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Il Novecento - Musica (73): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 68
Il Novecento - Musica (73): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 68
Il Novecento - Musica (73): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 68
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Il Novecento - Musica (73): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 68

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La condizione attuale vede una notevole difficoltà nell’individuare una civiltà musicale specificatamente europea, data l’ampia esportazione di musica del Vecchio continente in altre parti del mondo e la crescente presenza in Europa di musiche di altri Paesi, in un contesto quanto mai globale.

Se la cultura musicale europea, dall’alto della sua statura, si affaccia al Novecento con enormi potenzialità di autoanalisi e decostruzione delle proprie tradizioni, al contempo emergono musiche recenti ancorate a luoghi – spesso colonie – connotate regionalmente e localmente La storia della musica europea del Novecento è dunque anche la storia di una relazione di alterità coloniale e postcoloniale. Tra le prime a comprendere e ospitare le musiche esotiche è la cultura francese, grazie alla formazione locale di un gusto ricettivo verso blues e habanera, jazz e musiche creole caraibiche, Gamelan e spiritual. Varie danze poi, come il tango argentino, diffondono l’interesse verso una cultura popolare distante dal folklore europeo, intrisa di sensualità e carica erotica sconosciute al gusto dell’ovest europeo e che influenzerà l’evoluzione della stessa musica popular europea. Persino un genere d’impronta prettamente regionale come la canzone napoletana riceve influenze dalla musica francese, afro-americana e latino-americana. E mentre i repertori di carattere popolare acquistano una sempre maggiore importanza, la musica colta raggiunge livelli di eccellenza con figure come Debussy, Ravel, Stravinskij, Ligeti, Murail e Goebbels, nemmeno loro scevri di contaminazioni straniere.

Con questo ebook si vanno esplorando tutte le forme musicali che germogliano in Europa tra reciproche interrelazioni e sensibilità culturali assai diverse, e s’indaga la pratica musicale e i suoi significati a tutti i livelli, dalla musica colta, a quella popolare e giovanile, con attenzione alle sottili commistioni di linguaggi, fra danza, teatro, cinema e altre forme “sincretiche”, e alla relazione tra la musica del Novecento e la dimensione sociale.
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2014
ISBN9788898828074
Il Novecento - Musica (73): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 68

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    Il Novecento - Musica (73) - Umberto Eco

    copertina

    Il Novecento - Musica

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Novecento

    Musica

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla musica del Novecento

    Lucio Spaziante e Luca Marconi

    La trattazione dell’area musicale nel Novecento ci ha posto di fronte a due questioni iniziali. La prima ha un carattere più generale e riguarda l’impossibilità di tenere al di fuori del nostro sguardo gli eventi avvenuti fuori dall’Europa; ciò a causa di numerosi fattori: l’ampia esportazione di musica europea in altre parti del mondo e per contro la crescente presenza in Europa di musiche di altri continenti, con la sempre più estesa influenza globale della musica americana. La condizione attuale vede una notevole difficoltà nell’individuare una civiltà musicale, ma non solo, specificamente europea. La decisione di mantenere al centro dell’attenzione le esperienze musicali vissute in Europa è stata dunque presa tenendo il più possibile in conto l’incidenza degli eventi extraeuropei.

    La seconda questione affrontata è stata quella di capire attraverso quali prospettive fosse più opportuno fondare un confronto tra la musica del Novecento e quella dei secoli precedenti. Si è scelto allora innanzitutto di cercare percorsi diacronici all’interno degli eventi musicali novecenteschi, descrivendo non necessariamente un progresso, ma una configurazione nella quale un dato evento possieda come orizzonte di riferimento una serie di eventi anteriori. Per individuare tali percorsi ci siamo avvalsi del contributo di studiosi provenienti da quattro principali ambiti disciplinari: la storia della musica occidentale, l’etnomusicologia, lo studio della civiltà musicale afro-americana e quello della popular music.

    Sono state inserite in un’unica sezione le trattazioni diacroniche relative alle tradizioni orali, popular e afroamericane, le quali formano una rete di intrecci quasi inestricabile. Una sezione distinta è stata invece dedicata ai percorsi avvenuti nell’ambito della musica colta (espressione che è la più comunemente usata dai suoi studiosi), una tradizione che, pur avendo avuto spesso contatti con altre, a più riprese si è trovata a esserne invece distante.

    Accanto a questo approccio marcatamente diacronico abbiamo deciso di adottare altre due prospettive che fornissero uno sguardo d’insieme sul Novecento musicale, pur tenendo conto dei mutamenti avvenuti nel corso del tempo: lo studio delle relazioni tra la musica e altri linguaggi (danza, teatro, cinema e altre forme sincretiche) e quello della relazione tra la musica del Novecento e la dimensione sociale; si è così mostrato come l’ascoltare e il fare musica in questo secolo possiedano tratti distintivi correlabili con quelli dei mass-media coevi, dei fenomeni commerciali nell’ambito dei quali tali attività sono state praticate e dei processi politico-culturali novecenteschi di negoziazione del loro rapporto con poli concettuali quali globale/locale, urbano/extraurbano, maschile/femminile, corporeo/mentale.

    Europa e non Europa

    Nel Novecento la linea di sviluppo della musica in Europa vede tra gli elementi dominanti la relazione tra i fenomeni europei e quelli non europei. Se la cultura musicale europea, dall’alto della sua statura, si affaccia al Novecento con enormi potenzialità di autoanalisi e decostruzione delle proprie tradizioni, al contempo emerge una novità rappresentata da musiche recenti ancorate a luoghi (che spesso sono colonie), connotate regionalmente e localmente. Il colonialismo e il postcolonialismo sono alla base delle massicce migrazioni e dei reinsediamenti culturali che nel corso del secolo hanno dato vita alle popolose comunità extraeuropee che abitano i centri urbani del continente. Le dimensioni di tali spostamenti sono state tali che è diventato uso comune indicarne gli aspetti più strettamente legati alla loro musica con il nome di diaspore musicali. L’Europa entra dunque in relazione con la musica del Nuovo Mondo, l’America e tutti i mondi altri avvicinati, conquistati e dominati. La storia della musica europea del Novecento è dunque anche la storia di una relazione di alterità coloniale e postcoloniale.

    Tra le prime a comprendere e ospitare le musiche esotiche è la cultura francese, grazie alla formazione locale di un gusto ricettivo verso blues e habanera, jazz e musiche creole caraibiche, gamelan e spiritual. È documentata, da Jody Blake in Le tumulte noir, ma è poco nota la reciproca influenza che vi è all’inizio del Novecento tra le forme di modernismo e di avanguardia artistica e l’emergente universo musicale afroamericano. Parigi è il luogo dove la musica s’incontra con l’esplosione d’interesse verso l’art nègre, l’arte africana. Nella visione francese di un’America primitiva convivono senza paradossi l’animale e il meccanico, l’arcaico e l’avanzato, il grattacielo e la giungla. La capitolazione del civilizzato al selvaggio è intravista nel ragtime e nel ballo del cakewalk: strani ritmi che ben si associano alle altrettanto grottesche forme dell’arte visiva e che suscitano l’interesse di Picasso e Matisse. Il surrealismo intravede nel jazz un modello per la scrittura automatica così come, per contro, la Chiesa cattolica e i nazionalisti vi scorgono segnali di una degradazione e di una negrificazione. I passi delle nuove danze sono inscindibili dai cambiamenti sociali in atto. L’interpretazione di questi fenomeni è in prima istanza razziale e culturale; solo dopo gli anni Venti il purismo musicale ne fa prevalere una lettura formalista.

    Varie danze (come ad esempio il tango argentino) diffondono l’interesse verso una cultura popolare distante dal folklore europeo, intrisa di sensualità e carica erotica sconosciute al gusto dell’ovest europeo. Ciò porterà da un lato alla nascita di forme europeizzate e tradotte, dall’altro influenzerà in chiave afroamericana e latino-americana l’evoluzione della stessa musica popular europea. Anche i singoli repertori nazionali con l’avvento del Novecento vedono come dato innovativo una più netta presa di contatto con quelli stranieri. Persino un genere inizialmente d’impronta regionale come la canzone napoletana riceve influenze dalla musica francese, afroamericana e latino-americana. Da qui la diaspora napoletana negli Stati Uniti costituirà un momento di scambio e diffusione mondiale e insieme di conservazione del patrimonio culturale originario. Se, come si è visto, una dominante del Novecento europeo risiede nella progressiva rilevanza che acquistano i repertori di carattere popolare, non va trascurato il fatto che anche la musica colta, attraverso figure come Debussy, Ravel, Stravinskij, fino a György Ligeti, Tristan Murail o Heiner Goebbels, venga influenzata da sonorità, stilemi e forme popolari extraeuropee. Nella critica musicale, come in generale nel discorso sociale tardo novecentesco, sovente si è adoperato il termine contaminazione invertendone il significato letterale di contagio patologico, caricandolo invece di un valore positivo associato a un’area semantica relativa alla trasmissione, all’influenza, alla mescolanza fruttuosa, alla fusione. Qualsiasi accostamento, anche se non particolarmente ricercato, può così evocare l’idea di un’intersezione positiva, che non sempre invece avviene realmente. Ecco perché, oltre che perseguire il valore della fusione, la cultura del Novecento, nel momento dell’incontro tra mondi differenti, ha evidenziato anche la differenza culturale. Va in questa direzione anche l’originaria nascita di una disciplina come l’etnomusicologia che, tramite il lavoro di ricerca e raccolta sul campo, ha portato alla formazione di ampie collezioni di musiche del mondo. La conoscenza delle specificità locali è un processo la cui necessità è emersa soprattutto a partire dall’affermazione nell’Occidente delle società di massa che, già nella prima metà del secolo ma in particolar modo nella seconda, vedono emergere un’industria culturale che privilegia processi di standardizzazione e massificazione. La cultura europea, musicale e non solo, vive nel Novecento un momento di fascinazione esterofila dovuto anche alla crisi del sistema politico ottocentesco che ne mette in discussione i fondamenti. Da un lato guarda con interesse alle culture popolari extraeuropee radicalmente distanti, dall’altro vive una progressiva sudditanza rispetto ai processi industriali americani: sudditanza che nel secondo dopoguerra si trasforma in consapevolezza di subire un dominio in costante espansione.

    Il percorso della musica colta

    Nel prospettare come in questo scenario la musica colta si sia modificata, sono stati identificati alcuni eventi che funzionano come spartiacque: l’inizio dell’adozione di un linguaggio atonale, databile nel biennio 1908-1909; l’insorgere del sistema di composizione dodecafonico e del neoclassicismo, all’inizio degli anni Venti; lo sviluppo di una nuova generazione di compositori d’avanguardia nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale; l’arrivo in Europa delle idee di John Cage sull’alea e l’indeterminazione e il dibattito creatosi nei loro confronti nella seconda metà degli anni Cinquanta; la messa in discussione del concetto di avanguardia musicale a partire dalle prime avvisaglie della sua crisi, negli anni Settanta, sviluppatasi in proporzioni assai più ampie negli anni Ottanta e nei decenni successivi. Delle diverse fasi delimitate da tali eventi si è cercato di presentare sia i compositori più rappresentativi sia le scelte linguistiche e stilistiche più diffuse. I primi due saggi sono allora dedicati al periodo, a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel quale la divaricazione, già presente nell’Ottocento, tra una tendenza moderna a presentare una musica orientata verso il futuro, incarnata soprattutto da Wagner e Liszt, e un approccio più conservatore, quale quello di Max Bruch, viene aggiornata dando vita a uno schieramento che vede tra i moderni Richard Strauss, Gustav Mahler, Arnold Schönberg, Claude Debussy, Maurice Ravel, Erik Satie e Aleksandr Skriabin, e tra i conservatori Sergej Rachmaninov, Vincent D’Indy e Hans Pfitzner.

    In alcuni esponenti della musica moderna è sorta poi la necessità di sviluppare una tendenza radicale ad abbandonare gran parte degli elementi linguistici fino a quel momento in auge, conservandone solo alcune strutture profonde. A partire da tale svolta si è sviluppata, assai più che in precedenza, la distanza tra il circuito delle musiche d’avanguardia e quello dedicato alla reinterpretazione delle musiche canoniche del passato. Segue la considerazione di una delle scelte cruciali, ovvero la contrapposizione a quel linguaggio tonale, che per due secoli aveva fondato la comunicazione tra compositori e pubblico, di un assai più arcano linguaggio atonale, che segue di pari passo anche la rottura degli andamenti sintattici e formali più tradizionali. Vengono di conseguenza ripercorsi gli itinerari di cinque dei principali attuatori di tali scelte (Schönberg, Berg, Anton Webern, Stravinskij e Bartók), dai quali, come elemento di continuità rispetto al passato, emerge la grande importanza attribuita all’esperienza musicale di carattere estetico. Un’esperienza intesa come momento di acquisizione di verità cruciali irraggiungibili attraverso altre modalità esperienziali, riformulazione avanguardistica del culto quasi religioso della grande musica sviluppatosi nell’Ottocento. Di quanto è successivamente avvenuto tra le due guerre mondiali, si esamina innanzitutto il modo in cui i compositori si sono confrontati con le ideologie e le ingerenze politiche rivolte nei loro confronti; fenomeno che ha determinato uno degli eventi cruciali dell’epoca, la diaspora di musicisti europei in America. Viene poi presa in considerazione la diffusa messinscena della memoria musicale realizzata attraverso il recupero della musica antica e attraverso i montaggi compositivi dallo spirito neoclassico. Occasione per evidenziare lo stretto legame con un più generale richiamo all’ordine rinvenibile contemporaneamente anche nelle altre arti: è questo il momento nel quale il modernismo prende decisamente le distanze dal romanticismo ottocentesco, confrontandosi con le musiche extracolte barbare recentemente importate dall’America (jazz, tango).

    Infine, ci si sofferma sui processi che hanno condotto all’adozione delle tecniche dodecafoniche, delle quali si mostra lo stretto legame con la pratica seriale, sviluppate dai compositori delle generazioni successive. Dei primi quindici anni del secondo dopoguerra vengono approfonditi soprattutto alcuni episodi: la nascita della musica elettroacustica, l’ampio riconoscimento nel circuito dell’avanguardia internazionale ottenuto da alcuni giovani compositori italiani – primi fra tutti Bruno Maderna, Luigi Nono e Luciano Berio – la nascita e lo sviluppo dei corsi estivi di musica di Darmstadt, ai quali ha legato le proprie vicende una corrispondente scuola di Darmstadt guidata dalle figure di Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, il vivace e dialettico confronto sorto negli stessi anni tra tali autori e alcune voci eccentriche provenienti dall’Europa orientale quali quelle di Iannis Xenakis, György Ligeti e György Kurtág. Da questi e altri episodi a essi coevi emerge un profondo ripensamento del concetto di musica, della figura del compositore d’avanguardia e della sua funzione, con un allontanamento dalla dimensione estetica a favore di ambiti più prossimi alla scienza, alla ricerca, alla sperimentazione e all’invenzione di nuovi suoni, strutture, linguaggi. In un simile scenario i mutamenti passano a partire dalla fine degli anni Cinquanta attraverso una riflessione concettuale, di cui viene dato conto, sulle nozioni di opera aperta, alea e indeterminazione, analizzando il modo in cui esse abbiano inciso sulla relazione tra la composizione e l’improvvisazione. Segue un esame dei cambiamenti subiti dalla musica elettroacustica a partire dagli anni Settanta e dei contributi forniti dal minimalismo, dai musicisti spettralisti e da altri esploratori delle relazioni del suono con il silenzio e con le vicende spirituali con esso esperibili. La sezione si conclude con quanto è avvenuto nella fase finale del secolo, segnata, in musica come in altri ambiti artistici, dalla lettura postmoderna e dall’emergere della rilevanza delle relazioni interculturali.

    Sviluppi locali della musica extracolta

    A partire quanto meno dal Cinquecento, ma soprattutto nel corso dell’Ottocento e del Novecento, la musica colta europea è stata esportata in tutti gli altri continenti; a questa globalizzazione sono seguiti numerosi processi di localizzazione, il più importante dei quali è avvenuto indubbiamente negli Stati Uniti, paese che ha assunto un’importanza quasi paritaria nei confronti dell’Europa nell’ambito della musica d’avanguardia soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, tramite figure come John Cage, Morton Feldman, Philip Glass e Steve Reich.

    Al di fuori della musica colta, se in un primo tempo è avvenuto un processo simile, con un’egemonia europea su gran parte delle musiche di tradizione orale del Nord America, a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento si è cominciato a sviluppare un percorso inverso. È stata l’America a esportare sempre di più i propri prodotti in Europa fornendo repertori – ragtime, jazz, tango – che, soprattutto nei primi tempi, mescolano tradizioni europee riformulate in chiave americana con componenti di derivazione africana.

    Nell’affrontare il percorso della musica extracolta europea del Novecento abbiamo ritenuto opportuno, prima di considerare i fenomeni europei più strettamente legati a tale importazione di musica afroamericana, documentare quanto è avvenuto nell’ambito delle pratiche locali che con essa hanno avuto meno a che fare. Un primo ambito indagato è quello delle musiche di tradizione orale meno coinvolte nei processi di urbanizzazione e industrializzazione: a tale proposito viene esaminato come tali repertori siano stati affrontati dall’etnomusicologia e come essi siano stati oggetto di fenomeni di revival strettamente legati allo sviluppo di una canzone politica, di protesta.

    Ci si sofferma poi su alcuni generi che presentano numerose analogie con il blues, con il jazz e con il tango del primo Novecento: il klezmer, il flamenco, il fado e il rebetiko sono stati anch’essi a lungo coltivati oralmente, figli di diaspore e scambi tra diverse culture emarginate, spesso sviluppatisi in ambienti malfamati del sottoproletariato urbano, prosperati soprattutto a partire dall’inizio del Novecento e quindi diffusi ben oltre i confini nei quali erano stati fino a quel momento praticati, in relazione al loro inserimento nei processi dell’industrializzazione dell’intrattenimento musicale.

    Il panorama delle musiche extracolte dell’Europa mediterranea si completa poi con la chanson e la canzone italiana, che viene affrontata seguendo i tre filoni della canzone napoletana, di quella d’intrattenimento nazionale e di quella d’autore.

    Infine, si considera come lo scenario delle musiche extracolte locali muti nella seconda parte del Novecento, in reazione all’ampia importazione di repertori americani avvenuta fino a quel momento e ai profondi cambiamenti sociali sopraggiunti.

    La linea afroamericana

    Come già sopra accennato, dall’inizio del Novecento l’Europa inizia a guardare oltre Atlantico e verso la tradizione che si definisce afroamericana, ovvero african-american, come a un luogo nel quale l’incontro-scontro tra differenti etnicità genera fenomeni culturali inediti e rilevanti. Per il blues ad esempio è la Francia a sviluppare il maggiore interesse con una già matura riflessione critica e musicologica, mentre è in Gran Bretagna, per motivi di affinità linguistica e culturale, che si avrà una prima scena blues artisticamente autonoma. Una rottura di paradigma nelle relazioni Europa-America si avrà, come è prevedibile, con la reciproca presa di contatto e con la conseguente influenza americana sia bellica sia postbellica. Influenza manifestatasi pressoché dovunque in Europa, specie nell’intrattenimento musicale e spettacolare pensato per le truppe statunitensi, sia durante il conflitto che nella successiva permanenza nelle basi NATO.

    Nei primi anni Sessanta, Londra diventa la città in cui viene reimpiantata una tradizione blues, che assumerà infatti la denominazione di blues revival e che sarà anche uno degli elementi che promuoverà la nascita del rock inglese. Anche il jazz ottiene un immediato e crescente successo in Europa, tanto da stimolare ben presto una riflessione problematica sulla possibilità di un jazz europeo. Se il jazz originario ha le sue radici nel folklore nero, quello europeo può nutrirsi delle tradizioni popolari continentali oppure attingere al patrimonio colto. Sempre nei primi anni Sessanta è la presenza fisica di grandi nomi del free jazz a orientare l’Europa verso scelte più radicali, mostrando attenzione anche a patrimoni musicali locali. L’altra frontiera, costituita dall’innesto nel jazz del linguaggio del rock, vede addirittura i musicisti europei in prima linea nella ribalta internazionale. Anche nel jazz come in altri percorsi artistici il finire del secolo condurrà all’eterogeneità stilistica, con una sintesi tra tradizioni colte antiche europee, elementi della cultura massmediale, tendenze alla polimedialità espressiva (danza, arte visiva, uso dell’elettronica), nuove enfasi sulla composizione e sviluppi di identità glocal, specifiche per ogni area geografica.

    Musica giovanile

    Uno dei dati significativi del ruolo della musica del Novecento è la sua associazione con l’universo giovanile che, proprio nella musica, nel cinema, nel divertimento, trova una propria dimensione separata rispetto all’universo adulto. L’accesso dei giovani al consumo e alla cultura di massa coincide con l’emergere, attorno agli anni Cinquanta, di una vera e propria cultura giovanile peculiare. Il secondo dopoguerra segna in tutto il mondo occidentale la trasformazione della giovinezza, da semplice stadio del ciclo di vita compreso tra l’infanzia e la condizione adulta, in una vera e propria categoria culturale, caratterizzata da specifici modelli di consumo, stili di vita e, forse soprattutto, gusti musicali. A partire dal rock’n’roll, la cui nascita è convenzionalmente posta a cavallo tra il 1954 e il 1955, la storia della musica popular si caratterizza per un susseguirsi di generi, stili e appunto gusti musicali tutti associati, alcuni più altri meno, a fattori sociali collettivi extramusicali quali un particolare stile di abbigliamento, una certa iconografia, talvolta un vero e proprio stile di vita. Il fenomeno assumerà connotati differenziati nelle diverse realtà geografiche, ma la cifra angloamericana sarà quella che lo caratterizzerà maggiormente, sia perché negli Stati Uniti e in Gran Bretagna avverranno numerosi eventi preponderanti, sia perché le realtà locali, come anche quella italiana, saranno profondamente trasformate dalla popular music importata, dal rock’n’roll al beat, passando per il rock, per giungere al funk, all’hip-hop, alla musica elettronica dance. Etichette, generi, stili che fanno oramai parte del lessico culturale globale.

    Il rock’n’roll dei primi anni Cinquanta fa emergere da subito la connessione tra la musica giovanile e quella di tradizione afroamericana. Anche in Europa tale tradizione diventerà la preferita dai teenager e le musiche popular locali che si svilupperanno avranno uno stretto legame con la gioventù americana, le sue mode, i suoi balli. Dapprima il successo del rock‘n’roll e di Elvis Presley, negli anni Cinquanta, ha prefigurato la possibilità di un mercato internazionale per la musica popular destinata a un pubblico giovanile. Successivamente l’esplosione del fenomeno Beatles determina, all’inizio degli anni Sessanta, le condizioni per un mercato multinazionale sostanzialmente omogeneo, come quello che si sarebbe consolidato in seguito. L’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967) è un progetto centrato sullo studio di registrazione e rappresenta una nuova configurazione dei media così come una nuova era per l’industria discografica e per la musica popular.

    Stili, subculture, celebrità

    Le subculture giovanili diventano oggetto di studio accademico, e vengono interpretate non più come forme di devianza. Esse divengono risposte da parte di un certo gruppo d’età a una posizione di classe subordinata, mirate a contestare il sistema dei valori dominanti per mezzo non di attività politiche convenzionali bensì di pratiche rituali. Si afferma l’idea di uno stile: combinazione (spesso spettacolare come nel punk) di posture corporee, modi di fare, vestiti, acconciature, gerghi, artefatti simbolici e codici musicali, adottata da ciascuna subcultura in modo da distinguersi dalle altre e soprattutto da opporsi alla cultura (e quindi allo stile) dominante o mainstream.

    Nel descrivere la vicenda del rock è difficile separare gli elementi visivi da quelli sonori. I gesti, la mimica, la drammaturgia e la scenografia hanno un ruolo determinante nella dimensione performativa del concerto e, più recentemente, del videoclip. Gli abiti plasmano l’io visibile delle rockstar e continuano ad agire oltre la sfera pubblica del concerto, delle fotografie di scena e delle copertine dei dischi. Fin dal secondo dopoguerra – quando il rock è codificato come genere musicale – la sua storia può essere intesa come un percorso che parte dalla musica e coinvolge la moda o viceversa. Dall’inizio degli anni Ottanta, il tema dei rapporti tra rock e moda ha suscitato una grande attenzione soprattutto in coincidenza con l’emergere di concetti quali sottocultura e street-style, che hanno esaltato l’antagonismo con la moda ufficiale di sartorie, stilisti e riviste patinate. I discorsi sulle sottoculture hanno messo in luce il rock come portatore di valori sociali ed estetici positivi quali libertà, ribellione, autenticità e originalità stilistica, riducendo invece la moda a una forma equivoca di commercializzazione e sfruttamento di tali valori. Ma la moda è una realtà complessa, dinamica e non riducibile a un processo di imitazione. La sua storia è fatta anche di scambi, di forme di complicità e di collaborazione con le altre espressioni culturali. Le relazioni tra rock e moda sono lunghe e proficue, ed è nel contesto della cultura popolare che elaborano un comune progetto di rottura con le convenzioni visive, di nobilitazione della marginalità sociale e di sperimentazione delle identità multiple. La cultura di massa ha avvicinato i divi e li ha resi umani moltiplicandone le relazioni con il pubblico. Imitabili e inimitabili al tempo stesso, essi sono eroi-divinità dotati di una duplice natura che genera mito, dunque proiezione, e assieme possibilità di identificazione. Al generale meccanismo della celebrità mediatica, nel caso della rockstar va aggiunto il cliché dello stile di vita dissoluto.

    Estetizzazione pop: autenticità ed esteriorità

    A partire dalla fine degli anni Cinquanta, la condivisione da parte di molti sostenitori del folk revival (specie di quelli più giovani) di idee estetiche moderniste determina un graduale cambiamento nella concezione dell’autenticità in tale ambito, con una minor enfasi posta sulla partecipazione collettiva e sulla funzionalità di questo repertorio per la propaganda politica, a favore della sincerità personale: il Bob Dylan dei primi anni Sessanta e altri nuovi protagonisti (come Phil Ochs, Tom Paxton e Paul Simon) vengono in tal senso considerati folksinger autentici, capaci di esprimere il proprio modo personale di esperire quanto viene vissuto dal pubblico al quale si rivolgono; dimensione poi sviluppata dalla canzone d’autore. Con il rock psichedelico della seconda metà degli anni Sessanta, aumenta ulteriormente l’interesse giovanile nei confronti del mondo delle avanguardie artistiche. Da quest’ambito vengono attinti modelli utili a comporre stili di vita ed espressivi, attraverso una loro traduzione in atteggiamenti underground, posti in opposizione all’opportunismo mainstream.

    Dall’incontro tra i movimenti giovanili statunitensi e quelli che prosperano intorno alle Art School in Gran Bretagna verranno intraprese due strade diametralmente diverse: da un lato l’estetica romantica bohémien del progressive rock, dall’altro quella glamour e provocatoria del glam rock. Ad accomunarli una tensione verso l’integrazione della musica con altri linguaggi, che trova la sua migliore esemplificazione in una spiccata tendenza alla teatralità. I termini rock e progressive entrano in uso proprio in questo periodo, per indicare un insieme eterogeneo di repertori, prevalentemente bianchi e maschili, con una poetica basata sulla presa di distanza dalla musica pop, accusata di essere commerciale, e sulla rivendicazione del proprio valore artistico, fondato su un’estetica che traduce in ambito popular i concetti di genio, sperimentazione, complessità, radici, autenticità e impegno sociale. Il rock si affianca presto al jazz nell’immaginario degli studenti dell’Art School, in breve tempo, lo sostituisce. I giovani britannici, però, più intellettuali e meno interessati ai temi sociali dei giovani nordamericani, elaboreranno i vari stimoli di questo periodo in modo peculiare, dando origine a una scena psichedelica diversa da quella d’oltreoceano, anche e soprattutto nei suoi esiti.

    I primi anni Settanta ci raccontano anche dell’evoluzione surrealista della visionarietà, cara al decennio precedente, ad esempio nelle copertine fantasy di Roger Dean. Illustrazione versus fotografia, si potrebbe anche suggerire, nell’ascesa di fotografi celebri come Mick Rock (pensiamo ai ritratti di David Bowie). Lo studio Hipgnosis e la loro storica collaborazione con i Pink Floyd sono una miscela fra illustrazione e fotografia in chiave nouveau réalisme. Nell’orizzonte del glam appare una logica di estetica globale e di coordinazione stilistica che ovviamente trova conferme sulla scena dei concerti, ma che riguarda anche specificamente il progetto grafico: Brian Ferry con i Roxy Music appare come art director, avvalendosi di fotografi quali Nick Deville.

    Il punk alla fine degli anni Settanta proporrà invece una nuova autenticità all’insegna del do it yourself, ovvero dischi a basso costo realizzati in presa diretta per piccole etichette indipendenti, e concerti effettuati in spazi raccolti con stretta interazione tra esecutori e ascoltatori. L’autenticità inoltre non viene più vista come incompatibile con l’artificiosità, la quale viene invece valorizzata in funzione della trasgressività. Tali fenomeni sono strettamente legati alla coeva crisi della concezione modernista dell’artisticità d’avanguardia (e dell’autenticità corrispondente) e all’insorgere di un’estetica alternativa a questa, di tipo postmoderno.

    Il postmoderno e le barriere della distinzione

    Anche in musica avviene qualcosa di simile a ciò che dalla fine degli anni Settanta si inizia genericamente a indicare come postmoderno: un concetto in cui è implicito un capovolgimento di valori rispetto a quella cultura della modernità in cui si era sino ad allora identificato il XX secolo. Una società atomizzata dell’informazione e della telematica, della promiscuità dei messaggi e dei codici, caratterizzata dalla perdita di forti sistemi di riferimento all’interno di un’offerta culturale sempre più pletorica e indifferenziata, dove ciascuno può ormai scegliere autonomamente, senza limiti di spazio e di tempo né gerarchie univoche di valore. I tratti della sensibilità postmoderna appaiono con evidenza soprattutto a partire dagli anni Ottanta nei nuovi compositori non ancora trentenni, appartenenti a una generazione nata dopo la guerra. Alla severa disciplina sperimentale dei colleghi più anziani essi oppongono il diritto di scegliersi liberamente i propri modelli senz’altra motivazione se non l’inclinazione soggettiva e l’impulso a creare. All’utopia dell’infinita manipolazione razionale del suono contrappongono una più attenta considerazione delle costanti percettive e dei dati intuitivi dell’ascolto musicale. Tornano di moda, accanto ai vocaboli espressivi, anche forme e tecniche del passato, ivi compresi elementi della sintassi tonale, depurati di ogni riferimento al loro contesto di origine. L’incipiente globalizzazione e la stessa crisi dell’avanguardia, ultimo baluardo di un’utopia eurocentrica, aprono la scena della musica contemporanea a nuovi scambi e contaminazioni transnazionali.

    Nell’ultima parte del Novecento, in sintonia con l’affermarsi, specie nel mondo anglosassone, di orientamenti di ricerca transdisciplinari legati ai cultural studies, in ambito musicologico si consolida la consapevolezza che non di rado i cambiamenti più decisivi per le sorti della musica non avvengono tanto sul terreno del linguaggio o delle tecniche compositive, ma riguardano altri aspetti altrettanto cruciali quali il panorama culturale, la comunicazione, le pratiche sociali, le tecnologie. Al volgere del secolo, uno dei temi più rilevanti nell’orizzonte musicale è quel processo di erosione dei confini fra generi che sempre più riguarda l’identità e il perimetro della musica d’arte, la cui distinzione rispetto agli svariati ambiti della popular music appare sempre meno chiara e individuabile. Si delinea così il paradigma musicale di fine millennio: una musica aperta ai più diversi influssi provenienti da un contesto sociale e geopolitico alquanto burrascoso e mutevole; compositori intenti a coniugare nella loro scrittura i diversi ingredienti musicali che la comunicazione mediatica e l’industria discografica non cessano di portare alla ribalta, cercando sovente la collaborazione di interpreti e autori del pop, del jazz, della world music. Pur appartenendo genericamente all’area della popular music, questa nuova ricerca musicale è riconducibile solo a stento ad ambiti tradizionali quali jazz, rock o altro; nella critica internazionale e sulle riviste specializzate, prolifera a questo riguardo una colorita terminologia in perpetuo divenire: si parla di post-jazz, art-rock, avant-rock, world-beat, global, industrial, noise, electronica, trance-ambient, dj-style, plunderphonics ecc. È una terminologia fluttuante, spesso superficiale, che denuncia da un lato la mobilità e la mutevolezza di questi generi, dall’altro l’assenza di una sistematizzazione teorica e di una collocazione culturale accreditata e condivisa. È in questi territori extra-accademici, ormai fortemente intellettualizzati e animati da esplicite finalità artistiche e sperimentali, dove l’ibridazione, la dissacrazione e il riassemblaggio del passato o addirittura il vero e proprio saccheggio del già fatto sono ormai moneta corrente, che il postmoderno trova la sua realizzazione più estrema.

    Oralità elettronica

    Nel frattempo, da culture musicali popolari quali quella giamaicana, da cui è originato il reggae, è derivata l’idea di assimilare la tecnologia elettronica all’interno di un assetto tradizionale-orale, a partire dall’affermarsi negli anni Cinquanta del sound-system, sia nella stessa Giamaica che nelle comunità giamaicane immigrate in Gran Bretagna: è una dimensione culturale che pone in forte rilievo il supporto discografico in quanto medium di una comunicazione musicale. Sviluppatasi a partire da simili pratiche è la cultura hip-hop, che si è prodotta in origine alla fine degli anni Settanta nelle comunità afroamericane metropolitane statunitensi, assemblando differenziate forme artistiche – graffiti, breakdance, rap – nelle quali rivestono un ruolo essenziale la presenza del dj (disc-jockey) e la manipolazione del supporto discografico. Con i processori digitali del suono commercializzati dagli anni Ottanta, si realizzeranno vari tipi di campionamento e sequenziazione ritmica di estratti sonori, offrendo ai dj un orizzonte di possibilità creative virtualmente illimitato. Sul piano estetico è da notare la ricontestualizzazione all’interno del sistema comunicativo di materiali secondari musicali, già preformati, analoga a quella della pop art degli anni Sessanta. Da un originario ruolo quasi invisibile, in cui si limita ad assemblare musica eterogenea solo in base a un criterio o a uno stile, successivamente il dj si prende la libertà di interrompere, riavvolgere, ripetere, mischiare frammenti, oppure di intervenire sui timbri e sulle sonorità dei brani: da semplice compilatore diviene musicista. Da pratica performativa, l’atto del selezionare frammenti si è rapidamente trasformato in tendenza estetica fino a divenire rivalorizzazione empirica dell’intero repertorio popular, trasformandolo in un archivio virtuale rielaborato di continuo. Ciò ha consentito la messa in discussione di una linea evolutiva mainstream totalmente debitrice della tradizione r’n’b, e dunque del rock inteso in senso stretto, a favore di percorsi che oscillano tra musica d’avanguardia, folk e recupero di Tin Pan Alley. Un’altra linea culturale, ancora deviante rispetto alla tradizione mainstream del pop, si è insinuata tra una componente mentale e una meccanica, generando l’universo dell’electronica (come viene altrimenti definito il campo dell’elettronica pop, techno e dance contemporanea). Un’estetica artificiale e sintetica che ha soppiantato la retorica dell’anima e della natura. Nella sua accezione dance, l’elettronica ha contribuito ad abbattere le barriere che si sono (paradossalmente) erette tra rock e musica da ballo, incentivando la diffusione planetaria della cosiddetta club culture e dei rave. Questo composito universo ha presentato fenomeni inediti, suscettibili di essere anche oggetto per uno studio e per un’interpretazione delle mutazioni sociali.

    Musica, immagini e arti performative

    Dal Cinquecento all’Ottocento il ballo, lo spettacolo di danza e quello teatrale sono stati, insieme al concerto, tre dei principali contesti nei quali la musica si è venuta a collocare con soluzioni in costante mutamento. Non poteva dunque mancare uno sguardo attento al ruolo della musica in tali contesti nel Novecento, volto a render conto della molteplicità di fenomeni in essi coinvolti: innanzitutto, se in diverse voci dedicate al percorso della musica colta emerge come, specie nella prima metà del secolo, numerose sue pietre miliari sono state ideate per spettacoli di danza, è sembrato comunque particolarmente opportuno considerare in una voce specifica l’interesse dei compositori novecenteschi per tali spettacoli, riservando poi un’attenzione ancora più approfondita per il caso novecentesco più eclatante di collaborazione tra compositori e altri protagonisti dell’arte coreutica a livelli qualitativi straordinari, quello dei balletti russi.

    Spostando poi lo sguardo dagli spettacoli alle pratiche coreutiche popolari, numerosissime sono le annotazioni reperibili nei saggi che affrontano i mutamenti delle musiche extracolte novecentesche; anche in questo caso, comunque, abbiamo deciso di fornire un ulteriore capitolo che offrisse un panorama complessivo nel quale collocare la multiforme congerie di episodi che hanno caratterizzato la profonda incidenza del ballo nella relazione del Novecento con la musica.

    Data l’ampia popolarità e diffusione goduta dall’opera italiana dalla sua nascita, nel Seicento, fino alla fine dell’Ottocento, ad essa è stata prestata particolare attenzione anche in questa rassegna sul Novecento: innanzitutto viene analizzato il suo ultimo momento di gloria, legato al grande successo raccolto da Giacomo Puccini come erede della figura di Giuseppe Verdi, per poi seguire il processo che ha fatto sì che non venissero più prodotti nuovi titoli capaci di rinnovare il consenso popolare del passato, ma che rimanesse spazio solo per la riproposizione del repertorio dotato di maggiore fortuna storica e per l’invenzione di nuove formule destinate necessariamente ad assumere una valenza diversa, tanto nel caso delle operazioni d’avanguardia quanto in quello delle riesumazioni in chiave nostalgica e/o postmoderna.

    Se nell’Ottocento le principali prese di posizione nel teatro musicale sono state assunte riferendosi soprattutto ai drammi musicali wagneriani, nel Novecento una delle principali pietre di paragone delle scelte drammaturgico-musicali è stato l’atteggiamento assunto in tale ambito da Bertolt Brecht e dai tre principali compositori con i quali egli ha collaborato: Kurt Weill, Hanns Eisler e Paul Dessau. Non poteva dunque mancare un’adeguata illustrazione di tale collaborazione, originalissimo crocevia di stili e generi diversi nel quale le tradizionali distinzioni elitario/popolare, colto/extracolto, alto/basso vengono interamente rimescolate, minando irrimediabilmente alla radice la stabilità dei loro presupposti.

    Un atteggiamento analogo viene rilevato nell’interesse delle avanguardie novecentesche per diversi tipi di spettacolo d’intrattenimento: è il caso della passione degli artisti parigini per lo Chat noir, di quelli viennesi per il Nachtlicht (con esiti quali il Pierrot Lunaire di Schönberg), dei futuristi italiani per il teatro di varietà o dei dadaisti per il Cabaret Voltaire di Zurigo.

    All’interno della rassegna degli spettacoli d’intrattenimento con presenza della musica, una menzione va al musical europeo, genere che, pur essendo vissuto a lungo all’ombra del più celebre equivalente statunitense, a differenza di molti altri tipi di teatro musicale che nella seconda parte del Novecento hanno subito gravi crisi, continua ad avere una notevole popolarità, anche grazie alla sua capacità di entrare in simbiosi con il mondo del cinema.

    L’ultima sezione è dedicata alla presenza della musica in testi sincretici, gli audiovisivi nei quali si assiste non a una performance dal vivo, ma a una ripresa diffusa da uno schermo.

    Rispetto a tale ambito viene proposta una panoramica sulle principali tendenze sviluppate nelle musiche per i film delle nazioni più impegnate in tale produzione (Francia, Germania, Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Italia), seguita dalla disamina di alcuni esempi particolarmente significativi di collaborazione tra un regista cinematografico e un compositore, per terminare con una carrellata sulle vicende fondamentali della storia del videoclip.

    Il percorso della musica colta

    Mahler, Strauss e il tardo romanticismo wagneriano

    Giordano Montecchi

    L’eredità wagneriana contribuisce a rendere il confronto fra musica a programma e musica assoluta una delle chiavi di volta del panorama musicale del tardo Ottocento, unitamente all’altrettanto complessa questione dell’esaurimento del linguaggio armonico tonale. Nel campo della musica per orchestra il predominio del poema sinfonico, secondo il dettato della scuola neotedesca, sembra avere decretato la fine della sinfonia che, invece, rinasce con una fioritura di ampiezza insospettata, richiamando in gioco le ragioni della musica assoluta e incrinando il credo romantico della fusione fra la musica e le altre arti. Fra i compositori che meglio hanno saputo interpretare questo groviglio di questioni spiccano le figure di Richard Strauss con la sua acuta reinvenzione del poema sinfonico e di Gustav Mahler le cui sinfonie sono la più geniale compenetrazione di intenti programmatici e invenzione formale.

    Un’epoca al capolinea

    A fine Ottocento il sistema della musica borghese che si era consolidato nell’arco dell’ultimo secolo sembra essere arrivato a un punto critico: generi, stili, teorie, pratiche sociali, il linguaggio musicale stesso appaiono sempre più come un retaggio del passato dalle prospettive molto incerte. L’armonia tonale dopo Wagner suona esausta e irrimediabilmente logorata, il teatro d’opera è afflitto da crescenti difficoltà economiche, mentre fra pubblico e compositori sembrano essersi deteroriate quella sintonia e condivisione di ideali che in passato, pur con frequenti incidenti, avevano favorito il trionfo del gusto musicale romantico e dei suoi inediti paradigmi formali e poetici.

    La percezione di una crisi generalizzata è particolarmente acuta nel mondo musicale di lingua tedesca, a causa di uno scenario politico e sociale segnato da conflitti e disagi profondi e dominato dal sempre più manifesto processo di dissoluzione di quell’impero che per secoli è stato il fondamento della cultura e dell’arte mitteleuropea. Ciononostante, la musica viennese e tedesca a cavallo fra Otto e Novecento attraversa un momento indiscutibilmente fecondo e per certi versi antitetico alla contemporanea crisi politica e sociale.

    La scomparsa di due giganti come Richard Wagner (1813-1883) e Johannes Brahms (1833-1897) lascia un’enorme eredità, un patrimonio di innovazioni tecniche, di idee e suggestioni che si tratta di raccogliere e amministrare. Ad assumersi questo compito è la generazione degli autori nati dal 1860 in poi, fra i quali spiccano decisamente il direttore d’orchestra boemo Gustav Mahler (1860-1911), il bavarese Richard Strauss (1864-1949) e il viennese Arnold Schönberg (1874-1951). Le questioni sul tappeto possono ricondursi a tre snodi cruciali: il dualismo musica a programma/musica assoluta, la sorte del linguaggio armonico classico-romantico e, strettamente intrecciato ai primi due, il dilemma della forma musicale.

    Musica a programma e poema sinfonico. Richard Strauss

    La cosiddetta Neudeutsche Schule (scuola neotedesca) capeggiata da Wagner e Liszt ha imposto nella seconda metà dell’Ottocento, in Europa come oltreoceano, la concezione di una musica intrinsecamente espressiva, capace come nessun’altra arte di esprimere contenuti poetici nel modo più profondo e universale. Archiviate le preoccupazioni di stile e di forma, la nuova frontiera della musica è la Symphonische Dichtung (poema sinfonico), la cui sostanza musicale – forma, armonia e melodia – è la diretta manifestazione sonora dell’idea poetica, totalmente libera da ogni precetto di scuola.

    In questo clima, relegata in soffitta la musica da camera, negli anni Novanta l’attenzione di giovani compositori come Mahler e Strauss si rivolge al Lied ma, soprattutto, all’orchestra e alle sue formidabili risorse coloristiche e descrittive, in una rincorsa a un allargamento degli organici e all’invenzione di nuovi effetti sonori che sembra non avere limiti.

    L’affermazione di Richard Strauss in campo orchestrale è bruciante, con una serie di Tondichtungen (letteralmente poemi sonori) che fra il 1889 e il 1899 riscuotono un grande successo di pubblico e che, all’epoca, rappresentano la quintessenza stessa della modernità. I titoli sanciscono l’idea di un legame ormai indissolubile fra musica e contenuto poetico-letterario: Don Juan, Macbeth, Morte e trasfigurazione (Tod und Verklärung), Till Eulenspiegel, Così parlò Zarathustra (Also sprach Zarathustra), Don Quixote, Una vita d’eroe (Ein Heldenleben).

    Ma al volgere del secolo la poderosa spinta creativa dello Strauss sinfonista segna il passo, sintomo di una svolta che, in pochi anni, lo avrebbe condotto a dedicarsi al teatro musicale, genere nel quale la sua avventura creativa giungerà al suo culmine. In realtà il compositore di Monaco ha già da tempo preso le distanze dal concetto di poema sinfonico nell’accezione neotedesca, approdando al convincimento che la musica, per quanto insopprimibilmente espressiva, non può illudersi di trarre dall’idea poetica la propria sostanza formale e non può quindi prescindere da un’organizzazione e da una tornitura specificamente musicale. Sul piano linguistico – terreno altrettanto controverso nell’acceso dibattito di quegli anni – Richard Strauss raccoglie e rilancia la sollecitazione wagneriana di una sintassi armonica la cui ragion d’essere è ormai lo sfruttamento sistematico del cromatismo, spingendo fino all’esasperazione tensioni tonali e scarti enarmonici che, mentre sforzano l’impianto tonale fino ai limiti del collasso, vengono risolti in una magistrale e irresistibile enfasi espressiva.

    La rinascita della sinfonia

    Quello del poema sinfonico e della musica a programma non è tuttavia un monopolio indiscusso. L’affievolirsi della fede lisztiana e wagneriana nella totale fusione di musica, poesia e dramma si accentua anche in virtù dell’influenza della corrente brahmsiana e delle numerose implicazioni legate al concetto di musica assoluta. A farsi strada, per il momento, non è tanto l’idea di musica intesa come pura forma astratta e superiore a ogni contenuto semantico (idea piuttosto in ribasso all’epoca), bensì la percezione, ampiamente intrisa di simbolismo, dell’ingenuità del concetto di musica a programma, la consapevolezza che le relazioni dei diversi linguaggi poetici fra loro – e di essi con il mondo materiale e spirituale – sono infinitamente più complesse e sfuggenti.

    Accanto ai numerosi poemi o schizzi sinfonici di matrice programmatica, gli ultimi decenni del secolo registrano la contemporanea vigorosa rinascita della sinfonia, data per defunta cinquant’anni prima e ora di nuovo autorevole protagonista, intrigata spesso con propositi poetico-narrativi di varia natura. Oltre a Brahms, vero nume tutelare delle forme classiche, a riscoprire le intatte potenzialità della sinfonia sono compositori come Pëtr Il’ič Tchaikovsky, Anton Bruckner, Antonín Dvořák, ai quali infine si aggiunge Gustav Mahler con le sue dieci poderose creazioni sinfoniche composte fra il 1884 e il 1910.

    Gustav Mahler

    Il tormentato ed esaltante percorso sinfonico di Mahler muove proprio dal rovello di come trasfondere in una forma musicale adeguata un’ispirazione poetica straripante, che disdegna ogni didascalicità della musica a programma, ma che non rinuncia a trasfigurare musicalmente l’urgenza della propria visionaria interiorità. La Prima sinfonia (1884-88) è paradigmatica di questa ricerca: nata come poema sinfonico, viene via via spogliata di ogni attributo programmatico, pur senza perdere una caratterizzazione fortemente allusiva, riassumibile nella lancinante ironia della celeberrima marcia funebre costruita sulla melodia del canone popolare medievale Fra’ Martino (Bruder Martin).

    L’ironia mischiata ora al sarcasmo ora a malinconici abbandoni; l’attrazione invincibile per le musiche di estrazione popolare a volte idealizzate a volte ferocemente caricaturizzate; l’altrettanto forte inclinazione a utilizzare stereotipi musicali di ogni genere (sia di infima estrazione, sia di ascendenza illustre) caricandoli di una forte intenzionalità espressiva o descrittiva; il gusto spiccato per i contrasti più improvvisi e brutali, spesso traumatizzanti dal punto di vista della forma classicamente intesa; l’introduzione abituale (nella seconda, terza, quarta e ottava sinfonia) di testi poetici, al punto da generare un’ideale convergenza fra il genere sinfonico e il Lied per orchestra, il genere che rappresenta l’altro grande versante della produzione mahleriana. Sono solo alcuni dei caratteri che, all’epoca, assicurano al sinfonismo mahleriano una notorietà tanto ampia quanto controversa e per certi aspetti famigerata. Proverbiali

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