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LA TEORIA CRITICA DELLA SOCIETÀ DA WEBER ALLA SCUOLA DI FRANCOFORTE

Siamo nel Novecento. Sia Weber che la scuola di Francoforte interpretano e criticano la società capitalistica
epoca di tecniche e riproduzioni. Il mondo si presenta a loro sotto il dominio della regione formale o
strumentale, ovvero non si pone il problema del fine dell’azione, ma è interessata soltanto ai mezzi per
raggiungere scopi prefissati dalla burocrazia e dall’economia.

MAX WEBER: (1864-1920)


Indaga i fenomeni socio-economici della modernità capitalistica. Il suo interesse è rivolto verso
la società e la politica per conoscere la realtà dell’occidente in forte transizione economica e
sociale e mettere a fuoco il metodo delle scienze storico-sociali che egli esprime in forma ampia
nel suo scritto postumo (1922): “Economia e società”.
Lui rivolge una critica a Marx poiché esso riduce la complessità del fenomeno sociale alla mera struttura
materiale non riconoscendo il fattore economico. Inoltre, a differenza di Marx, Weber non considera
negativamente il capitalismo ma ne individua possibilità e limiti, vantaggi e rischi.
Egli definisce lo statuto dottrinale e la metodologia delle scienze storico-sociali.
Per Weber la sociologia ha come oggetto i modi dell’agire individuale che si evolvono e si modificano nel
corso della storia, e le scienze storico-sociali non sono definite dall’oggetto, o dal metodo, quanto
dall’atteggiamento dello scienziato che deve essere avalutativo (neutrale), ovvero l’atteggiamento
neutrale da parte dello scienziato che deve astenersi da ogni personale giudizio di valore relativo
all’oggetto di indagine. Lo scienziato deve essere anche conscio del fatto che la realtà non esiste e che
ogni conoscenza è parziale, perché si sviluppa da un particolare punto di vista. per spiegare questo
procedimento, il filosofo, ricorre all’importante distinzione tra “giudizio di valore” e “relazione ai valori”.
Il primo è la presa di posizione valutativa (giudizio di approvazione o biasimo) del ricercatore nei
confronti della realtà che sta analizzando. La seconda costituisce il criterio con cui lo scienziato opera la
selezione dell’oggetto di indagine nell’ambito degli oggetti “storici”; lo studioso infatti isola quegli
oggetti che ritiene dotati di interesse scientifico.
Partendo da questi presupposti metodologici, Weber analizza il capitalismo nell’opera “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo” ribaltando la prospettiva marxista. Secondo il filosofo il
protestantesimo ha avuto un’importanza rilevante nella storia (secondo Marx, un fenomeno
“sovrastrutturale”) del capitalismo poiché nella convinzione protestante l’uomo può ottenere la salvezza
dimostrando a Dio le sue opere e le sue azioni (successo economico/realizzazione della vita
professionale) al fine di glorificare Dio. Secondo Weber, nel sistema capitalistico il valore della
produttività perde il suo risvolto religioso, infatti, il lavoro non è più incrementato in nome della
salvezza divina e il profitto diventa uno scopo in se stesso (“disincantamento”= razionalizzazione ed
intellettualizzazione dell’agire che ha portato alla non credenza nei miti e negli dei). In tale dimensione il
profitto e l’accumulo della ricchezza diventano doveri fine a se stessi e, dunque, meccanismi che
imprigionano e incatenano l’uomo, il quale è ridotto a mero strumento della produttività (“gabbia
d’acciaio”)
Nel mondo capitalistico regnano la ragione strumentale e il principio secondo cui l’azione deve essere
finalizzata esclusivamente al lavoro. A tale logica “calcolante” corrisponde un particolare atteggiamento
etico che Weber individua come “etica della responsabilità”: in base a essa l’agire è valutato in relazione
alle conseguenze pratihe che ne derivano e ai mezzi necessari per promuoverle (tipico dei calvinisti). Nei
paesi protestanti vige una concezione del dovere professionale come obbligo morale. Il capitalista
quindi, non soltanto non deve porsi l’interrogativo sul senso della sua frenetica attività, ma non deve
neppure sprecare le sue ricchezze in cose futili poiché esse vanno reinvestite al fine di intensificare la
produzione e il lavoro.
All’etica della responsabilità si contrappone l’ “etica dell’intenzione”, questa comporta che l’azione sia
valutata in relazione alle convinzioni e alle intuizioni di chi la compie, senza preoccuparsi dei mezzi e
delle conseguenze connessi alla sua realizzazione (tipico dei cattolici perché per il fedele cattolico ciò
che conta è adempiere coscienziosamente ai doveri religiosi tradizionali). Dunque, la singola azione è
buona o cattiva a seconda delle intenzioni che ne sono alla base. Inoltre, se un cattolico sbaglia la chiesa
gli permette di riscattarsi attraverso la penitenza somministrata dalla chiesa, nel calvinismo, invece, non
sono ammessi errori poiché Dio non può intervenire.
SCUOLA DI FRANCOFORTE
Marx e Weber furono gli ispiratori di questa scuola, fondata nel 1922 a Francoforte da un gruppo di
intellettuali marxisti indipendenti (non appartenenti ad alcun partito politico) che si impegnarono
nell’elaborazione di una “teoria critica della società”. Nel 1931 assume la direzione il filosofo Max
Horkheimer. Facevano parte della scuola gli economisti Pollock e Grossmann, il sociologo
Wittfogel, i filosofi Adorno, Marcuse e Benjamin. La scuola aveva un carattere interdisciplinare che
spazia dall’arte alla letteratura, dalla sociologia al diritto, dall’economia ai mass media e alla
filosofia.
Con l’arrivo di Hitler la scuola viene chiusa con l’accusa di aver promosso attività contro lo Stato, i
membri della scuola emigrarono. Nonostante ciò l’istituto continua a concentrarsi sui temi
dell’oppressione e dell’autoritarismo. I temi principali di cui trattano sono le tragedie della prima
metà del novecento (regimi totalitari, seconda guerra mondiale, campi di sterminio) e l’espansione
della società dei consumi e delle comunicazioni di massa visti come fenomeni nuovi che richiedono
diverse categorie interpretative. L’obbiettivo principale è quello di aggiornare gli strumenti teorici
con cui analizzare la nuova realtà sociale, economica e culturale. Essi utilizzano il metodo della
dialettica ( in contrapposizione con il metodo delle scienze naturali o positive che vengono criticate
per la loro visione statica della realtà) per l’indagine sociale, adattata, però, alla realtà
contemporanea.

MAX HORKHEIMER (1895-1973)


Il pensiero del filosofo non si scosta tanto della scuola francofortese, però, nel proseguire
l’analisi sulla realtà contemporanea esso si distacca dal pensiero “classico” marxista. Se
secondo Marx era la società e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo a causare l’alienazione,
secondo Horkheimer la scienza non solo non è neutrale ma è una forma di dominio, poiché
oggettiva e reifica (ossia riduce a “cosa”) tutto ciò che analizza. In questo modo la scienza e
la tecnica si trasformano in terribili fattori di repressione, questo concetto è esposto
nell’opera “Dialettica dell’illuminismo” scritta da Horkheimer e Adorno nel 1947. In essa si
giudica l’intera civiltà occidentale come una storia di regresso e di imbarbarimento. I due
filosofi chiamano “illuminismo” quella mentalità operativa e pratica che ha portato l’uomo
a confidare nella religione e nella sua capacità di ottenere il controllo della realtà. Secondo
il loro punto di vista l’illuminismo (quindi l’intera civiltà occidentale) ha messo in campo
una paradossale forma di autodistruzione, traducendosi in un progressivo dominio
dell’uomo su se stesso e su altri uomini, ciò ha aumentato l’infelicità dell’uomo. L’uomo
industriale, infatti, è arrivato a imprigionare anche se stesso imponendosi un’etica del
guadagno e del profitto. Secondo Horkheimer e Adorno il mito di Ulisse (un capitolo della
dialettica dell’illuminismo) costituisce uno dei primi documenti rappresentativi della civiltà
borghese occidentale ed è metafora della sua logica di repressione. Sia Ulisse sia i Marinai
sono tenuti a reprimere il loro impulso al piacere e a proseguire incrollabili sulla strada del
dovere. Nello scritto “La nostalgia del totalmente Altro” Horkheimer riconosce che Marx si
è illuso, poiché la realtà storica ha dimostrato che l’umanità sta procedendo verso un
mondo oppresso dalla tecnica e dalla rigida organizzazione burocratica e sociale. Anche i
concetti di Giustizia e libertà sono dialettici, infatti, quanta più giustizia si pretende, tanto
meno libertà si avrà; quanta più libertà si ricerca, tanto meno giustizia ci sarà. L’ultima fase
del pensiero di Horkheimer è caratterizzata anche da un’apertura al discorso teologico, in
cui Dio non è concepito come una certezza, ma come un anelito verso cui tenedere.
THEODOR ADORNO (1903-1969)
Personalità poliedrica dai vasti interessi culturali. Da giovane studiò musica dodecafonica
conoscendo Schönberg. Completò la sua formazione con gli studi filosofici in particolare
Kant e Hegel, si interessa anche ad arte, di critica letteraria, di sociologia e di storia delle
civiltà. Nelle sue opere lo stile sobrio, inoltre, non compone nessuna opera a carattere
“sistematico” preferendo il saggio breve, l’aforisma, l’articolo. Il presente appare ad
Adorno come un mondo in frantumi, in cui l’antica armonia (classicità greca) è andata
distrutta in modo irreversibile. Tra le opere più significanti si ricorda “Minima moralia”, una
raccolta di 153 aforismi che fornisce una riflessione sulla condizione umana nel “mondo
amministrato”, ovvero, la società industriale avanzata in cui ogni aspetto della vita è
pianificato e controllato.
Nel suo scritto più impegnativo, “Dialettica negativa” del 1966, in cui cerca di smascherare
i limiti della ragione scientifica, intesa come forma di dominio e di assoggettamento
dell’uomo. Da qui ne delinea una via d’uscita dalla condizione di oppressione, attraverso la
proposta di un pensiero dialettico “negativo” che cerca di mostrare e mantenere le
contraddizioni in tutta la loro cruda e viva differenza. Le pagine sono state scritte a seguito
della scoperta del campo di Auschwitz e dei campi di sterminio nazisti. La dialettica
“negativa” implica la consapevolezza dell’altro, perciò la realtà non è come le “anime belle”
vorrebbero, ma è attraversata dal male. È compito dei filosofi esprimere il negativo e
mantenere la porta del reale aperta alla differenza. Purtroppo il filosofo non dispone di un
disegno coerente e unico, ma solo di brandelli di verità. Tuttavia, proprio perché il filosofo
sa uscire dalla “negazione della negazione” ed è sempre insoddisfatto del presente in
quanto dotato di pensiero critico, può sperare di lanciare segnali agli uomini.
Adorno si dedicò anche alla critica dell’ “industria culturale” , essa ha influenzato sempre
più gli individui attraverso i mezzi di comunicazione di massa considerati gli strumenti
privilegiati, utilizzati dal sistema, per manipolare le coscienze e perseguire l’integrazione
sociale dell’individuo. Un rimedio contro l’ideologia di questo modello oppressivo e
conformistico viene dall’arte, che offre una possibilità di sfuggire ai meccanismi del mondo
amministrato e denunciarne la crudele inumanità. Adorno si riferisce in particolare a tutti
quei movimenti d’avanguardia che, nel loro linguaggio innovativo ed enigmatico, mettono
in discussione i canoni estetici per denunciare la “negatività disarmonica del mondo” e dare
voce all’uomo frustrato e asservito della società moderna.

HERBERT MARCUSE (1898-1979)


Fece parte della scuola di Francoforte e fu uno dei riferimenti intellettuali più significativi
della rivolta giovanile del 1968. Il suo principale scritto era “Eros e civiltà” dove, analizzando
Marx e Freud, afferma che la civiltà si è sviluppata attraverso la frustrazione delle passioni e
degli istinti; infatti secondo Marcuse nella civiltà industriale si registra un eccesso di
repressione (“repressione addizionale”) che ha ridotto l’uomo ad un “essere per la
produzione” cioè l’impiego di tute le energie psicofisiche nel lavoro anziché nel piacere.
Questo ha portato alla riduzione della sessualità a puro fatto procreativo, processo
chiamato “auto-repressione da parte dell’individuo represso” (Prometeo).
Marcuse teorizza tre vie di uscita da questa repressione:
1. L’arte vista come creatività non alienata, espressa dalla figura di Orfeo simbolo della musica e
della poesia. L’arte ha una funzione salvifica che da la speranza all’uomo di ribellarsi al lavoro e
la fatica.
2. Eros: visto come energia libidica originaria. Secondo Marcuse la società ha perso l’erotismo e la
sessualità è ridotta a pura giustificazione materiale, ovvero la forza dirompente e sovversiva
che si contrappone all’ordine costituito. L’Eros è la forza che da la possibilità agli uomini di
contrapporsi all’omologazione.
3. La rivoluzione degli sfruttati che devono compiere il “grande rifiuto”, cioè incarnare la forza
dirompente che può abbattere il sistema capitalistico; tutto ciò è un’utopia che però il filosofo
ritiene necessaria per un futuro migliore.

WALTER BEJAMIN (1892-1940)


Fu vicino alle posizioni della scuola di Francoforte con cui condivide la critica alla società
soffocante e alienante del capitalismo e il rifiuto del pensiero come ricerca di una verità
totalizzante. Per il filosofo, infatti, la filosofia deve denunciare le contraddizioni del
presente e rivelare il bisogno di felicità e di emancipazione dell’uomo. Sulla base di questo,
Benjamin, ritiene che non ci sia spazio/bisogno per dottrine consolatorie o riformiste.
Dall’insieme delle sue riflessioni emerge una visione tragica dell’esistenza, dove l’unica
speranza per sfuggire a questa tragicità è una possibile “rottura” nel corso della storia (un
salto); tutto ciò crea un evento che però non ha garanzie né carattere necessitante. Questa
salvezza risiede in un passato di “rovine su rovine”, sbagli su sbagli, la cui visione
drammatica stimola l’uomo verso un futuro migliore.
l’aspetto definitivamente tragico di questo pensiero è l’assenza di prevedibilità e di oggettività del
percorso verso la salvezza.
Benjamin fece anche diversi studi sul fenomeno artistico convinto del suo valore critico nei
confronti della realtà di cui parla nel saggio intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica”. In esso il filosofo svela l’origine umana dell’arte, a suo avviso caratterizzato
da un doppio valore convergente:
L’aura di grandezza e il valore commerciale: in passato l’arte non era riproducibile, perciò era
circondata da un alone di sacralità che lo trasformava in un bene dal valore economico elevato e
quindi non accessibile a tutti. Con l’avvento della tecnologia, le masse possono accedere molto più
facilmente all’arte e al tempo stesso permette a tutti di divenire sia spettatori che autori.
Quello che Benjamin vuole mettere in evidenza è il superamento di una concezione classista e
borghese dell’arte.
Per lui la riproducibilità amplifica il valore espositivo del prodotto artistico, attivandone una valenza
nuova, quella politica, inoltre fa si che l’uomo possa contestare l’ordine esistente (capitalismo).
Solo distruggendo quest’ordine si può arrivare alla felicità

HANNAH ARENDT (1906-1975)


Giunge ad elaborare una forte analisi del totalitarismo ed una visione democratica e
partecipativa della politica modellata su quella della “pòlis” greca.
Lei comincia a spiegare il totalitarismo attraverso una delle sue opere più importanti “Le origini del
totalitarismo”, qui la Arendt analizza le cause e il funzionamento dei regimi totalitari, visti come
una conseguenza tragica dei regimi totalitari dell’avvento della società di massa, dove gli uomini
sono isolati, sradicati da ogni relazione intersoggettiva.
La filosofa nella sua opera articola la sua attenzione principalmente su due aspetti:
1. Quello storico-politico dove analizza i caratteri salienti della storia europea moderna
contemporanea
2. Quello filosofico-politico dove elabora uno schema generale del regime totalitario con
riferimenti al nazismo e allo stalinismo.
Il libro, fondamentalmente, si divide in tre parti:
- La prima studia il fenomeno dell’antisemitismo (considerato come una delle premesse del
totalitarismo).
- La seconda affronta il tema dell’imperialismo nel periodo dalla fine del 1800 fino allo scoppio
della grande guerra. Le conseguenze dell’antisemitismo associate alla crisi dell’imperialismo
sono , secondo Arendt, le cause dalla quale si è scaturito il totalitarismo in Germania e
nell’Unione Sovietica.
- La terza analizza proprio i caratteri del totalitarismo nella società di massa che instaura il suo
potere attraverso il binomio ideologia-terrore.

Con questo termine la Arendt indica l’essenza perversa del totalitarismo. Il terrore è esercitato
sia attraverso la polizia segreta, che controlla la società e la persona umana fin nella sua
intimità, sia attraverso i campi di concentramento. (lettura pagina 303, tomo B)
Il totalitarismo distrugge l’uomo nello spirito rendendolo un essere superfluo e senza nome e lo
fa attraverso l’ideologia. L’ideologia totalitaria ha quindi la pretesa di fornire una spiegazione
totale della storia, ovvero conoscerne a priori ogni aspetto senza bisogno di confrontarsi con i
fatti concreti. Essa infatti capovolge le norme della logica e impone una verità assiomatica,
assoluta (un “supersenso”), da cui vengono dedotte conseguenze terribili e disumane, ma
perfettamente coerenti con le premesse.
(lettura T138 pagina 304, tomo B).

L’ORGANIZZAZIONE DEI REGIMI TOTALITARI:


Dal punto di vista organizzativo gli strumenti del partito unico e della polizia segreta sono
controllati dal capo supremo  “la volontà del capo è l’unica legge del partito” o come dicevano i
nazisti “volontà del Führer”.
Il regime totalitario deve la sua esistenza alla distruzione della vita politica democratica ed alla
diffusione della paura e del sospetto tra individui. Esso annienta anche la vita privata delle persone,
tagliando ogni radice e rendendole reciprocamente nemiche; questo rappresenta la più atroce
novità del moderno totalitarismo.
Hannah per spiegare il totalitarismo, fa capo ad una metafisica del totalitarismo, in quanto del
totalitarismo novecentesco è in gioco la natura umana in quanto tale.
Per questo l’autrice parla di “male radicale”, un male assoluto, imperdonabile. Esso è un male
radicale perché esprime la volontà di costruire una nuova natura dell’uomo privata di ogni aspetto
umano e personale dove tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui. i campi di sterminio,
infatti, nella loro mostruosa realtà hanno reso i singoli esseri umani esemplari intercambiabili della
specie, strumenti di un infernale meccanismo socio-politico.

“LA BANALITÀ DEL MALE”:


Il male dei campi di sterminio però appare all’autrice “banale” (come spiegherà nel suo libro del
1962 “La banalità del male”).
Arendt si convince che le ragioni profonde dei crimini nazisti dipendono non tanto dalla cattiveria
di alcune persone, ma dall’assenza di pensiero in uomini del tutto normali, che però se inseriti in
una macchina infernale come l’organizzazione nazista si rendono complici di atrocità disumane.
Queste riflessioni hanno suscitato una forte critica dal mondo ebreo, in quanto l’autrice è anch’essa
ebrea, emancipata, laica e libera da ogni preconcetto.
Tutto ciò è visto come un paradosso e una contraddizione apparenti: un male estremo come quello
dei regimi totalitari del ‘900 non può essere concepito solo come il progetto di persone malvagie.
Esso deve contare sul supporto e culla collaborazione di una grande parte della società; questa
<<zona grigia>> è composta da uomini che non rappresentano particolari patologie, ma risultano
semplicemente allineati agli ordini superiori, se poi questi ordini implicano uccidere un uomo, un
nemico di guerra, per loro non costituirà una sostanziale differenza. L’obbedienza è invocata per
giustificare i delitti come se si trattasse di un imperativo categorico. Si può quindi concludere che
l’assenza di pensiero è ciò che appare a Arendt l’emblema della banalità del male.
“VITA ACTIVA LA CONDIZIONE UMANA”.
Nell’opera del 1958 “Vita activa. La condizione umana.” Hannah Arendt discute del problema
dell’agire, inteso come azione comune basata sul discorso e sul dialogo tra le persone.
L’oggetto dell’opera è la vita attiva (sfera pratica) distinta dalla vita contemplativa (sfera spirituale,
vita della mente) che costituiscono i due momenti fondamentali della vita umana.
La vita attiva, cioè l’agire umano si articola in tre forme fondamentali:
1. L’attività lavorativa (animal laborans)
2. L’operare (homo faber)
3. L’agire (zoon politikòn)
La prima forma rende l’uomo animal laborans ovvero colui che provvede al mantenimento della propria
vita senza che ciò comporti la produzione di oggetti duraturi nel tempo: il lavoro si identifica con l’energia
che si sprigiona e si consuma per provvedere alle esigenze fondamentali dell’esistenza. È però un’attività
senza fine che dura finché dura la vita stessa.
La seconda forma è l’operare “l’opera delle nostre mani, distinta dal lavoro del nostro corpo”. Corrisponde
invece alla dimensione non naturale dell’esistenza umana, e il suo frutto è un mondo artificiale do cose,
distinto dall’ambiente naturale. Entro questo mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato
stesso dell’operare sta nel superare e trascendere tali limiti.
L’ultima è la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali,
corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini e non l’Uomo vivono sulla terra e
abitano il mondo. Questa pluralità è specificamente la condizione di ogni vita politica.

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