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Introduzione

Il film Looking for Richard di Al Pacino (Riccardo III – un uomo un re,


USA 1996) occupa un posto particolare tra gli adattamenti di Shakespeare a
cinema. In forma di semi-documentario, il film pone in maniera esplicita il
problema del rapporto tra Shakespeare ed il pubblico moderno, si preoccupa
della ricezione della sua opera e ha come ragione di fondo la comunicazione
con le persone. Richard III è stato il dramma scelto da Pacino per questo
progetto.
È Al Pacino ad usare l’espressione “comunicare Shakespeare” all’inizio del
suo film, ma anche gli altri due registi che hanno filmato il Richard III,
ovvero Laurence Olivier nel 1955 e Richard Loncraine nel 1995, si sono
proposti di far conoscere Shakespeare al più vasto pubblico possibile,
seguendo percorsi completamente diversi.
In questo studio analizzeremo in che modo sia stato adattato il Richard III
nella pratica, quali strategie siano state impiegate dai tre registi, e ci
chiederemo se i film raggiungano davvero i risultati che si prefiggono.
Il Capitolo I tratterà del Richard III in sé, dei drammi storici e del teatro
elisabettiano. Si vedrà come un fine didattico, benché leggermente differente
da come è inteso oggi, fosse già presente nell’originale. Nel Capitolo II si
analizzerà il film di Olivier e si vedrà come questo regista abbia trasformato
in immagini cinematografiche gli elementi rituali e metateatrali del Richard
III. Questo film inoltre ha proposto alcune soluzioni che sono state
conservate negli altri due adattamenti. Nel Capitolo III si parlerà del film di
Loncraine, che ha trasposto l’opera negli anni ’30 del ‘900 per aumentarne
l’intelligibilità e ha puntato sul ritmo e sulla velocità per catturare lo
spettatore moderno. Infine il Capitolo IV si occuperà di Looking for Richard
6

di Pacino, del suo utilizzo scolastico, dei rapporti tra l’America e


Shakespeare e delle appropriazioni post-coloniali.
Pacino, Loncraine e Olivier non sono peraltro gli unici registi che si siano
proposti di “comunicare Shakespeare” grazie al cinema. In realtà questa
intenzione è condivisa da quasi tutti quelli che si sono confrontati con il
drammaturgo inglese. Parlando dei suoi film, Franco Zeffirelli affermava
negli anni ‘60: “Io voglio servire il pubblico, non ho nessuna vergogna a
dirlo. Mi piace che il mio lavoro sia capito dal gran pubblico, che lo
raggiunga totalmente, senza per questo perdere la mia dignità o avvilire il
valore delle intenzioni. Trovo che la grande arte deve essere compresa da
tutti e non solo da un pubblico specializzato, io detesto i lavori per un’élite.
Tanto più che oggi l’uditorio è molto interessato. Spesso il gran pubblico ha
una specie di deferenza glaciale per i classici, si lascia intimidire. Mi sono
allora messo in testa di rendere più cordiali e vivi i rapporti tra la grande
eredità classica e il pubblico di oggi, così materialista e viziato”1. E Kenneth
Branagh, che in un decennio ha diretto cinque film shakespeariani2, ha
dichiarato all’uscita del suo Henry V: “Vorrei che un’intera nuova
generazione di sedicenni e diciottenni come mia sorella, per esempio,
convinta che Shakespeare sia noioso, possa accostarglisi in modo diverso.
Shakespeare non è una medicina da inghiottire, come molti europei pensano,
e non deve essere guardato con timore reverenziale. Nella nostra compagnia
teatrale, e anche in questo film, cerchiamo di dire che crediamo nella
contemporaneità di Shakespeare”3.
Tra gli elementi che attirano il pubblico c’è sicuramente il richiamo degli

1
In Toffetti, Sergio e Vaccino, Roberto (a cura di), Shakespeare e il cinema, Torino, Assessorato
per la Cultura della città di Torino 1979, p. 46. Zeffirelli ha diretto La Bisbetica domata
(USA/Italia 1966), Romeo e Giulietta (Italia/GB 1968) e Hamlet (USA 1990).
2
Henry V (Enrico V, GB 1989), Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla, GB/USA
1993), In the bleak midwinter (Nel bel mezzo di un gelido inverno, GB 1995), Hamlet (id.,
USA/GB 1996), Love’s Labour’s Lost (Pene d’amor perdute, USA/GB 1999); ha poi interpretato
Iago in Othello di Oliver Parker (id., GB 1995).
3
Ferlazzo-Natoli, Lisa (a cura di), Kenneth Branagh, Roma, Dino Audino 1994, p. 15. Riportato in
Imperiali, Isabella (a cura di), Shakespeare al cinema, Roma, Bulzoni Editore 2000, p. 31.
7

attori. A suo tempo Zeffirelli aveva scelto Elizabeth Taylor e Richard


Burton come protagonisti della sua Bisbetica domata. Oggi Leonardo
DiCaprio è Romeo in William Shakespeare’s Romeo + Juliet di Baz
Luhrmann (Romeo + Giulietta di William Shakespeare, USA 1996),
Michelle Pfeiffer è Titania in Midsummer Night’s Dream di Michael
Hoffman (Sogno di una notte di mezz’estate, USA 1999), Anthony Hopkins
è il protagonista di Titus di Julie Taymor (id., USA 1999), e Branagh affolla
il suo Hamlet di cammei di volti notissimi.

Le opere di Shakespeare hanno tenuto a battesimo la nascita del cinema: il


primo film shakespeariano, tratto dal King John, con Herbert Beerbohm
Tree, è del 1899, appena tre anni dopo l’invenzione dei fratelli Lumière, e
gli anni del muto sono fitti di trasposizioni. Mentre i film si succedevano, la
critica era scettica sul fatto che il cinema, questo teatro dei poveri, fosse
degno di accostarsi al grande drammaturgo. Il primo critico a scriverne
favorevolmente è stato l’inglese Allardyce Niccoll, che in Film and Theatre
(London 1936) ha evidenziato la vicinanza tra lo spettatore cinematografico
ed il pubblico del teatro elisabettiano, i quali partecipano ad un’esperienza
comune4. Attraverso gli sforzi della critica e la rilevanza di film rigorosi ed
autorevoli come quelli realizzati da Laurence Olivier e Orson Welles tra gli
anni ’40 e ’60, i film tratti da Shakespeare acquistano diritto di esistere e
sono oggetto di una sempre più cospicua letteratura critica. Jan Kott,
conquistato dai risultati di Olivier, scrisse: “La nascita della tragedia
elisabettiana fu un avvenimento molto simile alla nascita del cinema […] I
grandi elisabettiani fanno spesso venire in mente i moderni produttori
cinematografici, sempre alla ricerca di un soggetto di sicuro successo […]
Un grande film è fatto di soli momenti di tensione. Come in Shakespeare”.
Il cinema ha saputo esprimere qualità del testo rimaste prima invisibili:

4
Vedi Davies, Anthony e Wells, Stanley (a cura di), Shakespeare and the Moving Image. The
Plays on Film and Television, Cambridge, Cambridge University Press 1994, p. 2.
8

“Anche il teatro elisabettiano si compone di inquadrature e sequenze; gli


shakespearologi lo sapevano da tempo, e lo sanno anche certi registi
moderni. Ma sono stati soltanto i film di Olivier a mostrare la fluidità,
l’omogeneità e la rapidità dell’azione shakespeariana”5.
La ricerca critica si è moltiplicata negli anni ’90 grazie al massiccio arrivo di
nuovi film e riferimenti ai film sono presenti in molti saggi di critica
letteraria. Si è riconosciuto che proprio grazie al cinema, la radio e la
televisione Shakespeare è arrivato a contatto con un pubblico
precedentemente impensabile, divenendo patrimonio mondiale anziché di
pochi privilegiati: “These media have become the most practical means of
making Shakespeare’s plays in performance a world heritage rather than a
national one passed on through educational systems”6. Le nuove generazioni
lo conosceranno sempre più tramite il cinema che non a teatro: “Most
Shakespearean films merit detailed and serious consideration because they
are part of the twentieth century’s response to Shakespeare, and because
many people all over the world have derived – and continue to derive – their
most vivid impression of Shakespeare’s dramatic stature from them”7.
Non solo i film sono la risposta del ‘900 a Shakespeare, ma per Agostino
Lombardo è solo in questo secolo che si è arrivati a comprendere
pienamente le sue opere, grazie ai moderni metodi d’indagine critica e alle
vicinanze tra le culture, nate come risposta ad un momento di crisi8. La
diffusione di Shakespeare nel nostro secolo è stata enorme, ed egli è
sicuramente l’autore letterario più famoso e conosciuto del mondo. Dopo
un’approvazione prudente nel ‘7009, nel corso dell’800 Shakespeare è
entrato nella triade dei massimi geni di tutti i tempi: Omero, Dante,

5
Kott, Jan, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli 2002 (1961), pp. 240-241 (trad.
it. di Vera Petrelli).
6
Davies-Wells (a cura di), Shakespeare and the Moving Image, cit., p. 1.
7
Davies, Anthony, Filming Shakespeare’s Plays. The adaptations of Laurence Olivier, Orson
Welles, Peter Brook and Akira Kurosawa, Cambridge, Cambridge University Press 1988, p. 186.
8
Vedi Agostino Lombardo, Shakespeare e il Novecento, in Lombardo, Agostino (a cura di),
Shakespeare e il Novecento, Roma, Bulzoni Editore 2002, pp. 13-28.
9
Vedi il giudizio che ne dà Voltaire in Lettres philosophiques (1734), lettera 18.
9

Shakespeare sono gli autori fondamentali per la concezione del genio che ha
il Romanticismo. Questa consacrazione è continuata per tutto il ‘900,
quando, peraltro, la conoscenza di quest’autore è divenuta sempre più sottile
e sfaccettata. Sono state ribadite l’origine e l’appartenenza al teatro delle sue
opere, e si è prestata attenzione alle differenze tra uno Shakespeare recitato e
uno Shakespeare letto. Centinaia di nuovi studi aggiungono ogni anno
qualche dettaglio alla nostra comprensione. Indubbiamente, i film hanno
contribuito profondamente alla sua penetrazione nella cultura
contemporanea e continueranno a farlo in futuro. La sua presenza è così
imponente che, allo stato attuale delle cose, ci si deve preoccupare,
eventualmente, della salvaguardia di altri autori, ma certo non di
Shakespeare.

Gli adattamenti cinematografici di un testo letterario o teatrale sono,


insieme, creativi e derivativi: partono dalla fonte e realizzano un’opera
nuova, diversa. “In evolving his spatial strategy for a Shakespearean film, a
film maker might derive his ideas from the dramatic and poetic images of
the play, or he might create new and original cinematic images. An effective
Shakespearean film is both derivative and creative”10. Adattare i lavori
teatrali allo schermo comporta perdite e guadagni. Essendo dei copioni,
hanno già dialoghi scritti e pronti per essere usati nella sceneggiatura
cinematografica. Hanno già dei tempi circoscritti. Nella maggioranza dei
casi, ciò impedisce che siano aggiunti dei brani (che potrebbero magari
essere utili per la comprensione o per la creazione di nessi) e che il testo sia
fortemente manipolato. Nella trasposizione di un romanzo, è invece normale
che lo sceneggiatore cinematografico modifichi il dialogo presente nel libro
o che ne aggiunga altro se necessario.
Il dramma subisce sempre, comunque, un adattamento che ne dà una nuova
interpretazione. Le opere sono tagliate e ricucite, sia per renderle più brevi
10
A. Davies, Filming Shakespeare’s plays, cit., p. 185.
10

(un Richard III integrale durerebbe circa quattro ore), sia per mettere in
evidenza quello che preme al regista. Dietro ogni film, c’è uno
sceneggiatore che riscrive il dramma e c’è un addetto al montaggio che alla
fine può modificare ulteriormente la sceneggiatura con le sue sforbiciate.
D’altronde non siamo affatto certi che i drammi di Shakespeare siano mai
stati rappresentati nella forma in cui appaiono oggi nelle edizioni critiche,
poiché essi subivano ogni volta dei nuovi interventi in relazione al pubblico
e agli attori.
Nei primi anni del secolo si pensava che il cinema fosse solo “teatro
filmato”. Col proseguire del tempo si sono individuate differenze,
somiglianze e rotture tra le due forme artistiche. La differenza fondamentale
consiste nel fatto che il teatro è basato soprattutto sulla parola, il cinema
sull’immagine in movimento. Lo spazio del teatro è bidimensionale, il
cinema simula la tridimensionalità. Il regista di un film shakespeariano si
deve confrontare con questi ed altri problemi e deve saper “tradurre” il
linguaggio teatrale in quello cinematografico, scegliendo le inquadrature, il
tipo di montaggio e così via11. Cambia anche la recitazione degli attori,
perché la cinepresa predilige gesti più misurati e poco enfatici.

La figura di Riccardo III, l’ultimo dei Plantageneti, l’ultimo re inglese a


morire in battaglia, ha sempre affascinato storici ed autori letterari, ed è
molto più nota di quanto si pensi. È stato il mistero della scomparsa dei
principi nella Torre, i suoi nipoti eredi al trono, a generare tanto interesse.
Mentre Riccardo era ancora in vita, iniziarono a girare voci che gliene
attribuivano l’omicidio. Un primo corpus di ballate, canzoni e
rappresentazioni popolari fiorì negli anni successivi12, e la storiografia

11
Per un’introduzione alle problematiche delle relazioni tra teatro e cinema vedi Grande, Maurizio,
Montaggio dello sguardo e della visione, in Quaresima, Leonardo (a cura di), Il cinema e la altre
arti, Venezia, La Biennale di Venezia/Marsilio 1996, pp. 135-143, e Deriu, Fabrizio, Lo schermo e
la scena, Venezia, Marsilio 1999.
12
Vedi a riguardo l’ancora fondamentale Churchill, George B., Richard the Third referred to
Shakespeare, Palaestra X, Berlin, Mayer und Muller 1900.
11

Tudor dipinse il duca di Gloucester come un mostro gobbo e deforme,


colpevole di numerosi delitti. La figura del wicked uncle (zio cattivo) si è
trasformata in mito con The History of Richard III di Thomas More (1513).
More ha creato il personaggio di Riccardo che la tragedia di Shakespeare ha
ripreso e consacrato: un cattivo arguto, dotato di senso dell’umorismo e
consapevole delle proprie macchinazioni, modello per Iago e seguaci.
Shakespeare lo ha lanciato nell’Olimpo dei grandi cattivi di tutti i tempi: in
questo senso è citato, per esempio, nelle pagine finali del Candide di
Voltaire.
La distanza tra il personaggio storico e l’invenzione shakespeariana è stata
presto rilevata13. Gli storici George Buck, con The History of King Richard
III (1619), e Horace Walpole, con Historic Doubts (1768), hanno gettato le
basi per quella che sarà la “tesi revisionista” su Riccardo III, scagionandolo
dai suoi famigerati crimini e puntando l’attenzione sulle sue qualità di
amministratore e di legislatore. I sostenitori di questa tesi sono aumentati nel
corso dell’800 e hanno fondato, nel 1924, la “Richard III Society”, con sede
a Londra, ora capillarmente diffusa in America e presente anche in altri
paesi. La Society si prefigge di difendere l’immagine del re e di espandere la
conoscenza della sua figura storica e dei tempi in cui è vissuto.
Nei secoli sono innumerevoli le opere di fiction in cui appare la figura di
Riccardo III: tra le tante, la più famosa è forse The Black Arrow (La freccia
nera, 1888) di Robert Louis Stevenson, in cui il giovane condottiero
Riccardo aiuta il protagonista Dick Shelton durante la guerra delle Due
Rose. Nei paesi di lingua inglese sono molto diffuse biografie romanzate di
Riccardo e di altri personaggi dei suoi tempi14. Alcuni di questi libri sono
diventati veri e propri best-seller, tra cui The Daughter of Time (1951) di

13
Nel 1979 l’Università de L’Aquila organizzò un seminario su questo tema. Vedi Potter, Jeremy,
Good King Richard? An account of Richard III and his reputation, London, Constable 1983, p.
244.
14
Vedi la sezione Ricardian Fiction: Trash and Treasures di Roxane C. Murph sul sito
www.r3.org/fiction/roses/murph.html.
12

Josephine Tey, costantemente ristampato, che racconta in forma di giallo le


ricerche compiute da un poliziotto per dimostrare l’innocenza di Riccardo.
Lo stesso Laurence Olivier dichiarò di averlo letto15. In un buffo libro per
bambini, Raging Robots & Unruly Uncles di Margaret Mahy, un padre
vuole spronare i figli recalcitranti ad imitare i grandi cattivi del passato:
“Immaginate se Ivan il Terribile o Riccardo III avessero rinunciato, per noia,
ai loro Cattivi Propositi. Nessun Malvagio! Non ci sarebbe stato nessun
Malvagio! Soltanto eroi! È questo che volete, eh? Niente oscurità, solo luce!
Nessun contrasto, nessun contrasto! Questo sì che è noioso!”. Ed il piccolo
Gengis, già dotato di coscienza critica, replica: “A dire il vero, papà, non è
sicuro che Riccardo III fosse davvero così cattivo. Vedi, i libri di storia di
quell’epoca furono scritti dai suoi nemici, quindi, naturalmente...”16.
La diffusione e la fortuna del Richard III di Shakespeare sono state enormi e
non hanno bisogno di delucidazioni. La tragedia sul gobbo duca è costellata
di versi divenuti proverbiali, a cominciare dall’abusato “A horse! A horse!
My kingdom for a horse!” (V.iv.7), e la si può trovare citata ovunque. John
Steinbeck ha ripreso il primo verso del Richard III nel titolo del suo The
Winter of Our Discontent (1961) e Javier Marías ha intitolato un suo
romanzo Mañana en la batalla piensa en mí17. Per restare nell’ambito del
cinema, all’inizio di Raging Bull (Toro scatenato di Martin Scorsese, USA
1980), Robert De Niro/Jack La Motta recita davanti allo specchio il
monologo dell’inverno del nostro scontento per dimostrare di saper fare
l’attore. In Theatre of blood (Oscar insanguinato di Douglas Hickox, GB
1973) un attore (Vincent Price) sperimenta sui critici a lui ostili vari
assassini shakespeariani, tra cui, naturalmente, uno tratto dal Richard III.

15
In un’intervista raccolta da Jinx Falkenberg il 3-12-1955 per il programma radiofonico “Tex &
Jinx”, sul sito www.r3.org/onstage/friend2.html.
16
La strana guerra dei fratelli J., Milano, Mondadori 1991 (ed. or. 1981), pp. 4 e 6 (traduzione di
Cecilia Veronese).
17
Domani nella battaglia pensa a me, Torino, Einaudi 1998 (ed. or. 1994), tradotto da Glauco
Felici. Il verso (V.iii.135 e 163) è ripetuto dai fantasmi che maledicono Riccardo la notte prima di
Bosworth Field.
13

Una delle gag più riuscite di In the bleak midwinter di Kenneth Branagh è
quella in cui un aspirante attore non riesce a non ingobbirsi ridicolmente per
interpretare Riccardo durante un provino. “A horse! A horse! My kingdom
for a horse!” esclama James Mason/Norman Maine in A Star Is Born (È
nata una stella di George Cukor, USA 1954) e in Being John Malkovich
(Essere John Malkovich di Spike Jonze, USA 1999) il protagonista è
interrotto da una visita mentre recita “Was ever woman in this humour
woo’d? was ever woman in this humour won?” (I.ii.232-233). In Sin
noticias de Dios (Nessuna notizia da Dio di Agustin Diaz Yanez, Spagna
2001) “Now is the winter of our discontent” è usata ad un certo punto come
parola d’ordine. Nel film di Peter Jackson The Lord of the Rings: The Two
Towers (Il Signore degli anelli: Le due torri, USA 2002), il personaggio del
consigliere fraudolento Grima Vermilinguo è caratterizzato con un aspetto
riccardiano e corteggia la bella Eowyn davanti al cadavere del cugino di
lei18.
Richard III ha ispirato anche un poema sinfonico composto da Bedřich
Smetana nel 1858, e un’opera lirica (1883) del francese Gervais Bernard
Gaston Salvayre.

18
In The Two Towers ritroviamo, non a caso, Ian McKellen nella parte di Gandalf e il compositore
delle musiche Howard Shore, già collaboratore di Pacino in Looking for Richard.
14

Capitolo I
William Shakespeare

I. 1. I Morality Plays, Seneca e le compagnie teatrali


Il cosiddetto teatro elisabettiano prende le mosse da almeno due tipi di
spettacoli precedenti. Il primo, di origine popolare, è il filone dei Morality
Plays (drammi morali) che a loro volta discendevano dalle sacre
rappresentazioni medievali1. I morality plays possono essere accostati alle
prime commedie latine per la presenza di personaggi fissi e stereotipati che
incarnavano un vizio o una virtù, come l’Arroganza, la Fortuna, l’Avarizia e
via dicendo. Avevano delle trame semplici e miravano ad intrattenere il
pubblico, istruendolo. Tra i personaggi figura il Vizio (Vice) stesso, affidato
ad un caratterista comico. Il pubblico era portato a ridere del personaggio
cattivo che si presentava così come un villain-clown2. Il Vizio è un diretto
antenato di Riccardo III e Riccardo stesso rileva la parentela: “Thus, like the
formal Vice, Iniquity, I moralize two meanings in one word” (III.i.82-83)3.
Il secondo antecedente molto importante del teatro elisabettiano è la pratica
colta di organizzare, a partire dalla metà del ‘500, rappresentazioni private
delle opere di Seneca nei collegi, recitate dai giovani studenti. Ben presto
agli originali senechiani, di cui si ebbe all’epoca un boom di traduzioni, si
affiancarono dei rifacimenti autoctoni, che riprendevano leggende e storie
nazionali o classiche. Modello e imitazioni eserciteranno entrambi una
1
Il più antico morality play conosciuto è The castle of perseverance del 1425 circa. Il momento di
maggiore sviluppo è da collocarsi intorno al terzo decennio del ‘500, quando le trame diventarono
più laiche e più attente alla politica. Vedi Reese, Max M., Shakespeare. Il suo mondo e la sua
opera, Bologna, Il Mulino 1996 (tr. it. di Stefania Monari), pp. 57-70, e Tillyard, E. M. W.,
Shakespeare’s History Plays, Harmondsworth, Penguin 1986, pp. 98-99.
2
Melchiori, Giorgio, Shakespeare: genesi e struttura delle opere, Roma-Bari, Laterza 1994, p. 89.
3
Per l’importanza del Vizio nella creazione del personaggio di Riccardo vedi l’Introduzione
dell’edizione Arden a cura di Anthony Hammond, London, Methuen 1981, pp. 100-101, e Rossiter,
A. P., Angel with horns and other lectures on Shakespeare, London, Longmans 1961, p. 15.
15

notevole influenza nella formazione dell’immaginario elisabettiano e del


giovane Shakespeare. Seneca è infatti fondamentale per il linguaggio del
Richard III (per esempio per l’uso della sticomitia) ed è responsabile di quel
senso del macabro e dell’orrore che circola sui palcoscenici inglesi4. Tra i
drammi senechiani segnaliamo un antecedente del Richard III, il Richardus
Tertius di Thomas Legge, rappresentato al St. John’s College di Cambridge
nel marzo 1579/15805. Non siamo sicuri che Shakespeare ne avesse una
conoscenza diretta.
Simili rappresentazioni private continuarono anche quando, alla fine del
‘500, si aprirono i primi teatri pubblici. Le compagnie, composte
interamente da uomini, erano costrette a porsi sotto la protezione di un
nobile per poter esercitare. La creazione dei drammi presentava notevoli
punti di contatto con il lavoro attuale su un set cinematografico. La stesura
del copione era collettiva e tutti gli attori vi partecipavano attivamente.
All’interno di ogni compagnia c’erano comunque alcuni attori che
svolgevano soprattutto la funzione di sceneggiatori – Shakespeare era uno di
questi. Le opere erano pensate in base agli indici di gradimento del pubblico
e nascevano di serata in serata, seguendo l’atteggiamento degli spettatori,
modificandosi, rispondendo alle necessità del momento. Le parti erano
cucite addosso agli attori (Riccardo è stato quasi sicuramente scritto su
misura per il primo attore Richard Burbage), ed era normale che nel corso
della rappresentazione essi potessero aggiungere o togliere dei pezzi,
improvvisando se necessario. Erano il lavoro quotidiano sul palcoscenico e
il contatto diretto con gli spettatori a forgiare le opere.
I copioni erano di proprietà della compagnia, la quale non era favorevole
alla loro pubblicazione perché temeva che un’altra compagnia potesse

4
Su Seneca e sui rapporti tra Seneca e Richard III vedi Bacquet, Paul, Les pièces historiques de
Shakespeare 1: la première tétralogie et le Roi Jean, Paris, Presses Universitaires de France 1978,
pp. 153-172.
5
Vedi Ribner, Irving, The English History Play in the age of Shakespeare, Princeton, Princeton
University Press 1957, p. 68.
16

rubarglieli. Le opere di maggiore successo venivano, infatti, riprese dalle


compagnie avversarie, che ne effettuavano un vero e proprio “remake”,
riscrivendole alla ricerca di un ancora maggiore successo. Hamlet, King
Lear, Richard III e molte altre grandi opere shakespeariane, nacquero come
remake di drammi già portati in scena6. In questo senso il Richard III
sarebbe un remake di un dramma dei Queen’s Men, The True Tragedie of
Richard the Third, pubblicata da Thomas Creede nel 1594, e messo in scena
probabilmente nel 15897.

I. 2. I drammi storici
Il Richard III appartiene al genere più in voga nel ventennio 1580-1600: il
dramma storico (history play). Per dramma storico si intendono opere che
abbiano come soggetto la storia d’Inghilterra, specialmente quella degli
ultimi due secoli (Macbeth e King Lear, per esempio, rientrano nelle
tragedie). Il dramma storico è stato attentamente studiato e su di esso, e della
parte che vi ha William Shakespeare, esiste una folta bibliografia. Questioni
come il senso della storia per Shakespeare, le sue inclinazioni politiche, se
sia possibile considerarlo uno storiografo, la sua aderenza all’ideologia
Tudor sono argomenti molto delicati e dibattuti, ma che non possono essere
affrontati in questa sede8. Per non allontanarci troppo dal nostro discorso,
basti qui una succinta, per quanto incompleta, presentazione.
Si usa far risalire la nascita dei drammi storici al clima di euforia nazionale
successivo alla sconfitta dell’Invincibile Armata (1588) e al programma di
autocelebrazione previsto da Elisabetta I, alla volontà del cittadino di
assistere alle imprese dei propri sovrani, al desiderio collettivo di
rappresentare il trionfo della dinastia Tudor. In realtà le cose sono più

6
Vedi Melchiori, op. cit., pp. 6-14.
7
Sulla True Tragedie vedi Ribner, op. cit., pp. 86-89.
8
Per un approfondimento vedi, oltre al Tillyard e Kott, Watson, Donald G., Shakespeare’s early
History Plays: Politics at Play on the Elizabethan Stage, London, Macmillan 1990; Pugliatti,
Paola, Shakespeare storico, Roma, Bulzoni Editore 1993; Gabrieli, Vittorio, La storia d’Inghilterra
nel teatro di Shakespeare, Roma, Bulzoni Editore 1995.
17

sfumate e nascondono molte ombre e sfaccettature. Agli intenti celebrativi si


univa la consapevolezza che Elisabetta non aveva eredi e che il paese
rischiava un nuovo periodo di incertezze. I disordini civili non si erano
conclusi con la battaglia di Bosworth del 1485: le congiure contro Elisabetta
si susseguivano frequenti, a partire dal grande scontro con Maria Stuart.
L’Inghilterra era percorsa da contraddizioni interne, dalla rivalità non sopita
tra cattolici e protestanti, all’emergere dei puritani come classe
preponderante nell’economia ed in seguito anche nella politica. I temi
cardine delle Histories, non a caso, sono l’obbedienza al sovrano e le
prerogative che spettano ai regnanti. Su questi punti la posizione di
Shakespeare è tutt’altro che univoca ed esplicita9.
Quello che però ci interessa è che tali drammi erano visti da un gran numero
di spettatori e anzi costituivano, per la stragrande maggioranza di essi,
l’unico strumento di informazione e di acculturazione, oltre ad essere il più
ovvio e diffuso mezzo di intrattenimento dell’epoca10. Portare la storia a
teatro offriva numerosi vantaggi: da un lato, era ben vista dalle autorità e
giustificava il ruolo del teatro anche dinanzi a coloro che in quel momento,
come i puritani, non guardavano di buon occhio al mondo degli attori e del
palcoscenico; dall’altro incontrava il favore del pubblico sempre desideroso
di nuove vicende regali. Alla storia era dato un posto altissimo tra le materie
di studio, e, per di più, lo scopo stesso della storia era eminentemente
didattico: “The purpose of history […] was not to present the truth about the
past for its own sake; it was to use the past for didactic purposes, and writers
of history, both non-dramatic and dramatic, altered their material freely in

9
Tillyard, nel 1944, riteneva che Shakespeare condividesse l’ideologia politica elisabettiana e fu il
maggior sostenitore della presenza di un ordine e di un fine celebrativo nelle tetralogie. In seguito i
critici hanno iniziato a descrivere invece uno Shakespeare ambiguo e problematico, e c’è stato chi,
come Pugliatti, ha visto in Shakespeare quasi un ribelle, detrattore della monarchia e della classe
politica. Per la visione shakespeariana sulla monarchia vedi Ciocca, Rossella, Il cerchio d’oro: i re
sacri nel teatro di Shakespeare, Roma, Officina 1987; e Manheim, Michael, The Weak King
Dilemma in the Shakespearean History Play, Syracuse, Syracuse University Press 1973.
10
Vedi Melchiori, op. cit., p. 3.
18

order better to achieve their didactic aims”11. La concezione generale che si


aveva della storia rispondeva al motto “Historia magistra vitae”,
dispensatrice di esempi, modelli, consigli e amor di patria. La storia insegna,
i drammi storici insegnavano la storia: l’effetto era, per così dire,
moltiplicato. “La storia nazionale è quindi offerta ad un pubblico che la
riconosce come propria memoria collettiva […] il drammaturgo che porta
sulla scena gli eventi del passato della collettività si assume una
responsabilità enorme: la memoria visiva e auditiva dello spettacolo lascia
segni singolari, che hanno la capacità di cancellare i segni grafici del libro di
storia sovrapponendovi […] una nuova visione (è frequente sentir dire che la
visione che gli inglesi hanno degli ultimi re medievali viene più dai drammi
di Shakespeare, e soprattutto dalle loro messinscene, che dai libri di
storia)”12. Per Coleridge le Histories promuovevano “la coscienza
dell’identità nazionale inglese”13 e Shakespeare è stato capace “di rendere
familiari alla gente i grandi nomi del paese, e di suscitare così un grande
sentimento patriottico, il giusto amore per la libertà e il rispetto per tutte le
istituzioni”14.

11
Ribner, op. cit., p. 10. Vedi anche pp. 13-26.
12
Pugliatti, op. cit., pp. 38-39.
13
Gabrieli, Vittorio, op. cit., p. 50.
14
Riportato e tradotto in Pugliatti, op. cit., p. 12.
19

I. 3. La prima tetralogia
Nella grande edizione in-folio del 1623 curata da John Heminge e Henry
Condell, le opere di Shakespeare sono divise in tre sezioni: tragedie,
commedie e histories. Alla voce histories sono presenti dieci drammi: King
John, Richard II, Henry IV parti I e II, Henry V, Henry VI parti I, II e III,
Richard III e Henry VIII. Questa è la successione temporale dei re;
cronologicamente, invece, Shakespeare scrisse prima Henry VI I II e III15,
poi Richard III: queste quattro opere formano la prima tetralogia. Poi c’è un
dramma a solo, il King John, e a seguire una seconda tetralogia: Richard II,
Henry IV I e II, Henry V16; per concludere un’altra opera unica, Henry VIII.
I rapporti e le corrispondenze all’interno di ciascuna tetralogia e tra le due
tetralogie sono estremamente forti. Esattamente come in ogni altra opera in
quattro parti, anche qui ogni sezione rimanda strettamente alle precedenti e
alle successive ed è per questo che è necessario sottolineare l’appartenenza
del Richard III ad una tetralogia, con tutti i vincoli che ciò comporta. Questo
fatto è universalmente accettato e riconosciuto dagli studiosi, ma difficile da
cogliere in una rappresentazione a teatro o in un film in cui il Richard III è
presentato singolarmente. Purtroppo se si considera il Richard III un’opera
slegata non si capiranno molte delle implicazioni che esso nasconde e alcuni
personaggi, per esempio Clarence, saranno interpretati in maniera erronea17.
Ma d’altronde Richard III ha sempre goduto una fama maggiore delle tre
parti dell’Henry VI ed è difficile pensare di poter modificare questo
dislivello di notorietà.

15
Per Giorgio Melchiori le parti II e III furono scritte prima della I.
16
L’inversione nella composizione delle tetralogie ha dato luogo a diverse teorie. Secondo Tillyard,
Shakespeare avrebbe composto i suoi drammi secondo l’ordine storico, e quindi postula l’esistenza
di una “prima” seconda tetralogia perduta. Secondo la Pugliatti, invece, proprio questa irregolarità
testimonierebbe i propositi sovversivi di Shakespeare.
17
In Henry VI parte III sia Riccardo sia Clarence sono contrari alle nozze del loro fratello Edoardo
con la vedova Elisabetta, matrimonio che non offre alcun vantaggio politico; per questo Clarence
decide di ribellarsi ad Edoardo e lo tradisce alleandosi al conte di Warwick. Sia Clarence sia
Edoardo IV, inoltre, partecipano con Riccardo all’uccisione del principe di Galles, figlio di
Margherita.

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