Sviluppatosi tra gli anni 50 e 60 del Novecento, il
movimento si pone in forte polemica con tutto ciò che può essere riconducibile a una forma, sia essa figurativa o anche puramente astratta. All'interno del movimento possono individuarsi varie matrici, che traggono soprattutto spunto dalla rivisitazione del Dada, dell'Espressionismo e del Surrealismo.
Passioni, tensioni, disagi devono essere espressi
nel modo più libero, spontaneo e violento possibile, al di fuori di qualsiasi schema precostituito e contro ogni regola normalmente accettata. L'evento artistico, svuotato da qualsiasi residuo valore formale, si esaurisce con l'atto stesso della creazione e fondamentale importanza viene assunta soprattutto dai materiali impiegati. Essi non sono più un semplice mezzo del quale l'artista fa uso al fine di dare forma concreta alle proprie idee ma diventano i veri protagonisti dell'opera d'arte. Superfici rugose richiamano alla mente sensazioni di spiacevolezza e conflitto, mentre superfici morbide e levigate indurranno alla dolcezza e serenità. Le due componenti fondamentali dell'Informale sono: il gesto e la materia. Il primo viene enfatizzato in quanto lo si ritiene l'unico momento veramente creativo. Fare arte non significa più realizzare pitture o sculture, ma diventa l'atto stesso di eseguirle. Di conseguenza il valore artistico si trasferisce nel gesto e non più nel prodotto di quel gesto. Ecco che il gesto può essere un gesto qualsiasi, può anche essere simbolico, come tagliare una tela o un gesto di provocazione, come quello di apporre la propria firma (una firma d'artista!) sul corpo nudo di una modella o, ancora, un gesto di protesta, come quello di realizzare sculture fatte di rottami. Tutto può diventare arte. L'artista informale, non è più colui che crea nuovi eventi, ma colui che sa lasciarli accadere, limitandosi magari a favorirne e a spettacolizzarne l'attuazione con la spontaneità del caso o la fantasia del sogno.
L'evento artistico è ormai privo di ogni valore
stilistico e il suo solo significato è rappresentato dal processo creativo seguito dall'autore e dai materiali con cui l'opera è realizzata. Jean Fautrier (1898-1964) ● Francese, è tra gli iniziatori della pittura informale europea ● Negli anni Quaranta, durante l'occupazione nazista della Francia si rifugia in un ospedale per malati di mente e realizza la serie di dipinti conosciuta come Ostaggi. Dall'ospedale osserva ciò che i tedeschi compiono sui prigionieri. ● Utilizza un linguaggio fortemente espressivo, utilizzando il colore puro in aggiunta a colla, segatura, olio e altre sostanze. ● Testa di ostaggio: allude, pur mantenendosi volutamente lontano da una precisa riconoscibilità figurativa, alla testa di un partigiano morente. Il colore si fa denso o melmoso, simula le ferite. Testa di ostaggio, olio su carta, 35x27 cm, Parigi Jean Dubuffet (1901-1985) ● Pittore francese autodidatta. Nel 1945 conia la provocatoria definizione di Art brut (Arte bruta), con la quale identifica tutte quelle manifestazioni espressive spontanee ed elementari, lontana da codificazioni e spesso nata senza alcuna intenzionalità artistica: graffiti tracciati sui muri agli scarabocchi dei bambini, fino ai disegni dei dilettanti o degli alienati mentali ● Segno libero e spontaneo ● L'Ebrea: donna nuda resa mediante un disegno schematico, privo di proporzioni, invadendo la tela fino a toccarne i bordi. Linguaggio spontaneo privo di elaborazioni razionali, carico di un'energia “bruta” che si può assimilare a quella delle rappresentazioni primitive o degli scarabocchi infantili L'Ebrea, 1950, olio su tela, 116x88 cm, New York, (MoMA) Francis Bacon (1909-1992) ● Una posizione a parte, solitaria e personalissima, è quella di Bacon. Autodidatta, viaggia tra Berlino e Parigi, attraverso un percorso molto travagliato sul piano esistenziale. Subisce inizialmente gli influssi del Cubismo e del Surrealismo. Le sue fonti d'ispirazione affondano nell'angoscioso dramma umano, già indagato da Bosch, Van Gogh e Munch. ● Nasce in una famiglia agiata e autoritaria dell'alta borghesia irlandese. Dopo aver manifestato la sua omosessualità viene cacciato di casa a 16 anni e si trasferisce a Londra ● L'Informale in Bacon non consiste tanto nell'assenza di figurazione, ma in una figurazione distorta in cui compaiono esseri umani soli. ● Per la scelta dei soggetti si serve di fotografie traendo suggerimenti per immagini sfocate, deformate. Il ricorso alla fotografia e a fonti pittoriche note (che egli sa trasformare e piegare alla sua volontà artistica e alla sua tecnica pittorica) è la dimostrazione di quanto l'artista ha più volte pessimisticamente affermato, non c'è niente di nuovo da inventare e che tutto è già stato detto e fatto. Restituisce il dramma esistenziale dell'uomo contemporaneo. Si tratta di una rappresentazione soggettiva dove i corpi dei personaggi sono scomposti, deformati o trasformati in entità mostruose. Le figure sono ritratte in interni desolati: pochi arredi. Rendere visibili aspetti nascosti dell'interiorità umana facendo emergere forze istintive. Sin dagli esordi la sua pittura sfugge alle operazioni di inquadramento e classificazione e suscita reazioni decise, che vanno dalle frequenti stroncature ai rari apprezzamenti. Quadro 1946: nel 1934 si tiene a Londra la prima mostra personale dell'artista, che fa registrare una scarsa attenzione del pubblico e della critica; due anni dopo la frustrazione vissuta a causa di questo evento è aggravata dall'esclusione di una prestigiosa esposizione surrealista che non accetta la sua poetica. Dopo tali delusioni, che portano l'artista a distruggere molti suoi quadri, Bacon realizza opere di notevole violenza espressiva. L'opera è frutto di un processo di improvvisazione libera, si presenta come un monumentale accostamento di elementi incongrui, in cui compaiono tende avvolgibili, carcasse bovine e un inquietante personaggio, con un fiore giallo appuntato sul petto e il volto in parte oscurato da un ombrello che lascia in luce soltanto un ghigno. Il quadro non è dominato da una logica razionale Quadro 1946, olio e pastello su tela di lino, 197x132 cm, New York, (MoMA) Studio dal ritratto di papa Innocenzo X di Velàzquez: reinterpreta in chiave moderna un celebre ritratto seicentesco del grande maestro spagnolo. Ghigno, bocca spalancata, spazio senza tempo, recinto giallo che è sia trono che gabbia. Il grido angoscioso del personaggio si propaga nell'aria scura come attraverso un velario, per cui le forme sono suggerite, più che delineate, nel desiderio che in ogni suo dipinto dovesse essere riconoscibile “una traccia che ricordasse avvenimenti passati, come la bava lasciata dalla lumaca al suo passaggio” Studio dal ritratto di papa Innocenzo X di Velàzquez, 1953, olio su tela, 153x118 cm, Des Moines (Iowa) Velàzquez, Ritratto di Innocenzo X, ca. 1649.50, olio su tela, 140x120 cm, Roma, Galleria Doria Palphilj Tre figure in una stanza: rielabora anche tipologie e formati codificati come il trittico, che utilizza per la possibilità di presentare simultaneamente molteplici punti di vista di un personaggio o di una scena. Il corpo di un uomo è colto in tre momenti distinti: seduto in bagno, abbandonato su di una poltrona e in torsione su uno sgabello.
E' suggestionato dalle opere di Michelangelo,
Velazquez, Degas e Van Gogh Tre figure in una stanza, 1964, olio su tela, trittico, ciascun pannello 198x147 cm, Parigi, Musée National d'Art Moderne, Centre Georges Pompidou Studio di George: nel 1963 inizia la relazione con George Dyer, che diventa soggetto ricorrente dei suoi quadri. Qui si concentra sull'espressione del volto. Al centro di una stanza il protagonista in giacca e cravatta è seduto su una poltrona girevole; al suo fianco uno specchio rettangolare. Il corpo del protagonista è come sconvolto da una forza centrifuga, che ne disgrega i profili e che intacca anche il ritratto vero e proprio del volto riflesso nello specchio. Studio di George Dyer allo specchio, olio su tela, 1968, 198x147 cm, Madrid, Museo Thyssen- Bornemisza Informale in Italia ● Declinazione concentrata sul valore del gesto e del segno (Emilio Vedova, Carla Accardi, Giuseppe Capogrossi, Pietro Consagra) ● Accardi: segni ripetuti. Segni bianchi sullo sfondo nero ● Capogrossi: insistita concentrazione di un solo segno “a forchetta”, formato da un semicerchio attraversato da una corda a sua volta tagliata da due segmenti paralleli. Indaga sull'essenza del segno stesso Carla Accardi, Grande integrazione, 1957, tempera su tela, 131x263 cm, Milano, Museo del Novecento Giuseppe Capogrossi, Superficie 470, 1962, olio su tela, 146x97 cm, Collezione privata Alberto Burri (1915-1995) ● Nasce a Città di Castello (Perugia) e si laurea in medicina ma nel 1944 è prigioniero di guerra in un campo di concentramento americano. E' forse proprio l'esperienza della prigionia a far maturare in lui il desiderio di accostarsi alla pittura che, una volta liberato, inizia a praticare a tempo pieno. Si stabilisce a Roma interessandosi a fondo alle problematiche della materia. Userà nelle sue opere materiali poveri di varia natura: dai semplici sacchi di iuta ai sottili fogli di cellophane, passando ai legni bruciati e le lamiere saldate. Rifiuta le tecniche tradizionali per sperimentare materiali nuovi e poveri attraverso processi di trasformazione. ● Serie dei Catrami, Muffe, Sacchi, Legni, Ferri, Combustioni, Plastiche e Cretti ● Affetto da una grave insufficienza respiratoria muore a Nizza Sacco B, 1953, sacco, tela, plastica, olio, vinavil su tela, 100x86 cm, Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Sacco B: pezze di juta logore e lacerate sono ricomposte in un calibrato insieme di suture e rattoppi a cui si aggiungono stesure pittoriche nere e lacerti plastici che emergono al di sotto del tessuto strappato. Tutto il significato dell'opera è nella sua cruda materialità. I Sacchi non intendono veicolare messaggi o significati specifici. Le cuciture rappresentano le qualità pittoriche e cromatiche della materia.
L'intervento dell'artista non è casuale in quanto
armonizza gli accostamenti in relazione al colore. Non è un semplice collage. Burri utilizza i sacchi affinché essi ci narrino la loro storia; una storia modesta e mai retorica, parallela a quella degli uomini che li hanno usati. Sacco e Rosso, 1954, acrilico e ritagli di sacco su tela, 86x100 cm, Londra, Tate Gallery Combustione Legno, 1956, legno, pietra pomice, plastica, olio vinavil, combustione su tela, 150x100 cm, Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Burri non vuole esprimere emozioni o messaggi simbolici, ma intende veicolare unicamente il senso di bellezza e di pregnanza della materia e di un'azione artistica. Sottopone il legno all'azione del fuoco ottenendo superfici carbonizzate di diversa grandezza e intensità. Rosso plastica, 1964, plastica, acrilico, combustione su tela, 132x117 cm, Città di Castello Il materiale sintetico è tormentato dalla mano dell'artista che guida la fiamma. Il risultato drammatico e inquietante esalta e allo stesso tempo nega la materia, manifestando un approccio espressionista del tutto peculiare.
Conciliando caratteri pittorici ed elementi scultorei,
anche Burri, come Fontana, supera la tradizione e sintetizza una nuova forma di arte totale. Grande Cretto nero Capodimonte, 1978, ceramica, 500x1500 cm, Napoli, Museo di Capodimonte Cretto nero, 1976 Ricerca sempre e comunque materie povere, trascurate, spesso rifiutate. Utilizza colore nero acrilico e vinavil spalmato su un pannello di cellotex, un materiale industriale composto da trucioli di segatura e colla pressati a caldo. Il risultato che ne deriva è quello di una superficie irregolarmente e casualmente crettata. Evoca la terra umbra arsa dal sole.
Negli anni Ottanta la monumentalità di queste realizzazioni
cresce fino a toccare la dimensione paesaggistica nel Grande Cretto di Gibellina, cittadina siciliana rasa al suolo da un terremoto nel 1968. L'artista ricopre le macerie del paese con una gettata di cemento di oltre 80000 metri quadrati, suddivisa in 122 blocchi irregolari da crepe ampie come vicoli urbani. Il cretto si tramuta così in un caso di Land Art. Grande Cretto, 1984-1989, Gibellina