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Storia del colonialismo italiano da Crispi a Mussolini

Ed. Datanews 2003

Ad Enzo Santarelli,
studioso, maestro, amico
dei tempi urbinati.

Un colonialismo "dal volto umano"?


Nel 1989 l'Istituto storico della Resistenza di Piacenza indisse un convegno internazionale di studi sul colonialismo
fascista. In Italia c'era stata la svolta della Bolognina di Achille Occhetto, oltre alla formazione del sesto governo
Andreotti di coalizione, seguito alla stagione craxiana (1983-1987). Ebbene, l'iniziativa dell'Istituto fu osteggiata dalle
autorità di governo e ritenuta inopportuna per la presenza di studiosi etiopici e libici.
Nel febbraio 1996, in occasione del centenario della battaglia di Adua, si è tenuta ad Addis Abeba una Conferenza
internazionale di storici. Nella circostanza, è stato registrato l'imbarazzato silenzio del governo italiano, regolarmente
invitato. Simile assenza istituzionale ha avuto ricadute politiche tutt'altro che positive nei rapporti con le ex-colonie. Nel
contempo, essa testimonia del persistente fastidio rappresentato dal nostro passato coloniale - peraltro mistificato - ed
ottunde la nostra storia nazionale. Tale perdurante atteggiamento giustificazionistico nei confronti degli italiani
colonizzatori rende tuttora impossibile una corretta conoscenza della multiforme realtà culturale africana, avvolta
ancora da miti e pregiudizi deformanti. Ciò alimenta un'emotività di circostanza, nutrita di moralismo e di
sentimentalismo verso un continente che l'opinione pubblica percepisce come "condannato" al sottosviluppo dalla
perversa natura e dalla "arretratezza" antropologica dei popoli che l'abitano. Su questo atteggiamento hanno inciso
storicamente le modalità attraverso le quali l'Italia è stata estromessa dall'Africa senza, peraltro, essere stata investita
dagli effetti dirompenti della decolonizzazione. Per giunta, nel clima della "guerra fredda" le ex-colonie assunsero
rilevanza strategica per il convergente e concorrenziale interesse di Londra e Washington ad "occupare" l'Africa, vista
come "spazio atlantico" in funzione anticomunista e antisovietica. Ma Roma è stata anche interessata a collaborare coi
suoi potenti alleati nel tentativo di impedire l'ascesa e il rafforzamento dei nazionalismi arabi ed africani con le loro
confuse aspirazioni democratiche. Lungo questo asse politico la "questione coloniale" appariva funzionale al sistema
delle alleanze e delle relazioni economiche intessute dall'Italia per fuoriuscire dall'"isolamento" cui era stata costretta
dalla politica estera fascista. L'insieme di tali problemi fa sì che "il passato che non passa" riaffiori in varie forme presso
l'opinione pubblica ed ostacoli la crescita della coscienza nazionale e civile. Non fare i conti con la nostra breve e
provinciale esperienza coloniale equivale a rilanciare il mito degli "italiani brava gente", a riproporre esotiche
trasfigurazioni di segno neocolonialistico, veicolate anche dai mass media. C'è in tutto questo il rigurgito di quella che
Angelo Del Boca ha definito "nostalgia delle colonie".
Di recente, l'attenzione sull'Etiopia è stata sospinta dalla vicenda della stele di Axum (centro del Tigrè ove si trova
Adua), sottratta all'Etiopia e sistemata dinanzi alla sede della Fao a Roma. Ciò è stato motivo perché riaffiorasse un
nazionalismo provinciale e periferico presso decisivi settori governativi di centrodestra, pronti a rivendicare la
"italianità" di un trofeo di guerra, simbolo della vocazione imperiale del fascismo. Ciò comporta una destoricizzazione
di fondo che ha più risvolti. Innanzitutto favorisce l'edulcorazione del nostro passato coloniale ed alimenta un
revisionismo storiografico di maniera. In più sospinge revanscismi, variamente camuffati, che si nutrono della retorica e
dei miti del colonialismo italiano "dal volto umano" sì da qualificarlo nella specificità del binomio - tutto fascista -
lavoro/civilizzazione. Colonialismo non sfruttatore ma demografico ed interessato alla promozione di popoli ritenuti
inferiori. Al contrario, la versione nazionale-imperiale del colonialismo s'inserisce - col suo tracciato populistico ed
interclassista - nella impari contesa con gli altri imperialismi, sì da proiettarlo oltre la "quarta sponda" mediterranea.
Sostiene Nicola Labanca: "Rispetto agli altri imperi coloniali europei, l'oltremare italiano si rivelò, così, oltre che uno
dei più circoscritti geograficamente, uno dei più poveri economicamente e dei meno vantaggiosi a livello generale".
Negli oltre sessanta anni di dominazione coloniale (dal 1882 in Eritrea; dal 1889 in Somalia; dal 1935 in Etiopia) i
governi italiani hanno collezionato una serie di brucianti sconfitte politico-diplomatiche e militari. La "prima guerra
d'Africa" - con la sconfitta subita ad Adua (1896) - suggellò la fine del progetto espansionistico del governo Crispi. Ma
Adua significò ben altro per gli africani, poiché segnò storicamente l'avvio del faticoso processo di decolonizzazione
del continente. Nel contempo, la vittoria di Adua consentì la proiezione in campo internazionale dell'Etiopia, come
ricorda lo storico Afework Gabre Iyasus. A ben vedere, nell'antico impero etiopico la resistenza anticoloniale è stata
tenace e fiera, colorandosi di tinte "patriottiche" e indipendentistiche e proseguendo ben oltre la "pacificazione" fascista.
Altrettanto dicasi della faticosissima avanzata in Somalia ove le truppe coloniali dovettero misurarsi con l'abile
guerriglia di Mohammed Hassan. Sconfitte brucianti che non attengono esclusivamente al versante militare. Esse
chiamano in causa anche l'improvvisazione, la sottovalutazione, il disprezzo verso l'aggredito, assimilato di volta in
volta al brigante meridionale, al fuorilegge, al terrorista. A ciò contribuirono anche l'etnologia e l'antropologia che -
come ricorda Francesco Surdich - nel periodo fascista apparivano "completamente intrise di razzismo e di disprezzo per
le culture africane". Eppure, tra il 1967 e il 1970, una serie di interventi sulla stampa hanno rivelato senso della storia e
rispetto per le culture altre. Lo stesso Indro Montanelli - che aveva partecipato, da militare ad Axum (1935), alla
sottrazione della stele - si è battuto per la sua restituzione agli etiopici. Restituzione presentata come "tangibile prova
della nostra riconoscenza al più magnanimo dei nostri ex-nemici. E rimanga fra noi, in confidenza ce la caviamo con
poco" ("Epoca", 8 febbraio 1970).
Il trattato di pace italo-etiopico del 1947 aveva imposto all'Italia la restituzione della stele in questione nel contesto del
patteggiamento dei danni da liquidare al Paese africano. Ma, a più riprese i governi postfascisti hanno perso l'occasione
per ottemperare agli impegni sottoscritti. A ben guardare la vicenda s'incunea, con tutta la sua rilevanza
politicoideologica, nel mancato dibattito sul colonialismo italiano. In particolare, il riferimento è al regime fascista col
suo carico di violenze e di razzismo. Valga per tutte l'avventura politico-militare in Etiopia, coi suoi risvolti
anacronistici. Essa scatta nella fase in cui prende avvio il processo di decolonizzazione sotto la spinta dei movimenti di
emancipazione nazionale che indurranno le altre potenze coloniali a valutare la necessità di abbandonare o di riformare i
propri imperi. Quanto al raccordo fra il colonialismo di Crispi e di Giolitti e quello fascista va sottolineato che la
difformità di condotta politica attiene al modello di società coloniale che s'intende costruire e alla politica indigena
adottata. Il razzismo paternalistico ("incivilimento", "assimilazione") sorregge l'ideologia e la politica dei governi
liberali. Razzismo che diventa strutturale e sistematico con l'introduzione della legislazione razziale durante la
dominazione fascista interessata alla sistemazione giuridico-ideologica della leadership autoritaria della metropoli. La
conquista intercettò il proprio fondamento politico-ideologico in una visione spengleriana delle relazioni internazionali
e fu vista come la fatale, deterministica proiezione di dominio della "razza superiore" sui popoli "inferiori" e su spazi
geopolitici sempre più estesi. Pertanto, nello schema del "popolo dominatore" rientravano sia il richiamo alla civiltà
cristiana e alla romanità imperiale, sia il rigetto degli ideali risorgimentali sulla sovranità nazionale e sui diritti dei
popoli. In quest'ultimo caso c'era lo stravolgimento integrale sia del "primato" morale e civile degli italiani di memoria
giobertiana che la "missione civilizzatrice" di cui aveva parlato Mazzini. Il confezionamento dei miti patriottico-
militaristici e il loro sedimento in strati della popolazione italiana sono sopravvissuti alla caduta del regime.
Infatti, spinte e miti revanscisti sono stati riciclati ed edulcorati, in chiave politico-diplomatica, con gli anni cinquanta
del secolo scorso, allorché i governi a guida democristiana lavoravano ad un "ritorno" in Africa sotto l'egida dell' Onu o
attraverso trattative dirette con Francia e Gran Bretagna.
Nell'immediato dopoguerra l'interesse verso l'Africa - in presenza della "questione di Trieste" - era pilotato da un
nazionalismo frustrato, preoccupato di ritagliarsi un posto di rilievo nel Mediterraneo col concorso di ceti indigeni
comprati o, a suo tempo, allevati. Simili comportamenti evidenziavano l'incapacità di Roma a comprendere
l'inarrestabile processo di decolonizzazione in atto. Pertanto, intrighi e compromessi svelarono l'atteggiamento
fondamentalmente neocolonialistico dei governi italiani verso le ex-colonie, come già emerso, tra l'altro, col fallito
compromesso Bevin-Sforza (1949). Su tali coordinate si orientò anche la Chiesa cattolica in Tripolitania. L'intrigante
vescovo Facchinetti - tenace difensore del fascismo ed amico di Mussolini - si battè perché il maresciallo Rodolfo
Graziani non fosse processato per i crimini commessi in territorio africano, ricevendo in merito le assicurazioni dello
stesso Alcide De Gasperi. Si è consolidata, così, nel tempo un'immagine distorta dell'Africa indipendente, fertile terreno
per ambigue e poco chiare iniziative diplomatiche, per contraddittori e meschini patteggiamenti che hanno coinvolto
governi e partiti dell'Italia repubblicana. A rigore, sin dalla "pacificazione" promossa dal primo governo di unità
antifascista, presieduto da Ferruccio Parri (maggio-dicembre 1945), non è stata intrapresa un'adeguata rilettura del
nostro passato coloniale. Lo stesso Presidente del Consiglio ebbe modo di precisare che le colonie mediterranee non
furono il prodotto dell'espansione imperialistica quanto il risultato della trasformazione operata col lavoro e i capitali
italiani. La loro amministrazione "in tempi normali fu tra le più civili che si conoscano". Altrettanto convinto era il
liberale Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica, per il quale la colonizzazione aveva comportato
l'allargamento dei mercati con conseguente elevamento civile e morale dei "popoli arretrati" (1946).
La politica di "riconciliazione nazionale" assorbì l'interesse prevalente dei partiti, impegnati nella ricostruzione
postbellica del Paese. In seguito prevalse l'idea che il passato coloniale costituisse una parentesi, un incidente di
percorso, del tutto marginale nel contesto della nostra storia nazionale. Più in particolare, la restaurazione moderata
postfascista (1947-1950), puntando sulla continuità dello Stato, non intraprese alcun tipo di epurazione
dell'amministrazione coloniale. Ciò favorì la sopravvivenza di rigurgiti neocolonialistici e consentì alle classi dirigenti
del nostro Paese di assolvere i criminali di guerra - a partire dalla riconquista della Libia (1922-1932), sino alle
campagne antiguerriglia in Somalia (1926-1928) e alla lotta contro la resistenza etiopica (1936-1941) - e di
autoassolversi. Basti pensare a Rodolfo Graziani - processato non per i misfatti perpetrati in Africa - ad Alessandro
Lessona, a Pietro Badoglio, per citare alcuni dei responsabili delle nefandezze perpetrate in terra d'Africa; per tacere di
Mussolini. I crimini da loro commessi (incendio di villaggi, deportazioni di massa, uso di armi chimiche) hanno
destrutturato le società e le economie africane. Per il solo periodo 1935-1941 le statistiche di fonte etiopica segnalano la
cifra di oltre 700 mila morti. I caduti in combattimento sono stati 350 mila, cui vanno aggiunti 18 mila civili vittime dei
rastrellamenti, 30 mila massacrati dopo il fallito attentato a Graziani, 24 mila fucilati e 35 mila morti nei campi di
concentramento. Oltre 300 mila persone sono morte di stenti e privazioni in seguito alla distruzione dei villaggi e
all'uccisione di bestiame (7 milioni di ovini, 5 milioni di bovini, 1 milione di cavalli e 700 mila cammelli). Eppure,
Alessandro Lessona parlò (1991) della necessità per l'Europa di impegnarsi nella riconquista dell'Africa onde arginare
una non meglio precisata avanzata cino-giapponese. A sua volta, Pietro Badoglio ha conosciuto una sorta di
"riabilitazione" - complice Washington - in funzione anticomunista come hanno rivelato le ricerche di Michael
Palumbo. In sostanza, gli Alleati erano impegnati nell'assoluzione politica dell'Italia, ad un tempo potenza coloniale
sconfitta e cobelligerante. In piena guerra fredda, la classe politica dirigente ha mostrato il proprio volto provinciale
sfruttando strumentalmente simile copertura per ritagliarsi un ruolo nel Mediterraneo. Pertanto, Roma ha potuto
respingere le ripetute richieste etiopiche di processare i criminali di guerra. Atteggiamento assolutorio assai simile a
quello di settori nazionalistici che nel primo dopoguerra - fa testo la commemorazione di Adua svolta da Corrado Zoli
(1921) - si erano affrettati a considerare la sconfitta come un "generoso errore" militare per il quale la "gloriosa
Nazione" non avrebbe dovuto arrossire. Può ben dire Angelo Del Boca che i ceti dirigenti postbellici, nel tentativo di
recuperare le colonie prefasciste, hanno dato di sé "un penoso spettacolo di incapacità e imprevidenza".
Qui si toccano punti dolenti relativi alle riparazioni, anche morali, dovute ai popoli sottomessi che vanno al di là di
quelle economico-finanziarie. Infatti, il negazionismo ideologico ha finito per legittimare l'espropriazione dell'identità
culturale e nazionalitaria dei popoli oppressi. La supponente protervia dei ceti politici dirigenti è servita a nascondere la
debolezza politico-diplomatica dell'Italia, emersa già col Trattato di pace (10 febbraio 1947) che la privò dei suoi
possedimenti e la consegnò alla subalternità nei confronti delle potenze alleate. Né c'è stato recupero di prestigio ed
autorevolezza internazionali dopo la decisione dell' Onu (21 novembre 1949) di accordare a Roma il decennale mandato
fiduciario sulla Somalia, con l'Eritrea incorporata nella federazione etiopica (1950). Il mandato italiano sulla Somalia
(indipendente nel 1960) ha riqualificato il tribalismo e il cabilismo - nella separazione fra città e campagna - ha
alimentato il clientelismo dei ceti politici dirigenti, la corruzione della burocrazia e la speculazione dei ceti
commerciali. In definitiva, attraverso l'Afis, Roma si è adoperata ad addestrare una classe politica subalterna agli
interessi metropolitani, avida e parassitaria nella sua caratterizzazione di pseudoborghesia dalla debole o inesistente
"coscienza nazionale".
Nemmeno i governi di centrosinistra (anni sessanta) s'imposero lo scioglimento del nodo gordiano rappresentato dal
nostro passato in Africa. Di qui ambiguità ed ondeggiamenti al cospetto delle difformi richieste provenienti dalle ex-
colonie: dal contenzioso etiopico-eritreo, alle sollecitazioni di Siad Barre in Somalia, ai risarcimenti richiesti dalla
Libia. Ha avuto buon gioco, così, l'immagine stereotipata del nazionalismo "docile e generoso" che propone l'Italia in
veste di cerniera commerciale fra Europa ed Africa. Di conseguenza, al neocolonialismo paternalistico degli anni
sessanta si è progressivamente sostituito un neocolonialismo assistenzialistico, a conferma di una decolonizzazione
tardiva e contraddittoria, forse mancata e comunque soggetta a reazioni xenofobe e neorazzistiche al cospetto dei recenti
fenomeni migratori. Non a caso, in prospettiva storica, Nicola Labanca rileva una sfasatura tra la fine formale e quella
sostanziale della dominazione coloniale che risale al periodo 1941-1943 e chiama in causa la sconfitta militare. Ciò
segna il carattere "atipico" della "decolonizzazione" italiana rispetto alle decolonizzazioni francese e britannica in cui si
sono combinati riformismo metropolitano e indipendentismo autoctono. Senza dimenticare l'intenso travaglio che ha
scosso la "coscienza nazionale" del popolo francese al cospetto della lotta di liberazione algerina. In merito alle colonie
italiane, scrive Labanca in Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana: "La eterodecisione alimentò vittimismi
nazionalistici. L'assenza di una pressione nazionalistica autoctona tolse agli italiani la sensazione di essere stati battuti e
superati da una classe dirigente e da una popolazione locali e limitò quel tanto di senso di rispetto che questo tipo di
soggetti politici emergenti si guadagnarono invece presso le altre potenze coloniali nelle loro decolonizzazioni
"classiche".
Negli anni sessanta l'antimperialismo terzomondista ha finito per assorbire, senza metabolizzarla, la memoria delle
colonie impedendo, così, alle giovani generazioni di intercettare criticamente il nostro passato coloniale. L'Africa, però,
si è presa un'ennesima rivincita facendosi conoscere ed apprezzare con le sanguinose e dignitose lotte di liberazione.
Non per questo i nazionalisti ed i neofascisti si sono rassegnati. Essi, infatti, mentre hanno irriso alle lotte dei popoli
africani, hanno rispolverato il leit-motiv della mortificazione del Paese da parte di coloro che lo hanno privato
dell'impero. Di contro, i partiti di sinistra si sono sforzati di legare l'antimperialismo all'anticolonialismo storico, mentre
i liberali denunciavano l'immaturità politica dei nuovi leaders africani. Prese di posizione pregiudizievoli della stessa
ricerca storica col relativo dibattito storiografico. Negli anni cinquanta la classe dirigente affidò gli studi coloniali ad
esponenti già colonialisti, contrariamente a quanto avveniva in Francia e in Gran Bretagna. Si trattava di una cerchia di
studiosi - ruotanti attorno a Carlo Giglio - che monopolizzarono gli studi africanistici sino alla metà degli anni sessanta,
a conferma del solido intreccio esistente fra azione di governo e studi sulla decolonizzazione. Come denuncia Labanca,
nel periodo 1945-1960 l'Italia repubblicana "fallì la possibilità di marcare una forte discontinuità con i passati regimi
liberale e fascista e di provare ad impostare in modo nuovo e lungimirante (...) i rapporti con le ex-colonie e più in
generale con l'Africa. Quando si parla di neutralismo o di attitudini terzomondiste di sezioni della classe dirigente
italiana dovrà sempre ricordare che esse mancarono il loro primo importante appuntamento".
Il colonialismo in età liberale
Il Tigré è aperto al'Italia:
sarà indulgenza nostra
se non vorremo occuparla
(O.Baratieri)

Le infinite miserie tue non sai;


Incivilisci, o Italia, i tuoi selvaggi
(C. Drago).

Parte prima In Africa orientale

Un tentativo cronologico

Al momento dell'unificazione, l'Italia postrisorgimentale mostrò gravi difficoltà nel dotarsi di una fisionomia culturale e
politica "nazionale". Ciò era in parte dovuto ai persistenti squilibri fra ideologia, cultura ed economia, all'interno della
difficile coabitazione fra cultura popolare tradizionale e tradizionalista ed elitismo etico-politica delle classi dirigenti.
All'interno di questa vicenda nazionale, il colonialismo contribuì a conferire significato alla storia italiana e servì da
incubazione di una timida, impacciata, contraddittoria "coscienza nazionale" ancora da venire. Un vago, incerto
interesse coloniale si fece strada nel periodo 1867-1870, animato da studiosi, viaggiatori, missionari. Ma fra questi
emergevano differenti accostamenti al continente africano. Giovanni Miani (1810-1872) - impegnato nel quarantotto
risorgimentale - restò prigioniero dell'esotismo verso un continente sconosciuto e in gran parte inesplorato. Al contrario,
l'ex-missionario Giovanni Sapeto - che favori l'acquisto italiano di Assab - già postulava l'installazione di basi
commerciali militarmente difese. A sua volta, Carlo Piaggia (1827-1882) mostrò vivo interesse ai costumi e alle lingue
dei popoli africani. A far da battistrada nella penetrazione in Africa orientale furono anche organizzazioni e associazioni
di vario tipo, a carattere esplorativo ed espansionistico, tra le quali la Società Geografica Italiana fondata (1867) da
Cesare Correnti - allora ministro dell'Istruzione - che parlò dell'Africa come "continente mummificato" da civilizzare.
Ma, va precisato, che la notazione non aveva un carattere politico quanto culturale, partorito sullo slancio del
patriottismo risorgimentale farcito di fascinazione per l'Africa. Seguirono una serie di spedizioni a metà strada fra
penetrazione coloniale e "scoperta geografica" come quelle di Orazio Antinori (1870-1872), Antonio Cecchi e Giovanni
Chiarivi (1876-1883) che misero piede nella regione etiopica dello Scioa, forti dell'appoggio di Menelik, ras locale.
Altre spedizioni, collegate alla Società di Esplorazione Commerciale in Africa, fondata (1879) da Manfredo Camperio,
finirono tragicamente. Tuttavia, non mancarono segnali di attenzione verso il mondo politico-diplomatico come
dimostrò Costantino Negri, presidente della Società Geografica Italiana. Lo sguardo era puntato sulle terre dei Galla e
dei Dancali, costa africana sul Mar Rosso. Pertanto, gli anni settanta testimoniavano dell'esistenza di un
"precolonialismo" non adeguatamente sorretto da conoscenze geografiche e competenze scientifiche e/o interessato alla
penetrazione commerciale nel continente. Infatti in Italia, gravata da grossi problemi socio-economici (brigantaggio,
bassa produttività) e da scarsa industrializzazione, mancava una puntuale attenzione politica verso l'Africa. La risposta a
questa marginale, debole "tentazione africana" venne da un multiforme e contraddittorio africanismo ideologico. "C'è
l'africanismo disinteressato dell'ultima generazione di viaggiatori romantici e l'africanismo interessato degli affaristi del
nord. C'è l'africanismo che s'ispira alla romanità e alla concezione messianica di un'Italia dispensatrice di civiltà e un
africanismo che nasce da preoccupazioni geopolitiche. C'è l'africanismo vanitoso della casa Savoia e l'africanismo
apostolico dei missionari e dei cattolici conciliaristi. C'è l'africanismo-avventura del vercellese Augusto Franzoj e
l'africanismo-evasione del fiorentino Sebastiano Martini" (A. Del Boca, Gli italiani
in Africa orientale). Negli anni ottanta l'Italia intraprese progressivamente campagne coloniali, sospinta inizialmente
anche dalla volontà di procurarsi una via di comunicazione fra Mediterraneo ed Oceano Indiano, in seguito all'apertura
del Canale di Suez (1869). Con questo intento, l'anno precedente l'armatore Raffaele Rubattino aveva acquistato una
striscia di terra (lunga sei chilometri) nella baia di Assab (Eritrea) per adibirla a scalo di rifornimento di carbone per le
navi in transito. Ciò non sollecitò l'atteso interesse degli ambienti economici lombardi, scoraggiati dalle conclusioni
della Società di esplorazioni commerciali in Africa (1879) sulla possibilità di penetrazione economica nell'area. A
questo punto, con abilità speculativa, Rubattino vendette lo stabilimento di Assab allo Stato italiano (1882) pressato
dagli ambienti armatoriali. Nacque, così, il primo possedimento italiano - momento di prestigio per i Savoia e per settori
della borghesia mercantile settentrionale - senza alcuna configurazione giuridica per via dell'esiguo numero di abitanti
(appena un migliaio). Tuttavia, va considerato che i governi del primo ventennio postunitario guardavano alle colonie
come aree penali e di lavoro forzato. Né è da sottovalutare la fascinazione rappresentata dall'Africa, alimentata dalle
robuste letterature coloniali francese ed anglosassone. Rifugio mitico di un precolonialismo provinciale, debole e
periferico di cui viaggi ed esplorazioni furono, nel contempo, premessa ed esito. Quando il governo Depretis si assicurò
il controllo della baia di Assab nel 1882 - anno della Triplice Alleanza - la diplomazia italiana si muoveva con calcolata
prudenza tra la ragnatela diplomatica intessuta da Bismarck in Europa, la Francia della Terza Repubblica e l'ostilità del
Vaticano, privato del proprio Stato. Così la prima fase del colonialismo italiano (1867-1882), pur restando prigioniera di
un retaggio fondamentalmente risorgimentale, si chiuse con l'appello alla missione civilizzatrice dell'Italia in Africa
orientale. Simile richiamo annunciava l'esistenza di presupposti razzistici, espressione di una politica di forza in
avanzato stato di incubazione. Sicché nella seconda fase della storia del colonialismo liberale (1883-1896), i timori per
le mire francesi sul Marocco fecero esplodere contrasti in seno al governo Depretis fra quanti si affidavano alla cautela
diplomatica (Mancini) e coloro che spingevano per una politica coloniale più aggressiva in funzione antifrancese
(Crispi). A questo punto le difficoltà socio-economiche interne, unite alle pressioni di determinati gruppi industriali
sospinsero il pensiero coloniale nell'involuzione progressiva dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo. Il possesso
italiano di Massaua (1885) rivelò lo stretto, confuso legame fra politica estera e politica interna e servì da nodo
strategico nel raccordo fra Mediterraneo e Africa. Una prima svolta nella politica africana dell'Italia venne impressa da
Crispi - succeduto a Depretis (1887) - nel passaggio da una politica di prestigio ad una politica di intervento. Tuttavia, il
suo indirizzo di fondo restava ancorato ad una politica di forza tipicamente eurotradizionalista e animata dall'assillo di
una Francia considerata ostacolo strategico al rafforzamento dell'Italia nel Mediterraneo. Visione, per certi versi,
riduttiva dei rapporti internazionali se si pensa ai contrasti insorti fra Baldissera e Antonelli sulla condotta da tenere
verso i dignitari abissini. Altrettanto dicasi degli equivoci presenti nel trattato di Uccialli (1889), rivelatori di
superficialità ed improvvisazione nella gestione della politica coloniale. Lo sbocco di una simile incerta strategia fu la
sconfitta di Adua (1896) che registrò la parabola discendente della seconda fase dell'espansionismo liberale. In
sostanza, il colonialismo crispino era rimasto fermo ad una concezione politica generale fondamentalmente europea.
Come dire che il sedimento storico quarantottesco sopravviveva in seno ad un nazionalismo rimasto "provinciale"
poiché invischiato nello scontro di classe che caratterizzava la società italiana. Di conseguenza, Crispi optò per una
politica nazionale di prestigio, esente da pregiudiziali etico-sociali verso i territori acquisiti. Il rilancio dell'iniziativa
coloniale (1897-1913) trovò il proprio veicolo ideologico in un nazionalismo alquanto alieno da riferimenti al
Risorgimento - fatti salvi i richiami retorici - nella sostituzione del concetto di "patria tra le patrie" con quello di
"nazione in lotta con altre nazioni". A trarne vantaggio saranno la baldanza bellicistica, l'etica dell'ardimento,
l'idealismo di giovani generazioni attente al mito del "tramonto dell'Occidente" e affascinate dal dannunzianesimo,
evocatore di un "sogno imperiale". Con tale retroterra culturale Giolitti potè predisporre la conquista della Libia
secondo coordinate coloniali che tenevano conto della politica interna e viste come momento di politica internazionale.
Tuttavia, in seno al colonialismo liberale, restava aperta la frattura tra politica di prestigio e politica di potenza; frattura
composta dalla spinta imperiale del fascismo.

Gli esordi

Col possesso ufficiale della baia di Assab sul Mar Rosso (10 marzo 1882), l'Italia esordì, in tono minore e marginale,
sullo scenario coloniale. L'iniziativa era sorretta da un ibrido intreccio di residua passione risorgimentale e di vocazione
missionaria che la resero impacciata e subalterna alla politica delle grandi potenze. Ciò non impedì al ministro degli
Esteri Pasquale Stanislao Mancini di affermare che la missione dell'Italia consisteva non nella conquista ma nella
civilizzazione di tribù "semibarbare".
A questa data la figura dell'esploratore-avventuriero cominciò a cedere il posto ad un'esplorazione pianificata, sostenuta
con uomini e mezzi consistenti dalle Società geografico-commerciali e dai governi nazionali. Le mire espansionistiche
di Roma - tese a creare colonie di popolamento - si saldavano agli interessi commerciali e allo sfruttamento delle
materie prime e dei metalli preziosi. Obiettivi economico-politici già emersi con la spedizione Antinori. Se ne fecero
portavoce ideologico alcune pubblicazioni, tra le quali L'Esploratore. Giornale di viaggi e geografia commerciale sulle
cui pagine Camperio scriveva che un popolo influente avrebbe dovuto aprire nuovi mercati al commercio
internazionale. Né ci si limitò a questo poiché, con la fondazione della Società Africana d'Italia (1882), settori bancari e
commerciali napoletani furono tra i più vivaci nel sostenere campagne colonialistiche aggressive e intransigenti. A
supporto di tale indirizzo venne istituita una Scuola coloniale nel cui programma di insegnamento figuravano, oltre alla
Geografia economica e al Diritto internazionale anche la Scienza della colonizzazione e lo studio della lingua araba.
Intanto il disprezzo verso l'africano e il ricorso alla violenza sulle popolazioni locali diverranno via via più sistematiche;
una vera e propria routine terroristica finalizzata non esclusivamente a scopi militari. Valga per tutte la descrizione di
Menelik, ras dello Scioa, rilasciata dal capitano Gustavo Bianchi (1879-1880). L'alterigia razzistica di questi confezionò
lo stereotipo mostruoso che, in seguito, avrebbe condizionato l'atteggiamento dei colonialisti italiani verso gli etiopici.
Né da meno era stato il ricco viaggiatore Pippo Vigoni che parlò della popolazione etiopica, generalmente brutta: "Non
è gente cattiva ma tanto indolente e facile all'inganno che davvero strappa le bastonate (...)". Un'anticipazione di quanto
accadrà dopo è fornita dal massacro (1860), ordinato dall'esploratore Giovanni Miani, della popolazione del villaggio di
Madi. Nei suoi Diari egli racconta il raccapricciante episodio: "Io circondai l'incinta ponendo vari soldati agli usci, chi
cercava di fuggire era preso per così dire al volo. Il scek fu ucciso con tutta la sua famiglia, poi mutilate le mani per
cavargli i braccialetti d'onore, indi (i soldati) gli tagliarono il membro portandolo in trionfo sopra una lancia. Dato
l'assalto al villaggio, ordinai di estrarre tutto il grano e gli animali che potevano. Il saccheggio fu accordato a tutti i
soldati e selvaggi nostri (...). Osservando l'incendio ebbi un gusto superiore a Nerone perché mi feci accendere la pipa
col fuoco del villaggio". Non meno violente erano state le esplorazioni in terra somala. E' il caso del principe Eugenio
Ruspoli che fece strage delle popolazioni che gli si opponevano autorizzando i suoi ascari a dedicarsi "alla rapina
attaccando i villaggi", come confessa nelle sue memorie. Per tacere di Vittorio Bottego le cui motivazioni politico-
strategiche, in funzione antietiopica, gli sembravano sufficienti ad intraprendere una serie di massacri. Il clima di
violenta sopraffazione antiafricana era ben esemplato da una pubblicistica virulenta e razzistica cui partecipò anche il
Bollettino della Società africana d'Italia che, in un numero del 1882, scrisse: "Siate ricchi, forti e vi rispetteranno. Allora
il negro, al quale pel più lieve gesto d'insofferenza voi avete assestato trenta colpi di frusta sulla schiena, verrà da voi
con una pietra sul collo perché gli schiacciate la testa e vi bacerà i piedi e vi sarà grato che gli abbiate lasciato la vita".
Altrettanto efficace sul piano politico-ideologico si rivelò la Conferenza coloniale, (1885) che, nelle sue conclusioni,
invitò la monarchia a rompere gli indugi ed elaborare piani di annessione dei territori sul Mar Rosso, considerandoli
parte integrante del territorio metropolitano e pieni di ricchezze naturali al cui sfruttamento era interessato il grande
capitale.

Missione civilizzatrice

L'imperante clima imperialistico lasciava intravedere un più diretto impegno politico da parte di Roma in favore di
colonie di popolamento. In tal modo si delineò la convergenza progressiva fra interessi economici e finalità scientifiche;
convergenza ideologicamente sorretta dalla retorica del prestigio nazionale. Fu lo stesso ministro degli Esteri Pasquale
Stanislao Mancini (1881-1885) a rivelare che "nostra unica ambizione dovrà essere quella di fare in quelle regioni del
nome italiano un sinonimo di onestà e lealtà". In tal modo l'Italia postrisorgimentale, nel suo paternalismo pedagogico-
etico, abbozzò i lineamenti del sussessivo espansionismo. Nell'ottica di Mancini la presenza italiana nel Mar Rosso si
delineava come il prolungamento di una politica mediterranea triplicista fondata sulle basi commerciali. Del resto le
ambiguità e le contraddizioni di una simile condotta politica emersero con la spedizione - tra la diplomatica e la
mercantile - di Pietro Antonelli (1883) che combinò l'interesse privato (traffico d'armi) con le ambizioni politiche di
Roma. A dirottare l'interesse italiano sull'Eritrea intervennero fattori interni e internazionali. Accanto alle ambizioni del
re Umberto I si coglievano la comparsa di un'incipiente "questione demografica" e la crisi finanziaria attraversata dal
Paese. Sull'altro versante, dopo l'intesa con Londra, impegnata a combattere la rivolta in Sudan, si profilò l'attrito con la
Francia che aveva occupato Tunisi. La presenza italiana sulla costa eritrea puntava all'esplorazione delle foci del Giuba
e alla compartecipazione al protettorato sull'Egitto.
Intanto le conclusioni del Congresso di Berlino (1884-1885) - che fissò le modalità della futura occupazione dell'Africa
- conferì un'ulteriore spinta alle ambizioni espansionistiche dell'Italia. Se ne fecero paladini strati di media borghesia,
quadri burocratici e militari oltre alla borghesia meridionale. A favorire tale politica era il mutato scenario dell'Africa
orientale ove la Gran Bretagna, impegnata a combattere l'insurrezione dei dervisci sudanesi, lasciò all'Italia
l'occupazione indolore (1885) del porto di Massaua
(nominalmente sotto tutela egiziana) col suo povero e torrido retroterra. Sfruttando l'iniziale assenza di un'efficace
resistenza, l'insediamento italiano in Eritrea s'incuneò nel plurietnicismo dell'area prima che l'indemaniamento delle
terre facesse scattare la resistenza del degiac Batha Agos (1894). Gli indirizzi colonialistici italiani non nascevano su
base subimperialistica data l'assenza di colonie di popolamento, né sulla base di organici e determinati interessi
nazionali, quanto da considerazioni di prestigio in vista della collocazione dell'Italia nel novero delle grandi potenze. Un
primo abbozzo di programma coloniale venne delineato nei resoconti dell'esploratore Giovanni Battista Licata (1883)
che, alludendo ai fasti dell'impero romano, rivendicava il "diritto" e il "dovere" di morire per l'Africa in nome della
patria. "Materialmente e moralmente, l'opera nuova, avviata ad un luminoso destino, mostrerà che eventi forse fatali la
ritardarono, ma che non era morto nel nostro petto l'animo dei trionfatori di Cartagine e dei crociati di Lepanto". Ma
non mancavano sollecitazioni sociali date dalla preoccupazione di ripulire la società dalle "scorie" (lavoro contadino,
rivendicazioni del proletariato) che "intralciavano" lo sviluppo accelerato del capitalismo. In tale congiuntura prese
slancio l'ideologia mistificatoria della conquista e della colonizzazione delle terre africane che "attendevano" l'arrivo dei
civilizzatori. Lungo l'asse espansionistico si collocò anche il nazionalismo cattolico, ben rappresentato
dall'Associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici (1871). Nello stesso anno della sconfitta di Dogali
(1887) l'abate Stoppani, intervenendo all'assemblea generale dell'Associazione, esaltò la politica e le guerre coloniali
come manifestazione di civiltà contro la "tirannia" della barbarie che imperversava nel mondo.
"O è un banchetto a cui, sono convitate le nazioni civili, e l'Italia ha il diritto assidèrvisi: o è un peso (un peso
gravissimo è certo alle nazioni civili imposto dall'umanità e dalla giustizia) e l'Italia ha il dovere di portare la sua parte".
Si trattava di prese di posizione che evidenziavano un progressivo avvicinamento fra liberali e cattolici e maggior
convergenza operativa ed ideologica fra Stato e Chiesa sulla politica coloniale che lasciavano presagire una futura,
solida confluenza fra imperialismo e capitalismo finanziario cattolico. La sconfitta di Dogali venne trasformata, dai
settori colonialisti e cattolici, in esempio di eroismo. Nell'orgia di retorica revanscista romanocentrica, il combattente
africano restava un "barbaro", una "bestia immane". A Parma l'arcivescovo Miotti consentì, per la prima volta,
l'esposizione della bandiera nazionale nella sede arcivescovile. Nel suo discorso celebrativo invocò la rincorsa alla
rivincita in nome di Dio, della Patria e del Popolo. Anche ampi settori del basso clero non rinunciarono ad esaltare
l'opera di civilizzazione della "Italia invitta".
Chiesa e missionari

L'interesse della Chiesa cattolica verso il Corno d'Africa aveva anticipato di gran lunga l'arrivo degli esploratori.
L'evangelizzazione dell'Etiopia, affidata ai francescani e ai gesuiti, era già scattata nel secolo XIV senza conseguire
apprezzabili risultati. L'attività missionaria venne programmata e rilanciata, con più determinazione ed efficacia, coi
pontificati di Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII, cioè nel periodo compreso tra il 1831 e il 1903. Questo era anche il
periodo della progressiva ascesa di un nazionalismo cattolico che decifrò la sconfitta di Adua in termini di punizione
divina contro lo Stato liberale, negatore dei privilegi ecclesiastici e del temporalismo. E' fuor di dubbio, tuttavia, che
l'intraprendenza e l'ardimento di alcuni missionari - spesso uomini di scienza e validi esploratori - abbiano contribuito
alla conoscenza dell'Africa. Ma altri esempi di altrettanto rilievo contraddissero l'immagine del missionario
disinteressato, alieno da obiettivi extrareligiosi e animato da "buoni sentimenti". Nel 1838 la Propaganda Fide, in
concorrenza con la Chiesa protestante e interessata al controllo della Chiesa copta, inviò in Etiopia Giuseppe Sapeto.
Questi più che al proselitismo religioso si interessò agli affari e alla politica prestandosi alle manovre e agli intrighi
delle potenze coloniali tant'è che, in maniera spudorata, disegnò a Napoleone III un'Etiopia, terra di "inesauribili
risorse". In sostanza, le sue trame puntavano all'acquisizione per qualsiasi cliente interessato alla spartizione
dell'Abissinia che, comunque, sarebbe dovuta restare cristiana. Né fu da meno padre Stella che, una volta smesso l'abito
talare, ebbe modo di mettere a frutto la propria vocazione mercantile con l'ottenimento di una concessione terriera di 90
miglia nello Sciotel. Alla costituzione del Vicariato d'Abissinia (anni cinquanta) fece da sponda la penetrazione
missionaria tra le popolazioni galla dell'Eritrea, affidata a Guglielmo Massaja. Questi fu espulso dall'Etiopia (1879) con
l'accusa di aver favorito l'espansionismo europeo. Indubbiamente egli contribuì all'espansione della presenza italiana
quando, ad esempio convinse le autorità etiopiche ad accogliere la spedizione Antinori, convincendole della sua natura
puramente scientifica. Ras e degiac avevano tentato a più riprese di bloccare l'attivismo delle missioni cattoliche. Agli
inizi del secolo XX la rivista "Civiltà Cattolica" e "L'Osservatore Romano" uscirono allo scoperto riconoscendo il
diritto dei popoli "civili" a dominare sui "barbari". Si era nella fase di riconquista cattolica della società italiana e della
ridefinizione dell'atteggiamento di cattolici nei confronti di alcuni Stati europei, come indicato da Leone XIII. Vennero
gettate, così, le premesse della convergenza sulla politica coloniale fra movimento liberale e mondo cattolico sia in
ottica clerico-nazionalista che in ottica clerico-moderata. Nel 1913 Luigi Sturzo, leader del Partito Popolare, condivise
l'aggressione giolittiana alla Libia ritenendola efficace per la promozione dell'Italia a livello internazionale. Nel 1916 fu
la volta di Gaudenzio Barlassina (prefetto apostolico del Caffa) che, nel suo acceso nazionalismo politico-ideologico,
mise in campo il peso della propria autorità, in qualità di collaboratore del governo italiano, nell'intrecciare relazioni
con Addis Abeba. Questi era giunto (1916) clandestinamente in Etiopia per aggirare l'ostilità delle autorità locali. In
seguito, comportandosi più da serpente che da colomba - come egli stesso confessa - riuscì ad ottenere una concessione
di 70 chilometri per 20 e segnalandosi più come imprenditore che come missionario. Una volta conosciuti i progetti
espansionistici mussoliniani in Africa orientale, Barlassina non esitò a mettere a disposizione della causa imperiale
fascista il suo integralismo crociato e il suo zelo "civilizzatore".

Conquista e genocidio

Con l'occupazione pacifica di Massaua (1885) l'Italia di Depretis inaugurò una svolta decisiva nella politica nazionale
fino ad allora incentrata prevalentemente nel Mediterraneo, ed ora protesa a ricercare le chiavi del Mar Rosso, nella fase
di ascesa di un incipiente nazionalismo. L'esaltazione della "italianità" vedeva protagonisti, oltre al capitale industriale-
commerciale, anche diseredati "senza bandiera". Questi ultimi vennero coinvolti in una colonizzazione senza
colonialismo poiché gli erano estranei sia le motivazioni della conquista che lo spirito militaristico della sopraffazione.
Su questo retrotrerra iniziò la penetrazione in Etiopia con la successiva sconfitta dell'esercito coloniale a Dogali,
sull'altopiano eritreo (26 gennaio 1887), ad opera di ras Alula. Nella circostanza emersero l'imprudenza,
l'approssimazione e la protervia razzistico-militaristica dei quadri militari italiani, oltre alla fragilità economica
dell'Italia postrisorgimentale. Ma il dato più qualificante restò la conferma dell'impreparazione dell'Italia a svolgere una
politica coloniale all'altezza delle potenze europee. Nel contempo Dogali rappresentò il primo tassello della resistenza
armata anticoloniale di tipo regionale, guidata dai notabili tradizionali coi loro eserciti di sudditi pastori-cacciatori e
allevatori poveri la cui economia di baratto viveva del nomadismo e del seminomadismo. In definitiva Dogali
rappresentò il momento premoderno della lunga lotta d'indipendenza dell'Etiopia multietnica ed autocratica.
La ripresa della penetrazione verso l'interno dell'Etiopia vide protagonista il generale Antonio Baldissera che provvide
all'istituzione di battaglioni ascari eritrei (volontari con ferma annuale) conoscitori del territorio. Nel contempo, col suo
militarismo "asburgico", speculò (rifornimenti d'armi) sulle rivalità fra i notabili locali per meglio dominarli. Lo Stato
etiopico si articolava sui ras (capi di regione), coi loro "vassalli" (degiac, fitaurari, degiasmac) e faceva riferimento,
oltre che ai negus (alto dignitario) all'imperatore (negus neghesti). Cariche conquistate, ereditate o conferite dall'alto.
Baldissera non condivideva la politica della "salvezza" dell'impero etiopico. Al contrario, prefigurava l'assalto militare
all'impossessamento delle sue ricchezze. Sfruttamento, accoppiato all'efficienza repressiva, che sfociò in esecuzioni
sommarie e in deportazioni. Nei venti mesi in cui diresse le operazioni militari, provvide a dotare la colonia di un
embrionale assetto amministrativo e di corpi indigeni armati regolari. Inoltre, si interessò al miglioramento dei
rifornimenti idrici e all'attività degli ospedali a Massaua. Nel contempo lavorava ad ulteriori annessioni ed emanava una
serie di decreti fiscali che colpirono commercianti e proprietari di immobili. In attesa dell'attacco sull'altopiano etiopico,
il generale non rinunciò al proprio programma di espansione e alla costruzione di Addis Abeba, mentre il governo
italiano era impegnato a manovrare col ras Menelik per spodestare il negus Giovanni.
A spingere per la ripresa dell'espansione erano l'industria pesante (armamenti, cantieristica) oltre alle imprese artigiane
e alla schiera di commercianti e profittatori, pronti ad inseguire buoni affari con la copertura dello Stato. Non
mancavano, del resto, le motivazioni politiche del primo governo Crispi (1887-1891), proteso a conferire prestigio
internazionale all'Italia e attento a saldare l'avventura coloniale alla politica autoritaria ed antisociale sul piano interno.
La politica crispina puntò sulla fornitura d' armi a Menelik, premessa alla stipulazione di un trattato col ras dello Scioa.
Ma nell'attuazione del programma si scontravano la linea scioana di Antonelli - iniziale ispiratore di Crispi - e la "linea
tigrina" di Baldissera. Il primo propenso ad un'espansione politico-commerciale in Abissinia, forte del sostegno di
Menelik. Il secondo - sottovalutando la capacità di coesione del protonazionalismo etiopico - pensava di sfruttare il
frazionismo dei capi del Tigrai. In effetti, era pregiudizio diffuso che le campagne d'Africa avrebbero avuto successo
comprando, corrompendo, attizzando rivalità vecchie e nuove tra i capi locali visti come capibanda, sul modello dei
briganti del meridione italiano. Di conseguenza non si sospettava del fatto che il collaborazionismo di facciata
nascondesse una forma di infiltrazione tipica della guerriglia anticoloniale. Nei contrasti fra militari e civili, Crispi
compì una scelta che ostacolò la missione di Antonelli e creò difficoltà a Baldissera. La situazione venne rimessa in
moto dalla morte del negus Giovanni nel corso della battaglia di Materna, nello stesso anno dell'occupazione di Asmara
(1889). Quando Baldissera rientrò in Italia, l'Eritrea - e più in generale il territorio abissino - fu privato del bestiame;
privazione che innescò carestie ed epidemie. Afework Gabre Iyasus rileva che dopo il passaggio degli eserciti "la gente,
morendo di fame, cominciò a cadere e a giacere nelle vie, nei boschi, intorno ai recinti delle chiese e delle case dei
dignitari (...). Ai morti la sepoltura fu un lusso!". Gabre Selasse ricordò (1932) come - nonostante il divieto della legge
mosaica a cibarsi di carne impura - "gli uomini si mangiavano l'un l'altro. Una donna dello Uollo si cibò di suo figlio. In
un altro paese, chiamato Ensarò, una donna mangiò sette fanciulli (...)". L'espansione nell'impero fu conseguita senza
che ci fosse una particolare resistenza da parte etiopica. Infatti il negus era impegnato a contenere la pressione derviscia
e a combattere i separatismi regionali.
In tali condizioni, dopo la morte dell'imperatore Giovanni, il governo italiano favorì l'ascesa di Menelik, ras dello Scioa,
sul trono d'Etiopia. Da questa posizione privilegiata il governo italiano concluse un accordo di alleanza e di amicizia col
negus (Trattato di Uccialli, 2 maggio 1889) che riconosceva all'Italia il possesso dell'area settentrionale dell'altopiano e
proclamava, altresì (in maniera ambigua perché non esisteva nella versione etiopica del trattato) il protettorato
italianosull'Etiopia. Lo schema del trattato (in 20 articoli) subì più di una modifica, a partire dalle questioni confinarie.
Tuttavia, gran parte dell'altopiano ed il Tigrè entrarono a far parte dell'Eritrea sottoposta a sovranità italiana.
Interessante si rivela la traduzione in lingua amhara dell'art. 17 che riproponeva le clausole del trattato del 1883 ove si
parlava di "possibile" aiuto italiano agli etiopici. Invece, nella versione italiana, Menelik era obbligato a trattare gli
affari esteri con l'assistenza italiana. Risultato: Crispi e Antonelli trasformarono l'Etiopia in appendice giuridico-politica
dell'Italia. All'attività diplomatica si aggiunse l'offensiva militare di Baldissera, premessa alla costituzione della "colonia
primogenita" dell'Eritrea (5 gennaio 1890). Nasceva, così, una colonia di cui si ignorava la composita configurazione
etnica e la stratificazione dei modi di produzione, legate a determinati contesti regionali e religiosi (copti, musulmani,
animisti). Con tali premesse l'Eritrea rappresentò nell'immaginifico coloniale del tempo il trampolino di lancio per la
formazione di un impero coloniale italiano, comprendente anche l'impero etiopico. Contemporaneamente la
penetrazione sulla costa somala portò all'istituzione del protettorato italiano sul Benadir. Ormai si pensava al
superamento del confine eritreo per puntare sull'Etiopia e ridurla a protettorato. Nel pieno rilancio dell'offensiva
colonialistica (1888-1890) funzionari civili e alcuni militari italiani si resero responsabili di soprusi e di stragi sulla
popolazione eritrea. Massaua, in particolare, divenne il luogo di eccidi sistematici e di traffici illeciti. Operazioni nelle
quali si distinse, fra gli altri, il tenente dei carabinieri Dario Livraghi. La "questione africana" si arricchì di episodi
raccapriccianti con l'eliminazione di notabili eritrei a scopi di lucro, con l'assoldamento di bande locali, con l'impiego di
feroci capi collaborazionisti. "La Tribuna" di Roma parlò, tra l'altro, delle "imprese" del tenente Dario Livraghi che
assistè ad esecuzioni sommarie come quella del "santone" Naib Osman, ucciso di persona con due colpi di revolver e
sulla cui fossa passò più volte allegramente col suo cavallo. Altre nefandezze vennero commesse nell'orrore delle
carceri eritree. Sull'isolotto di Nocra, poco distante da Massaua, i colonialisti inaugurarono un penitenziario in cui erano
costretti a vivere prigionieri politici e delinquenti comuni. L'immondo lager di Nocra, divenuto famigerato con
l'occupazione fascista, è così descritto dal capitano Eugenio Finzi: "I detenuti coperti di piaghe e di insetti muoiono
lentamente di fame, scorbuto, di altre malattie. Non un medico per curarli; 30 centesimi pel loro sostentamento,
ischeletriti, luridi, in gran parte han perduto l'uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente incatenati sul
tavolato alto un metro dal suolo". Qui la tortura era pratica quotidiana, giustificata dai coriferi dell'avventura coloniale,
tra i quali Ferdinando Martini, col fatto che la civile Europa, ormai decrepita, aveva bisogno di- spazi rigeneratori per
risollevarsi. In quest'opera di "elevazione", anche morale, l'Italia non avrebbe potuto ritirarsi dalla spartizione del
continente stanti l'incremento demografico e il ruolo di "grande potenza". Senza scrupolo alcuno Martini auspicava la
sostituzione di "razza a razza" nell'Eritrea che si concretizzerà nella confisca delle terre, assegnate ai capitalisti
metropolitani coinvolti nella colonizzazione. Denunce aperte per i misfatti consueti vengono rivolte ai governatori
Baldissera e Baldassarre Orero che ordinarono, tra l'altro, l'eliminazione di 800 "ribelli", sospettati di diserzione.
Baldissera aveva un ben preciso progetto: trasformare l'Etiopia in colonia militare alla romana, ove incutere terrore nei
"barbari", cioè alle "razze inferiori", destinate a scomparire dinanzi all'incalzante avanzata della "civiltà". Si è ben al di
là di un piano di conquista. L'obiettivo è l'attuazione di un colossale piano di genocidio. La commissione d'inchiesta
incaricata di indagare sui crimini commessi pronunciò una sentenza di assoluzione per Baldissera. Ma questi ed altri
responsabili dei massacri vennero accusati, anni dopo, da alcuni loro ufficiali subalterni. Questi rivelarono come il
ricorso ai plotoni di esecuzione, anche per le donne, fosse all'ordine del giorno in Eritrea, così come la condanna ai
lavori forzati anche per quegli eritrei che, scambiati per razziatori e spie, avevano chiesto di volersi sottomettere
all'autorità italiana. Secondo Baldissera era indispensabile "incutere terrore per tener soggetti quei barbari". Nel 1892
governatore dell'Eritrea divenne Oreste Baratieri, accentratore ed autoritario, che trasformò la colonia in una sorta di
"feudo" personale. Le sue disposizioni spaziavano dalle pratiche religiose, al fisco, alla promozione della lingua
italiana, all' indemaniamento delle migliori terre dell'Eritrea. Dotò la colonia di un impianto telegrafico e di una milizia
mobile locale alle sue dipendenze. Obiettivo, condiviso con Crispi, restava l'Etiopia. Il primo passo dell'aggressione fu
la conquista di Cassala ove le truppe italiane si distinsero nei saccheggi e nelle violenze sulla popolazione civile.
Ferdinando Martini così commentò l'operato italiano: "In nove anni da che ci siamo, della nostra civiltà l'indigeno non
ha preso che una sola cosa: l'acquavite (...). Lentamente, ma fatalmente la razza nostra si sostituirà alla loro: non c'è
rimedio". Di li a poco si procedette all'indemaniamento. Nel periodo 1893-1895 furono indemaniati due terzi della terra.
Le prime nove famiglie coloniche giunsero a Godofelassi (1893) ed ottennero poderi di 20 ettari ciascuna, trasformati in
proprietà entro 5 anni dopo aver restituito allo Stato il prestito ricevuto di 4 mila lire per il viaggio e l'iniziale
insediamento. Malcontento e ribellioni delle popolazioni assoggettate furono il risvolto dello zelo autoritario e
colonizzatore di Baratieri. A sollevarsi fu il degiac Batha Agos che incitò altri capi eritrei a fare altrettanto contro i
tributi e la schiavitù imposti dagli italiani. Una volta domata la sollevazione, Baratieri mosse alla conquista del Tigrè,
mentre Menelik provvedeva a rafforzare la posizione etiopica sul piano diplomatico internazionale e riuscendo
nell'alleanza coi dervisci sudanesi.

Adua

La situazione in Etiopia precipitò (1894) con lo scoppio di una rivolta ove la massiccia confisca delle terre arabili aveva
suscitato la reazione delle popolazioni, pretesto colto dai colonialisti per conquistare il Tigrè, in ossequio ad una spietata
logica imperialistica. La requisizione delle terre da destinare
ai coloni italiani era iniziata nel 1893 assumendo progressivamente i caratteri di una brutale rapina (oltre 400 mila ettari
espropriati). Rapina, appunto, visto che le confische erano effettuate in spregio del diritto coranico e delle consuetudini
locali in materia fondiaria. La rivolta, guidata da Batha Agos assunse i caratteri di un'insurrezione protonazionale in
un'Eritrea ritenuta pacificata. Il degiac lanciò un appello agli eritrei per mobilitarli contro gli invasori che avevano
imposto pesanti tributi, rubato le terre migliori, imposto, ad una popolazione ridotta in semischiavitù, mille divieti ed
obblighi, oltre ad averne violato la cultura ed il sentimento religioso. La rivolta venne soffocata nel sangue (1894) ma
aggravò la posizione italiana in Eritrea inducendo i capi abissini a coalizzarsi di fronte agli invasori. Questi ultimi, nella
loro offensiva, si erano macchiati di pesanti crimini.
Intanto si profilava la disfatta di Adua.
L'esercito etiopico, guidato da Menelik, nonostante le carenze logistiche, era temibile per la capacità di movimento su
un terreno conosciuto, per il valore dei combattenti ed il prestigio dei capi. Fattori che furono decisivi nella battaglia di
Adua (1 marzo 1896) che pose fine alla politica espansionistica condotta in maniera equivoca, con sufficienza ed
alterigia razzistiche.
In effetti, gli errori "tecnici" furono il risvolto di tale supponenza militaristica; a partire dall'approssimazione
cartografica, oltre all'approssimazione degli obiettivi. Per Baratieri non ci fu scampo. La più cruenta delle battaglie
"moderne" combattute in Africa suscitò la compassione di Afework per i soldati italiani "strappati ai loro agi, ai loro
piaceri, alla loro patria, dopo aver pianto le loro madri e baciato gli amici (...)". Con la sconfitta di Adua cadde il
secondo governo Crispi ma non per questo la stampa nazionalistica si arrese di fronte all'opposizione anticoloniale.
Anzi minimizzò la protesta nazionale, rilanciò la necessità di salvaguardare l'"onore nazionale" in chiave revanscista per
trasformare l'Etiopia in Etiopia italiana. Nasceva così il mito di Adua, fatto di rancore e risentimento, visto come onta
da cancellare per riaffermare le "virtù". In tal senso si mobilitò un'illustre pubblicistica, che andava da Carducci, ad
Oriani, a Corradini, a D'Annunzio, pronta a gettare i semi di un nuovo imperialismo con epicentro nel Mediterraneo. La
sconfitta di Adua, la più pesante imposta ad un esercito europeo "bianco", cristiano nel continente, produsse
qualcos'altro ancora. Molti fra i 1.900 prigionieri nelle mani di Menelik furono distribuiti fra i villaggi. Liberi dai
vincoli imposti dalla disciplina militare, circolavano armati di bastoni e coltellacci abbandonandosi ad atti di violenza e
di arroganza e suscitando episodi di rivolta in Addis Abeba. Nella loro ignoranza e nel loro razzismo scambiarono la
tolleranza delle popolazioni locali per servilismo e manifestazioni di paura. Ben presto, però, furono costretti a
ricredersi e a scoprire che intelligenza e sensibilità abitavano anche le "barbare" contrade. Gli otto medici italiani
catturati furono accolti da Menelik e accudirono i feriti di entrambi gli schieramenti. Il generale Albertone, in rispetto
del suo grado, godeva di una tenda, di un cavallo e di servi. Toccante fu il racconto del tenente Gherardo Pàntano,
consegnato all'afa-negus Nasibù col quale stabilì un cordiale rapporto. Il ministro della Giustizia di Menelik gli si
rivolse in questi termini: "Due nemici dopo aver fatto il loro dovere di fronte l'uno all'altro, possono diventare amici. Tu
sei giovane ed io vecchio. (...) Tu sei ufficiale, abituato a comodità ch'io non sono in grado di darti; ma ricordati che la
mia casa è la tua e domanda ciò che ti occorre". Quindi gli dona una camicia di cotone per ripararsi dalle fredde notti
dell'altopiano. In Italia, ben presto, allo sconcerto per la cocente disfatta subentrarono risentimento e disprezzo, fertile
terreno di attecchimento dell'imperialismo fascista. Intanto venne firmato un trattato italoetiopico (1896) che abrogava
quello di Uccialli e che riconosceva l'indipendenza e la sovranità dell'impero etiopico la cui frontiera provvisoria con
l'Eritrea venne fissata sulla linea dei fiumi Mareb-Malesa-Muna. Per giunta, l'Italia si impegnava a consegnare l'Eritrea
ad Addis Abeba qualora vi avesse rinunciato. A sua volta l'Etiopia rinunciava alle pretese territoriali sull'altopiano e, nel
1908, a parte della Dancalia.

Da Martini a Raggi

L'anno successivo Ferdinando Martini venne nominato - primo civile - governatore dell'Eritrea. Il suo paternalismo
dirigistico si manifestò a due livelli: la lotta alla corruzione e all'affarismo dei civili e dei militari italiani e
l'introduzione di un ordinamento organico per la colonia con la separazione fra potere militare e il preminente potere
civile. L'Eritrea fu così divisa in regioni rette da commissari civili e con la capitale trasferita da Massaua ad Asmara con
ricadute positive sulle opere infrastrutturali. L'intensificazione dello sfruttamento agricolo avvenne in opposizione a
quanti intendevano trasformare il Paese in colonia di popolamento. Ciò non impedì a Martini di considerare gli eritrei
sudditi incapaci di emancipazione. Di qui mosse anche il rigore intransigente che legò la "pacificazione" della colonia
alle brutali condizioni di vita nei malsani penitenziari di Nocra e di Assab, con le pene del ceppo e del curbasc, estese
anche ai reparti militari indigeni. Il narcisismo accentratore di Martini colpì il sistema del servaggio, a suo tempo
imposto agli eritrei, così come le diffuse pratiche delle requisizioni e delle ritorsioni. Intanto, il suo attivismo
diplomatico consentì l'incontro con Menelik (1906) in nome di una politica di buon vicinato, supportata
dall'allentamento della presenza militare. Ufficialmente costituita nel 1890, all'Eritrea fu esteso l'ordinamento politico-
giuridico del 1882 inerente Assab. Il governo centrale ebbe riconosciuto, così, anche il potere di legiferare mentre la
colonia venne sottoposta all'autorità del ministro degli Affari Esteri. Nell'ordinamento del 1882 era rimasto il regime di
separazione fra i cittadini (sottoposti ai codici italiani) ed i sudditi coloniali legati alle norme consuetudinarie. Nel 1894
l'Eritrea venne divisa in circoscrizioni e residenze (aree di confine) con tre divisioni regionali (Asmara, Assab, Cheren)
governate da "Commissari regionali" assistiti da Residenti (soppressi nel 1908). A nominarli provvedeva il Governatore
della colonia, in rappresentanza dell'autorità metropolitana. I Commissari regionali sovrintendevano a funzioni
amministrative periferiche con competenze in materia sanitaria, tributaria e di pubblica sicurezza.
Ciò fu la conseguenza dell'abolizione (1897) della giurisdizione militare e della formazione del governo civile di
Martini. In seguito l'ordinamento amministrativo della colonia venne ritoccato con la Legge Organica del 1933 che
ampliò i poteri del Governatore (dai tributi alle forze armate) e ribadì l'assoluta preminenza della legislazione italiana.
In età giolittiana Martini venne sostituito (1907) dal cattolico Giuseppe Salvago Raggi, impegnato nella riattivazione
del commercio con l'Etiopia e nella promozione di infrastrutture (completamento della ferrovia fino ad Asmara, inizio
della costruzione dell'acquedotto di Massaua, apertura di agenzie commerciali). Convinto dell'impossibilità della
colonizzazione dell'Eritrea, Raggi provvide a restituire gran parte delle terre indemaniate ai legittimi proprietari. Il suo
efficientismo gli suggerì l'ipotesi della penetrazione pacifica nel Tigrè, mentre all'orizzonte si profilava la guerra
mondiale. In tale ottica, il governo italiano - con Martini ministro delle Colonie - pensava di consolidare le proprie
posizioni in Africa orientale ben conoscendo l'interessamento della Germania verso l'Etiopia. Tuttavia, a guerra
mondiale conclusa, fu cocente la delusione scaturita dall'esiguo bilancio coloniale. Roma, che sperava in compensi
decisivi, non potè accampare pretese né sull'Etiopia, né sull'Oltregiuba. La "rinunciataria" Italia liberale - così definita
dai nazionalisti e dai circoli espansionistici - lasciava in eredità al fascismo pendenze politico-diplomatiche, frustrazioni
e miti, per certi versi eredi della tradizione colonialistica che si farà imperialismo "romano, latino, mediterraneo (...). Il
popolo italiano deve essere necessariamente espansionista", come affermò, nel 1920, Benito Mussolini.

In Somalia

Negli anni ottanta le conoscenze sul Paese dei somali erano vaghe e limitate nonostante cominciasse a profilarsi
un'ipotesi di programma coloniale ancora indefinito negli ambienti africanisti ed in quelli vicini alla Corona. Alla
Somalia - a prevalente economia nomadica - si guardava come ponte di accesso all'Etiopia. La complessa realtà
etnoclanica delle regioni interne era considerata la manifestazione di un frazionismo, sinonimo di debolezza strutturale.
Sulle coste meridionali erano insediate popolazioni dalle consolidate tradizioni commerciali con l'Oceano Indiano.
Come nel caso eritreo anche in Somalia la presenza italiana fu agevolata dall'atteggiamento di Londra. Su iniziativa di
Mancini scattò la spedizione di Antonio Cecchi nel Mar Rosso (1884) a supporto dell'iniziativa militare del colonnello
Tancredi Saletta, diretta su Massaua. Giunto a Zanzibar, Cecchi - figura di esploratore e politicante - stipulò (1885) un
accordo col sultano locale che non contemplava alcuna concessione territoriale in favore degli italiani. Tuttavia, le
interferenze britanniche e tedesche nell'area e gli imprecisati ambiti di sovranità italiana su zone della costa somala
(Chisimaio), spinsero ad una frettolosa ed incompleta esplorazione del corso del fiume Giuba. Quattro anni dopo - con
Crispi al governo - riprese quota il programma coloniale per trattative col sultano di Zanzibar, secondo le aspettative del
console-mercante Vincenzo Filonardi. L'accordo stipulato (1889) consegnò in affitto all'Italia il porto di Chisimaio ed
altri quattro porti del Benadir. L'operazione riuscì grazie ai buoni uffici della Prussia e di Londra. Due anni dopo un
accordo italo-britannico delimitò le sfere d'influenza dei due Paesi con la linea di demarcazione posta sul Giuba che
permise a Londra di conservare il possesso di Chisimaio. Non per questo l'Italia rinunciò ad estendere il proprio
protettorato su Obbia e sulla Migiurtina combinando pressione militare ed attività diplomatica, oltre a sfruttare l'assenza
del controllo sultanico sul territorio posto fra i porti del Benadir. Accanto ai militari e ai diplomatici, nell'attività di
penetrazione si distinsero anche esploratori e commercianti. Tra questi Luigi Robecchi Bricchetti (1888-1891),
finanziariamente sostenuto dalla Società geografica italiana. L'ambizione del viaggiatore prefigurava la formazione di
un impero coloniale "inter-razziale" (somali, galla, abissini). Le "esplorazioni" erano state accompagnate da una serie di
violenze gratuite su popolazioni e villaggi. E' il caso del principe Eugenio Ruspoli che compì stragi sulle popolazioni
che ne contrastavano la marcia. Per venire a capo della resistenza autorizzò i suoi ascari (truppe indigene ausiliarie) a
dedicarsi "alla rapina attaccando i villaggi" come confessa nelle sue memorie. Altrettanto disgustoso fu il
comportamento di Vittorio Bottego che - nel corso del suo primo viaggio (1892-1893) - esplorò il medio e basso corso
del Giuba, costruì fortilizi lungo il confine con l'Etiopia e concluse alleanze coi somali e coi galla in funzione
antiscioana, come confermò la sua seconda spedizione (1895-1897). Infatti, una volta che Roma approvò il progetto del
Giuba, Bottego ebbe modo di svelare i suoi piani. Dietro gli studi orografici si nascondevano un'azione di spionaggio e
l'intento di sobillare la guerriglia antietiopica. Messa in piedi una compagnia di ventura, composta da ascari di diversa
etnia e lingua senza scrupoli, da criminali assoldati nelle prigioni di Massaua, Bottego sfruttò le rivalità personali e i
dissidi interetnici della zona. Con questo manipolo di sanguinari intraprese (ottobre 1895), in maniera politicamente
inopportuna, la penetrazione nell'ovest. Di fronte alla resistenza delle popolazioni locali gli ergastolani si
abbandonarono ad ogni genere di vendetta, saccheggiando, incendiando villaggi, stuprando, dando vita ad una vera e
propria caccia all'uomo. Migliaia di persone, atterrite ed inseguite, divennero oggetto della furia omicida dei reparti di
Bottego che servì ai colonialisti, da Vannutelli a Citerni, per esaltare "le buone qualità dei nostri galeotti". Spetterà a
Menelik fermare la folle marcia di Bottego e mettendo provvisoriamente fine all'ultima avventura africana, rivelatrice
del dilettantismo coloniale dell'Italia crispina. Intanto, nel 1893 il governo guidato da Giovanni Giolitti affidò a
Filonardi l'esercizio triennale dei porti del Benadir. La Società Filonardi percepiva una sovvenzione governativa annua
di 300 mila lire. Quest'ultima s'impegnava a pagare un canone d'affitto ai notabili somali e al controllo militare della
colonia. La gestione del Benadir non usufruiva di capitali sufficienti e mancava di un piano politico esecutivo,
controllata com'era da oltre 500 mercenari dediti ad ogni forma di commercio. La fallimentare gestione Filonardi
rilanciò l'ambizioso progetto di Cecchi di trasformare il Benadir in colonia. Ma le difficoltà interne nelle quali si
dibatteva il governo Crispi e l'insicurezza del Corno d'Africa indussero Roma a sostituire la compagnia Filonardi con la
Società commerciale di Cecchi, interessato alla penetrazione italiana verso l'interno. Penetrazione che, come si è visto,
fu condotta in chiave militaristica da Bottego la cui ideologia ispiratrice venne riassunta da Maurizio Sacchi, membro
civile della spedizione: " E' inutile pensare a civilizzare questa gente, la questione è solo di farli star buoni e ciò non si
ottiene se non col fucile o col bastone, secondo i casi". Intanto Cecchi, col sostegno della borghesia industriale e
commerciale lombarda (Pirelli, Erba, Crespi, Ponti) costituisce (1896) la Società Anonima Commerciale Italiana del
Benadir, attiva soltanto nel 1900. Intanto il fronte orientale era sottoposto alle incursioni etiopiche e scosso dalle
agitazioni dei somali. Ancora una volta la pesante repressione italiana si macchiò di brutali rappresaglie (incendi di
villaggi, fucilazioni sommarie, deportazioni). Di lì a poco, la morte di Cecchi e di Bottego pose fine alla gestione
privata della colonia in senso affaristico, sostituita dalla gestione governativa del Benadir (1905), in un contesto
regionale avviluppato in permanenti tensioni intertribali, contrasti confinari, egemonismi regionali e insurrezioni. "E su
tutto, a completare il quadro di sfacelo e di irresponsabilità, l'infamia della schiavitù. Sotto gli occhi delle autorità
italiane, distratte o tolleranti, gli schiavi vengono infatti liberamente acquistati, venduti, ereditati, offerti in regalo,
sfruttati, incatenati, deportati" (Del Boca). In un simile degradato contesto maturò il nazionalismo somalo di Mohamed
Abdallah Hassan (detto il Mullah) che, in nome del panislamismo sovratribale e anticoloniale riuscì a cementare l'unità
delle cabile. Nella sua abilità politico-militare, il capo dei dervisci impose un accordo agli italiani e ai britannici (1905)
che gli riconosceva il titolo di sultano nel terzo protettorato della Somalia settentrionale (territorio del Nogal). Ma, una
volta constatata l'inaffidabilità degli italiani e desideroso di imporsi come sovrano sull'intera Somalia, il Mullah spinse i
Bimal alla rivolta, con le forze italo-eritree impegnate nell'occupazione del Basso Uebi Scebeli.

Un bilancio

Nel Benadir occupato (1905-1914) venne imposto un sistema autoritario facente capo a Giacomo De Martino,
governatore civile (1905-1914), di nomina regia. La gestione amministrativa del territorio, diviso in regioni, residenze e
vice-residenze, fece ricorso ai capi locali come intermediari fra i colonizzatori ed i sudditi. Il bilancio nelle realizzazioni
strutturali e dell'organizzazione della produzione fu decisamente negativo, soprattutto per quanto concerne la società e
l'istruzione. Altrettanto fallimentare si rivelò il programma di concessioni terriere a ridosso dei fiumi Giuba e Uebi
Scebeli, in assenza dei necessari investimenti e delle tecnologie adeguate. La revisione del regime delle concessioni
agricole (1911) sollecitò De Martino a varare un piano di detassazione decennale per i concessionari, unitamente al
prolungamento delle locazioni a 99 anni ed alla concessione di prestiti statali. Tuttavia, l'insieme di queste misure non
riuscì a far decollare il progetto di insediamento colonico nella forma dei piccoli appezzamenti privati, come auspicato
dal governatore. Ciò per via dell'esigua superficie di terre arabili, per l'emarginazione cui furono condannate le
popolazioni sedentarie - costrette al lavoro coatto - e per la scarsità di manodopera. Intanto, le truppe britanniche
sconfiggevano il Mullah (1920-1921) ma senza che la guerriglia cessasse nonostante il dissolvimento del movimento
derviscio. L'incrocio tra fallimento politico e avventurismo coloniale chiuse l'epoca di quello che Lenin definì
"imperialismo straccione". Di quest'ultimo erano state protagoniste anche le vecchie Società geografiche e commerciali
ormai screditate e non in grado di allevare il mito degli "eroi italiani" in Africa, divenuto ormai monopolio
dell'imperialismo dannunziano.
Parte seconda. La conquista della Libia
... ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
su l'età nera, su l'età barbara,
sui mostri onde tu con serena
giustizia farai franche le genti.
(Giosuè Carducci)

O Tripoli, città di fellonia,


tu proverai se Roma abbia calcagna
di bronzo e se il suo giogo ferreo sia.
(Gabriele D'Annunzio).

Si prepara l'aggressione

Storicamente il colonialismo italiano in Libia è stato il risultato di un tardo imperialismo avvitato alla politica
demografica ed all'affermazione geopolitica nel Mediterraneo. L'Italia, cioè, è arrivata buon ultima nella competizione
coloniale fra le grandi potenze. Abbandonata la condotta antifrancese di Crispi, i governi liberali successivi stipularono
una serie di accordi con le grandi potenze in vista della ricomposizione dell'area balcanico-mediterranea investita dalla
crisi irreversibile dell'impero ottomano. Grazie alle intese con la Francia (1901 e 1902), la Gran Bretagna (1902) e di
Racconigi con la Russia zarista (1909), Roma vide riconosciuta la propria influenza sulla futura Libia. L'assalto a
quest'ultima - sottoposta all'autorità del sultano di Costantinopoli - fu lanciato dal governo Giolitti. L'impresa coloniale
venne sospinta dal revanscismo nazionalista e dai circoli espansionistici desiderosi di "vendicare Adua" e di affermare,
con la forza, il prestigio italiano nel Mediterraneo. Non mancò, pertanto, la speculazione ideologica con riferimento
all'esigua comunità italiana insediata in loco (qualche migliaio di persone tra Bengasi e Tripoli). Altrettanto importante
fu la spinta del banco di Roma - legato ad interessi vaticani - con le sue filiali nell'area araba. Riviste ed intellettuali
divennero i paladini di un nazionalismo antipaternalistico "virile" e "coraggioso", proteso a dotarsi di colonie.
Tra questi vanno annoverati i futuristi con la loro concezione della guerra "igiene del mondo". Enrico Corradini, sulla
rivista "Il Regno" aveva avuto modo di trasfigurare il patriottismo risorgimentale in nazionalismo colonialistico,
"destinato" a dominare nel Mediterraneo. L'espansionismo militare in Africa avrebbe dovuto assicurare materie prime e
sbocchi per l'emigrazione. Si stabiliva, così, un collegamento non solo geografico fra espansione coloniale e
Mezzogiorno d'Italia. Quando nel 1911 uscì il primo numero della "Idea Nazionale", il nazionalismo ebbe modo di
misurarsi organicamente con la "questione di Tripoli", innescata dalla crisi marocchina. Di qui una letteratura che
disegnava l'altopiano cirenaico come un "frutteto", una sorta di "paradiso terrestre" per i coloni italiani e con gli arabi in
"trepidante" attesa per la loro liberazione dal giogo ottomano (Tunisi e Tripoli di Gualtiero Castellini). In sostanza,
l'Italia avrebbe dovuto proporsi - dopo un periodo di "oscuramento e di viltà" - come potenza mediterranea.
Lo stato maggiore del nazionalismo italiano ebbe modo, per tale via, di collegarsi all'industria pesante sfruttando le
incertezze dei socialisti e l'allentamento della tradizionale tensione anticolonialistica dei settori democratici. "Si delinea
infatti un'alleanza politico-ideologica fra il grande capitale, la piccola e media borghesia e una frangia marginale dei ceti
popolari, quell'alleanza o convergenza che si espresse nella formula dell'"Italia proletaria", precedente indiretto e
letterario della politica coloniale del fascismo fino alla guerra d'Etiopia" (Santarelli). Nella fattispecie l'impresa libica
rivestiva anche un carattere morale antipacifista, di "redenzione interiore" (Francesco Coppola). In più, l'attenzione
verso la "quarta sponda" serviva a ripristinare il collegamento storico-mitico-ideale con le conquiste dell'antica Roma e
con le repubbliche marinare, sino alla reivocazione della tradizione politico-letteraria più recente (Crispi, Pascoli).
Ormai senza freni, la retorica nazionalistica di Corradini non esitò a cogliere il carattere "romano" dell'espansionismo
cattolico dal momento che la Chiesa - considerata latina e romana - si presentava in veste di forza nazionale italiana. A
suffragare tale visione provvide l'adesione dei cattolici alla guerra di Libia che svelò la convergenza fra sentimento
nazionale e cattolicesimo sia nel superamento di storici steccati sia nella comune avversione alla democrazia e al
socialismo. La stampa cattolica, capillarmente diffusa (fogli diocesani e parrocchiali) preconizzava il "ritorno" italiano
sulla "quarta sponda" nella lotta al turco infedele. Sulla rivista clericomoderata "Rassegna Nazionale" si parlava di
guerra condotta in nome di "Santi Ideali", mentre "vescovi e cardinali benedicono le armi nostre e chiamano il popolo
fedele nelle chiese a pregare il Dio degli eserciti perché ci accordi la vittoria". Altrettanto qualificante era il richiamo
alla funzione dell'esercito che, secondo Giovanni Papini, andava amato e rafforzato poiché rappresentava "l'espressione
eterna di un popolo giunto a nazione". La filosofia coloniale dei nazionalisti, pur nella sua articolazione interna, trovava
la sua sintesi in un articolo di Morasso apparso su "Il Regno" (22 maggio 1904): "La strage ha accompagnato sempre i
pionieri della civiltà fra le popolazioni selvagge. Non è neppure il caso di parlare di lotta fra civiltà e barbarie. (...) La
barbarie è la natura mentre la civiltà è la contraffazione (...)". In definitiva, gli intellettuali nazionalisti sfruttavano
demagogicamente i ritardi e le carenze strutturali dello Stato e del capitalismo italiano imputandoli alla debolezza dei
governi liberali e all'ingordigia delle grandi potenze coloniali che non lasciavano spazio alcuno all'Italia. Su questo
retroterra politico e culturale - sul quale erano trapiantate il ruolo "civilizzatore" di Roma (Mancini) e la politica di
potenza (Crispi) - attecchirono i miti delle forze che indussero Giolitti ad aggredire la Libia (1911), sottoposta al
dominio ottomano. Forte del consenso trasversale delle forze politiche (socialisti riformisti, repubblicani e radicali) e
del sostegno dei cattolici, interessati a rilanciare l'ennesima crociata antimusulmana, il governo Giolitti si lanciò nella
conquista della Libia. Ciò avvenne all'indomani della crisi marocchina e degli accordi di Algesiras (1906) di cui si
temeva il fallimento, pregiudizievole per lo status quo in Africa settentrionale. Sotto il profilo politico va rimarcato che
si era al cospetto di una guerra d'aggressione priva della ratifica parlamentare e decisa dal ceto militare col concorso
degli alti quadri burocratici dello Stato e di Vittorio Emanuele III.
Al tempo la Libia contava circa 750 mila abitanti di cui 250 mila nomadi e seminomadi dispersi su un territorio per il 95
per cento improduttivo. Lo "scatolone di sabbia" - come lo definì Gaetano Salvemini - era il risultato di un "dualismo"
antropoeconomico costituito dalla Tripolitania (la regione più ricca e popolosa), dalla Cirenaica (fascia costiera) e dal
Fezzàn desertico. Sul dato geografico convergevano le differenze fra ceti mercantili urbani e nomadi dell'interno, le
rivalità fra tripolini e cirenaici, oltre a quella fra arabi e berberi. L'elemento di coesione del frastagliato universo tribale
e clanico era rappresentato dal richiamo all'Islam. Suo principale interprete era la Confraternita politicoreligiosa della
Senussia che in Tripolitania non godeva dell'autorità riconosciutale in Cirenaica.

Guerra e massacri

Questi dati assumono decisiva rilevanza sul piano politico-militare poiché le truppe italiane - sbarcate a Tripoli (5
ottobre 1911) - guidate dal generale Carlo Caneva, dovettero affrontare più di un ostacolo. Oltre alla combattività dei
reparti turchi, l'esercito occupante dovette misurarsi con l'ostilità del notabilato locale, pronto ad organizzare gruppi
armati di resistenti. Così, per la prima volta dalla nascita dello Stato unitario, l'esercito italiano dovette fronteggiare,
impreparato, una lunga guerra di guerriglia.
Tripoli venne conquistata dopo sei giorni di duri combattimenti nei quali si segnalarono brutalità su entrambi i fronti.
L'alto costo dell'impresa (100 mila uomini e un miliardo di lire impegnati) non compensò affatto le aspettative politiche
delle forze politiche e degli ambienti colonialistici. Infatti, le popolazioni arabe non accolsero le truppe italiane come
forze di "liberazione" dal dominio ottomano, contrariamente a quanto si favoleggiava sulla stampa nazionale. Smentita
clamorosa, quindi, nei confronti di coloro che, come Giuseppe Piazza, ritenevano che l'ostilità anti-italiana degli arabi
fosse "una favola turca". Romain Rainero - nel commento agli scritti del combattivo giornalista democratico Paolo
Valera - nota come la presunta simpatia filoitaliana degli arabi fosse priva di "fondamento reale". Né deve trarre in
inganno che fino al 23 ottobre - data d'inizio delle reciproche stragi - i rapporti fra soldati italiani e popolazione locale
fossero relativamente pacifici. In effetti, gli italiani rispettarono le donne e pagavano ciò che compravano (tabacco,
birra, datteri). Ma la condotta dei bersaglieri non era certo irreprensibile, così come restarono disattese le promesse dei
nuovi governatori, nonostante la distribuzione di farina (in molti casi avariata) ai poveri. Sintomatico del clima tutt'altro
che "pacifico" di fronte al nuovo occupante, si rivelò l'episodio di Sciara Sciat (23 ottobre 1911) - oasi di Tripoli - ove
reparti italiani furono sorpresi ed annientati dalle forze arabo-ottomane. In reazione, le truppe coloniali misero a ferro e
fuoco Tripoli scossa dalla rivolta popolare. La stampa nazionale navigava tra le menzogne de "La Stampa", che negò
l'insurrezione adducendo la morte dei soldati italiani a fanatici arabi, e la retorica più bolsa seguita alla sconfitta e di cui
si fece paladino, tra gli altri, Corradini parlando della "bestia selvaggia che si chiama arabo". A ben vedere a Sciara
Sciat emersero, tra l'altro, leggerezze e superficialità dei comandi militari che si tentò di coprire con la retorica sugli
"eroi" caduti e sulle cerimonie di rito. La repressione antiaraba fu scientifica ed indiscriminata: dalle fucilazioni
all'attività dei tribunali militari. Basti pensare che questi emisero sentenze di impiccagione per molti mesi ancora dopo
l'episodio di Sciara Sciat. L'ineffabile Bevione, corrispondente de "La Stampa", puntualizzava con perentoria lucidità:
"Solo una generosa restituzione di uccisioni poteva stabilire nell'anima araba il senso delle cose giudicate e la certezza
della nostra forza e del nostro buon diritto". I corrispondenti della stampa estera, al contrario, rimarcavano la persistenza
nella memoria araba di tali misfatti, registrandoli puntualmente. "Ho trovato una famiglia intorno al fuoco che stava
probabilmente per mettersi a mangiare. Erano tutti morti. La bambina aveva la testolina buttata in una cassetta quasi per
non vedere lo spettacolo sanguinoso". Questo si legge nella corrispondenza apparsa sul "Morning Post". La crudeltà
degli occupanti passò anche per la mortificazione ed il dileggio della popolazione, a partire dalle donne e dai bambini
fatti camminare tra i loro congiunti uccisi lungo le viuzze.
Furono trucidate circa 2 mila persone fra cui donne e bambini. L'anarcosocialista Valera, nei suoi "pamphlet"
anticolonialisti, parla (1912) dei soldati italiani che trucidavano impunemente chiunque incontrassero. "Così per quattro
giorni bande di soldati, sovente senza ufficiali, fucilavano tutti". Vi furono esecuzioni di massa. Secondo corrispondenti
stranieri al seguito delle truppe, vennero uccisi mendicanti, ciechi, gente storpia. Una volta trovato il cadavere di un
soldato italiano dietro la fabbrica di esparto del Banco di Roma, il villaggio limitrofo venne bruciato e, per rappresaglia,
furono trucidati i suoi 60 abitanti.
Non mancarono i cantori dell'eccidio come il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti; né gli esaltatori della forca,
divenuto strumento di terrore contro la popolazione civile. Castellini non aveva dubbi in merito alla sua "economicità"
temporale e finanziaria oltre che al suo impatto psicologico immediato. La forca "incute un terrore salutare e risparmia
molte fucilazioni". Nelcontempo si invitava ad inasprire la repressione, necessaria - secondo Marinetti - a liquidare lo
"stupido umanesimo coloniale" che non faceva onore alla razza italiana. Ai "traditori" arabi che avevano teso
l'imboscata a Sciara Sciat erano riservati odio e disprezzo. In alcune lettere di soldati si parla di loro come "bestie" che
vivono nelle case "come maiali". Al fondo di tali manifestazioni vi era l'incapacità, non solo antropologica, di cogliere
la spinta e le ragioni ideali che animavano la resistenza araba contro il militarismo feroce e vendicativo dei
"civilizzatori".
Deportazioni e violenze

Nel 1911 - e fino allo scoppio della I guerra mondiale - gli italiani intrapresero la prima fase delle deportazioni,
condotta peraltro in maniera confusa ed improvvisata. Vennero catturati persino ragazzi di età inferiore ai 16 anni ed
anziani ultraottantenni. E non solo quanti venivano scoperti in possesso di armi ma quanti sventuratamente
incontravano soldati italiani. In questa prima fase la politica di deportazione mirava ad indebolire il nascente gihàd
libico e a demoralizzare la popolazione civile.
Il generale Caneva, dietro ordine di Giolitti, intraprese la deportazione di migliaia di persone verso Favignana, Ustica,
Ventotene ove, da prigionieri, furono sbarcati anche vecchi e bambini. Il piroscafo Rumania sbarcò ad Ustica 919
deportati, tenuti in condizioni pessime, malvestiti e malnutriti. Molti prigionieri morirono durante il viaggio per mare.
Altri persero la vita nei campi di prigionia italiani. Paolo Valera parlò della sorte dei confinati ad Ustica in questi
termini: "Luogo infetto. Luogo puzzolente. Luogo antigienico. Il colera ve ne ha sepolti più di cinquecento in poche
settimane. La miseria in cui sono stati tenuti ha contribuito alla falciatura delle loro vite. Nessun paese ha trattato i
prigionieri di Stato come l'Italia. Li ha nutriti come carcerati, con 600 grammi di pane e con una gavetta di minestra
nauseosa. Il loro giaciglio è stato di paglia sternita, buttata in terra, sparpagliata sulle pietre o sugli ammattonati, come
per le bestie". Nel 1912 il numero dei deportati, comprese le sedi minori (Napoli, Livorno) erano circa 3.500. Nello
stesso anno l'ispettore sanitario Druetti in visita ai deportati delle Tremiti parlò di "prolungata agglomerazione e postura
incredibile" che falcidiavano i reclusi arabi. Gli spazi in cui vennero rinchiusi i prigionieri erano costituiti anche da
grotte. Qui - come confermavano lettere ai prefetti - le grotte erano prive di porte, buie ed umide. Il tasso di mortalità,
mediamente elevato nelle colonie penali, era da addebitare a più fattori: cattive condizioni igieniche, scarsa
alimentazione, vestiario insufficiente, clima rigido, carenza di assistenza sanitaria nello stato di promiscuità fra persone
malate e persone sane; in breve, pessime condizioni di vita. Del resto, una direttiva governativa ordinava di contenere le
spese per gli arrestati arabi "nei più ristretti limiti possibili". Va aggiunto che, relativamente al vitto, un traffico
speculativo ai danni dei prigionieri vide coinvolti la Direzione carceraria delle Tremiti e un commerciante nella
sottrazione di viveri loro destinati. Col 1915 prese avvio la seconda fase della deportazione (protrattasi sino al 1932) che
vide protagonisti quanti erano considerati potenzialmente pericolosi dal governo della colonia. Nel periodo 1915-1916
furono deportati a Ponza anche i notabili della società tripolina.
Nel 1912 molti deportati furono ricondotti in Libia. Ma non va dimenticato che fino al 1932 - al momento della
cessazione della repressione - altri 2 mila libici vennero deportati. Il clima di terrore instaurato dagli invasori non
impedì la radicalizzazione della lotta di resistenza che si richiamava alla solidarietà tribale ed islamica. In questo clima
emersero figure leggendarie di combattenti tra cui Ramadàn Sceteui. Intanto l'Italia collezionava un altro primato:
quello del primo bombardamennto aereo della storia sull'oasi di Ain Zara (1° novembre 1911), a suo tempo negato da
politici (Giolitti), militari (Caneva), dai giornali nazionalisti ed ignorato da gran parte dell'opinione pubblica italiana,
incredula dinanzi alle denunce relative alle brutalità commesse dalle truppe di occupazione. In soccorso di Roma venne
la crisi balcanica nella quale era coinvolta la Sublime Porta e che ne favorì le manovre diplomatiche antiottomane.

Amministrare la colonia

Si giunse, così, alla firma (18 ottobre 1912) del trattato di Ouchy (Losanna) che autorizzava la presenza di truppe
italiane in Tripolitania e in Cirenaica senza contemplarne, tuttavia, la cessione all'Italia. Di fatto, il controllo italiano si
estendeva sulla pianura costiera e sui porti (Tripoli, Homs, Zuara, Bengasi, Cirene, Tobruk, Derna). L'interno era
controllato dalla Confraternita politico-religiosa della Senussia con la quale bisognò scendere a patti. La firma del
trattato inflisse un duro colpo al movimento di resistenza, privato della copertura militare-amministrativa ottomana. Al
cospetto della nuova situazione, l'assemblea dei notabili e dei capi tripolini decise di sottomettersi all'autorità italiana.
Tale scelta fu condizionata anche dalla politica italiana tesa ad intercettare capi collaborazionisti in grado di
incoraggiare alla cooperazione le popolazioni locali. Singolare fu la vicenda dei notabili beduini raccolti attorno alla
potente famiglia dei Saif al Nasr in Tripolitana in cambio dell'occupazione di alcune località, il nucleo dei notabili
ricevette in cambio un congruo stipendio mensile. Simile comportamento, però, si rivelò d'intralcio alla "pacificazione"
poiché scatenò concorrenze e dissidi fra i "capi" locali. Ma sulla famiglia dei notabili si scaricò anche l'avversione di
alcuni ufficiali italiani che si vedevano scavalcati nell'assunzione di responsabilità. Per giunta, i Saif al Nasr, già da
tempo, avevano stabilito contatti con la Senussia. Dall'insieme di questi elementi scaturì la decisione dell'autorità
coloniale di deportare i Saif al Nasr (1913).
Invece nel Gebel il berbero Suleimàn el Baruni decise di proseguire la lotta ma, sconfitto (aprile 1913), avviò trattative
con gli italiani. In un suo documento, pur non mettendo in discussione l'autorità coloniale, rivendicava l'autonomia della
costituenda provincia berbera. Ma governo e stampa nazionali - con l'inganno e la diffamazione - non riconobbero
l'accordo col risultato "di fare di Suleimàn el Baruni che avrebbe potuto diventare un leale e intelligente collaboratore,
un nemico irriducibile, l'artefice di nuove rivolte" (Del Boca, Gli italiani in Libia). In tale contesto prese quota lo
stereotipo dell'arabo "infido" o "traditore", a ribadire l'esistenza di un'ideologia coloniale razzistica che incrociava, in
maniera perversa, l'anti-islamismo degli ambienti cattolici.
In tale direzione si mosse (1914) il governatore Giovanni Ameglio, deciso a chiudere con la "politica della tolleranza" e
ad inasprire la repressione antiaraba. Non a caso, in Cirenaica il Tribunale militare di guerra emise centinaiadi sentenze
per reati a scopo politico. Intanto il governo italiano si era affrettato a confermare (1913) il sistema giuridico ottomano
relativo alle proprietà terriere, ad eccezione di quelle di manomorta (mévat) assimilate ai beni demaniali (miri).
Vennero riconosciute le proprietà delle fondazioni religiose (vacuf) e quelle di villaggio (métruké). Durante la fase
prefascista dell'occupazione (1912-1922), oltre agli immobili, gli italiani confiscarono 3.600 ettari di terreno. Lungo
simile tracciato economico-amministrativo il colonialismo liberale creò le premesse politiche per l'affermazione
dell'imperialismo fascista, a sottolineare una sorta di "continuità" fra i due passaggi coloniali. Fa testo, al riguardo, la
dichiarazione di Giolitti in una seduta della Camera all'indomani dell'accordo col sultano: "Mi auguro di cuore che nel
mondo non vi siano che guerre coloniali, perché la guerra coloniale significa la civilizzazione di popolazioni che in altro
modo continuerebbero nella barbarie".
Simile esaltazione patriottico-civilizzatrice nascondeva l'impreparazione italiana ad individuare e "comprendere" i
germi di una resistenza anticoloniale come testimoniarono le pesanti perdite e le sconfitte subite (1914-1915) dalle
truppe italiane operanti nell'interno. A queste sconfitte gli italiani reagirono con ingiustificati massacri, come quello
avvenuto all'interno dei reticolati di Azizia. Nel contempo riesplosero i contrasti relativi alle operazioni da intraprendere
nel Fezzàn. Presso gli ambienti militari e civili si fronteggiavano coloro che premevano per l'occupazione militare e
quanti ritenevano necessario il coinvolgimento di affidabili notabili locali. La spedizione, affidata al colonnello Antonio
Miani doveva tener conto, fra l'altro, di una vivace e composita resistenza. Infatti, la presenza italiana nel Fezzàn
restava strutturalmente debole e, a ridosso della I guerra mondiale, costretta a misurarsi con la generale rivolta araba.
Rivolta popolare diretta anche contro i soprusi e le prepotenze degli ascari libici. In particolare, in Cirenaica questa
incrociò due anni di cattivi raccolti. Carestie ed epidemie falcidiarono la popolazione. Nel periodo 1911-1915 la
popolazione cirenaica passò da 300 mila a 120 mila unità. Nella circostanza tornò in auge la forca come strumento
sistematico di repressione e terrorismo da parte italiana. Come dire che la sollevazione araba era stata sospinta
soprattutto dal comportamento politico-militare degli invasori, come testimonia il colonnello Arturo Vacca Maggiolini.
Questi evidenziò tutta una serie di errori e di colpevoli atteggiamenti da parte degli occupanti come "quello di aver fatto
solenni promesse agli arabi (...) di averle ripetutamente rinnovate in seguito e di non averle mantenute poi mai". In più
sottolineò come, durante la dominazione ottomana, la popolazione araba avesse goduto di libertà politiche tali da avere
propri rappresentanti nel Parlamento di Costantinopoli. Di qui il risentimento e il disgusto degli arabi colti, privati dei
propri elementari diritti e "retrocessi a semplici sudditi dell'Italia". Intanto il ministro delle Colonie Pietro Bertolini si
impegnò con alcuni decreti (1913-1914) a ridefinire l'organizzazione della Tripolitania e della Cirenaica - tenute distinte
- facente capo all'autorità di Roma senza alcuna concessione autonomistica. L'amministrazione civile-militare italiana
era animata da intenti razzistici e da pregiudizi etno-religiosi antiarabi. L'apparato burocratico era costituito da
funzionari in gran parte incompetenti, ambiziosi, votati all'arricchimento e il cui personalismo favorì corruzione e
clientelismo. Non a caso - come denunciò il sociologo Coletti - il denaro veniva utilizzato dagli italiani per tessere
intrighi, strappare fedeltà, sospingere delazioni. Intanto si susseguirono brucianti sconfitte militari (Gasr Bu Hadi, 1915)
sì da trasformare in disastro le operazioni di conquista. Disastro aggravato dal deterioramento dei rapporti con le
popolazioni locali vessate, perquisite e maltrattate. Una serie di raccapriccianti episodi indussero Ferdinando Martini -
al dicastero delle Colonie - ad aprire un'inchiesta, rimasta elusiva e difensiva. Il riferimento era ad alcuni infami fatti, tra
i quali il massacro di "donne e bambini sgozzati". Ancora: "La colonna Monti, di ritorno dal grave insuccesso
dell'avanzata su Tarhuna, per sfogo brutale avrebbe ucciso coltivatori pacifici inermi". Il commissario di Misurata,
Alessandro Pavoni, denunciò la campagna terroristica scatenata su gente inerme e raccontò quanto accaduto nel fondaco
Malthus (maggio 1915), incendiato dai militari italiani non senza aver prima asportato suppellettili, indumenti, oro,
bestiame. Il giorno successivo, tornato sul luogo ove si aggiravano, depredando, soldati, carabinieri e borghesi, Pavoni
annotò con raccapriccio: "Sul rogo fumante tre cadaveri non ancora completamente bruciati. In alcune stanze scure vidi
cadaveri di donne nere, di giovinetti e di bambini. In un cortile vidi i cadaveri di due donne bianche completamente
nude, l'una con la schiena a terra, le gambe leggermente piegate e le coscie divaricate, l'altra inginocchiata col volto a
terra e le coscie divaricate. Accanto ad esse giacevano i cadaveri di due bimbi, la cui età non era superiore ad un anno.
Uno di questi aveva una ferita d'arma bianca in un occhio (...)". Nel ripiegamento sulla costa l'autorità coloniale impose
la legislazione militare sulla popolazione civile, rivelatasi di ostacolo sia alla "valorizzazione" economica del territorio
che alla sua "pacificazione". Ne conseguì l'ulteriore diffondersi dei sentimenti nazionalistici anti-italiani.

Ripiegamento e accordi

Il ripiegamento militare venne suggellato dall'armistizio di Acroma (1917) - intercorso col capo senusso Mohammed
Idris - che sottopose la Cirenaica alla duplice influenza italiana e senussita. Spartizione ribadita nei successivi accordi di
er Regima e di Bu Mariam (1920).
Con questi accordi fu riconosciuta la sovranità italiana sulla Cirenaica, ad eccezione delle oasi e delle zone
semidesertiche, sottoposte all'autorità dell'emiro Idris.
Assai più precaria appariva la situazione in Tripolitania per via delle rivalità intertribali che faciliteranno, in seguito, la
"riconquista" italiana (sbarco a Misurata nel 1922). Sul piano politico-amministrativo, la concessione dello Statuto
(1919) la elevò a Repubblica col riconoscimento delle autonomie locali e l'eliminazione delle sperequazioni giuridico-
economiche fra italiani e tripolini. Più in particolare, venne introdotto il servizio militare volontario ed istituito un
Parlamento elettivo. Accanto al riconoscimento del pluralismo linguistico fu concessa la possibilità ai libici di accedere
alla cittadinanza metropolitana. Alla fine della I guerra mondiale l'Italia uscì "mutilata" nelle sue ambiziose aspirazioni
coloniali. La frustrazione della politica di prestigio e di potenza dei governi liberali era appena mitigata dalla conquista
della "quarta sponda" libica che suscitò più di un'illusione sulle possibilità di colonizzazione-valorizzazione del
territorio nella illusoria prospettiva egemonica dell'italia nel Mediterraneo.
L'IMPERIALISMO FASCISTA
Parte prima La "riconquista" della Libia
Abbiam visto questo prodigio i soldati di Mussolini
volano per aria come nuvole.
(F. T. Marinetti)

Noi abbiamo fame di terre


perché siamo prolifici
e intendiamo restare prolifici
(B. Mussolini).

La transizione

All'indomani della I guerra mondiale l'Italia esercitava il proprio dominio in Eritrea e sulla povera Somalia. In Libia -
tutt'altro che "pacificata" - l'insediamento italiano era confinato sulla fascia costiera urbana, senza che la colonizzazione
agricola vi avesse inciso in maniera significativa. In questo contesto risultavano avvantaggiati e premiati i ceti
burocratici e quelli legati al terziario. A partire da tali premesse è possibile cogliere elementi di continuità fra
colonialismo liberale e imperialismo fascista. Continuità gestita, innanzitutto in termini bellici dal momento che le
precedenti "guerre d'Africa" funsero da retroterra coloniale per l'elaborazione dei programmi fascisti di aggressione. Sì
che il fascismo ebbe modo di dar corpo ad "aspirazioni precocemente espresse sin dagli anni della prima guerra
d'Africa" (Labanca). Né vanno trascurati gli agganci ulteriori esistenti tra le due esperienze coloniali a partire dalla
mancata conoscenza della realtà africana e dal disprezzo verso le popolazioni locali sulle quali i governi liberali e il
regime fascista imperversarono con metodi repressivi e punitivi. Semmai, la difformità risiedeva nella volontà di
Mussolini di trapiantare in terra africana una "nuova civiltà", ad un tempo "romana e fascista". Allo Stato liberale
vennero imputate "tiepidezza" e "compromissioni" coi ipopoli da assoggettare. A ben vedere, le premesse di un simile
disegno erano già presenti nel nazionalismo del primo Novecento e la cui forza politico-ideologica fece da collante fra
le due forme di colonialismo. Gli sviluppi della politica coloniale fascista raggiunsero il punto alto nell'oppressione
totale e nella segregazione razziale che accompagnarono e seguirono la soluzione militare del problema coloniale.
Soluzione che, prevedendo il dominio diretto di Roma, escluse a priori ogni possibilità di coinvolgimento dei ceti e
notabili indigeni nell'amministrazione della colonia. Del resto, aspetti autoritari avevano fatto la loro comparsa già in
età liberale pur restando preminente l'aspetto politico su quello militare nella soluzione del problema coloniale. Su
quest'ultimo, invece, puntò risolutamente il fascismo. In tale cornice maturarono progressivamente suggestioni
militaristico-imperiali e la politica razziale fascista in Africa. Le discriminazioni non erano mancate nella fase liberale
del colonialismo italiano se si pensa alla diffusione del mito sulle "razze inferiori" di lombrosiana memoria. La
premessa ideologica era che la "razza italiana" avrebbe finito inevitabilmente per sostituire quella autoctona. Lidio
Cipriani non aveva dubbi, al riguardo: "L'Africa, non dimentichiamolo, non potrà mai essere degli Africani e fra tutti i
popoli del mondo l'Italiano, per ragioni etniche, per doti innate e per la sua adattabilità ai climi tropicali dimostrata in
ogni paese, è il predestinato a trionfarvi". Tuttavia, il mito imperiale fu il punto d'arrivo di un percorso ideologico e di
un itinerario politico-militare scomponibili, grosso modo, in tre fasi principali: 1922-1926; 1927-1936; 1936-1941. Nei
primi anni successivi alla marcia su Roma l'ideologia nazionalistica fece da traino alla politica espansionistica, a
conferma dell'incerta e confusa traiettoria della politica coloniale del regime fascista. Dopo il delitto Matteotti si assistè
ad un progressivo processo di fascistizzazione della società e dello Stato nel quale ci fu il riciclaggio della tradizione
coloniale in senso imperialistico. Si trattava di un riorientamento-integrazione dell'esperienza coloniale prefascista
filtrata attraverso un'ideologia di massa. A rigore, già nel 1922 il momento coloniale aveva perso in autonomia allorché
Mussolini si richiamò al mito del Mediterraneo (mare nostrum) assecondando le spinte tripoline, da "quarta sponda" dei
ceti intermedi e di settori popolari meridionali. La consacrazione ufficiale di tali orientamenti afromediterranei si ebbe
col viaggio di Mussolini a Tripoli (1926).
Il suo "noi siamo mediterranei" prefigurava la ricerca di sbocchi coloniali nell'alveo di un dannunzianesimo di
circostanza. Di conseguenza, lo sviluppo della coscienza e dell'idea coloniali puntavano al confezionamento di un
colonialismo popolare e populistico (valorizzazione economica, esposizione demografica) estraneo all'elitismo dei
nazionalisti. L'anno successivo, sulla rivista "L'Oltremare" comparve il programma nazionalfascista relativo alla politica
coloniale centrata sull'espansione dei commerci e dei capitali italiani nella prospettiva di "italianizzare" le economie
coloniali. Sostegno in tal senso venne dalla comparsa in Italia di una letteratura esotica, promossa a fini propagandistici
e di mobilitazione del consenso attorno al regime. In questa operazione rientrò anche il fallito tentativo di
strumentalizzare il "nazionalismo" libico sfruttandone demagogicamente il risvolto islamico in funzione antibritannica e
comunque subordinato alla strategia di Roma. Nel contempo, l'appello per un impegno diretto e cospicuo del
capitalismo italiano nell'espansione africana e mediterranea del regime si rivelò illusorio. Nel caso libico la continuità
rispetto alla precedente fase liberal-nazionalistica fu evidenziata dalla volontà di fare della regione un trampolino di
lancio verso il levante. Ciò comportava l'unificazione politico-amministrativa della colonia. Sotto il profilo socio-
politico la rivendicazione del ruolo di grande potenza dell'Italia divenne fattore di mobilitazione interna e servì al
fascismo per monopolizzare l'esclusiva rivendicazione ad essere l'unico ed autentico interprete e prosecutore del
prestigioso passato imperiale dei Cesari e degli Augusti.
Trasfigurazione tesa a delegittimare la "Italietta" liberale, ritenuta incapace di programmare l'italianizzazione dei
possedimenti d'Oltremare (colonizzazione demografica). La vocazione imperialistico-espansionistica del fascismo
determinò la dilatazione dell'apparato burocratico nelle colonie sino a coinvolgere il Partito nazionale fascista in
funzione delle preoccupazioni ideologico-occupazionali dei ceti metropolitani. Indirizzo di fondo ben esemplato in un
discorso di Paolo Orano, tenuto a Potenza nel 1936: "I popoli dalle culle vuote non possono conquistare un impero (...).
Hanno diritto all'Impero i popoli fecondi (...) che hanno l'orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia
della terra (...)". Alla vigilia della II guerra mondiale il bilancio coloniale del fascismo era in controtendenza rispetto
alle esperienze coloniali della Francia e della Gran Bretagna. Queste ultime erano riuscite a prelevare risorse umane,
naturali e finanziarie dalle colonie. Il fascismo ne ricavò molto meno rispetto ai costi per il loro mantenimento. Per
giunta, l'istituzione imperiale svelò più di una crepa nelle strutture di comando in seguito alle rivalità fra militari e civili;
fra fascisti e coloniali. Tuttavia, sino al crollo dell'impero, restò la convinzione che gli africani non avrebbero mai
potuto emanciparsi, né pensare di raggiungere i livelli di civiltà dell'Occidente. Bisognava che essi si rassegnassero
all'emarginazione ed all'interdizione dalla storia.

Tripolitania: la gestione Volpi

I liberali moderati avevano proposto il rafforzamento della dominazione sulle colonie attraverso la loro valorizzazione
con programmi di lavori pubblici e tenendo conto delle tradizioni etico-religiose della Libia. Nella circostanza,
l'attivismo della piccola borghesia metropolitana fece da collante fra l'ultima gestione liberale del governo delle colonie
(1918-1922) e il lancio della politica fascista della riconquista politico-militare. A questo punto la retorica del prestigio
si trasformò in politica di potenza nel Mediterraneo grazie al rapporto simbiotico fra oppressione integrale sui popoli
colonizzati e repressione contro gli antifascisti in Italia. Scriveva Giuseppe Bottai: "La Libia è per l'Italia il problema
dei problemi: incuneata tra gli imperi nordafricani di Francia e Inghilterra, essa rappresenta il solo punto sul quale noi
possiamo far leva, per non subire oggi la stretta degli accerchiamenti irresistibili, per imporre domani il moto
preponderante della nostra azione. L'avventura imperiale della nazione italiana poggia in gran parte sulla costa libica e
sull'efficienza politica del suo entroterra". Un tale indirizzo politico era già maturato nel gennaio 1922 - alcuni mesi
prima della marcia su Roma - per iniziativa del conte-finanziere Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitania (1921-
1925) e gerarca fascista, a sottolineare il raccordo esistente fra i due colonialismi. Continuità non esente da novità.
Infatti, i fascisti mirarono all'eliminazione del ceto dirigente arabo in favore di un collaborazionismo selettivo che
privilegiava "capi" di provata fedeltà. La gestione Volpi fu contrassegnata da una colonizzazione agricola di tipo
capitalistico, gestita da investitori metropolitani col sostegno dello Stato e col suo risvolto social-populistico.
Condizioni indispensabili per l'impianto di aziende agricole furono l'impiego di manodopera a basso costo e la confisca
delle terre fertili, con indennizzo per i libici espropriati. Nel periodo 1922-1930 vennero confiscati circa 200 mila ettari.
Divisi in grandi lotti, i terreni vennero assegnati a imprenditori in grado di finanziare la costruzione di pozzi e
l'attivazione di colture estensive (frutteti). Inoltre, un decreto Volpi del 1922 prevedeva la creazione di un demanio a
scopi di colonizzazione attraverso la requisizione delle terre incolte. L'anno successivo un altro decreto stabilì il ritorno
allo Stato dei terreni assegnati e rimasti incolti per un triennio. Si trattò di una misura tendente a colpire l'uso
speculativo della terra. In ultima analisi, la politica fondiaria di Volpi in Tripolitania mirò al potenziamento della
colonizzazione italiana. In tale ottica fece da riferimento la Tunisia ove i capitali erano stati investiti in opere
infrastrutturali in modo da favorire l'insediamento dei piccoli agricoltori. Nell'immediato Volpi pensava di attrarre
capitali metropolitani grazie al basso costo dei terreni, alle agevolazioni fiscali e alla copertura governativa su crediti e
tecnologie. Nel 1923 erano previsti due tipi di concessioni. Una prevedeva il pagamento di un affitto annuale da parte
del concessionario, con opzione sull'acquisto. Un'altra mirava a favorire le fattorie unifamiliari, consentendo al
concessionario un pagamento pari alla metà del valore della terra di cui sarebbe diventato proprietario dopo il saldo
della restante quota e dopo i miglioramenti apportati. In sostanza, Volpi subordinava gli obiettivi politici a quelli
economici. Simili indirizzi resero possibile la concentrazione della ricchezza nelle mani di un'oligarchia colonica e
l'affermazione dei ceti agrari e mercantili italiani sulla popolazione araba. In tal modo vennero create le premesse per la
riconquista della seconda area della "quarta sponda" (Cirenaica) ove si rivelò assai forte la resistenza anticoloniale. I
pesanti rastrellamenti operati dagli invasori contribuirono, tra l'altro, alla riattivazione dei collegamenti fra i due
emisferi regionali (Tripolitania e Cirenaica), prima di penetrare nel Fezzàn. Tale proiezione espansionistica
sottovalutava la consistenza geoeconomica di un'iniziativa imperialistica debole e incerta.
Sintomatico di un simile stato di cose fu la pubblicazione dell'opera collettanea, apparsa a nome di Volpi (La rinascita
della Tripolitania), che esprimeva le molteplici tendenze del nazionalismo postbellico, proteso alla valorizzazione
agricola del territorio. La gestione Volpi consentì il varo di un programma edile (pubblico e privato) che ridisegnò il
volto delle città. Furono riattivate le reti idriche ed elettriche. Nel contempo, l'abolizione delle garanzie civili e liberali
si combinò al perseguimento progressivo della separazione razziale nella società tripolina. Mentre gli italiani
assolvevano a compiti burocratico-direttivi, gli arabi erano impegnati nei lavori manuali e in quelli tradizionali
(agricoltura, pastorizia, artigianato).
Nel 1927 la rivista "L'Oltremare" sottolineò l'avvenuto raccordo fra motivo africano e motivo mediterraneo. Il progetto
nazionalfascista insisteva sullo sfruttamento intensivo delle colonie (esportazione di capitali e manodopera) in senso
espansionistico continentale. Ma, nonostante le sollecitazioni di determinati settori capitalistici (Olivetti, Pirelli) i
risultati non furono pari alle attese. Nel contempo, si delineava una "politica musulmana", confusa e superficiale, a
partire dalla considerazione che l'Islam "decaduto" fosse, tuttavia, permeato da una non meglio precisata, nebulosa
"sensibilità". Ciò imponeva di non entrare in conflitto aperto con le confraternite religiose, a partire dalla Senussia.
Come dire che la sopravalutazione del fattore islamico oscura del tutto l'aspetto arabo del problema. Di conseguenza, il
completamento dell'occupazione comportava una "unificazione politica" in grado di trasformare la Libia in autonomo
avamposto afromediterraneo.
La svolta intrapresa nel 1926-1927 troverà il proprio coronamento con la "seconda ondata" colonialista (1930-1931)
nella combinazione fra interessi colonizzatori in Cirenaica e antiarabismo in Italia. Una volta nominato governatore
unico delle due regioni (dicembre 1928), il generale Pietro Badoglio non mancò di far conoscere le proprie intenzioni ai
libici: "Se mi obbligate alla guerra la farò con criteri e mezzi potenti, di cui rimarrà il ricordo. Nessun ribelle avrà pace:
né lui, né la sua famiglia, né i suoi arredi, né i suoi armenti. Distruggerò tutto, uomini e cose". Il nuovo ordine militare
impose il lavoro obbligatorio alla popolazione, fatta carico delle riparazioni dovute per danni di guerra. Lo
stravolgimento delle strutture socioeconomiche e del potere tradizionali confezionò, così, una colonia di sudditi sulla
quale si proiettò il progetto espansionistico-demografico sì da evidenziare i limiti strutturali del capitalismo italiano e
dello Stato postliberale. La "riconquista" della Tripolitania (1922-1923) venne consolidata con una serie di operazioni
militari (1923-1925) condotte da Rodolfo Graziani, impegnato successivamente a reprimere la resistenza delle tribù del
deserto - con l'impiego decisivo di reparti di ascari eritrei - fino alla conquista della Sirtica e del Fezzàn (1928-1930).
L'ordine militare in Tripolitania venne imposto con esecuzioni di massa, incendi di villaggi, confisca dei beni libici e
politica concentrazionaria. Nel caso della Sirtica l'offensiva italiana fu agevolata dalla crisi del movimento di resistenza
tripolitano, investito da rivalità e dissensi, antichi e recenti, fra i capi tribali. Conseguenza immediata della riconquista
fu l'abrogazione degli Statuti del 1919, con relativa imposizione di pesanti tributi.

La colonizzazione di De Bono

Il successore di Volpi, Emilio De Bono (1925-1928) incarnò, per molti versi, sia la soluzione mussoliniana del
problema demografico che i progetti di colonizzazione sponsorizzata dallo Stato, in sintonia con la montante vocazione
coloniale del regime. La visita di Mussolini nella colonia (1926) venne esaltata come affermazione di forza del popolo
italiano, "predestinato" a conquistare sempre nuove terre in Africa. La promozione della campagna filocoloniale trovò il
proprio momento celebrativo ufficiale con l'introduzione della "Giornata delle Colonie" (21 aprile 1926). Il giornale
fascista "Il Tevere" presentò Mussolini in veste di "condottiero di un popolo assetato di grandezza e ridotto entro
frontiere inadeguate al suo numero e alle sue qualità". Non da meno erano stati Luigi Federzoni - primo ministro
fascista delle colonie - e l'altro nazionalista Roberto Cantalupo (Sottosegretario alle Colonie) che si autodefinì "un
fascista che ha fatto delle necessità coloniali dell'Italia la passione della sua vita". Entro questa cornice ideologico-
politica - focalizzata sull'egemonia nel Mediterraneo e sulla strumentalizzazione del panislamismo in funzione
antibritannica ed antifrancese - si collocava il progetto agricolo di De Bono. La legge del 1928 prevedeva il sostegno
governativo ai piani di bonifica e alla colonizzazione in Tripolitania.
Di fatto, vennero abbandonati gli iniziali progetti di colonizzazione per i contadini senza terra. Secondo De Bono
l'intervento dello Stato era funzionale ad incentivare gli investimenti privati e a sospingere la colonizzazione. La nuova
legislazione prevedeva la concessione di appezzamenti demaniali a famiglie di coloni italiani. Negli anni seguenti, lo
Stato assecondò una colonizzazione affidata ad enti parastatali. Tipico il caso dell'Azienda tabacchi italiani (costituita
nel 1927) che monopolizzò mille ettari di terreno per un periodo di 30 anni impegnandosi nel trapianto, entro 5 anni, di
500 famiglie di coloni. Le successive leggi del luglio 1928 favorirono sia l'operadi indemaniazione dei terreni (oltre 200
mila ettari in Tripolitania e circa 120 mila ettari in Cirenaica) che l'insediamento di famiglie coloniche. Tra il 1929
e il 1932 in Tripolitania si insedieranno 1.500 famiglie, pari a circa 7 mila persone. Ogni famiglia, a seconda del
numero dei componenti, ricevette dai 2 ai 5 ettari. Complessivamente - stando al censimento del 1936 - gli italiani
residenti in Libia (sorta dall'unificazione di Tripolitania e Cirenaica nel 1934) ammontavano a 115 mila persone di cui
66 mila residenti, con una forte componente di funzionari e militari.
Gli anni trenta

Con gli anni trenta "si apre la strada a una colonizzazione che avrà modo di combinare ad un livello più avanzato il
momento militare con quello politico, lo sfruttamento economico con l'insediamento demografico tanto più che la
disoccupazione preme nella metropoli" (Santarelli). In piena atmosfera imperiale, al nuovo governatore Italo Balbo
(1934) non restò che reclamizzare la "riconquista" nell'ottica di un paternalismo segregazionistico esemplato dallo
schema colonizzato/colonizzatore. Un tale indirizzo comportò la presa di distanza dall'ostentata crudeltà di Graziani, a
cominciare dal progressivo smantellamento dei campi di concentramento. Balbo privilegiò una politica tesa a favorire il
collaborazionismo degli arabi, in linea con un autoritarismo razzistico interessato all'alfabetizzazione dei libici.
Parallelamente cercò, con calcolata astuzia, di attutire gli effetti pratici della legislazione antiebraica tenendo conto della
presenza di ceti imprenditoriali e commerciali ebraici, importanti per la Libia, e della tradizionale convivenza fra arabi
ed ebrei in loco. Del resto, a suo avviso, gli ebrei "sono già morti: non c'è bisogno di infierire contro di loro". A monte
di simili considerazioni si coglievano la sottovalutazione e il disprezzo della cultura araba e la negazione di ogni forma
di autonomia delle popolazioni sottomesse. In definitiva, veniva persino ignorata anche la forma più sottile di razzismo
assimilazionistico.
In questo quadro si verificò l'ulteriore incremento del numero dei coloni, passati da 50 mila a 110 mila. A ben vedere, la
colonizzazione di massa (1938) sfruttava vantaggiose condizioni: la sconfitta della resistenza senussita e la crisi socio-
economica attraversata dall'Italia. Di conseguenza, la caccia alle risorse naturali della colonia e l'emigrazione furono
perseguite da Balbo attraverso la cosiddetta "traversata dei Ventimila": con un unico convoglio vennero trasferiti in
Libia ventimila coloni (1938). Si profilò, così, la trasformazione politico-giuridica ed etnica del Paese, divenuto colonia
di popolamento (e non solo di sfruttamento) nel contesto più vasto della formazione dell'impero, una volta conquistata
l'Etiopia. La colonizzazione rurale, gestita dallo Stato (30 mila unità nel periodo 1938-1939) si combinò con
l'accentuato ruolo delle compagnie rispetto alle concessioni private.
Tra queste ricordiamo l'Ente per la colonizzazione della Libia e l'Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale il
cui scopo principale consisteva nella trasformazione degli immigrati italiani in piccoli proprietari indipendenti. A
conferire spessore politico alla colonizzazione intensiva provvide Alessandro Lessona che - nell'ottica geopolitica
dell'Eurafrica - considerava la Libia naturale ponte di collegamento fra i due continenti. La prospettiva imperiale si
stendeva, così, dal Mediterraneo al Mar Rosso. Prospettiva che richiedeva, peraltro, una colonizzazione programmata,
autoritariamente disciplinata e selettiva (famiglie piuttosto che singoli individui) tra la diffidenza e l'ostilità dei libici.
Ciò comportava anche l'arruolamento dei coloni ("fanterie rurali"). I requisiti richiesti prevedevano: esperienze di
agricoltore, alfabetizzato e membro di una famiglia numerosa. Balbo stesso spiegò che la colonizzazione intensiva
rappresentava la "quintessenza del fascismo (...). Selezione fisica e morale, dunque: binomio indiscutibile".
In effetti, l'arrivo dei coloni (1938-1939) innescò attriti e contese con la popolazione libica privata di gran parte delle
limitate risorse agricole (meno del 3 per cento del territorio). Il 90 per cento dei libici, in totale circa 800.000 persone,
viveva in un'area di 44.600 chilometri quadrati adatti all'agricoltura.
Il 15 per cento soltanto della popolazione attiva era impiegato nelle manifatture (...) e meno del 5 per cento lavorava
nel commercio. Quindi più del 75 per cento della popolazione indigena, compresi tutti i più importanti gruppi etnici,
eccetto gli ebrei, viveva grazie all'agricoltura" (Segrè). Fino all'emigrazione di massa, soltanto il 15 per cento degli
italiani era impegnato nell'agricoltura. La percentuale salì al 40 per cento a partire dal 1940. A questo punto va rilevato
che il problema non era esclusivamente quantitativo. La dinamica demografica alludeva alla disarticolazione della
struttura economica tradizionale fondata sull'integrazione fra agricoltura non irrigua, pastorizia eproduzione delle oasi.
Per favorire il trapianto del nuovo sistema economico presso le comunità libiche i colonialisti erogarono prestiti e
sussidi, oltre all'installazione di "villaggi demografici" (appezzamenti di terra, case coloniche, provviste, utensili).
L'obiettivo degli occupanti mirava a trasformare i nomadi in agricoltori stanziali. Ma questi villaggi si trovarono
invischiati nei medesimi problemi tecnico-amministrativi ed etico-sociali manifestatisi nei villaggi colonici, a tal punto
da suscitare scarsissimo interesse. Basti pensare che le case coloniche vennero adibite a stalle per il bestiame. La
sottrazione delle terre e delle risorse idriche mandarono in rovina i pozzi e le cisterne.
In ultima istanza, i libici respinsero i progetti agricoli italiani per ragioni politiche e antropologiche: gli invasori
avevano distrutto i loro modelli di vita e i loro sistemi di lavoro. Cioè, essi ribadirono, in forme diverse, il primato di
un'economia di sussistenza subalterna a quella metropolitana senza il recupero delle terre da parte dei libici.
L'invasione di coloni italiani significò il confinamento dei libici nelle zone più aride. La popolazione rurale italiana
ebbe modo, così, di appropriarsi di oltre 120 mila ettari. "Per gli indigeni agricoltura significava pastorizia" (Segrè). Le
terre assegnate agli arabi tripolitani e cirenaici ammontavano a 1.393 ettari, "pari ad una trecentesima parte della terra
assegnata agli italiani" (Del Boca). Intanto i capi libici sopravvissuti allo sterminio e riparati in Egitto affidarono a Idris
la direzione del movimento di indipendenza.
Repressione e resistenza in Cirenaica

Gli accordi di Acroma rimasero in vigore sino agli esordi del 1923. Nel marzo di quell'anno il generale Luigi
Bongiovanni - governatore militare della Cirenaica, in sostituzione del governatore civile Eduardo Baccari - intraprese,
di fatto, l'occupazione della Cirenaica, in violazione degli accordi, profittando della fuga di Idris e del momentaneo
disorientamento del movimento di resistenza. Nel corso delle operazioni militari furono bombardati accampamenti di
nomadi, mandrie al pascolo, carovane in movimento. In questa fase (luglio-settembre 1923), per la prima volta gli
italiani fecero uso di gas asfissianti e vescicanti. Nel corso dello stesso anno si delineò la divisione della Cirenaica. La
popolazione a ridosso dei centri costieri venne ritenuta "sottomessa". Invece una parte considerevole dei libici si schierò
al fianco della guerriglia jhadista. L'anno successivo l'offensiva nel Gebel si concretizzò nell'installazione di presidi
militari fissi per meglio contrastare la guerriglia guidata dal Omar al Mukhtar, divenuto l'esponente più prestigioso della
resistenza anticolonialistica. Contro di essa si infranse l'offensiva italiana (1923-1927) incapace di smantellare il
radicamento popolare della guerriglia e impossibilitata a deprimere l'autorità della Senussia fra la popolazione civile.
Infatti, ai colpi di mano in Marmarica e nel Gebel, gli italiani risposero con bombardamenti indiscriminati nei quali
vennero impiegati i gas contro la tribù dei Magàrba er Raedàt (1928). Operazione ripetuta due anni dopo sull'oasi di
Taizerbo. Eppure, l'Italia aveva sottoscritto il trattato internazionale di Ginevra (17 giugno 1925) che proibiva l'uso
delle armi chimiche e batteriologiche. L'obiettivo militare primario del governatore Emilio De Bono consisteva nella
"unificazione" delle colonie libiche e nell'espansione del dominio politico-militare sull'intera regione, trovando nel
generale Ottorino Mezzetti - sostituto di Bongiovanni - un valido interprete. I grandi rastrellamenti, operati al fine di
isolare la guerriglia guidata da Omar al Mukhtar, portarono alla distruzione del bestiame ed erano volti ad impedire la
raccolta dell'orzo per colpire i guerriglieri ed affamare la popolazione. Se Mezzetti si affrettò a parlare di "ribellione
domata", purtuttavia dovette riconoscere il valore mostrato dagli indipendentisti del Gebel. Stando alle valutazioni
governative, nei quattro anni di offensiva italiana le tribù locali avevano perso circa 1.500 uomini e 90-100 mila capi di
bestiame.
L'arrivo di Badoglio coincise col varo di nuovi ordinamenti coloniali in conformità alla legislazione dello Stato fascista,
a partire dai piani di colonizzazione agricola e demografica. Il 26 giugno 1927 ci fu la codificazione della
discriminazione fra cittadinanza italiana e cittadinanza italiano-libica con la soppresione delle libertà civili e politiche
(diritti elettorali). Il nuovo ordinamento contemplava l'accentramento dell'autorità nelle mani del governatore, in
sostituzione del precedente esecutivo in cui il governatore era coadiuvato da un parlamento locale. Senza far ricorso al
previo parere del Consiglio di Governo - composto unicamente da italiani - il governatore aveva la facoltà di nominare
gli organi amministrativi. In una circolare del 9 febbraio 1929 egli puntualizzò: "Noi siamo quì la nazione dominante
che ha cacciato via l'inetto dominatore, e vi si è sostituita per esercitare un'alta missione di civiltà. L'arabo, o per meglio
dire tutta la popolazione indigena, deve acquistare questa profonda convinzione: che noi siamo quì e vi resteremo in
eterno (...), che questo compito noi lo porteremo a compimento a qualunque costo". A simili intenti colonizzatori - che
presupponevano dominio e organizzazione del territorio - seguirono anche bandi di perdono e di minaccia verso i
guerriglieri che non ebbero effetto alcuno.
Pertanto, Badoglio fu costretto ad avviare trattative con la Senussia alla ricerca di una soluzione di compromesso
(1929). Essa prevedeva l'accettazione della presenza italiana in cambio della fine della guerriglia. Nel contempo, ci fu il
riconoscimento - in un'ambigua e non chiara divisione dei poteri - degli organi e del ruolo tradizionale della
Confraternita. La "pacificazione" badogliana urtò, però, contro gli interessi di determinati ambienti coloniali (affaristici,
nazionalistici, di carriera) che premevano per una definitiva soluzione di forza.

Al Mukhtar, il "patriota"

Intanto, restava attiva, l'efficienza (amministrazione della giustizia, riscossione delle imposte, ecc.), di Omar al
Mukhtar, nonostante le lacerazioni interne ai duar. Su altro versante, Badoglio sfuggiva al confronto politico con Idris
esSenussi di cui non intendeva riconoscere l'autorità, convinto della superiorità italiana a tal punto da non formalizzare
politicamente l'armistizio. Di qui la ripresa delle ostilità da parte di Omar al Mukhtar. Il suo genio militare, il suo
prestigio ne fecero un combattente non solo jhadista ma anche anticolonialista, in grado di organizzare una guerra di
guerriglia e di resistenza che terrà in scacco, per un decennio, gli eserciti di quattro governatori. Ma una volta che
furono tagliati i rifornimenti dall'Egitto alla guerriglia, i continui rastrellamenti e la superiorità tecnico-militare degli
invasori, nel lungo periodo, misero in seria difficoltà l'ultrasettantenne capo guerrigliero. Colpire il cuore economico
della guerriglia significava, infatti, interrompere il commercio (pelli, zucchero, the, bestiame, manufatti) monopolizzato
dalla Senussia. Ma sulla sconfitta della guerriglia incisero anche la fame e la scarsità di munizioni. La cattura di Omar
(12 settembre 1931) generò sorpresa e baldanza negli ambienti politici e militari italiani. Il processo intentatogli - per
alto tradimento e ribellione armata contro i poteri dello Stato, oltre ad altre imputazioni - si concluse con la sua
condanna a morte mediante impiccagione, eseguita quattro giorni dopo in presenza dei prigionieri libici. L'eliminazione
fisica del nemico, da parte del fascismo segnò la decapitazione e la fine della guerriglia in Cirenaica. Nel contempo,
essa ebbe un rilevante significato etico per la dignitosa rassegnazione religiosa e la fierezza mostrata dal vecchio
resistente. Coloro che non vollero sottomettersi all'autorità italiana vennero esiliati, mentre restò viva l'assenza di
armonia politica tra il governatore Badoglio ed il suo ingombrante vice che era Graziani.
Deportazioni e massacri

Il protagonista della repressione in Cirenaica fu, appunto, Graziani che giunse in colonia (1930) accompagnato dalla
fama di intransigente e rigoroso militare fascista. Ostile a quella che riteneva essere stata sino ad allora una politica di
accordo e di attendismo nei confronti della guerriglia di Ornar, Graziani assunse un atteggiamento oltranzista verso i
sudditi libici, intendendo esercitare il dominio assoluto italiano con estrema durezza. Ciò significava riconoscere la
responsabilità collettiva delle popolazioni nell'attacco portato dai guerriglieri allo Stato dominatore. La cultura coloniale
cui faceva riferimento prevedeva la violenta disgregazione dell'organizzazione socio-politica tradizionale. Egli parlò di
"cura radicale" per la situazione determinatasi in Cirenaica, paragonabile a quella "di un organismo intossicato che
emette, su un punto del corpo, un purulento bubbone. Il bubbone in questo caso è il dor Ornar al Mukhtar che è la
risultante di tutta una situazione infetta". Per estirpare la guerriglia, Graziani adottò diverse misure: separazione dei
guerriglieri dal resto della popolazione con l'internamento dei nomadi in campi di concentramento; confisca delle
proprietà senussite; espulsione dei "capi" per privare il popolo della loro leadership politico-religiosa. Nel gennaio 1931
ci fu l'occupazione dell'oasi di Cufra, ritenuta centro di raccolta del fuoriuscitismo libico. Quanti riuscirono a fuggire,
nel tentativo di oltrepassare il confine con l'Egitto e col Sudan, furono sottoposti a pesanti bombardamenti. Molti dei
fuggitivi perirono a causa della fatica, della fame e della sete. Un rapporto dell'alto commissario al Cairo confermò il
peso della tragedia consumatasi ai danni dei libici fuggiti da Cufra: " E' impossibile, tuttavia, rimanere insensibili alla
tragica storia di questo popolo del deserto, cacciato dalla sua remota oasi che era la sua casa dagli schiaccianti
armamenti meccanici della colonizzazione europea in un deserto così esteso che pochi di loro avrebbero avuto la
speranza di raggiungere la più vicina oasi sul suolo egiziano". Una volta occupata Cufra non restava che soffocare il
contrabbando di merci e rifornimenti provenienti dall'Egitto. Ciò comportò il trasferimento forzato delle popolazioni e
la successiva clamorosa decisione (1931) di costruire un reticolato di 270 chilometri lungo il confine con l'Egitto, dal
porto di Bardia all'oasi di Giarabub. Ormai era pianificata la deportazione di massa dal Gebel. Oltre 100 mila arabi
vennero deportati in un'operazione che - varata da Badoglio e Graziani - "non ha forse precedenti nella storia dell'Africa
moderna" (Del Boca). Emblematica, in tal senso, fu la migrazione biblica di alcune migliaia di Anaghir, scortati dagli
ascari. Nell'attraversamento di regioni semidesertiche i più vecchi e i più deboli furono lasciati morire durante il
cammino. Si era in presenza di un vero e proprio eccidio. Egidi, commissario regionale di Bengasi, scrive nella sua
relazione: "Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava veniva immediatamente passato per le armi (...).
Anche il bestiame che per le condizioni fisiche non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente
abbattuto (...)". Per tacere del calvario inflitto ai Marmarici che, con le rigide temperature invernali, furono costretti ad
una marcia di mille chilometri dalla Marmarica alla Sirtica. Le popolazioni deportate furono concentrate in campi
costruiti in prossimità della costa. In questi campi le pesanti condizioni di sopravvivenza (razionamento dei viveri,
contrazione dei pascoli) si sommarono ai controlli sempre più duri. L'obiettivo perseguito venne specificato da Graziani
stesso che intese programmare le disposizioni governative e mussoliniane, tese "a ridurre la popolazione alla più
squallida fame se esse non si assoggetteranno definitivamente agli ordini". Su indicazioni di Badoglio, ad el Agheila
venne costituito un campo di punizione per le famiglie dei ribelli e per i riottosi (7.000 persone), mentre si provvide a
deportare nell'isola di Ustica circa 200 notabili e capi senussiti.

I campi di concentramento

I dati frammentari di cui dispongono gli studiosi non consentono un sistematico e rigoroso accertamento sulla
consistenza della popolazione cirenaica. Le stime restano, per tanto, discordi. Le conclusioni di Enrico De Agostini
(1922-1923) parlano di circa 185 mila abitanti. Per Evans-Pritchard la cifra è di 200 mila persone di cui un quarto
urbanizzate. I censimenti del 1931 e del 1936 riferivano di 143 mila abitanti. Di certo, dagli studi citati emerge una
contrazione della popolazione oscillante fra i 45 mila e gli 80 mila nella fase più acuta della repressione italiana (1930-
1931). Un così pesante ridimensionamento più che essere addebitato alle operazioni belliche va ascritto alle pessime
condizioni di vita cui erano stati ridotti gli abitanti della Cirenaica. Il riferimento è alla fame, alle epidemie, alla elevata
mortalità nei campi in seguito a denutrizione e alle deteriorate condizioni igieniche. Nei campi, peraltro, gli internati
erano sottoposti ad ogni sorta di violenza. Non erano ammesse ribellioni, fughe o inadempimenti verso i regolamenti
riferisce Reth Belgassem, recluso ad Agheila: "Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al
centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare. Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri
fratelli". Non manca chi ricorda miseria e percosse come Mohammed Bechir Seium: "Ogni giorno qualcuno si prendeva
la sua razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo
duecento grammi che doveva bastare per tutto il giorno". Altri, come Omran Abu Shabur, ricorda: "Ogni giorno
uscivano da el Agheila cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni (...). Li contavamo sempre. Gente che
veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia". Appare evidente che la
falcidia della popolazione rinvia alla politica repressiva che colpì drasticamente il patrimonio zootecnico. Le operazioni
nel Gebel portarono all'uccisione e alla confisca (1923-1928) di circa 170 mila capi di bestiame.
Rileva Giorgio Rochat: "Lo sgombero del Gebel determinò un repentino crollo: sembra che il bestiame al seguito delle
popolazioni deportate si aggirasse sui 600.000 capi, che però vennero rapidamente falcidiati dalla mancanza di pascolo
e dalle misure prese dai comandi italiani per impedire l'approvvigionamento dei guerriglieri" (Guerre italiane in Libia e
in Etiopia). Incerte risultano anche le cifre sulla deportazione che sembra non aver interessato la popolazione inserita
nei circuiti economici mercantili (50 mila persone) e quella delle oasi interne: cioè quella popolazione ritenuta
"affidabile". La deportazione investì le popolazioni nomadi e quelle agricole nel Gebel, in Sirtica, nella Marmarica, a
ridosso di Bengasi. Nel 1931 il totale dei deportati ammontava a 100 mila unità, ospitati in tende piantate sulla sabbia,
circondate da un doppio reticolo di filo spinato e con servizi collettivi tragicamente insufficienti. Esistevano diversi tipi
di campi, a partire dalla superficie e dal numero degli internati. I piccoli-medi campi presentavano condizioni di vita
relativamente sostenibili. Ad el Abiàr (con 3.100 internati) l'economia agropastorale (1.500 pecore) consentiva
rifornimenti autosufficienti di orzo e di grano, oltre che di foraggio. Risultavano scarse le strutture collettive (una tenda
sanitaria con ambulatorio). I grandi campi (Soluch, con 20 mila confinati; Marsa Brega con 21 mila internati; el
Agheila; Sidi Ahmed el Magrun) raccoglievano complessivamente 65 mila persone, in serie difficoltà alimentari per via
dell'insufficiente bestiame sopravvissuto e della scarsità di cereali seminati.
Di conseguenza, pur ospitando pozzi d'acqua e lavori igienici essenziali, in questi campi le condizioni di sopravvivenza
erano del tutto precarie. In vista del conseguimento dell'autosufficienza alimentare, le autorità coloniali si impegnarono
nell'impianto di spacci e nella costruzione di edifici (caserme). Soltanto a Soluch esistevano una tenda ambulatorio, un
prontosoccorso con 13 letti ed un veterinario, oltre a due medici. A favorire la recrudescenza delle malattie nei campi-
tenda provvidero, oltre al sovraffollamento, anche il passaggio forzato da un regime alimentare seminomade ad uno
dipendente dalla pesca. L'elevato tasso di mortalità ridusse il numero degli internati a Soluch di 7 mila unità nel biennio
1931-1933. A Sidi Ahmed - nello stesso periodo - privazioni e stenti avevano ridotto la popolazione del campo di 5 mila
unità. La febbre tifoidea, che imperversò in alcuni campi, portò allo scoperto il livello disastroso dell'organizzazione
sanitaria e, di conseguenza, la necessità di un decongestionamento. Non mancavano campi-ragazzi come quello di Sidi
Ahmed el Magrun che accoglieva orfani e dispersi dell'età da 6 a 15 anni, senza alcuna distinzione clanica e tribale
(Anaghir, Brahasa, Dorsa). La loro organizzazione era prettamente militare (divisione in centurie, manipoli e squadre).
Accanto all'istruzione fisica e militare, per i più "adatti" era previsto l'insegnamento di un mestiere nelle scuole di
artigianato. Secondo Graziani: "Da queste palestre di cultura italiana e di educazione civile, professionale e militare
sorgeranno i primi nuclei delle nuove generazioni libiche". In sostanza, la "civiltà fascista" in Libia nasceva sulla base
della deculturazione e spersonalizzazione razziale delle "popolazioni inferiori", sottomesse e da italianizzare. Nel 1932,
a partire dal campo di punizione di el Agheila, iniziò lo smantellamento del sistema concentrazionario. Quando l'anno
successivo i lager vennero definitivamente smantellati i sopravvissuti erano appena 60 mila, altri 40 mila erano morti di
stenti, privazioni alimentari, epidemie. Basti pensare che nei lager di Soluch e di Sidi Ahmed el Magrun esisteva un
solo medico per 33 mila internati. Il ritorno delle popolazioni nelle sedi originarie era stato sospinto da più ragioni.
Innanzitutto dall'impossibilità di assicurare condizioni sanitarie ed alimentari accettabili.
In secondo luogo, dalla necessità per i colonizzatori di assicurarsi manodopera a basso costo per la "valorizzazione" dei
terreni, oltre che dal fallimento del piano che prevedeva l'insediamento permanente dei libici attraverso l'istituzione dei
campi di concentramento nella Sirtica. Tuttavia, lo scioglimento dei campi non avrebbe dovuto ostacolare la
colonizzazione italiana del Gebel, come specificò lo stesso Graziani (1934). Questi restò fermo al principio "che il
Gebel, spina dorsale dell'economia agricola della colonia, deve rimanere sgombro da esse, e destinato alla
colonizzazione metropolitana (...)". In prospettiva, si passava dal controllo politico-militare della regione alla
distruzione della sua tradizionale struttura socioeconomica trasformando, fra l'altro, gli allevatori arabi - privati delle
loro terre e del loro bestiame - in manodopera dipendente o ridotti al nomadismo di sussistenza. Nel primo caso le
autorità coloniali fecero ricorso alla precettazione forzata col risultato di fornire sottoproletariato depersonalizzato alle
ditte appaltatrici dei lavori pubblici. Alla discriminazione antroposociale si aggiunse, così, quella etnoeconomica. Per
una giornata di lavoro un operaio arabo riscuoteva dieci lire; salario decurtato da una serie di prelievi, pari a 2 lire
giornaliere. L'operaio italiano riscuoteva 30 lire giornaliere. I prelievi erano effettuati in funzione di un "risparmio" che
avrebbe dovuto consentire alla popolazione locale di provvedere all'acquisto di bestiame. Sarà proprio il nodo cirenaico,
sciolto con brutale violenza, a sintetizzare la rilevanza demografica del colonialismo italiano. Ma il sogno nazionalista
di una "Italia d'Oltremare" autosufficiente ma demograficamente complementare all'economia metropolitana era
destinato a restare tale.
Parte seconda. Il fascismo in Africa orientale
Terra negata ai padri,
promessa ai figli, faticata Etiopia
tu non potrai più oltre
fuggire il tuo destino,
troppo e sì lungamente
legato al nostro
(V Cardarelli)

Per l'Italia l'impero non è un lusso;


è il necessario complemento
delle nostre possibilità.
Rinunciarvi significa il suicidio
(A. Fanfani).

Copernicanesimo imperiale

Il progetto imperiale, lungamente coltivato, prese corpo con l'aggressione all'Etiopia. Allora parve concretizzarsi
l'illusorio sogno di un nuovo ordine afromediterraneo politicamente ed economicamente incentrato su Roma, attorno
alla quale avrebbe dovuto ruotare il sistema delle colonie-satelliti. Il suo funzionamento istituzionale era assicurato
dall'accentramento e dalla militarizzazione dell'amministrazione civile, garanti della fascistizzazione dei territori
conquistati. Simile copernicanesimo politico sui generis mirava ambiziosamente a tracciare i lineamenti e la frontiera di
una "umanità nuova" italocentrica e gerarchicamente strutturata in popoli e "nazioni" col loro punto di riferimento
nell'etnia imperiale italiana. Il "nuovo ordine imperiale" si nutriva sia del mito della "superiore civiltà fascista" che della
vocazione messianica e della missione salvifica dell'Italia presso i popoli "incivili". La loro elevazione etico-storica
passava doverosamente per l'educazione al culto dell'impero. Ciò impose la mortificazione dell'autorità dei capi
tradizionali, la loro riduzione a clientes, sì da dequalificarli agli occhi delle proprie genti. In breve, si puntava ad
emarginarli ricorrendo ai mezzi più vari: dalla minaccia, all'attivazione delle rivalità interetniche, alla corruzione. Di qui
i confini di un impero che, prima di rispondere ad esigenze strettamente politiche, perimetrava frontiere georazziali, di
"civiltà". Un articolo di Lido Cipriani - etnologo razzista - apparso sul "Corriere della Sera" (16 giugno 1936), ben
sintetizzava la natura della civilizzazione italiana: "Per le razze inabili a creare, quali sono le africane, anziché
stazionarietà, si ha oggi una decisa tendenza al regresso. Soltanto ove l'africano sia tenuto sotto il controllo europeo, tale
regresso può evitarsi". E in "La difesa della razza" (20 agosto 1938) non aveva dubbi sul fatto che le nazioni "che oggi
accolgono indifferentemente nel loro seno le razze africane (...) con diritti uguali agli uomini di razza bianca, si
espongono così a un danno gravissimo e irrimediabile". Come dire che, grazie alla dominazione imposta, i popoli
sottomessi potevano erano stati immessi nella civiltà universale di cui Roma fascista era depositaria. Un simile
copernicanesimo imperiale negava a priori valore e legittimità ai principi democratici dell'autodeterminazione dei
popoli e della sovranità nazionale puntando al misconoscimento delle culture "altre". Fu Mussolini stesso a delineare
(1934) il programma espansionistico del fascismo verso l'emisfero afroasiatico, con la sua proiezione atlantica
(occupazione delle colonie francesi in Africa settentrionale) e verso l'Oceano Indiano, passando per il Sudan. Si trattava
di un disegno strategico la cui elaborazione risaliva agli anni venti. Infatti, nel novembre 1922 Mussolini aveva
tracciato, a larghe maglie, la politica fascista in Africa orientale, intesa a salvaguardare l'integrità dell'Etiopia con la
quale - egli spiegò - "intendiamo promuovere, così, attraverso l'Eritrea come attraverso la Somalia, i più intensi e
fecondi rapporti commerciali". Mussolini, cioè, percorreva un itinerario politico inaugurato, nella sostanza, dal
colonialismo liberale e dal quale emergeva un progetto espansionistico, più che bellicistico, intessuto di commerci,
flussi migratori e scambi culturali. Tuttavia, in ambienti decisivi del regime già filtravano accenti paternalistico-razziali.
In un discorso tenuto alla Camera (novembre 1924) Pietro Lanza di Scalea, ministro delle Colonie, puntualizzò:
"L'Eritrea si va di giorno in giorno individualizzando; si distacca dalla razza dei popoli che l'attorniano; si sente fiero di
essere figlio d'Italia (...). Certo è che l'Eritrea si va man mano formando una coscienza che direi quasi nazionale, che
potrà essere un baluardo sicuro per l'avvenire della nostra colonia".
Simili atteggiamenti - nientaffatto lineari, vista la concomitante presenza di dichiarazioni di altro tenore - servirono a
rassicurare gli ambienti conservatori sulla natura dell'imperialismo fascista. Le altre prese di posizione miravano
strumentalmente a contrastare la "egemonia" del capitale finanziario britannico-statunitense e ad esaltare il "genio" della
Roma imperiale, epicentro della civiltà euro-occidentale. La preoccupazione principale - fatta di demagogia ed
approssimazione - verteva sulla distinzione fra imperialismo fascista ed imperialismo di "marca prussiana o inglese"
così come si espresse Paolo Orano. Si trattava di un'illusoria e mistificante "terza via" imperialistica, in bilico fra
espansionismo economico-culturale e nazionalismo aggressivo, sì da precludere la possibilità di inaugurare un coerente
progetto di politica coloniale. In tale concezione permanevano echi e suggestioni eclettiche tipiche dell'ideologia
mussoliniana postbellica volta a confezionare un nazionalimperialismo proteso verso l'Africa, nel contesto di un sistema
di relazioni internazionali decifrato in termini di "lotta di imperi" e riciclando motivi dell'universalismo cattolico.
Eppure l'imperialismo fascista non fu esente da elementi di specifica caratterizzazione. Basti pensare al ruolo svolto in
colonia dal Pnf, in quanto strumento di repressione politica, di propaganda, di "educazione morale fascista". In
definitiva, il partito funzionava da strumento ed espressione del "dominio diretto" in colonia, per via della sua
riconosciuta funzione istituzionale. "Per avere una politica imperiale nostra, con caratteristiche proprie, diversa dalla
politica imperiale anglosassone e francese (...), la presenza del Partito è indispensabile e insostituibile" (C. Giglio,
Partito e impero, 1938). Altrettanto importante fu il tentativo di "corporativizzare" le economie locali grazie anche alla
pletorica estensione della burocrazia coloniale. Ma l'interesse dei potentati economici a salvaguardare ampi margini di
autonomia e la resistenza opposta dai privilegi dei funzionari coloniali la preoccupazione dei potentati economici di
salvaguardare la propria iniziativa autonoma, e la resistenza opposta dai privilegi dei quadri burocratici resero
impossibile, di fatto, la "corporativizzazione" della società e dell'economia. Difesa di prerogative che svelavano la
natura sociale del ceto burocratico, composto da personale inesperto (giovani), ex-militari, professionisti in cerca di
miglior fortuna che in Italia. Sotto questo profilo la distanza dalla consolidata burocrazia degli altri imperi appariva
rimarchevole. Distanza storica, se si pensa che l'amministrazione coloniale in Italia è stata coeva all'affermazione del
regime fascista e alla sua espansione oltremare.
A partire dal 1926 il problema coloniale occupò via via una sua centralità nella politica fascista nel riferimento alla
"razza italiana" predestinata ad espandersi "come il destino dei torrenti di precipitarsi verso il mare" ("L'Impero").
Tuttavia, nei primi anni del governo Mussolini, la politica di potenza in Corno d'Africa appariva meno aggressiva
rispetto alle modalità della "riconquista" della Libia. Ciò anche in ragione della presenza britannica, tale da indurre il
regime a ricercare soluzioni diplomatiche per acquisire territori e rettifiche di frontiere. Nel 1924-1925 l'Italia ottenne la
fertile regione dell'Oltregiuba, parte integrante del Kenya britannico. L'anno successivo, un accordo italo-britannico
riconobbe gli interessi italiani nelle regioni altoetiopiche ed autorizzò l'apertura di un collegamento ferroviario fra
Somalia ed Eritrea. In cambio Londra ottene l'utilizzazione delle acque del lago Tana e del Nilo. Una volta riconosciuta
la propria presenza nel Corno, il fascismo potè esprimere la propria politica revisionistica in forma di "sfida" alla
Società delle Nazioni. Tuttavia, nel perseguire il proprio progetto imperiale, il regime dovette misurarsi con le difformi
realtà socioeconomiche delle singole colonie. L'Eritrea - da tempo "pacificata" - era vista come una sorta di azienda di
sfruttamento e di valorizzazione agricola nella quale coinvolgere il notabilato tigrino nell'intento di ravvivare la politica
periferica verso l'Etiopia, a limitatissima presenza italiana. In effetti, almeno sino al 1928, l'Eritrea sfuggì al processo di
fascistizzazione. Anzi, durante gli anni venti, vide sorgere una incipiente, incerta "coscienza nazionale", veicolo di
progressiva rottura con la presenza del dominatore. Bisognerà attendere gli anni trenta perché in Eritrea comparisse
l'anticolonialismo militante. Sintomatica di tale evoluzione fu la diserzione di battaglioni ascari, pronti a battersi per la
causa indipendentistica dell'Etiopia aggredita. La conquista effettiva della Somalia seminomade fu complementare
all'insediamento del fascismo in Italia. Nella fattispecie, Roma puntò ad estendere il proprio controllo - con una serie di
pesanti campagne militari e dure repressioni - verso l'interno e sulle regioni settentrionali, rimaste sino ad allora
"protettorato" italiano e affidate a sultani locali.
In tale cornice, ordine militare ed ordine politico finirono per coincidere dal momento che il mantenimento dell' "ordine
coloniale" venne affidato a reparti di carabinieri (zaptié) e agli ascari (dubat), in sostituzione delle autorità dei capi e
delle milizie tradizionali. Ormai il fascismo optava per il rovesciamento delle relazioni tradizionali fra metropoli e
colonia sia attraverso gli illimitati poteri affidati al governatore Cesare Maria De Vecchi che con la militarizzazione
della colonia - in cui il contingente militare di occupazione passò da 2.500 a 12 mila uomini - "riconquistata" quasi
integralmente nel 1928. Verso l'Etiopia - ultimo Stato africano sfuggito alla colonizzazione "bianca" - il regime adottò,
a partire dal 1925, una politica di accerchiamento diplomatico prima di lanciarsi nell'aggressione militare. L'anticamera
di una simile soluzione era stata la politica periferica adottata in Eritrea e sancita dagli accordi italo-britannici. Nel
contempo, la penetrazione mirò anche al potenziamento del commercio fra la costa italiana del mar Rosso e l'altopiano
(camionabile Assab-Dessié) secondo le clausole del trattato italo-etiopico di pace ed amicizia ventennale (agosto 1928).
Tuttavia, i sospetti di Addis Abeba bloccarono la penetrazione economica italiana. Dopo il 1930 le spinte aggressive del
regime si fecero più forti come attestato, fra l'altro, dai piani segreti di aggressione approntati (1932) da De Bono,
ministro delle Colonie. Due anni dopo, questi piani vennero ulteriormente ampliati, in concomitanza con la crisi
socioeconomica attraversata dall'Italia, dietro l'interesse del regime a rivitalizzare la produzione (commesse statali)
senza ignorare la loro utilizzazione come strumento propagandistico di mobilitazione del consenso. A spingere verso
l'aggressione concorse anche l'atteggiamento di Londra e di Parigi, preoccupate dalla riscossa tedesca in Europa e
propense a non ostacolare più di tanto le ambizioni italiane in Africa (materie prime, ricerca di mercati), mortificate
nell'area balcanica. Sull'atteggiamento britannico, in particolare, incise anche la politica delle concessioni fatte a
Mussolini dalla Francia di Pierre Laval. Ormai i rapporti italo-etiopici debordavano dall'ambito diplomatico per
scivolare sul terreno inclinato della prova di forza.
Non mancò il supporto ideologico nell'aggressione all'Etiopia, costruito sulla rielaborazione di miti, in larga misura, già
presenti in età prefascista e confluiti nella visione dell'Oltremare come "frontiera" verso la quale proiettare in forma
totalitaria i problemi demografici, l'iniziativa del grande capitale, la vocazione crociata del clero. In questa cornice
s'inseriva la trasfigurazione mitica e mistificatrice del contadino-soldato italiano in Africa. Di conseguenza, la
legislazione razziale imposta all'Etiopia s'innestò sulla combinazione organica fra ordine poliziesco ed ordine militare.
Tuttavia, la "nuova società" imperiale non riuscì a sopravvivere al secondo conflitto mondiale. Gli Alleati misero in
ginocchio un impero fondato sulla repressione più brutale ed indiscriminata e sulla guerra etnica, nel permanente,
strutturale squilibrio fra obiettivi e mezzi per conseguirli. L'Etiopia fu ben altro della "terra promessa" dal momento che,
nei cinque anni di colonizzazione, appena un migliaio di famiglie italiane riuscirono ad insediarvisi, senza dimenticare
la mancanza di finanziamenti adeguati, la confusione programmatica e la corruzione burocratica. L'Italia uscì, così,
dalla guerra come l'unica potenza coloniale sconfitta i cui ex-possedimenti vennero sottoposti all'amministrazione
militare britannica. La sconfitta delle truppe dell'Asse in Africa svelò la fragilità dell'impero "autarchico" vagheggiato
da Mussolini. La retorica fascista del "far da soli" cozzò, sin dagli esordi, contro la collocazione geopolitica dell'Aoi,
compresa fra Suez e Mar Rosso - passaggi obbligati per i rifornimenti - sorvegliati da Londra. La cintura dei domini
britannici (Somaliland, Sudan, Kenya, Aden) soffocò, di fatto, l'impero fascista abbandonato da Roma al suo destino. A
questo punto è possibile delineare - peraltro in maniera schematica - una cronologia dell'impero. Al biennio della guerra
di conquista (1935-1936) seguì il periodo dei massacri e della ribellione (1937-1938) che precedette la fase di
incubazione (1939-1940) della crisi finale dell'impero (1941).

L'impegno del clero

Se fino al 1925 le simpatie filofasciste si erano mantenute a livello prevalentemente individuale, l'anno successivo
l'adesione del clero alla politica del regime si fece più convinta e consistente. Nel 1931 il collaborazionismo del clero
divenne più diffuso, coinvolgendo vasti e decisivi settori, fino a trasformarsi in collateralismo politico con l'aggressione
all'Etiopia. Già prima che Mussolini volgesse il proprio interesse su questo Paese - cioè prima e dopo i Patti Lateranensi
- molti presuli e parroci si riconobbero nell'attività mobilitatrice dell'Unione missionaria del clero. In particolare, la
stampa missionaria, con toni da crociata, scorse nella "marcia fascista" sull'Etiopia il segno della "conquista cattolica",
momento di un apostolato universale nel quale impegnare l'Italia. A ben vedere, la convergenza fra attività missionaria
e nazionalismo civilizzatore nacque su sedimenti clerico-fascisti preesistenti e della quale il giornale "Italia e Fede" fu il
più coerente interprete. Questo movimento - in nome dell'Italia cattolica e fascista - alimentò la propaganda ideologica
di un imperialismo fideistico-politico presente, in particolare, tra il clero di provincia e forte del consenso di autorevoli
prelati tra cui il cardinale di Milano Schuster. Questi, nel corso di una funzione religiosa, non esitò a dichiarare che "sui
campi di Etiopia il vessillo d'Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana la strada ai
missionari del Vangelo". Il "clero del duce" manifestò pubblicamente la propria fedeltà a Mussolini e al papa nel segno
della "autarchia spirituale" (valorizzazione dei santi nazionali: Benedetto da Norcia e Caterina da Siena). La
fascistizzazione investì anche le congregazioni religiose (salesiani). A livello ufficiale, la convergenza tra Vaticano e
fascismo era resa possibile dalla combinazione fra missione e conquista nel solco della tradizione antidemocratica ed
antibolscevica. De Vecchi, governatore della Somalia, favori la presenza cattolica in vista della fascistizzazione della
colonia. Nel 1926 ci fu la comparsa ufficiale del cappellano militare in colonia. L'evangelizzazione romanocentrica
minava alla base l'autonomia dei popoli africani e della Chiesa copta etiopica. Romanocentrismo che ben si combinava
col mito imperiale del fascismo. Un simile espansionismo fece ricorso a tutti i canali disponibili - a partire
dall'amministrazione - anche per promuovere la formazione di un clero locale ligio alle direttive della Santa Sede.
Infatti, in ogni regione dell'Africa orientale italiana vennero insediati vicariati apostolici organizzati in coircoscrizioni
secondo il perimetro fascista dei governatorati.
Ancor più zelante si rivelò il cattolicesimo integralista militante dei cappellani militari, pronti ad esaltare i destini
imperiali della patria fascista, con efficaci ricadute mobilitatrici anche sui ceti rurali. Basti pensare a monsignor
Eugenio Vallega o a padre Guido Palagi. Lirici cantori clericali e fantasiosi religiosi promossero componimenti e
preghiere di sapore politico. Valga per tutti l'esempio di monsignor Giacomo Scotto della Pagliara che, in una preghiera
mariana, raffigurò Maria "armata di clava di sdegno fiammante" nella crociata contro gli infedeli ed i nemici della
patria. Alla Madonna fascista si rivolse in questi termini: "Trionfi la Patria, esulti la Chiesa e vibrino ardenti i cuori per
te. Sì forte, tremenda qual asta sul campo, tu l'arme che spezza nemico furor".
I cappellani militari composero preghiere inneggianti alle vittorie italiane, in una combinazione fra sacro e profano che
sfociò nell'ipernazionalismo del cardinale Carlo Salotti. Non mancarono preghiere al duce, come quella di monsignor
Michelangelo Rubino. Tra i primi a partire volontario per l'Etiopia ci fu il fascista padre domenicano Reginaldo
Giuliani. Il suo cattolicesimo militaristico fece della fede un veicolo di civilizzazione sottoforma di conquista militare-
religiosa in cui le camicie nere erano considerate "la punta d'acciaio della penetrazione". Il suo fanatismo crociato gli
impedì di vedere villaggi rasi al suolo, prigionieri passati per le armi, partigiani crocefissi. Milite tra i militi del gruppo
Diamanti, s'inebriava con la "musica dei moschetti", indispensabile per scolpire "il volto di Roma sul profilo della razza
abissina".
Fra Ginepro non fu da meno nell'esaltazione dell'Italia "cristiana e sabauda e fascista, al timone del mondo,
illuminatrice dei popoli, liberatrice degli schiavi, che strappi al continente nero il velo caliginoso del male e della
impostura (...)". La mobilitazione del clero era sospinta anche da un'approssimativa lettura della situazione
internazionale in cui confluivano illusioni patriottiche, demagogia politica del vecchio clericalismo ed ideologia
missionaria.
Basti rammentare le parole del vescovo di Amalfi (18 novembre 1935) quando si scagliò contro le sanzioni imposte
all'Italia dalla SdN, affermando che quest'ultima aveva agito "sotto l'influsso di forze occulte: la massoneria, il
bolscevismo, l'anglicanesimo".
Intanto, l'atteggiamento distaccato di Pio XI "sfiorò le illusioni e le propensioni patriottiche e nazionalistiche della
maggior parte dell'episcopato italiano, riecheggiando, senza differenziarsene, i motivi del 'grande e buon popolo' troppo
numeroso e con poca terra, con poco spazio per le sue braccia, affacciati e propagandati dal regime fascista"
(Santarelli). Né sono da trascurare la presa esercitata sugli ambienti cattolici dai disegni fascistico-romani sospinti da
tentazioni ecumenico-internazionalistiche di tipo corporativo. In definitiva, istanze teocratiche persistevano in una linea
pontificia espressa nella formula del "totalitarismo cattolico". Progetto di cristianizzazione del mondo che, già negli
anni venti, aveva trovato in Agostino Gemelli e Francesco Olgiati autorevoli interpreti.
Prospettiva illusoria di coincidenza integrale fra tradizione cattolica - vista come autentica tradizione nazionale - e Stato
fascista. Tuttavia, la Chiesa restò coinvolta nel generale clima di mobilitazione del fascismo evidenziando al suo interno
più di una sfaccettatura politica e diversificate forme di pensiero. A spingere verso la convergenza col regime provvide,
per certi versi, lo stesso Pio XI il cui missionarismo declinava verso un colonialismo religioso, evangelizzatore e
romanocentrico che, tuttavia, doveva misurarsi con la presenza di "chiese nazionali". Senso di superiorità eurocentrica
emersa con la presenza missionaria tra i cristiani monofisiti eritrei ed etiopici. Si era al cospetto di un cattolicesimo
tridentino assai distante - a livello dottrinario ed organizzativo - dalla Chiesa copta. Distanza che chiamava in causa
culture e storie divergenti dei popoli.
Ciò non impedì (1927-1929) un lento riavvicinamento fra le due Chiese quando il Vaticano rinunciò ad estendere in
colonia il regime concordatario. Al contrario, De Bono, ministro delle Colonie, non rinunciava a "cattolicizzare" la
Chiesa copta. L'operazione aveva i suoi referenti nelle congregazioni religiose e nei missionari cappuccini. Ma si
trattava di una condotta incrinata dalle direttive della Santa Sede, interessata a tracciare margini di relativa autonomia.
Per i fascisti restava fondamentale l'imposizione di un responsabile "cattolico e italiano" al vertice della Chiesa eritrea
ed etiopica che assecondasse compiutamente il progetto di "fascistizzazione" dell'Africa orientale. L'equivoco tra i due
colonialismi (politico e religioso) venne confermato dal pronunciamento ufficiale di Pio XI (27 agosto 1935)
sull'aggressione all'Etiopia che, nella sostanza, ribadì il filofascismo pontificio. Tra l'altro, il papa tacque di fronte alle
prese di posizione di eminenti ecclesiastici, tra i quali Fossati, Margotti, Schuster e agli articoli favorevoli alla politica
africana di Mussolini comparsi su "L'Osservatore Romano" e su "Civiltà Cattolica". Il papa era convinto che la pace
avrebbe potuto essere assicurata con l'instaurazione di un ordine internazionale cristiano. Pertanto, il suo pontificato
ignorò la crisi dell'"uomo bianco" e del colonialismo religioso. In maniera ancor più scoperta si pronunciarono molti
episcopati con benedizione di gagliardetti, di truppe e di bandiere in una prospettiva, nazionalista e cattolica - con forti
risentimenti contro la Gran Bretagna e la SdN - tesa a conquistare
l'Etiopia "schiavista". E che dire dell'intrigante monsignor Barlassina che ricevette un'onorificenza (1932) per i servigi
prestati allo Stato italiano intenzionato a disgregare l'impero etiopico. La mobilitazione entusiastica del clero sfociò
nella "messa al campo sull'Altare della patria" (1° marzo 1936) in ricordo dei caduti di Adua.
In colonia la situazione appariva più complessa all'indomani del tentativo etiopico di riconquista della capitale e della
fucilazione dell'abuma Petròs. Dopo la repressione seguita al fallito attentato contro Graziani, il regime rinunciò alla
politica di cattolicizzazione dell'Etiopia riconoscendo la religione copta come religione ufficiale. Intanto - a ridosso
degli anni quaranta - il mutato scenario internazionale fece registrare qualche contrasto fra la Chiesa e il fascismo.
Tuttavia, bisognerà attendere il crollo del regime (1943) perché monsignor Tardini si rammaricasse dell'abbandono
della politica del "blocco latino" perseguita sino alla metà degli anni trenta dal fascismo. Si trattò di una presa di
posizione, per certi versi, nostalgica, nella constatazione che la "cattolicizzazione" integrale proposta da Roma si era
rivelata illusoria.

In Somalia e in Eritrea

Impegnato, com'era, nella "pacificazione" della Libia col ferro e col fuoco e a consolidare la presenza italiana in
Somalia, Mussolini non era intenzionato ad aprire un fronte etiopico. Gli bastavano i risultati conseguiti dagli accordi
con Londra (1925). La conquista effettiva della Somalia - dopo la morte del Mullah - iniziò con la violenza poliziesca e
squadristica di Cesare Maria De Vecchi che ne fu governatore (1923-1928). Dotato di illimitati poteri e votato ad una
durissima repressione egli mostrò spregio nei confronti delle consuetudini e della storia dei somali. La destrutturazione
della società passò per l'abbattimento del potere dei capi, per il disarmo delle milizie tradizionali e per la
militarizzazione della società controllata, oltre che dalla violenza squadristica, da reparti di zaptié e di dubat. Tra i tanti
episodi di gratuita sopraffazione va menzionata la "spedizione punitiva" contro le cabile bersane (1924) che avevano
rifiutato il disarmo. La risposta fascista si condensò nel bombardamento e nell'incendio dei villaggi, in decine di
esecuzioni sommarie, nella razzia del bestiame per privare i somali delle loro fonti di sussistenza. Contro il vecchio
capo religioso (scek) Mohammed Nur, barricato coi suoi fedeli nella moschea di El Hagi, De Vecchi affidò a squadristi
piemontesi e ai concessionari di Genale il compito di ucciderli. Operazione eseguita con l'uccisione di cento somali. I
fascistissimi esecutori di morte pensarono, addirittura, di eliminare l'intera popolazione civile della zona. Il massacro
ipotizzato fu evitato dall'arrivo di reparti dell'esercito. Nur, ispiratore della rivolta nella Somalia meridionale, fu
trasferito in catene a Mogadiscio. Della spietata, ingiustificata repressione De Vecchi stesso si compiacque ignorando i
valori dell'incipiente nazionalismo somalo: "Gli incendi dei villaggi abbandonati, che si alzarono presto sulla marcia
delle truppe dovevano essere l'ammonimento salutare a decidere la popolazione alla sottomissione". I nuovi padroni non
tolleravano la ribellione, né l'apatia nel lavoro. Governavano a suon di fucilate e col censimento della popolazione come
se si trattasse di marchiare gli animali. Il disegno del quadrunviro, una volta "pacificata" la Migiurtina, era quello di
creare una Grande Somalia in funzione antietiopica. L'istaurazione di un regime di terrore evidenziò la copertura
politica di cui godevano le autorità coloniali, sia civili che militari, nella repressione delle popolazioni e
nell'organizzazione dei territori. Mentre De Vecchi imperversava nella Migiurtina, il regime annesse l'Oltregiuba alla
Somalia (1926).
Dati questi connotati e stante la natura semidesertica del Paese, ad economia prevalentemente pastorale, la politica
fascista in Somalia mirava a conseguire risultati di prestigio (comprensorio agricolo di Genale) nelle poche zone irrigate
(fiume Uebi Scebeli). Qui attecchì l'economia di piantagione (cotone, banane), in mano a concessionari e intermediari
italiani, assistiti dallo Stato, che facevano ricorso al lavoro forzato imposto alle popolazioni locali. L'affidamento
all'azienda Sais dello sfruttamento per 99 anni di 25 mila ettari di terreno lungo il fiume consentì il trapianto di un
colonialismo capitalistico, in gran parte estraneo alla monocoltura bananiera in via di introduzione a Genale. Nel
contempo, si provvide alla fascistizzazione della colonia (residenti civili e militari) e col potenziamento delle sezioni del
fascio e degli squadristi in camicia nera. La tranquillità e la "sicurezza" nella capitale vennero garantite col coprifuoco
sulla popolazione locale in modo da assicurare la "tutela" della comunità italiana nel godimento del tempo libero. De
Vecchi riorganizzò l'amministrazione della Somalia attraverso un pesante regime fiscale, che colpiva anche le capanne,
con l'introduzione della lira in luogo della rupia indiana e potenziando il programma scolastico di cristianizzazione,
grazie alla fattiva opera dei padri della Consolata. Ai somali spettava la preparazione per poter eseguire lavori manuali;
pertanto era loro viatata la frequenza di corsi scolastici supariori alla 3° elementare. Venne aperta, così, la strada alla
separazione fra sudditi e dominatori che con Guido Corni, succeduto a De Vecchi (1928), troverà ulteriore impulso
nella segregazione scolastica. Questi, tra l'altro, affrontò le proteste dei coloni di Genale, rovinati dal crollo del prezzo
del cotone, con la riduzione del canone dell'acqua da 10 a 2 lire per ettaro, oltre ad un contributo di 300 lire per ettaro, a
prestiti agricoli e assistenza tecnica. Esautorati da ogni incarico, privati di prestigio, ai somali non restò che rifugiarsi
nella protesta religiosa e subire il disprezzo dell'occupante. Colonizzazione e fascistizzazione procedevano di conserva.
Maurizio Rava, succeduto a Corni (1931-1935), pensò di trasformare i sudditi somali in alleati antietiopici, in una
prospettiva coloniale che mortificava le loro istanze nazionalitarie. A suo avviso, bisognava inculcare nei somali il
principio che "il bianco è il fratello maggiore che comanda per il loro bene". Nel contempo, egli accolse le inesauribili
richieste dei concessionari italiani (riduzione dei dazi sulle esportazioni, premi di produzione). Le divisioni fra
colonizzati e colonizzatori si riproponevano ad ogni piè sospinto, irrobustite da diffusi pregiudizi razzistici, come attesta
una lettera dell'aviere Livio Zannoni: "Il clima se non è ottimo è buono; e la razza basta un urlo e subito tace". A sua
volta, Marcello Serrazanetti, segretario federale (1929) rimarcava la necessità del lavoro forzato. Le colonne dei somali,
d'ambo i sessi, erano accompagnate, sotto scorta armata, sui luoghi di lavoro distanti anche cento chilometri. Durante il
percorso a piedi, i recalcitranti venivano legati a delle fune per consentire una migliore sorveglianza. In molte
concessioni le condizioni psico-fisiche dei lavoratori-forzati peggiorarono costantemente. Per indurli al lavoro, nulla di
meglio che affamarli. La durissima giornata lavorativa si protraeva per 11-12 ore al giorno e di fronte ad atti di
ribellione, spesso il concessionario si faceva giustizia da sè o ricorrendo alle scudisciate. Scrive Serrazanetti: "Non mi
dilungo ad esporre altri episodi di morti trovati nei campi o per le strade, di ammalati e moribondi abbandonati alla loro
sorte senza alcun'assistenza o aiuti di lavoratori morti in seguito alle bastonate ricevute dai concessionari da cui
dipendevano, perché spinti dalla fame avevano rubato alcune pannocchie nel campo, di individui infine che destinati al
lavoro in concessione hanno preferito il suicidio, fatto rarissimo fra i somali, aprendosi il ventre col proprio coltello".
Quando Jacopo Gasparini s'insediò in Eritrea (1923-1927), la colonia era al collasso economico e percorsa dai primi
sussulti nazionalistici e anticollaborazionistici.
L'Eritrea restava una colonia politica sul Mar Rosso, la cui rilevanza economica risiedeva nella funzione commerciale
di raccordo con l'Etiopia. Ma il sistema degli scambi non migliorò nonostante l'accordo del 1928 che concedeva
all'Etiopia la libertà di commercio, indispensabile ad alimentare il traffico della strada da Assab a Dessié. Il
"pragmatismo" coloniale di Gasparini, per certi versi di stampo prefascista, ripropose la "politica indigena" in forza
della rilevanza strategica attribuita all'Eritrea. Di qui la politica di coinvolgimento amministrativo dei notabili locali e la
tendenza a limitare la colonizzazione bianca in alcune regioni del Paese. Il suo attivismo paternalistico condusse alla
ricostruzione e al potenziamento commerciale di Massaua, pur nella convinzione che né l'agricoltura, né le
infrastrutture, da sole, fossero in grado di far decollare la colonia. Pertanto, si impegnò in opere di bonifica e nella
costruzione della diga sul fiume Gasc. Una volta uscito di scena Gasparini - impossibilitato a realizzare i propri disegni
nel Tessenei e nella politica periferica verso l'Etiopia - a succedergli sarà Corrado Zoli. Il nuovo governatore intraprese
una politica di segregazione, giustificata (si fa per dire) da motivi di "igiene e di olfatto". Bandì i notabili locali dalla
mensa governatoriale e segregò gli eritrei nella seconda galleria dei cinematografi. Il suo piglio provocatorio suscitò, a
più riprese, i risentimenti dei ras etiopici con lo spostamento dei posti confinari in Dancalia e in altre zone, assistito
dallo zelo evangelizzatore dei missionari della Consolata. Vennero gettate, così, le premesse per la politica di
frammentazione dell'impero etiopico. Infine, Zoli pensò di modificare l'ordinamento fondiario scacciando le
popolazioni locali dalle terre fertili. Politica che fu bloccata dal suo successore, Riccardo Astuto (1930), interessato a
costituire reparti di ascari eritrei per la repressione della ribellione in Libia, sfruttandone l'odio religioso verso i
musulmani.
Parte terza. L'impero
Questa che noi combattiamo è la lotta
fra l'usuraio e l'eroe, tra lo speculatore
e l'apostolo, tra l'oro e il lavoro...
(A. Piccioli)

Abbiamo appreso che ben vive solo


chi non teme di ben morire.
(A. Capasso).

Preparativi di aggressione all'Etiopia

In tale contesto politico-culturale maturò l'aggressione all'Etiopia, verso la quale il regime era attratto sia per la presenza
di materie prime sia per ragioni strategiche. La sua conquista avrebbe rafforzato la posizione italiana nel Corno
d'Africa. Infatti, i possedimenti italiani avrebbero dovuto costituire una base militare in funzione antibritannica, un
cuneo teso a dividere il Sudan e la Somalia britannica, oltre a rappresentare una minaccia per le comunicazioni della
Gran Bretagna dall'Oceano Indiano verso il Mediterraneo. Ad indurre Mussolini nell'avventura etiopica furono anche
altri fattori, a cominciare dalle pesanti ripercussioni della crisi economica mondiale che colpì gli Stati capitalistici nel
1929. Anche in Italia si segnalarono disoccupazione, diminuzione dei salari, contrazione delle esportazioni che
alimentarono il malcontento della popolazione ed indussero il regime a dirottare le pericolose tensioni interne sui piani
coloniali utili, tra l'altro, a rilanciare la produzione industriale. L'aggressione svelò, altresì, l'esistenza di un confuso
movimento di interessi, a partire da quelli sui campi petroliferi, sulle terre da colonizzare e sulle infrastrutture, in
ossequio alla "battaglia demografica" condotta dal regime. In più, le difficoltà incontrate dalle merci italiane sui mercati
balcanici - invasi dalle produzioni tedesche - indussero la grande industria a sostenere un'impresa coloniale che avrebbe
dovuto assicurare materie prime, mercati e commesse belliche.
Già alla fine del 1934 Mussolini aveva programmato i preparativi dell'impresa confidando nella situazione
internazionale favorevole all'impresa africana visto che Londra e Parigi, impegnate a contenere la Germania nazista e
protesi ad una politica antisovietica, avrebbero blandamente protestato. L'occasione per scatenare la guerra fu fornita
dall'incidente di Ual Ual (dicembre 1934), alla frontiera somala. Qui era intervenuta una missione italiana per dirimere
questioni relative ai pascoli di frontiera e alle risorse idriche che ne facevano il più importante punto d'acqua
dell'Ogaden.
Nella circostanza, la Commissione britannico-etiopica di frontiera accusò le autorità italiane di impedire la libera
circolazione di uomini e di animali.
La situazione precipitò in seguito all'intervento intimidatorio di due aerei dell'aviazione italiana che costrinsero la
Commissione ad abbandonare Ual Ual.
La tensione giunse ad un punto così alto da condurre allo scontro armato. Mussolini colse la palla al balzo con una
direttiva segretissima nella quale si chiedeva di trasformare l'incidente diplomatico in una prova di forza in modo da
rilanciare i piani di aggressione all'Etiopia.
Quest'ultima, a sua volta, non nascondeva progetti annessionistici relativi all' Ogaden. Negli intenti di Mussolini la
guerra avrebbe dovuto essere rapida e definitiva e condotta con grandi mezzi. Visti i pericolosi piani italiani,
l'imperatore etiopico Hailé Selassié si appellò, invano, alla Società delle Nazioni. A questo punto la macchina bellica
venne messa in moto. Nell'ottobre 1935 in Eritrea erano concentrati 111.000 soldati italiani e 53.000 ascari eritrei,
equipaggiati con 35.000 quadrupedi, oltre 4.000 mitragliatrici, 500 cannoni e 3.700 automezzi, appoggiati da oltre 126
aerei. A queste forze andavano aggiunti i reparti presenti in Somalia (30.000 ascari, 24.000 italiani, muniti di 1.600
mitragliatrici, 117 cannoni, 1.850 automezzi, 7.900 quadrupedi e con la copertura di 38 aerei). L'attivazione di una
guerra meccanizzata mirava anche ad alimentare il consenso degli italiani al regime, con la sua vocazione imperialistica
che imponeva all'Italia "proletaria" e demograficamente fertile a sfidare quelle che demagogicamente erano definite le
potenze europee "conservatrici".
Mussolini era deciso, ormai, a perseguire una conquista, ad un tempo coloniale e nazionale, col coinvolgimento
dell'Italia nel più grande sforzo bellico operato da uno Stato europeo in Africa; sforzo per molti versi "anacronistico"
rispetto alla politica adottata da altre potenze coloniali. Infatti, nel 1936 in Africa erano impegnati 330 mila militari
nazionali, coadiuvati da 87 mila ascari e sostenuti da 100 mila lavoratori italiani militarizzati. Nella circostanza, il
regime sfruttò abilmente l'atteggiamento delle grandi potenze, rimaste alla finestra. In effetti, Londra e Parigi
apparivano attente a conservare gli equilibri in Europa più che a difendere l'indipendenza dell'Etiopia. A sua volta, la
Germania hitleriana, aiutando militarmente Addis Abeba, mirava ad impegnare il regime fascista in Africa per poterlo
ricattare con l'Anschluss. Retroterra logistico dell'aggressione militare, da lungo tempo preventivata, era l'Eritrea.
La guerra in Etiopia - ultima guerra coloniale e prima guerra di liberazione africana - si rivelò nazionale per dimensioni
e per modernità di mezzi in funzione del prestigio internazionale del regime. Fu una guerra coloniale per la superiorità
militare sulle truppe etiopiche, per l'impiego di reparti africani, per il ricorso al terrorismo di massa, per il
condizionamento di un ambiente ostile e per il misconoscimento della dignità degli indipendentisti etiopici (tendenza a
non fare prigionieri).
Aggressione e conquista

Il 3 ottobre 1935 scattò l'aggressione all'Etiopia. Sia sul piano logistico che su quello dell'armamento l'inferiorità
dell'esercito etiopico era netta. Nonostante la schiacciante superiorità di mezzi, gli aggressori non riuscirono a procedere
speditamente come preventivato; anzi, si rischiava di appannare le "virtù militari" della razza e del regime sul piano
internazionale. A farne le spese fu il quadrumviro Emilio De Bono, responsabile delle operazioni. Lo sostituì il generale
Pietro Badoglio (novembre 1935) che dovette fronteggiare la controffensiva etiopica (diretta da ras Immirù ad ovest,
nello Sciré, e da ras Cassà e ras Sejum, al centro) su più fronti, col rischio di accerchiamento delle truppe. Respinti gli
attacchi dei patrioti, Badoglio passò alla controffensiva sconfiggendo a più riprese i reparti etiopici. Dopo le battaglie
dell'Endertà nel febbraio 1936, del Tembien - con Badoglio che decise di condurre una battaglia di annientamento - e
dello Scirèn nel marzo successivo, l'armata imperiale fu sconfitta a Mai Ceu. Non mancarono coriferi delle "imprese"
tra il clero militante. Tra questi, padre Reginaldo Giuliani, fascista convinto e "soldato di Cristo" come lo definì
D'Annunzio. Giuliani esaltò l'epopea dei nuovi crociati in terra d'Africa secondo i dettami della Provvidenza che li
voleva combattenti e civilizzatori. Ovunque arrivasse, il padre domenicano provvedeva a costruire febbrilmente
cappelle, chiesette, campanili a testimonianza di una conquista, ad un tempo, religiosa e militare. Fra Ginepro non fu da
meno. Nella consacrazione dell'altare-santuario ad Adua non si trattenne dall'esaltare l'Italia "cristiana, sabauda e
fascista, (...) illuminatrice dei popoli, liberatrice degli schiavi (...)". Prima dell'assalto finale alla capitale, Mussolini
sollecitò l'avvio di una sistematica campagna psicologica verso la popolazione etiopica col lancio di manifestini e con
voli aerei intimidatori. Frattanto Graziani - in una disposizione operativa segreta (3 marzo 1936) - prefigurando il
collasso morale dell'esercito etiopico propose l'uso indiscriminato di bombe e liquidi speciali. La marcia su Harar fu
costellata di macabri eccidi in cui si distinsero i reparti libici contro scoiani ed amhara di religione copta. Gli eccidi
lasciarono esterrefatto il sottotenente Salvatore Giovenco: "In alcune caverne (...) si dovette far colare dall'alto delle
sponde del torrente della benzina, per poi appiccarvi il fuoco che ha incenerito quei valorosi (...)". Dopo il passaggio
delle truppe si assisteva al repulisti operato "per via amministrativa" dai miliziani fascisti. Furono eseguite impiccagioni
una volta conclusi i "fascistici interrogatori", come li definì il luogotenente generale Augusto Agostini. Prese quota,
così, il periodo della vendetta e del terrore. Il 5 maggio 1936 Badoglio entrò in Addis Abeba. Due giorni prima, un
telegramma di Mussolini aveva indicato la condotta da tenere da parte delle truppe di occupazione: a) Fucilazione
sommaria per quanti fossero sorpresi arrmi in pugno; b) fucilazione sommaria per i giovani, barbari, crudeli e
pretenziosi; c) fucilazione sommaria per coloro che avevano partecipato a saccheggi e violenze. Intanto sul fronte
meridionale il generale Rodolfo Graziani aveva ragione delle truppe di ras Destà, prima di battere - grazie alla netta
superiorità dell'armamento - la tenace resistenza etiopica ad Harrar. Nel corso della guerra senza quartiere gli invasori si
macchiarono di efferate stragi. Una di esse è narrata dal sottotenente Salvatore Giovenco che partecipò all'assalto delle
caverne dell'Uadi Corràc: "In altre caverne dei bambini erano stati inchiodati al suolo, mentre portavano sotto il
violentissimo fuoco dei nostri grandi e piccoli calibri, caricatori e nastri a fianco dei mitraglieri. (...) In alcune caverne
assolutamente inaccessibili e dalle quali era impossibile snidare gli ultimi ostinanti combattenti, si dovette far colare
dall'alto delle sponde del torrente della benzina, per poi appiccarvi il fuoco, che ha incenerito quei valorosi". Un ruolo
importante giocò l'aviazione non solo sul piano strettamente militare. Essa fu adoperata come arma terroristica nei
confronti della popolazione civile. Sostiene Rochat che la guerra in Etiopia "fu la prima guerra dopo il 1918 (e la prima
guerra coloniale) in cui l'aviazione fu impiegata su larga scala (450 aerei) e con risultati importanti" (G. Rochat, Guerre
italiane in Libia e in Etiopia ). Il 9 maggio avvenne il congiungimento fra le truppe di Badoglio e di Graziani e fu
proclamata la costituzione dell'impero con a capo Vittorio Emanuele III. Non mancò il compiacimento di Casa Savoia.

Rappresaglie e massacri

Una volta occupata Addis Abeba, la campagna di "pacificazione" vide contrapposti - fra attriti personali - due fascisti di
rango: Alessandro Lessona, ministro delle Colonie (1936-1937) e Graziani. Questi puntava a cercare appoggi fra
esponenti e confidenti dell'aristocrazia etiopica. Lessona mirava sul controllo esclusivo e diretto degli italiani. Dietro
quest'ultima posizione si coglieva, fra l'altro, l'ambizione della burocrazia metropolitana ad acquisire potere e prestigio.
Per giunta, Graziani riteneva che alcuni articoli dell'ambigua Legge Organica (1° giugno 1936, n.1019) - redatta da
Lessona - avrebbero favorito la formazione di un'amministrazione oligarchico-nepotistica. In realtà, Graziani aspirava a
mantenere il controllo politico-militare dello Scioa. Non mancarono contrasti nemmeno sui metodi antiguerriglia da
adottare. Lessona rimproverava a Graziani di essere troppo "tiepido", forse per oscurare la fama di sanguinario
conquistatore che si era fatta durante la guerra in Libia. In verità, Graziani - tutt'altro che remissivo - intendeva
conservare libertà d'azione.
Quando Mussolini annunciò la nascita dell'impero, la guerra in Etiopia era tutt'altro che terminata. Resistevano ancora
decine di migliaia di soldati, attivi su gran parte del territorio. Basti pensare all'armata di ras Destà Damtèu negli Arussi
e alle forze di ras Inunirù Haile Selasse nell'Ovest, che tennero in scacco le truppe italiane per circa un anno ancora. Le
direttive mussoliniane in merito erano chiare. Bisognava approntare misure tali da rendere autosufficiente
l'organizzazione ed il funzionamento dell'ordine coloniale ed instaurare un regime di terrore. Intanto la resistenza
etiopica andava riorganizzandosi - una volta partito Hailè Selassiè per l'Europa - attorno a capi prestigiosi fra i quali
Aberra Cassa.
L'occupante intraprese, pertanto, la "pacificazione" del territorio con indiscriminate persecuzioni. A loro volta, i fascisti
ebbero mano libera in feroci rappresaglie. Nell'inquieto Ovest si segnalò padre Borello, "politico" intrigante, razzista
che, come ci racconta il giornalista Ciro Poggiali, adottò il "metodo inglese" nella riscossione dei tributi: "Armato di un
accendisigaro, l'esattore gira nei villaggi di paglia e di fango. Ogni tucul abitato da chi tarda a fare il suo dovere fiscale
è dato in preda alle fiamme (...), dice che contro quelli sospetti di ostilità o di tiepida adesione al nostro regime bisogna
essere inesorabili. Bruciare dimore e averi. Così l'indigeno si troverà ridotto alla più estrema miseria". Nel
rastrellamento della zona del monte Debocogio (ottobre 1936), già irrorata di iprite, venne intrapreso il rastrellamento
dei villaggi con la metodica uccisione di centinaia di contadini inermi. Annota nel suo diario Poggiali che i carabinieri,
esasperati dall'uccisione di alcuni commilitoni in combattimento, "si siano abbandonati ad atti di inaudite atrocità,
uccidendo i prigionieri a colpi di piccone e bruciandoli dopo averli irrorati di benzina". Contemporaneamente si
assisteva all'indebolimento della resistenza etiopica in seguito all'eliminazione o alla resa di importanti capi (ras Destà
Damtèu, ras Immirù). L'impiccagione del genero dell'imperatore (febbraio 1937) seguì al messaggio di Mussolini che
invitava Graziani a recidere il cordone ombelicale che legava i resistenti alla popolazione: " E' inteso che la popolazione
maschile di Gogetti di età superiore ai 18 anni deve essere passata per le armi e il paese distrutto". Battuto ras Destà, la
resistenza etiopica cercava altre vie per riorganizzarsi, a partire dalla capitale. Essa incrociò sia l'apparente
sottomissione di alcuni capi che le divisioni etniche sulle quali speculavano gli occupanti. In questo clima maturò
l'attentato a Graziani. Argomenta Rochat che "la minaccia della espulsione delle minoranze amhara dalle regioni galla
preannunciava la svolta che l'attentato di due giorni dopo avrebbe accelerato e ampliato: non più soltanto il rifiuto di
qualsiasi compromesso con la classe dirigente tradizionale, ma il tentativo di eliminarla radicalmente nelle sue radici
politiche e culturali e nella sua stessa esistenza fisica". Il punto alto dei massacri fu raggiunto con le rappresaglie
condotte da militari e civili italiani (commercianti, funzionari, autisti) sulla popolazione della capitale (centomila
abitanti tra cui qualche migliaio di italiani) dopo il fallito attentato al viceré Rodolfo Graziani (19 febbraio 1937). Le
squadracce fasciste misero a ferro e fuoco i quartieri poveri della città col concorso di volontari civili. Sintomatico del
feroce clima da genocidio fu l'invito perentorio rivolto dal segretario del Pnf Guido Cortese alle camicie nere: "Per tre
giorni vi do carta bianca per sterminare gli etiopici e fare di loro ciò che vorrete". Per oltre quaranta ore la violenza
squadristica imperversò nella città. Interi quartieri furono dati alle fiamme. Nei roghi delle abitazioni, appiccati con la
benzina, molti etiopici persero la vita. Uccisioni indiscriminate e saccheggi costarono alla città dai 6 mila ai 30 mila
morti, a seconda delle fonti. Non fu risparmiata nemmeno la chiesa di San Giorgio il cui ricco arredo fu spartito tra il
federale e funzionari governativi. La milizia fascista accatastò i cadaveri a ridosso dei muri e, portati via dalle ruspe e
coi camion, furono sepolti in fosse comuni. Le truppe, al comando del generale Perego, fucilavano gli etiopi in fuga
mentre l'introduzione del coprifuoco significò licenza di uccidere per le squadre terroristiche. Il giornalista Ciro
Poggiali, testimone oculare, così descrive alcuni raccapriccianti episodi: "Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un
vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio
si abbatte contro gente ignara e innocente". Rosario Ghilasghi, archivista eritreo nel palazzo del viceré, ci ha lasciato
una descrizione allucinante dei giorni della vendetta fascista in Addis Abeba: "Ho visto ragazzi uscire dalle case in
fiamme ma gli italiani li ricacciano dentro, nel fuoco (...). Il giorno seguente, sabato, gli italiani stavano ancora
bruciando le case piccole. Su quelle più grandi scrivevano i loro nomi allo scopo di serbarle per sé. Sfondavano le porte
ed entravano dandosi al saccheggio". Mussolini avallava i progrom telegrafando il 20 febbraio: "Tutti i civili e religiosi
comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma".
La repressione, cui parteciparono anche reparti di carabinieri, non si fermò qui. Seguirono centinaia di fucilazioni
sommarie che investirono anche il ceto colto europeizzante. Graziani ordinò, altresì, la deportazione in Italia di
centinaia di notabili (confinati in parte all'Asinara) e l'internamento di altri nei terribili lager di Nocra e di Danane
(Somalia). La repressione indiscriminata si tradusse anche nell'eliminazione fisica di migliaia di cantastorie e di
indovini, espressione di una memoria collettiva e di una coscienza popolare da azzerare sulla base del principio
razzistico della responsabilità dell'intera collettività. A questi massacri vanno aggiunti quelli eseguiti nelle operazioni di
controguerriglia, scattate con l'insurrezione delle regioni settentrionali dell'Etiopia (agosto-settembre 1937). In questo
contesto maturò anche il massacro (21 maggio 1937) - condotto dallo "scrupoloso" generale Pietro Maletti - dei 450
monaci del convento di Debrà Libanòs, il più autorevole centro religioso copto; massacro esteso all'intera popolazione
della città conventuale che fece salire a 1.200 il numero degli assassinati. L'operazione rispondeva ad un duplice
obiettivo: costringere il ceto dirigente locale a collaborare con l'occupante e piegare col terrore la resistenza dello Scioa.
Nella sua avanzata verso il monastero, Maletti lasciò dietro di sè segni inequivocabili della propria ferocia terroristica.
Basti pensare a quelli lasciati dai "feroci eviratori" galla della banda collaborazionistica di Mohamed Sultan che, come
lo stesso generale ci informa, erano "agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico, guidati dal loro istinto
infallibile".
La rappresaglia antietiopica fu costellata da tutta una serie di brutali episodi. Basti ricordare il "massacro di Engecha",
dello stesso mese, nei pressi di Debrà Berhàn; drammatico avvenimento che, secondo Graziani, non avrebbe dovuto
aver testimoni. Dopo aver fatto scavare dai soldati le fosse comuni, un convoglio di sette camion scaricò i prigionieri
civili etiopici, mentre i soldati italiani posizionavano le mitragliatrici. Legati a gruppi di cinque, i prigionieri vennero
spogliati dei copriabiti (shammans) e costretti ad avvicinarsi ai fossati prima che il fuoco delle mitragliatrici li
falcidiasse. Quanti continuarono a dar segni di vita furono finiti con un colpo di pistola. Dopo l'esecuzione sommaria i
corpi degli etiopici vennero spinti nei fossati. Le vittime (uomini e ragazzi) della brutale esecuzione ammontarono a
circa 600 persone, tra cui 300 monaci.
Tra i tanti esempi citiamo anche la "gloriosa impresa" della banda Forello che rase al suolo il villaggio di Uosecrà
Mariam (6 maggio 1938), passando per le armi 100 abitanti sospettati di essere "ribelli". In quest'opera si rivelò
essenziale anche il Pnf con compiti di collegamento-mobilitazione tra i residenti italiani nella prospettiva della
fascistizzazione integrale della società coloniale. Altrettanto importante, sotto il profilo psico-pedagogico, si rivelò l'uso
terroristico delle forche coi cadaveri degli indipendentisti etiopici impiccati, lasciati penzolare nelle città e nei villaggi.
Esiste un'ampia documentazione fotografica che esibisce l'alterigia razziale dei conquistatori, ritratti dinanzi alle forche
o con le teste mozzate dei resistenti etiopici fra le mani. A questo macabro destino non riuscì a sottrarsi Hailù Chebbedè
la cui guerriglia era attiva nel Lasta. Catturato dalle truppe di Graziani (20 mila uomini mobilitati) - dopo che i suoi
guerriglieri furono sottoposti a pesanti bombardamenti con fosgene ed iprite - il 24 settembre 1937 il capo guerrigliero
venne decapitato. Il vicerè ordinò che la sua testa - infilzata su una picca - fosse esposta al pubblico nei mercati di
Socotà e di Quoram. In questo modo gli occupanti intesero spargere il terrore fra la popolazione civile. Con la disfatta
dell'esercito etiopico (maggio 1936 - marzo 1937) e con le successive repressioni, la resistenza cambiò natura e metodi,
guidata da una nuova leva di dirigenti non assimilabili ai capi imperiali sconfitti. Infatti, nella primavera del 1937 si
tenne, nel Ghindeberat, la prima riunione di partigiani - coordinata politicamente da Tecle Uolde Hawariat - in cui si
decise di procedere all'organizzazione della guerriglia su scala nazionale, superando regionalismi e localisuri gentilizi.
Del resto, massacri e distruzione di villaggi avevano spinto molti uomini a darsi alla macchia consentendo, così, di
stabilire un solido aggancio tattico e strategico, antropologico e politico fra popolazione e guerriglieri. In ultima analisi,
la popolazione in armi sostituì le armate imperiali per dotarsi di metodi di combattimento e di gerarchie di comando
provenienti dal basso. La guerriglia - scattata nel 1937 e protrattasi sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale -
rivestì un carattere nazionale e non soltanto anticoloniale. Ciò permise di cementare l'unità d'azione di etnie
linguisticamente e religiosamente diversificate. Si trattava di una resistenza, trasformatasi in lotta di liberazione
nazionale condotta non contro il "conquistatore" ma contro lo spietato occupante-dominatore.

La guerra chimica

La guerra chimica - in violazione del Trattato di Ginevra (giugno 1925) che vietava l'uso di armi chimiche - pur non
rivelandosi decisiva a livello militare, ebbe un ruolo importante sotto il profilo politico più che sotto quello strategico.
In Etiopia gli occupanti fecero tesoro dei risultati conseguiti dall'impiego dei gas asfissianti nella riconquista della
Libia, divenuta, al riguardo, una sorta di laboratorio per l'utilizzazione su larga scala dell'arma chimica per terrorizzare
la popolazione civile. Sul fronte meridionale (dicembre 1935aprile 1936) - in particolare sull' Ogaden somalo - venne
sganciato un totale di 44 tonnellate di gas. Mussolini autorizzò Graziani e Badoglio ad usare sistematicamente i gas per
fermare gli armati di ras Immirù - che puntavano sull'Eritrea - che quelli di ras Destà Damtèu. Dal 22 dicembre 1935 al
29 marzo 1936 furono sganciate bombe per complessive 272 tonnellate di iprite. A sua volta, Alberto Sbacchi nota che
524 bombe a gas vennero impiegate nel corso dei rastrellamenti seguiti alla presa di Addis Abeba. Stando agli studi di
Rochat, nel periodo 1935-1938 furono scaricate 500 tonnellate di aggressivi chimici sui soldati ed i civili etiopici.
Centinaia di proiettili, caricati ad arsine, furono utilizzati dall'artiglieria nella battaglia dell'Amba Aradam (11-15
febbraio 1936). Il tutto in linea con l'obiettivo primario di sterminare gli etiopici per far posto agli immigrati italiani. A
più riprese Mussolini diede precise istruzioni a Badoglio perché utilizzasse gli aggressivi chimici per colpire uomini ed
animali e per avvelenare i campi. In tal modo il genocidio soppiantò la guerra coloniale. Sugli effetti devastanti della
guerra chimica resta la testimonianza dell'imperatore Hailè Selassié (giugno 1936): "Il paese sembrava sciogliersi. (...)
Ogni essere vivente che veniva toccato dalla leggera pioggia caduta dagli aerei, che aveva bevuto l'acqua avvelenata o
mangiato cibi contaminati, fuggiva urlando e andava a rifugiarsi nelle capanne o nel folto di boschi per morirvi. (...)
Presto un odore insopportabile gravò sull'intera regione. Non si poteva però pensare di seppellire i cadaveri perché
erano più numerosi dei vivi. Bisognò adattarsi a vivere in questo carnaio".
Fra le tante testimonianze, quella dolorosa e raccapricciante di ras Immirù, rilasciata ad Angelo Del Boca: "Prima che
mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso
liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri che si
erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un'agonia che durò ore. Fra i colpiti c'erano anche dei contadini che
avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini. (...) non sapevo come combattere questa pioggia che
bruciava ed uccideva". Graziani, al momento dell'offensiva su Harar stese una Memoria segreta operativa (3 marzo
1936) in cui per assicurarsi la riuscita dell'attacco elencò l'uso di bombe e proiettili a liquidi speciali come efficace arma
terroristica. Graziani non fece altro che applicare le direttive mussoliniane sulla necessità di ricorrere ai gas asfissianti,
alle bombe all'iprite, ad arsine e fosgene per fiaccare il morale delle truppe etiopiche e successivamente per piegare la
resistenza dei guerriglieri facendo terra bruciata attorno ad essi. Dopo la sconfitta di ras Destà - che proseguì a
combattere fino al febbraio 1937 - Graziani ordinò: "Incendiare e distruggere quanto è incendiabile e distruggibile.
Rastrellare tutto quanto è rastrellabile (...)". L'8 luglio 1936 Mussolini impose che i prigionieri fossero passati per le
armi, autorizzando "a iniziare e condurre sistematicamente una politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le
popolazioni complici". Il dottor Marcel Junod, inviato della Croce Rossa Internazionale in Etiopia, registrò gli effetti
del bombardamento aereo ad iprite sul villaggio di Quoram: "Dappertutto sotto gli alberi, ci sono uomini distesi a terra.
Ce ne sono a migliaia. Io mi avvicino, sconvolto. Vedo sui loro piedi, sulle loro membra scarnificate, orribili ustioni che
sanguinano. La vita sta già andandosene dai loro corpi corrosi dall'iprite. (...). Non ci sono medicine. Le ambulanze
sono state distrutte. Non ho alcun mezzo materiale per venire in aiuto a questi infelici".
La politica concentrazionaria

La fascistizzazione dell'Aoi passò anche attraverso la deportazione massiccia delle popolazioni e l'istituzione dei campi
di concentramento, a conferma del salto di qualità compiuto dall'imperialismo fascista rispetto a quello
liberaldemocratico, concentratosi, in particolare, sul lavoro forzato e l'espropriazione delle terre. In questi campi si
moriva per fame, per stenti, per malattie o in seguito alle ricorrenti impiccagioni. Ciò è sufficiente a caratterizzare la
dominazione fascista in Africa come una delle peggiori tragedie vissute dalla storia del continente.
Tra i più famigerati campi di sterminio vanno ricordati quello di Nocra (isola che fronteggia Massaua) e quello di
Danane in Somalia. A Nocra, con l'acqua che scarseggiava, i reclusi erano costretti al lavoro forzato in cave di pietra e
nei cantieri dell'Agip - impegnata in ricerche petrolifere - morendo a migliaia, spossati dalla fatica e dai morsi di un sole
torrido. Molti reclusi di Danane furono assegnati, come manonopera schiava, alle concessioni agricole di Elia e di
Falcone (1938). Altri furono sottoposti a lavoro forzato nella concessione Giurati ed altri ancora, assegnati alle proprietà
coloniche di Tassinari e Annovazi. In ultima analisi, il lager non costituiva soltanto un luogo di detenzione ma anche un
serbatoio di manodopera coatta, prelevata per il comprensorio di bonifica del Genale. I concessionari italiani
beneficiarono, così, del lavoro degli internati sui quali commettevano ogni genere di abusi.
Fu Graziani a trapiantare la politica concentrazionaria nel Mar Rosso, memore dell'efficacia sterminatrice rivelata nella
"pacificazione" della Libia. Giunto in Somalia (1935) dispose la costruzione del lager di Danane. Qui, tra il 1936 e il
1941, persero la vita migliaia di prigionieri per le disastrose condizioni igienico-sanitarie (mancanza di latrine), per
repellente e scarsa alimentazione, per enterocolite ed infezione da acqua salmastra prelevata dai pozzi situati in
prossimità di vecchi cimiteri ove, peraltro, continuavano a succedersi le sepolture. Il primo convoglio di etiopici,
composto da uomini, donne e bambini (circa 1.000 persone) partì da Addis Abeba nel 1937. Molti di essi morirono
durante il penoso e lungo tragitto a causa degli stenti e della dissenteria. Secondo fonti italiane, il numero degli internati
raggiunse la cifra di 1.800 persone. Fonti etiopiche parlano di oltre 7.000 persone. Stando alla testimonianza di un
sopravvissuto, nel campo di Danane - su oltre 6.000 internati - più di 3.000 morirono per infezioni e per scarsa
alimentazione. Non mancano accuse - come quelle avanzate da Micael Temma, rinchiuso nel campo per oltre tre anni -
relative alla somministrazione di iniezioni di stricnina ed arsenico per accelerare la morte di alcuni detenuti. Invece, una
relazione di Antonino Niosi, direttore sanitario del campo sosteneva che "la salute dei confinati è ottima, l'alimentazione
è perfetta, l'assistenza morale e sanitaria è scrupolosa e il morale di questi è ottimo".
Nel lager la mortalità era elevatisssima. Alla fine del 1937 vi erano ammassati, in maniera disumana, 2.500 prigionieri,
affamati e disorientati, di tutti i ceti sociali (contadini, commercianti, santoni, partigiani). Le condizioni di vita dei
prigionieri non mancarono di suscitare turbamento anche in qualche responsabile del campo - tutt'altro che benevolo
verso gli africani - che giudicò inefficiente l'anmministrazione coloniale e sbottò nei confronti dei soldati italiani che
mancavano di "mentalità imperiale". Fa testo, al riguardo, la testimonianza del colonnello Eugenio Mazzucchetti -
partito volontario per la Somalia e rimasto nel campo dal 1937 al 1941 - che si preoccupò di migliorare le condizioni di
vita dei detenuti politici: "Appena entrato nel campo-uomini mi si è presentata la scena di un cadavere nudo e
scheletrico, che stavano lavando per poi seppellirlo. Le donne e qualche uomo mi si sono fatti incontro mostrandomi
delle pagnotte con l'interno verde come del gorgonzola. Altri mi dicono che non possono mangiare il rancio perché
danno sempre riso cattivo". Nel suo Diario Mazzucchetti annota come a Danane si trovassero tre campi-uomini e un
campo-donne "circondati da mura alte quattro metri. Gli uomini sono intasati in tucul cadenti e le donne in tende
'Leonardo da Vinci', stracciate e scosse dal vento. Uomini e donne sono poi luridi, con gli indumenti stracciati (...)". La
razione giornaliera di cibo per gli
internati prevedeva: due scodelle di riso di qualità scadente; due scodelle di fagioli; circa trenta grammi di zucchero e
dieci grammi di tè. Carne, non sempre, due volte alla settimana. Alcune testimonianze - come quella fornita da Hapte
Micael - parlano di gallette infestate da vermi. Contro l'inerzia e la corruzione della burocrazia coloniale, egli riuscì ad
istituire un ambulatorio e regolari approvvigionamenti. La situazione nei lager peggiorò in seguito allo scoppio della II
guerra mondiale, tanto da far salire il numero dei decessi a 35.000. Vi era soprattuto carenza di carne e di altri generi
alimentari per i quali bisognava pagare i creditori. Per accelerare la morte dei disperati alcuni dottori praticarono
iniezioni di stricnina. Soltanto il 18 marzo 1941 i britannici presero possesso del campo di banane.
Parte quarta. L'organizzazione dell'impero
Alla vista di questi indigeni
nasce in noi un orgoglio
che prima non ci conoscevamo:
quello di essere bianchi
(N. Giani)

Si è compiuto il destino
Augusto è in Roma!
(B. Aquaro-Deodati).

Nasce l'Aoi

Con la Legge Organica del 1 ° giugno 1936, n. 1019 - emendata nel 1937 - nasceva l'Africa orientale italiana (Aoi) -
divisa in cinque regioni, ritenute omogenee sotto ogni profilo (etnico, storico, politico, religioso, ecc.) -
dall'accorpamento della Somalia con l'Eritrea e l'Etiopia. Il governo della Somalia raggruppava l'ex-Somalia italiana,
l'Ogaden e parti del Sidamo, Bòrana e Bale. Dell'Eritrea fecero parte zone del Tigrè e la Dancalia. L'autorità
governativa nell'Harar era esercitata su popolazioni musulmane. Il governo dell'Amhara (con capoluogo Gondar) si
estendeva al Goggiam, all'Uollo e a parte dello Scioa, per riunire le popolazioni cristiano-monofisite. Il governo dei
galla e Sidama (con sede a Gimma) comprendeva l'Etiopia sudoccidentale, a maggioranza musulmana e a prevalenza
etnica Galla e Sidama, oltre a popolazioni a ridosso del Kenya e del Sudan. La ricomposizione geopolitica ed
amministrativa dell'ex-impero etiopico era ispirata da intenti militaristico-clientelari e punitivi. Infatti, lo Scioa -
epicentro storico dell'impero etiopico - era smembrato ed inserito nei governatorati confinanti. La Somalia - fornitrice di
migliaia di armati e di lavoratori nella guerra antietiopica - vide raccolte le popolasioni nomadi somale in una unità
territoriale. A sua volta, l'Eritrea ampliò i propri confini. Il vertice dell'Aoi era occupato dal viceré con poteri civili e
militari, secondo le direttive impartite da Roma. Il viceré era, nel contempo, rappresentante del re d'Italia e
dell'imperatore d'Etiopia, oltre che governatore generale. Ad assisterlo provvedevano due organismi collegiali
consultivi: il Consiglio generale (con compiti tecnico-amministrativi) e una Consulta, a carattere politico. Il primo
organismo - composto dai governatori, dalle alte cariche militari, dai rappresentanti del Pnf, della magistratura e della
burocrazia - presiedeva alle attività economiche e finanziarie. La Consulta si occupava di programmi socio-economici e
delle relazioni interetniche. Nei tre anni del vicereame del duca d'Aosta, il Consiglio varò piani di organizzazione
dell'impero. Non altrettanta fortuna ebbe l'organismo collegiale, di fatto mai convocato. Tra gli organi amministrativi
periferici vanno segnalati i commissariati - in cui erano divisi i governi territoriali - a loro volta ripartiti in residenze e
viceresidenze. I quadri civili preposti al funzionamento dell'amministrazione erano impreparati ad assolvere a compiti
coloniali per mancanza di conoscenze storiche, linguistiche e culturali relative ai popoli assoggettati. A ciò vanno
aggiunti la diffusa corruzione, il permanente clima di sadismo gratuito e di soprusi di cui si macchiarono gli occupanti.
A più riprese (1937-1938) il generale Guglielmo Nasi, "vecchio coloniale", denunciò questo stato di cose ed auspicava
una politica assimilazionistica, distante dall'atteggiamento di un funzionario come Vincenzo Ambrosio che elogiava la
durezza dell'occupazione, sì da costringere gli etiopici a baciare la terra in segno di riverente sottomissione. Altro
organo particolarmente attivo fu il Pnf, impegnato nella "difesa della razza", nell'educazione politica, nella gestione
dell'ispettorato del lavoro e della produzione e nella difesa dell'impero con trenta battaglioni di camicie nere. In tal
modo il partito assunse responsabilità che le erano estranee in patria. Tali responsabilità vennero estese al controllo
degli italiani sia precettandoli nelle organizzazioni di partito sia sorvegliandoli nella vita privata, assolvendo, così,
anche a compiti di polizia. La somma di attribuzioni di cui il partito fu investito lo mise in condizione di censurare
persino il viceré. Tipico il caso del federalee di Gondar, Francesco Bellini, che rimproverò il governatore dell'Amhara
di aver fatto cessare le esecuzioni sommarie. Non mancarono sprechi e cattiva gestione del denaro pubblico, tale da
suscitare gelosie e rivalità fra militari, civili e camicie nere. Pertanto, l'amministrazione fascista denunciò incongruenze
e contraddizioni, già evidenti nella Legge Organica. Tra queste, la vaghezza dei poteri del viceré; i contrasti di
competenza tra quest'ultimo ed i governatori. Più in generale, la sistemazione giuridica dei rapporti fra viceré e
metropoli. Come dire, che il viceré doveva sì "regnare e governare", secondo la formula mussoliniana ma, nel
contempo, doveva lasciare spazi di manovra ai governatori. Tuttavia, il trasferimento di prerogative a questi ultimi
appariva difficoltoso per via dell'incompleta "pacificazione". Così, dissensi e cattive relazioni furono il tratto distintivo
dei rapporti fra Ministero dell'Africa e governatorato generale dell'Aoi. La stessa divisione del territorio coloniale
secondo parametri etnici si rivelò impossibile da gestire. "Il proposito di costituire un governo unitario su base etnica,
dove l'amministrazione italiana potesse applicare una linea politica adeguata alle esigenze locali, era sicuramente
un'utopia idealistica e in fase di attuazione si rivelò irrealizzabile" (Sbacchi). Lo stesso criterio geografico adottato
rivelò più di un'incongruenza non solo per questioni confinarie ed etniche ma anche per le sperequazioni esistenti fra
superficie, risorse e popolazione: tipico il caso del galla Sidama. Di diverso avviso fu il duca d'Aosta che pensò ad
un'organizzazione dell'Etiopia a partire dai rapporti economico-commerciali consolidatisi nel tempo. In realtà, il
fascismo si dimostrò incapace di decifrare i problemi delle colonie, tanto da condurre alla paralisi la stessa macchina
burocratica. In alcuni governatorati vennero cancellate le residenze, ritenute antieconomiche e politicamente superflue.
Nella fattispecie, le difficoltà amministrative rinviavano alla forma di governo imposta all'Etiopia che esautorò i capi
locali, smantellando antiche forme di autorità e sperando, semmai, nella collaborazione dei capi-distretto (meslenie) e
dei capi-villaggio (chiqa). Per giunta, l'ostilità delle popolazioni locali, la mancata collaborazione del clero copto, il
metodo nella riscossione delle imposte (con ricadute sulle modalità di censimento della popolazione) resero
problematica la gestione della colonia, mentre permanevano la suddivisione in zone militari ed i contrasti fra i
governatori. Dispute confinarie contrapposero i governatori dell'Harar e del Galla Sidama che si dividevano il territorio
dei musulmani Arussi, annessi all'Harar. Simile annessione privò il Galla Sidama della sua principale via di
comunicazione. L'impossibilità della ripartizione etnica del territorio e le divisioni regionali imposte ostacolarono
fortemente l'amministrazione coloniale italiana. Tuttavia, non mancarono, da parte fascista, tentativi volti a recuperare
l'appoggio della classe dirigente aristocratica, gran parte della quale era stata internata nei campi di concentramento in
Eritrea ed in Somalia o deportati in Italia. Una volta allontanati Graziani e Lessona, Mussolini provvide al graduale
rimpatrio degli aristocratici etiopici (1938-1939) con l'impossibile ambizione di passare dall'amministrazione diretta a
quella indiretta, non senza suscitare l'opposizione di settori del Pnf.
Ma un simile indirizzo - gestito dal duca d'Aosta e dal generale Guglielmo Nasi - urtò contro il segregazionismo
imposto dalle leggi razziali, tant'è che il conferimento di responsabilità amministrative ad alcuni capi si rivelò debole e
parziale. Quando tra il 1940 e il 1941 alcuni capi si trovarono nella condizione di "alleati", il passaggio si rivelò tardivo
ed effimero per via del mutato scenario internazionale. A questo punto è possibile tracciare il percorso cronologico, di
massima, dell'imperialismo fascista secondo tre fasi di sviluppo. La prima (1922-1926) che si può definire di
"preparazione"; una seconda (1927-1936) che si qualifica come "politica coloniale programmata"; la terza (1936-1940)
nella quale si dispiega l'imperialismo nella sua forma compiuta. Nella prima fase prevalse la politica di patteggiamento
(patto di Londra) sui compensi coloniali spettanti all'Italia all'indomani della I guerra mondiale e dopo la conquista della
Tripolitania. Nella seconda fase apparve marcata la tendenza espansionistica. Il salto di qualità avvenne con
l'aggressione all'Etiopia e col successivo dominio diretto sull'ex-impero negussita.

La politica di colonizzazione

Nell'ottica fascista l'Etiopia avrebbe dovuto sopperire ai fabbisogni dell'economia metropolitana (grano, lana, cotone,
caffè, carne, minerali), in modo da alleviare il deficit della bilancia commerciale italiana. Il potenziamento
dell'economia etiopica era, peraltro, funzionale al reperimento di valuta straniera con la vendita dei prodotti locali.
Nell'immediato, tuttavia, il fascismo era pressato da altre emergenze tra le quali l'eccedenza di manodopera e la miseria
contadina. Per risolvere tali problemi nulla di meglio che trasformare l'Etiopia in colonia di popolamento incentrata su
un sistema di fattorie a sfruttamento di manodopera locale. Per tale via il regime intendeva trasformare l'emigrante in
proprietario terriero, assegnatario di un consistente appezzamento di terra (50 ettari). Simile progetto colonizzatore
assunse anche un carattere militare. Trasformare il colono in soldato significava poter contare su una forza in grado di
fronteggiare la potenza coloniale francese e britannica. La colonizzazione agricola (1936-1937) doveva fare i conti,
però, con le diversità climatiche e con quelle fisiche dei territori interessati. I terreni dell'Amhara e del Galla Sidamo,
pur fertili, erano penalizzati da un inconsistente sistema di comunicazioni. La colonizzazione attorno alla capitale
poteva sfruttare, invece, la fertilità del terreno, la presenza di un mercato locale e l'accesso alla ferrovia di Gibuti, sì che
la colonizzazione rispondeva sia a preoccupazioni politiche (coordinare i gruppi etnici amhara e scioani) che a necessità
socio-economiche. Non altrettanto si poteva dire dell'Eritrea, considerata povera per scarsità di terreni coltivabili.
Un primo ostacolo alla colonizzazione agricola era rappresentato dalle esigue porzioni di terre da assegnare
gratuitamente ai coloni in rispetto dello schema segregazionistico di concentrare i coloni italiani in grandi fattorie,
"separate" dal contesto umano etiopico. Questa prima colonizzazione militare avvenne con la sottrazione di terre al
demanio statale etiopico e fu intrapresa dall'Opera Nazionale Combattenti, a partire dallo Scioa. La gradualità degli
espropri era suggerita sia dalla preoccupazione dei coloni di assicurarsi profitti immediati sia dall'assenza di
infrastrutture. Per la creazione di queste ultime sarebbe stato necessario far ricorso a lavoratori etiopici che, attratti dalle
retribuzioni, avrebbero abbandonato la coltura dei campi. Il regime fascista rispose col varo di misure incentivatrici
dell'emigrazione, puntando sui contadini poveri che, abbandonata l'Italia, avrebbero potuto contare sul sostegno tecnico-
finanziario degli enti di colonizzazione (Ente Romagna, Ente Veneto, Ente Puglia). Ben presto comparve un altro
ostacolo: la resistenza dei patrioti-ribelli etiopici, particolarmente vivace nell'Amhara e nel Goggiam. Nel sobborgo di
Gondar diedero fuoco ai boschi circostanti per impedire la costruzione di un quartiere italiano. Nel 1938, per ragioni di
sicurezza, non fu consentito ai contadini immigrati di portare con sè le famiglie, mentre altrove si dovette procedere ad
impiantare guarnigioni a protezione dei coloni (zona di Dabat). In altre provincie le popolazioni locali smisero di
coltivare le terre per non veder distrutti e razziati i propri raccolti, mentre la milizia fascista provvedeva, a sua volta, a
"proteggere" i coloni ed i raccolti da furti ed incendi. Ma, nonostante la concessione di terre, i soldati erano disposti a
restare in Etiopia soltanto per sfuggire al servizio di leva o per dedicarsi al commercio. In sostanza la colonizzazione
militare evidenziò il proprio limite antieconomico oltre che il proprio fallimento agricolo-militare (in particolare
nell'Amhara) per via del permanente stato di guerra. Il risultato più vistoso della colonizzazione militare fu, invece, la
trasformazione dell'economia di autosufficienza etiopica in economia dipendente dalle importazioni di cereali. Gli stessi
colonialisti residenti dipendevano dai rifornimenti provenienti dall'Italia. Nel 1937 il 60 per cento delle esportazioni
italiane era convogliato verso l'Etiopia, con conseguente restringimento del mercato estero e conseguente perdita di
valuta straniera. Ciò spinse Mussolini e Lessona a restringere il commercio con la colonia attraverso il sistema delle
quote nel corso della campagna autarchica ("battaglia del grano") e coinvolgendo compagnie private, come la Simba,
nell'organizzazione della produzione alimentare e nello stimolare gli investimenti.
La forma mezzadrile imposta si reggeva sullo sfruttamento dei lavoratori etiopici da parte dei coloni, anticipatori di
capitali, detentori dei macchinari e padroni del raccolto. La resistenza dei contadini si concretizzò nel rifiuto della
semina e nell'incuria dei campi. A condizionare negativamente la politica di colonizzazione furono anche altri fattori
quali le diversità climatiche, l'introduzione di nuove tecniche agricole (semina profonda), la natura dei suoli,
l'introduzione di sementi adatte all'ambiente agricolo italiano.

Legislazione ed istruzione razziste

Intanto prendeva corpo l'ossatura amministrativa dell'Africa orientale italiana (1936-1941), semi-militarizzata per la
presenza in successione di tre viceré (Badoglio, Graziani, Amedeo d'Aosta) e per mezzi e modalità nell'esercizio
dell'autorità coloniale: dominio diretto, razzismo e colonizzazione demografica. Al riguardo, basta fare riferimento
all'ordinamento dell'Aoi (1936 e 1937) centrato sulla differenziazione etnica e razziale. Sorta di apartheid trapiantato in
colonia, ancor prima della promulgazione della legislazione razzistica in Sudafrica. Dopo il decreto legge del 19 aprile
1937 venne proibito il matrimonio fra italiani ed etiopici. L'infrazione era punita con la reclusione fino a 5 anni.
I lineamenti giuridici della segregazione erano già delineati nell'agosto 1936 quando venne affrontato il problema del
"madamismo" con l'istituzione di case di tolleranza, anche ambulanti, per prostitute bianche. Le tetre disposizioni
segregazionistiche vennero sistematizzate in seguito alla promulgazione del "Manifesto della razza" (14 luglio 1938).
Le nuove disposizioni giuridiche negavano i diritti politici e limitavano pesantemente quelli civili, in modo da evitare il
meticciato considerato una minacciosa infezione. La separazione fra le due società era spiegata razzisticamente
alludendo ad un presunto senso della gerarchia da parte del colonizzato, per cui, come argomentava Martino Mario
Moreno (1939), questi "non vede nulla d'innaturale nella separazione interposta fra lui e il bianco, in quanto questo è un
capo, e come tale, è giusto che si tenga a distanza (...). L'indigeno, poi, è razzista assai più di noi". Ai sudditi etiopici
venne interdetto l'accesso agli alberghi, ai ristoranti e la rigida separazione fu imposta nei cinema e sui mezzi pubblici.
Furono introdotte fortissime limitazioni all'uso della lingua locale e al culto della Chiesa copta. Gli africani furono
confinati in quartieri-ghetto, sovraffollati e malsani, situati in ristrette aree, distanti 500 metri dal nucleo metropolitano e
da esso fisicamente separati da fiumi, fasce di verde o quant'altro potesse rendere visibile la segregazione dello spazio
abitativo. L'accesso alla "città proibita" dei coloni era consentito soltanto dopo bonifica dai parassiti e disinfestazione
del vestiario del colonizzato. La segregazione generò un umiliante esodo forzato di popolazione. Soltanto in Addis
Abeba si assistè allo sradicamento di 100.000 persone. Ad Asmara (Eritrea) l'esodo coinvolse 45.000 persone e 60.000
a Mogadiscio (Somalia). Ma l'occupante non si limitò ad umiliare il vinto: ne esigeva la deculturazione. La pedagogia
razzistica dei vincitori trasformò il vinto in ossequioso subalterno alla "razza pura", personificata nella figura del
colono. Ma c'era anche dell'altro. L'impero fascista mirò allo sfruttamento delle braccia e del sangue etiopici per poter
realizzare il sogno mussoliniano di dar vita al più grande esercito continentale (un milione di armati), un' "Armata nera"
in grado di sorvegliarne i confini. Confini che, nel delirio imperialistico, avrebbero dovuto comprendere l'Egitto, il
Sudan, la Costa francese dei Somali e il Somaliland britannico.
Nonostante la severità delle leggi, interpretate in maniera difforme dai funzionari coloniali, il sistema segregazionistico
presentava più di una crepa. Il giovane presidente Vittorio Ambrosio esprimeva il proprio compiacimento per l'operato
del colonnello Umberto Montanari, commissario regionale nel Sidamo: "Tutti gli indigeni, anche le donne, al passaggio
dell'italiano debbono salutare rispettosamente; se no botte da orbi". Nei suoi rapporti al viceré, il generale della Milizia
Arconovaldo Bonaccorsi lamentava l'impossibilità di affermare appieno la "supremazia dominatrice" italiana per via dei
"privilegi" di cui godevano gli etiopici. Simile fanatismo razziale non è riscontrabile in Guglielmo Nasi, governatore
dell'Harar, accusato addirittura di filoetiopismo. Ma quello che più colpisce è lo scarto esistente fra la complessa realtà
africana e la spocchiosa presunzione di imporre un programma segregazionistico che urtava con l'ambiente ove agivano
i protagonisti reali della colonizzazione. Pertanto, l'apartheid incappò in ostacoli insormontabili, a partire dalla carenza
di abitazioni. Infatti, non si riuscì a farvi fronte a causa del regime fondiario etiopico, dell'elevato costo dei materiali e
della penuria di fondi, sicché gli italiani erano costretti ad abitare in tucul, al fianco degli etiopici. In secondo luogo il
programma di separazione razziale cozzava contro la pratica quotidiana dei rapporti sessuali tra colonizzatori e donne
etiopiche. In particolare, la prostituzione si rivelò una fiorente industria. In terzo luogo la legislazione segregazionistica
non venne integralmente applicata. Col duca d'Aosta i notabili locali potevano contare sulla concessione di privilegi ed
appannaggi e, sul finire degli anni trenta li si poteva vedere viaggiare sui treni o frequentare bar e ristoranti italiani.
Restava aperto il problema dei meticci. Sino al 1935 in Somalia ed in Eritrea i nati da matrimoni misti potevano
ottenere la cittadinanza italiana ed entrare nei ranghi dell'amministrazione. Con la legge del 13 maggio 1940 (n. 882)
essi vennero considerati "sudditi indigeni". Non mancarono deroghe relative a quanti potevano vantare una "adeguata"
istruzione ed una condotta morale e civile conforme allo spirito e alle leggi della dominazione. In breve: era rigettato sia
il modello assimilazionistico francese che l'indirect rule britannico. Più in generale il meticciato rivelò, oltre al
fallimento della politica segregazionistica, anche il fallimento dell'obiettivo "scientifico" di trasformare l'impero
coloniale in una riserva concentrazionaria.
L'istruzione cui era sottoposto il colonizzato mirava a renderlo rispettoso e disciplinato. In ossequio a tale ideologia
vennero abolite in Etiopia le scuole medie e superiori. La codificazione dei soprusi e dell'ineguaglianza fu ben espressa
da Martino Mario Moreno, uno dei teorici dell'apartheid: "E' utopistico pensare che gli africani possono essere
rapidamente elevati al livello occidentale ed affrancati un giorno dalla tutela europea: si tratta di pupilli che non
raggiungeranno mai la maggiore età, ed anche se la raggiungessero e fossero per un momento emancipati dovrebbero
subito dopo essere interdetti".
Obiettivo del fascismo era quello di procedere all'imbarbarimento delle future generazioni etiopiche, ricacciandole
nell'analfabetismo culturale e storico e impedendone l'emancipazione. Esemplare la distinzione fra istruzione ed
educazione avanzata da Giuseppe Bottai, Ministro dell'Educazione Nazionale. Il colonizzato doveva essere soltanto
istruito alle mansioni tecniche subalterne. L'educazione eraprerogativa esclusiva del cittadino italiano. La separazione
razziale non precludeva, inoltre, la collaborazione del suddito, la cui paga era un terzo di quella del lavoratore italiano.
Per giunta, un decreto dell'aprile 1935 stabiliva che i lavoratori etiopici (dai 18 ai 45 anni) potevano essere sottoposti in
qualsiasi momento al lavoro forzato per un periodo non superiore ai 60 giorni all'anno.

Segregare

I connotati imperiali del fascismo vennero fisicamente evidenziati dall'impopolare e controversa politica razziale che
accentuò ulteriormente l'ostilità dei sudditi etiopici. L'imposizione della legislazione razziale - sebbene non fosse
applicata in maniera omogenea e con la medesima determinazione nelle colonie - servì anche da copertura ideologica e
pedagogica per la sottrazione delle ricchezze coloniali da parte della metropoli. Con la promulgazione del Manifesto
della razza (14 luglio 1938) il regime intraprese, in maniera organica, l'edificazione di un universo segregazionistico,
senz'altro più accentuato nell'Aoi che in Libia. In quest'ultimo caso, la trasformazione della Libia settentrionale in
province metropolitane rispondeva alla necessità di assicurare la difesa del territorio nazionale e di soffocare
l'aspirazione indipendentistica degli arabi. Questioni di prestigio imperiale imposero la promozione di "una coscienza
razziale" in cui si combinavano separazione e superiorità bianco-italiano-fascista. Ciò richiese l'introduzione di una
disciplina giuridica nei rapporti interraziali, a definire quello che per Rochat è un apartheid ante litteram in Africa. Ai
sudditi coloniali era interdetto l'accesso ai luoghi pubblici. La violazione del divieto comportava una multa di 2 mila
lire. Rigide norme discriminatorie vietavano la presenza degli etiopici sui mezzi di trasporto pubblici. Eppure, la rigida
applicazione della politica razziale incontrò delle difficoltà. E il caso di Addis Abeba, ove la carenza di abitazioni
costrinse gli italiani a vivere a fianco degli etiopici. L'accesso al teatro era consentito ai notabili di rango, in palchi
rigidamente distanti da quelli frequentati dagli italiani. Anche i mestieri e i commerci fotografavano la discriminazione.
Agli italiani era interdetto servire clienti etiopici nelle sartorie e ai tassisti trasportare passeggeri etiopici. Né tanto meno
un italiano poteva essere assunto come camionista alle dipendenze di un proprietario locale. Al colonizzato non restava
che accettare la propria posizione subalterna qualsiasi mestiere svolgesse. Anzi, avrebbe dovuto sentirsi onorato di
versare il proprio sangue per la grandezza dell'impero italiano e fascista, in obbedienza, rispetto e disciplina. Anche lo
spazio urbano doveva essere ritagliato secondo coordinate razziali. I nuovi piani regolatori (1937 e 1940) definirono la
fisionomia della città coloniale, il cui cuore era occupato dal nucleo metropolitano debitamente separato (fascia di
verde, corso d'acqua) dal quartiere indigeno, sovraffollato e malsano, situato ad una distanza di 500 metri. L'accesso alla
città nazionale era consentito soltanto dopo che gli indigeni avessero attraversato una stazione di bonifica per la
"disinfestazione totalitaria", per evitare la "contaminazione" del prestigio della razza superiore. La visibilità
geourbanistica della politica razziale era evidenziata dalla presenza del fiume Catabà che divenne la frontiera interna ad
Addis Abeba. A Mogadiscio la barriera segregazionistica era data dalle dune di Uar Diglei. L'articolazione bicefala
della città coloniale costrinse la popolazione sottomessa ad un pesante e penoso trasferimento. Il trasferimento delle
popolazioni comportò "lo sradicamento di 100.000 indigeni ad Addis Abeba, di 60.000 a Mogadiscio, di 45.000 ad
Asmara, di 18.000 a Gondar" (Del Boca).

Segregazione al femminile

Una segregazione nella segregazione fu quella femminile, a partire dall'immagine della donna prodotta dai coriferi del
regime. Scriveva Mario Palazzi: "Io non auspico un ritorno alla schiavitù femminile, ma soltanto (...) un freno alla
esagerata licenza di cui godono oggi le donne, fra i due sessi non può esistere parità di diritti perché c'è squilibrio di
doveri e la natura stessa ha dato alla donna compiti e funzioni diversi da quelli che ha dato all'uomo" (Autorità
dell'uomo, in "Critica fascista", 1933). Mussolini, a suo modo, sentenziò: "La guerra sta all'uomo come la maternità alla
donna" (Discorso al Parlamento, 26 maggio 1934). A conferire sistemazione filosofica alle gerarchie sessuali provvide
Giovanni Gentile: "Parlare di spirito non libera la donna dalla sua naturale sessualità, ma ve la incatena (...). Perché
l'elevazione di questo (lo spirito) non potrà mai influire su quello (il corpo) che resterà sempre lo stesso con la
materialità greve e massiccia che la donna trascinerà seco per tutta la vita come il suo destino" (La donna nella
coscienza moderna, 1934). Per concludere: "Tuttora si discute se il cervello della donna pesi relativamente più o meno o
quanto quello dell'uomo (...). Huschke giudicava il cervello della donna europea simile a quello dei negri" (M. E
Cannella, Principi di psicologia razziale, 1941). Da queste citazioni si coglie la concezione fascista della donna,
culturalmente e psicologicamente subalterna all'uomo. Subalternità "confermata" dalle differenze naturali fra i due sessi,
predestinati a compiti diversi. La "rivoluzione maschia fascista" relegava la donna al ruolo di madre-fattrice
(espressione mussoliniana), necessaria alla conservazione e al potenziamento della "razza italiana". Una simile
concezione natalistica della donna non era applicabile alle donne "estranee" alla razza nazionale, non inquinabile da
sperma impuro. Del resto - come spiegava Lidio Cipriani, in Considerazioni sopra il passato e l'avvenire delle
popolazioni africane, 1932 - l'inferiorità mentale della donna negra "confina spesso con una vera e propria stupidità per
cui, almeno in Africa, certi contegni vengono a perdere molto dell'umano per portarsi assai prossimi a quelli degli
animali". Ma nell'Aoi, nonostante il sistema segregazionistico, i rapporti sessuali fra individui delle due comunità erano
ricorrenti. Pertanto, essi condizionarono pesantemente le direttive del regime in materia di legislazione sessuale.
Rientravano in tale contesto il meticciato e il madamismo (coabitazione illegale fra un italiano e donne etiopiche). Si
trattava di due fenomeni noti della nostra storia coloniale, tant'è che nella fase del colonialismo liberale il meticciato fu
tollerato. In Eritrea e in Etiopia erano in vigore le unioni dumoz fra i copti cristiani. I mulatti, una volta riconosciuti dal
padre italiano potevano acquisirne la cittadinanza ed entrare a far parte dell'amministrazione. Dopo la conquista di
Asmara, gli ufficiali italiani furono ricompensati con donne etiopiche. Ridotte in schiavitù, vennero sorteggiate tra i
vincitori. Simili episodi confermavano che il concubinaggio costituiva una pratica diffusa in colonia. Oreste Calamai -
già ufficiale nelle campagne d'Africa - scriveva: "Il generale Baldissera (...) convinto che il vero diritto appartiene al più
forte, dispose a suo capriccio della sorte di queste troppo presto vedovate fanciulle (...). Dopo che i favoriti dalla sorte
ebbero scelta la loro moglie, come si sceglierebbe un cavallo, terminò lo spettacolo" (Da: "Rivelazioni africane",
Livorno, 1891). Altrove si legge: "A. si dimostrava con questi poveretti di una brutalità inaudita, alle donne e alle bimbe
metteva le mani in tutte le ... parti, e se osavano aprir bocca puntava loro il moschetto contro, le batteva col calcio
dell'arma, mostrava loro le vergogne e tentava di usarle in presenza dei loro famigliari (...). Eravamo in piede di guerra,
e in tale stato il soldato (...) è padrone di rubare, stuprare e assassinare in nome della Patria... Questa è la civiltà che noi
abbiamo portato in Africa" (Da: T. Gandolfi, I misteri dell'Africa italiana, Roma, 1910).
Col fascismo si verificò un mutamento di rotta. La legge n. 999 del 6 luglio 1933 riconobbe la cittadinanza italiana ai
mulatti legittimati e agli ignoti in grado di rivelare - attraverso l'osservazione dei loro caratteri somatici - di essere figlio
di un genitore di razza bianca. Tre anni dopo ci furono le prime avvisaglie di un imperialismo volto ad esaltare la
funzione demografico-razziale dei popoli "fecondi". Contro la paventata "estinzione della razza bianca" - a vantaggio di
quelle "nera"e "gialla" - il fascismo respinse sia la politica assimilazionistica francese che quella britannica dell'indirect
rule. La "terza via" fascista consisteva in una versione italiana di apartheid che, in definitiva, prevedeva un' Etiopia
senza etiopici. A questi ultimi era richiesta, semmai, una collaborazione senza promiscuità. Si trattava di forme di
regolamentazione tese a non suscitare sentimenti anti-italiani presso le famiglie etiopiche. Ciò valeva anche per l'Eritrea
ove il concubinaggio era assai diffuso. Il generale Pirzio Biroli si faceva accompagnare al mercato da guardie alle quali
additava le donne che aveva scelto per il proprio godimento nella sua villa a Gondar. I fascisti erano anche preoccupati
dalla diffusione del madamismo, per timore che si rivelasse uno strumento di raccolta di informazioni da passare alla
resistenza etiopica.
Con tali premesse esordì il regime segregazionistico nell'Aoi - strutturato secondo le disposizioni di Lessona (agosto
1936) - che prevedeva, tra l'altro, la limitazione dei contatti fra nazionali e donne africane, l'attivazione di case di
tolleranza con donne bianche, nell'ambito della rigida separazione fra le razze. Seguirono le leggi razziali del 1938,
garanti della difesa della "razza italiana" (ariana) e la legge n. 1004 del 29 giugno 1939 che prevedeva anche la
preservazione dello "statuto morale" dell'italiano. Tuttavia, l'attuazione di misure segregazionistiche rigide ed integrali
urtò contro una serie di impedimenti legati a fattori locali, tra i quali la penuria di abitazioni che spingeva i colonizzatori
ad "infiltrarsi" nei quartieri africani. Il peso dei contesti era tale che Bonaccorsi, capo delle camicie nere, si lamentò per
l'eccessiva "clemenza" mostrata dagli italiani verso gli etiopici, a tal punto da far comparire nei conquistatori un senso
di "inferiorità". Non fu da meno il clero cattolico dell'Harar nella denuncia del permissivismo legislativo che minava il
prestigio italiano. La resistenza all'apartheid venne anche dal madamismo che evidenziò le contraddizioni fra razzismo
teorico e quotidianità della dominazione coloniale coi suoi protagonisti concreti. Dato di per sè rilevante se si tien conto
della stretta correlazione fra razzismo e colonialismo presente nella mentalità dei dominatori non mancavano i razzisti
"puri e duri" che ritenevano la pratica sessuale con le africane un subdolo mezzo, adottato dai sottomessi, per ledere il
prestigio dell'uomo bianco e italiano. Ma divieti e restrizioni non sortirono l'effetto sperato. Si andò dal divieto per gli
scapoli ad avere donne africane alle proprie dipendenze; al divieto di queste ultime di frequentare gli uffici governativi.
Il 19 aprile 1937 il cerchio dell'autoritarismo razzistico si chiuse con una legge che puniva con 5 anni di reclusione
chiunque avesse praticato il concubinaggio. Ancor più ingarbugliata si presentava la questione dei matrimoni misti che
vennero proibiti. I figli nati da queste relazioni avrebbero preso il cognome della madre. Ma simile disposizione favorì
ciò che si intendeva combattere. Il mancato riconoscimento giuridico della prole da parte del padre italiano faceva
cadere la sua preoccupazione a dover provvedere ad una prole indesiderata. Successivamente, la legge n. 1001 del 29
giugno 1939 introdusse pesanti sanzioni per quanti avessero compromesso la "purezza della razza". Il rigore legislativo
del regime determinò l'espulsione dei sudditi coloniali dall'Italia e la separazione dei membri delle famiglie legalmente
riconosciute. A forza di proibire e misconoscere le unioni miste, il regime agevolò i contatti sessuali occasionali con
tutta la serie di problemi socio-politici, etici ed igienici che comportavano. Si tenga presente che il 90 per cento degli
italiani in Etiopia non aveva famiglia. In colonia, il disagio psicologico, il difficile inserimento nell'ambiente
antropologico, altri effetti negativi indotti dalla conquista incisero sui rapporti fra colonizzatore e colonizzata.
Spesso il soldato si rifugiava fra le braccia della prostituta - vista di volta in volta come "madre", "sorella", "amica" - in
cerca di simpatia e calore umano. In sostanza, il "maschio dominatore" era in balìa delle proprie paure ed insicurezze
che gli facevano violare tabù ideologici e di costume. Divenuta rifugio sicuro, la donna africana si prendeva la propria
rivincita e quella del suo popolo sul versante dell'intimità.
Il conquistatore, reso imbelle, tornato fanciullo in cerca di conforto mostrava la propria impossibilità a signoreggiare. A
questi livelli la discriminazione, coi suoi archetipi e stereotipi, saltava. Il manicheismo razzistico entrava in crisi, affetto
da cannibalismo culturale. Per ovviare a simili fenomeni, ritenuti deprecabili, il regime non trovò di meglio che
impiantare case di tolleranza con prostitute europee, gestite, in alcune città dell'Etiopia, da madame Mira. Sull'onda dei
risultati positivi conseguiti, i gerarchi fascisti proposero l'apertura di bordelli con donne etiopiche, aperti soltanto agli
italiani e non confinati esclusivamente nei quartieri cittadini. Quando erano richieste, compagnie di prostitute itineranti
venivano trasportate nelle zone più interne del Paese. Le norme che regolavano l'attività delle prostitute etiopiche erano
funzionali al rango del cliente italiano.
Chiunque esercitasse legalmente la professione, era tenuta ad esporre insegne di colore diverso sulla propria abitazione.
I militari di truppa erano accolti in abitazioni dall'insegna nera. Per i lavoratori il contrassegno esposto era di colore
verde. Per gli ufficiali, di colore giallo. Le donne che esercitavano fuori dai quartieri assegnati erano multate con 200
lire, così come le prostitute che si sottraevano alle visite mediche bisettimanali. Va tenuto presente che i bordelli non
offrivano garanzie igieniche (assenza di acqua corrente e di elettricità). Non mancavano le prostitute indipendenti, a
conferma di un redditizio commercio del sesso nel quale erano coinvolti militari, funzionari, medici. Lo sfruttamento
della prostituzione divenne un affare nel quale, ad esempio, era coinvolto il commissario di Addis Abeba, conte Dela
Porta che contava sulle rimesse delle catene di bordelli gestite da madame Fazi, madame Maria Teresa, madame
Brunette. In cambio della partecipazione ai proventi, Della Porta - come altri funzionari di alto livello - assicurava la
"protezione" del governo coloniale, finendo, così, per introdurre una sorta di "potere parallelo" a quello ufficiale. Ciò
favorì la pratica delle estorsioni di denaro sia per assicurare la continuità del lavoro delle prostitute sia per evitare che le
medesime - in caso di malattie veneree - fossero relegate in un dispensario. Nel ricatto, nella "protezione mafiosa", nei
traffici illeciti si segnalarono molti "patrioti" e fascisti. Basti citare, fra i tanti, i nomi di Prosperini (segretario del Pnf a
Mogadiscio), di Quercia (maggiore dei carabinieri), col suo assistente capitano Marone. A scardinare ulteriormente le
preordinate gerarchie razziali intervenne il meticciato coi suoi risvolti sociali. Tra il popolo dominatore e il popolo
sottomesso si incunearono i medici, considerati estranei ad entrambi gli universi socio-razziali. Il fenomeno preoccupò i
gerarchi fascisti. Nel 1926 decine di bambini mulatti furono battezzati con rito cattolico. Dall'Eritrea partirono verso
l'Italia bambini destinati al sacerdozio. Intanto, a seguito della legge n. 882 del 13 maggio 1940, anche i mulatti
conobbero la segregazione. La loro educazione, a spese della madre, venne affidata ad istituti locali. La discriminazione
razziale, sommata a quella sessuale, ritagliò il ruolo sociale della mulatta cui venivano impartite lezioni di economia
domestica in famiglie italiane, presso le quali era esibita come "trofeo esotico". Nonostante che pseudoscienziati,
gerarchi di regime e quant'altri si sforzassero di presentare l'impero come realizzazione "maschia" di un "popolo
maschio", esso costituiva, in realtà, un universo concentrazionario in cui molti italiani - come ci racconta una
testimonianza di A. R. di Medolla di Modena - "sono andati giù per rubare, sfruttare e cercare occasioni di avventure,
non certo per diffondere cultura e civiltà".

Parte quinta. Il crollo dell'impero


... quelle terre torneranno a noi
perché esse sono ormai sangue
del nostro sangue
(A. Teruzzi)

Di questa malattia non vogliamo


guarire, finché il Mediterraneo
non sarà tornato
nelle nostre mani
(E. De Bono).

Gli anni del duca d'Aosta

Ormai alle soglie dello scoppio della guerra in Europa (1939) l'occupazione integrale e la stabilità politico-militare
dell'Aoi restavano un sogno. Intanto, la resistenza etiopica si rafforzava ogni giorno di più in forma di guerriglia diffusa.
I guerriglieri impegnati nella lotta di liberazione nazionale (arbegnuoc) si distinguevano in membri del Dereq (reparti
"regolari") e membri del Mededè, composto da contadinisoldato. I poli di irradiazione della nuova resistenza erano
situati nelle regioni abitate dagli Amhara e vedevano protagonisti attivi il ceto colto e quanti erano riusciti a fuggire dai
campi di concentramento. Anche in Eritrea cominciarono a manifestarsi segni di rivolta anticoloniale. Al cospetto di
tale situazione e pressata dalle contingenze internazionali, Roma elaborò piani di guerra in Africa orientale. Preoccupato
per le sorti dell'impero e insoddisfatto delle operazioni antiguerriglia, Mussolini prese la decisione di assumere la guida
(1937-1939) del ministero tenuto da Lessona e sostituì Graziani con Amedeo di Savoia, duca d'Aosta (gennaio 1938).
Le direttive mussoliniane erano ispirate al consolidamento della "separazione delle razze", necessario supporto per non
inquinare il prestigio italiano, alla promozione di collaboratori subalterni, al "rispetto" delle fedi in modo da assicurare
la subalternità efficiente delle "autonomie locali". Presa possesso della nuova carica il duca, nel suo patriottismo
paternalistico, prefigurava un impero in cui le popolazioni lavorassero "ordinatamente e disciplinatamente" allo
sviluppo e sorvegliate dalla "pax italica" imposta con le armi. Sviluppo e progresso ritenuti possibili soltanto attraverso
l'associazione subordinata delle popolazioni allo Stato sovrano italiano. Atteggiamento che suscitò riserve in Graziani e
nel generale Cavallero, oltre che nel fascista Farinacci. Il nuovo viceré intraprese una "politica indigena" volta, da un
lato a recuperare il sostegno dei capi tradizionali - con promesse e ricompense - dall'altro, puntando a calmare
l'insoddisfazione dei colonizzatori di fronte al pessimo andamento dell'economia. Ciò comportò la cessazione delle
esecuzioni sommarie, il ripristino di competenze per i capi locali disposti a sottomettersi all'autorità italiana -
fomentando discordie interetniche e privilegiando le minoranze tradizionalmente oppresse (Oromo) - lo svuotamento
progressivo del campo di concentramento di Danane. Non mancò la collaborazione, anche militare, di gruppi Amhara -
seppur confinati in villaggi speciali (sudovest) - interessati alla propria sopravvivenza. Ma il tutto all'interno delle
direttive presenti nella legislazione razziale. Né le cose andarono meglio quando il generale Ugo Cavallero venne
nominato Comandante supremo delle forze armate (12 gennaio 1938). Questi predispose un piano antiguerriglia
incentrato su: a) rapida conquista dei territori ove la guerriglia non si era ancora saldamente impiantata; b) costituzione
di una rete di presidi nei territori conquistati, ad un tempo centri logistici e di rilancio economico-politico; c) attuazione
del programma prima della stagione delle piogge (massimo cinque mesi). Ma l'offensiva nel Goggiam, nonostante il
massiccio impiego dei gas e le capillari distruzioni, non riuscì a sconfiggere la guerriglia. Ancora una volta il
comportamento dei reparti italiani fu contrassegnato da gratuite brutalità e rappresaglie punitive. Nel suo Diario Storico
il capitano Piero Farello (6 maggio 1938) non mancò di annotare, con orgoglio, la distruzione del villaggio di Uoscerà
Mariam e l'uccisione di 111 abitanti. A questo punto Mussolini sostituì Cavallero col generale Claudio Trezzani, senza
che la situazione migliorasse e tale da indurre il duca d'Aosta ad avviare trattative con Abebè Aregai, ritenuto il capo
della resistenza etiopica. Ma l'iniziativa venne presa in ritardo; la guerriglia si andava rafforzando e appoggiando le
forze alleate che, intanto, stavano invadendo l'Aoi.

La guerra in Aoi

Con la guerra, ormai alle porte, venne ridisegnato l'assetto amministrativo della regione (1° giugno 1940) che comportò
l'abolizione dei sei governatorati civili e il frazionamento in tre scacchieri (nord, sud, est) del territorio. Lo scacchiere
settentrionale (a ridosso del Sudan settentrionale) comprendeva l'Amhara e l'Eritrea (senza la Dancalia). Lo scacchiere
meridionale - che fronteggiava il Sudan meridionale e il Kenya - raggruppava il Galla Sidama e parti della Somalia. Lo
scacchiere orientale - che fronteggiava il Somaliland e la Costa Francese dei Somali - riuniva Scioa, Harar, Dancalia,
Ogaden, Nogal e Migiurtina. La guerra contro gli Alleati in Africa orientale iniziò, tuttavia, tra permanenti e consolidate
rivalità fra i generali, caratterizzata dall'impreparazione dei quadri e dall'inadeguatezza dell'Armamento. Pur di
assicurarsi un retroterra politico-militare favorevole, il regime abbandonò la strategia del terrore. Già il 12 gennaio 1939
il generale Martini aveva disposto la cessazione delle esecuzioni sommarie e, sette giorni dopo, il viceré Amedeo
d'Aosta dispose la cessazione delle razzie pur di accattivarsi l'appoggio dei capi locali. Intanto, la dichiarazione di
guerra di Mussolini contro la Gran Bretagna (giugno 1940) aprì la crisi irreversibile di un impero lacerato da profonde
contraddizioni interne e condannato all'isolamento. L'offensiva italiana del luglio 1940 - che sfruttò la rottura
dell'alleanza franco-britannica nel Golfo di Aden - rese possibile l'occupazione del Somaliland. L'operazione venne
condotta più con tecniche da "guerriglia" che non in base ad una strategia accuratamente preparata. Ne conseguì
un'occupazione di basso profilo economico-strategico (colonia semidesertica), ad attestare la confusione e il
dilettantismo che regnavano ad Addis Abeba. A questo contesto vanno addebitati l'alto numero delle perdite italiane
(oltre duemila fra morti e feriti), contro i 206 caduti britannici. Intanto Graziani, dal fronte libico premeva sul confine
egiziano - in prospettiva Suez - secondo coordinate militari lungo l'asse Libia-Aoi, in modo da spezzare in due tronconi
l'impero britannico in Africa. Progetto velleitario in quanto privo di presupposti logistico-militari. Intanto, Londra
muoveva alla controffensiva a partire dal Sudan e dal Kenya, forte del sostegno della guerriglia etiopica, debitamente
armata da Londra. La ricaduta politica più immediata di tali sviluppi frantumò il disegno fascista di reclutamento di capi
collaborazionistici. Su di esso, del resto, pesavano la legislazione razzistica e la memoria di vessazioni e soprusi antichi
e recenti nella popolazione civile. Di qui la convergenza operativa anti-italiana fra i resistenti e le truppe britanniche
interessate ad eliminare la presenza fascista, avvertita come cuneo minaccioso sulle rotte marittime di collegamento fra
India e Mar Rosso, cuore dell'impero di Sua Maestà. A partire dal gennaio 1941 l'offensiva britannica, condotta su tre
fronti, conseguì risultati significativi lungo l'area desertica al confine fra Kenya e Somalia. L'offensiva britannica fu
agevolata anche dai limiti politico-militari di Amedeo di Savoia, incerto sulla strategia da adottare: difendere ad
oltranza i confini dell'impero o concentrare le truppe nei ridotti. Roma optò per un ripiegamento sui fronti dell'Eritrea e
dell'Amhara (abbandono del bassopiano occidentale), col risultato di tagliare i collegamenti fra le due regioni. Una volta
cadute - a partire dall'Eritrea - Cassala (15 gennaio 1941) e Agordat, l'esercito italiano arretrò in una fuga disordinata.
Cessò, così, la resistenza italiana nel bassopiano occidentale dell'Eritrea, cui fece seguito la caduta di Cheren (27
marzo). Il 1° aprile cadde anche Asmara, prima che l'offensiva britannica investisse, occupandola, Massaua (8 aprile)
ove la guarnigione italiana venne annientata. Con la caduta di questa città - "italiana" dal 1885 - "base principale
dell'espansionismo crispino e fascista in Africa Orientale, scompare, in un groviglio di episodi tragici e quasi
inesplicabili, la flotta italiana del Mar Rosso la cui ambizione è stata quella di dominare l'Oceano Indiano" (Del Boca).
In contemporanea, le truppe britanniche passarono all'offensiva in Somalia. Mogadiscio fu conquistata il 26 gennaio
1941. Tra generali in fuga, diserzioni di ascari, soldati abbandonati a sè stessi si consumarono la disfatta dell'esercito
coloniale in Somalia e l'abbandono del Somaliland. Ormai i britannici puntavano su Addis Abeba mentre il duca
d'Aosta, abbandonata la difesa della ferrovia Gibuti-Addis Abeba, ripiegò sui ridotti montani. Il paventato abbandono
della capitale etiopica era osteggiato da Mussolini e la cui caduta, a suo dire, "equivarrebbe politicamente alla perdita
dell'impero". Impossibilitato a difendere la capitale, il viceré trattò coi britannici la resa della capitale - sgomberata dalle
truppe italiane il 3 aprile 1941 e dichiarata "città aperta"- mentre veniva sciolto il governo generale dell'Aoi. L'esodo
precipitoso delle più alte gerarchie coloniali si saldò alla ribellione nello Scioa e ai fermenti politici e armati nella
capitale. L'ingresso delle truppe britanniche fu salutato con entusiasmo da una popolazione che nei giorni successivi si
abbandonò a manifestazioni di dileggio e di rivalsa contro gli italiani. Ben poca cosa rispetto alle violenze di ogni
genere subite dagli etiopici in cinque anni di pesante occupazione. Col rientro trionfale dell'imperatore Hailè Selassiè ad
Addis Abeba (5 maggio 1941) rinacque l'Etiopia libera ed indipendente, secondo gli accordi del 3 gennaio 1942
stipulati con Londra. L'imperatore, già prima di reinsediarsi da vincitore sul trono, aveva decretato l'amnistia generale e
sancito il rispetto della vita e dei beni degli italiani. Dietro tali gesti di clemenza era possibile cogliere più di un risvolto
politico. La presenza degli italiani venne utilizzata come fattore di contenimento della presenza britannica, mentre
restava viva la preoccupazione per la sorte di molti dignitari - tra i quali il devoto ras Immirù - ancora nelle mani degli
italiani.

Addio alla "quarta sponda"

Le operazioni militari in Africa orientale apparivano secondarie rispetto alla guerra condotta dall'Asse in Africa
settentrionale. L'importanza strategica di questo teatro di guerra risiedeva nel controllo aeronavale sul Mediterraneo
(rifornimenti) e nelle ripercussioni che le vicende belliche avrebbero avuto sui Paesi arabi.
In Libia il regime fascista adottò una politica di militarizzazione antibritannica (1936-1937) - protesa a sfondare sul
Canale di Suez - che cadde nella fase di maggior colonizzazione demografica. Ma le ambizioni italiane si scontrarono
con la debolezza strategica dello Stato maggiore che sottovalutò lo scacchiere nordafricano. Nonostante alcuni iniziali
successi militari dell'Asse (marzo-aprile 1941) - riconquista di gran parte della Cirenaica, ad eccezione della città
portuale di Tobruk - la controffensiva britannica si fece vieppiù incalzante. Lo sforzo militare alleato si era concentrato
sull'asse Libia-Egitto, senza che Graziani - dopo la morte di Balbo (giugno 1940), abbattuto per errore col suo aereo nel
cielo di Tobruk dalla contraerea italiana - sapesse o potesse fronteggiare la situazione. La resa della piazzaforte di
Tobruk (gennaio 1941) costrinse Graziani ad una rapida ritirata nel tentativo di salvare almeno la Tripolitania. Una
volta constatato di non poter gestire più la situazione, chiese a Mussolini di essere esonerato dal comando.
Nell'occupazione di Bengasi (febbraio 1941) si distinsero le truppe australiane che ne fecero oggetto di spoliazione. La
seconda occupazione britannica della Cirenaica (dicembre 1941- gennaio 1942) infierì sugli insediamenti rurali del
Gebel. Il 23 gennaio 1943 le truppe britanniche entrarono a Tripoli. L'evacuazione italiana della Libia venne ultimata il
3 febbraio successivo. Il suo precipitoso abbandono infranse il mito della "quarta sponda" il cui destino fu il medesimo
dell'Aoi. Intanto, giunto ad El Alamein (villaggio situato a 80 chilometri da Alessandria) il feldmaresciallo Erwin
Rommel constatò che le sue riserve erano allo stremo. Le fasi della battaglia per il controllo di questa località (1° luglio
- 6 settembre 1942) - strategicamente importante nella marcia su Alessandria - assunsero le caratteristiche di un
angosciante e terribile scontro di logoramento che coinvolse le truppe italiane e quelle del generale Bernard Law
Montgomery. Privi di collegamenti e di rifornimenti (dall'acqua alle munizioni) i soldati italiani furono abbandonati a sè
stessi. Nonostante la disfatta, i fascisti non si rassegnarono alla perdita dell'impero coltivando l'impossibile sogno del
ritorno in quanto "legittimi reggitori", nell'ottica di Bottai si trattava di un abbandono temporaneo. Giudizio confermato
da Mussolini che - in nome della virile civiltà romana e fascista e in memoria dei soldati caduti - precisò: "là noi
torneremo". Su tali cadenze la rincorsa alla sopravvivenza del fascismo imperiale durò sino al luglio 1943. Tuttavia, in
Italia restarono in piedi il reducismo nostalgico, il revanscismo nazionalistico, le velleitarie e umilianti manovre
diplomatiche neocolonialistiche dei primi governi repubblicani postfascisti. In Libia la devastante guerra, coi
bombardamenti aerei e navali e la disseminazione di mine sul terreno resero sterili e impraticabili, per alcuni decenni,
intere regioni. Non per questo cessò l'assegnazione di poderi colonici nell'interno del paese. Nel 1942 vennero
consegnati circa 400 titoli di proprietà terriera dall'estensione media di 35 ettari. Sulla costa, invece, le devastazioni
belliche si rivelarono pesanti anche per la comunità italiana, abbandonata a sè stessa dinanzi alla controffensiva
britannica. Ma fu la popolazione araba a subire ancora angherie e soprusi da parte delle forze contrapposte, finendo per
essere additati come ladri e stupratori, in un ultimo rigurgito razzistico.

Riferimenti bibliografici

In presenza di una vasta e variegata pubblicistica - studi generali sulla politica estera dell'Italia (liberale e fascista) e
monografie di vario indirizzo e contenuto - e visto il taglio del volume proposto, ci limitiamo ad indicare alcuni testi
orientativi (in lingua italiana) per il lettore. Testi ad indirizzo democratico, antiapologetici e tutt'altro che
neocolonialistici. Scelta effettuata tenendo presenti i contributi forniti dalla più recente storiografia. A far da battistrada
in tale direzione è stata l'opera pionieristica di R. Battaglia, La prima guerra d'Africa, Torino, 1958. Il profilo
storiografico "decolonizzatore" nel quale si colloca, permette allo studioso di cogliere l'aggancio fra politica interna e
politica estera, alla base del colonialismo italiano.
Per una storia del colonialismo italiano restano decisivi e fondamentali gli studi e le ricerche di A. Del Boca. In
particolare, i volumi Gli italiani in Africa orientale, Roma-Bari, 1976-1982. Dello stesso Autore: Gli italiani in Libia,
RomaBari, 1986-1988.
Opere di sintesi rigorose, per un approccio al problema, restano: G. Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, 1973; J. L.
Miège, L'imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai nostri giorni, Milano, 1976. Quest'ultimo testo indugia sugli aspetti
demografici e di potenza del colonialismo italiano. Una raccolta ragionata e commentata di documenti ufficiali -
analizzata nei contesti storico/politici - è fornita da: L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero,
Roma-Bari, 1981.
Sulla storia dell'espansione italiana citiamo, inoltre: G. Bosco Naitza, Il colonialismo nella storia d'Italia (18821949),
Firenze, 1975. Sull'argomento interviene lo studio di N. Labanca, Storia dell'Italia coloniale, Milano, 1994. Dello stesso
Autore merita attenzione la corposa sintesi sul colonialismo italiano dal titolo: Oltremare. Storia dell'espansione
coloniale italiana, Bologna, 2002. L'opera indugia sui modi in cui l'Italia si è accostata al colonialismo e su come lo ha
praticato e vissuto. Il volume - corredato da un ricco e articolato apparato bibliografico - si sofferma, inoltre, nello
studio della cosiddetta "società coloniale".
Per quanto concerne la fase anteriore alla formazione delle colonie resta l'interessante approccio di L. Gambi, Geografia
e imperialismo in Italia, Bologna, 1992. Si vedano, inoltre: E Surdich (a cura di), L'esplorazione italiana dell'Africa,
Milano, 1982. Dello stesso Autore, Storia dei viaggiatori italiani. Africa, Milano, 1986. Sull'intreccio fra esplorazione
ed esotismo indugia il volume, curato da S. Puccini, Andare lontano. Viaggi ed etnografia nel secondo Ottocento,
Roma, 1999. Sul raccordo fra colonialismo e cultura in Italia - attraverso le società geografiche - segnaliamo: C.
Cerretti, Colonie africane e cultura italiana fra Ottocento e Novecento. Le esplorazioni e la geografia, Roma, 1995.
Altrettanto specifico è il volume curato da L. Gaffurri, Africa o morte. Viaggi di missionari italiani verso le sorgenti del
Nilo 1851-1873, Milano, 1996. In particolare, sulla società somala (Somaliland britannico) indugia la riflessione di I.
M. Lewis, Una democrazia pastorale, Milano, 1983.
Sulla nascita dell'imperialismo diplomatico-politico italiano si sofferma il volume, dedicato all'Italia liberale, di F.
Cammarano, La politica dell'Italia liberale. L'età del liberalismo classico 1861-1901, Roma-Bari, 1999. In riferimento
alla "prima guerra d'Africa" va visto il volume di C. Zaghi, Pasquale Stanislao Mancini e il problema del Mediterraneo
1884-1885, Roma, 1955. Si tenga presente, in prospettiva storico-politica: N. Labanca, In marcia verso Adua, Torino,
1993. Sugli aspetti economici della questione riflette G. Doria, Debiti e navi. La compagnia di Rubattino 1839-1881,
Genova, 1990. Sull'esperienza di Bottego si tenga presente la miscellanea curata da N. Labanca, Il Giuba esplorato,
Parma, 1997. Di impostazione non apologetica del colonialismo italiano è il volume di F. Grassi, Le origini
dell'imperialismo italiano. Il caso somalo, Lecce, 1980. Su colonialismo, crispismo e nazionalismo si sofferma Ch.
Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, 2000. In merito all'atteggiamento dei militari sul
problema coloniale si veda: G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, 1978.
L'intreccio fra espansionismo e ceto militare è analizzato nella raccolta saggistica curata da P. Del Negro, Guida alla
storia militare italiana, Napoli, 1997.
In merito ai miti nazionalistici del primo ventennio del Novecento e sul loro impatto politico-religioso in ambito
coloniale, citiamo: R. Molinelli, Per una storia del nazionalismo italiano, Urbino, 1966; F. Gaeta, Il nazionalismo
italiano, Roma-Bari, 1981; P. Alatri (a cura di), Scritti politici di Gabriele D'Annunzio, Milano, 1980; A. d'Orsi, I
nazionalisti, Milano, 1981.
Sul fascismo e le colonie risultano stimolanti i saggi presenti, nell'opera pluritematica di: A. Del Boca, M. Legnani, M.
G. Rossi, Il regime fascista, Roma-Bari, 1995. Sul colonialismo fascista - inserito nel più vasto contesto della politica di
potenza del regime - rinviamo ai saggi raccolti in: E. Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939,
Firenze, 2000. E' d'obbligo il riferimento alla miscellanea curata da A. Del Boca, Le guerre coloniali del fascismo,
Roma-Bari, 1991. Nello specifico degli studi militari si colloca G. Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Treviso,
1991.
Ad alimentare il colonialismo imperiallistico del fascismo provvide un apparato ideologico diversificato. Si va dal
riferimento al passato e alla romanità - si veda: M. Cagnetta, Antichità e impero fascista, Bari, 1979 - alla
sacralizzazione e alla mitizzazione dell'Italia fascista. In merito: E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della
politica nell'Italia fascista, Roma-Bari, 1993. Gli aspetti "modernistici" di tale fenomeno sono colti da: R. Ben Ghiat, La
cultura fascista, Bologna, 2000.
Utile, nell'analisi delle istituzioni politico-amministrative in colonia, risulta il testo di L. Martone, Giustizia coloniale.
Modelli e prassi penale per i sudditi d'Africa dall'età giolittiana al fascismo, Napoli, 2002. Sulla legislazione razziale e il
razzismo ci limitiamo a segnalare un interessante saggio di N. Labanca presente nel volume curato da A. Burgio, Nel
nome della razza, Bologna, 1999.
Un'analisi della politica economico-finanziaria del regime in rapporto alla politica coloniale è presente in: G. Maione,
L'imperialismo straccione, Bologna, 1979.
La storia della presenza italiana in Libia e delle sue pendenze, sino a Gheddafi è alla base dei fondamentali volumi di A.
Del Boca, Gli italiani in Libia. La conquista della Libia, nei suoi aspetti politico-diplomatici - all'interno della vasta
produzione storiografica sull'età giolittiana - suggeriamo: R. Bosworth, La politica estera dell'Italia giolittiana, Roma,
1985; E. Serra, C. Seton-Watson (a cura di), Italia e Inghilterra nell'età dell'imperialismo, Milano, 1990.
L'antieconomicità della colonizzazione italiana è al centro dello studio di C. Segrè, L'Italia in Libia. Dall'età giolittiana a
Gheddafi, MIlano, 1978. Sulla "riconquista" fascista e sulla resistenza libica, fanno testo i saggi presenti in: E.
Santarelli, G. Rochat, R. Rainero, L. Goglia, Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Milano, 1981. Sui
rapporti politica-religione si veda: V Ianari, Chiesa, libici e Islam, Torino, 1995. Documenti e immagini della
repressione italiana sono raccolti in: N. Labanca, Un nodo, Manduria-Bari-Roma, 2002. Sull'argomento citiamo, inoltre:
E. Salerno, Genocidio in Libia, Milano, 1979. Il testo si sofferma sulle difformità esistennti fra colonialismo liberale e
colonialismo fascista. In termini di continuità delle esperienze coloniali suddette parla, invece, L. Del Fra, Sciara Sciat.
Genocidio nell'oasi, Roma, 1995. Sulla questione si tenga presente: G. Ottolenghi, Gli italiani e il colonialismo. I campi
di detenzione italiani in Africa, Milano, 1997.
Il raccordo fra colonialismo e religione è proposto nel volume di C. M. Betti, Colonialismo e missione. Autorità
coloniali e missionari in Eritrea (1885-1896), Roma, 1990. Si veda anche: C. Marongiu Buonaiuti, Politica e religioni
nel colonialismo italiano (1882-1941), Milano, 1982. Sono stimolanti i saggi presenti nel volume curato da A. Del
Boca, Le guerre coloniali, cit.
Sulla preparazione dell'aggressione all'Etiopia, resta decisivo lo studio di G. Rochat, Militari e politici nella
preparazione della campagna d'Etiopia. Studio e documenti 1932-1936, Milano, 1971. Sull'aggressione, nei suoi vari
aspetti (politici, diplomatici, militari), esiste un'ampia bibliografia di cui ci limitiamo ad indicare: R. Mori, Mussolini e
la conquista dell'Etiopia, Firenze 1978; M. Robertson, Mussolini fondatore dell'impero, Roma-Bari, 1979; A. Mockler,
Il mito dell'impero. Storia delle guerre italiane in Abissinia e in Etiopia, Milano, 1977. Una sintesi critica nel rilancio
del dibattito sulla guerra è fornita da M. Giovana, L'avventura fascista in Etiopia, Milano, 1976. In ottica più ampia ed
approfondita si muove C. Zaghi, L'Africa nella coscienza europea e l'imperialismo italiano, Napoli, 1973.
Sul colonialismo italiano in Etiopia restano fondamentali i già citati testi di A. Del Boca e G. Rochat. Utile risulta anche
la biografia dell'ultimo negus d'Etiopia Hailè Selassié di A. Del Boca, dal titolo: Il Negus. Vita e morte dell'ultimo re
dei re, Roma-Bari, 1995. Sul Corno d'Africa, in età liberale, indugia L. Monzali, L'Etiopia nella politica estera italiana
1896-1915, Parma, 1996. Lo scontro diplomatico fra Italia, Francia e Gran Bretagna nella regione è oggetto di studio di
G. Buccianti, L'egemonia sull'Etiopia (1918-1923), Milano, 1977. I tre momenti della dominazione fascista in Etiopia
vengono analizzati da A. Sbacchi, Il colonialismo italiano in Etiopia 1936-1940, Milano, 1980. Rilevante, anche in
seguito alle polemiche politiche sollevate, è la raccolta di saggi curata da A. Del Boca, I gas di Mussolini, Roma, 1996.
Sulla base della documentazione ufficiale del regime, il volume annota gli indiscriminati bombardamenti aerei e l'uso
massiccio di armi chimiche e dei gas da parte delle truppe italiane. A sua volta, I. Taddia - in L'Eritrea colonia
19801952, Milano, 1986 - effettua una ricognizione sulla società coloniale sottoposta alla dominazione italiana. Analisi
con connotazioni antropologiche e corredata da una ampia bibliografia. Sull'Eritrea si veda anche: S. Poscia, Eritrea
colonia tradita, Roma, 1989.

Spunti storiografici

L'indagine storiografica sul colonialismo - nel settantennio che va dall'unificazione dell'Italia alla II guerra mondiale - è
rimasta nettamente subordinata agli interessi espansionistici del ceto liberale dominante e agli obiettivi imperialistici del
regime fascista. Esempio emblematico di tale dipendenza è la Storia coloniale dell'Italia contemporanea. Da Assab
all'impero (1940) di Raffaele Ciasca. Non da meno erano le riviste del tempo ("Africa", "Rivista delle colonie italiane",
"L'oltremare", "L' Italia coloniale") impegnate anche in operazione di demagogica propaganda. In seguito alla
formazione dell'impero fascista l'attenzione si spostò sugli studi giuridico-militari. Ne uscì ulteriormente penalizzata
l'analisi storica sulle conquiste italiane, a vantaggio della preoccupazione di mobilitare l'opinione pubblica in funzione
del rafforzamento del regime e del silenzio sulla situazione socio-economica in cui versava l'Italia. A sua volta,
l'anticolonialismo - sia quello a vocazione democratico-risorgimentale che quello antifascista - restò sostanzialmente
bloccato e minoritario. Conclusa la stagione coloniale, la storiografia postbellica provvide a liberarsi di coperture
ideologiche ma dovette misurarsi con le resistenze politiche di un'Italia repubblicana vogliosa di aggirare la "questione
coloniale". Il suo studio non può prescindere da alcune premesse: la povertà delle colonie, la debolezza finanziaria del
capitalismo metropolitano (incapace di intraprendere investimenti produttivi di una certa consistenza), l'impossibilità di
richiamare investimenti stranieri. Fu la politica di potenza ad incentivare progressivamente le conquiste coloniali,
utilizzate demagogicamente in chiave miticopatriottica aggressiva e violenta. Si trattò di una programmazione politico-
militare sospinta anche da settori capitalistici (industria pesante, imprese di lavori pubblici), interessati alle commesse
statali e, pertanto, all'espansione del mercato nazionale. A beneficiare di tali sviluppi espansionistico-militari furono
anche la borghesia impiegatizia e la borghesia commerciale.
Attorno a questo quadro di riferimento e all'interesse verso la storia dell'Africa ci fu - a partire dalla metà degli anni
sessanta - la comparsa di un'autorevole storiografia di forte caratterizzazione democratica, impegnata nel faticoso
smantellamento di stereotipi e miti relativi al colonialismo italiano in Africa. Ciò ha comportato, da un lato il
superamento del filone diplomatico-militare della nostra storia coloniale e, dall'altro, una sua rilettura a partire dal punto
di vista dei popoli che ne subirono l'aggressione, nel contesto di una più generale e approfondita analisi critica del
fenomeno coloniale.
Questo tipo di revisione storiografica ha suscitato le resistenze dei governi postfascisti, pronti a coprire o a sminuire
soprusi e crimini commessi dagli italiani in terra d'Africa. Ciò, sostiene Giorgio Rochat, "ha incoraggiato il disinteresse
del paese verso vicende considerate sbrigativamente come marginali e concluse" (Le guerre coloniali del fascismo, a
cura di Angelo Del Boca). La mistificazione e la rimozione delle colpe coloniali si sono nutrite di retorica patriottarda,
di nostalgico reducismo razzistico e sono state sempre pronte a rinverdire il mito della "civilizzazione" e del "lavoro
italiano nel mondo" nell'ottica della estensione della "frontiera nazionale". Basti ricordare, al riguardo, le visite
compiute dal Ministro degli Esteri Giulio Andreotti ai cimiteri di guerra italiani in Etiopia, Eritrea e Somalia nel 1965.
La "leggenda rosa" sul colonialismo italiano è stata rimossa a fatica senza ignorare, peraltro, il positivo contributo
fornito dalla presenza italiana alla crescita delle popolazioni locali. Non è mancato chi - come Sergio Romano - ha
decifrato in chiave ideologica la querelle storiografica che oppone "colonialisti" ed "anticolonialisti", vista all'interno
della più generale guerra civile. Nella fattispecie, non è la nostalgia per il passato coloniale a reggere l'argomentazione
sibbene l'impostazione "pragmatica" di settori della destra che intendono cancellare il passato, ritenuto superato,
inattuale, da dimenticare e inincidente sulla coscienza storica e civile del nostro Paese. Ha buon gioco, così, la
persistenza di ignoranza e disinformazione presso l'opinione pubblica, supporto di indifferenza e di disprezzo verso
l'altro e corresponsabile della "guerra di civiltà" che oggi rilancia la destra xenofoba differenzialista.
Non a caso la pubblicazione dei volumi L'Italia in Africa - sospesa negli anni ottanta - per iniziativa del Sottosegretario
agli Esteri Giuseppe Brusasca, risentiva di un'impostazione manichea, finalizzata a costruire l'immagine di un
colonialismo meritevole di apprezzamento per la sua presunta "diversità". Il tutto era posto sotto l'egida del "Comitato
per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa" (costituito nel 1952) composto da funzionari coloniali e da storici
filocolonialisti (Carlo Giglio, Giuseppe Vedovato, Raffaele Ciasca). Inevitabilmente sull'analisi storica ha finito per
prevalere l'intento agiografico, tanto da indurre Giorgio Rochat a denunciare la presenza di "tesi oltranziste dell'epoca
fascista" saldate alla superficialità nel reperimento e nella utilizzazione delle fonti. L'occultamento dei crimini di guerra
non ha risparmiato nemmeno settori politici di sinistra, mentre gran parte della storiografia democratica e marxista era
impegnata nello studio del movimento operaio, dell'antifascismo e della Resistenza. Una prima analisi problematica, per
molti versi anticipazione della decolonizzazione della storiografia è stata svolta da Roberto Battaglia, con La prima
guerra d'Africa (1958). Bisogna attendere la fine degli anni sessanta perché dagli archivi fuoriesca - non senza difficoltà
- la documentazione che porterà Giorgio Rochat ad interessarsi della repressione contro la resistenza in Cirenaica.
Successivamente (1976) Angelo Del Boca iniziò la pubblicazione della fondamentale e documentatissima opera sugli
Italiani in Africa orientale che ha anticipato i due volumi sugli Italiani in Libia. Tra gli intenti di una tale autorevole e
cospicua produzione c'è quello di denunciare il mancato dibattito politico e civile sul colonialismo presso l'opinione
pubblica, in stretto collegamento con la tardiva decolonizzazione degli studi storici. Non sono mancati, altresì, lo
sdegno e le scomposte reazioni di associazioni di reduci d'Africa - al cospetto dei risultati eclatanti cui è pervenuta la
nuova storiografia - in nome della "salvaguardia morale" del lavoro e del sacrificio degli italiani nei territori
d'Oltremare.
Quanto sia ancora impervia e faticosa quella che Angelo Del Boca ha definito "la lunga battaglia per la verità" lo
attesta, tra l'altro, la polemica condotta contro lo studioso da Indro Montanelli sulle pagine del "Corriere della sera"
(1995) proteso a coltivare nostalgicamente il "sogno africano" e preoccupato di smentire autorevoli studiosi
sull'impiego dei gas nella guerra fascista in Etiopia, come denunciato da Del Boca (I gas di Mussolini). Ma
testimonianze, documentazione, serio impegno di ricerca e le reticenti e ambigue ammissioni del generale Domenico
Corcione, Ministro della Difesa nel governo Dini, hanno smentito Montanelli e la demagogica stampa di destra. Anzi, lo
stesso giornalista, con apprezzabile autocritica, ha riconosciuto la serietà della ricerca di Del Boca: "La mia papera sui
gas rimane, e ne chiedo scusa a lei e ai lettori ("Corriere della sera", 13 febbraio 1996).
La storiografia filocolonialistica ha negato (e continua a negare) la funzione storica e culturale dei popoli africani nella
lotta di emancipazione nazionale e anticoloniale. Ha preferito, invece, rimarcare l'opera "meritoria" svolta dai coloni
italiani nella "valorizzazione" delle terre sottratte agli africani concludendo poi, in chiave revanscista e razzistica, che
essa ha finito col giovare più ai colonizzati che ai colonizzatori. Rilegittimazione che si lega a filo rosso con quanto ha
sostenuto l'autorevole rivista "Africa" (marzo 1948): "Gli Abissini, a contatto con gli Italiani, impararono a conoscere
molte cose per essi assolutamente nuove, dalla bicicletta alla scuola, dall'acqua corrente al giornale illustrato (...),
l'Etiopia ha avuto dal dominio italiano una scossa salutare". Le atrocità commesse andavano, semmai, ricondotte a
singole deplorevoli iniziative individuali. Tantomeno ha retto il mito da "italiani brava gente" con cui è stato disegnato
in astratto il comportamento del soldato italiano, definito "civile" e tollerante, comprensivo e animato da lodevoli
intenzioni, tanto da farsi persino rimpiangere, ad indipendenza acquisita, dai popoli ex-coloniali. Al contrario, la
storiografia più avvertita e deideologizzata ha inteso restituire dignità storica e morale a figure e popoli decisivi nella
lotta di resistenza e di liberazione anticoloniale. Nel contempo, ha rimosso lo stereotipo razzistico-paternalistico del
colonialismo italiano "dal volto umano". A rigore, non esiste alcun colonialismo "buono", né tantomeno in seno al
colonialismo italiano è esistita la versione "buona" del fenomeno nell'Italia liberale di contro a quella "cattiva" del
regime fascista.
La persistenza di un atteggiamento autoassolutorio o la voluta cancellazione della memoria da parte dei governi
nazionali impediscono l'instaurazione di rapporti positivi, costruttivi, non ambigui con gli Stati africani. Basti pensare
alle fallimentari politiche di cooperazione allo sviluppo degli anni ottanta e novanta e alle ricorrenti improvvisazioni
delle classi dirigenti in materia di rapporti bilaterali con le ex-colonie. Può ben dire Del Boca che ci si è trovati dinanzi
ad "una politica non giusta, non riparatrice, non lungimirante (...). Una politica spicciola, progettata giorno per giorno,
senza programmi a lungo termine (...). L'Italia opulenta degli ultimi due decenni ha perso una grande occasione. Poteva
tornare in Africa per riparare e per rifarsi una reputazione. Invece spreca i suoi soldi e nello stesso tempo non onora i
suoi debiti" (L'Africa nella coscienza degli italiani). Non fa chiarezza in merito il pur sentito richiamo del Presidente
della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che ha parlato in termini di storia condivisa e di crescita di un'identità collettiva
nazionale in grado di superare le fratture del passato. Una simile condivisione riconciliatrice impone preliminarmente e
doverosamente una ricognizione sulla storia patria, esauriente, completa e comprensiva della nostra brutale esposizione
colonialistica. Il passato non equivale a dimenticanza, non costituisce un anacronismo. La memoria storica e civile -
ancorché labile - del nostro Paese deve ancora fare i conti col proprio passato coloniale; cioè con la propria storia
nazionale recente.

Scheda Il costo della guerra

La macchina bellica italiana in Africa orientale mobilitò ingenti forze in Africa orientale. "Al 1° ottobre 1935 erano
radunati in Eritrea 111.000 militari italiani e 53.000 ascari eritrei, con 35.000 quadrupedi, 4.200 mitragliatrici, 580
cannoni, 126 aerei e 3.700 automezzi, ed in Somalia 24.000 itaòliani e 29.500 ascari, con 7.900 quadrupedi, 1.600
mitragliatrici, 117 cannoni, 38 aerei e 1.850 automezzi. Nel maggio-giugno 1936, cioè al termine della campagna, si
trovavano in Africa circa 330.000 militari italiani, 87.000 ascari indigeni e 100.000 lavoratori italiani militarizzati, con
10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 90.000 quadrupedi, 14.000 automezzi, 350 aerei e quantitativi
proporzionali di munizioni, materiali ed equipaggiamenti" (G. Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, 1973, p. 139). In
relazione ai costi della guerra, Rochat sostiene: "Dal 19311932 al 1936-1937 le spese effettive normali dello stato
italiano oscillarono tra i 23 e i 25 miliardi di lire all'anno, secondo i calcoli del Repaci; ad esse si aggiunsero spese
eccezionali per la conquista, l'organizzazione e la valorizzazione dei territori dell'Africa orientale (...) pari ad un
miliardo di lire nel 1934-1935, a 12 miliardi nel 1935-1936, a 18 miliardi nel 1936-1937, che portarono le spese
effettive totali sopra i 40 miliardi annui" (G. Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Paese (Treviso), 1991, p.
107).

Scheda Le perdite italiane e quelle etiopiche

In assenza di un bilancio definitivo sulle perdite italiane in Africa orientale ci si limita a sostenere che, nel periodo 1°
gennaio 1935-1931 dicembre 1936 la guerra d'Africa è costata all'Italia almeno 4.350 morti e un numero doppio di
feriti. La ripartizione dei morti per classi di età è la seguente: dai 18 ai 20 anni sono stati il 6 per mille; dai 21 ai 25 anni
il 570 per mille; dai 26 ai 30 anni, il 206 per mille; dai 31 ai 35, l'85 per mille; dai 36 ai 40, il 62 per mille; dai 41 ai 45,
il 45 per mille; dai 46 ai 50, il 18 per mille; oltre i 50 anni, l'8 per mille. In termini assoluti la regione che ha più pagato
in morti è stata la Lombardia (576), seguita dal Veneto (391) e dall'Emilia (378). In termini percentuali, le cifre vedono
in testa la Calabria con una percentuale di caduti pari al 5,77, seguita dalla Basilicata (4,92) e dalla Toscana (4,72). I
dati riportati sono ripresi in: A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, Roma-Bari, 1979,
pp. 717-18.
Impressionante è stato il numero delle persone uccise durante la conquista e la repressione in Etiopia. Altrettanto dicasi
per i pesantissimi danni inferti all'ambiente e al patrimonio zootecnico, fonte primaria ed esclusiva di sostentamento per
le popolazioni. "L'Etiopia perse 275.000 uomini nella guerra 1935-1936 e 75.000 nella guerriglia successiva, più 18.000
vittime civili dei rastrellamenti, 30.000 massacrati dopo l'attentato a Graziani, 24.000 fucilati dai tribunali italiani e
35.000 morti nei campi di concentramento. Inoltre 300.000 persone morirono di stenti in seguito alla distruzione dei
villaggi e del bestiame 5 milioni di bovini, 7 milioni di ovini, 1 milione di cavalli e 700.000 cammelli morti" (G.
Rochat, Il colonialismo, cit., p. 185).

Scheda Repressione e colonizzazione in Libia

I dati relativi alla repressione in Cirenaica restano ancora incerti. Tuttavia, con sufficiente approssimazione, vengono
riportate le cifre fornite da Giorgio Rochat. Semmai restano anche i dati sulla colonizzazione. "Secondo le valutazioni
ufficiali italiane, la Cirenaica negli anni venti aveva 225.000 abitanti, che nel censimento del 1931 risultarono ridotti a
142.000 (più 18.500 italiani). Circa 20.000 arabi erano fuggiti in Egitto, gli altri 60.000 morirono per fame, fatica o
malattia, nel corso della deportazione (...). Una conferma dei metodi dei colonizzatori italiani viene dalle cifre
terrificanti sulla riduzione del bestiame tra il 1926 ed il 1933: ovini da 800.000 a 98.000, cammelli da 75.000 a 2.600,
cavalli da 14.000 a 1.000, asini da 9.000 a 5.000. Si può capire perché la ribellione fosse realmente stroncata: era la
società esistente sul Gebel che era stata distrutta dalle fondamenta (...). nel 1937, secondo dati ufficiali, in tutta la Libia
erano stati assegnati 188.000 ettari, di cui il 65 per cento a sole 43 aziende di oltre mille ettari, un altro 23 per cento a
102 aziende tra 200 e 1.000 ettari, un ulteriore 10 per cento tra 292 aziende tra 20 e 2.000 ettari. Le aziende inferiori ai
20 ettari che possiamo considerare a carattere familiare erano 403 e si dividevano il 2 per cento della terra assegnata. In
totale la colonizzazione italiana in 15 anni aveva creato 840 aziende, privilegiando soprattutto chi disponeva di
maggiori capitali e dando lavoro in tutto a 4.200 italiani, tra cui una minoranza di veri contadini" (G. Rochat, Il
colonialismo, cit., pp. 101-102).

Scheda Da dove vengono i coloni

"Alla fine del 1931 il numero dei concessionari e dei proprietari in Tripolitania è di 442, distribuiti su 99 mila ettari di
terreno. Classificati per regione, in testa appaiono i siciliani (186) con 22.911 ettari, seguiti dai laziali (15) con 17.541
ettari, dagli italiani di Tunisia (32) con 14.116 ettari, dai piemontesi (24) con 6570 ettari; ... ultimi sono i calabresi (12)
con 587 ettari e i sardi (2) con appena 98 ettari. (...)
Ben diversa la situazione della colonizzazione in Cirenaica (...). Al 31 dicembre 1931 risultano indemaniati 120.790
ettari, ma soltanto 16.714 sono coltivati nel Bengasino, a Barce, Dema, Soluch el Abiar, Tocra, Sleaia e Tobruk. I
proprietari sono 71 e coltivano soltanto 2.138 ettari; i concessionari sono 26 e dispongono di 14.576 ettari". A seguito
della selezione, operata sui coloni da Balbo (1938), si hanno questi dati: "Su 1.800 famiglie, ben 1.433, ossia il 79 per
cento, vengono selezionati nel nord del paese. In testa c'è Rovigo con 228 famiglie; seguono Padova con 223, Venezia
con 211, Ferrara con 135, Vicenza con 119, Verona con 101, Treviso con 100. Salvo Bari, che partecipa alla spedizione
dei ventimila con 57 famiglie, le altre province del sud e delle isole hanno rappresentanze del tutto insignificanti:
Foggia 30 famiglie, Catanzaro 28, Ragusa 23, Siracusa 20, Catania 19, Caltanisetta 17, Enna 16, Cosenza 16, Reggio
Calabria 15, Lecce 13, Messina 8 (...). Alla vigilia della guerra mondiale risultano indemaniati circa 900 mila ettari di
cui 374.670 dati in concessione e così ripartiti: 231 mila in Tripolitana e 143.580 in Cirenaica. Alla stessa data sono
presenti in colonia 6.166 famiglie coloniche, così distribuite: 3.960 in Tripolitania, con 23.919 componenti, e 2.206 in
Cirenaica, con 15.014 membri. In tutto sono state costruite 5.752 case coloniche, di cui 3.675 in Tripolitania e 2.077 in
Cirenaica. La consistenza del patrimonio arboreo raggiunge in Tripolitana cifre indubbiamente significative: gli ulivi,
che nel 1920 erano appena 68 mila, aumentano nel 1940 a 2.226.500. Sempre in Tripolitania i mandorli sono 1.646.000,
le viti 36.826.000, gli agrumi 300 mila, gli alberi da frutta 93 mila. (...) Negli anni successivi la terra indemaniata venne
portata a 630 mila ettari, cioè tutta la terra disponibile" (A. Del Boca, Gli italiani in Libia, Roma-Bari, 1988, pp. 39,
261-2, 266, 268).

Scheda Il prezzo pagato dalla Libia

Secondo fonti libiche il numero dei caduti in battaglia, per il periodo 1911-1932, è di 21.122. Le persone impiccate o
imprigionate dalle autorità di occupazione furono 5.867. Nei campi di concentramento furono internate 27.763 persone,
mentre altre 20.091 furono costrette ad emigrare o furono espulse. A causa dei bombardamenti aerei e dell'esplosione di
mine rimasero uccise 12.058 persone. Altre 14.910 sono rimaste menomate dall'esplosione di mine e bombe durante e
dopo la II guerra mondiale. Sono state colpite nei loro beni (immobili e proprietà terriere) 19.871 persone; 30.231
persone sono state danneggiate nel bestiame e nelle coltivazioni. Non sono mancati seri danni all'ambiente
(inquinamento dei pozzi, incendi, minamento dei terreni) per complessivi 463 casi. I dati riportati sono stati ripresi in:
A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari, 1991, p. 395. Ancor più impressionanti sono state
le conseguenze della dominazione italiana sul futuro della Libia indipendente. "Il paese appariva privo di quadri, il 94%
del suo popolo era analfabeta (vi erano in tutto 13 laureati, ma tra questi neppure un dottore in medicina), la condizione
igienica era allarmante, la mortalità infantile si elevava al 40%, non vi era la benché minima base economica (la rendita
pro capite raggiungeva a malapena le 15/16 sterline annue), la struttura sociale appariva arretrata di almeno 300 anni"
(G. Assan, La Libia e il mondo arabo, Roma, 1959, p. 13).

Sintesi cronologica

1869: 15 novembre. Giuseppe Sapeto acquista i diritti sulla baia di Assab per conto della società Rubattino.
1882: 10 marzo. Lo Stato italiano rileva i diritti su Assab e la costituisce (5 luglio) in colonia.
1885: 5 febbraio. Il colonnello Tancredi Saletta sbarca a Massaua con l'appoggio britannico.
1887: 26 gennaio. Battaglia di Dogali. Ras Alula sconfigge la colonna del colonnello De Cristoforis.
1888: primavera. Riprende l'espansione italiana, affidata al generale Antonio Baldissera.
1889: 8 febbraio. L'Italia proclama il suo protettorato sul sultanato di Obbia (Somalia).
1889-1891: Estensione del protettorato italiano dal Giuba al sultanato dei Migiurtini.
1889: 10 marzo. Morte delò negus neghesti Giovanni. Gli succede Menelik, sostenuto da Roma.
2 maggio. Trattato di Uccialli di amicizia e dicommercio fra Antonelli (rappresentante italiano) e Menelik.
2 giugno. Baldissera occupa Cheren e (3 agosto) Asmara. 1890: 1 ° gennaio. Nasce la colonia eritrea.
1894: dicembre. Repressione della rivolta in Eritrea contro l'espropriazione di terre.
1895: gennaio. Il generale Oreste Baratieri occupa il Tigré.
7 dicembre. Menelik annienta sull'Amba Alagi la guarnigione del maggiore Pietro Toselli.
1896: 1° marzo. Disfatta italiana ad Adua.
26 ottobre. Trattato di pace italo-etiopico.
1897-1907: Ferdinando Martini, commissario civile straordinario, organizza l'Eritrea.
1900-1909: Le grandi potenze riconoscono i diritti italiani sulla Tripolitania.
1905: 13 gennaio. Piena sovranità italiana sul Benadir (porti somali di Brava, Merca, Mogadiscio e sua costituzione in
colonia. Con l'unificazione dei protettorati somali, essa assume (5 aprile 1908) il nome di Somalia.
1911: 26 settembre. Ultimatum italiano a quello turco per la cessione della Tripolitania e della Cirenaica.
29 settembre. L'Italia dichiara guerra alla Turchia.
4 ottobre. Le truppe italiane sbarcano a Tobruk e il giorno successivo a Tripoli.
23 ottobre. Combattimenti di Sciara Sciat e arresto della penetrazione italiana.
5 novembre. Dichiarazione unilaterale italiana di sovranità su Tripolitania e Cirenaica.
1912: 18 ottobre. Ouchy (Losanna): pace italo-turca.
1913: 9 gennaio. Introduzione dell'ordinamento autonomo distinto per Tripolitania e Cirenaica.
1913-1914: Gli italiani occupano la Tripolitania, sino al Fezzàn.
1914-1915: Grande rivolta araba. Gli italiani si limitano ad occupare la fascia costiera cirenaica e i porti di Tripoli e
Homs.
1917: 17 aprile. Accordi di Acroma: Cirenaica divisa fra Senussia e Italia.
1919: 1° giugno. Concessione dello "statuto" alla Tripolitania. Il 31 ottobre spetta alla Cirenaica.
16 novembre. Proclamazione della Repubblica tripolina.
1920-1921: Accodi di er-Regima e Bu Mariam: la Cirenaica nuovamente ripartita fra Senussia e Italia.
1922: 26 gennaio. Dopo la rioccupazione di Misurata, il governatore Giuseppe Volpi intraprende la riconquista della
Tripolitania settentrionale.
1923: aprile. L'Italia riprende, a sorpresa, l'offensiva contro la Senussia.
28 settembre. Ammissione dell'Etiopia all'Onu.
dicembre. Il governatore Cesare Maria De Vecchi avvia l'offensiva per l'estensione del dominio diretto italiano sulla
Somalia.
1923-1928: Eliminazione dei capi tradizionali. Amministrazione diretta dell'Italia.
1924: 15 luglio. La Gran Bretagna cede all'Italia l'Oltregiuba, a saldo dei compensi territoriali previsti dal trattato di
Londra del 1915.
1928: 2 agosto. Trattato ventennale italo-etiopico di pace e di amicizia.
1929: dicembre-1930, febbraio. Rodolfo Graziani riconquista il Fezzàn. Battuta la resistenza araba in Tripolitania.
1930-1931: Impiccagione di al-Mukhtar. Fine della resistenza cirenaica.
1932: Istituzione dell'Ente Nazionale per la valorizzazione della Cirenaica.
29 novembre. Il ministro De Bono appronta i piani di aggressione all'Etiopia.
1934: 3 dicembre. Nasce la Libia, dall'unione di Tripolitania e Cirenaica.
5 dicembre. Incidenti di frontiera italo-etiopici a Ual-Ual.
1935: 7 gennaio. Accordi Mussolini-Laval. Previsti il riconoscimento dello statu quo all'imbocco del Mar Rosso; il
disinteresse economico francese in Etiopia e la compartecipazione italiana alla ferrovia di Gibuti.
3 ottobre. Aggressione all'Etiopia. Occupazione di Adigrat, Adua, Axum e Macallé.
Il generale Pietro Badoglio sostituisce De Bono al comando delle truppe italiane (26 novembre).
ottobre-novembre. Sanzioni economiche della SdN verso l'Italia.
dicembre. Controffensiva etiopica nello Sciré e successi iniziali nel Tembien Esito incerto della seconda battaglia del
Tembien (gennaio).
1936: gennaio. Vittoria di Graziani a Neghelli.
febbraio. Vittoria di badoglio all'Endertà. Sconfitte etiopiche.
1° aprile. L'ultima armata etiopica è distrutta da Badoglio a Mai Ceu (lago Ascianghi).
5 maggio. Badoglio ad Addis Abeba.
9 maggio. Mussolini proclama l'impero d'Etiopia con Vittorio Emanuele III imperatore. Badoglio, poi Graziani viceré.
luglio. Abolizione delle sanzioni anti-italiane.
1937: 19 febbraio. Addis Abeba: attentato a Graziani. Rappresaglie e massacri.
Recrudescenza della repressione contro la resistenza etiopica.
1938: gennaio. Graziani sostituito, come viceré, dal duca d'Aosta. Continuano la guerriglia e la dura repressione
italiana.
16 aprile. La Gran Bretagna riconosce l'impero italiano d'Etiopia.
1939: 9 gennaio. Il settentrione libico entra a far parte del territorio nazionale italiano.
1940: 10 giugno. Ingresso dell'Italia nella II guerra mondiale.
1941: 26 gennaio. Mogadiscio in mano ai britannici.
1 ° aprile. I britannici ad Asmara. Il giorno 8 cade Massaua.
5 maggio. Hailé Selassié torna sul trono d'Etiopia. Addis Abeba liberata dai partigiani etiopici e dalle truppe
britanniche. Resa degli ultimi reparti italiani a Gondar.
1943: 23 gennaio. I britannici entrano a Tripoli. Scompare la dominazione italiana in Africa.

Dizionario

Abuma: capo della Chiesa etiopica. Etimologia: padre nostro (da abba, padre).
Al Mukhtar Omar: capo senussita (1862-1931), diresse la resistenza in Libia prima di essere catturato e impiccato dagli
italiani.
Amedeo di Savoia, duca d'Aosta: viceré d'Etiopia (1937-41).
Aoi: Africa orientale italiana (1936-1941), costituita da Etiopia, Somalia ed Eritrea. Amministrata da un viceré cessò di
esistere con l'avanzata britannica in Africa e col ritorno del negus. L'Etiopia divenne indipendente nel 1947. La
Somalia, sotto mandato fino al 1950, lo divenne nel 1960, in unione con l'ex-Somaliland britannico. L'Eritrea acquisì
l'indipendenza nel 1991, in conseguenza della crisi etiopica. Indipendenza ratificata da referendum popolare (1993).
Arbegnuoc: partigiano etiopico.
Ascari: truppe coloniali, inizialmente reclutate in Eritrea e Arabia meridionale. Inquadrati come regolari da Baldissera,
erano dipendenti dal ministero delle Colonie.
Apartheid: termine composto dall'avverbio anglosassone apart e da heid, suffisso in lingua afrikaans. Indica la
"segregazione", lo sviluppo separato delle razze o delle nazioni.
Badoglio Pietro: maresciallo d'Italia (1926) e Capo di Stato Maggiore col fascismo (1925-1940). Fu prima comandante
delle truppe in Etiopia e poi viceré (1936). Con la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) fu a capo del governo per
salvare la monarchia e l'egemonia della casta militare. Dopo l'8 settembre guidò i successivi governi antifascisti fino
alla liberazione di Roma (giugno 1944).
Balbo Italo: quadrumviro della "marcia su Roma", governatore della Libia (1934-1940).
Baldissera Antonio: da ufficiale partecipò alla spedizione San Marzano in Eritrea (1888) divenendone governatore.
Sostituì Baratieri dopo la sconfitta di Adua.
Baratieri Oreste: governatore dell'Eritrea (1892), due anni dopo intraprese la campagna militare contro Mangascià, ras
del Tigré. Fu il grande sconfitto ad Adua (1896).
Batha Hagos: capo dell'Acchele Guzai, tra i più prestigiosi e fidati capi eritrei, si ribella a Baratieri. Viene ucciso nella
battaglia di Halai (18 dicembre 1894).
Bottai Giuseppe: fondatore del Fascio di combattimento a Roma. Corporativista, fu ministro dell'Educazione Nazionale
facendo approvare la Carta della scuola (1927). Cattolico fervente, fu sostenitore della legislazione razziale e fautore
dell'espulsione degli ebrei dalle scuole. Votò l'ordine del giorno Grandi. Condannato dal tribunale della Rsi si arruolò
nella Legione straniera e tornò in Italia dopo l'amnistia (1948).
Bottego Vittorio: distintosi in sanguinose spedizioni punitive, compì l'esplorazione dell'alto e medio corso del fiume
Giuba (Somalia) nel 1893. Il suo ultimo viaggio in Africa (1895) dura quasi due anni e sarà senza ritorno.
Cabila: equivalente alla "gens" romana. "Tribù"; Tribunale musulmano.
Cadi: giudice, grande magistrato. Nel caso della Libia, il Decreto Reale di annessione (25 febbraio 1912) lo considerava
"capo religioso".
Cassa Aberra: attivò la rivolta nello Scioa dopo l'occupazione italiana di Addis Abeba.
Chiesa copta: la lingua liturgica (copto) e il monofisismo (natura divina di Cristo) caratterizzano la Chiesa cristiana
d'Etiopia.
Chiqa: capi-villaggio etiopici.
Corradini Enrico: fondò la rivista "Il Regno" (che diresse dal 1903 al 1905) portavoce di un acceso nazionalismo
imperialistico. Fu tra i fondatori dell'Associazione nazionalista (1910), prima di fondare la rivista "L' idea nazionale"
(1911), antidemocratica e antisocialista. Col fascismo divenne ministro (1928) prima di essere emarginato.
Correnti Cesare: politico liberale fu ministro della Pubblica Istruzione con la Destra (1867 e 1869-1972). Fu tra i
promotori della Società Geografica Italiana e da ambizioso africanista fu fautore della penetrazione coloniale nello
Scioa etiopico.
Crispi Francesco: ministro degli Interni nel gabinetto Depretis (1877-1878) fu premier dal 1887 al 1891. Represse
duramente i moti poplari in Sicilia e durante il suo secondo ministero (1893-1896) colpì l'opposizione di sinistra.
Autoritario all'interno, diede slancio al colonialismo con l'occupazione dell'Eritrea, colonia primogenita (1890). Fu
costretto alle dimissioni dopo il disastro di Adua.
De Bono Emilio: Capo di Stato Maggiore in Libia (1912), quadrumviro della "marcia su Roma", fu governatore della
Tripolitania (1925-1928), ministro delle Colonie (1929-1935) e governatore della Somalia. Votò contro Mussolini e
venne fucilato dopo il processo di Verona (1944) contro i dissidenti del fascismo.
Degiac: capo provinciale etiopico.
Dereq: sorta di "esercito regolare" etiopico.
Destà Damtèu: genero dell'Imperatore ed ultimo dei grandi capi abissini ad essere battuto ed impiccato (1937).
De Vecchi Cesare Maria: quadrunviro della "marcia su Roma" e governatore della Somalia (1923-1928), votò l'ordine
del giorno Grandi.
Duar: gruppi di resistenti armati libici.
Dubat: ascari somali.
Federzoni Luigi: dirigente dell'A.N.I., monarchico filocattolico e antisocialista, favori l'espansione coloniale. Fu
ministro delle Colonie (1922-1924 e 1926-1928) e dell'Interno (1924-1926). Votò l'ordine del giorno Grandi del 1943.
Fitaurari: comandante dell'avanguardia dell'esercito etiopico. Titolo nobiliare assimilabile a quello di visconte.
Giolitti Giovanni: liberale, fu ministro del Tesoro (18891890) nel gabinetto Crispi. Il suo primo ministero ebbe vita
breve. Ministro dell'interno nel governo Zanardelli (19011903), presiedette quasi ininterrottamente tre ministeri (1903-
1914). Fautore della conquista della Libia, fu antinterventista nella I guerra mondiale. Di nuovo premier (giugno 1920-
giugno 1921) s'illuse di poter costituzionalizzare il movimento fascista.
Graziani Rodolfo: negli anni venti guidò spietatamente la riconquista fascista della Libia. Partecipò alla crudele guerra
di aggressione all'Etiopia ove da vicerè successe a Badoglio. Governatore della Libia, divenne ministro della Guerra
nella Rsi.
Hailè Selassiè: fu imperatore d'Etiopia (1930-1974). Intraprese una serie di riforme statali sino all'invasione italiana.
Tornò alla guida del suo Paese (1941) dopo l'esilio in Gran Bretagna, avviando la "modernizzazione" dell'impero
(limitazione dell'autonomia delle Chiese, centralizzazione militare, attacco all'aristocrazia terriera). Mori nel 1975.
Immirù Haile Sellase: cugino dell'imperatore, governò il turbolento territorio del Goggiam e difese (1930) la prima
Costituzione etiopica. Fu uno dei capi più prestigiosi nella lotta di Resistenza antifascista. Fu confinato in Italia
(Asinara, Ponza, Lipari). Nel 1942 venne trasferito in un campo di concentramento a Longobucco. La sua prigionia
terminò nel 1943 con lo sbarco alleato.
Lessona Alessandro: Sottosegretario alle colonie, fu ministro delle Colonie (giugno 1936 - aprile 1937) e dell'Africa
italiana (aprile 1937 - novembre 1937). Fu uno degli artefici della conquista e dell'amministrazione dell'Etiopia.
Allontanato dagli incarichi politici insegnò Diritto coloniale all'Università di Roma.
Madamismo, madamato: forma di concubinaggio fra europei e africane, considerato reato. Sciarmutta è la prostituta.
Marinetti Filippo Tommaso: fondatore del futurismo (1909). Nazionalista acceso pubblicò il saggio Guerra sola igiene
del mondo (1913). Sostenne il fascismo e aderì alla Rsi.
Martini Ferdinando: primo governatore civile dell'Eritrea (1897-1907). Deputato liberale fu ministro dell'Istruzione
(1892-1893) e ministro delle Colonie (1914-1916).
Mededé: milizia irregolare etiopica.
Menelik II: ras dello Scioa (1865-1889), imperatore d'Etiopia ((1889-1913), stipulò con l'Italia il trattato di Uccialli
(1889) e ne sconfisse le truppe ad Adua. Nel 1886 fondò Addis Abeba e gettò le basi del moderno Stato etiopico,
riconosciuto internazionalmente nel 1906.
Meslanie: capi-villaggio etiopici.
Metruke: proprietà di villaggio.
Miani Giovanni: esploratore veneto impegnato nell'individuazione delle sorgenti del Nilo Bianco.
Miri: demanio statale.
Mulk: proprietà terriere libere.
Negus: re; negus neghesti: re dei re, imperatore.
Ras: in amharico e tigrè indica il capo. Titolo "feudale" che designa alti dignitari dello Stato etiopico. Generalissimo,
governatore di provincia. Titolo nobiliare equivalente a duca. Il ras è, in realtà, un grande proprietario terriero.
Rocco Alfredo: nazionalista, aderì in seguito al fascimo. Ministro della Giustizia (1925-1932) e artefice delle leggi
eccezionali, si battè per l'eliminazione del carattere elettivo della Camera. Antiliberale e antigiusnaturalista, promulgò il
Codice penale fascista da cui prese il nome (Codice Rocco).
Salvago Raggi Giuseppe: governatore dell'Eritrea (1907-1915) in sostituzione di Martini.
Sapeto Giuseppe: missionario lazzarista ligure, giunse in Etiopia nel 1838. Lavorò attivamente per facilitare la
penetrazione europea in Corno d'Africa (guidò un'ambasceria di Napoleone III). Fu tra gli artefici dell'acquisto della
baia di Assab da parte del governo italiano.
Scek; capo religioso.
Shura: consiglio dei capi-tribù. Parlamento.
Vakuf. proprietà terriera di istituti ed ordini religiosi.
Vali: governatore.
Vilayet: provincia.
Volpi Giuseppe: finanziere veneto, governatore della Libia (1921-1925).
Zaptiè: carabinieri.
Zavia: centro di culto e commerciale di zona in Libia.

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