o si renderebbe ballerina, la
distinzione tra lavoro e interazione. Perché è proprio la ten-
denza alla socializzazione di saperi e interessi propria dell’a-
gire comunicativo informatico a rappresentare l’orizzonte
delle trasformazioni del lavoro. Si dà cioè, dentro i livelli alti
del modo di produzione postfordista, un’ibridazione tra
lavoro ed interazione, tra saperi tecnico scientifici e saperi
storico ermeneutici, tra agire strumentale e agire comunicati-
vo, tali da rendere analiticamente, e , punto più importante,
ANTONIO CONTI 57
necessario all’altissima mobilità della forza-lavoro richiesta
dall’attuale modo di produzione.
L’interazione messa al lavoro, ovvero l’approfondimento
analitico dei rapporti che legano linguaggio e produzione,
carattere sociale del lavoro e dimensione pubblica della
razionalizzazione capitalista sono temi che rompono con
l’eccesso di schematismo trascendentale che viene imposto
alla realtà sociale da Habermas. Un eccesso di schematismo
che si traduce in mancanza di capacità di leggere le trasfor-
mazioni sociali complessive, di saperne attingere indicazioni
politiche.
Come ebbe a dire Hans Jürgen Krahl, “…la riduzione della
società ad una razionalità soltanto tecnica è anche sempre
parvenza: Habermas giunge così a revocare il concetto di
prassi, specie laddove lo intende, all’interno di una sistema-
tica dei segni in senso proprio, come un orientamento dell’a-
gire che può essere dispiegato, per via ermeneutica, nella rete
delle comunicazioni quotidiane: ma questo è solo un calco
idealistico della prassi materialistica”1.
1 H. J. Krahl, Costituzione e lotta di clase, Jaca Book, Milano, 1973, cit. pag.
278.
58
L’ espulsione della cultura
dalle istituzioni educative
di Lucio Russo1
on ho un discorso organico
N da fare: più che altro vorrei
provocare un dibattito con una serie di osservazioni.
Il mio intervento riguarda, come è detto nel titolo
L’espulsione della cultura dalle istituzioni educative. Vorrei
accennare, in particolare, a tre punti:
59
non si può formare un fisico preparando prima un perito e
poi specializzandolo con un biennio. Chi, frequentando una
laurea breve professionalizzante, non ha potuto studiare in
modo approfondito analisi matematica o fisica generale, non
potrà certo recuperarle in un corso specialistico (per definizi-
one!) e quindi sarà una persona a cui manca la cultura di base
necessaria per divenire un fisico.
LUCIO RUSSO 61
ano solo le nozioni utili. Quest’opinione di Cicerone va natu-
ralmente valutata contestualmente alla banale constatazione
che non c’è mai stato nessuno studioso romano di geometria.
Poiché è impossibile separare le conoscenze utili della mate-
matica da quelle non immediatamente utili, non bisogna stu-
pirsi se a Roma, dove le opinioni di Cicerone erano diffuse,
non è mai stata fatta matematica. Più in generale, la scienza è
una struttura organizzata da una serie di connessioni logiche
tra affermazioni utili e affermazioni completamente inutili.
Volendo separare le une dalle altre occorre distruggere le
connessioni logiche, distruggendo la struttura stessa della
scienza. Dopo aver eliminato le teorie scientifiche, natural-
mente si possono conservarne alcune applicazioni: è quello
che hanno fatto i Romani, che sapevano, ad esempio, come
costruire ponti o acquedotti. O meglio: sapevano trovare
ingegneri in grado di farlo, magari deportandoli o attirando-
li dall’Oriente.
Passando ad un altro esempio, è chiaro che la storia è utile,
ma non lo è immediatamente; è utile perché la conoscenza del
passato ci permette di capire meglio il presente, e una miglio-
re comprensione del presente è essenziale per progettare il
futuro. Fino a qualche tempo fa si pensava però che fossero
necessarie una serie di mediazioni, e che chi conosce la storia
non potesse trarne immediatamente un profitto personale.
Recentemente ho letto una storia del Messico, con pretese di
completezza (iniziando con le culture precedenti gli Aztechi),
anche se l’attenzione è rivolta soprattutto alla storia contem-
poranea. Nella sovracopertina l’autore, statunitense, viene
pubblicizzato come possibile consulente delle aziende che
vogliono esportare in Messico. Probabilmente per voi queste
cose sono ovvie, ma a me l’idea che anche la storia debba
essere venduta immediatamente come competenza utile per il
marketing fa ancora impressione. Ricordo di aver parlato con
un professore che insegna cultura italiana negli Stati Uniti
(credo faccia un corso su Dante ed uno sul Rinascimento), che
riesce a rendere “utili” le sue competenze dividendosi tra due
professioni: l’insegnamento universitario e il “cicerone”
durante crociere per pensionati. Mi sembra chiaro che questi
tentativi di rendere immediatamente vantaggiose le cono-
scenze storiche non possono non abbassarne il livello.
LUCIO RUSSO 63
avrebbero diretto una fabbrica di scarpe; che gli studenti
erano clienti; che il loro compito era quello di vendere un
prodotto; che dovevano fare concorrenza agli altri presidi
cercando di sottrarre loro clienti. Questo tipo di indottrina-
mento era curato da aziende private, spesso costituite per l’oc-
casione da gruppi accreditati presso il ministero: un esempio
della miscela tipicamente italiana tra privato e pubblico.
L’esistenza delle due radici ideologiche di cui abbiamo
parlato, molto lontane per origine, ma di fatto convergenti,
spiega però ben poco. Per trovare una giustificazione a ciò
che si fa non si può che attingere alle ideologie esistenti, ma
ciò non significa che le motivazioni ideologiche siano le vere
cause del processo che ci interessa.
LUCIO RUSSO 65
conoscerle tutte e mille, tanto vale non saperne nessuna e
limitarsi a saper trovare la singola notizia che interessa in
un’enciclopedia o in Internet. Ricordo un professore di storia
che durante uno dei tanti dibattiti sulla scuola cui ho parteci-
pato mi disse: “perché insegnare il Rinascimento? È un evento
locale, riguarda solo noi; un neozelandese non sa che farsene.
Perché insegnare la civiltà greca? anche quello è un fenomeno
locale”. E allora cosa possiamo insegnare? Secondo quel pro-
fessore possiamo insegnare solo la complessità della storia.
Nella nuova ottica di globalizzazione, volendo trasmettere
solo nozioni di interesse planetario, possiamo limitarci a dire
che la terra è tonda e ha ospitato molte civiltà.
Un altro aspetto importante, che riguarda in particolare la
fisica, ed è connesso in parte al precedente, è la crescente diva-
ricazione fra il livello teorico e l’applicazione tecnologica.
Nella prima metà del Novecento la scienza, e in particolare la
fisica, era immediatamente, o meglio a breve distanza tempo-
rale, applicabile alla tecnologia, e ciò comportava anche la
convenienza economica del finanziamento della ricerca di
base, perché si sapeva che la ricerca di base avrebbe avuto una
ricaduta applicativa. A me sembra che da qualche decennio si
sia aperta una forbice: mentre chi fa ricerca fondamentale pro-
duce conoscenze che interessano poco dal punto di vista tec-
nologico, chi invece sviluppa la tecnologia può farlo sulla base
di conoscenze teoriche di trenta o quaranta anni fa.
Naturalmente se ciò è vero, abbiamo individuato un altro fat-
tore della diminuzione di interesse per le conoscenze di base.
Quelli fatti finora possono essere considerati esempi di un
fenomeno più generale: si diffonde la consapevolezza che vivi-
amo in un mondo molto complesso, alla quale si accompagna
in genere la convinzione che i fenomeni che ci riguardano non
ammettono una comprensione sintetica. Si rinuncia allora a
qualsiasi comprensione, limitando la conoscenza all’immagaz-
zinamento automatico di dati. Naturalmente quelli accennati
finora sono connessi ad una serie di altri fenomeni culturali di
cui non potremo parlare qui, come la fortuna del relativismo
epistemologico e del decostruzionismo.
LUCIO RUSSO 67
competenze sono ristrette a chi produce il software; il che sig-
nifica che il processo di decisione, una volta decentrato in
moltissime banche, può divenire estraneo ad intere nazioni.
Allo stesso tempo il processo di concentrazione fa diminuire
drasticamente anche il numero delle banche, e anche per
questa via tra le persone che lavorano nel settore quelle coin-
volte in decisioni rilevanti divengono estremamente rare.
Un altro fattore importante è il processo di globalizzazio-
ne. Identità culturali diverse spingono a consumare prodotti
diversi e quindi esiste un forte interesse delle aziende pro-
duttrici più forti ad uniformare i mercati, eliminando le
diverse identità culturali. Questa spinta è ovviamente, allo
stesso tempo, una spinta verso l’impoverimento culturale,
come risulta chiaro confrontando, ad esempio, i programmi
televisivi concepiti alcuni decenni fa per le diverse televisio-
ni nazionali con le trasmissioni televisive basate su “format”
esportabili in tutti i paesi.
Un aspetto che credo particolarmente rilevante dei proces-
si di concentrazione della produzione culturale è implicito
nelle nuove tecnologie didattiche. Io da questo punto di vista
sono un reazionario. Ho sempre usato gesso e lavagna nelle
lezioni e vorrei provare a farlo ancora, anche se bisogna resis-
tere ad una pressione sempre più forte. Recentemente sono
stato avvertito che posso concorrere ad un aumento di sti-
pendio del 5%, grazie ad appositi fondi di incentivazione,
purché dimostri di usare tecnologie innovative nella didatti-
ca. In pratica chi decide di fare didattica con tecnologie non
aggiornate ha lo stipendio decurtato. In cosa consistono le
tecnologie innovative? Essenzialmente nel sostituire una
lezione viva, in cui si può modificare il contenuto e il meto-
do in base alle reazioni degli studenti (non mi riferisco solo
alle domande fatte, ma anche alle espressioni dei visi) con
una lezione prefabbricata che, in linea di principio, può
essere prodotta in serie. Credo si tratti di un passaggio inter-
medio: lo sbocco naturale del processo in atto consiste nel
sostituire le lezioni con videocassette o programmi accessibi-
li in rete. L’idea è quella di sostituire la lezione artigianale
con un prodotto industriale. Se e quando il processo sarà
completato i docenti saranno sostituiti da due categorie di
persone: pochissimi produttori di prodotti didattici, parago-
LUCIO RUSSO 69
Si può probabilmente tracciare un parallelo con il mondo
antico, quando Roma importava tecnici dall’Oriente ellenis-
tico, senza creare scuole in grado di riprodurre autonoma-
mente tecnici e intellettuali.
3. Che fare?
Per finire, poche osservazioni sul “che fare?” Su questo
punto ho ben poco da dire. Una prima osservazione, banale,
è che la comprensione è preliminare a qualsiasi intervento,
soprattutto sul piano culturale. La prima cosa da fare è quin-
di quella di capire. Credo poi che sia molto importante con-
servare la memoria di ciò che è stata la cultura. Questo mi
sembra un punto essenziale. Se si ha fede nel progresso auto-
matico e si pensa che le cose andranno comunque verso il
meglio e non c’è bisogno di conservare la memoria del pas-
sato, allora non esiste limite al peggioramento. Se invece si
mantiene la memoria, ogni eventuale regresso viene frenato
dalla consapevolezza che si tratta, appunto, di un regresso.
Tra gli insegnamenti della storia vi è certamente quello,
importante, che la civiltà non avanza sempre automatica-
mente, ma può anche subire arretramenti e crolli.
Una cosa che mi viene in mente periodicamente, ma che
credo molto difficile da realizzare, è la possibilità che nascano
nuovi soggetti, capaci di produrre e trasmettere cultura,
diversi dalle istituzioni che in questa fase sembrano in via di
smobilitazione. Istituzioni come l’università o la scuola secon-
daria italiane, da una parte contengono ancora molte energie
intellettuali valide e dall’altra non danno alcun affidamento
come strutture. Nell’Università italiana conosco tantissimi
colleghi intelligenti, stimolanti e bravi, ma non ho più alcuna
fiducia nelle decisionali degli organi universitari, che sembra-
no non conoscere limiti nell’approvazione di ogni possibile
peggioramento. In questa situazione viene il dubbio che
bisognerebbe puntare (ma non ho idee molto chiare su come
si possa farlo), sull’utilizzazione del materiale umano esisten-
te per tentare di far nascere altre realtà, aggregazioni di per-
sone che condividono fini che sfuggono alla logica che si è
impadronita delle istituzioni attualmente esistenti.
Credo che questo sia un punto sul quale varrebbe la pena
discutere seriamente.
70
P rofessione: filosofi
Filosofia/università
di Donatella Di Cesare1
1. Filosofia e università
71
uno studio questa volta non decostruttivo ma ricostruttivo
delle storie delle discipline umanistiche e nella fattispecie
della filosofia all’università3. Studi del genere – come ho
avuto modo di constatare in questi giorni – mancano ancora,
sono insufficienti. Senz’altro c’è una filosofia che resta fuori
dell’università, c’è una filosofia che resta ai margini, c’è infine
una filosofia che si sviluppa all’interno dell’accademia. In
Grecia troviamo i tre casi. La storia della filosofia tedesca è per
contro esemplare; la filosofia tedesca da Kant e soprattutto da
Hegel a Heidegger si sviluppa – non senza cesure anche trau-
matiche – all’interno dell’università. Ma anche con le conse-
guenze che ci sono note. Se la filosofia è ancora adesso una
gloria nazionale in Germania (senza dubbio protetta più che
altrove), proprio per questo è stata usata sapientemente dal
potere politico nelle fasi nevralgiche della storia tedesca.
Senza dilungarci su questo tema, che pure sarebbe interes-
sante, basterà qui dire che il rapporto tra filosofia e istituzio-
ne è sempre stato conflittuale – se non altro perché alla filo-
sofia spettava e spetta di mettere in questione, di esercitare
una critica, nei confronti dell’istituzione, e dunque semmai
di fondarla, disegnarla, progettarla, formarla, riformala.
Perché dietro la riforma di una università c’è sempre una
filosofia, per quanto implicita e silenziosa, ma soprattutto
per quanto banale e pragmatica possa essere.
3 Cfr. J. Derrida, L’università senza condizione, cit. pag. 13. Cfr. anche J.
Derrida, Mochlos – o il conflitto delle facoltà, trad. it. parziale in J. Derrida,
Del diritto alla filosofia, Abramo, Catanzaro 1999, pag. 185-223.
PROFESSIONE FILOSOFI.
72 FILOSOFIA/UNIVERSITÀ
Marx nella sua tesi: la filosofia è la critica che spinge alla
“realizzazione della filosofia”4.
Critichiamo a costo di apparire all’inizio nostalgici. La
riforma che viene messa in atto – nonostante la mancanza di
fondi – aspira ad una modernizzazione dell’istituzione uni-
versitaria. “Modernizzazione” è una parola che risuona con-
tinuamente e dunque fa parte degli obiettivi espliciti della
riforma. Questa aspirazione però, per quel che riguarda la
filosofia e le conseguenze sull’insegnamento della filosofia,
poggia su due presupposti che a mio avviso non sono stati o
non sono stati abbastanza esplicitati.
Il primo presupposto è che la filosofia debba “servire” a
qualcosa, a qualcosa che non sia ovviamente una semplice
“riflessione critica”, che debba servire a una pratica (non dico
prassi, per me sempre connessa con teoria), che debba insom-
ma avere uno “sbocco”, meglio se è uno “sbocco professio-
nale”. Si presuppone insomma che la filosofia debba servire
– diciamolo pure – al mercato del lavoro. Il che parrebbe
anche facilitato dal fatto che il mercato del lavoro sembrereb-
be richiedere laureati in filosofia per via della che loro “fles-
sibilità”. Ma che cosa vuol dire qui “flessibilità”? Si tratta
davvero di “flessibilità” o non si dovrebbe parlare forse,
meglio, di “adattabilità”?
Rinvio tale questione a dopo. E mi limito a ribadire questo
principio: la filosofia deve servire a qualcosa. Altrimenti – e que-
sto è il punto – perché studiare filosofia? Perché? Riecheggia
qui – e noi lo udiamo bene – il vecchio, vecchissimo pregiu-
dizio contro la filosofia. Quello della servetta che deride
Talete – per capirci. La modernizzazione è perciò all’insegna
del pregiudizio più vecchio che possa esserci.
Il secondo fondamento lo rivela ancora di più. La filosofia
– che per continuare ad esistere deve servire a qualcosa – se
proprio occorre che sopravviva, che sopravviva a se stessa
nella modernizzazione, deve fare i conti con il mondo della
tecnica. Fare i conti però non vuol dire – di nuovo – esercita-
re una critica. Vuol dire adattarsi. La filosofia, se proprio
deve esserci, deve essere a sua volta una tecnica, deve vesti-
4 K. Marx, Democrito e Epicuro, La Nuova Italia, Firenze 1979, cit. pag. 15.
ANTONELLA DI CESARE 73
re i panni della tecnica. Deve essere “tecnica della… cono-
scenza, tecnica della formazione, ecc.”.
Il pregiudizio precedente, quello del più rozzo, banale, ma
anche amorfo senso comune, si precisa qui con chiarezza. Al
posto della servetta di Tracia (che resta comunque sullo sfon-
do) ci sono ora il fisiologo, il biologo, e naturalmente l’infor-
matico – per citare solo alcuni. Dall’alto dei loro risultati
guardano il filosofo e se ne fanno beffe. “Ma esiste ancora la
filosofia? – sembrano chiedersi – questo ozio inconcludente
che non porta a nessun risultato, che non produce nulla”. E il
filosofo si piega. Lo sappiamo. Ma può trovare una via d’u-
scita. Il positivismo dell’Ottocento – quello che peraltro ha
trionfato non a caso nelle università – servirà pure a qualco-
sa. Ed ecco che il filosofo, senza pensarci troppo, prova a fare
il tecnico-scienziato.
Questa riforma – è bene dirlo una volta per tutte – è imbe-
vuta, anzi impregnata di positivismo scientista, proprio quel
positivismo che si è conservato in tante parti della sinistra ita-
liana (e che cosa la distinguerebbe in questo dalla destra?).
Anche qui niente di nuovo. Cose che conosciamo bene. E per-
ciò anche qui la modernizzazione non si fonda su qualcosa di
nuovo. Al contrario: non fa che riesumare vecchi fantasmi. Ma
i fantasmi – ce lo insegna Derrida – sono anche pericolosi.
Si tratta qui di un atteggiamento profondamente a-filoso-
fico quando non scopertamente anti-filosofico. È anti-filoso-
fico perché mina la filosofia nella sua identità, ne riduce il
compito, ne mortifica il futuro. La filosofia non serve, anzi
non serve a niente. Se pretende di servire ancora a qualcosa,
deve farsi scienza, meglio deve imitare la scienza. Non deve
domandare e saper domandare, deve rispondere e saper
rispondere. Non deve indicare i problemi; deve risolverli. È
sapere, è solo sapere, impartito, impartibile, e dunque tolle-
rabile in una istituzione dove – come fa notare Rovatti – sia
però quantificabile, smontabile, ricostruibile (lo abbiamo
imparato con i moduli e con i crediti) e dove sia perciò con-
trollabile5. Deve essere controllabile al punto che i futuri filo-
sofi devono seguire un curriculum, cioè un percorso già trac-
PROFESSIONE FILOSOFI.
74 FILOSOFIA/UNIVERSITÀ
ciato, un binario per giungere, senza uscire da quel binario,
alla laurea (breve e specialistica). Il risultato sarebbe la flessi-
bilità conseguita attraverso la peggiore rigidità che si possa
immaginare, quella che invade con violenza una scelta che
dovrebbe a sua volta essere il risultato di una riflessione e
autoriflessione e comportare già la filosofia, la presenza della
filosofia. La cosiddetta flessibilità, meglio la adattabilità
“filosofica”, è conseguita con la negazione in nuce della filo-
sofia.
ANTONELLA DI CESARE 75
parte della filosofia contemporanea. Questo suona come se ci
fosse o dovesse esserci un tipo particolare di persone che si
dedicano alla filosofia. In breve: ci sono i “filosofi” che si
occupano di questioni filosofiche dando le adeguate risposte.
Il che non è vero per un semplice fatto: tutti filosofano, solo
che filosofano in modo meno consapevole – pensando a
Hegel – di quanto non accada ai filosofi di professione. Tutti
si interrogano sulla morte, sul futuro, sulla felicità, sul senso
della vita. Per quanto nessuno possa dare risposte esaurien-
ti. Il domandare filosofico non è prerogativa dei filosofi di
professione, ma fa parte dell’uomo. È Kant a dire con grande
chiarezza che la filosofia è una “disposizione naturale del-
l’uomo” (eine menschliche Naturanlage). I bambini sono un bel-
l’esempio di ciò.
Vorrei citare qui un passo di Merleau-Ponty tratto dal suo
Elogio della filosofia: “Il filosofo è l’uomo che si risveglia e che
parla, e l’uomo ha in sé, silenziosamente, i paradossi della
filosofia, perché per essere davvero uomo, bisogna essere un
po’ più e un po’ meno che uomo”7. Il concetto ampio, quasi
naturale, di “filosofia” si oppone a quello ristretto, artificiale
e scolastico, allo Schulbegriff, al concetto accademico.
Quest’ultimo appare a dir vero poca cosa se confrontato con
la passione del chiedere umano. E proprio perché artificiale,
si rivela del tutto secondario.
Ma il domandare filosofico è un domandare che per se
stesso non trova e non può trovare risposta perché si scontra
continuamente nei limiti della finitezza umana. E allora non
si capisce perché chi pone questioni filosofiche, che non
hanno risposta, debba avere – in veste di professore di filo-
sofia – più disposizione o, peggio, più competenza di altri a
meglio considerare e risolvere i problemi filosofici. Il filosofo,
nel senso accademico del termine, è invece proprio quello a
cui vengono riconosciuti la funzione ma anche il dovere di
risolvere i problemi. Altrimenti il suo posto all’interno del-
l’accademia non sarebbe giustificabile. Come se la funzione
del “filosofo di professione” potesse essere quella di inse-
PROFESSIONE FILOSOFI.
76 FILOSOFIA/UNIVERSITÀ
gnare un ethos, di proporre o, peggio, di giustificare un ordi-
ne sociale o di raccomandare la formazione del costume o
l’indicazione di generali convinzioni pubbliche. Non è così,
anzi non è affatto così. Si pensa al filosofo di professione, cioè
al filosofo competente che all’interno (ma in fondo anche al
di fuori) dell’accademia sappia rispondere a problemi che
altri non sanno risolvere, che abbia dunque la fortuna di tro-
vare la soluzione per l’insolubile, solo in quel paradigma
della filosofia che abbiamo prima considerato, quel paradig-
ma positivistico-scientistico, profondamente antifilosofico,
che dall’interno stesso dell’accademia sta sferrando un attac-
co alla filosofia.
A questo filosofo di professione, buono per risolvere fan-
tasmatici problemi tecnici, si oppone pur sempre il bambino,
quel bambino che è in noi. Questo bambino vivrà – si spera –
più a lungo, e continuerà a interrogare e a interrogarsi, conti-
nuerà a filosofare.
ANTONELLA DI CESARE 77
re filosofico assolutamente incondizionato deve trovare il
proprio luogo peculiare nell’università, nei dipartimenti di
studi umanistici, soprattutto nelle Facoltà di Filosofia.
Questo luogo non è un dentro – come lo era nel passato. La
filosofia deve trovare nell’università il proprio luogo incon-
dizionato “non per rinchiudersi lì, ma, al contrario, per tro-
vare l’accesso migliore a un nuovo spazio pubblico trasfor-
mato da nuove tecniche di comunicazione, di informazione,
di archiviazione e produzione del sapere”10. La professione
di fede si dà, avviene non con il constativo, ma con il perfor-
mativo. La filosofia non è e non può essere ridotta al solo
sapere. Se lo fosse consisterebbe di soli enunciati constativi,
di discorsi di sapere puro. Non è così. “La filosofia non è
affatto comunicativa più di quanto non sia contemplativa o
riflessiva: è creativa o rivoluzionaria per natura nella misura
in cui non cessa di creare nuovi concetti”11.
È perciò il performativo l’atto di parola della filosofia,
della sua professione di fede, se professare vuol dire appun-
to dichiarare apertamente, pubblicamente. E professare vuol
dire allora impegnarsi dichiarandosi.
PROFESSIONE FILOSOFI.
78 FILOSOFIA/UNIVERSITÀ
5. Il diritto incondizionato di dire tutto
È vero – lo sappiamo bene in Italia – che l’università senza
condizione non esiste. Ma “di principio” e “in conformità”
alla sua vocazione dichiarata, in virtù della sua essenza pro-
fessata, dovrebbe restare un luogo – forse l’ultimo? – di “resi-
stenza critica”. Con “critica” o “più che critica” Derrida
intende “decostruttiva” e si riferisce al diritto incondizionato
di porre questioni. Questa resistenza incondizionata potreb-
be opporre l’università ai poteri politici, economici, mediati-
ci, ideologici, religiosi, a tutti i poteri che limitano la demo-
crazia a venire – ma senza risparmiare neppure il concetto di
“democrazia”. L’università senza condizione si fonda allora
sul diritto incondizionato di dire tutto – sia pure solo per spe-
rimentare – di dire tutto pubblicamente, di pubblicarlo. Ed è,
diversamente da ogni istituto di ricerca finalizzato a qualco-
sa, incondizionata, senza condizione perché, eterogenea al
potere, e quindi priva di potere, è una “cittadella esposta”
che esangue può finire per arrendersi senza condizioni. Ma
l’università ha il privilegio di essere tra il dentro e il fuori, e
cioè al limite. Su questo limite, su questo confine, deve nego-
ziare e organizzare la sua resistenza. “Perché oggi il luogo
del pensiero è questo non luogo, quest’enclave tra dentro e
fuori che ha a che fare con la mondializzazione del mondo”13.
Perciò deve essere luogo di resistenza, di dissidenza, di
disobbedienza civile se fosse necessario. Perciò l’università
ha luogo, cerca il suo luogo, ovunque l’incondizionatezza
possa annunciarsi.
ANTONELLA DI CESARE 79
80
L’ etica filosofica e lo spirito
della resistenza
di Lorenzo Fabbri1
81
Grund), ovvero ancora un fondamento e una fondazione.
Nell’espressione “ragion d’essere”, questa causalità ha soprat-
tutto il senso di causa finale”2.
L’ETICA FILOSOFICA
82 E LO SPIRITO DELLA RESISTENZA
Questa riduzione economica della filosofia, questa rispo-
sta della domanda “perché scegliere la filosofia?” non può
che apparire agli occhi degli studenti, anche sulla scia delle
riflessioni di Derrida e Rovatti, come un tradimento della tra-
dizione propria della filosofia. Della tradizione illuministica,
per esempio, i cui lumi compaiono, come ricorda Derrida, su
molte insegne universitarie.
All’esigenza utilitaristica delle scienze applicate, il voca-
bolario della metafisica saprebbe ben opporre la purezza
della vera conoscenza. Il modello moderno di Università,
fondato e configurato sulle pretese della metafisica, non è
molto vecchio: la sua instaurazione come modello universa-
le può essere datato tra il 1798 e il 1810, tra lo scritto kantia-
no sul Conflitto delle facoltà e l’istituzione dell’Università di
Berlino. L’organizzazione dell’Università, la sua architettura,
per Kant non è un fatto meramente aleatorio e contingente.
La topologia dell’Università non è un caso, ma è una istitu-
zione artificiale che ha per fondamento un’idea della ragio-
ne. Kant fornisce una giustificazione razionale alla realtà che
il Governo tedesco aveva pensato. Il modello universitario
che Kant formalizza si basa sull’affermazione che, nella feli-
ce istituzione universitaria, il reale sia anche razionale. “Su
quel modello, almeno per i tratti essenziali, si sono ristruttu-
rate tutte le grandi università occidentali”4.
Kant si cura di teorizzare una linea che delimiti il luogo
dell’Università e al suo interno il confine che separi una
facoltà dalle altre. Questa cartografia, naturalmente, per Kant
non può essere meramente empirica ma deve basarsi su una
deduzione trascendentale pura. “La principale preoccupa-
zione di Kant è perfettamente legittima per chiunque inten-
da decidere di un buon diritto: tracciare i limiti rigorosi di
quel sistema che è chiamato Università”5.
Quello che in questo luogo ci interessa è la giustificazione
che Kant fornisce per la divisione tra facoltà superiori e
facoltà inferiore. Alle facoltà superiori appartengono quelle
discipline che formano funzionari che si porranno al servizio
LORENZO FABBRI 83
del governo. L’Università non forma solo degli studiosi e
degli scienziati, bensì crea una classe di professionisti del
fare. Kant si riferiva a medici, teologi e dottori in giurispru-
denza; oggi come stabilire da quale facoltà non possono pro-
venire dei servitori dello stato e degli agenti in altri campi?
Dal parassitismo di questi dotti che pur essendo intra-
universitari guardano quasi essenzialmente a interessi
extra-universitari, alla ragion di stato o all’economia, è lo
Stato stesso che deve proteggere l’altra facoltà. Deve esse-
re garantito un contropotere che pur non avendo nessun
potere concreto e extra-universitario si occupi liberamente
di decidere sul vero e sul falso. L’autorità di decidere sulla
verità non spetta alle facoltà superiori ma alla facoltà infe-
riore, quella più lontana dai vertici del potere ma più vici-
na alle fondamenta del sapere. La facoltà inferiore è la
facoltà di Filosofia.
L’ETICA FILOSOFICA
84 E LO SPIRITO DELLA RESISTENZA
verità”7. Il potere della nostra facoltà è un potere decidere
che però non deve spingersi a decidere pubblicamente.
L’esercizio della filosofia si privatizza poiché il suo diffon-
dersi deve limitarsi esclusivamente ad un pubblico di esper-
ti intra-universitari. Se pretendesse di diventare luogo di un
esercizio pubblico, la zona franca che è la facoltà di Filosofia
sarebbe distrutta dalle forze del governo. “L’università fa pro-
fessione della verità. Ella dichiara, promette un impegno
senza limiti nei confronti della verità”8.
7 J. Derrida, ivi, cit. pag. 35I, Derrida sta citando I. Kant, Il conflitto delle
facoltà in tre sezioni.
8 J. Derrida, L’università senza condizione, op. cit., cit. pag. 10.
9 J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, op. cit, cit. pag. 26-27.
10 J. Derrida, ivi, cit. pag. 27-28.
LORENZO FABBRI 85
Se la filosofia si fa pubblica, essa è già una pratica perfor-
mante che produce effetti.
Per Kant la ricerca teorica fondamentale, che per il filosofo
tedesco non era altro che la filosofia, dovrebbe mantenersi
segreta e privata all’interno di un club esclusivo. Nel
momento in cui essa pretende di allargare il suo bacino di
utenti e farsi pubblica, lo stato interviene con la censura. La
teoria non è sottoposta al controllo dello stato, la pubblica-
zione di una teoria invece lo è11.
È per questo che Kant ha la necessità di concepire un lin-
guaggio esclusivamente constativo: deve attraverso esso giu-
stificare un luogo, seppur privato, che sia libero da qualsiasi
controllo pubblico.
Ma è lo stesso Kant a “decostruire” la possibilità di un
puro constatare che non sia contaminato da una certa desti-
nazione performativa. In un passo di Risposta alla domanda:
Che cos’è illuminismo scrive che non si può vietare al popolo
di elevarsi dagli errori e di procedere nell’illuminazione cor-
retta del reale. E dunque ogni cittadino, nella privatezza
della sua riflessione, può pensare, criticare, decostruire come
meglio crede. Ma se le sue pubblicazioni private ottengono
un consenso pubblico? Cosa accade alle riflessioni filosofiche
quando arrivano al senso comune?
L’ETICA FILOSOFICA
86 E LO SPIRITO DELLA RESISTENZA
Per ora, sembra dirci Kant, il senso comune è in mano ai
professionisti delle facoltà superiori che diffondono l’idea che
la filosofia sia un chiacchiericcio privato tra sociopatici, ma
sarà sempre così? Anche la “teoria” filosofica è produttiva.
Ma se si mina la convinzione in una teoria che fondi una
distinzione rigorosa tra performativo e constativo, tra dire e
fare, deve anche essere revocato uno spazio puramente pro-
prio per la facoltà di filosofia, cosa che paradossalmente ha
fatto la riforma, “scavalcando a sinistra” le convinzioni anti-
metafisiche della filosofia contemporanea.
Non credo che si possa imputare alla riforma di aver spor-
cato la purezza della filosofia con la trivialità del fare. Una tale
accusa conserva infatti in sé un’idea di cosa sia la filosofia che
mi pare essere difficilmente sostenibile, soprattutto al giorno
d’oggi, soprattutto dopo Nietzsche. Ciò che invece mi pare
indiscutibile è che la riforma Berlinguer-Zecchino-Moratti
abbia consegnato senza condizioni la facoltà di Filosofia, ad un
tipo di fare che non le è proprio, ad una etica che le è estranea,
ad interessi economici “superiori” da cui essa dovrebbe salva-
guardare ed essere salvaguardata. È per questo allora che
bisogna fare fronte comune per resistere a tale avanzata di
aziendalismo e di utilitarismo spicciolo: “c’è bisogno di resi-
stere a un’invadenza, un’invasione, un’occupazione del terri-
torio”13. Il problema è che, come emerge dalla ricostruzione
storica redatta da Rovatti, a questa invasione quasi nessuno si
è curato di resistere. Per apatia o forse per disinteresse sola-
mente in pochi si sono mobilitati contro una riforma universi-
taria che, almeno nelle parole, non piace a nessuno.
Mi permetto di segnalare come concreta forma di resisten-
za l’occupazione della facoltà di filosofia di Roma messa in
atto dagli studenti di tale facoltà. E mi permetto di dire che
questa occupazione ha dovuto avere luogo solo come conse-
guenza, come reazione ad una precedente occupazione: l’oc-
cupazione silenziosamente educata di Villa Mirafiori, sede
storica della facoltà, da parte della mentalità dei crediti e dei
debiti, dell’accumulazione di lavoro e del valore degli esami.
L’occupazione degli studenti ha voluto essere l’occasione e
il luogo di una messa in questione di una condizione univer-
LORENZO FABBRI 87
sitaria che molti accettano come semplicemente data, come
inevitabilmente presente. Una resistenza critica ad uno spirito
estraneo alla filosofia a cui è stato permesso di prendere pos-
sesso di essa. Un luogo in cui venissero sperimentate, per usare
le parole di Derrida, nuove tecniche di produzione di sapere.
L’invito che Derrida rivolge a tutti coloro che hanno a che
fare con le scienze umane, siano essi studenti o professori, è
di vigilare sulla condizione dell’istituzione in cui svolgono i
propri studi: il virus della ragione strumentale sembra essere
più forte e invasivo che mai e allora bisogna con un’attenzio-
ne metodica e capillare scoprire tutti le nuove forme attra-
verso cui le esigenze economiche cercano di indirizzare, gra-
zie a capitali statali o privati, i programmi di ricerca e l’ethos
filosofico. Bisogna mantenere la memoria della missione
umanistica, di un’idea di uomo diversa da quella volgare
delle tecno-scienze, e aprirsi alla decisione di lasciar avveni-
re qualcosa dentro l’università.
Questo evento però non dovrebbe essere confinato tra le
mura accademiche: piuttosto dai dipartimenti di studi uma-
nistici dovrebbe arrivare ad occupare uno spazio meno
ristretto e farsi, finalmente, pubblico. La filosofia dovrebbe
realizzarsi come pratica altra di vivere il presente, il qui e
l’ora.
Se si dà per assodato che non c’è un modo puramente teo-
rico di occuparsi della realtà, automaticamente viene impli-
cato che tutti i modi di essere-nel-mondo si equivalgono e
che tanto vale lasciar perdere ogni velleità critica o filosofica?
Dove se non nell’Università si può parlare di universali?
Cosa discende dal parlarne?
L’ETICA FILOSOFICA
88 E LO SPIRITO DELLA RESISTENZA
atteggiamento più autentico o più primario rispetto al modus
operandi della ragione strumentale, si può comunque conce-
dere della filosofia o alle scienze umanistiche di essere in
qualche modo e da sempre opposte ad una visione esclusi-
vamente tecnica del reale.
Derrida segnala però il rischio di una tale resistenza: oppo-
nendosi alla Università ridotta a propedeutica al lavoro, non
si rischia di legittimane la vecchia architettura accademica? E
questa gerarchia non è anche portatrice di un significato
sociale?
Aristotele parlando del sapere teoretico, quello che non
avrebbe di vista l’utile, scrive che chi detiene tale potere è la
mente, mentre chi fa senza sapere è il braccio. Chi conosce le
cause è “l’architekton di una società al lavoro”15. Funzione
del filosofo dunque è “contemporaneamente insegnare,
dunque, e dirigere, pilotare, organizzare il lavoro empirico
delle manovalanze. Il teorico-insegnante, l’“architetto” è un
capo perché è dal lato dell’archè, del cominciamento e del
comandamento”16.
Si tratta di difendere la purezza dell’Università da chi
tende a azzerare il suo disinteresse, ma bisogna anche ridico-
lizzare le pretese di disinteresse quando, essendoci in ballo
molti interessi, esse vogliono essere la legittimazione della
conservazione di una gerarchia che sottopone i lavoratori
manuali al lavoro intellettuale e l’alibi per il rinvigorirsi delle
voci delle caste. Una sorte di “neo-conservatorismo” non
discende dalla critica filosofica?
LORENZO FABBRI 89
Forse ci stiamo avvicinando a illuminare che cosa ci si sta a
fare a Filosofia. Sicuramente non per avere verità metafisiche
né per cullarsi nel sogno dandy della pura inutilità privata.
Derrida suggerisce che ogni proposta teorica si richiama,
esplicitamente o di contrabbando, ad un modello politico.
Scrive Derrida:
18 J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, op. cit., cit. pag. 29.
19 J. Derrida, ivi, cit. pag. 30-31.
20 J. Derrida, ivi, cit. pag. 31.
L’ETICA FILOSOFICA
90 E LO SPIRITO DELLA RESISTENZA
“Questa università senza condizione non esiste, di fatto, lo
sappiamo anche troppo bene. Ma di principio e in virtù della
sua vocazione dichiarata, in virtù della sua essenza professata,
essa dovrebbe restare un ultimo luogo di resistenza critica – e
più che critica – a tutti i potere di appropriazione dogmatici e
ingiusti.
Quando io dico “più che critica”, io sottintendo “decostrutti-
va””21.
LORENZO FABBRI 91
F ilosofia dei linguaggi artificiali
Preparativi di un incontro galante
tra Wittgenstein e Marx
di Luca Nobile1
93
sociale, l’alfabetizzazione di massa. Il costituirsi novecente-
sco di una forza lavoro capace di leggere e di scrivere è matu-
rato parallelamente allo sviluppo dei mezzi di comunicazio-
ne. La prima attestazione in italiano dell’espressione “prole-
tariato intellettuale” risale al 1908, e si riferisce al lavoro gior-
nalistico. Nel 1968, cinque anni dopo la riforma scolastica del
centro-sinistra, e circa dieci dopo la comparsa della televisio-
ne (cui si deve l’unificazione linguistica effettiva del nostro
Paese), questo “proletariato intellettuale” si dà a vedere, per
la prima volta, come soggetto politico collettivo, principal-
mente sotto forma di movimento studentesco. Le successive
sue emergenze, nel 1977, nel 1990, e nei nostri giorni, rappre-
sentano altrettanti passaggi di una soggettivazione sempre
più autonoma, sempre meno vincolata alla memoria del
movimento operaio, sempre più in cerca di forme organizza-
tive originali e di contenuti rivendicativi propri. Nella molti-
tudine dei soggetti e delle forme, dei mestieri e dei saperi,
che hanno animato queste emergenze, si è andato profilando
sempre più chiaramente, negli ultimi cinque o dieci anni, un
elemento strutturale comune, una cosa che sta al posto della
fabbrica, luogo fisico dell’unità operaia, ma che non è più
una fabbrica, ed anzi non è più un luogo, o anzi è un luogo,
e una fabbrica: il personal computer. Il personal computer
connesso in rete è oggi la macchina universale, la metamac-
china, capace di ridurre ad unità la molteplicità dei lavori
intellettuali. É la macchina universale, perché la sua flessibi-
lità le consente di penetrare in ogni tipo di produzione. É la
metamacchina, perché supporta il funzionamento di tutte
quelle macchine particolari, i software, che gli uomini metto-
no in opera nel processo di produzione effettivo. Riduce in
unità la molteplicità dei lavori intellettuali, esattamente come
riduce ad un medesimo codice scritto, il codice binario, la
molteplicità dei valori sensoriali. Nel tempo stesso in cui il
fotografo, il musicista, il regista, lo scrittore, la segretaria, il
telefonista, il manager, l’impiegato tramutano ciascuno il
proprio gesto particolare, la propria macchina o il proprio
strumento particolare, nel gesto universale di sedere allo
schermo, digitando caratteri sulla tastiera e manovrando con
una mano il mouse, nel tempo stesso in cui ciò accade - in cui
accade cioè che il “concreto mestiere artigiano” dell’intellet-
LUCA NOBILE 95
come il sedimento cristallizzato del lavoro passato degli
uomini: come “lavoro morto”, di fronte al “lavoro vivo”
degli uomini attuali. La sua collocazione nel processo di
lavoro è quella di un “mezzo di produzione”: si tratta cioè di
una merce molto particolare, di una merce che serve a pro-
durre le altre merci. In quanto dispositivo inorganico, in
quanto lavoro morto e in quanto mezzo di produzione, essa
costituisce l’articolazione centrale e la materializzazione più
eminente, all’interno del processo produttivo, del capitale
stesso. Essere intrinsecamente astratto, che nella circolazione
assume la forma intrinsecamente astratta del denaro, il capi-
tale reperisce nell’ambito della produzione, e in particolare
nella macchina, la sua principale forma di esistenza concreta
(“capitale fisso”), che ne esibisce a tutto tondo la natura ori-
ginariamente inorganica. Mediante la macchina, l’essere
inorganico, cioè il capitale, sottomette ai propri ritmi e alla
propria logica l’attività vivente dell’essere organico, il lavoro
vivo, il lavoratore: lo espropria delle sue conoscenze, dei suoi
gesti abituali, delle sue facoltà e gliele restituisce capovolte
come mere necessità, come leggi fisico-meccaniche, come
dominio.
Sin qui, i caratteri che fanno del personal computer una
macchina come le altre. Tuttavia, anche secondo le categorie
di Marx, appare chiaro che esso non è in tutto e per tutto una
macchina come le altre. Anzitutto, certo, si tratta di un dispo-
sitivo inorganico, tuttavia questa inorganicità si è di molto
affinata, rispetto a quella di un tempo. Già rappresentata dal
ferro, elemento pesante del nucleo della terra, profondamen-
te alieno, per le sue proprietà fisico chimiche, al carbonio, che
costituisce e struttura la vita organica in superficie, l’inorga-
nicità della macchina assume oggi la materia del silicio,
sostanza leggera della crosta terrestre, vero e proprio fratello
gemello del carbonio per le sue proprietà fisico-chimiche
(tetravalenza etc.). In secondo luogo, certo, questa macchina,
come le altre, incorpora un sapere operativo, tuttavia, per la
prima volta, questo sapere operativo concerne adesso preci-
samente l’operazione stessa di sapere. La memoria, il calcolo,
la copia, l’indicizzazione, l’ortografia: sono solo le più ele-
mentari delle operazioni intellettuali per cui, un tempo, era
ancora necessario l’uomo. In terzo luogo, certo, essa è un
LUCA NOBILE 97
nella misura, residuale, in cui non lo è, il suo sguardo ha ces-
sato di essere perspicace. Dunque, è proprio il punto di mag-
gior forza del materialismo storico, la possibilità stessa di
uno sguardo oggettivo, ad essere revocato in questione.
Prima ancora che l’analisi dei fatti, fa problema, oggi, il fatto
che uno analizzi, il modo in cui procede il suo pensiero, la
natura del linguaggio che usa. É per questo che un discorso
di liberazione, paragonabile anche solo per efficacia a quello
del marxismo novecentesco, difficilmente potrà riprendere
piede, senza che abbia fatto i conti fino in fondo con la filo-
sofia del linguaggio.
Il Tractatus logico-philosophicus è l’opera che inaugura l’e-
mergenza di quest’ultima sulla scena della filosofia occiden-
tale, ma anche, a un tempo (e non per caso), l’opera che pone
le condizioni teoriche per lo sviluppo e la creazione della
macchina informatica. É in virtù della “prodigiosa semplifi-
cazione della teoria dell’inferenza” (Russell), affidata da
Wittgenstein ai capitoli 3, 4 e 5 del libro, che la cultura occi-
dentale vede aprirsi la possibilità di ricondurre qualsiasi ope-
razione logica a una sequenza determinata di 0 e di 1. Per nulla
ignota ad altre tradizioni culturali (basti pensare all’I King
cinese, che dal III millennio a.C. riconduce tutte le meta-
morfosi naturali a una sequenza binaria di ying e di yang), la
scoperta di Wittgenstein può tuttavia sposarsi, adesso, con la
tecnica e con l’industria occidentali e, in questo modo, eva-
dere la sfera della sapienza aristocratica, per investire di sé la
vita quotidiana delle masse. La riduzione di tutta la logica a
una sequenza determinata di proposizioni atomiche (1), arti-
colate con le loro negazioni (0), è il risultato della perimetra-
zione dell’epistème che Wittgenstein consegue mediante il
Tractatus. Lo scopo del libro è infatti quello di suddividere
rigorosamente ciò che rientra nella sfera del dicibile e ciò che
non vi rientra. A differenza dei suoi epigoni, Wittgenstein
non nega assolutamente l’eccedenza dell’essere sull’epistè-
me, non esclude l’esistenza di un indicibile, anzi: è proprio
assegnando ad esso un luogo ben determinato, che perviene
a delimitare con rigore, per contraccolpo, l’ambito del dicibi-
le, della logica e della scienza.
Nel Tractatus, questo Altro radicale dai contenuti del lin-
guaggio, e del mondo, non costituisce una sostanza imper-
LUCA NOBILE 99
sistematico. E la ragione è chiara: se il comunismo è il “movi-
mento reale che abbatte lo stato di cose esistente”, allora esso
non appartiene in alcun modo alla sfera del dicibile, non
appartiene assolutamente alla teoria, perché inerisce in tutto
e per tutto alla prassi, all’azione. Per ciò che concerne il
comunismo, così come la felicità o il Mistico, che ne sono l’e-
satto corrispondente sul piano dell’esperienza singolare, vale
ancora l’invito di Wittgenstein, che potremmo tradurre così:
le chiacchiere stanno a zero.
Non dunque una carenza di realtà, di concretezza, di
determinazione, suggerisce a Wittgenstein di tacere del
Mistico, bensì, tutto al contrario, l’assoluta pienezza fattuale,
il suo risolversi interamente nella pratica, il suo essere la pra-
tica: l’Etico. Così, la seconda opera che Wittgenstein compo-
ne, non sono le Ricerche filosofiche: è la rinuncia alle ricchezze
paterne, l’abbandono della cattedra di Cambridge, il ritiro
nelle campagne austriache ad insegnare matematica ai bam-
bini; è la sua vita. É solo in grazia di queste scelte pratiche
che Wittgenstein può compiere, trent’anni più tardi, il passo
successivo. Ciò di cui le Ricerche, infatti, vanno cercando il
modo di parlare, è precisamente quanto, nel Tractatus, si
doveva tacere. Esse sono un tentativo incompiuto, non riu-
scito, e tuttavia ritenuto possibile, di portare alla parola pro-
prio quell’indicibile, quel Mistico, che per il giovane studen-
te di logica del 1921 era ancora la vita pratica. Di portare alla
parola, quindi, il linguaggio della vita pratica, sia nel senso
del linguaggio comunemente usato in essa, sia nel senso del
linguaggio che essa è, in quanto trama di azioni e relazioni
quotidiane, dotate di significato. Il concetto di gioco linguisti-
co, cui è dedicata la Parte Prima, è appunto il nome di questa
ambivalenza. Ma a cosa serve questo tentativo ? Perché ten-
tare di indagare l’interzona tra la vita e le parole ? Che cosa
c’entra col problema della felicità, del Mistico, dell’altro
mondo ? Wittgenstein non lo spiega. Tuttavia, c’è un immagi-
ne, nel senso proprio di un’illustrazione, che campeggia al
centro della Seconda Parte, e che ha tutta l’aria di tentare una
risposta: si tratta dell’immagine pluristabile dell’anatra e
della lepre. Il medesimo disegno, dice Wittgenstein, può
assumere due aspetti diversi: restando identico, cambia.
Come se il pensiero, il linguaggio, intervenisse sulla perce-
107
D: È molto difficile per un attivista di sinistra vivere negli Stati
Uniti: non ci si sente a proprio agio. Quale è la reale situazione del-
l’attivismo politico negli Stati Uniti?
D: Speriamo di no…
114
L inguaggio e politica
di Paolo Virno1
115
Parlerò di un tema più astratto, più filosofico: la relazione
tra politica e linguaggio. Diciamo subito ciò che non mi inte-
ressa, almeno qui e ora. In questa relazione non analizzerò il
“linguaggio della politica”, il gergo o dialetto della politica.
Non lo reputo importante. Né mi pare che valga la pena di
soffermarsi su una ipotetica “politica del linguaggio”, ossia
sulle scelte politiche che si possono adottare a proposito dei
modi di comunicare. Televisione, censura, libertà di parola
ecc.: tutte cose che hanno un loro peso, o l’hanno avuto, o lo
potranno avere. Ma non sta lì il cuore della questione. Il
cuore della questione è costituito, invece, dal nesso intimo,
originario, essenziale tra il fatto che siamo animali dotati di
linguaggio e il fatto che siamo animali politici. Voi sapete che
queste due definizioni provengono dal mondo classico:
“L’uomo è l’animale dotato di linguaggio”, scrive Aristotele.
Ma lo stesso Aristotele scrive anche: “L’uomo è animale poli-
tico”. Di solito, tra questi due aspetti si scorge una parentela,
un’aria di famiglia: ma niente di più. Si stenta cioè a ricono-
scere la perfetta identità, sinonimia, coestensività delle due
definizioni.
Se si va alla radice del linguaggio verbale umano, si va
anche alla radice, con un unico movimento, della politicità
dell’essere umano. Purché non si intenda l’agire politico
come qualcosa che si può fare o non fare, insomma come un
optional. Nell’accezione radicale del termine, l’agire politico
caratterizza il modo di essere dell’animale umano: non meno
del nostro sistema polmonare o della nostra percezione visi-
va. E’, insomma, qualcosa di originario e di ineludibile.
Naturalmente, come tutti i modi di essere, anche il modo di
essere politico può essere velato, sospeso: ha cioè le sue
espressioni difettive. Ma ciò non toglie che queste espressio-
ni difettive (per esempio, la spoliticizzazione di una genera-
zione) possono essere spiegate solo a partire da quell’essen-
ziale modo di essere, solo a partire dal fatto che “l’uomo è un
animale politico”. Alcuni wittgensteiniani morigerati dicono:
l’animale che ha linguaggio gioca tanti giochi linguistici; tra
questi giochi vi è anche quello della politica. Ai loro occhi, la
politica è una regione ben perimetrata dell’esperienza.
Questi wittgensteiniani morigerati, come capita spesso a chi
è morigerato, sono ciechi. La politicità dell’animale umano
126
S ul libro nero dei Libri Bianchi
di Ermanno Castanò
127
Aggiunge Pier Aldo Rovatti dal saggio seguente quello di
Jacques Derida su L’università senza condizione pubblicato di
recente: l’acquisizione di conoscenze non è più mirato alla
formazione della personalità, non più all’autovalorizzazione
perché sono valori che appartengono ad un’altra economia
che non è quella aziendale. Affermazioni familiari, che suo-
nano quasi come parole d’ordine per chi da almeno un
decennio si oppone alla riforma Berlinguer-Zecchino-
Moratti. Ma Galimberti dal medesimo articolo:
ccecati dall’unilateralità
A di un’affannosa corsa
all’utile (nel duplice senso di profitto e utilità) i processi di
ristrutturazione del sistema universitario e di ricerca aggra-
vano la condizione di una scienza ormai tutto altro che
imparziale. Nella società industriale il carattere strumentale
della scienza e della stessa ragione ci pone di fronte all’esi-
genza di uno sguardo attento al mondo della ricerca come
ambito di produzione di valore e sapere.
Consci dello stretto rapporto che collega la produzione di
saperi ai meccanismi di dominazione, nell’intento di esplici-
tarne qualche inquietante ingranaggio, abbiamo voluto rivol-
gerci al Laboratorio Autonomo di Scienza Epistemologia e
Ricerca (LASER), che dal 1995 svolge un lavoro di indagine e
di critica nel campo della ricerca scientifica e negli ambiti ad
essa correlati.
141
dei profitti. Ad esempio se guardiamo alla ricerca nel
Novecento, possiamo dire che il luogo privilegiato per la
produzione di ricerca di base pubblica e aperta a tutti sono
sicuramente le università. Tuttavia lo sviluppo della Big
Science era fondato (ed è fondato tuttora) su un rapporto
stretto tra ricerca scientifica e apparati militari. In questo con-
testo, ancora oggi valido (si vedano i capitoli di spesa per la
ricerca dei paesi industrializzati), vi era una doppia dinami-
ca: da un lato alcune ricerche erano considerate segrete
(senza bisogno di brevetti) per motivi di sicurezza nazionale;
dall’altro per dare legittimazione pubblica dello sforzo belli-
co si faceva anche ricerca di base, fondamentalmente pubbli-
ca e aperta a tutti. I grandi centri “militari”, hanno acquisito
lustro nella comunità scientifica perché, oltre le bombe,
hanno consentito di fare ricerca di base bella, importante e
pubblica. Un esempio del paradosso è rappresentato dal
laboratorio di Los Alamos dove si trova la più grande banca
dati di pubblico dominio delle pubblicazioni scientifiche
(http://xxx.lanl.gov/). Se usciamo dalla ricerca militare,
vediamo che in passato anche le grandi compagnie private
hanno contributo alla crescita della ricerca di base (IBM e
AT&T ad esempio). L’idea era che l’innovazione tecnologica
sia spesso una conseguenza non predeterminata di ricerche
separate. Dunque finanziare una ricerca di base a lungo ter-
mine poteva essere un investimento fruttuoso dal punto di
vista tecnologico, e sulla stessa mentalità si è costruita la
ricerca statale dei paesi scientificamente sviluppati.
Questo quadro – articolato, ma tuttavia definito – cambia
radicalmente con la rivoluzione informatica. La definizione
del modello Silicon Valley in cui la ricerca scientifica diventa
quasi immediatamente sorgente di profitto scatena interessi
privati e definisce un nuovo quadro economico-sociale. Tutto
ha iniziato ad andare più veloce: informazioni che viaggiano,
connessioni planetarie, azioni che salgono in borsa. Di fronte
a tale fenomeno, i “tradizionali” centri di ricerca hanno cer-
cato di modificare la propria struttura per far parte del
nuovo business tecnologico. La porta di accesso era il brevet-
to rapido, conoscenza messa in vendita subito per chiedere al
mercato soldi per svilupparla. Già questa attitudine ha stron-
cato l’idea di una ricerca di base libera. Tutti hanno deciso di
148
R eificazione ed utopia
nella cultura di massa
di Frederic Jameson1
149
cali sono comunque anche intellettuali, così questa posizione
smaccatamente di parte e accusatoria diviene sospetta; inol-
tre tale posizione trascura l’istanza anti-sociale, critica e
negativa (sebbene generalmente non rivoluzionaria) di molte
delle più importanti forme dell’arte moderna e, in fine, non
offre alcun metodo per leggere perfino quegli oggetti cultu-
rali che valorizza in quanto poco interessata a riferire circa il
loro contenuto.
Questa posizione si è riversata nella teoria della cultura
elaborata dalla Scuola di Francoforte. Proprio come ci si
aspetterebbe da un’antitesi esatta alla posizione radicale, il
lavoro di Adorno, di Horkheimer, di Marcuse e di altri è teo-
reticamente molto ricco e fornisce una metodologia di lavoro
per l’analisi puntuale proprio di quei prodotti dell’industria
culturale che esso stigmatizza e che la visione radicale, inve-
ce, esalta. In breve questa visione può essere definita come
l’estensione e l’applicazione delle teorie marxiste della merce
ai prodotti della cultura di massa. La teoria della reificazione
(in questo caso pesantemente influenzata dall’analisi webe-
riana della razionalizzazione) descrive il modo in cui, sotto il
capitalismo, le antiche e tradizionali forme di attività umana
sono strumentalmente riorganizzate e “taylorizzate”, fram-
mentate analiticamente, ricostruite in accordo con i diversi
modelli razionali di efficienza, riformulate essenzialmente in
base ad una differenziazione fra mezzi e fini. Ma questa è
un’idea paradossale che non può essere propriamente
apprezzata fino a quando non si comprenda in che grado la
separazione di mezzi e fini metta fra parentesi o sospenda i
fini stessi, da cui il valore strategico del termine “strumenta-
lizzazione” della scuola di Francoforte. Questo termine util-
mente fa risaltare l’organizzazione dei mezzi stessi in contra-
sto con ogni fine o valore particolare che è assegnato loro
dalla pratica. Nell’attività tradizionale, in altre parole, il valo-
re dell’attività è immanente ad essa ed è qualitativamente
distinto da altri fini e valori articolati in altre forme del lavo-
ro e dell’agire umano. Ciò significa che, dal punto di vista
sociale, i diversi tipi di lavoro in tali comunità siano in effet-
ti incomparabili; nell’antica Grecia, per esempio, il familiare
schema aristotelico delle quattro cause al lavoro nell’artigia-
nato o nella poiesis (causa materiale, formale, efficiente e fina-
REIFICAZIONE ED UTOPIA
150 NELLA CULTURA DI MASSA
le) era applicabile solo al lavoro artigianale, non all’agricol-
tura o alla guerra che avevano una ben differente base “natu-
rale”, vale a dire sovrannaturale o divina. È solo con la mer-
cificazione della forza lavoro, che Il capitale di Marx designa
come precondizione fondamentale del capitalismo, che tutte
le forme di lavoro possono essere separate, al di là di una dif-
ferenziazione unicamente qualitativa, come tipi distinti di
attività (fare il minatore opposto a fare il contadino, compor-
re un un’opera distinto dal filare un tessuto), attività queste
tutte universalmente classificate in base ad un comune deno-
minatore quantitativo, ovvero in base al valore di scambio
universale del denaro. A questo punto, poi, la qualità delle
diverse forme di attività umana, i loro unici e distinti “fini” o
valori, viene effettivamente messa fra parentesi o sospesa dal
sistema commerciale, lasciando che tutte le attività siano
riorganizzate in termini di efficienza, come meri mezzi o
strumentalità.
La forza di applicazione di questa nozione alle opere d’ar-
te può essere valutata mettendola a confronto con la defini-
zione, fornita dall’estetica tradizionale (in particolare da
Kant), dell’arte come “finalità senza scopo”, vale a dire come
un’attività orientata sì ad una metà ma senza alcun proposi-
to pratico o fine nel “mondo reale” degli affari, della politica
o, in generale, della concreta prassi umana. Questa definizio-
ne tradizionale sicuramente regge per tutta l’arte in quanto
tale: non regge per i racconti che annoiano, per gli home
movies o per i tentativi poetici di uno scribacchino privo di
talento ma regge allo stesso modo per le opere di successo
della cultura sia alta sia di massa. Noi sospendiamo le nostre
vite reali e le nostre immediate preoccupazioni concrete
quasi completamente quando vediamo Il Padrino, come
quando leggiamo Le ali della colomba o ascoltiamo una sonata
di Beethoven.
A questo punto, comunque, il concetto di merce introduce
la possibilità di una differenziazione strutturale e storica
all’interno di ciò che si credeva essere la descrizione univer-
sale dell’esperienza estetica in quanto tale e in ogni possibile
forma. Il concetto di merce colpisce il fenomeno della reifica-
zione – descritto sopra nei termini di attività e produzione –
da un lato diverso, dal lato del consumo. In un mondo in cui
REIFICAZIONE ED UTOPIA
152 NELLA CULTURA DI MASSA
direzione” del consumo contemporaneo e circa la “sessualiz-
zazione” dei nostri oggetti e delle nostre attività: un nuovo
modello di automobile è l’immagine che gli altri devono
avere di noi, e noi consumiamo meno la cosa stessa rispetto
alla sua idea astratta, capace di indurre investimenti libidi-
nali ingegnosamente elaborati per noi dalla pubblicità.
È chiaro che tale mercificazione ha una rilevanza imme-
diata per l’estetica, anche solo per il fatto che viene implica-
to che ogni cosa nella società dei consumi acquisisce una
dimensione estetica. La forza dell’analisi prodotta da Adorno
e Horkheimer riguardo l’industria culturale risiede comun-
que nella dimostrazione dell’introduzione inaspettata ed
impercettibile della struttura della merce nella forma e nel
contenuto dell’opera d’arte. Il trionfo della strumentalizza-
zione sulla “finalità senza scopo” che è l’arte, la stabile con-
quista e colonizzazione, da parte di una logica che organizza
il mondo in fini e mezzi, del regno della non-praticità, del
mero gioco e dell’ “anti-uso”, è qualcosa come la definitiva
quadratura del cerchio. Ma come può essere “usata” a tale
scopo la pura e semplice materialità di una frase poetica?
Mentre è chiaro che possiamo comprare l’idea di una mac-
china o fumare a causa della mera immagine libidinale di
attori, scrittorie e modelli con una sigaretta in mano, è molto
meno chiaro come una narrazione possa essere “consumata”
a vantaggio della propria stessa idea.
Nella sua forma più semplice, questa visione della stru-
mentalizzazione della cultura – implicita nell’estetica tanto
del gruppo di Tel Quel quanto in quella della Scuola di
Francoforte – suggerisce che lo stesso processo di lettura è
ristrutturato in base alla differenziazione di mezzi e fini. È
utile qui introdurre la trattazione dell’Odissea condotta da
Auerbach in Mimesis. Auerbach afferma che, in ogni punto, il
poema è come se fosse verticale, auto-contenentesi, ogni
paragrafo e scena sono in qualche modo senza tempo ed
immanenti, privi di qualsiasi legame necessario e indispen-
sabile con ciò che precede o segue la narrazione. In quest’ot-
tica è possibile cominciare ad apprezzare la stranezza, la sto-
rica in-naturalità (in senso brechtiano) dei libri contempora-
nei, come i gialli, che si leggono “per la fine”: la maggior
parte delle pagine diventa un puro mezzo senza valore per
REIFICAZIONE ED UTOPIA
154 NELLA CULTURA DI MASSA
per esempio, o i ritmi “epici” della terra e i grandi movimen-
ti della storia nelle varie saghe possono essere visti come
molte merci rispetto al cui consumo le storie sono poco più
che mezzi e la cui sostanziale materialità è poi confermata ed
espressa dalla colonna sonora che accompagna la loro resa
filmica. Questa strutturale differenziazione fra narrazione e
tono sentimentale “consumabile” è chiaramente la manife-
stazione storicamente e formalmente più significativa di quel
tipo di “feticismo dell’ascolto” che Adorno denuncia quando
parla del modo in cui l’ascoltatore contemporaneo ricostrui-
sce una sinfonia classica in modo tale che la sonata divenga
essa stessa un mezzo strumentale in vista del consumo o di
un accordo isolato o della melodia.
Voglio che sia chiaro, poi, che considero l’analisi della
Scuola di Francoforte circa la mercificazione della cultura di
massa di grande interesse; se propongo un modo in un certo
senso differente di guardare allo stesso fenomeno non è per-
ché ritenga che l’approccio francofortese sia superato. Al
contrario, abbiamo appena cominciato ad elaborare tutte le
conseguenze di tale descrizione, trascurando di fare un
inventario esaustivo dei vari modelli e degli altri aspetti, al di
fuori della reificazione della merce, alla luce dei quali tali
produzioni possono essere analizzate.
Ciò che è insoddisfacente nella posizione della Scuola di
Francoforte non è il suo apparato negativo e critico ma piut-
tosto il valore positivo che fonda l’apparato critico, vale a
dire la valorizzazione della tradizionale arte moderna “alta”
come luogo di una produzione estetica genuinamente critica,
sovversiva ed “autonoma”. Così l’ultimo lavoro di Adorno
(così come La dimensione estetica di Marcuse) segna un indie-
treggiamento rispetto alla valutazione dialetticamente ambi-
valente dell’opera di Schoenberg che egli aveva dato ne La
filosofia della musica moderna: infatti nel giudizio più recente
ad essere omessa è proprio la scoperta fondamentale di
Adorno, ovvero la scoperta della storicità, ed in particolare,
del processo irreversibile dell’invecchiamento delle più
famose forme del moderno.
Ma se le cose stanno così, allora la grande opera dell’alta
cultura moderna (che si tratti di Schoenberg, Beckett, o per-
sino dello stesso Brecht) non può servire come punto fisso o
REIFICAZIONE ED UTOPIA
156 NELLA CULTURA DI MASSA
Wyeth, Simenon, o John O’Hara. La totale insensatezza di
questo interessante argomento di conversazione diventa
chiara nel momento in cui si capisce che dal punto di vista
storico l’unica forma di “cultura alta” che può darsi come
opposizione dialettica della cultura di massa è quella produ-
zione “culturalmente elevata” contemporanea alla cultura di
massa, vale a dire quella produzione artistica generalmente
designata come moderna. Termini di paragone saranno allora
Wallace Stevens, Joyce, Schoenberg o Jackson Pollock, sicu-
ramente non i prodotti culturali come i romanzi di Balzac o
le commedie di Molière in quanto precedono la stessa sepa-
razione storica fra cultura alta e di massa.
Ma tale specificazione ci obbliga chiaramente a ripensare
la definizione stessa di cultura di massa: i suoi prodotti com-
merciali non possono essere assimilati, senza macchiarsi di
disonestà intellettuale, alle arti cosiddette popolari e folklori-
stiche del passato, che riflettevano ed erano dipendenti nella
loro produzione da realtà sociali completamente differenti
essendo l’espressione “organica” di tante comunità sociali
distinte o caste (come per esempio il villaggio agricolo, la
corte, la città medievale, la polis, e persino la borghesia clas-
sica, quando questa era un gruppo sociale unito grazie alla
propria specificità culturale). Il tardo capitalismo, unico nella
storia, ha avuto l’effetto di dissolvere tutti questi gruppi, di
frammentarli, atomizzarli in agglomerati (Gesellschaften) di
individui privati isolati ed equivalenti. Ci ho avvenuto gra-
zie all’azione corrosiva della mercificazione universale e del-
l’economia di mercato. Così il “popolare” in quanto tale non
esiste più, se non in condizioni molto specifiche e marginali
(in tasche interne ed esterne di sottosviluppo all’interno del
mondo capitalistico). La produzione di merci della cultura di
massa contemporanea o industriale non ha quindi assoluta-
mente nulla in comune con le vecchie forme di arte popolare
e folkloristica.
Così intesa, l’opposizione dialettica e la profonda inter-
connessione strutturale di moderno e di cultura contempora-
nea di massa apre un nuovo ampio campo per i cultural stu-
dies i quali promettono di essere meglio fondati dal punto di
vista dell’indagine storica e sociale rispetto alla ricerca e alle
discipline che hanno strategicamente concepito la propria
REIFICAZIONE ED UTOPIA
158 NELLA CULTURA DI MASSA
scuola di Francoforte) ha posto sul fenomeno della reifica-
zione estetica – che si costituisce come il polo di valore nega-
tivo – in contrapposizione con la celebrazione del “signifi-
cante materiale” e della “materialità del testo” o della “pro-
duzione testuale” condotta dalla tradizione francese che ha i
suoi maestri in Althusser e Lacan. Se si è propensi a credere
che la “reificazione” e l’emergere di significanti sempre più
materializzati siano, sia dal punto di vista storico che da
quello culturale, un solo fenomeno, allora il grande dibattito
ideologico descritto sopra si rivela fondato su un errore fon-
damentale. Ancora una volta la confusione si origina poiché
il finto problema del valore (che fatalmente finisce per pro-
grammare ogni opposizione binaria nei termini di buono e
cattivo, positivo e negativo, essenziale e inessenziale) viene
introdotto in una situazione storica e dialettica molto più
complicata, ovvero in una situazione in cui la reificazione, o
la materializzazione, è il tratto cruciale sia del moderno che
della cultura di massa.
Il compito di definire questa nuova area di studio inizial-
mente dovrebbe passare attraverso la compilazione di un
inventario di altri temi e fenomeni problematici in cui inda-
gare proficuamente l’interconnessione di cultura di massa e
moderno. Ma è troppo presto per fare ciò in questo testo:
quello che farò è solamente porre l’attenzione su un altro
tema di questo tipo, su un tema che per me è il più impor-
tante per specificare come moderno e cultura di massa abbia-
no reagito in maniera formalmente antitetica alla loro comu-
ne situazione storica. Mi concentrerò sulla nozione di ripeti-
zione. Questo concetto, la cui formalizzazione moderna risa-
le a Kierkegaard, ha subito profonde ed interessanti rielabo-
razioni nel più recente post-strutturalismo: per Jean
Baudrillard, per esempio, la struttura seriale di ciò che egli
chiama il simulacro (ovvero la riproduzione di “copie” che
non hanno un originale) caratterizza la produzione di merci
del capitalismo a tal punto da contaminare di irrealtà e di
una libera e fluttuante assenza di “referente” (il ruolo del
“referente” fino a questo momento spettava alla natura, alle
materie prime e alla produzione primaria, o agli “originali”
della produzione manufatturiera ed artigianale) il nostro
mondo oggettivo, producendo così un mondo radicalmente
REIFICAZIONE ED UTOPIA
160 NELLA CULTURA DI MASSA
estetico stesso e perciò sistematicamente rifatto, inscenato,
simbolicamente neutralizzato.
È chiaro anche che l’influenza della ripetizione sulla cultu-
ra di massa non è stata meno decisiva. Infatti è stato spesso
fatto notare che i vecchi discorsi sui generi – stigmatizzati da
varie rivoluzioni moderniste che hanno via via ripudiato le
antiche forme canoniche della lirica, della tragedia, della
commedia, e alle lunghe anche del romanzo che viene rim-
piazzato alla fine dall’inclassificabile livre o testo – vivono un
potente postmortem nel regno della cultura di massa. Le pub-
blicazioni paperback per supermercati o per aeroporti non
fanno altro che rinforzare tutte le distinzioni, in questo caso
sotto-generiche, tra gotico, bestseller, giallo, fantascienza,
biografia, o pornografia, proprio come la convenzionale clas-
sificazione delle serie-tv settimanali e la produzione e il
marketing dei film di Hollywood (per essere precisi il siste-
ma dei generi in funzione nei film “di cassetta” contempora-
nei è radicalmente diverso da quello tradizionale in voga
nella produzione degli anni ’30 e ’40, inoltre esso risponde
alla competizione della televisione escogitando nuove forme
“omnibus”, per tutti, e meta-generiche, forme che sono esse
stesse ricopiate da romanzi “originali”: comunque queste
forme “omnibus” – e il “disaster film” è solo l’ultima di tali
innovazioni – nello stesso tempo sia diventano nuovi generi
sia si ripiegano nello stereotipo e nella riproduzione consue-
tamente di genere).
É necessario però che questo sviluppo sia specificato stori-
camente: i vecchi generi precapitalistici indicavano qualcosa
come un “contratto” tra un produttore culturale e un pubbli-
co di classe o di estrazione omogenea; tali generi traevano la
propria vitalità dallo stato sociale e comunitario (che variava
molto a seconda degli specifici modi di produzione) della
situazione della produzione e del consumo estetico, ovvero
dal fatto che la relazione tra l’artista e il pubblico era in un
modo o nell’altro una istituzione sociale, una relazione con-
cretamente sociale e interpersonale che aveva la propria vali-
dità e specificità. Con l’arrivo del mercato lo status istituzio-
nale della ricezione e della produzione si estingue: l’arte
diviene uno dei tanti rami della produzione delle merci; l’ar-
tista perde completamente il suo status sociale dovendo così
REIFICAZIONE ED UTOPIA
162 NELLA CULTURA DI MASSA
li) – che indirizzano le aspettative verso una ripetizione di
genere – e i film stranieri, che causano invece un cambio di
marcia nell’orizzonte di aspettative e che preparano alla rice-
zione di discorsi di alto valore culturale o dei cosiddetti film
d’autore.
Questa situazione ha delle conseguenze importanti per l’a-
nalisi della cultura di massa che non sono state indagate fino
in fondo. Il paradosso filosofico della ripetizione – esposto da
Kierkegaard, da Freud e da altri – consiste nel fatto che la
ripetizione può aver luogo solo dalla seconda volta. Per defi-
nizione la prima volta dell’evento originario non è una ripe-
tizione di niente: essa poi è riconvertita nella ripetizione
dalla sua seconda apparizione secondo quel peculiare mec-
canismo che Freud chiama “retroattività” (Nachträglichkeit).
Ma ciò implica che, come per il simulacro, non c’è mai una
“prima volta” della ripetizione, non c’è un “originale” di cui
le successive ripetizioni sono mere copie. Nel moderno si
trova un eco curioso anche di tale situazione, infatti La feno-
menologia di Hegel, come i libri di Proust o Finnegans wake
non si possono che rileggere. Ma mentre nel moderno il testo
ermetico resiste non solo come un Everest da scalare, ma
anche come un libro alla cui stabile realtà si può tornare sem-
pre di nuovo, nella cultura di massa la ripetizione fa evapo-
rare l’oggetto originale – il “testo”, l’“opera d’arte” – cosicché
lo studioso di cultura di massa non dispone di un oggetto di
studio originale.
Si può trovare l’esempio più efficace di questo processo
nella nostra ricezione della musica pop contemporanea, di
qualsiasi genere essa sia, dunque dei vari tipi di rock, blues,
country o disco. Noi non ascoltiamo mai i singoli di questi
generi “per la prima volta” ma siamo costantemente esposti
ad essi in molti modi possibili: dal ritmo costante dell’auto-
radio alla musica durante il pranzo o in ufficio o nei centri
commerciali, fino ad arrivare a quelle riproduzioni apparen-
temente meno volgari di pezzi in un night-club o ad un con-
certo in uno stadio o sui dischi che compriamo e che ascol-
tiamo a casa. Questa situazione è molto differente dal primo
confuso ascolto di una complicata piece classica, che o si
ascolta a casa o si riascolta nella sala dei concerti.
L’attaccamento appassionato che si può provare per questo o
REIFICAZIONE ED UTOPIA
164 NELLA CULTURA DI MASSA
Le considerazioni precedenti non sollevano, e certamente
non risolvono, le questioni più urgenti circa l’approccio
attuale alla cultura di massa. Abbiamo in particolare trascu-
rato un giudizio molto diverso sulla cultura di massa, che
deriva anche, in senso lato, dalla posizione della Scuola di
Francoforte sull’argomento. Tra gli aderenti a questa conce-
zione si trovano sia “radicali” sia “élitari” della sinistra con-
temporanea: si concepisce la cultura di massa come pura
manipolazione, mero lavaggio di cervello commerciale,
vuota distrazione gestita delle multinazionali che, ovvia-
mente, controllano ogni aspetto della produzione e distribu-
zione della cultura di massa contemporanea. Se le cose stes-
sero così, sarebbe chiaro che lo studio della cultura di massa
dovrebbe al massimo essere equiparato all’anatomia delle
tecniche di marketing ideologico e sarebbe incluso nell’anali-
si della pubblicità. La ricerca seminale su questi argomenti
condotta da Roland Barthes in Mitologie, ha allargato la por-
tata di questi temi facendoli coincidere con la globalità delle
operazioni e delle funzioni della cultura nella vita quotidia-
na; ma dato che i sociologi della manipolazione (certo con
l’eccezione della Scuola di Francoforte stessa) non hanno,
quasi per definizione, alcun interesse nella produzione d’ar-
te ermetica o “alta” – la cui interdipendenza dialettica con la
cultura di massa è stata discussa sopra –, una tale posizione
ha l’effetto complessivo di sopprimere totalmente la tematiz-
zazione della cultura, considerata come una specie di giocat-
tolo posto sul livello più secondario della sovrastruttura.
Si implica così il suggerimento che la vita sociale reale,
ovvero gli aspetti della vita sociale che meritino di essere o
discussi o presi in considerazione quando è in gioco la teoria
e la strategia politica, sono, per usare il vocabolario della tra-
dizione marxiana, il livello politico, quello giuridico, quello
economico della realtà sovrastrutturale. Questa repressione
del momento culturale non è solamente determinata dalla
struttura dell’università e dalle ideologie implicate dalle
varie discipline – nel migliore dei casi le scienze politiche e la
sociologia relegano gli argomenti culturali nella categoria
ghettizzante, nel “campo di specializzazione” marginale
chiamato “Sociologia della cultura” – ma è anche in un modo
più generale la perpetuazione inconsapevole delle più fon-
REIFICAZIONE ED UTOPIA
166 NELLA CULTURA DI MASSA
rica. Se continuiamo a credere alle categorie come quella di
classe sociale, ci ritroveremo dunque a dover scavare alla
loro ricerca nel mondo irreale e senza fondo della fantasia
culturale e collettiva. Persino l’ideologia ha perso nella
nostra società il suo essere chiaramente pregiudizio, falsa
coscienza, pregiudizio facilmente identificabile: il nostro raz-
zismo deve fare i conti con i bellissimi attori neri della tv e
della pubblicità, il nostro sessismo deve attraversare i nuovi
stereotipi della “femminismo militante” delle serie televisive.
Se poi vogliamo sottolineare la centralità del politico, faccia-
molo, ma non si può neanche a malapena abbozzare qualche
idea realistica sulla natura e sul funzionamento della prassi
politica contemporanea finché non venga anche solo oscura-
mente tematizzata l’onnipresenza della cultura in questa
società.
È vero che la teoria della manipolazione ogni tanto trova
un posto speciale nei propri schemi per quei rari oggetti cul-
turali che si può dire abbiano un contenuto politico e sociale
esplicito: qualche canzone di protesta degli anni ’60, Sfida a
Silver City – Il sale della terra, i romanzi di Clancey Segal o di
Sol Yurick, i murales messicani o la truppa di mimi di San
Francisco. Non è questo il luogo per sollevare il complicato
problema dell’arte politica contemporanea, bisogna però dire
che il nostro ruolo di critici culturali ci richiederebbe di sol-
levarlo e di riconsiderare in maniera nuova, più soddisfacen-
te e attuale quelle categorie che essenzialmente risalgono agli
anni ’30. Ma il problema dell’arte politica – e non abbiamo
nulla di valido da dire in suo proposito se non realizziamo
che essa è un problema, piuttosto che un’opzione o una scel-
ta già fatta – ci suggerisce un’importante precisazione dello
schema abbozzato nella prima parte di questo saggio. Il pre-
supposto implicito delle considerazioni precedenti era che
l’esistenza di una creazione culturale autentica dipende dalla
vita comunitaria autentica, dalla vitalità del gruppo sociale
“organico”, di qualsiasi forma esso sia (e tali gruppi possono
andare dalla classica polis al villaggio contadino, dalla comu-
nità del ghetto ai valori condivisi di una borghesia pre-revo-
luzionaria sotto attacco). Il capitalismo dissolve senza ecce-
zione e sistematicamente il tessuto di tutti i gruppi sociali
coesi, incluso quello della propria classe dirigente, rendendo
AREIFICAZIONE ED UTOPIA
168 NELLA CULTURA DI MASSA
duali con segnali politici e di classe. Piuttosto la lotta di clas-
se, e lo sviluppo lento e irregolare di una genuina coscienza
di classe, sono esso stessi i processi tramite i quali un gruppo
organico si costituisce, tramite i quali la comunità fa breccia
nell’atomizzazione reificata (Sartre la chiama serializzazione)
della vita sociale sotto il capitalismo. Dunque è la stessa cosa
dire che il gruppo esiste o dire che esso genera una vita cul-
turale ed una espressione culturale specificamente proprie.
Questo è, se volete, il terzo termine mancante del mio schiz-
zo iniziale sul destino dell’estetica e della cultura sotto il
capitalismo, benché nessun risultato utile possa essere pro-
dotto dall’analisi delle forme che un terzo e autentico tipo di
linguaggio culturale potrebbe assumere in situazioni che
ancora non esistono. Come per gli artisti, anche per tali
situazioni “la nottola di Minerva si alza al calare della notte”,
anche per esse, come per Lenin ad aprile, la prova dell’inevi-
tabilità della storia è sempre successiva ai fatti: non si può
dire, riguardo ad esse come riguardo a noi stessi, ciò che è
storicamente possibile finché non lo si è sperimentato.
Detto ciò possiamo adesso ritornare alla questione della
cultura di massa e della manipolazione. Brecht ci ha insegna-
to che nelle giuste circostanze si può ritrasformare chiunque
in qualunque cosa si voglia (“Mann ist Mann”), solo che lui
ha insistito sulla situazione e sulla materia prima più che
sulle procedure di manipolazione. Forse il problema chiave
di questo concetto, o pseudo-concetto, della manipolazione
può essere chiarito attraverso il confronto con il concetto
freudiano di repressione. Il meccanismo freudiano, a dire il
vero, svolge il suo ruolo solo dopo che il proprio oggetto –
trauma, memoria archiviata, desiderio colpevole o spavento-
so, angoscia – sia stato in qualche modo evocato e dunque
rischi di emergere nella coscienza del soggetto. La repressio-
ne freudiana è dunque determinata, ha dei contenuti specifi-
ci; si può anche dire che sia una cosa come un “riconoscimen-
to” di un contenuto che si esprime esso stesso nella forma
della negazione, della dimenticanza, del lapsus, della mauvai-
se foi, dello spostamento, della sostituzione e così via.
Per il classico modello freudiano l’opera dell’arte (come il
sogno e il motto di spirito) consisteva nella realizzazione
simbolica del desiderio represso, di un complesso meccani-
REIFICAZIONE ED UTOPIA
170 NELLA CULTURA DI MASSA
potrebbe essere estesa anche al moderno, anche se non pos-
siamo sviluppare qui in maniera approfondita questa parte
della questione. Dirò dunque che sia la cultura di massa che
il moderno hanno tanto contenuto, nel senso lato della paro-
la, quanto i più antichi realismi sociali, ma che questo conte-
nuto è elaborato in modo molto diverso rispetto a come lo
era in passato.
Sia il moderno che la cultura di massa mettono in atto
meccanismi repressivi contro le più fondamentali angosce e
preoccupazioni sociali, contro i desideri e i punti ciechi, con-
tro le antinomie ideologiche e fantasie distruttive, che ven-
gono utilizzate, dal moderno e dalla cultura di massa, come
materie prime: il moderno tende a maneggiare questo mate-
riale producendo strutture compensatrici di vario genere, la
cultura di massa lo reprime tramite la costruzione narrativa
di risoluzioni immaginarie e tramite la proiezione di un’illu-
sione ottica di armonia sociale.
Dimostrerò ora questa argomentazione attraverso l’inter-
pretazione di tre film commerciali recenti di grande successo:
Lo squalo (ora Lo squalo 1) di Steven Spielberg, e le due parti
de Il padrino di Francis Ford Coppola. Le interpretazioni che
proporrò sono quanto meno coerenti con i miei primi com-
menti sulla volatilizzazione del testo originale nel cultura di
massa a causa della ripetizione, nel senso che queste letture
sono decodificazioni comparative, differenziali e “interte-
stuali” del messaggio filmico dei tre film.
Lo squalo però non verrà messo a confronto con i suoi
sequel mediocri e deludenti, ma piuttosto con il vendutissi-
mo romanzo di Peter Benchly dal quale il film – uno dei più
grandi successi della storia del cinema – è tratto. Vedremo
che l’adattamento ha apportato cambiamenti significativi al
testo originale; la nostra attenzione per tali alterazioni strate-
giche può in effetti sollevare alcuni sospetti iniziali sul conte-
nuto ufficiale o “manifesto” preservato da entrambi i testi: su
di esso si focalizzerà la gran parte della discussione su Lo
squalo. Molti critici, da Gore Vidal e alla Pravda fino a Stephen
Heath, hanno tentato di enfatizzare il problema di cosa rap-
presenti lo squalo in quanto tale: la speculazione va dall’an-
goscia psicanalitica fino a quella storica causata dell’Altro
che minaccia la società americana – sia questo Altro la cospi-
REIFICAZIONE ED UTOPIA
172 NELLA CULTURA DI MASSA
Il nocciolo della questione è proprio questo: bisogna ana-
lizzare la natura e la specificazione dell’eroe “mitico” – a pro-
posito del quale si può capire molto grazie alla discrepanza
tra il romanzo e il romanzo. Poiché il romanzo rappresenta
esplicitamente il conflitto di classe nella tensione tra il poli-
ziotto dell’isola e l’oceanografo dell’alta società, che di solito
passava le sue estati nell’Easthampton e che finisce con l’an-
dare a letto con moglie di Brody. Hooper è sicuramente un
personaggio più importante nel romanzo che nel film; con-
temporaneamente il romanzo attribuisce a Quint un ruolo
ben minore rispetto alla sua decisiva presenza nel film.
Comunque la più grande sorpresa che il romanzo riserva allo
spettatore è, ovviamente, la scoperta che nel libro Hooper
muore, si suicida quasi sacrificandosi alla propria fissazione
oscura e romantica per la morte, impersonificata dallo squa-
lo. Non mi è chiaro come il pubblico di lettori americani
possa aver reagito alla risonanza piuttosto aliena ed esotica
di questa fantasia – l’ossessione aristocratica per la morte mi
sembra più un motivo europeo. I risvolti sociali della fine del
romanzo – il trionfo dell’isolano e dell’yankee sullo sfidante
donnaiolo e decadente – sono però certamente inequivocabi-
li, come del resto lo è l’eliminazione e la soppressione siste-
matica di tali sfumature di classe nel film.
Quest’ultimo ci fornisce pertanto una straordinaria illu-
strazione di tutto un lavoro di spostamento che trasforma,
nel prodotto hollywoodiano, la narrazione per iscritto di una
fantasia di classe in qualcosa di molto diverso che adesso
andiamo ad illustrare. Sparisce tutto il rimuginare aristocra-
tico e decadente sulla morte; sparisce anche la rivalità erotica
nella quale si era rappresentato l’antagonismo di classe.
L’Hooper del film non è altro che un geniaccio tecnocratico,
non è un eroe tragico ma la bonaria creatura cresciuta a base
di borse di studio, di fondazioni, di conoscenza scientifica.
Ma anche Brody ha subito un cambiamento importante: non
è più il ragazzo della piccola città sull’isola sposato con la
figlia di una famiglia di villeggianti estivi dell’alta società; si
è invece trasformato in un poliziotto pensionato di New York
City, trasferito a Nantucket nel tentativo di sfuggire dai pro-
blemi della criminalità urbana, del conflitto razziale e della
ghettizzazione. Dunque la figura Brody presenta nel film
REIFICAZIONE ED UTOPIA
174 NELLA CULTURA DI MASSA
romanzo. Siamo così autorizzati a leggere la morte di Quint
nel film come la duplice distruzione simbolica di una vecchia
America: l’America del piccolo business e dell’impresa pri-
vata individuale ormai fuori moda, ma anche l’America del
New Deal e della crociata contro il nazismo; la vecchia
America della depressione e della guerra ma anche quella del
liberalismo classico al culmine del suo fulgore.
Adesso il contenuto dell’alleanza tra Hooper e Brody pro-
posta dal film può essere precisata dal punto di vista sociale e
politico come allegoria di un’alleanza tra le forze della legge
e dell’ordine con la nuova tecnocrazia delle corporation mul-
tinazionali: un’alleanza che deve essere cementata non sol-
tanto attraverso il trionfo fantastico sulla minaccia irrisolta
dello squalo, ma soprattutto per mezzo della preventiva e
indispensabile rimozione dell’immagine più tradizionale di
una vecchia America, immagine che deve essere eliminata
dalla coscienza storica e dalla memoria collettiva prima che il
nuovo sistema di potere possa prenderne il posto.
Se si vuole, questa operazione può continuare ad esser
letta in termini di archetipi mitici, ma in questo caso essa è
una visione rituale e utopica che è anche un programma poli-
tico e sociale complessivo molto allarmante.
Questa operazione prende l’angoscia e le contraddizioni
sociali dcontemporanee solo per usarle per il proprio nuovo
obiettivo di risoluzione ideologica, spingendoci simbolica-
mente a seppellire il vecchio populismo per rispondere
all’immagine di un’alleanza politica che proietta una strate-
gia di legittimazione completamente nuova. Si rimuove così
di fatto il conflitto di classe tra ricchi e poveri che persiste
nella società dei consumi (e nel romanzo di cui il film è un
adattamento) e lo si sostituisce con una specie di fratellanza
nuova e inautentica di cui gli spettatori godono senza com-
prendere di esserne esclusi.
Lo squalo è quindi un esempio eccellente non solo della
manipolazione ideologica, ma anche del modo in cui conte-
nuti autenticamente sociali e storici devono esser prima inter-
cettati ed espressi in qualche maniera per poi essere successi-
vamente controllati e manipolati con successo.
Infine voglio dare a questo modello di manipolazione una
svolta più decisiva e paradossale. Voglio infatti dimostrare
REIFICAZIONE ED UTOPIA
176 NELLA CULTURA DI MASSA
della cultura di massa – riproduce semplicemente la litania
della critica al mito nel modo più accademico ed estetizzan-
te possibile ed impoverisce quei testi del loro contenuto
semantico astraendoli al contempo dal loro concreto contesto
storico-sociale.
Le due parti del Il Padrino2 mi sembrano offrire un’illu-
strazione quasi da manuale di queste tesi; in primo luogo,
ricapitolando l’intera tradizione di genere dei gangster
movie Il Padrino ha reinventato il mito della mafia in un
modo che ci consente di vedere come l’ideologia non sia
necessariamente un fatto di falsa coscienza o di rappresenta-
zione distorta o incorretta di “fatti” storici, ma può anche
tranquillamente consistere in una fedele rappresentazione
“realistica” di questi fatti. Certo, l’assenza di accuratezza sto-
rica può spesso agevolare una più stimolante guida alla fun-
zione ideologica (come ad esempio in F.I.S.T. dove gli anni
’50 sono visti sotto la lente degli anni sessanta e settanta nel
racconto della carriera di Hoffa): questo avviene non perché
vi sia una virtù scientifica nei fatti stessi, piuttosto in quanto
sintomo di una resistenza della “logica del contenuto”, del-
l’essenza della storicità in questione, al paradigma narrativo
e ideologico a cui sono state tradizionalmente assimilata con
violenza.
Comunque Il padrino funziona all’interno e come permuta-
zione di una convenzione di genere. Si potrebbe scrivere una
storia del cambiamento sociale e della funzione ideologica di
questa convenzione, mostrando come motivi analoghi ven-
gono utilizzati in contesti storici diversi per esprimere mes-
saggi strategicamente diversi ma sempre comprensibili sul
piano simbolico. Così i gangster dei film classici degli anni
trenta (Robinson, Cagney, ecc.) erano caratterizzati come psi-
copatici, malati solitari costretti a scontrarsi con una società
composta essenzialmente da gente sana (l’archetipo democra-
tico dell’“uomo comune” proposta dal populismo del New
Deal). I gangster del dopoguerra dell’era di Bogart restano così
personaggi solitari ma inaspettatamente investiti da un pathos
2 Ricordiamo che questo articolo è stato scritto prima che fosse girato Il
padrino – parte III (1990) (n.d.t.).
REIFICAZIONE ED UTOPIA
178 NELLA CULTURA DI MASSA
mafia che stiamo pensando quanto piuttosto agli stessi affari
americani, al capitalismo americano nella sua forma azien-
dale e multinazionale più sistematizzata, computerizzata e
deumanizzata. Come dice Brecht, che crimine è una rapina in
banca in confronto alla sua fondazione?
Eppure fino ad anni recenti, gli affari americani hanno
goduto di una singolare libertà dalla critica pubblica e da
forme di risentimento articolato collettivamente; con la depo-
liticizzazione del New Deal, con il maccartismo, e con l’inizio
della guerra fredda e con la società dei consumi o dei media,
c’è stata una vacanza inesplicabile di ogni forma di antago-
nismo popolare; solo recentemente vediamo segnali del suo
riemergere (crimini dei colletti bianchi, animosità verso le
società di servizi o verso la professione medica). Questa
assenza di colpevolizzazione è tanto più deprecabile quanto
più osserviamo lo squallore crescente che la vita quotidiana
negli Stati Uniti deve al grande business e alla sua inevitabi-
le supremazia come forma più pura di merce e di mercato
capitalista funzionante ovunque nel mondo d’oggi.
Questo è il contesto in cui la funzione ideologica del mito
della mafia può essere compresa, ovvero come sostituzione
del crimine al grande business, come spostamento strategico
di tutta la rabbia prodotta dal sistema americano in que-
st’immagine speculare del grande business fornita da film e
serial televisivi. È comprensibile che la fascinazione per la
mafia resti ideologica anche se nella realtà il crimine orga-
nizzato ha esattamente l’importanza e l’influenza nella vita
americana che quella rappresentazione gli attribuisce. La
funzione della narrativa sulla mafia è infatti quella di inco-
raggiare la convinzione che il deterioramento della vita quo-
tidiana negli Stati Uniti sia un problema etico piuttosto che
economico, connesso non al profitto ma molto più semplice-
mente alla disonestà e a quella onnipresente corruzione
morale la cui fonte mitica ultima risiede nella malvagità dei
mafiosi stessi. Attraverso una autentica intuizione politica
circa l’economia reale del tardo capitalismo, il mito della
mafia sostituisce strategicamente la visione di quella che è
vista come un’aberrazione criminale della regola, piuttosto
che la regola stessa: infatti la sostituzione dell’analisi storica
e politica con il giudizio e la considerazione etica è normal-
REIFICAZIONE ED UTOPIA
180 NELLA CULTURA DI MASSA
onnipresente, offreno un pretesto attuale ad un immaginario
utopico che non può più esprimersi attraverso paradigmi
passati di moda e stereotipi quali l’immagine delle piccole
città americane ormai estinte.
Il potere di descrizione di un artefatto della cultura di
massa come Il padrino può così essere misurato attraverso la
sua doppia capacità di rappresentare una funzione ideologi-
ca pressante fornendo allo stesso tempo il veicolo per l’inve-
stimento in un sogno utopico disperato. Inoltre il film è dop-
piamente interessante per il nostro punto di vista per il modo
in cui il sequel – realizzato dalla riduzione del bestseller su
cui si basava la prima parte – tradisce chiaramente l’impeto
e l’effetto di una logica ideologica e utopica in uno stato libe-
ro o senza confini. Il padrino – parte II infatti offre una ecce-
zionale illustrazione della tesi di Pierre Macherey in Per una
teoria della produzione letteraria, secondo cui le opere d’arte
non tanto esprimono l’ideologia quanto le forniscono una
rappresentazione e una configurazione estetica che finiscono
per attivare il suo smascheramento virtuale e la sua autocri-
tica.
È come se l’inconscio ideologico e l’impulso utopico al
lavoro ne Il padrino – parte I potessero essere osservati lavo-
rare nel sequel alla luce del sole e in un primo piano temati-
co e riflessivo. Il primo film tiene le due dimensioni di ideo-
logia e utopia insieme all’interno di una singola struttura
generica, in cui le convenzioni rimangono intatte. Nel secon-
do film invece questa struttura cade come è avvenuto nella
storia reale, si piega verso una diligente decostruzione che
alla fine lascia il proprio contenuto ideologico senza alcuna
maschera: la sostituzione è visibile a occhio nudo. Così l’in-
treccio di mafia, che nel primo film serviva come sostituto
per l’economia, lentamente si trasforma nella aperta resa
delle tematiche dell’economia stessa, proprio come nella
realtà il bisogno di una copertura di investimenti legali fini-
sce per trasformare i mafiosi in veri uomini d’affari. Il finale
di questo sviluppo storico arriva allora (nel film come nella
storia reale) quando il business americano assieme al suo
imperialismo, incontra il supremo ostacolo al proprio dina-
mismo interno e all’espansione che gli è strutturalmente
necessaria, ovvero quando incontra la rivoluzione cubana.
182
L o spazio dell’altro
Modelli di sapere nelle prime
quattro serie di Star Trek
di Lorenzo Fabbri e Federico Primosig
183
re influisca sul comportamento dei suoi membri nell’intera-
gire con “le nuove forme di vita” incontrate. Con sapere
intendiamo qui non un patrimonio astratto di conoscenze ma
il rapporto che si intrattiene con sé stessi, con gli altri, con la
realtà. Il sapere è un ethos.
L’assunto implicito di questa analisi è che in Star Trek,
come in tutta la produzione fantascientifica, l’incontro con
popolazione aliene è sempre la trasfigurazione fantastica del-
l’idea che noi abbiamo di come dovrebbe essere affrontato
l’incontro con gli alieni terrestri, ovvero gli altri, gli stranieri,
gli sconosciuti.
La peculiarità della prima serie di Star Trek, sta allora nel
carattere smaccatamente esplicito della proiezione della
nostra cultura quando questa produce l’immagine dell’alie-
no: gli alieni che vi si incontrano vengono spesso rappresen-
tati come abitanti terrestri di un altro periodo storico3 o di un
altro luogo4. Sono proprio le puntate della serie classica, tra-
smesse per la prima volta dalla NBC dal 1966 al 1969, che
costituiscono l’inevitabile punto di partenza per ogni tentati-
vo di analizzare i cambiamenti “ideologici” che hanno carat-
terizzato Star Trek; solo a partire da un descrizione accurata
del progetto che si tesse attraverso questi primi 79 episodi è
possibile comprendere come la filosofia di questo telefilm sia
mutata negli anni e continui a mutare tuttora.
8 . Richards, Il mondo di Star Trek, Longanesi, Milano, 1998, cit. pag. 21.
9 Per Kant la legge fondamentale dell’agire morale è: ”opera in modo
che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo
come principio di una legislazione universale”. I. Kant Critica della
ragione pratica, Laterza, Roma-Bari, 1997, cit. pag. 65.
10 La violazione della Prima Direttiva rimane per tutto Star Trek uno dei
crimini più gravi per un ufficiale della Flotta Stellare.
11 Regia di Joseph Penvey, 1967.
... punto fisso dello spazio da cui partire ogni giorno e a cui fare
periodicamente ritorno17. Questo punto fissoè la casa. Andare a
casa significa muoversi verso un punto che rimane sempre iden-
tico nello spazio, dove ci sono cose note e conosciute...La casa
risponde al bisogno di sicurezza e di integrazione...l’uomo carica
questo perimetro di sicurezza di un significato simbolico, grazie al
quale il suo habitat diventa lo spazio ordinato e perciò dal caos
esterno, è il punto da cui, con una certa regolarità egli parte per
mettere ordine nel mondo circostante”18.
19 Cfr. E.De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977, pag. 409-
410.
20 G. Calogero, La conclusione della filosofia del conoscere, Sansoni, Firenze,
1960, cit. pag. 259-260.
199
contrasto, nel corso del suo primo mandato, e, dal 1997 al
2000, senior vice president e chief economist della Banca
Mondiale, che ha spesso tentato di sottrarre, non sempre con
successo, al dispotismo del Fondo Monetario Internazionale.
Con Globalization and Its Discontents, recentissimamente tra-
dotto, non del tutto felicemente, per Einaudi con il titolo di
La globalizzazione e i suoi oppositori, intende mostrare la neces-
sità di sottoporre a un profondo ripensamento la maniera in
cui il Fondo Monetario ha fin ora operato, allo scopo di evi-
tare, come spiega l’Introduzione, ulteriori “effetti devastanti”
sui paesi in via di sviluppo, e in particolare sui poveri che vi
abitano4. Il libro, ricco di analisi non di rado venate di un’iro-
nia che l’understatement dell’autore rende ancora più feroce, si
rivolge a un pubblico dotato di buona cultura, anche se non di
specifiche competenze nella materia trattata. Lo dimostra il
fatto che, pur non potendo rinunciare a discutere alcuni princi-
pi di teoria economica, per argomentare le sue tesi, piuttosto
che alla teoria, l’autore preferisce rivolgersi alla pratica, cioè
alle concrete esperienze di quest’ultimo decennio. Una scelta,
questa, che si spiega con la convinzione che soltanto un vasto
movimento di opinione può piegare l’ostinazione delle istitu-
zioni finanziarie ed economiche internazionali preposte al
governo della globalizzazione, e, in primo luogo, dell’FMI, ma
anche del WTO e della stessa Banca Mondiale.
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A ntasofia 2
antagonismo/filosofia
Sapere
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