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Il femminismo autonomo delle donne dei popoli di Abya Yala (2011)

di Francesca Gargallo

Da circa cinque anni, il dialogo intavolato tra ambiti non istituzionali del femminismo bianco-meticcio
e intellettuali indigeni sul razzismo del mondo accademico e sul colonialismo della concezione di
cultura di un mondo che si espande e invade tutti gli ambiti della vita, ci ha portato a farci delle
domande su alcune rivendicazioni universaliste del femminismo latinoamericano e il suo combaciare
con i progetti modernizzatori delle politiche pubbliche di stati che lacerano i tessuti sociali comunitari
nei villaggi, introducendo precetti individualisti, strumentali alle ragioni neoliberali.

In particolare, con amiche e interlocutrici dei popoli zapotechi del Messico, Ienca dell'Honduras e
maya quechì e kichè del Guatemala, ci domandiamo se il femminismo sia basicamente una teoria
moderna dell'emancipazione delle donne e la propria liberazione individuale o possa essere un
progetto autonomo, proprio della via di liberazione di donne differenti, che si ritrova in diverse forme
di ricerca di una buona vita per le donne stesse.

Se il femminismo si riduce all'azione di un gruppo di esperte che cerca di imporre un'agenda o una
lista di richieste consensuali tra quelle che detengono il potere di autodefinirsi come interpreti del
processo di liberazione di tutte, difendendola come l'esigenza di una normativa necessaria per
l'esercizio dei diritti umani di tutte, allora il femminismo non è che uno strumento in più
dell'impazienza universalizzante della modernità capitalista e interviene in forma colonizzatrice nel
progetto di vita delle donne indigene.

Quando la femminista aymara Julieta Paredes afferma che tutto lo sforzo delle donne per il
miglioramento delle condizioni di vita delle donne si traduce in castigliano "feminismo", sta
descrivendo una realtà storica o enuncia il desiderio che l'autonomia delle donne indigene alla
ricerca del proprio benessere venga riconosciuto come un processo di liberazione valido?

Con queste domande sul tavolo e a partire da ragionamenti appropriati alla necessità di liberare le
donne che partecipano, attraverso la difesa dei territori e dei diritti dei propri popoli, alla costruzione
di un progetto collettivo autonomo dalla violenza fisica e simbolica tanto del mondo bianco-meticcio
quanto degli uomini indigeni, sono giunta a concepire il femminismo delle donne dei popoli indigeni
come un elemento indispensabile per la restaurazione di un tessuto comunitario aggredito da cinque
secoli di colonialismo razzista, predatore e misogino.

Se il femminismo negasse o ridimenzionasse la forza trasformatrice che generano le donne dei


popoli originari nell'assumere un progetto comunitario, garante di un consenso collettivo, allora
cadrebbe nello stesso riduzionismo delle altre ideologie universaliste nella loro ansia di dominio. Al
contrario, se le accompagnasse, assumendo i contributi della differenza originaria delle donne a
partire dalle cosmovisioni e le pratiche di identificazione e liberazione dei propri popoli, allora
potrebbe dialogare con queste donne e contribuire con le conoscenze generatesi in 200 anni di
critica al sistema patriarcale installatosi in Occidente a partire dal mercantilismo moderno che
ridusse le donne al ruolo di strumenti diseredati per la riproduzione del lavoro, negando loro il
controllo sui propri corpo così come il riconoscimento sociale del proprio lavoro, e subordinandole
agli uomini.

Nell'immediato presente, le femministe hanno l'opportunità di pensare le relazioni di potere tra donne
e uomini che si stanno stabilendo nella nuova accumulazione di capitale sospinta dal neoliberismo,
così come di intervenire nel dibattito sulla decolonizzazione dei progetti storici degli stati
latinoamericani.

Se le femministe persistono nel dogma della dominazione universale maschile, perderanno la


possibilità di visualizzare la misoginia moderna come un prodotto storico, frutto del progetto di
conversione della riproduzione del lavoro nel lavoro femminile non pagato. Ossia, assumeranno
come propria l'idea della naturale o totale subordinazione della donna. Però, se accettano che le
donne possano assumere (e, di fatto, assumono) ruoli diversi in differenti ambiti storici, potranno
dialogare con le donne dei popoli originari affinché, nella propria lotta per il riconoscimento delle
diversità culturali, non si riproduca la negazione delle stesse, delle loro specificità sociali e dei loro
diritti. L'enorme indisciplina di fronte al loro sistema normativo, questi usi e costumi percepiti da parte
del mondo bianco-meticcio come stabili e permanenti, fa della ricerca dei diritti comunitari e della
libertà collettiva un vettore storico della liberazione personale di molte donne indigene.

Come storica delle idee voglio incontrare il luogo, la forza e la fecondità del dialogo di riflessioni,
descrizioni, concetti e proposte che provengano dalle donne di quei popoli i cui processi storici sono
differenti. Il dialogo tra donne che, nel mondo attuale, da una parte sono circondate dall'incremento
globale della violenza misogina, e, dall'atro, sviluppano progetti autonomi di liberazione, locali,
propri, alieni alla metafisica della politica occidentale e delle sue basi moderne istituzionalizzate, in
contatto però con altri popoli, mi sembra fondamentale per percepire le relazioni tra persone
sessuate come il risultato di esperienze storiche, e non come elementi fissi e inamovibili di una
cultura.

Solo nel dialogo, e non dalla pretesa di poterla interpretare a partire da un insieme di idee del
substrato culturale occidentale, posso arrivare a comprendere, per esempio, la base concettuale
della dualità, propria di un substrato culturale americano tanto diffuso che prende nomi, forme,
applicazioni differenti nei diversi sistemi e correnti del pensiero del continente. E in dialogo, a tutte
noi donne servirebbe capire la dualità non tanto per negare la teoria della complementarietà tra i
sessi, che come vedremo è sostenuta da tutti i popoli indigeni, ma piuttosto perché questa non serva
-come di fatto serve- per mascherare le relazioni di disuguaglianza o dominazione nei diversi ambiti
nei quali si vivono le relazioni tra donne e uomini.

Tornando all'idea proposta da Julieta Paredes, se il femminismo occidentale accetta che in tutte le
lingue di Abya Yala lo sforzo delle donne per vivere una vita buona in dialogo e costruzione con altre
donne nelle proprie comunità si traduce in castigliano come "feminismo", allora sarà capace di porre
in crisi l'egemonia culturale del colonialismo interno, inteso come caratteristica epistemica della
condizione coloniale che è arrivato ai giorni nostri.

La domanda sui femminismi non occidentali della Nostra America, pertanto, deve assumere il posto
dal quale vengono formulate le domande. Inoltre, il luogo ed il tempo dal quale i soggetti donne lo
fanno.

Questo mi obbliga come femminista a non confondere la Modernità con la modernità emancipata.

La modernità emancipata si sviluppa a partire dai postulati razionalisti che si generano in un


Europa che ha represso le mobilitazioni contadine del Medioevo recintando le terre comunali,
convertendo le e i contadini in salariati, impoverendoli attraverso la riduzione dei beni comunali
(acque, boschi, spazi di raccolta e socializzazione, etc.) e perseguitando i poveri che con i loro corpi
smunti invadevano i cammini e le città e criminalizzando la libertà di movimento, l'autonomia
riproduttiva e i saperi delle donne. Parallelamente, la modernità emancipata costruisce un mito sulle
proprie origini ed elabora la negazione del proprio inizio grazie all'uso di concetti di emancipazione
dei servi della gleba, tutti centrati sull'esaltazione dell'individuo mascolino, elaborati da parte di
persone appartenenti alle elites emerse durante l’Illuminismo e che si consolidano fino
a cristallizzarsi nel liberismo colonialista del diciannovesimo secolo.

La storia europea ci ha trasmesso il mito della borghesia come nemica dell'aristocrazia, quando in
realtà fu sua alleata per distruggere i contadini e gli ideali e le pratiche comunitarie di convivenza
che essi sostenevano. E in America questa stessa interpretazione storica universalizzata ci ha
lasciato credere che la borghesia moderna, che mai viene associata all'amministrazione coloniale
della quale è figlia, sia la promotrice di un ordine progressista incarnato nello stato repubblicano che
garantisce il conseguimento di un bene uguale per tutti.
Il mito che getta le basi della modernità emancipata è la proiezione degli ideali prodotti dalle classi
abbienti europee sul resto del mondo (produzione intellettuale, religiosa, giuridica, pedagogica e
artistica che sostiene e giustifica lo sfruttamento economico dei popoli del resto del mondo) e ha
costruito un sistema scolastico per l’esclusione delle esperienze e delle conoscenze che non
appartengono al suo progetto.

In questa modernità emancipata sono stati imposti come valori positivi assoluti quelli che si
appellano a idee estremamente vaghe come quella del "progresso" e dello "sviluppo", che possono
essere benissimo utilizzate sia in senso tecnologico così come sociale. Quella del progresso è
un'idea che è stata formulata ai tempi dell'egemonia filosofica del Positivismo, nel XIX secolo. È
un'idea tendente alla valutazione positiva di ciò che può essere misurato come efficiente o efficace,
che fu adottata da liberali, socialisti, populisti e conservatori, e che identifica il progresso di una
nazione con la sua vicinanza a un dato modello ideale. Quella dello sviluppo è un'idea produttivista
del XX secolo che fa coincidere l'uso e il consumo di determinate tecnologie con un avanzamento
civilizzatore o con il benessere necessario affinché un paese sia considerato "uguale" ai paesi che
le producono e le esportano. In America Latina, il modello di sviluppo quasi sempre è coinciso con
il sistema euro-statunitense di consumo, di trasmissione di sapere e di organizzazione statale, però
solo nei governi progressisti è stato incorporato il suo sistema di protezione sociale e
amministrazione di giustizia.

Tuttavia, la Modernità include momenti, spazi e geografie che non sono riducibili a una sola
esperienza storica né a un unico universo epistemico. I popoli indigeni in America Latina sono
moderni, però hanno esperienze di Modernità diverse da quelle imposte dal colonialismo dominante,
che si arrogava la capacità di progresso e sviluppo -e le idee associate, come il benessere e la
giustizia- solo per sé.

È una convenzione della disciplina storica europea, quella di dar inizio all’Età Moderna nel 1492.
Pertanto, si associa facilmente con l'occidentalizzazione forzata (o esportazione degli immaginari
europei) del mondo dopo l'invasione dell'America, e di conseguenza si relaziona di fatto con lo
sviluppo di una parte del mondo (quella colonialista) attraverso lo sfruttamento economico, delle
risorse e del lavoro, dell'altra (quella colonizzata). Tuttavia durante la Modernità -che, insisto, non
dev’essere vista come un periodo di tempo uniforme, imposto dall'assolutismo del XVII secolo,
dall'illuminismo del XVIII secolo, dagli ideali di progresso del XIX secolo e dal consumismo attuale-
sono state elaborate differenti correnti filosofiche e politiche non egemoniche e proposte di
convivenza che vanno dalle rivolte degli artigiani impoveriti e dei contadini europei che si misurarono
con la privatizzazione delle terre nel XVI secolo, e dai progetti utopici inglesi e italiani del
Rinascimento e la ribellione dei biologi vitalisti contro il meccanicismo cartesiano, fino
all'elaborazione di Felipe Guamàn Poma de Ayala di un "paese delle meraviglie" basato
sull'organizzazione incaica originaria, alle ribellioni e riordinamenti indigeni, alle posizioni
neoumaniste creole e utopismi meticci, fino all'anarchia dei migranti del XIX secolo e alle politiche
di liberazione nella Nostra America.

La Modernità include dalla concezione egemonica di una religione cimentata nella disciplina e
nell'autocontrollo individuale fino alle più aperte posizioni atee, gnostiche e alle proposte di governi
laici, nei quali le donne e gli uomini, come persone, si liberano dei mandati sessuali, etici e familiari
legati all'idea di un mondo diretto da forze superiori che controllano il popolo, il gregge, la mandria,
le masse o come vogliamo chiamare la collettività umana.

Durante cinque secoli, nello spazio-tempo diversificato della Modernità in Europa, in America, in
Australia, in Africa e in Asia, tra popoli dominanti, dominati e in resistenza, si sono sviluppati concetti
e posizioni politiche egemoniche, subalterne e dissidenti, che implicano l'autonomia dell'essere
umano dalle forze che lo trascendono (il re, dio, il padre di famiglia, etc), la fine della schiavitù,
l'uguaglianza di persone differenti difronte alla legge, i diritti umani, i diritti delle donne, la
riabilitazione e la riappropriazione di spazi di confinamento (per esempio, come si vedrà in seguito,
la comunità indigena), i contratti sociali, la scomparsa dello stato e il valore dell'educazione.
Durante la Modernità si è assistito allo sviluppo di pensieri libertari da parte di molteplici soggetti che
si erano configurati in seno ad essa e che trascendono l'individuo assolutizzato, questo “io”
egocentrico del macho prodotto dal sistema del patriarcato cristiano europeo che impone il proprio
punto di vista: una specie di condottiero che, essendosi liberato dalle costrizioni del teatro del mondo
nelle quali era stato intrappolato durante il riadattamento cristiano di una configurazione economico-
politica germanica in territori precedentemente romanizzati (il cosiddetto Medio Evo e le sue
contadine e contadini sempre ribelli all'oppressione feudale), si lancia in un mondo che pretende di
plasmare i disegni di potere che immagina a partire dalla sua stessa weltanschauung.

Come segnala Rita Laura Segato nel proporre una storia che accolga il "rispetto radicale verso valori,
obiettivi e prospettive culturali differenti e, ancor di più, verso lo sforzo da parte dei popoli per
riprendere nelle proprie mani le fila delle trame storiche da qualche tempo abbandonate", il
superamento di un paradigma globale della Modernità nella Nostra America potrà darsi solo nel
riconoscere, narrare e rispettare la molteplicità delle idee e delle storie che la costituiscono,
valorando le contraddizioni, i dissensi e le trasformazioni delle pratiche americane.

Urgenza del riconoscimento della diversità nella Modernità

A noi femministe, urge affermare una modernità disgregata, ideologicamente diversificata, situata in
diverse comunità costituenti delle nazioni che si formarono nella Nostra America nel XIX
secolo, quando le elites politiche che emersero dalle guerre di indipendenza tentarono di costruire
nazioni meticce governate dalle repubbliche. Urge per non ridurre il femminismo a un movimento
della modernità emancipata, propria del patriarcato capitalista, riconoscerci all'interno della
resistenza delle donne contro l'egemonia patriarcale, costruita durante il colonialismo proprio come
l'egemonia “razziale” bianca. Ciò implica disfarci una volta per tutte del supposto universalismo del
meticciato, assumendo quello che Luis Carlos Castillo chiama "la reinvenzione della nazionalità nei
paesi latinoamericani e l'emergenza di nuovi movimenti sociali tra i popoli indigeni e le popolazioni
nere".

Il processo è già in corso ed è propriamente politico: "Sebbene la disgregazione del meticciato inizia
a verificarsi in forme differenti nei paesi a maggioranza afro discendente, come il Brasile, e in paesi
a maggioranza indigena, come la Bolivia, i processi sono comparabili perché mettono a freno
l'ideologia meticcia bianchizzata che costituisce il fondamento ideologico della formazione degli stati
post-coloniali".

Per esempio, la storia moderna di Abya Yala, secondo le maestre nasa del Consiglio Regionale
Indigeno del Cauca (CRIC) che sostengono un progetto di educazione propria, può essere scritta a
partire da tre grandi manifestazioni indigene: 1) la lotta contro la conquista spagnola, 2) la sconfitta
e la sottomissione al sistema estrattivo di ricchezza generato dal lavoro indigeno e 3) il movimento
sociale che sorge a metà del XX secolo e implica la visibilità dell’agire indigeno nella questione
agraria, la discussione ideologica e la rivendicazione politica. Inoltre affermano che: "La diffusione
dei saperi e dei contenuti scolastici, l'elaborazione dei materiali didattici, le strategie pedagogiche,
la concezione stessa dei processi di insegnamento e apprendimento appaiono storicamente
vincolati alle problematiche poste dalla resistenza, la cosmovisione, la cultura, l'interculturalità e le
comunità”.

I e le meticce abbiamo, a partire dalla nostra tradizione culturale duale, strumenti per riconoscere
questa storia multipla e dialogare con le sue attrici e i suoi attori. Per esempio, l'universalismo è stato
messo in discussione fin dall'inizio della storia moderna bianca americana. A partire dall'invasione,
la resistenza contro la conquista e l'evangelizzazione dei popoli originari, si sono date in maniera
parallela rispetto alle riflessioni di alcuni pensatori spagnoli che misero in discussione il proprio
sistema di giustizia in terre e culture differenti, generando l'idea che sia necessario rivendicare una
giustizia concepita a partire da differenti posizioni etiche e culturali.
Allo stesso modo, i tlamatinimes mexica presentarono i loro valori e obiettivi politici agli spagnoli,
con l'intenzione di far loro sapere che, anche se sconfitti, possedevano strumenti ideologici per
comprendere il mondo. I maya continuarono a trascrivere e nascondere i loro testi sacri, traducendoli
in latino affinché resistessero alla frammentazione e alla distruzione della propria identità culturale.
L'aristocrazia andina mantenne un luogo di riconoscimento sociale e, anche se cristianizzata, difese
e protesse artisti, medici e portavoci dei propri popoli fino alla rivoluzione di Tupac Amaru nel 1782.

Di certo la conquista significò un'interruzione nell'evoluzione storica delle civiltà americane,


bloccando le formazioni sociali, politiche, economiche, e culturali, attraverso la brutale diminuzione
della popolazione e l'eliminazione di intere nazioni attraverso armi belliche, psicologiche e religiose.
Tuttavia, la storia dei popoli americani e le sue culture non scomparvero. L’oralità si compose e si
combinò con nuove pratiche di memorizzazione che iscrissero le storie locali nel tessuto, nella
pittura, nella terracotta e nell'architettura. L'organizzazione dei popoli originari in comunità indigene,
anche se dominate dalla chiesa e ammucchiate in zone inospitali per non destare l'avidità dei
colonizzatori, permise loro di opporre la resistenza contro l'annichilimento, producendo codici di
condotta e sistemi di genere, norme di regolamento e lignaggi che oggi cominciano a essere
destituiti dagli e dalle intellettuali indigeni/e che accompagnano le riflessioni dei loro popoli. Nessuna
trama sarà disfatta, tutti i fili potranno essere riutilizzati, ricombinati, trasformando la visione che se
ne aveva.

Parallelamente, in Europa, mentre si viveva l'apogeo della razionalità illuminata, Shopenhauer


attinse dal pozzo dalle esperienze asiatiche sulla conoscenza del mondo e sulla costruzione del
sapere, sfuggendo così alla contrapposizione totalitaria tra razionale ed empirico della tradizione
filosofica europea. Ai nostri giorni, potremmo affermare che si inseriscono in un’ermeneutica critica
della Modernità tanto le ricerche di etiche non normative - come i piani educativi delle università
indigene dell’America, il corso di storia orale andina a La Paz, le critiche agli universalismi, le lotte
per il riconoscimento dei popoli dichiarati morti dal registro repubblicano, la storiografia scritta da
punti di vista non bianchi, gli studi subalterni di Calcutta, il seminario permanente di filosofia
americana inaugurato da Orazio Cerruti in Messico, i gruppi di studi contro il razzismo e il
colonialismo coordinati da Annibale Quijano in Perù - quanto lo spostamento della messa a fuoco
dell’interpretazione della realtà come movimenti di liberazione di simboli - quali il femminismo del
secolo XX, l’anarchia, i diversi socialismi che tendono a riconoscere il ruolo dell’oppressione e
dell’alienazione, e non solo dello sfruttamento, all’interno dei meccanismi della dominazione
capitalista, e le teologie e le filosofie di liberazione.

Le critiche avanzate alla modernità emancipata dai pensatori anarchici e comunisti non dogmatici
come Walter Benjamin, ci ha permesso infliggere alcuni colpi all’idea di una storia universale
“composta dalle le storie dei popoli”. Il pluralismo storico definito da Rita Laura Segato, in effetti,
considera che ogni popolo è un soggetto vivo di una storia che articola la propria vita in una “inter
storicità “, in maniera dialogica direi io, con altri soggetti.

Al tempo stesso, le teorie femministe della differenza sessuale, l’economia critica della dipendenza,
il post strutturalismo filosofico, le pratiche educative decolonizzate, il movimento negro americano
(antillano, statunitense e brasiliano, principalmente) e l’antirazzismo che ne conseguì, i movimenti
di liberazione e dissidenza sessuale, i pensieri che accompagnano le lotte contro l’aggiustamento
strutturale del neoliberalismo in Asia, Africa e America, i movimenti antisistemici e le sue proteste di
massa in Venezuela, Messico, Bolivia, Argentina, Grecia, Tunisia, Egitto, Spagna, le storiografia non
egemoniche e l’antropologia critica, sono sfociate nell’affermazione della cultura come di un fattore
indispensabile di resistenza e proiezione politica, propria delle teorie epistemologiche postulate a
partire dalle universalità indigene interculturali.

Quest’idea di cultura punta alla valorizzazione del corpo, della memoria e della differenza, intesi
come ciò che non coincide con il soggetto razionale autocontrollato della mascolinità dominante,
presentato come norma estetica, etica e politica della modernità emancipata. Vale a dire, non
coincide con l’etero sessualità che, in maniera compulsiva, cerca di organizzare gli affetti in coppie
stabili riconosciute dallo Stato, e nemmeno con i generi definiti per garantire la gratuità del lavoro di
cura e riproduzione della vita, né con gli insegnamenti che negano la gamma di elementi culturali e
progetti autonomi di popoli che hanno resistito per secoli alla pressione del razzismo delle metropoli
di stampo coloniale e delle élites criolle che vennero dopo di loro e che concepirono gli Stati nazionali
della Nostra America.

Povertà dello sviluppo ultimo della modernità emancipata

Al contrario, certe pratiche iper capitaliste e individualiste che cercano di negare la validità a
qualsiasi ideologia non consumista e che degradano i progetti di autogoverno, riconoscimento e
trasformazione politica di gruppi e persone che non concordano con l’universalismo del mercato
globale, le quali si riparano nel neo liberalismo, e che nelle forme più estreme s’incarnano nella mafia
della tratta di persone per schiavitù sessuale e lavorativa, nel narcotraffico e nella vendita di armi e
che s’incastrano in uno “stile di vita post moderno iper consumista“, coincidono con lo sviluppo ultimo
della modernità emancipata.

In essa si inscrive un tipo di femminismo che non mira più alla liberazione delle donne, ma al loro
inserimento in una società civile indefinita in termini di classe, cultura nazionale e ideologie e, per
questo, stabile dal punto di vista delle politiche di mercato: un femminismo per il governo delle donne
che crea, d’accordo con le istituzioni nazionali e sopra nazionali, un’“agenda”, quasi una lista, di
istanze femministe dalla quale non si può prescindere. Questo femminismo usa tacchi, abiti di
sartoria e carte di credito e si riflette nello specchio delle “attrici” di alcune società (presidentesse
della Repubblica, senatrici, ministre, figure dello spettacolo, imprenditrici) e non in quello dei soggetti
di un cambio politico collettivo. Ha messo da parte l’organizzazione spontanea delle donne, il dialogo
intergenerazionale, l’apertura a progetti dell’essere e la non disciplina di fronte agli usi e costumi dei
differenti patriarcati, neutralizzando tutto ciò in ONG, fondazioni, accademie, partiti. Grazie ad essi,
cerca l’istituzionalizzazione del malcontento per evitare che il movimento femminista sostenga la
propria autonomia, la propria capacità di dotarsi di mezzi propri per la vita e il pensiero, di
riorganizzare i propri obiettivi in uno scenario sociale sempre cangiante e di stabilire le proprie
alleanze. È un femminismo che non costruisce autonomia ma chiede equità, assimilando il mondo
femminile al maschile, in un contesto di occidentalizzazione accelerata del mondo. Si piega alle
direttive di alcune politiche pubbliche globali tendenti a forzare tutte le donne a una supposta
liberazione individuale, ossia alla mascolinizzazione dei propri interessi nell’ambito pubblico, dentro
il sistema capitalista pubblicizzato come “l’unico sistema che funziona”.

I femminismi che articolano idee di buona vita provenienti da donne che si considerano agenti
collettivi di un agire ribelle di fronte al colonialismo della modernità progressista e sviluppista, cioè i
femminismi delle donne dei popoli indigeni di Abya Yala, possono restituire a tutte le donne la
capacità di elaborare un progetto di liberazione dalla violenza come destino. Molte figure di donne
guida di un passato mitico negato, proprio perché caratteristico dei popoli che si vuole annichilire nel
progetto universalistico della modernità emancipata, si intessono oggi nelle idee di resistenza
popolare con figure di donne meticce, bianche e afroamericane. Costruiscono il tessuto a partire dal
quale progettare un futuro dove collettivi femminili autonomi e dialoganti tra loro agiscano
neutralizzando la violenza che genera, sui corpi e le vite delle donne, la rapina del capitalismo nella
sua attuale crisi.

Link all’articolo originale, in lingua spagnola:


https://francescagargallo.wordpress.com/ensayos/feminismo/no-occidental/el-feminismo-
autonomo-de-las-mujeres-de-los-pueblos-de-abya-yala/

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