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Andrea Zhok

Introduzione alla “Filosofia della Psicologia”


di L. Wittgenstein (1945-1951)

Edizioni Unicopli - Milano

2000
7

INTRODUZIONE

Gli ultimi anni della riflessione di Ludwig Wittgenstein, dal 1945-6 fino alla morte,
sono caratterizzati da una crescente focalizzazione della sua indagine su questioni connesse
alla natura dei concetti psicologici rispetto alle analisi dedicate in precedenza prevalentemente
a tematiche logiche, semantiche ed epistemologiche. Questo spostamento di interesse avviene
però senza soluzioni di continuità rispetto al lavoro precedente e non è dunque possibile
stabilire senza una certa dose di arbitrarietà, un punto testuale o cronologico in cui la
concettualità psicologica diventi realmente il tema dominante nella teorizzazione
wittgensteiniana. Ciò che è possibile dire è che nel corso dell’elaborazione delle Ricerche
Filosofiche 1 i temi della comprensione del significato e dell’immagine, centrali sin dai lavori
preparatori alla redazione del Tractatus, vengono analizzati con crescente riferimento a
problemi tradizionalmente appartenenti alla sfera delle analisi psicologiche: la natura delle
sensazioni, delle emozioni, del pensiero, della volontà, ecc.
La concettualità psicologica viene sottoposta a tematizzazione approssimativamente a
partire dalla metà della prima parte delle Ricerche, per poi diventare il tema essenziale della
seconda parte; a questa elaborazione corrisponde un lavoro preparatorio di osservazioni ed
annotazioni che va dalla fine del 1945 alla metà del 1949. A questa fase corrispondono i
manoscritti 130-138 nell’ordinamento dei curatori del lascito wittgensteiniano; dai manoscritti
130-137 Wittgenstein trasse due dattiloscritti (229 e 232) pubblicati poi sotto il titolo di
Bemerkungen über di Philosophie der Psychologie. 2 Parte del manoscritto 137 e l’intero 138
non furono invece rivisti da Wittgenstein, e la loro pubblicazione pressoché integrale è
avvenuta sotto il titolo di Letzte Schriften über die Philosophie der Psychologie. 3 Da entrambi
questi gruppi di annotazioni Wittgenstein trasse una scelta di osservazioni (manoscritto 144)
che divennero poi la seconda parte delle Ricerche filosofiche. 4 Tuttavia l’analisi

1
Ludwig Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Torino, Einaudi, 1967. Citate d’ora in poi, salvo diversa
specificazione, nella traduzione italiana in Ricerche Filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, e menzionate con
RF, seguito dal paragrafo o dal numero di pagina (per la II parte delle Ricerche e per le annotazioni non
segnalate con paragrafo).
2
D’ora in poi citeremo questo testo, salvo diversamente segnalato, nella sua traduzione italiana in
Osservazioni sulla filosofia della psicologia, a cura di R. De Monticelli, Milano, Adelphi, 1980. Citeremo
il primo dattiloscritto con FP1, ed il secondo con FP2.
3
D’ora in poi citeremo questo testo, salvo diversamente segnalato, nella sua traduzione italiana in
Wittgenstein. Ultimi Scritti. La filosofia della psicologia, Roma-Bari, Laterza, 1998, con FP3.
4
La decisione di considerare queste osservazioni come parte integrante delle Ricerche e, in parte, il loro
ordinamento stesso, sono di iniziativa dei curatori delle Ricerche, E. Anscombe e R. Rhees. Che questa
scelta possa essere giustificata è tanto certo quanto il fatto che difficilmente Wittgenstein l’avrebbe
8

wittgensteiniana della concettualità psicologica non si conclude affatto qui, né Wittgenstein


riteneva tale analisi in qualche modo compiuta con il florilegio pubblicato nelle Ricerche; agli
anni 1949-1951 appartengono alcune delle analisi più interessanti connesse a temi psicologici,
dai manoscritti sulla questione del rapporto tra interno ed esterno, 5 alle osservazioni sulla
certezza 6 e sui colori 7.
Il carattere di una parte di queste ultime osservazioni, in particolare tra quelle presenti
nelle osservazioni pubblicate come Della certezza, rivela un orientamento immanente alla
riflessione wittgensteiniana che lo induce a riprendere un’ottica “ontologica”, nella misura in
cui al centro di tale elaborazione viene a trovarsi la questione del rapporto tra credenza ed
essere. Nell’ambito della presente analisi questo aspetto, che consideriamo di transizione tra
concettualità psicologica e tematica ontologica, non verrà tuttavia preso in considerazione, se
non marginalmente. Infatti l’intento del presente lavoro è quello di fornire una chiave di
lettura introduttiva specificamente alla “filosofia della psicologia” di Wittgenstein, intesa
come ordinamento quasi-sistematico di analisi. È indubbio che ogni estrapolazione di
argomenti o gruppi di argomenti dal continuum della riflessione wittgensteiniana sia
un’operazione discutibile (ancorché consueta). Ma crediamo che, nella misura in cui ciò possa
avere legittimità, questa operazione è singolarmente opportuna nel caso delle osservazioni
sulla concettualità psicologica. Questo per due ragioni. In primo luogo in quanto sembra
possibile riconoscere nell’elaborazione successiva alla parte I delle Ricerche qualcosa come
una sperimentazione di vie nuove, piuttosto che una precisazione di quanto già trattato. In
secondo luogo in quanto la quantità di materiale e l’usuale analiticità con cui i temi vengono
trattati fa di questo momento della riflessione wittgensteiniana quello più difficile da trattare
sinteticamente. Più che in altri momenti del suo lavoro, in rapporto alla «filosofia della
psicologia» Wittgenstein stesso ci fornisce alcuni tentativi di riorganizzazione e
sistematizzazione, la cui presenza nella lettura dei testi è tanto grata, quanto sorprendente. Il
tentativo di considerazione sinottica che troviamo testimoniato nel § 836 di PP 1, e nei §§ 45,
63 e 148 di PP2, (oltre che nella raccolta delle osservazioni sui colori) non trova
rispecchiamento nella seconda parte delle Ricerche, dove anzi Wittgenstein afferma

approvata: è infatti chiara tanto la discontinuità tra le due parti del testo, quanto alcune discontinuità interne
alla seconda parte in particolare. Avendone avuto la possibilità non c’è dubbio che Wittgenstein avrebbe
reso l’andamento testuale più omogeneo, così come aveva tenuto a fare per la prima parte.
5
Queste note sono pubblicate in italiano come seconda parte del menzionato Wittgenstein. Ultimi Scritti.
La filosofia della psicologia. Citeremo queste osservazioni come FP4.
6
Über Gewißheit, traduzione italiana in Della certezza, Torino, Einaudi, 1978. Citato come C.
7
Bemerkungen über die Farben, traduzione italiana in Osservazioni sui colori, Torino, Einaudi, 1977. Nel
prosieguo preferiremo però proporre le citazioni nella nostra traduzione dall’edizione Suhrkamp, 1984, che
segnaleremo come ÜG.
9

esplicitamente di non mirare affatto ad una classificazione dei concetti psicologici 8. Siamo
propensi ad interpretare questo contrasto come una contrapposizione tra la ferma volontà
wittgensteiniana di non sovrapporre a nessun costo un’«integrazione» per amor di sistema alla
sua «fenomenologia dei giochi linguistici» e l’esigenza interna all’analisi di addivenire ad una
qualche rappresentazione sinottica, esigenza la cui funzione nella ricerca di perspicuità
concettuale (Übersicht) Wittgenstein più volte rivendica. Ora, sarebbe sbagliato sottovalutare
le cautele e perplessità manifestate da Wittgenstein nei confronti di una sistematizzazione
forzata, tuttavia, in assenza di un orientamento unitario che guidi la lettura dei testi in
questione, il rischio maggiore è quello di abbandonarsi ad una lettura frammentata, ambigua,
oscillante tra l’estrapolazione travisante ed una frustrante incomprensione. Di fronte a questo
rischio il nostro intento è quello di cercar di fornire una sorta di mappa, comprensiva,
ancorché non esaustiva, dell’analisi wittgensteiniana della filosofia della psicologia, dei suoi
snodi concettuali, dei principi ordinatori che sembrano guidarne gli sviluppi. Questa proposta
interpretativa non ambisce affatto a «sostituirsi» in qualche modo alla lettura diretta delle
annotazioni wittgensteiniane, non mira a dire quel che davvero la sua «filosofia della
psicologia» è, al di là e al di sopra della faticosa e spesso disorientante esperienza di un testo
in fieri; il limitato obiettivo di questo lavoro è quello di consentire al lettore di riconoscere i
contorni generali delle relative argomentazioni wittgensteiniane e di affrontarne la lettura con
la guida di una provvisoria visione d’insieme, in modo di permettergli di addentrarsi con
interesse in questa selva concettuale di straordinaria ricchezza.
Il presente lavoro vuole dunque avere un carattere essenzialmente introduttivo,
elementare quanto la materia trattata lo consente, e non particolarmente sviluppato sul piano
critico. Un certo grado di elaborazione teoretica sarà comunque richiesta già semplicemente
dal tentativo di fornire il quadro sinottico che desideriamo qui esporre. In questo senso
abbiamo preso la decisione di sopprimere pressoché ogni confronto con altre interpretazioni
(peraltro non numerose) di questa fase della speculazione wittgensteiniana; ad esse faremo
riferimento in bibliografia, a beneficio di chi fosse interessato ad approfondire l’argomento.

8
RF, p.539.
10

VERSO LA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA

1. Immagine e soggetto.
L’interessamento alla concettualità psicologica da parte di Wittgenstein è
particolarmente degno di esame se si rammenta come l’intera impostazione della sua
riflessione iniziale, così come essa emergeva nel Tractatus Logico-Philosophicus (1921),
contraddiceva la possibilità stessa che si parli legittimamente di qualcosa come una psiche, un
soggetto rappresentante e volente. Se il pensiero fondamentale del Tractatus è riassumibile in
una formula, essa potrebbe essere la seguente: il Tractatus presenta l’ontologia propria della
nozione di verità come corrispondenza alla realtà; l’essere viene, per così dire, diviso in una
parte di cui si può dire il vero e che dunque è soggetta a discussione razionale, ed in una parte
di cui, senza negarne l’esistenza o l’importanza, è impossibile parlare sensatamente in quanto
trascende ogni possibile rappresentazione veritativa (l’etico, l’estetico, ed in un senso
importante anche lo psicologico).
La riflessione del Tractatus si incardina sulla nozione di “immagine”: noi ci facciamo
immagini dei fatti, 9 l’immagine è un modello della realtà 10 e raffigura la realtà in quanto
rappresenta una possibilità del sussistere e non-sussistere degli stati di cose 11. L’immagine
così intesa non è semplicemente l’immagine in senso spaziale o cromatico, al contrario ogni
proposizione è un’immagine della realtà 12, ed il pensiero, che è nient’altro che la proposizione
in quanto dotata di senso 13, è l’immagine logica dei fatti 14. L’immagine – dice Wittgenstein –
e dunque la proposizione, deve proiettarsi sulla realtà per virtù propria: la relazione
rappresentativa che la rende un’immagine deve appartenere all’immagine stessa (al
linguaggio) 15, pena un regresso esplicativo infinito; infatti, se dovessimo aggiungere
all’immagine (proposizione) qualcosa di estraneo al fine di connetterla con la realtà, cioè di
renderla capace di significare la realtà, ci ritroveremmo semplicemente con l’ulteriore
problema di connettere questo elemento allotrio con la proposizione da un lato e la realtà
dall’altro. Perciò l’immagine deve essere congenere con la realtà, ed il Wittgenstein del
Tractatus ne è talmente convinto da asserire senz’altro che l’immagine è un fatto 16.

9
Tractatus Logico-Philosophicus (d’ora in poi TLP) 2.1.
10
TLP 2.12.
11
TLP 2.201.
12
TLP 4.01.
13
TLP 4.
14
TLP 3.
15
TLP 2.1513.
16
TLP 2.141.
11

Wittgenstein rifiuta, qui come in seguito, di rinviare le difficoltà del rapporto tra pensiero e
realtà col rimuoverle all’interno del soggetto: dire, come si è spesso tentati, che l’immagine-
proposizione si connette alla realtà perché noi, i soggetti, la intendiamo così, non fa che
spostare il problema, collocandolo in una zona per definizione inaccessibile, senza risolverlo.
In questa prospettiva il soggetto nel Tractatus viene senz’altro cancellato dal piano della
verità e del senso: una proposizione del tipo “A crede che p” secondo Wittgenstein ha la
forma della proposizione “«p» dice che p” 17, si tratta cioè di una connessione tra due fatti, tra
la proposizione che occorre accidentalmente «in» una persona, senza che ciò ne influenzi il
significato, ed il fatto che essa rappresenta. Se il pensiero è sensato allora esso esprime una
possibilità logica, la possibilità del sussistere o non sussistere di uno stato di cose, e perciò il
contenuto pensato non è influenzato quanto al suo significato dall’occorrere in un soggetto
piuttosto che in un altro. Il soggetto è parlato dal linguaggio, è coestensivo con il suo
linguaggio 18, non è soggetto creatore, né soggetto interpretante; nel mondo compaiono
uomini, corpi viventi, ma non soggetti: il soggetto in quanto pensante, rappresentante non si
dà 19, il soggetto dunque non appartiene al mondo.
Questo è lo statuto della soggettività nel pensiero wittgensteiniano all’inizio degli anni
’20. Il processo di revisione ed autocritica che Wittgenstein avvia a partire dalla fine di quella
decade lo porterà a modificare alcuni importanti tesi del Tractatus, a partire dalla concezione
del linguaggio come immagine, come ordine di segni essenzialmente denotativo; a ciò viene a
sostituirsi una comprensione del linguaggio in cui si riconoscono molteplici funzioni, legati
ad usi linguistici particolari (giochi linguistici) di cui la funzione implicita nella forma del
giudizio soggetto-predicato è soltanto un caso speciale. Ora, però, come questo debba
riflettersi sulla concezione della soggettività non è facilmente deducibile dai cambiamenti
principali avvenuti nel modo di intendere la natura del linguaggio e del significato. È chiaro
che del soggetto è ora legittimo parlare, ma è altrettanto chiaro che ciò non implica una
reintroduzione di un soggetto come interiorità creatrice: per Wittgenstein la natura linguistica
della soggettività non è messa in discussione, la psicologia filosofica, se qualcosa è, deve
essere grammatica.

17
TLP 5.542.
18
TLP 5.6.
19
TLP 5.631.
12

2. La natura dei giochi linguistici

La nozione di “gioco linguistico” viene introdotta da Wittgenstein a partire dalle lezioni


tenute a Cambridge all’inizio degli anni ’30, intendendo questa espressione perlopiù come
equivalente con “linguaggi primitivi”, linguaggi più semplici di quelli secondo cui i segni
vengono utilizzati nel nostro complicato linguaggio quotidiano. L’introduzione dello
strumento concettuale del “gioco linguistico” ha innanzitutto un senso negativo: per
Wittgenstein si tratta di evitare l’erronea generalizzazione sulla natura del linguaggio che nel
Tractatus lo aveva indotto a concepire l’intero linguaggio come essenzialmente vero-
funzionale, apofantico. Prima di lasciarsi andare ad una considerazione di ampio respiro del
Linguaggio è compito del filosofo di porre attenzione a come ciò che chiamiamo linguaggio
nel nostro discorrere quotidiano viene appreso ed utilizzato quotidianamente. Il concetto di
gioco linguistico è introdotto come analisi di un uso “locale” del linguaggio, di un
procedimento idealmente conchiuso, descrivibile attraverso una fenomenologia dell’utilizzo
di certe parole in certi contesti: il significato di «Grazie!» è appreso nel gioco circoscritto del
riconoscimento di un favore, ed il significato di «Prego!» vi ricopre una posizione
reciprocante univocamente determinata; questo elementare scambio di espressioni è già un
gioco linguistico, capace di determinare e trasmettere significati. Per intendere il significato di
una parola o di una proposizione dobbiamo fare riferimento al loro uso effettivo, senza
sovrapporre una concezione preconcetta di cosa tale uso dovrebbe essere, e l’applicazione
effettiva è proprio quanto viene esposto in forma di gioco linguistico. Si può dire che, in
sostanza, il principale passaggio nell’analisi del significato che occorre tra il Tractatus ed il
lavoro successivo consta di una materializzazione di ciò che nell’opera prima era il “metodo
di proiezione”, la connessione lineare, raffigurativa, tra linguaggio e realtà. Nel Tractatus,
coerentemente con una visione del linguaggio come portatore di giudizi vero-funzionali, le
espressioni linguistiche dotate di senso proiettavano il proprio significato sulla realtà
attraverso una «molteplicità logica comune»: come in un progetto meccanico alle parti
disegnate corrispondono parti da comporre nella realtà, che riconosciamo iconicamente dal
progetto, senza bisogno di ulteriori mediazioni, così la proposizione ci dovrebbe consentire il
riconoscimento degli «oggetti» che occorrono nel fatto che la proposizione descrive. Questo
passaggio tra elemento della proposizione ed elemento della realtà («nomi» ed «oggetti» nella
terminologia del Tractatus) era immaginato come qualcosa di lineare, di privo di dimensioni
ulteriori rispetto alla sua natura di connessione. Non che Wittgenstein nel Tractatus fosse
inconsapevole della complessità reale del linguaggio, della sua varietà o del fatto che il
13

linguaggio viene appreso nell’uso, ma tutto ciò veniva coperto dall’esigenza di una
corrispondenza univoca tra proposizioni e fatti, postulata come condizione del funzionamento
della verità. Tale modo di proiezione diventa processo, pratica, uso linguistico in cui il
protagonista della determinazione semantica non è più il segno inteso come mero nome,
indice, ma è il comportamento dei parlanti nella loro quotidianità. La nozione di gioco
linguistico, atta a descrivere tali comportamenti linguistici con le loro peculiarità, viene
introdotta in perfetto parallelismo con la nozione di “forma di vita” (Lebensform):
“Immaginare un linguaggio” – “scrive Wittgenstein – “significa immaginare una forma di
vita” 20. Il gioco linguistico non è tanto «parte» della forma di vita, quanto specchio di essa: la
descrizione del giuoco linguistico è descrizione della forma di vita in quanto ambiente
operativo del linguaggio. Questo ambiente operativo rientra continuamente nella descrizione
del funzionamento dei giochi linguistici in forma di circostanze tipiche, di esempi, gesti,
oggetti esemplari (campioni): il gioco linguistico è un’elaborazione di un comportamento più
primitivo, prelinguistico, e rimane esso stesso comportamento 21. In altri termini il gioco
linguistico è comportamento linguistico che si è già sempre appropriato di ulteriori fattori
“esterni”, di circostanze ambientali, contesti e comportamenti corporei. Ora, in questo quadro
potrebbe sembrare che di nuovo, sia pure in modo diverso che nel Tractatus, lo spazio per una
soggettività autonoma venga meno, ridotto a fattori tutti “esterni”, oggettivi: al linguaggio, al
comportamento fisico, all’ambiente. D’altro canto nell’uso linguistico stesso, che è ciò da cui
dobbiamo farci insegnare il significato, distinzioni concettuali come “interno” ed “esterno”,
“io” e “lui” giocano un ruolo innegabile ed importante. È proprio all’intersezione di questi
concetti con l’unità-differenza tra comportamento linguistico e comportamento corporeo, che
porremo particolare attenzione nel prosieguo dell’analisi, cercando di articolare ed ordinare
secondo queste coordinate generalissime i concetti psicologici che analizzeremo con
Wittgenstein.
La nostra considerazione della “filosofia della psicologia” prenderà le mosse dallo snodo
concettuale che rappresenta un po’ il ponte tra l’indagine gnoseologica e quella psicologica
nello svolgimento della riflessione wittgensteiniana, ovvero l’intreccio tra linguaggio,
pensiero ed immaginazione. Da questa discussione introduttiva l’analisi si diramerà seguendo
immanentemente i percorsi concettuali illustrati di volta in volta, seguendo i principi
ordinatori che emergeranno in tale discussione e quelli che Wittgenstein stesso ci fornisce nei
rari momenti in cui accondiscende ad un’esigenza classificatoria.

20
RF, § 19.
21
FP1, § 151.
14

CONCETTI PSICOLOGICI

Come abbiamo visto il tema dell’immagine e della sua natura affine al linguaggio ed al
pensiero sta al centro dell’elaborazione del Tractatus. Nel § 140 delle Ricerche Filosofiche
Wittgenstein ritorna sull’idea della proposizione come immagine, oramai ampiamente
superata attraverso la critica di molte delle sue conseguenze, e si chiede:
“Ma allora che genere di errore era il mio? L’errore che si potrebbe esprimere con le parole:
avrei creduto che quell’immagine mi costringesse a un determinato impiego? Ma come potevo
crederlo? Che cosa ho creduto qui? C’è dunque un’immagine, o qualcosa di simile a un’immagine, che
ci costringe a un’applicazione determinata, e il mio errore era dunque una confusione? – Potremmo
anche essere disposti a esprimerci così: ci troviamo, tutt’al più, in uno stato di costrizione psicologica,
ma non di costrizione logica. E qui sembra proprio che conosciamo due tipi di casi. (…) Il nostro
‘credere che l’immagine ci costringa a una determinata applicazione’ consisteva nel fatto che ci veniva
in mente solo un caso, e nessun altro. (…) E l’essenziale è vedere che, quando udiamo una parola, alla
nostra mente può presentarsi la stessa cosa, e tuttavia la sua applicazione può essere diversa.”

La questione di un’immagine che implica il suo significato (impiego, applicazione)


corre in parallelo con l’idea che la parola abbia una relazione di significazione univoca e che
il linguaggio, (obiettivisticamente concepito come sistema di segni), sia senz’altro il pensiero.
Nel Tractatus il segno linguistico doveva avere la medesima molteplicità logica del
significato, in modo analogo a come le note su di uno spartito devono potersi tradurre nelle
onde sonore della radio o nella percezione della relativa musica. Da ciò derivava anche
l’esigenza wittgensteiniana di correggere il linguaggio comune con una notazione più corretta
ogni qualvolta apparisse una discrasia tra segno e significato (ad esempio nel caso di
polisemie). La corrispondenza elemento ad elemento (nome ad oggetto, proposizione
elementare a stato di cose) tra linguaggio e mondo concepiva ogni nesso tra i due in una
forma simile all’ostensione, all’indicazione lineare, e così facendo escludeva come
contingenza ridondante ogni nesso comportamentale, psicologico, pratico tra parola ed
oggetto. A questa impostazione corrispondeva una distinzione netta tra il logico e lo
psicologico, laddove solo il primo aveva legittimità in una descrizione vera del reale. È a
questo livello che avviene quello che è forse l’essenziale spostamento concettuale tra il
Tractatus e le Ricerche, e che possiamo esaminare analizzando il concetto di “comprensione”
ed il suo nesso essenziale con la nozione di “immagine”.
Per ragioni di funzionalità nell’ordine di presentazione introdurremo la discussione
che segue sotto la voce generale «disposizioni», conformemente alle indicazioni
classificatorie wittgensteiniane ed anticipando l’analisi a venire.
15

DISPOSIZIONI

1. Comprendere
Il tema della «comprensione» accompagna tutto lo sviluppo del pensiero
wittgensteiniano, dall’idea propria del Tractatus che l’atto di comprensione sia
essenzialmente legato al “farsi un’immagine” della realtà da intendere, fino alla
problematizzazione intorno al “seguire una regola”, così come appare nella sua versione
definitiva nelle Ricerche.
Che “noi ci facciamo immagini dei fatti” è un fenomeno empiricamente incontestabile.
Da un lato, al risuonare di certe parole, espressioni, frasi, se richiesti circa cosa abbiamo
esperito, risponderemmo probabilmente che abbiamo avuto un’immagine di ciò che quei
segni dicevano; persino nel caso di termini sincategorematici, come «se» o «ma»,
tenderemmo a nominare qualcosa come un inconfondibile «sentimento» suscitato da queste
parole. Da un altro lato, quando cerchiamo di comprendere qualcosa di nuovo, ad esempio a
coordinare la rotazione in sensi opposti delle nostre braccia, accade che si dica di aver capito
il movimento dicendo che ce se ne è fatta un’immagine. E tuttavia, è legittimo concepire la
comprensione essenzialmente come la costituzione di un’immagine e dunque il significato
come una deduzione dall’immagine mentale? Scrive Wittgenstein:
“A cosa credo, quando credo che nell’uomo ci sia un’anima? A che cosa credo, quando credo
che questa sostanza contenga due anelli di atomi di carbonio? In entrambi i casi c’è un’immagine in
primo piano, ma il senso si trova lontano, sullo sfondo; cioè, l’applicazione dell’immagine non è facile
da cogliere chiaramente.” 22

“L’immagine c’è, e non contesto la sua correttezza. Ma che cos’è la sua applicazione? Pensa
all’immagine della cecità come a una oscurità nell’anima o nella testa del cieco.” 23

“In innumerevoli casi ci sforziamo di trovare un’immagine, e, una volta che l’abbiamo trovata,
la sua applicazione viene, per così dire, da sé; in questo caso, invece, abbiamo già un’immagine che
incombe su di noi ad ogni piè sospinto – ma non ci aiuta a uscire dalle difficoltà, che incominciano
solo a questo punto.” 24

Ciò che Wittgenstein ci presenta qui è un fenomeno tanto comune quanto importante.
Il nostro processo di comprensione frequentemente si compie con l’impressione di essersi fatti
un’immagine di ciò che era oggetto di apprendimento: richiamando questa immagine in
seguito saremo in grado di rievocare il complesso di riferimenti che ne costituisce il
significato. Ora, però, la tentazione di fronte a cui Wittgenstein ci mette in guardia è quella, di

22
RF, § 422.
23
RF, § 424.
24
RF, § 425.
16

cui lui stesso fu vittima, di concepire l’immagine mentale come portatrice intrinseca del
significato. In genere sentendo una parola la sua comprensione ci si presenta come una sorta
di immagine; ad esempio la “cecità” ci si può presentare come un’oscurità interiore.
Vogliamo chiamare questa connessione “uso-immagine” del linguaggio, in quanto è
un’applicazione immediata di unità linguistiche richiamanti immagini, o “gesti interiori”.
L’uso-immagine in certo modo segnala riassuntivamente l’esser-disponibile del significato
dell’unità linguistica in causa. Questo uso del segno può però essere vuoto o ingannevole; in
altri termini, un’immagine evocata, sia stata essa costituita da noi stessi nel passato, sia essa
recepita dall’uso comune, può risultare di fatto vuota, priva di ogni significato che vada al di
là dell’appagarci nell’impressione di conoscerne il significato, oppure, anche, può risultare
ingannevole, indicando un’applicazione che contraddice altre applicazioni dell’immagine
stessa. Accade che ci si “immagini di capire una parola” 25, cioè che ci si faccia un’immagine
provvisoria nel corso di una lettura o di un ascolto, e che poi ci si accorga che sviluppando
l’applicazione di quell’utilizzo il concetto si dimostri insostenibile, contraddittorio, o di
tutt’altra natura rispetto a quanto necessario nel contesto dato. È peraltro essenziale notare che
queste «immagini provvisorie» che abbiamo chiamato uso-immagine del segno, sono
assolutamente indispensabili nel corso della comprensione, e non rappresentano
semplicemente un accessorio psicologico trascurabile o dannoso. Quando conosciamo una
lingua noi saltiamo da una parola ad un’altra, come da uno scoglio affiorante a quello
successivo, poggiando sull’immagine che affiora, senza poter riandare ogni volta all’uso
complessivo che sta a fondamento di quell’immagine. La rapidità con cui si riesce a trovare
una composizione tra queste «immagini» è parte essenziale della competenza linguistica, ma
ciò non toglie che ci accada di scivolare, nell’uso, da un’applicazione all’altra sulla base di
una stessa immagine, ritrovandoci alla fine di fronte ad un’applicazione complessiva
insostenibile. Ora, come possiamo sapere che il possesso di un’immagine subitanea,
concomitante con l’uso di una parola o di una proposizione, ci garantisce la sua effettiva
comprensione, dunque ad esempio la sua non-contraddittorietà? Tra l’atto del capire ed il
momento dell’agire di conseguenza sembra esservi un abisso incolmabile 26; “tra l’ordine e
l’esecuzione c’è un abisso (Kluft). Esso dev’essere colmato dal comprendere.” 27 Ora, come ci

25
RF, p. 308.
26
Philosophische Grammatik, § 8. Citato da L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, Firenze, Nuova Italia,
1990, d’ora in poi menzionato con GF.
27
RF, § 431.
17

si può figurare l’atto della comprensione? Come è possibile comprendere d’un tratto ciò che si
applicherà nel tempo? Quando comprendiamo una regola, una proposizione 28?
Un momento essenziale nel procedimento di comprensione è rappresentato da un
processo di «traduzione» 29, di trasposizione immediata, come può essere l’imitare, o il
copiare 30. Un processo del genere è quello che si attua «comprendendo» la musica. Quando
ascolto un pezzo musicale con comprensione è comportamento caratteristico, che segnala un
qualche grado di comprensione, il fatto di accompagnare la musica con gesti, movimenti più o
meno evidenti, che possono andare da piccole contrazioni muscolari, svolte «seguendo il
ritmo», fino eventualmente a qualcosa come una danza; un’altra parte dell’accompagnamento
è data spesso da accenni di espressione, vocalizzando o fischiettando, in modo più o meno
trattenuto. Potremmo concepire una comprensione di un pezzo musicale del tutto priva di
questa forma di partecipazione? Ovvero: chiameremmo ancora un tale ascolto un ascolto
comprensivo? L’accompagnamento del pezzo spesso porta alla possibilità di anticiparne
l’andamento mentre è eseguito, e sulla medesima base anche di riprodurre in seguito il pezzo
indipendentemente, per noi stessi. In questo senso gesti comprensivi di accompagnamento
possono valere come indici di una comprensione, cioè di un processo che porta ad una forma
di «possesso» del compreso, e la loro assenza, secondo criteri esterni, può talvolta indicare
un’assenza di comprensione: se ad esempio qualcuno dicesse di comprendere un pezzo di
musica, ma lo accompagnasse fraintendendo continuamente il ritmo, saremmo inclini a
considerare la sua una comprensione illusoria. Ma dobbiamo dire allora che la comprensione
consta dell’esperienza d’accompagnamento della musica 31? Sono quei moti muscolari, quegli
accenni di canto, la comprensione della musica? Essi, si può dire, sono fattori caratteristici di
un processo di comprensione, ma non determinano di per sé la comprensione, giacché
potrebbe persino darsi che tale accompagnamento sia adeguato al pezzo musicale solo per
caso. Si potrebbe però dire forse che chi vive in prima persona tale accompagnamento deve
sapere se esso è autentico o è una finzione. Tuttavia ciò non raggiungerebbe comunque il
concetto di comprensione, giacché perché di comprensione possa parlarsi deve quantomeno
darsi la possibilità di un’apprensione stabile, conseguente a quell’esperienza
d’accompagnamento. Supponiamo infatti che dopo un tale accompagnamento, con vissuti
usuali e normali segni esteriori, qualcuno non fosse in grado di riprodurre alcuna parte del
pezzo musicale. Diremmo che lo ha compreso? Qui la risposta dipende integralmente da quale

28
GF, §12.
29
Wittgenstein, Vorlesungen 1930-5, Frankfurt, Suhrkamp, 1989 (d’ora in poi VO), p.46.
30
GF, § 7.
31
L. Wittgenstein, Zettel, Frankfurt, Suhrkamp, 1984, § 159. D’ora in poi citato con Z.
18

sapere viene richiesto come risultato: la capacità (o meno) di riproduzione può variare su di
una scala che va dalla riproduzione perfetta (magari la traduzione in note), alla dimenticanza
totale, anche del semplice fatto di aver ascoltato un pezzo di musica. Nel primo caso diremmo
certamente che comprensione c’è stata, nell’ultimo lo negheremmo altrettanto sicuramente:
potremmo dire che «sembrava capirlo», o forse che iniziava a capirlo, ma non che ha capito;
quanto ai casi intermedi, tutto dipende dai criteri applicati, e dai fini per cui il giudizio di
comprensione è dato. Dovremmo dire che questi criteri esterni valgono senz’altro anche per il
giudizio interiore del soggetto? Nel caso di una dimenticanza totale il problema non si
porrebbe neppure: il soggetto non saprebbe neppure di cosa mai dovrebbe testimoniare la
comprensione; e negli altri casi i criteri sembrerebbero essere sostanzialmente i medesimi: se
mi sembrava di aver capito qualcosa, ma ora non riesco a riprodurre nulla, neppure vagamente
il ritmo, dirò che in effetti non avevo capito, o avevo capito superficialmente
(inadeguatamente). Il caso della comprensione musicale è interessante come caso di
«comprensione primitiva», in cui (prescindendo dai musicisti di professione) non vi è un uso
ben determinato dei contenuti di cui giudicare la comprensione, come invece si dà per il
linguaggio. La comprensione primitiva musicale è analoga ad un processo di imitazione: si
imita la musica con una voce, ma anche con un gesto, così come si può riprodurre il ritmo, la
scansione di gesti o immagini attraverso suoni. Questo fatto può gettare luce su una notazione
che Wittgenstein fa, scrivendo: “È strano: vorremmo spiegare il capire un gesto come una
traduzione in parole, e il capire una parola come una traduzione in gesti. E di fatto
spiegheremo le parole con un gesto, e un gesto con parole.” 32 Nel linguaggio questa
traduzione reciproca tra gesti e suoni si mostra continuamente: “Nel linguaggio verbale c’è un
forte elemento musicale. (Un sospiro, l’intonazione della domanda, dell’annuncio, della
nostalgia, tutti gli innumerevoli gesti dell’intonazione).” 33 Questo fattore di imitazione,
traduzione, accompagnamento, o riproduzione appartiene alla costituzione di un
comportamento, di un concetto, di regole qualsiasi. Una tentazione da evitare è qui quella di
considerare la comprensione, sulla scorta del modo di darsi del suo risultato, cioè del sapere,
come un vissuto d’accompagnamento di quel processo di trasposizione. L’immagine da
evitare è proprio quella di un’immagine che accompagna il processo e che poi permane come
rappresentante dell’intero processo. È una tale idea che rende strana l’idea che si possano
spiegare gesti con parole e parole con gesti: se la comprensione constasse di una riconduzione
da una struttura secondaria ad una primaria, semplice, allora la comprensione sarebbe sempre

32
GF, § 5.
33
Z, § 161 (traduzione mia).
19

soltanto una traduzione in un senso, ad esempio dalle parole all’ostensione. Ma se la


comprensione fosse l’immagine, il vissuto terminale in cui la traduzione si è esaurita, allora
sarebbe possibile che, pur possedendo questa immagine, poi non si sappia ciò che l’immagine
promette di portare seco, non si sappia ciò che si è compreso 34. Questo è quanto
chiameremmo forse «comprensione apparente», non comprensione in senso proprio: posso
aver creduto di capire cosa fosse moto relativo e moto assoluto 35, oppure aver creduto di
capire una proposizione di contenuto matematico come la costruzione dell’ettagono regolare 36
o la proposizione di Goldbach, senza che dietro a questa apprensione vi sia alcuna
applicabilità coerente delle operazioni associate all’immagine. In questi casi il problema non è
dato tanto da come dobbiamo valutare il giudizio di questo o quel soggetto, quanto dal fatto
che il possesso di un’immagine, e di un certo uso limitato di essa, ci spinge ad assumere di
possedere, in nuce, già la possibilità dell’intero processo, dell’intero sapere. Restando sul
piano grammaticale si potrebbe dire, anticipando una discussione che seguirà: se la
comprensione fosse già definita da un determinato vissuto psichico (un’immagine, un
sentimento, ecc.), allora credere di aver capito equivarrebbe ad aver capito. In tal caso però il
concetto di “comprendere” non introdurrebbe quello di “sapere” (potere), non ne sarebbe il
momento iniziale (salvo modificare anche il concetto di «sapere», e poi avanti quelli che con
esso confinano). In altri termini, i criteri per decidere se ho capito non sono dati dalla mia
percezione soggettiva di un vissuto interiore, ma dalla capacità di compiere certe operazioni,
capacità che un altro deve poter mettere alla prova così come lo posso io. Il comprendere non
può dunque essere inteso come un «processo interno», non essenzialmente, giacché
«comprendere» è essenzialmente un accesso a «saper fare», «saper proseguire» (in qualche
modo e misura), dunque ad un potere per cui valgono criteri intersoggettivi.
Questa essenzialità di criteri di individuazione intersoggettivamente validi non
significa però che quando io dico di comprendere o di aver compreso, ciò esprima la stessa
cosa che potrebbe essere espressa da un altro a proposito della mia comprensione. L’uso nella
prima persona, sottolinea Wittgenstein, non ha i medesimi criteri dell’uso della terza persona,
ed in generale delle altre persone: “«Capisco», come pure «So andare avanti», è
un’espressione, un segnale.” 37 Se giudico di qualcuno che egli ha compreso qualcosa, mi
rifarò al fatto che è in grado di fare questo e quest’altro, e la mia affermazione mirerà a dar
conto proprio della conquista di questa capacità: quando invece io dichiaro di aver capito, la

34
Cfr. RF, § 152.
35
RF, p.308.
36
RF, § 517.
37
FP1, § 875.
20

funzione dell’espressione è quella di dar, per così dire, un’anteprima dello stato delle mie
capacità, informando l’interlocutore su qualcosa che poi quegli potrà eventualmente mettere
alla prova. Tuttavia non tutto in questa contrapposizione tra prima e terza persona appare
chiaro. Ci si può chiedere infatti quale accesso privilegiato io ho al mio comprendere, rispetto
a quello dell’altro. Cosa accade quando dico «Ora ho capito», «Ora so proseguire»?
Wittgenstein traccia alcuni possibili scenari: mentre mi si dà una serie di numeri da integrare
con i numeri successivi posso 1) tentare di escogitare un’equazione e poi vedere che essa è
confermata dalla serie finora esposta; 2) può accadere che semplicemente io senta una certa
tensione, mi chieda come si configura la serie delle differenze (ciò che è in comune a tutta la
serie) e mi dica che ora so proseguire; oppure 3) so proseguire senz’altro, senza alcuna
esperienza particolare (poniamo per una serie semplice come: 2,4,6,8...) 38. Nell’ultimo caso la
comprensione non nomina il processo di raggiungimento di un sapere, qui io non pervengo al
saper proseguire, ma semplicemente apprendo un dato e agisco di conseguenza. In tal caso ciò
che di nuovo io apprendo è piuttosto un’informazione che un concetto: qui comprendere si
avvicina a percepire. Se qualcuno mi dice il suo indirizzo e poi mi chiede se l’ho capito, in
questo caso non si vuol chiedere se la mia comprensione abbia operato una certa sintesi
concettuale, ma semplicemente se ho sentito e trattenuto ciò che mi veniva detto. Si può dire
comunque che tra la comprensione del primo caso e dell’ultimo c’è passaggio continuo, da un
massimo di mediazione nell’apprendimento ad un minimo di mediazione, in cui non la
comprensione scivola nella mera percezione. Ma, quand’anche un distinto atto di
comprensione, un processo di progressivo afferramento, si dia, posso pensare che esso sia
caratterizzata soltanto da una particolare sensazione, una tensione, un senso di soddisfazione e
simili? È una simile esperienza vissuta che mi dà la sicurezza di poter proseguire? Il primo
caso succitato sembrerebbe quello più caratteristico: qui c’è un’ipotesi ed una conferma
dell’ipotesi. Ma qui la nozione di ipotesi può essere ingannevole; potrebbe anche accadere che
l’ipotesi non abbia la forma di un’equazione, ma sia formulata in modo approssimativo (ad
esempio di fronte a 1, 5, 11, 19, 29,... pensare: «sempre 2 più della differenza...», in cui molto
di ciò che renderebbe l’espressione perspicua per un altro è taciuto, ma è sufficiente per me a
saper proseguire: 5 -1 = 4, dunque 5 + 4 (+ 2) = 11, ecc.). Non solo, può darsi che il distacco
tipico della formulazione di un’ipotesi sia del tutto assente, senza che perciò venga a mancare
un processo di «verifica»: si pensi alle operazioni di aggiustamento per prove ed errori nella
costruzione di un puzzle. Anche in questo caso io posso comprendere operazioni nuove, in
assenza totale o parziale di mediazione linguistica. Essenziale alla comprensione è che io

38
RF, § 151.
21

passi dalla ricezione all’azione, dal copiare il modello allo scrivere da solo,
dall’accompagnare la musica al fischiettarla, dall’impressione all’espressione. È questo punto
quello che giustifica l’inclinazione a dire che la comprensione va al di là di tutti gli esempi 39,
che io sento di sapere una regola, al di là dei singoli ricordi d’applicazione, nonostante io sia
in grado di dare all’altro, come spiegazione di ciò che so, soltanto esempi. In effetti l’aver
compreso va al di là di tutti gli esempi proprio perché io gli esempi li uso, sono io a dirli come
esempi, mentre l’altro li riceve e deve apprendere appena ad operare con questi segni. Io non
dico di aver capito e di sapere, sulla scorta del fatto che mi ricordo le mie passate applicazioni
della regola 40, mentre questo potrebbe essere il criterio che l’altro adotta per giudicare se io
abbia compreso davvero quella regola. Questo però non è motivato dal fatto che io abbia
davvero criteri differenti, più propriamente io applico criteri comuni, ma con dati che
emergono da una prospettiva differente. Ad esempio, io posso mettermi alla prova quando
voglio, anche senza farlo pubblicamente (posso chiedermi: so contare per 3? E dimostrarmelo
dicendo interiormente: 3, 6, 9, ecc.). Non sono i criteri dell’esperimento a cambiare tra la
prima e la terza persona, ma l’ordine e il luogo delle manifestazioni su cui i criteri si
esercitano: io porto sempre con me buona parte degli strumenti necessari per riprodurre
l’«esperimento». Questo accesso preferenziale alla mia propria comprensione non è
comunque mai garanzia ultima dell’effettiva comprensione, e ciò perché la sua effettività
riposa proprio sull’intersoggettività del criterio. Gli “strumenti” che porto con me, cioè
parole, immagini, magari «sensazioni», sono segni che posso adoperare privatamente, ma,
come vedremo meglio, non con criteri privati: la possibilità di sottopormi privatamente ad un
esame circa ciò che so, mostra ciò che ho capito, ma con questo non è detto che io sappia
cosa ho capito. A ciò si lega l’equivocità dell’uso-immagine delle parole, ad esempio: “Se
dico: «La rosa è rossa anche al buio», tu vedi addirittura questa rosa rossa davanti a te,
nell’oscurità.” 41 Una tale immagine, come la proposizione che la detta, possiamo dire di
capirla, e ciò significa che un qualche uso minimale siamo in grado di farne: al limite tale uso
può essere un uso estetico, come nella comprensione di una poesia: essa mi può dare una
determinata sensazione, forse «trasponibile» in prosa, magari dicendo che per quanto gli
uomini si affannino a considerare le qualità del mondo come dipendenti da essi, esse
sussistono indifferentemente dal loro giudizio (“La rosa è la rosa, senza perché...”, ecc.). Ma
un tale uso non mi dà garanzie circa un uso, ad esempio, scientifico della stessa immagine:
non è detto che sia comprensibile cos’è un colore in assenza di luce, anzi, una breve

39
RF, § 209.
40
RF, § 147.
22

riflessione ci mostra subito che quanto suggerito è senz’altro fisicamente incomprensibile, che
l’immagine è come una porta dipinta, che non conduce da nessuna parte.
Nel processo della comprensione rimane oscuro un passaggio essenziale, trattato da
Wittgenstein come problema del rapporto tra fatto (anche i fatti interni come immagini
mentali o sensazioni) e significato in connessione con la questione di cosa significhi “seguire
una regola”. Questo argomento è al centro della transizione tra la concettualità del Tractatus e
quella delle Ricerche. È opportuno inserire una breve digressione a questo proposito, sia pure
limitata alle implicazioni che toccano più da vicino la filosofia della psicologia.
- Seguire una regola:
Il problema posto dalla determinazione di cosa sia seguire una regola è sostanzialmente un
modo di affrontare la questione generale del rapporto tra segno e significato, e dunque anche
del rapporto tra comunicazione e comprensione. Se, come sostenuto nel Tractatus, il segno
(proposizione, immagine) fosse connesso strutturalmente al proprio significato, se
dell’immagine facesse parte anche la forma di raffigurazione che ne fa un’immagine, allora
non vi sarebbe alcun problema nel determinare cosa sia seguire una regola: se qualcuno dà i
segni corretti a qualcun altro, quest’ultimo può senz’altro sapere quali fatti conseguono da
quei segni e quindi quale decorso di operazioni, percezioni, gesti, altri segni, ecc. vengono
richiesti come significato di quel significante. La regola, il significato costante sarebbe qui
parte del segno corretto.
Nel Tractatus Wittgenstein era propenso a concepire ogni proposizione dotata di senso
come una sorta di calcolo eseguito secondo certe regole 42. Nelle Ricerche l’immagine stessa
di una regola che sovraintende all’esecuzione di certe operazioni, ad esempio alle operazioni
di identificazione percettiva di un oggetto o a quelle di deduzione logica, viene criticata. Un
gioco linguistico può trascolorare in un altro gioco, senza che questo passaggio sia normato
dal primo gioco, e le regole stesse del gioco possono anche essere create nel corso del gioco
stesso 43. Inoltre chi utilizza una parola, chi segue una regola, non è generalmente in grado di
dare una definizione univoca della regola stessa, anzi in generale non sa proprio di seguire
una regola particolare, e, data una spiegazione del proprio uso, è però “pronto a ritirarla e a
modificarla.” 44 Tutto queste notazioni portano nella stessa direzione, cioè a guardare con
sospetto l’immagine stessa di una regola, una legge, una proposizione normativa esplicita o
implicita, che sta alla base del nostro agire logico. Ciò è particolarmente rilevante se

41
RF, § 514.
42
RF, 81.
43
RF, § 83.
44
RF, § 82.
23

pensiamo al nesso consuetamente individuato tra regola e responsabilità: adottare un


comportamento regolare (legale, morale, ecc.) non implica ancora in alcun modo
un’autotrasparenza della coscienza, non implica cioè la capacità di giustificare tale
comportamento. La competenza linguistica precede la scrittura delle regole linguistiche, così
come gli usi e costumi civili di un popolo precedono la loro eventuale codificazione in leggi.
Dovremmo forse dire che prima di tale codificazione non bisognerebbe parlare propriamente
di regole? In che senso possiamo dire che chi non sappia enunciarle, chi non sappia definirle,
chi non sappia di seguirle, segue certe regole? Se chiamiamo regole le norme coscientemente
seguite, come una legge scritta ed obbedita, sembra improprio parlare egualmente di regole
per quel livello più fondamentale di regolarità che sottostà al funzionamento del linguaggio,
alla significazione.
Quand’anche l’interlocutore, richiesto di fornirci la regola che sta seguendo, ce ne dia
effettivamente con assoluta sicurezza una, quand’anche egli sappia quale regola sta seguendo,
cosa ci garantisce tale aggiunta? Se io dico che «il tavolo è marrone», e l’altro non capisce
cosa ho detto, io posso certo cercare di spiegare ulteriormente le parti costitutive di quella
proposizione, posso indicare un tavolo, posso portare campioni di colore, ecc. ma, come
Wittgenstein osservava nei Quaderni 1914-16, non posso mai colmare tutti i vuoti tra la
proposizione e il suo oggetto, dunque devo giungere ad un punto dove si compie una sorta di
salto dalle unità proposizionali all’oggetto, salto che nel Tractatus veniva rappresentato
attraverso la funzione proiettiva dell’immagine. Qui la situazione non sembra di primo
acchito presentarsi in modo molto differente.
“Parlando dell’applicazione di una parola ho detto che essa non è limitata dovunque da regole.
Ma allora che aspetto avrà un gioco che sia completamente limitato da regole? Un giuoco le cui regole
non lascino infiltrarsi nessun dubbio, gli tappino tutti i buchi? - Non possiamo anche immaginare una
regola che governi l’applicazione delle regole? - Ed un dubbio, che quella regola rimuova, - e così
via?” 45

La regola che cerca di determinare l’applicazione di un’altra regola rammenta il tipico


processo di proliferazione legislativa che accompagna un funzionamento carente della
giustizia: non si può mai coprire con l’aggiunta di leggi ulteriori l’intera distanza tra la legge e
la sua esecuzione. Una regola non può essere garantita nel suo svolgimento da una regola
superiore, non può essere né riempita di contenuti, né limitata in ogni possibilità di
deragliamento da regole ulteriori che prendano anticipatamente in considerazione ogni
possibile uscita dai binari e la vietino preventivamente, e questo sia perché una tale totalità
definita di eccezioni possibili non esiste, sia perché la regola superiore, che dovrebbe
24

specificare la prima regola e bloccarne il deragliamento, può deragliare a sua volta. La


regolarità della regola, la precisione del concetto, non sono né possono essere fornite
dall’esistenza di confini: questi confini possono essere tracciati per scopi particolari, ma di per
sé non esistono, nel senso che non sono riscontrabili come segni già tracciati, o come regole
già scritte 46. La regola sembrerebbe dunque muoversi nel vuoto, senza controllo alcuno. Ma
allora, dato che concetti e regolarità nell’uso dei concetti vi sono, cosa, se non un’altra regola,
può “regolare” la regola? Il salto dal segno al significato, dall’esempio alla comprensione è
forse un salto nel vuoto, nell’irrazionalità e nell’arbitrio?
In altri termini, non potrebbe accadere che, una volta data l’intuizione perspicua di
un’inferenza attraverso un’immagine, un esempio, una frase, una volta illuminata una
possibilità di procedere, quest’immagine costituisca in seguito il punto di partenza per un
procedimento mutevole, in cui diverse applicazioni della medesima espressione sviluppino
andamenti diversi, mutuamente collidenti? Potrebbe accadere che ciò che abbiamo
inizialmente inteso in quell’espressione si mostri nello sviluppo come del tutto diverso dalle
aspettative. Così potremmo insegnare sulla base di un’immagine perspicua della numerazione
elementare (1, 1+1, 1+1+1, ecc.) lo sviluppo dei numeri naturali, e poi trovare che quanto noi
avevamo inteso con quell’immagine, non è ciò che è stato inteso dal discente, che prosegue
secondo la nostra regola fino a 100 per poi continuare con 102, 104, ecc., fino a 200, indi 204,
208, ecc. fino a 300, ecc.. E non potrebbe qualcosa del genere capitare a noi stessi, magari per
una regola più complessa, meno domestica? Cosa garantisce la regolarità nel passaggio dalla
finità degli esempi all’infinità potenziale degli sviluppi?
A tutto ciò Wittgenstein risponde in modo estremamente sobrio.
“Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d’agire, poiché
qualsiasi modo d’agire può essere messo d’accordo con la regola. La risposta è stata: Se può essere
messo d’accordo con la regola potrà anche essere messo in contraddizione con essa. Qui non esistono,
pertanto, né concordanza né contraddizione. Che si tratti di un fraintendimento si può già vedere dal
fatto che in questa argomentazione avanziamo un’interpretazione dopo l’altra; come se ogni singola
interpretazione ci tranquillizzasse almeno per un momento, finché non pensiamo a un’interpretazione
che sta a sua volta dietro alla prima. Vale a dire: con ciò facciamo vedere che esiste un modo di
concepire una regola che non è un’interpretazione, ma che si manifesta, per ogni singolo caso
d’applicazione, in ciò che chiamiamo «seguire una regola» e «contravvenire ad essa».” 47

Il ragionamento che scioglie il problema alla radice mostra semplicemente che


«seguire una regola» non equivale a «interpretare dei segni come espressione di una regola».
Un atto interpretativo presuppone un avvenuto distacco tra segno e significato (simbolo), tra

45
RF, § 84.
46
RF, § 69.
47
RF, § 201.
25

linguaggio e sua applicazione, e dunque un «conferimento soggettivo» di significato


all’espressione di una regola. Dire che possiamo mettere in accordo ogni eccezione con la
regola significa anche che potremmo mettere ogni corretta esecuzione della regola in
contraddizione con essa. Ma questo ci toglierebbe sotto i piedi il terreno stesso della regolarità
con cui accordarci o meno. Concependo il legame tra segno e significato primariamente come
un atto interpretativo dissolveremmo ogni possibilità di costituire inferenze che non siano
arbitrarie.
Ora, però, posto che abbiamo inteso come il modo fondamentale per concepire la
regola non può essere un’interpretazione, come dobbiamo concepire altrimenti la
comprensione di una regola, di un significato? Il problema sembra essere che niente nel segno
sembra poter implicare il significato. Quand’anche si escludano ingenue teorie
convenzionaliste del linguaggio, dove a significati in qualche modo empiricamente dati
vengano assegnati segni arbitrariamente scelti, resta il fatto elementare che più notazioni, più
lingue positive sono atte a manifestare certi significati, e che dunque nessun vincolo
«naturale» sembra vigere tra segno e significato. Questa indipendenza vale anche quando i
segni in causa non sono significanti linguistici in senso stretto, ma eventi significanti, fatti di
natura esibiti per un soggetto. In altri termini, anche se accettiamo che seguire una regola non
è interpretarla, che intendere il significato di un segno non è prioritariamente interpretare quel
segno, resta il problema di come un segno, qualunque esso sia, possa essere univocamente
conducivo di un significato. Nei termini dell’apprendimento del linguaggio il problema
sembra essere riconducibile all’impressione che la regola non possa mai venire dedotta dagli
esempi, non possa essere elaborata sulla base dell’induzione, e che d’altra parte non si tratti di
completare con l’immaginazione interpretante un processo accennato in casi particolari.
Questa immagine è nel suo complesso fuorviante. Gli esempi, infatti, come Wittgenstein
osserva in più punti 48, non constano infatti solo di immagini perspicue, di puri fenomeni
sensibili, non sono dati di senso da completare con una teoria, e questo semplicemente perché
parte essenziale dell’apprendimento è data dall’insegnamento di una prassi sulla base di
quell’immagine («copiare 100 triangoli come questo»), e questa esecuzione della prassi viene
poi corretta con lodi e rimproveri, negazioni ed approvazioni 49. L’empiria finisce dove inizia
la costituzione dei concetti. Non c’è una reciproca alterità tra singolarità fattuale dell’esempio
(o della serie di esempi) da una parte e teoria, che interpreta quell’esempio come regola,
dall’altra. Infatti la teoria è, in un certo senso, a sua volta soltanto un fatto, un’immagine, una

48
Cfr. RF, § 71, § 208.
49
Cfr. RF, § 88.
26

proposizione, od una serie di questi elementi e ci sarebbe bisogno di qualcosa che connetta
strutturalmente il fatto dell’impressione ed il fatto della teoria perché il secondo sussuma il
primo. Il passaggio da teoria (regola) a fatto (esecuzione) può essere problematizzato in
entrambe le direzioni, tanto come problema dell’apprendimento della regola a partire dai fatti
(comprensione), quanto come problema della realizzazione concreta in fatti della regola
(normazione); ciò che viene perso di vista quando questo passaggio appare enigmatico è il
connettivo costituito dalla spontaneità operativa, dal comportamento (corporeo o
grammaticato) di un soggetto. L’esempio, quando è recepito induce un comportamento
reattivo; come vedevamo prima, ad esempio, un’imitazione, una traduzione, alla peggio un
semplice moto reattivo. Questo terreno di attività spontanea è poi ciò su cui la correzione e
l’incoraggiamento possono esercitarsi, fino al raggiungimento di un possesso adeguato e
stabile di una certa operazione. L’atto di comprensione così inteso non è l’intuizione
dell’intenzione altrui, non coglie il vissuto interiore dell’altro, ma si fonda sul mio proprio
agire spontaneo, che viene limitato o sostenuto dall’esterno, e che in questo modo può
costituirsi in riproduzione di un certo comportamento «normato». Essenzialmente: io non
imparo la regola, per poi farla discendere interpretativamente nei miei atti, ma imparo a
riprodurre un mio comportamento limitato, determinato, che in quanto abito comportamentale
è già sempre potenzialmente illimitato nelle sue repliche.
Wittgenstein sottolinea variamente questa natura pratico-inerziale del funzionamento
della regola: “Quando seguo la regola non scelgo,” 50 seguo la regola meccanicamente, cioè
non senza pensare, ma “senza riflettere (nachdenken).” 51 Io cioè non prendo distanza dal
processo che sto svolgendo, non devo prendere decisioni, scelte, non devo interpretare i segni
riflettendo su svariate possibilità, ma semplicemente agisco.
“Non è che si abbia la sensazione di dover essere sempre in attesa del cenno (del
suggerimento) della regola. Al contrario. Non siamo curiosi di sapere quello che ci dirà tra poco; ma ci
dice sempre la stessa cosa, e noi facciamo quello che ci dice.” 52

“Qual è la differenza tra questo processo, del seguire una specie di ispirazione, e quello del
seguire una regola? (...) Nel caso dell’ispirazione mi aspetto la direttiva.” 53

«Compiere un’azione», «seguire una regola», non sono principalmente atti della
volontà rappresentativa, della riflessione, dell’ispirazione o della scelta, ma comportamenti
abitudinari immanenti, possessi stabili di una pratica. La formazione del concetto supera

50
RF, § 219.
51
Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, Frankfurt, Suhrkamp, 1984, (d’ora in poi citato con BM),
p.422.
52
RF, § 223.
53
RF, § 232.
27

l’empiria nella misura in cui ciò che è appreso, il saper-fare, non è più oggetto, ma soggetto, e
ciò accade proprio in quanto ciò che è appreso non è principalmente un segno altrui, ma un
comportamento proprio. (Va osservato, di passaggio, che la posizione essenziale del
comportamento interattivo di lode e rimprovero, divieto ed incitamento è quasi quella di un
cosiddetto «segno naturale», nel senso che, supposto un comportamento vivente normale, è
possibile manifestare approvazione e riprovazione rispetto ad un’azione in maniera
perfettamente univoca: non c’è bisogno di alcun atto interpretativo per intendere il significato
dell’altrui impedimento fisico alla mia azione spontanea.)
Il soggetto emerge dalla discussione intorno alla comprensione e al seguire una regola
come luogo dell’abito, dell’uso, del possesso stabile di tecniche. Il tema della soggettività,
come qui si inizia ad abbozzare, apre un campo di indagine nuovo nell’indagine
wittgensteiniana. Vediamo conclusivamente come esso si configura nel definire gli ultimi
lineamenti della questione delle regole.
“Ciò che chiamiamo «seguire una regola», è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo
uomo, una sola volta nella sua vita? (...) Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola
una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un
ordine sia stato dato e compreso, e così via. (…) Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un
ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni).” 54

“Un gioco, un linguaggio, una regola sono istituzioni.” 55

“(...) «seguire la regola» è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E
perciò non si può seguire una regola «privatim», altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la
stessa cosa che seguire la regola.” 56

Il punto qualificante non è dato qui dal fatto che sia necessario un numero più o meno
cospicuo di esperienze per costituire un concetto. Il carattere distintivo delle abitudini, degli
usi, delle istituzioni, non sta nella loro reiterazione in certi momenti del tempo, nel fatto di
avere molte ripetizioni di fatti alla loro base, ma nell’essere possessi stabili, cioè potenzialità
di infinite repliche (anzi, ad essere precisi la nozione stessa di «infinito» si fonda su questa
assenza di limiti predefiniti per un concetto) 57. Anche dire che un uomo deve aver seguito
numerose volte una regola non è una caratterizzazione essenziale della regola, giacché
essenziale al suo funzionamento originario è anzi il fatto che non si sappia di seguirla, né,
tantomeno, si sappia quante volte la si è seguita. Non una qualche ripetizione numerabile delle
esperienze, ma il passaggio al livello di capacità stabile, disponibile per applicazioni

54
RF, § 199.
55
BM, p.334.
56
RF, § 202.
57
RF, § 218.
28

potenzialmente infinite, è ciò che caratterizza l’abitudinarietà della regola: molte cose,
giudicando antropologicamente, possono essere esperite reiteratamente dagli uomini senza
divenire istituzioni; dell’istituzione fa parte essenzialmente l’esser «automatizzato»,
introiettato del vissuto, ed il suo ruolo di basamento per le azioni successive.
La regola non può, per così dire, distorcersi nel corso dell’applicazione, non perché
non possa variare nel tempo, il che, anzi, in tempi lunghi accade consuetamente, ma perché
tale variazione non è la variazione individuale propria dell’errore, dell’eccezione alla regola.
Se la regola varia, lo fa all’interno di un sistema di regole tenuto fermo dall’accordo
intersoggettivo: il mutamento approvato e divenuto istituzione non è una distorsione
inconsapevole della regola, ma appare come un suo «miglioramento», o «aggiornamento», o
«specificazione». Il mutamento intersoggettivamente riconosciuto di una regola non va
assimilato alla deviazione soggettiva dalla regola, né dal primo possono essere tratte
conclusioni quanto ad un’eventuale tolleranza per la seconda. C’è però un secondo senso in
cui una regola sembra potersi «piegare» strada facendo, ed è il caso che nomineremmo
parlando tipicamente dell’evoluzione di una lingua, dove il mutamento non è riconosciuto dai
parlanti o non è introdotto come innovazione, ma semplicemente accade nell’uso. In questo
caso non si ha una effettiva ed incontrollabile deriva della regola (del significato)? Qui una
risposta compiuta richiederebbe un’elaborazione molto più ampia della presente, tuttavia
possiamo trovare gli estremi di una risposta nella concettualità introdotta da Wittgenstein.
Chiediamoci innanzitutto come si debba definire una violazione della regola. Una
regola può entrare in contraddizione con un’altra regola, così come può entrare in
contraddizione con un’applicazione errata della regola che essa stessa è. Queste due
eventualità sono poi nell’essenza coincidenti: se dopo aver numerato per 1 fino a 100
proseguo con 102, 104, ecc. questa infrazione della regola della numerazione unitaria collide
contemporaneamente con la regola della numerazione per due, che viene a perdere i propri
caratteri distintivi. Parimenti, se mentre sto perdendo una partita a scacchi reagisco ad una
mossa sulla scacchiera con una mossa di judo, ben al di là dei limiti della scacchiera, ciò
infrange le regole scacchistiche e contemporaneamente travalica i confini dal gioco alla vita,
collidendo con le regole della buona educazione e magari della legislazione penale. La regola
di volta in volta considerata nel corso di un gioco non ha regole interne al gioco stesso poste a
regolarne la regolarità: esso semplicemente prosegue inerzialmente «secondo le regole», e
questa assenza di autocontrollo la caratterizza tanto, che un gioco può essere giocato senza
alcuna riflessione. Ma l’infrazione alle regole del gioco, se è riconosciuta come tale, implica
un’invasione di campo di altre regole: che si prosegua la numerazione dopo 100 scrivendo
29

101, 102, 103, 104, ecc. non è considerata un’infrazione alla regola, semplicemente perché
il cambiamento di grafia non collide con altre regole, non crea ambiguità di sorta. Il
riconoscimento della regola come norma può avvenire solo attraverso il suo debordamento,
cioè attraverso la sua collisione con altri spazi regolati.
Il nuovo quadro che si lascia scorgere, una volta delineato come sia possibile qualcosa
come il «seguire una regola», mostra come in un senso particolare, la regola è in effetti già
sempre circondata e regolata ovunque da regole, solo non da regole con la funzione di curarsi
della prima, ma semplicemente da altre articolazioni comportamentali, altre prassi, occupate a
giocare il proprio gioco e basta. L’interno della regola è «opaco», non possiamo in generale
descriverlo meglio di quanto facciamo mostrando come il gioco è giocato e facendolo giocare;
questa sua opacità, che non lascia scorgere un’articolazione interna, ne determina la necessità,
che è una necessità inerziale: la regola è necessaria perché (e finché) è possibile ed unitaria,
cioè mostra una possibilità unica, nulla sapendo di eventuali alternative. L’apprendimento di
una regola, di un significato, di un concetto si basa su di un livello di spontaneità
comportamentale da parte del discente: “L’origine e la forma primitiva del gioco linguistico è
una reazione; solo su di essa possono crescere le forme più complesse.” 58 Questo genere di
reazione primitiva può essere quel che veniva descritto esaminando il processo della
comprensione in termini di imitazione, traduzione di parole in gesti e di gesti in parole,
riproduzione, ecc. Chi di fronte ad una certa configurazione di punti si comporta
reattivamente nei loro confronti considerandoli (supponiamo che così sia richiesto) una figura
unitaria può cogliere il modo appropriato di intendere quel segno; in tal caso il possesso
stabile di questo comportamento reattivo può già costituire il fondamento della regola e chi
apprende il comportamento in questione «segue ciecamente la regola» nel senso di proseguire
in un comportamento che da reazione singola è divenuto abito. In questo caso chi «segue la
regola» non sceglie, non interpreta, ma semplicemente vede un’unica possibilità. Se tuttavia
la reazione iniziale non è quella desiderata da chi insegna la regola, allora l’esercizio di
divieti, rimproveri, negazioni può spingere a comportamenti diversi 59. Ciò che consente tanto
a me stesso che all’altro di individuare i limiti della regola e dunque di assentire o dissentire
con la mia esecuzione è solo la situazione in cui in un certo andamento riconosciamo gli
estremi di un gioco differente, di un altro comportamento regolare riconoscibile come tale.
L’«esattezza» della regola, del concetto, l’identità propria di una possibilità, non è come un
contorno a matita intorno ad una macchia colorata, ma come la differenza tra il colore della

58
ÜW, p. 115 (traduzione mia).
59
RF, § 208.
30

macchia e quello della superficie circostante. Quanto esattamente questa differenza debba
essere individuata è deciso dalla funzione del gioco in questione:
“«Inesatto» è propriamente un rimprovero, ed «esatto» una lode. E questo vuol dire: ciò che è
inesatto non raggiunge il suo scopo così perfettamente come ciò che è più esatto. Dunque tutto
dipende da che cosa chiamiamo «lo scopo». È inesatto non dare la distanza dal sole a noi fino al
metro? E non dare al falegname la larghezza del tavolo fino al millesimo di millimetro?” 60

In questo senso i limiti tra concetti possono essere e di fatto spesso sono “sfumati” 61,
ma ciò non significa affatto che non siano rigorosi ed efficaci. Del contorno, del limite in sé di
un concetto, di una regola ci si interessa solo quando si ha bisogno di obiettivare l’insieme di
due regole, di due concetti, ed in tal caso si introduce un segno terzo, che pone un confine
obiettivato, una notazione che ci permette di identificare, e manipolare i due concetti senza
svolgerne il contenuto. Altrimenti il limite del concetto è semplicemente segnalato dal fatto
che il comportamento ad esso legato invade lo spazio operativo di un altro concetto; in tal
caso può anche accadere che questa «collisione» si riveli ininfluente, come quando il discente
percorre un andamento apparentemente nuovo, ma compatibile con la funzione del gioco: qui
l’individuazione di un allontanamento da ciò che consideriamo essere la regola può venire
tralasciato e non venire corretto (es.: una variazione personale nel modo di svolgere il servizio
nel tennis).
In definitiva si potrebbero segnalare tre momenti importanti nell’apprendimento di una
regola: in primo luogo si ha un comportamento reattivo da parte del discente sulla scorta di
quanto il docente esemplifica; ad un secondo livello sta la possibilità di individuare i limiti tra
regole tramite l’invasione di un andamento comportamentale di un altro andamento
riconoscibile come differente, il debordamento in un’altra regola; ad un terzo livello sta
l’accordo od il disaccordo tra docente e discente, l’approvazione o disapprovazione del primo
rispetto al secondo. Questo terzo momento è quello dove si costituisce propriamente lo spazio
della «verità», non come accordo o disaccordo tra le opinioni degli uomini, ma tra le loro
forme di vita 62 (giochi linguistici, comportamenti, abiti).
Da tutto ciò deriva anche che la modificazione inavvertita di una regola sembra essere
per definizione una modificazione insignificante, così come le variazioni sonore e grafiche di
un segno che non lo rendono ambiguo. Se, per dire, nell’intero uso linguistico italiano la
pronuncia della «u» slittasse progressivamente fino al punto di suonare «o», mentre la
pronuncia della «o» trasmigrasse verso «ö» questo non avrebbe alcuna conseguenza

60
RF, § 88.
61
RF, § 71.
62
RF, § 241.
31

nell’ordinamento delle articolazioni linguistiche dell’italiano. In questo senso è concepibile


(se sia anche vero è un altro discorso) che un linguaggio modifichi tutte e ciascuna le sue
articolazioni apparenti, nomi e verbi, modi di dire e parti del discorso, senza che nessuna
possibilità espressiva venga guadagnata o perduta: tutti i significati presenti in una langue
potrebbero essere tradotti senza resti in un’altra, lontana, sezione temporale dell’uso
linguistico.

2. Sapere (potere)
Da quanto osservato in precedenza è emerso, tra le altre cose che il comprendere va
identificato come il momento iniziale del sapere. Ha compreso la regola chi sa proseguire
spontaneamente un certo comportamento senza debordare in altri campi, in altri andamenti
comportamentali regolati; ha compreso il significato del segno chi sa applicarlo
spontaneamente con costanza. Ora, una prima questione che possiamo porci al fine di
caratterizzare il modo di darsi del comprendere rispetto al sapere è la seguente: se il
comprendere è, come si è visto, il momento iniziale del sapere, si può dire forse che il
comprendere accade in un determinato istante, mentre il sapere dura a partire da quell’istante?
È il comprendere un’intuizione istantanea, un vissuto psicologico spazio-temporalmente
determinato, così come la percezione di un oggetto? Che il comprendere accada in un
determinato istante è in effetti una possibilità implicita nel concetto, in quanto esso ha la
natura di una soglia tra il non sapere ed il sapere, dunque di un confine determinato. Se però
ciò significhi anche che la comprensione sia un «processo mentale» di cui si possano
determinare limiti temporali chiari, questo è molto più dubbio. Rivolgiamoci, per un
chiarimento, all’accoppiamento inscindibile di comprensione e sapere. Possiamo dire che il
sapere conseguente alla comprensione ha una durata? “Quando conosci questa applicazione?
Sempre? Giorno e notte? O soltanto nei momenti in cui pensi appunto alla legge [equazione]
della successione?” 63 Del sapere potremmo dire che perdura, ma non che ha una determinata
durata temporale. Il sapere, come il comprendere non ha autentica durata temporale 64, e questo
perché non compare principalmente come oggetto di osservazione, ma come istanza
presupposta all’obiettivazione: nel momento in cui comprendo qualcosa, in cui mi approprio
di un saper-fare e mettendomi alla prova concludo che ho raggiunto il possesso del sapere,
non posso contemporaneamente guardarmi comprendere e avviare un cronometro nel
momento dell’avvenuta comprensione, anche perché la prova che sancisce la comprensione è

63
RF, § 148.
32

appunto solo una sanzione a posteriori, e non è l’istante vero e proprio dall’appropriazione:
quando obiettivo la mia comprensione, quando so che qualcosa era un atto di comprensione,
esso è già passato, e, mentre comprendo, comprendo l’oggetto della comprensione e non me
stesso nell’atto del comprendere. Parimenti può capitare che dimentichi qualcosa che sapevo,
ma anche in questo caso potrò sancire l’avvenuto smarrimento soltanto a posteriori, e non
posso assistere all’oblìo di un sapere, così come invece posso assistere al cessare di un dolore:
il sapere è per definizione a parte subjecti, non compare come un vissuto per il soggetto. In
riferimento al sapere Wittgenstein parla di «disposizione» 65, col che si intende una
propensione ad agire in modo determinato, la quale non è sospesa o soppressa dal fatto che
non vi si conferisce attenzione attuale. In questo senso il vedere (la «facoltà» del vedere) non
è una disposizione, mentre il sapere lo è: una disposizione è qualcosa che può essere messa
alla prova, (come ad esempio l’inclinazione alla gelosia) 66, ma che non perciò appartiene alle
impressioni obiettivabili, come un dolore, o a stati di coscienza come il vedere. L’importanza
della questione, tipica dell’analisi wittgensteiniana dei concetti psicologici, se di una certa
«esperienza psicologica» si possa predicare una durata temporale propria o meno sta nel fatto
che di durata in questo senso si può parlare soltanto quando la relativa «esperienza
psicologica» può essere trattata come un oggetto, manipolata intenzionalmente. Una
disposizione, in quanto non è possibile stabilirne i limiti propri di durata, così come è invece
possibile fare per un dolore o per il vedere, si dimostra essere inaccessibile ad un trattamento
a parte objecti. Il sapere, come disposizione, ha certamente il carattere della «potenza»
aristotelica, ma una potenza di cui è legittimo parlare soltanto sulla base dell’atto che ne
consegue: “Il sapere è il serbatoio ipotetico, donde scorre l’acqua che viene veduta.” 67 Ed è
essenziale per la determinazione del serbatoio che l’acqua venga vista.
“Che cosa obietteremmo a uno che ci comunicasse che, per quanto riguarda lui, il
comprendere è un processo interno? – Che cosa gli obietteremmo se dicesse che per lui il saper
giocare a scacchi è un processo interno? – Che, quando vogliamo sapere se sa giocare a scacchi, nulla
di quanto accade in lui ci interessa. – (…) Anche se uno avesse una determinata capacità solo quando,
e solo fin quando, sente qualcosa di determinato, il sentimento non sarebbe la capacità.” 68

Il criterio per la determinazione del sapere è quello per la determinazione di un potere


concreto, cioè la realizzazione di ciò di cui viene annunciata la potenzialità. Dobbiamo dire
allora che «sapere» e «potere» sono da intendersi come sinonimi? Nel loro carattere
disposizionale sapere e potere si equivalgono, ma i giochi di appartenenza si discostano l’uno

64
FP2, § 51.
65
FP2, § 45; RF, § 149.
66
FP2, § 178.
67
GF, § 10.
33

dall’altro: dico di poter respirare, cioè di averne la possibilità, ma non di saper respirare, salvo
casi particolari (ad esempio: se ho appreso un particolare tecnica respiratoria facendo yoga).
“In un certo senso sapere è aver imparato e non aver dimenticato. È per questo che ha a che
vedere con la memoria.” 69 Potere o essere in grado di fare qualcosa contiene come caso
particolare il sapere, la cui differenza specifica è data dall’intervento di un momento di
apprendimento (comprensione), perciò si ha un sapere dove si è convinti di qualcosa, di cui è
però possibile dubitare: “«Io so...» significa per lo più «Mi sono sincerato (überzeugt) che…».
Nessuno dice di essersi sincerato di avere due mani.” 70 Questo esempio, che riecheggia un
esempio di Moore in Proof of the External World, esibisce la funzione peculiare del sapere
rispetto alla «certezza»; nel momento in cui un sapere perde completamente la memoria, la
consapevolezza dell’essere risultato di comprensione, diventa una credenza o una certezza,
cioè qualcosa che non si può argomentare o addirittura qualcosa di cui è impossibile dubitare.
Giungere realmente, e non solo per ipotesi, a dubitare di una «certezza», che è qualcosa di più
profondo di ciò che siamo disposti ad ammettere come un’opinione creduta, significa togliersi
il terreno per sapere e per ogni credenza, dunque distruggere la soggettività senz’altro;
dubitare di avere due mani, o che esse in italiano si chiamino davvero «mani», crea, se ne
pensiamo a fondo l’ipotesi, uno stato di perplessità da cui possiamo inferire più facilmente
una nostra malattia mentale che un esser altrimenti della realtà.
Il sapere, dunque, si configura grammaticalmente come una disposizione, uno stato
soggettivo, che si differenzia dalla «certezza» per la sua determinazione di possesso
soggettivo, e si differenzia dal «potere» in generale per la sua dipendenza dall’essere appreso
(con la conseguente possibilità di essere messo in dubbio). L’essere determinato dalla
memoria, dall’apprensione, la sua collocazione di possesso soggettivo ne determinano anche i
limiti temporali d’applicazione: il futuro, per definizione, non si può sapere 71. In questo senso
una previsione, anche la più scontata, come il sorgere del sole l’indomani, non è
grammaticalmente un sapere, e ciò perché il sapere indica appunto un potere soggettivo
riposante nel passato: se dico di saper giocare a scacchi, ciò indica non una previsione intorno
allo svolgimento futuro di una partita, ma un saper fare presente, mentre se dico di sapere che
domani saprò ancora giocare a scacchi, questo è già un riferimento che va al di là dei limiti
della soggettività, giacché il mio io di domani è, per il mio stato attuale, soltanto un oggetto
del mondo tra gli altri, e perciò una simile espressione è inadeguata o «ironica». È

68
RF, p. 500. Cfr. FP1, § 302.
69
FP2, § 300.
70
FP3, § 831.
71
FP3, § 188.
34

interessante notare quale sorta di movimento concettuale si sia svolto tra il Tractatus e le
Ricerche, relativamente ad una questione come l’accidentalità degli eventi futuri. In
precedenza la proposizione «humeana» che definiva l’imprevedibilità degli eventi futuri non
apparteneva al linguaggio sensato, ma subentrava come metaconsiderazione a partire dal
funzionamento delle proposizioni in quanto immagini: per sapere che qualcosa accade se
qualcos’altro esiste dovrebbe esserci una relazione interna tra la proposizione data e quanto
deve accadere, ma siccome tra proposizioni ed altri fatti (che non siano tautologie deducibili
dalle prime) vigono soltanto relazioni esterne, ne segue che ogni asserzione circa ciò che deve
accadere è accidentale e mai necessaria. Nella concettualità delle Ricerche, invece, il
contingentismo è fondabile per via interna alla grammatica: i limiti del linguaggio (del suo
uso sensato) si mostrano dall’interno del linguaggio stesso; il futuro non si può sapere, non
perché le uniche inferenze proprie siano quelle puramente logiche, come nel Tractatus, né
perché non sia possibile di fatto svolgere previsioni esatte (il che è falso), ma perché la
necessità delle ragioni grammaticali non è quella delle cause esterne. Un sapere che si
riferisse al futuro equivarrebbe ad un dominio soggettivo (un potere, un saper fare)
dell’oggettualità, quindi in sostanza coinciderebbe con una distruzione dell’opposizione tra
soggetto e realtà, e ad una risoluzione della seconda nel primo. Noi possiamo sapere come
formulare fondatamente una previsione sui fatti futuri, non però sapere i fatti futuri: il sapere è
il possesso stabile di un abito, di una prassi, e tutto ciò su cui le nostre prassi si esercitano
devono stare al di là del relativo sapere. Questa collocazione, coestensiva con la soggettività,
del sapere, implica anche, come analizzeremo meglio in seguito, l’impossibilità di sapere, in
senso proprio, quel che pensa, sente o conosce un altro soggetto.
Anche per il verbo «sapere» Wittgenstein distingue un uso specifico per la prima
persona: se dico “So quanto fa 97 x 78” 72, oppure “So dove conduce questa via ” 73, assicuro
l’altro su di un mio possesso, gli comunico una mia capacità: l’accento della proposizione va
sul soggetto conoscente e non sull’oggetto conosciuto. Questo possibile uso del verbo sapere
è di esclusiva pertinenza della prima persona, che sottolinea in questo modo una
determinazione della soggettività non necessariamente accessibile per un’osservazione
esterna. Non ogni uso della prima persona di «sapere» ha però questo carattere: se dico: “So
che 97 x 78 fa 432”, oppure “So che questa strada conduce al Duomo”, la determinazione
soggettiva potrebbe anche essere soppressa; in tal caso nella comunicazione sono impliciti gli
estremi per applicare subito criteri di identificazione operativi, e l’attribuzione del contenuto

72
FP2, § 300.
73
FP2, § 285.
35

ad una o ad un’altra persona può costituire un’appendice informativa, ma non ci fornisce


niente di essenziale nel significato di quella proposizione.
Un confine semantico particolarmente interessante è quello che intercorre tra sapere e
percepire: “Vedo che nel quadro la freccia trapassa l’animale. Lo ha colpito al collo e
fuoriesce dalla nuca. Figurati l’immagine come un profilo. - Vedi forse la freccia, - oppure
semplicemente sai che questi due pezzi devono essere parti di una freccia?” 74 L’indecisione
tra queste due espressioni indica la variabilità del confine tra ciò che viene accolto
nell’esperienza visiva come appreso, e ciò che invece si presenta come immediatamente
evidente. Una risposta non può essere data qui ricorrendo ad un’indagine esterna di tipo
scientifico, che stabilisca eventualmente se e quale tipo di organizzazione visiva sia «innata»,
e cosa sia invece frutto di apprendimento. Il limite è tracciato qui sulla scorta di quanto è in
possesso del soggetto e che perciò può essere soggetto a variazioni, e di quanto invece è
vissuto come dettato dall’oggetto, senza possibile alternativa: a dirci se variazioni occorrono o
meno, se percezioni alternative si danno o meno, e, se sì, come si danno, è comunque sempre
il soggetto, ed ogni eventuale analisi fisiologica riposa su queste comunicazioni.
Va osservato che il sapere può entrare in contraddizione con il credere 75: dire che io so
che piove, ma che non lo credo è contraddittorio. Tuttavia sapere e credere non sono affatto
sinonimi, infatti io posso credere qualcosa, senza che ciò significhi che lo so: nel concetto di
credere non è implicito alcun riferimento all’avere imparato o capito il contenuto della
credenza. Proviamo a soffermarci brevemente su tale concetto.

3. Credere
L’analisi wittgensteiniana del credere è svolta in particolare nella cornice di ciò che
viene da lui menzionato come il «paradosso di Moore»:
“Il paradosso di Moore si può enunciare così: L’espressione «Io credo che le cose stiano così»
viene impiegata in modo analogo all’asserzione «Le cose stanno così»; e tuttavia l’ipotesi: io credo
che le cose stiano così, non viene impiegata in modo analogo all’ipotesi che le cose stiano così.” 76

La distinzione che con la soluzione del «paradosso» viene introdotta è di notevole


interesse.
“Il paradosso è questo: L’ipotesi si può esprimere così: Supposto accada questo in me, e questo fuori
di me; - tuttavia l’affermazione che in me accade questo, afferma: fuori di me accade questo.

74
FP3, § 644.
75
Cfr. FP1, § 495.
76
RF, p. 513.
36

Nell’ipotesi le due proposizioni sull’interno e sull’esterno sono del tutto indipendenti,


nell’affermazione no.” 77

Può essere interessante osservare che la paradossalità risulta più vincolante in inglese
o in tedesco, dove il soggetto deve essere comunque espresso: in italiano generalmente si
tende a dire semplicemente «Credo che pioverà», quando ciò vale come equivalente di
«Pioverà», o «È probabile piova», mentre «Io credo che pioverà» introduce già il soggetto in
primo piano, e dunque accentua il fattore soggettivo nell’espressione, il fatto che pioverà in
relazione a quanto io credo. Attraverso questa sua duplice direzione, esterna ed interna, il
verbo credere manifesta il proprio carattere: che io creda qualcosa non dice di per sé niente di
più del contenuto che io credo, giacché il credere assertivo non mantiene alcuna riserva del
soggetto rispetto alla realtà, e dunque ciò che è in rapporto a me stesso è anche senz’altro (per
il mio giudizio). Nel caso in cui «Io credo che le cose stanno così» venga trattato come ipotesi
(Annahme), la proposizione viene vista dall’esterno, non usata in prima persona, ma
considerata come oggetto, dunque anche i criteri per giudicarla cambiano 78. In questo caso
tale proposizione non informa più sul mondo esterno, bensì su di una disposizione del
soggetto che esprime la credenza, ed eventualmente sulla relazione tra questa disposizione e
la realtà 79; nel caso invece in cui la proposizione vada intesa come asserzione, e non come
ipotesi soggettiva, essa non si riferisce dall’esterno alla disposizione, ma piuttosto la si può
chiamare “un dichiarare (Äußerung) questa disposizione.” 80 La prima persona singolare
presente del verbo credere può quasi essere intesa come una forma isolata del verbo: «Io
credo» (assertorio) non è un’espressione basata su autosservazione, né su qualche particolare
caratteristica del mio comportamento o del mio sentimento: un “sentimento di convinzione”
equivale semplicemente all’assenza di sensazioni di dubbio o incertezza 81; e “la credenza
(Glaube) non è un occuparsi dell’oggetto del credere.” 82 «Io credevo» non è, seguendone il
senso, il passato di «Io credo»: il passato, non più presente, del credere è come il credere di un

77
FP1, § 490.
78
FP1, § 504.
79
Schulte analizza con particolare cura l’esame del «paradosso di Moore» alla luce della questione, di particolare
rilievo nel Tractatus, dell’identificabilità di nuclei proposizionali ultimi indipendenti dall’applicazione. Cfr.
Schulte J., Erlebnis und Ausdruck.,München, Philosophia Verlag, 1987, p. 134. – Quanto viene ivi discusso, cioè
l’idea di una radice proposizionale neutra, che sarebbe il puro significato senza intento assertorio, interrogativo,
o quant’altro, e che costituirebbe il nocciolo interiore, non-linguistico, della proposizione, era già stato rifiutato
da Wittgenstein in TLP 4.442 e 5.541. L’interesse di una ridiscussione del tema alla luce della «filosofia della
psicologia» del secondo Wittgenstein sarebbe comunque di rilevante interesse; non potendo, nell’ottica qui
adottata, diffonderci oltre sul tema vogliamo tuttavia rinviare all’analisi svolta da Schulte (op. cit., pp. 124-146)
come ad un’eccellente base di discussione.
80
FP2, § 281.
81
RF, § 607.
82
FP2, § 155.
37

altro soggetto, e non aderisce più ai miei giudizi attuali; «Io credevo» è usato nello stesso
modo di «Egli credeva», o anche di «Egli crede», ma non di «Io credo» 83. Va però detto che è
molto difficile scorgere criteri del credere sia per la prima, che per la terza persona, e dunque
questa posizione isolata della prima persona singolare non è immediatamente semplice da
determinare. Innanzitutto sarebbe scorretto parlare della funzione grammaticale del «credere»
come di una “descrizione del mio stato d’animo” 84 da cui poi si possono trarre inferenze circa
una certa relazione tra me e la realtà. Se credo qualcosa, la mia credenza non si dà come
un’impressione sensibile, una riproduzione più o meno buona della realtà da cui poi l’altro o
io stesso possiamo cercare di dedurre conseguenze reali: “Si può non prestar fede ai propri
sensi, ma non si può non prestar fede alla propria credenza.” 85 Io non descrivo la mia
credenza, ma descrivo ciò che credo ed il modo in cui voglio che l’altro intenda il mio
rapporto a tale contenuto. In questo senso vi sono molte espressioni di credenza, con o senza
riferimento al verbo «credere», che determinano gradi diversi di probabilità soggettiva
attribuita alla mia credenza. L’uso del verbo «credere» in prima persona è legato
all’intenzione di segnalare all’altro non un fatto del mondo, ma un mio atteggiamento verso
un fatto del mondo: la comunicazione non è destinata a dare informazioni sul suo oggetto, ma
su colui che la fa 86. È vero che anche la semplice asserzione «È così» getta luce sul mio
animo, sulla mia disposizione a credere l’oggetto relativo 87, ma dicendo «Io credo che sia
così» io intendo dire qualcosa su di me, il che è un’informazione in più rispetto alla sua
capacità di inferire qualcosa su di me dalla mia asserzione: io segnalo di essere consapevole di
qual è la mia relazione rispetto al contenuto relativo.
Dall’esterno l’unico vero criterio per giudicare se qualcuno propriamente crede
qualcosa o meno sono le sue parole; il suo comportamento è quello che è, ed in certo modo
incarna, nel suo complesso, ciò che egli crede, tuttavia proprio perché in sostanza ogni
comportamento si fonda in qualche modo sulle sue «credenze» in senso largo, non è possibile
portare alla luce la specificità del credere come supporre o come affermare, o il credere
rispetto ad esempio al sapere o allo sperare. Io posso scorgere la credenza in un
comportamento che rivela una determinata aspettativa, ma l’aspettativa non è la credenza,
giacché la prima è sempre tematica, si occupa del proprio oggetto, mentre la seconda non lo
fa; un discorso analogo può essere fatto rispetto alla speranza. La credenza, in quanto
disposizione, può essere messa alla prova: io posso dubitare di qualcosa in un passaggio dove

83
FP1, § 700.
84
RF, p. 251.
85
RF, p. 251
86
RF, p. 251
38

nel comportamento normale altrui, che esprime la credenza, non si manifesta dubbio alcuno,
ed in questo modo inferire che chi così si comporta crede il contenuto che io avevo posto
come dubbio. Questa messa alla prova è in certo modo sensata e corretta, e rappresenta un
possibile criterio per giudicare la credenza nella terza persona, ma mostra una differenza
essenziale rispetto ad una verifica analoga nel caso del sapere: per valutare se l’altro sa
qualche cosa posso metterlo alla prova e se la prova ha successo posso affermare che egli sa
ciò che era oggetto della prova, cioè che tale oggetto gli è, per così dire, presente allo spirito,
che egli lo ha compreso e lo possiede. Nel caso del criterio esterno della credenza io non mi
muovo su di un terreno comune al soggetto osservato: se io gli chiedo di calcolarmi la
velocità istantanea di un grave in un certo punto di caduta, posso concludere che egli sa la
legge di gravità, ma, dal fatto che quando gli cade un oggetto egli si china automaticamente a
raccoglierlo, non posso concludere che lui crede alla legge di gravità. Questo perché io ho
ottenuto una conferma ad un’ipotesi di dubbio, ma questa ipotesi era, in tal caso, una mia
ipotesi e non una sua tesi: chinarsi a raccogliere ciò che cade può segnalare un semplice abito
(certezza), così come un esempio di credenza nella teoria dei luoghi naturali o nella legge di
gravitazione newtoniana. Dunque il criterio fondamentale per la determinazione di credenza
resta la sua stessa asserzione di credenza; questo è coerente con il fatto che «io credo» può
avere anche un senso totalmente funzionale a ciò che vogliamo comunicare all’altro: ad
esempio, e questo non è un caso secondario, «io credo» può essere una cautela espressiva che
manifesta rispetto per l’opinione altrui e la possibile divergenza rispetto alla nostra; in tal caso
potrebbe essere che niente sia cambiato nella mia attribuzione di realtà al contenuto espresso e
che però a seconda dell’interlocutore io usi o meno l’espressione «io credo».
Come per il sapere, anche per il credere, sia pure con minore specificità, ci sono criteri
esterni che portano a concludere che qualcuno crede a qualcosa o meno; questi criteri non
sono quelli che applichiamo nella prima persona, ed anzi non sembra si possa parlare in tal
caso di criteri. “È vero: non si inferisce dalle proprie parole la propria convinzione; o le azioni
che ne derivano.” 88 L’ordine in cui si esperisce, ed eventualmente si verifica, la credenza è
diverso tra prima e terza persona, e questa differenza stabilisce il criterio per la terza persona e
l’assenza di un criterio per la prima: sulla base della sua enunciazione di credenza io posso
poi verificare dall’esterno se egli crede ciò che mi ha detto di credere, mettendo in dubbio la
sua asserzione, e scorgendone le conseguenze od inconseguenze nella realtà. Egli invece per
sé non riconosce a posteriori l’effettività della sua credenza, ma si limita a portare una parte

87
RF, p. 252.
88
RF, p. 252.
39

dello sfondo del suo comportamento in primo piano. Una credenza in senso stretto (prossimo
a ciò che Wittgenstein chiama «certezza») non è qualcosa che, in generale, riconosciamo
come un contenuto particolare di coscienza. Si potrebbe dire che nel momento in cui la
credenza diviene oggetto di un enunciato in prima persona che asserisce la credenza, esso
perde in certo modo la propria natura, divenendo, almeno in potenza, un «saputo», piuttosto
che un «creduto». Fin quando dico come stanno le cose, senza ritenere di considerare ciò una
mia credenza io non prendo distanza da tali contenuti; quando introduco l’espressione «io
credo» un distanza viene già introdotta, anche se, rispetto al sapere, è una distanza che non
sembra consentire una messa alla prova. In questo senso un’affermazione di credenza,
diversamente da una di conoscenza, mette fuori causa un livello argomentativo, anche se,
oggettivando il contenuto, apre alla possibilità di una sua discussione. Infatti, se dico di
credere qualcosa ammetto che quanto credo è un significato particolare e dunque ammetto
implicitamente la possibilità che si creda qualcosa di diverso. Se so qualcosa lo credo, ma se
credo qualcosa, non vuol dire che la so; di fatto “Io so che non pioverà, ma io credo che
pioverà” è una contraddizione 89, in quanto sapere implica credere, ma la conversa non vale in
quanto credere non implica la sussistenza di ragioni per credere.
Il verbo «credere» si mostra così scisso tra varie direzioni d’uso: da un lato, come
visto, esso può intendere un’ipotesi soggettiva (credo = suppongo), d’altro canto può
esprimere una tensione oscillante tra sapere e condizione di certezza. L’uso ipotetico di
«credere» scaturisce proprio dal fatto che la sicurezza immediata, una volta esposta
linguisticamente e per il fatto stesso di essere esposta, si mostra come immotivata, come
qualcosa che dovrebbe a rigore divenire un saputo (un mediato). Dire «Io lo credo» in senso
assertorio è paradossale, giacché predispone, con l’introduzione stessa di una relazione al
soggetto, la possibilità di una presa di distanza dal creduto; la forma più autentica di
espressione della credenza è perciò in certo modo il giudizio semplice, è la predicazione, o
meglio ancora la sussistenza di un abito comportamentale; non è dunque il verbo credere, ma
forse piuttosto il verbo essere. Proprio in questo senso la credenza verrà indagata da
Wittgenstein sotto la voce della «certezza».

*
* *

89
FP1, § 701.
40

In PP2 § 45 Wittgenstein parla dei concetti di comprendere, sapere (potere) e credere


come appartenenti ad una medesima «categoria». Egli scrive:
“Io voglio parlare di uno «stato di coscienza» e dare questo nome al vedere una determinata
immagine, alla percezione di una nota, a una sensazione di dolore, a una di gusto, ecc. Quello che
voglio dire è che credere, capire, sapere, avere intenzione di, e così via, non sono stati di coscienza. Se
per il momento chiamo tutto ciò «disposizioni», allora una differenza importante fra disposizioni e
stati di coscienza è il fatto che una disposizione non viene interrotta da una discontinuità di coscienza
o da uno spostamento dell’attenzione. (E questa naturalmente non è un’osservazione causale). È
davvero difficile che qualcuno dica di aver creduto a una cosa, o di averla capita, «ininterrottamente»
da ieri. Un’interruzione della credenza sarebbe quindi un periodo di incredulità, e non, ad esempio, un
semplice distogliere l’attenzione dalla cosa creduta o, ad esempio, il sonno.”

In seguito Wittgenstein toglierà dall’ambito delle «disposizioni» l’intenzione, in


quanto avere un’intenzione non partecipa appieno al carattere dominante delle disposizioni,
che è quello di presentarsi grammaticalmente come appartenenze costitutive del soggetto 90.
Credere, comprendere, sapere non sono qualcosa che possiamo assumere o dismettere
volontariamente, al contrario noi possiamo mutare intenzione con un atto di volontà. In
quanto possessi costitutivi del soggetto tali «disposizioni» non sono dei vissuti, non sono
esperienze di cui possiamo individuare obiettivamente un momento iniziale ed un momento
finale: le disposizioni non hanno autentica durata 91. Una parentesi andrebbe però aperta a
proposito del comprendere, il quale, a differenza di sapere e credere, può aver luogo con
vissuti caratteristici: il comprendere può essere considerato un’esperienza, ed in questo senso
accadere in un dato momento. Ma, come abbiamo visto, non essendo riconoscibile come
comprendere effettivo se non alla luce del sapere conseguente, manca ogni modo di
individuare tale momento. Trattare il comprendere senz’altro insieme al sapere come
«disposizione» sembra nascondere una parte dell’uso del concetto, ma niente di più
chiarificante sembra rintracciabile nella trattazione wittgensteiniana a proposito e a quella ci
vogliamo qui fermare.
I concetti di disposizione manifestano un’aderenza interna del soggetto alla realtà, essi
sono concetti in certo modo ontologici, cioè nominano ciò che il soggetto non può che
considerare come essente. Come sempre nell’uso dei verbi psicologici, i verbi di disposizione
mostrano però una divergenza essenziale nell’uso della prima e della terza persona: in prima

90
FP2, § 243.
91
Il lettore italiano può rimanere perplesso confrontando quanto abbiamo appena detto con quanto si legge
nelle Ricerche Filosofiche a p. 253: “Io la penso così: Il credere è uno stato dell’anima. Ha una durata; e
tale durata è indipendente, per esempio, dalla durata della sua espressione in una proposizione. (…)”. – In
realtà questa menzione della durata appartiene soltanto alla traduzione italiana, che, di per sé legittima,
solleva però problemi se messa a confronto con le posizioni che compaiono a proposito della «durata» delle
disposizioni nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia. Il passo tedesco suona così: “Ich denke so:
Glauben ist ein Zustand der Seele. Er dauert an ( = perdura); und unabhängig vom Ablauf seines Ausdrucks
in einem Satz, (…)”.
41

persona «io credo», «io so», «io comprendo» sono segnali che manifestano ad altri una mia
aderenza ad un determinato processo reale. In questa accezione tali verbi non descrivono un
mio stato di coscienza, ma esprimono una mia condizione immanente a beneficio della
considerazione altrui. In terza persona invece «egli sa», «egli crede», «egli comprende» si
riferiscono ad attività che possono essere messe alla prova e dunque descrivono una certa
coordinazione tra un soggetto in terza persona e la realtà. In prima persona i verbi di
disposizione equivalgono ad enunciazioni sull’essere, in terza persona equivalgono ad
enunciazioni sul rapporto tra soggetto obiettivato ed essere. Va inoltre osservato che tra la
prima persona di un verbo di disposizione ed un’enunciazione ontologica vige ancora una
lieve differenza, in quanto «piove» attrae primariamente l’attenzione sulla realtà, mentre «so
che piove» porta alla luce simultaneamente la mia consapevolezza di un rapporto con la realtà
mediato da criteri intersoggettivi (i criteri comuni per decidere se davvero «so»).
Osservazioni analoghe a quelle svolte per i verbi di disposizione possono essere svolte per i
verbi di percezione, come «vedere», salvo per una differenza essenziale: ciò che è percepito si
dà come un vissuto attuale di qualcosa di indipendentemente sussistente, laddove una
disposizione si dà come un possesso intemporale di un rapporto a qualcosa di
indipendentemente sussistente. I verbi di disposizione segnalano la sussistenza di un concetto,
di un possesso a parte subjecti che va al di là di tutti gli esempi, di un significato che va al di
là di ogni sua incarnazione; al contrario i verbi di percezione segnalano una relazione attuale,
temporalmente circoscritta e determinata a parte objecti. Quando in taluni atti percettivi,
come quello citato (vedi sopra: nota 68), si può essere indecisi tra esprimere l’esperienza
corrente come un sapere o come un vedere, il terreno comune che emerge è proprio quello del
riconoscimento di una datità autonoma, di cui è però dubbia l’origine determinante (oggettiva
o soggettiva).
Questa discussione, come quelle che seguiranno, possono lasciare al lettore
l’impressione che ci si occupi di analisi più o meno sottili di certe consuetudini linguistiche,
senza che però la dimensione piena delle questioni filosofiche tradizionali venga toccata. Per
quanto sia stato detto che la nozione di linguaggio, come reintrodotta attraverso quella di
gioco linguistico, sia da intendersi sempre in connessione interna con la realtà (prassi,
circostanze ambientali), l’impressione che di una pura disquisizione verbale si tratti può
risultare dominante. In realtà le analisi qui compiute da Wittgenstein si collocano
consapevolmente al medesimo livello di discorso delle più classiche tra le questioni
filosofiche: cosa è la conoscenza e quali sono i suoi limiti? Quali sono i rapporti tra fede e
sapere? ecc. Wittgenstein non ci mostra generalmente queste possibili applicazioni,
42

limitandosi ad affermare che questo è il livello a cui le domande filosofiche possono avere e
legittimamente hanno risposta. Nei limiti della presente trattazione non possiamo dedicare
un’analisi dettagliata all’illustrazione della portata pienamente filosofica (ontologica)
dell’indagine sui concetti psicologici, così come esibita da Wittgenstein. Nella parte
conclusiva del lavoro cercheremo comunque di dare qualche ulteriore indicazione a questo
proposito.
Svariate soglie concettuali circoscrivono l’area dei verbi di disposizione; le
disposizioni non sono volontarie, non si manifestano come provenienti dalla realtà esterna,
non hanno il carattere di una particolare «presa di posizione» rispetto alla realtà, ma piuttosto
di una appropriazione del reale tout court. È opportuno ordinare la nostra trattazione
scegliendo una di queste soglie concettuali e perseguendola per passaggi immanenti;
proveremo perciò ad esaminare la transizione tra l’involontarietà delle disposizioni e la
volontarietà delle azioni soggettive in senso proprio.
43

VOLIZIONI

1. Aver l’intenzione (Beabsichtigen) ed intendere (Meinen)

Come abbiamo visto Wittgenstein manifesta qualche indecisione nell’attribuire una


collocazione all’intenzione rispetto alle disposizioni. Nell’aver l’intenzione manca quel
fattore ottativo che è presente nel desiderare, tuttavia un fattore volitivo è ben presente. L’aver
l’intenzione è assimilabile alle disposizioni in quanto «non colora i pensieri», non è
emozionalmente connotato, non è una “nota spirituale” 92 che accompagna il pensiero; esso
però non ci informa sulle inclinazioni soggettive, sulle disposizioni del soggetto, ma solo su di
un momento della sua azione.
“Perché, oltre a dirgli quello che ho fatto, voglio anche comunicargli un’intenzione? - Non
perché l’intenzione fosse anche qualcosa che ha avuto luogo allora. Ma perché voglio comunicargli
qualcosa su di me; qualcosa che va oltre ciò che è accaduto allora. Quando gli dico quello che volevo
fare gli dischiudo il mio intimo. – Non però sulla base di un’auto-osservazione, ma attraverso una
reazione (si potrebbe chiamare anche chiamarla un’intuizione).” 93

La funzione della dichiarazione di intenzione, ci si dice, non è una funzione


descrittiva. In verità nessun verbo psicologico utilizzato nella prima persona ha una funzione
eminentemente descrittiva, e ciò risulta piuttosto chiaro considerando che il senso di una
descrizione sta nel presentare un quadro accessibile intersoggettivamente, mentre tale
possibilità è sin dall’inizio esclusa per un’espressione in prima persona di stati psicologici.
Due cose sono da notare in questo passo: la prima è che la forma passata di volere equivale a
quella passata di aver l’intenzione («Avevo l’intenzione di fare» = «Volevo fare»), mentre
nella forma presente i due verbi si differenziano. Questo si chiarisce pensando che, come
vedremo meglio, volere è già sempre un fare (cosciente e teleologicamente orientato) definito
però nel suo farsi e non come fatto compiuto, perciò la forma passata del volere deve limitarsi
all’avvio del volere, all’intenzione, escludendo l’azione, ormai definita nella sua fattualità. Il
secondo punto da tener in considerazione è che quando comunico la mia intenzione non lo
faccio sulla base di un’autosservazione, ma di una reazione; ora, che non di
un’autosservazione si tratti risulta abbastanza chiaro, giacché non si danno né comportamenti,
né sentimenti specifici dell’aver l’intenzione; ma come possa essere concepita la «reazione»,
che consente di riconoscere l’intenzione come tale, questo risulta piuttosto oscuro. L’unico

92
RF, § 592.
93
RF, § 659.
44

appiglio che Wittgenstein sembra darci per intendere questo riconoscimento tramite
«reazione» è legato all’affinità tra «avrei voluto» e «avrei potuto proseguire», dove l’elemento
disposizionale nell’intenzione, cioè il saper fare (in situazione) può essere riconosciuto così
come sempre si riconosce una capacità, cioè mettendola alla prova e riconoscendo il modo di
reagire alla prova: «Avevo l’intenzione di dire che...», cioè, ricordo ciò che stavo dicendo, il
contesto e ricordo le motivazioni, e, al presente, ciò mi suggerisce questa determinata
direzione di proseguimento. Io, tuttavia, so di avere un’intenzione, non «percepisco» la mia
intenzione, né l’inferisco da altri fattori, ed è perciò difficile descrivere «come» lo so
attraverso una nozione come quella di reazione, o parimenti di intuizione: l’intenzione non è
una disposizione, se non nella misura in cui le è essenziale un sapere, che invece è una
disposizione; la natura caratteristica dell’intenzione non può essere messa alla prova 94. La
collocazione grammaticale dell’intenzione può chiarirsi pensando che è impossibile dire «Sto
per aver l’intenzione», o «Mi accingo ad aver l’intenzione» 95. Aver l’intenzione è un verbo
che segnala un momento d’avvio, non un istante, ma neppure un tratto di tempo: è un inizio
logico, un prima del suo dopo, indipendente da determinazioni di durata 96. Ciò che
l’intenzione inizia è il volere. Come per il volere, l’intenzione presuppone in certo modo il
sussistere di un’abitudine, di una tecnica: l’intenzione è intenzione di fare; l’idea che, in
quanto momento interiore, l’intenzione possa balenare prescindendo completamente dalla
realtà, dal passato e dal futuro, che si possa iniziare, nell’intenzione, una partita a scacchi in
un mondo in cui non si è mai giocato prima, e che scomparirà un momento dopo, trascura il
fatto che non si può aver l’intenzione di giocare a scacchi senza sapere le regole del gioco, e
che dunque le condizioni di possibilità dell’aver l’intenzione si allargano alle condizioni del
sapere, cui non è grammaticalmente ascrivibile la momentaneità 97. Per l’intenzione, rispetto
alla volontà, si presenta una situazione simile a quella della comprensione rispetto al sapere:
entrambi i concetti sono concepibili come momenti limite dei correlativi. D’altro canto non
c’è soltanto una struttura parallela, ma c’è anche un legame interno tra volere e sapere, il
quale fa sì che si dia un’impostazione comune del problema di «cogliere in un momento» un
intero processo: così come sembra costituire una situazione paradossale, quella in cui si
comprende in un momento un sapere relativo ad un processo nel tempo, parimenti sembra
rappresentare un problema il fatto che l’intenzione implichi in un solo momento l’intero

94
FP2, § 243.
95
FP1, § 598.
96
Cfr. FP2, § 178.
97
RF, § 205.
45

processo volitivo che segue in tutta la sua estensione. Ma la risposta è la medesima del caso
del comprendere:
“L’intento (Absicht) è adagiato nella situazione, nelle abitudini e nelle istituzioni umane. Se
non ci fosse la tecnica del giuoco degli scacchi, non potrei avere l’intenzione di giocare una partita a
scacchi. L’intendere la forma di una proposizione ancor prima di enunciarla è reso possibile dal fatto
che io sono capace di parlare la mia lingua.” 98

Di un’intenzione ha senso parlare solo nel quadro di un sapere consolidato come


sfondo, e della storia precedente in cui il caso attuale si innesta 99. Così, dice Wittgenstein:
“Quando vedo venire l’uomo del latte, prendo la mia brocca e gli vado incontro. L’esperienza
che faccio è forse quella di avere un’intenzione? Che io sappia, no. (Non più di quanto io tenti di
camminare, quando cammino). Se però venissi fermato e qualcuno mi domandasse: «Dove volevi
andare con quella brocca?», allora sì che io esprimerei la mia intenzione. ” 100

Un caso del genere è interessante proprio per la sua normalità: il moto di andare verso
il lattaio è un moto quotidiano, tuttavia non avrebbe senso considerarlo un puro automatismo,
perché le situazioni in cui mi posso trovare quando il lattaio appare possono essere le più
disparate, ed io non ho appreso un meccanismo continuo che da ciascuna di queste situazioni
fa scaturire il movimento verso il lattaio: se e quando egli compare io mi muovo; d’altra parte,
se non si può parlare di un atto inconscio, non si può neppure parlare, almeno non
necessariamente, di un momento di decisione in cui mi sono rappresentato distintamente
l’azione successiva, mi sono detto qualcosa, e poi ho agito. È corretto dire che avevo
l’intenzione di andare a prendere il latte, anche se non ho esperito tale intenzione in qualche
modo caratteristico, e la correttezza di questa comunicazione riposa sul fatto che un tempo ho
appreso a fare questa azione, che ora la so, e che di fronte ad un’interruzione dell’azione mi
trovo posto alla soglia d’accesso dell’azione volontaria successiva, dunque nel luogo
grammaticale dell’intenzione 101. Queste osservazioni sono di estrema importanza in quanto
sono essenzialmente legate alla questione della determinazione della natura dell’azione.
L’analisi dell’intenzione ci mostra che di azione cosciente si può parlare non solo con
riferimento ad un processo decisionale esplicito, ma anche con riferimento semplicemente ad
una struttura di abiti, di percorsi, in cui non interviene un peculiare vissuto riflessivo, un
«passo indietro» della coscienza. Il nostro comportamento può essere vigile, razionale, attivo,
senza che alcun momento di mediazione attuale abbia luogo.

98
RF, § 337.
99
RF, § 644.
100
FP1, § 185.
101
Per un quadro complessivo dello sviluppo dell’analisi sull’«intenzione» confronta Gargani A.G., Linguaggio
e intenzionalità in L.Wittgenstein, in Wittgenstein e il Novecento, a cura di Egidi R., Roma, Donzelli, 1986,
pp.25-35.
46

Di particolare interesse si dimostra ora il rapporto tra l’uso del verbo intendere nel
senso di «aver l’intenzione» e di «intendere qualcosa con qualcosa». In tedesco i verbi in
questione sono chiaramente distinti (Beabsichtigen e Meinen). In ogni caso un’affinità d’uso è
molto evidente e Wittgenstein stesso passa spesso dall’analisi dell’uno a quella dell’altro: in
entrambi i casi si ha una proiezione volitiva, che avviene in un dato momento, e che indica
una direzione comportamentale al di là di esso, implicando un intero processo; e in entrambi i
casi non vi sono criteri esterni extralinguistici per determinare se un soggetto compie l’atto
descritto dal verbo. L’affinità può essere messa in evidenza se immaginiamo che la medesima
scena del lattaio sia parte di una recita a soggetto: di fronte alla domanda: «Che intenzione
avevi?» potremmo rispondere sia «Intendevo andare incontro al lattaio» (Absicht), sia
«Intendevo che il protagonista mostrasse la sua impazienza andando incontro al lattaio»
(Meinen). Nel primo caso riferisco dell’orientamento della mia azione, nel secondo caso del
suo significato. Chiaramente quando mi riferisco al significato, di esso fa parte anche l’azione
intenzionata dal protagonista, e dunque anche la sua intenzione tout court. Dobbiamo dunque
dire che l’aver l’intenzione è un caso particolare dell’intendere? È vero che ogni qualvolta
«ho l’intenzione di...» è implicito anche un «aver inteso» l’azione susseguente, tuttavia la
funzione dei due verbi è molto diversa, e perciò non è possibile trasporre senz’altro l’uno
come funzione specificata del secondo. In una forma particolare come «Con ciò intendevo
dargli a vedere...» i due verbi vengono a sovrapporsi: avevo l’intenzione, e questa intenzione
era rivolta ad una manifestazione di significato: questa possibilità di sovrapposizione è data
dal fatto che qui la mia azione funziona come segno per un significato, annullando qui la
differenza specifica tra i due usi verbali. Ma in generale non si tratta di usi ordinabili secondo
una maggiore o minore specificità, perché, per così dire, cambia non solo l’estensione, ma
anche la forma delle due aree semantiche: aver l’intenzione è riferito ad un’azione soggettiva,
intendere ad un segno obiettivato. In questo senso tra aver l’intenzione ed intendere si mostra
uno dei luoghi di transizione tra la centralità del soggetto e quella dell’oggetto nell’ambito
delle volizioni: aver l’intenzione di… trae l’oggetto dell’azione dal soggetto, mentre intendere
si riferisce ad un segno, non necessariamente prodotto dal soggetto stesso che lo intende in un
certo modo. Va osservato a questo proposito che il verbo italiano «intendere» copre un’area
differente rispetto al tedesco meinen, il quale può essere tradotto quasi sempre con
l’espressione italiana «voler dire». «Intendere» si sposta ancor di più verso il piano ricettivo
in quanto implica anche un uso analogo a «comprendere» e ad «interpretare»: intendo le mie
parole in un certo modo, ed intendo le sue parole in un certo modo, ma nel secondo caso
chiaramente il momento recettivo è prioritario.
47

L’uso del verbo intendere (meinen) è particolarmente interessante se rammentiamo la


funzione che nei Quaderni, e implicitamente nel Tractatus, aveva l’intendere per definire il
funzionamento delle proposizioni in quanto immagini 102. Lì si diceva che la proposizione
doveva poter essere analizzata fino a giungere agli elementi semplici, che proiettano
immediatamente il proprio significato, e tale assoluta determinatezza di senso della
proposizione era motivata dal fatto che ciò che intendiamo, in qualche modo, coglie sempre il
suo oggetto, anche se l’espressione linguistica utilizzata può essere intersoggettivamente
fallimentare; ovvero, se io dico qualcosa pensando ciò che dico, quand’anche l’altro non
capisca affatto ciò che sto dicendo, la mia intenzione lo ha colto, ed è perciò che di solito
posso tentare un’ulteriore spiegazione di ciò che ho detto. Ciò che intendo, il senso della
proposizione, non può essere mediato, specificato infinitamente: le ragioni debbono avere una
fine e questo lo mostra proprio l’assoluta determinatezza dell’intendere. In certo modo si può
dire che l’intendere era per il Wittgenstein del Tractatus una garanzia extralinguistica del
funzionamento della significazione. In linea con l’evoluzione generale avvenuta tra la prima
opera ed il seguito, la collocazione ambigua, e di principio non legittimamente enunciabile,
dell’intendere diviene più tardi una questione linguistica (logico-grammaticale) senz’altro. Se,
ad esempio, dopo aver escogitato un calcolo per determinati scopi, emerge inaspettata una
contraddizione, noi siamo inclini a dire «Così non l’avevo inteso» 103; questo però non vuol
dire che mi ero rappresentato quel caso e lo avevo volontariamente escluso. Quando dico che,
insegnando la numerazione per uno ho inteso che dopo 100 dovesse seguire 101, questo non
vuol dire che ho pensato a questo passaggio sin dall’inizio 104. Si potrebbe dire che se per
intendere io mi rappresentassi sempre il quadro completo di tutto ciò che intendo, allora non
potrebbe essere vero che l’intendere coglie sempre il suo oggetto, giacché potrebbe ben darsi
che il quadro finito che mi sono fatto, esattamente come le proposizioni raffigurative del
Tractatus, avesse una molteplicità logica inadeguata, cioè in sostanza fosse falso. Invece il
tratto caratterizzante dell’intendere è che noi usiamo l’espressione proprio in riferimento a ciò
che non abbiamo immaginato o detto esplicitamente. Dobbiamo dire che l’intendere è una
pura interiorità, un atto spirituale irriducibile a fattualità?
“Immagina di avere dei dolori e, nello stesso tempo, di sentir accordare un pianoforte nella
stanza accanto. Dici: «Finirà presto!» C’è certamente una differenza, se tu intendi il dolore o
l’accordatura del pianoforte. – Certo, ma dove sta la differenza? Ammetto che in molti casi
all’intenzione corrisponde una direzione dell’attenzione, così come sovente ad essa corrisponde uno

102
Q, 20.6.15.
103
RF, § 125.
104
RF, § 693.
48

sguardo, un gesto, o un socchiudere gli occhi, che potremmo chiamare un «guardar-dentro-se-stessi».


” 105

Ma questa concessione implica anche che una descrizione soddisfacente del «vissuto
oggettivo» che accade nell’intendere sembra comunque impossibile: “le risposte che lì per lì
ci si presentano non servono.” 106 Ho inteso quel che ho inteso, senza dubitarne, ma anche
senza sapere tematicamente ciò che intendevo, e tutti i fattori descrivibili che accompagnano
il «momento» dell’intendere sono irrilevanti. Ma, chiediamoci allora, che funzione ha una
comunicazione in cui occorre il verbo intendere? Se dico: «Con quel gesto intendevo...»,
oppure «Egli intende l’altra parte», queste sono essenzialmente spiegazioni semantiche: esse
esplicitano a posteriori qualcosa che era implicito in un segno o in una serie di segni. Ovvero:
quando intendo non agisco, né sto per agire, ma riconosco una connessione che è già stata
instaurata. In quest’ottica si scorge il legame tra la questione del seguire una regola e quella
dell’intendere: l’intendere non fonda la «regola», l’abito, ma al contrario la presuppone 107; ed
in questo senso l’intenzione non insegna nulla, ma semplicemente giustifica a posteriori
illustrando un percorso implicito. Se qualcuno nell’insegnare una regola dice, di fronte ad una
deviazione dell’allievo, di non aver inteso la regola così, ciò è perfettamente corretto, anche se
quella specifica deviazione non era stata in precedenza pensata. Ma allora: “Come dobbiamo
giudicare se un altro ha inteso questa cosa? – Che per esempio, quel tale dominava una
determinata tecnica dell’aritmetica e dell’algebra e ha insegnato all’altro, nel modo solito, lo
sviluppo di una successione.” 108 Dunque il criterio per riconoscere l’intendere dall’esterno può
ridursi al riconoscimento di un processo consolidato, cui si aggiunge un comportamento
linguistico rivolto all’uso di segni. Chiaramente questo comportamento linguistico deve rifarsi
a sua volta ad un uso segnico consolidato: “Posso, con la parola «bububu», intendere «Se non
piove andrò a passeggio?» - Soltanto in un linguaggio posso intendere qualcosa con
qualcos’altro.” 109 Questo esempio è assolutamente inequivoco: con quell’espressione
arbitraria non posso intendere un bel niente in quanto perché qualcosa sia inteso in un modo o
in un altro essa deve essere sedimentata in un uso linguistico comune; solo in tal caso si parla
di «intendere», solo quando esplicitiamo un comportamento sedimentato, già percorso. Dubbi
tuttavia sembrano poter sorgere in casi come: dire «Qui fa freddo» ed intendere «Qui fa

105
RF, § 666.
106
RF, § 678.
107
RF, §§ 186-7.
108
RF, § 692.
109
RF, p.30.
49

caldo» 110. In questo caso si può esser tentati di dire che è possibile intendere contro l’uso
verbale consolidato; ma cosa facciamo realmente in un caso del genere? ha senso dire che noi
stiamo intendendo diversamente quei segni? Ciò che può accadere è ad esempio che noi
pronunciamo le parole «Qui fa freddo» ed intanto immaginiamo, in qualche modo, di
scoppiare dal caldo, ma questo non significa che noi usiamo quelle parole per intendere che
scoppiamo dal caldo, noi semplicemente compiamo parallelamente un atto linguistico ed un
atto immaginativo. Oppure potremmo intendere «Qui fa freddo» ironicamente,
accompagnando l’espressione con una qualche sorta di gesto (interiore o esteriore), tipo un
sollevare delle sopracciglia o un mutare tono di voce, che trasforma «Qui fa freddo» in
qualcosa come «Qui fa freddo, e come no…!». In questo caso però tale espressione non
equivale affatto all’espressione non ironica «Qui fa caldo»: l’ironia presuppone che il contesto
imponga un significato diverso da quello usuale enunciato, e ciò che noi facciamo
nell’intendere ironicamente è proprio di intendere le parole in modo usuale, ma con
l’attenzione ad un intorno ambientale o gestuale che smentisce quel significato. In ogni caso
l’intendere funziona solo sulla base dell’uso consolidato, e tutto ciò che si può fare è di
pensare, contemporaneamente all’espressione del segno in questione, a cose diverse da quelle
usualmente ad esso connesse; ma l’intendere non è né pensare, né rappresentarsi, giacché esso
è sempre solo l’illustrazione di una prosecuzione in dipendenza da un punto dato.
L’aposteriorità dell’intendere rispetto all’uso è ciò che spiega l’apriorità con cui l’intendere
coglie il suo oggetto: lo coglie sempre perché si limita a illuminare ciò che è già sempre colto,
non inventa nulla. L’intendere non è un processo, così come un calcolo non è un
esperimento 111: nel calcolo, come nell’intendere, il processo è già inglobato e risolto, non
rappresenta un problema, ed il senso dell’illustrare ciò che si intende, o di illustrare la regola,
sta nell’illuminazione di una connessione già disponibile.
L’intendere, in quanto legato ad un’esplicitazione di segni (o di oggetti, che fungono
da segni) ha una chiara affinità con l’interpretare, su cui dovremmo soffermarci, ma prima di
farlo è il caso di analizzare direttamente il concetto di «volere», la cui soglia di transizione
rispetto all’aver l’intenzione abbiamo già scorto.

2. Volere (desiderare)
Il tema della volontà è presente nella riflessione wittgensteiniana con particolare
rilievo sin dal periodo di preparazione del Tractatus (Q, 17.10.16 - 19.11.16). Della volontà

110
RF, § 510.
50

non era legittimo parlare nei limiti di senso del trattato in quanto la volontà non era
rappresentazione, non compariva come fenomeno nel mondo e dunque non era un possibile
oggetto di predicazione sensata. L’analisi della volontà fatta allora (e di cui ci sono poche
tracce nel trattato) viene sostanzialmente riconfermata ora. Ricordiamone alcuni tratti salienti,
prima di procedere secondo il metodo dell’analisi grammaticale:
“I sentimenti che mi convincono del processo di un atto di volontà hanno una qualche
particolare proprietà, che li distingue da altre rappresentazioni? Sembra di no! (...) È chiaro: È
impossibile volere senza esercitare già l’atto di volontà. L’atto di volontà non è la causa dell’azione,
bensì l’azione stessa. (...) Ma non accade il movimento voluto del corpo esattamente così come ogni
cosa non voluta nel mondo, soltanto accompagnato dalla volontà? Ma esso non è accompagnato dal
desiderio! Bensì dalla volontà. (...) Desiderare non è fare. Ma volere è fare. (Il mio desiderio si
rapporta per esempio al movimento della seggiola [con la sola «forza di volontà», ndr.], la mia volontà
ad un sensazione muscolare.)” 112

Queste tesi dei Quaderni possono essere rintracciate, in una veste stilistica alquanto
mutata, e con maggiori precisazioni, in scritti di trent’anni dopo, in primo luogo per quanto
concerne il rapporto con l’azione e la differenza specifica dal desiderare:
“«Se non è una sorta di desiderio, il volere dev’essere l’azione stessa. Non può arrestarsi
prima che l’azione cominci.» - Se è l’azione, lo è nel senso ordinario della parola; dunque: parlare,
scrivere, camminare, sollevare qualcosa, immaginare qualcosa. Ma anche: tentare, provare, sforzarsi, -
di parlare, di scrivere, di sollevare qualcosa, di immaginare qualcosa, e così via..” 113

Il volere è già l’agire, ma di questa azione è parte costitutiva essenziale la


rappresentazione della pratica seguente; tale rappresentazione è presa però come punto
immediato d’inserzione dell’azione, e non come semplice rappresentazione della possibilità di
un’azione, anche se l’azione può fallire e la volizione rimanere al livello di tentativo. Tentare
è già volere, perciò: “(…) si potrebbe dire: «Solo in quanto non tento mai di volere, posso
sempre volere.” 114 Ma questo non fa di agire e volere dei sinonimi; se dico descrittivamente:
«Voglio sollevare il peso» questo implica il riferimento al tendere dell’azione in una
direzione, con l’implicita possibilità di fallire, mentre dicendo semplicemente: «Sollevo il
peso», il decorso e la sua inclinazione non sono intesi, e con ciò, per così dire, l’alterità e la
resistenza della realtà vengono trascurate. Essenziale alla determinazione della volontarietà è
la posizione iniziale di una rappresentazione. Memori anche del ruolo dell’immagine mentale
nello sviluppo del Tractatus e nel superamento delle sue tesi, dobbiamo introdurre qui una

111
RF, p.286.
112
Quaderni 1914-1916, osservazione del 4.11.16, sta in Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Torino,
Einaudi, 1968 (d’ora in poi Q, seguito dalla data).
113
RF, § 615.
114
RF, § 619.
51

breve digressione concernente la natura della rappresentazione, come passaggio necessario


per intendere la natura grammaticale dei processi volontari.
- Rappresentazione ed immagine. La rappresentazione, dice Wittgenstein, va
chiaramente distinta da ciò che possiamo nominare come immagine: verso l’immagine si ha
una disposizione ricettiva e non attiva. “Una rappresentazione non è un’immagine, ma
un’immagine può corrispondere a una rappresentazione.” 115 La rappresentazione, e questo è
un punto di differenziazione essenziale rispetto al Tractatus, deve essere rigorosamente
distinta tanto dalle impressioni sensoriali, come un ritratto, che dalle allucinazioni 116. Rispetto
alla rappresentazione, infatti, non ci si comporta come osservatori 117. La rappresentazione è
già sempre all’opera come «rappresentazione di»; non si tratta appena di riconoscere nella
rappresentazione il suo oggetto, così come in un ritratto riconosciamo l’originale raffigurato.
In questo senso l’uso-immagine delle parole va contrapposto alla rappresentazione, cui invece
inerisce già sempre l’applicazione. “Non è che prima impariamo a conoscere le
rappresentazioni e solo in seguito impariamo a piegarle al nostro volere. (...) Come se la
volontà fosse un influsso, una forza, o anche: un’azione primaria, che è allora la causa delle
azioni esterne percepibili.” 118 L’azione volontaria pone la rappresentazione come proprio
punto di partenza, come prospettiva, direzione consaputa che determina l’azione come
volontaria; la rappresentazione è l’avvio dell’azione in quanto «interno», e nella
rappresentazione deve darsi la ragione (non la causa) di ciò che da lì prende le mosse.
L’ambiguità presente nel Tractatus nell’affermare che le immagini sono fatti (2.141) e che
però all’immagine appartiene la relazione rappresentativa che ne fa un’immagine (2.1513)
viene qui sciolta: se l’immagine è un fatto, allora essa non è, funzionalmente, intenzionale,
non è «rappresentazione di…». La rappresentazione in quanto uso-immagine immanente nello
svolgimento di un significato emerge soltanto come richiamo «sensibile» del significato,
senza dover essere obiettivata per intenderne il senso: perciò l’uso-immagine del linguaggio
non è affatto un’immagine; alla rappresentazione può poi esser fatta corrispondere
un’immagine, nella misura in cui l’uso-immagine viene obiettivato e concepito come
riassunto dell’intero significato. L’operazione in cui identifichiamo i lineamenti di
un’immagine è differente e distinta da quella in cui essa rinvia ad un altro oggetto: analizzare
la forma di una freccia è essenzialmente diverso dall’utilizzarla per indirizzare il nostro
cammino.

115
RF, § 301.
116
FP2, § 112.
117
FP1, § 885.
118
FP1, § 900.
52

In comune tra rappresentazione ed immagine percettiva c’è il fatto che il linguaggio


con cui descriviamo una rappresentazione, nella misura in cui ci sentiamo di descriverla, è un
linguaggio costituito con concetti di percezione 119; tuttavia non bisogna dimenticare che
spesso non c’è alcun senso plausibile in cui possiamo descrivere una rappresentazione. La
rappresentazione non è, humeanamente, un’impressione illanguidita 120. Rappresentarsi una
realtà possibile è un’attività, non uno stato di coscienza ricettiva, e presuppone un certo sapere
sulla realtà. La rappresentazione è il momento di mediazione che consente di «sapere ciò che
si vuole», di prefigurare ciò che verrà compiuto e che perciò è considerato soggetto
all’arbitrio.
-------------
Tornando alla natura del volere, bisogna notare che il volere propriamente qualcosa
presuppone il dominio di una pratica. Tale pratica, consaputa nella sua rappresentazione, può
poi essere avviata o meno, per l’appunto a volontà 121. Il volere ha come condizione un potere,
ed in particolare il potere come possesso soggettivo, cioè come sapere. Per giudicare che
qualcuno agisce volontariamente richiediamo di riconoscere la persistenza di una direzione
dell’azione e con ciò il suo indirizzo teleologico; ciò può accadere in vari modi: egli può
annunciare un’azione e poi eseguirla, correggere le deviazioni imposte rispetto
all’orientamento iniziale, riproponendolo, o anche talvolta limitarsi ad operare adeguatamente
in un contesto con regole molto rigide, dove sappiamo essere necessario un intervento
riflessivo (riparare un motore, giocare a scacchi, ecc.). In tutti questi casi è essenziale riuscire
a riconoscere una separazione tra diversi momenti dell’azione, ed una permanente coerenza
tra di essi. In questo, come in tutti i casi, nel nostro riconoscimento esterno di un
comportamento come volontario sono operanti numerosi presupposti di fondo circa la
«normalità umana»: ad esempio assumiamo come identificabili fini che sono identificabili
anche per noi, oppure riteniamo impossibile che egli conosca a memoria tutte le possibili
partite a scacchi fino alla cinquantesima mossa, ecc.. Come nel caso delle disposizioni, la
comunicazione in prima persona «io voglio ...» non è una relazione su di un vissuto interno,
su di una particolare sensazione, ma è un’indicazione agli altri sul modo di scorgere la
coerenza e l’unità finale nelle mie azioni. Nella misura in cui non posso tentare o fallire di
volere, in cui cioè non c’è distanza tra me e la mia volontà, non posso neppure riconoscere la
mia propria volontà attraverso criteri (come invece faccio per il mio sapere). Si può perciò
dire che volontà e soggettività sono coestensive, e sotto una certa angolatura, sono sinonimi.

119
FP1, § 885.
120
FP2, § 63.
53

Questa collocazione a parte subjecti mostra la differenza rispetto ad ogni momento recettivo,
obiettivo: il mio volere non sono le sensazioni cinestetiche che accompagnano l’esecuzione
dell’azione 122, e non ha senso parlare del volere come di un’esperienza, di qualcosa che
sopravviene 123. Dicendo, ad esempio, che, in fondo non posso guidare la mia volontà, che essa
in fondo viene quando vuole, si costruisce un ingranaggio che gira a vuoto, staccando la
volontà dalla soggettività, e concependo l’immagine di uno spazio buio alle spalle dell’atto
volontario. Ciò che è vero di una tale immagine è che la mia volontà non ha contrassegni
sensibili che la caratterizzino come mia, non sono io a determinare la mia volontà, in quanto
io, eventualmente, sono la mia volontà; perciò, come nel Tractatus, il soggetto della volontà è
sensatamente descrivibile parlando piuttosto di una “volontà del mondo” che di una volontà
che è sotto il mio controllo (una volontà che voglio). Ciò che è insensato nella concezione
stessa di «volere la propria volontà» è che viene spacciato per un fattore d’esperienza ciò che
appartiene alla costruzione grammaticale: non posso voler volere, e questo non di fatto, in
modo meramente causale, (invero posso ben gettarmi in acqua per «causare» il mio voler
nuotare), ma in quanto l’attualità che definisce la volontà non consente di concepirla come
oggetto. Io posso avere un’immagine esterna di un azione e posso desiderare di sapere come
eseguirla: questo è qualcosa che potrei essere tentato di chiamare «voler volere» qualcosa. Ciò
che però qui accade è semplicemente che posso non sapere come si fa a volere un determinato
movimento, perché ne ho solo un’immagine esteriore, ma non lo possiedo come tecnica 124
(es.: esercizi di indipendenza delle dita per vari strumenti musicali), ma se so fare quei
movimenti li posso anche volere senz’altro. Ed inversamente, se davvero voglio fare qualcosa
devo sapere come la mia volontà si estrinseca in azione, devo saper fare ciò che voglio,
altrimenti posso tutt’al più parlare di «desiderio», non propriamente di volontà.
Proviamo a lasciar emergere la soglia tra volontà e desiderio:
“Quando sollevo il mio braccio non ho desiderato che potesse sollevarsi. L’azione volontaria
esclude questo desiderio. In verità si può dire: «Spero che disegnerò il cerchio senza errori». E così
dicendo si esprime il desiderio che la mano potrà muoversi in questo modo, così e così.” 125

Nel primo caso si domina un movimento e la rappresentazione (il pensiero) che


introduce l’azione determina sostanzialmente solo il punto di inserimento dell’atto, senza

121
FP1, § 897. Cfr. RF, § 338.
122
RF, § 621.
123
RF, § 611.
124
RF, § 617.
125
RF, § 616.
54

rappresentarlo nel senso di una raffigurazione 126; nel secondo caso invece ciò che è realmente
posseduto è soltanto l’immagine del movimento, mentre la sua esecuzione è incerta: in tal
caso si può parlare di desiderio, giacché ad essere inteso non è un atto rivolto ad un esito, ma
un esito rappresentato e solo esso. Il desiderio “è un atteggiamento (Verhalten) dell’anima nei
confronti di una rappresentazione” 127, dove rappresentazione è qui intesa ancora come
immagine, come oggetto. La rappresentazione dell’oggetto appagante è essenziale alla
definizione del desiderio: il desiderare non è comparabile con “una sorta di fame” 128, come
Wittgenstein obietta a Russell, giacché ci può essere risoluzione della tensione che muove il
desiderio senza appagamento del desiderio, così come può esserci appagamento del desiderio
senza risoluzione della tensione. Se desidero mangiare una mela e un pugno nello stomaco mi
fa passare la fame, con ciò il mio desiderio non è stato appagato. Parimenti posso credere che
una mela mi faccia passare la fame, e, pur appagando il desiderio, mantenere la sensazione di
disagio organico. Ma, anche se è il gioco rappresentativo ciò che definisce il desiderare
rispetto al volere, il desiderare non è assimilabile al semplice rappresentare. Il desiderio,
sembra di dover dire, ha comunque un’affinità con il volere, che il rappresentare invece non
mostra. In effetti già la struttura finora esposta del desiderare ci consente di vederne, oltre alla
differenza specifica, l’unità generica col volere: il volere presuppone il saper fare; il
desiderare si presenta come un volere indipendente dal saper fare, cioè come un volere a
condizione che volere sia possibile: desiderare, si può dire, è il condizionale di volere. E in
effetti la coniugazione condizionale del volere non esprime più volontà, ma desiderio: «Io
vorrei» è, in certo modo, una forma del verbo desiderare. Desiderare ha anche una certa
analogia con aver l’intenzione di fare qualcosa, tuttavia il desiderio ha un carattere
essenzialmente più «velleitario», proprio in quanto gli manca il legame essenziale col saper
fare proprio del volere. Rispetto all’aver intenzione il desiderare può essere messo in
contrasto grammaticale pensando che si desidera fare, così come si può anche desiderare che
qualcosa accada, mentre non si ha l’intenzione che qualcosa accada, perché l’intenzione si
può riferire solo ad un saper fare.
L’espressione del desiderio in prima persona non è la descrizione di uno stato
d’animo, cioè non ha la funzione di una descrizione: “La frase «Desidererei bere del vino» ha

126
Non mettiamo qui in discussione, come sarebbe opportuno, la problematicità dell’uso della parola
«rappresentazione», nella sua costante oscillazione tra pensiero ed immagine: una sorta di definizione
provvisoria potrebbe essere determinata seguendo l’etimologia del termine tedesco «Vor-stellung», cioè pre-
posizione, in cui è rilevante solo la sua collocazione funzionale come introduzione ad un porre, ad un attuare,
prescindendo da eventuali caratteri obiettivi.
127
FP1, § 275.
128
BB, p.43. Cfr. RF, § 441.
55

circa lo stesso senso di «Del vino, qui (her)!». Nessuno chiamerà questa una descrizione: io
posso però dedurre da ciò che egli dice, che ne è avido.” 129 È con ciò detto che io, sia pure
indirettamente, mi sono fatto un quadro di ciò che egli sente? Ed è questo quadro il quadro del
desiderare? Da una simile comunicazione possiamo certo trarre conclusioni circa reazioni
possibili del soggetto, ed in questo modo scorgiamo il senso, l’orientamento cui il suo stato
d’animo lo dispone; ma questo stato d’animo non è un oggetto, né per me, né per lui stesso:
non è rappresentabile attraverso le sensazioni che egli sente, né attraverso le immagini
interiori che forse gli si presentano. Il desiderio non è caratterizzato da un vissuto particolare,
rispetto al quale ci comportiamo reattivamente. Certo, di fronte all’echeggiare della parola
«desiderio» possiamo avvertire, come Wittgenstein dice spesso, una determinata atmosfera,
un corpo di significato: anche la parola «desiderare» ha un uso-immagine, tuttavia in questo
come in tutti i casi non è tale vissuto del significato a garantire una conoscenza delle sue
applicazioni.
Avvicinandoci progressivamente dal piano a parte subjecti delle disposizioni a quello
a parte objecti delle percezioni troviamo un ulteriore insieme di operazioni volontarie al
livello della soglia tra il percepire e l’interpretare.

3. Interpretare
Abbiamo visto come al livello dell’intendere (Meinen) il centro di gravità delle
volizioni si spostava dall’interno, come soggetto agente, all’esterno come segni, espressioni.
Un passo ulteriore verso il lato oggettivo si presenta considerando il significato di
«interpretare», che, a differenza di intendere (Meinen), non ha primariamente un senso legato
all’identità tra chi produce l’espressione e chi la intende in un certo modo.
“Quando continuo la proposizione interrotta, e dico che allora avrei voluto continuarla così, è
come se completassi il corso dei miei pensieri seguendo brevi appunti. Allora non interpreto questi
appunti? In quelle circostanze era possibile soltanto una prosecuzione? Certamente no. Ma non fatto
una scelta tra queste interpretazioni. Mi sono ricordato che volevo dire questo.” 130

In questo caso potremmo vedere l’incrociarsi di intendere, aver l’intenzione ed


interpretare. La proposizione interrotta avevo l’intenzione di portarla a compimento; posso
dire (in taluni casi) che con quanto ho detto intendevo quanto avevo ancora da dire; e a
posteriori si può supporre che io interpreti le mie parole fornendo loro una prosecuzione
adeguata. Tuttavia, dice Wittgenstein, io non interpreto le mie parole, ma porto a compimento

129
FP1, § 469.
130
RF, § 634.
56

l’intenzione; cioè non vedo per così dire le mie parole come fossero segni altrui, di cui devo
escogitare una possibile conclusione, ma so a quale conclusione miravo, senza dover scegliere
tra diverse interpretazioni. Rispetto all’aver l’intenzione la distinzione è chiara: la mia
intenzione, in quanto avvio di un’azione volontaria, che per definizione so fare, implicava già
l’intero dell’azione, e non c’è bisogno di alcuna integrazione interpretativa. Rispetto
all’intendere (Meinen) formuliamo la seguente supposizione, seguendo Wittgenstein;
poniamo che io stessi dicendo: «Vi è in questa stanza una persona di grande valore, che
risponde al nome...» e che a questo punto fossi stato interrotto; se mi si chiedesse di dire chi
intendevo con quelle parole, si potrebbe dire che le interpreto a posteriori? Io non interpreto a
posteriori quale nome avevo intenzione di dire. L’intendere è un’esplicitazione, non
un’interpretazione: si cura cioè di portare alla luce una connessione che era già stata
implicitamente fatta, al contrario l’interpretazione porta alla luce una connessione nuova.
Tuttavia tale distinzione non è del tutto semplice giacché, si potrebbe dire, anche
l’interpretazione non inventa arbitrariamente una conclusione qualsivoglia della proposizione,
ma sceglie una possibilità, cioè un proseguimento compatibile con quell’inizio, e tali
possibilità sono comunque giacenti nel linguaggio. Perciò la differenza tra interpretare ed
intendere sembra correre lungo il discrimine tra possibilità sedimentate in generale (tra cui
avviene una scelta) da una parte ed una possibilità in qualche modo già realizzata
nell’intenzione (che viene solamente illustrata) dall’altra. Il problema sta tutto nel fatto che
questa «realizzazione nell’intenzione» non sembra distinguibile da una mera possibilità, e con
ciò la distinzione tra intendere ed interpretare verrebbe meno. Su quale base di evidenza
riusciamo a porre la distinzione tra la possibilità già intesa e la possibilità da scegliere
nell’interpretazione? “Non può darsi che l’evidenza sia troppo povera? Sì, quando la si
approfondisce sembra straordinariamente povera; ma questo non accade, forse, perché non si
fa attenzione alla storia di quest'evidenza?” 131 E a questa storia appartiene l’intera situazione
in cui l’intenzione è espressa, ma soprattutto le motivazioni che orientano l’intenzione: di
fatto se una proposizione o un discorso viene interrotto, è molto probabile che non si sappia
esattamente quali parole si sarebbero usate per portarlo a conclusione, ma la possibilità di
scelta è limitata in modo essenziale dal fatto che in generale si sa dove si voleva arrivare, cioè
il discorso giaceva tra le sponde del contesto e delle motivazioni, di cui invece solo il primo è
disponibile per il soggetto che interpreta i miei segni dal di fuori. Si potrebbe dire, forzando i
concetti, che l’intendere è un’autointerpretarsi in cui è certo anche il senso dell’azione da
interpretare; ma in tal caso ovviamente la nozione di interpretazione giunge a dissoluzione,

131
RF, § 638.
57

perché sembra non esserci spazio «interpretativo» che per variazioni dotate del medesimo
senso: dati l’inizio dell’espressione (azione), il contesto e la certezza della direzione, c’è solo
da capire, ma niente da interpretare. Per l’interpretazione il fine della sequenza da sviluppare
a partire dai segni dati è qualcosa da trovare, o comunque qualcosa che non appartiene a chi
interpreta. Nel momento in cui l’interprete dovesse travalicare questa soglia e porre lui stesso
il fine cui i segni da interpretare mirano, egli non sarebbe più interprete, ma attore:
dall’interpretare si sarebbe passati all’intendere.
Wittgenstein indaga attentamente il «fenomeno grammaticale» dell’interpretare,
soprattutto in rapporto alla percezione visiva e al problema del cambiamento d’aspetto di un
percepito. Questa angolatura preferenziale non costituisce una limitazione essenziale
nell’analisi dell’interpretare; essa rappresenta piuttosto un caso esemplare, da cui tutti i sensi
di «interpretare» possono essere scorti. Nel caso delle figure ambigue spesso utilizzate negli
esperimenti della Gestaltpsychologie si osserva con la massima evidenza la soglia di
passaggio tra la visione immediata ed il «vedere come», che è già un interpretare. Se, ad
esempio, vedo un profilo ambiguo ora come una testa di lepre, ora come una testa d’anatra
(testa L-A) 132, non posso più dire di star semplicemente percependo il disegno, così come lo
facevo prima di notare che vi sono due modi di vederlo. Come si configura la differenza tra
questi momenti?
“Vedo due immagini; in una la testa L-A è circondata da lepri, nell’altra da anatre. Non noto la
loro identità. Ne segue che vedo, tutt’e due le volte, qualcosa di diverso? – Questo ci dà una ragione
per usare quest’espressione, qui.” 133

Il dubbio in un caso del genere insorge a partire dal fatto che i tratti sensibili materiali
sono rimasti identici, ed il concetto di percepire implica un riferimento alla conoscenza della
realtà nella sua indipendenza dal soggetto. Se si accetta di dire che le due immagini sono
senz’altro diverse, si dice che la percezione non ci ha informato sulla realtà in sé, e ciò
contrasta con la nozione stessa di percezione. D’altro canto se l’eguaglianza dei tratti
materiali non è stata scorta non ci sono neppure motivi per dire che comunque quel supporto
sensibile comune all’immagine-lepre e all’immagine-anatra è stato percepito. Nel caso in cui,
di fronte alla testa L-A, posso passare arbitrariamente da un aspetto all’altro, chiamo questa
operazione un’interpretazione; ma nel momento in cui la medesima immagine mi appare una
volta in un modo ed una volta in un altro, senza che io sappia, o scorga, che vi è qualcosa di
comune, allora sembra più opportuno dire che ho percepito cose diverse. Nel momento in cui

132
RF, p. 256.
133
RF, p. 258.
58

non mi si presentano alternative, non parlo di interpretazione: guardando coltello e forchetta


non ha senso normalmente dire: “Ora vedo queste cose come un coltello e una forchetta.” 134 Il
«vedere come» presuppone la possibilità di vedere altrimenti, e questo non nel senso di una
possibilità teorica, bensì di una possibilità vissuta, concretamente compresente al vedere.
“Interpretare è un’azione. (...) Vedere non è un’azione, ma uno stato.” 135 Interpretare chiama
in causa la volontarietà del soggetto, mentre vedere è qualcosa di indipendente dalla volontà,
e dunque indipendente dalla soggettività in quanto soggettività in atto. E tuttavia, si può dire,
la soggettività è presente anche nel vedere senz’altro, tant’è vero che posso sempre
immaginarmi di vedere ciò che vedo altrimenti da come lo vedo usualmente. Guardiamo al
seguente esempio:
“Vedo un quadro che rappresenta un viso sorridente. Cosa faccio se concepisco quel sorriso
ora come un sorriso amichevole ora come un sorriso cattivo? Non accade spesso che lo immagini
inserito in un ambito spaziale e temporale amichevole o cattivo? Così potrei completare il quadro,
immaginando che il volto sorrida a un gioco di bambini, oppure alle sofferenze di un nemico. Ciò non
cambia per nulla, per il fatto che situazioni che a prima vista mi apparivano piacevoli, in un contesto
più ampio vengono poi da me interpretate in modo diverso. – Se circostanze particolari non mutano la
mia interpretazione, posso anche concepire un certo sorriso come un sorriso amichevole, chiamarlo
«amichevole» e reagire di conseguenza.” 136

L’integrazione dell’immagine con un intorno di un certo tipo la tende per così dire in
sensi diversi, ponendo differenti orientamenti intenzionali lascia scorgere conseguenze
possibili diverse 137, dunque la fa significare altrimenti. Questa integrazione è un’operazione,
un’azione produttiva, che si aggiunge ad un’«interpretazione immediata», la quale dunque
non si pone in effetti ancora come un’interpretazione, ma come una diretta detezione del
significato. Ogni «vedere come» accade come momento secondo rispetto ad un «vedere che»:
“Solo con il fenomeno del mutamento di aspetto sembra che l’aspetto si separi dal resto della
visione. È come se, dopo l’esperienza del cambiamento di aspetto si potesse dire: «Allora
quello che c’era qui era un aspetto!».” 138 Questa struttura di dipendenza rende impossibile
concepire di principio ogni vedere, ogni percepire quale un’interpretazione. Ma, si vorrebbe
chiedere, quali limiti non puramente relativi si potrebbero dare tra percepire ed interpretare?
Ovvero: se una medesima base materiale consente potenzialmente interpretazioni
completamente differenti, che non lasciano scorgere alcuna comunanza della realtà di base,
non è forse legittimo dire che l’interpretare, anche se presuppone grammaticalmente un
percepire, cioè un momento di ricettività, di fatto può inglobare il significato della

134
RF, p. 257.
135
FP1, § 1.
136
RF, § 539.
137
RF, p. 269.
59

percezione? La tentazione è qui quella di concepire la differenza funzionale come mera


differenza verbale, relativa ad un ordine temporale contingente: ciò che ora è percezione
diretta, magari in precedenza era interpretazione, era una regola di connessione da apprendere,
e questo può valere per ogni momento percettivo di volta in volta preso in considerazione; ciò
che resterebbe fermo di diritto è soltanto che il punto di partenza non può già essere
un’interpretazione, ma deve essere un momento immediato: ma in quanto tratto materiale,
come per tutti i segni, esso sembra essere privo di forma e dimensione, privo di contenuto,
sembra essere pura «privazione», un puro campo di gioco per l’interpretazione.
Tale questione è ovviamente fondamentale per intendere la portata ontologica delle
scansioni grammaticali: l’analisi grammaticale mostra un ordinamento concettuale che non
sembra escludere affatto la possibilità di un diverso ordinamento in dipendenza da una storia
diversa, da una forma di vita differente. Nel caso in cui effettivamente l’analisi grammaticale
non possa fornire, per così dire, una grammatica della storia, della fattualità e
dell’accidentalità, queste finiscono per avere il sopravvento ontologico e per ridurre l’analisi
grammaticale ad un ruolo strettamente verbale I punti di contatto tra grammatica e realtà che
l’esame del rapporto tra interpretare e percepire mette in luce sono sostanzialmente due; ne
facciamo qui solo menzione, non potendo sviluppare la questione nei limiti del presente
lavoro.
L’interpretazione, ci ha fatto notare Wittgenstein, avviene sulla base di una
collocazione dell’evento interpretato in un intorno spaziale e temporale; l’evidenza di un
singolo significato è resa possibile solo dalla storia di quell’evidenza, cioè, sempre
dall’intorno spaziale e temporale, più l’elemento motivazionale, che di ogni azione volontaria
(dunque anche dell’interpretare) è parte costitutiva. L’interpretazione sceglie un orientamento
motivazionale e con ciò istituisce il significato della base segnica (es.: le linee del «cubo
ambiguo», senza la loro visione tridimensionale), ma non inventa né questa base, né la
motivazione che l’interpreta così o altrimenti. D’altro canto questi medesimi elementi (una
base ed una motivazione) devono già essere presenti nella percezione, dove si ha già
l’evidenza di un significato. La dipendenza funzionale dell’interpretare dal percepire, del
cambiamento d’aspetto dall’aspetto, deve perciò vietare di figurarsi un eventuale percepire
«originario» come ricezione di un «punto» arbitrario, privo di forma e dimensione, di una
pura disponibilità ad essere interpretato; piuttosto, dovendo tentare di immaginarsi una
«percezione prima», questa dovrebbe essere concepita come la percezione di qualcosa di
strutturato, dove c’è quantomeno già da scorgere una composizione di condizioni oggettive e

138
FP1, § 415.
60

motivazionali. In altri termini, la grammatica stessa dell’interpretare ci mostra come non può
essere appena soltanto attraverso il momento soggettivo-attivo, attraverso l’interpretazione,
che un contenuto viene fornito: l’interpretazione sceglie, non crea le sue possibilità. E queste
possibilità giacciono già in una storia, che, sempre per ragioni grammaticali, non è a sua volta
una storia possibile, ma reale, già sempre «antedata», e perciò anche unica (la realtà di cui si
ha certezza).
In seconda istanza bisogna notare che i vincoli dati dalla percezione già sempre come
percezione di significati segnano i confini di possibilità determinate: io posso interpretare la
testa L-A come lepre, o come anatra o magari anche come una figura insignificante, ma ciò
che non posso fare è vedere contemporaneamente una configurazione e l’altra 139:
l’atteggiamento in un caso è diverso da quello nell’altro, le conseguenze sono incompatibili.
Se, ad esempio, mi si fa vedere per un attimo un’immagine dove io riconosco la silhouette di
una fiera trafitta da una freccia 140, io posso riprodurre a memoria l’immagine senza fare certi
errori, certe deviazioni, che invece farei se avessi scorto semplicemente una serie di linee
prive di unità significativa: molti elementi del disegno non c’è stato bisogno di ispezionarli
con lo sguardo perché si lasciava scorgere il loro concorso in un senso noto; si potevano
distinguere parti essenziali e parti secondarie, un nocciolo di senso ed una periferia. Il
comportamento conseguente alla percezione di qualcosa così o altrimenti testimonia di
un’unità semantica distinta, incompatibile con altre unità: le concatenazioni semantiche, cioè
comportamentali, di una storia selezionano determinate successioni operative, e solo la
riflessione può immaginare un’interpretazione là dove nell’immediatezza si dà una regola.
Un’assolutizzazione della nozione di interpretazione dimentica che l’arbitrio, la scelta,
l’accidentalità riposano costitutivamente su decorsi comportamentali che non possiamo
razionalmente sospendere nella loro validità, pena una sospensione delle condizioni di
funzionamento di quella razionalità medesima.
I due elementi qui accennati: la necessaria collocazione di un significato in una storia e
l’alternatività tra unità di significato rappresentano un nesso essenziale tra grammatica e
realtà, scorto dall’interno del funzionamento della grammatica stessa. Un approfondimento
della valenza ontologica delle tarde riflessioni di Wittgenstein, approfondimento che qui non
possiamo perseguire, dovrebbe dedicare una specifica attenzione a questo momento
concettuale.

139
RF, p. 262.
140
RF, p. 268.
61

A delimitare le volizioni, come abbiamo visto, stanno due gruppi di concetti; da un


lato le disposizioni (ed il volere stesso, preso come operazione complessiva) che fondano il
soggetto e costituiscono il terreno su cui particolari atti volitivi, particolari intenzioni e
interpretazioni possono aver luogo; dall’altro lato stanno le percezioni, che si danno come
senz’altro indipendenti dal soggetto, e dunque non subordinate a particolari atti volitivi.
Vogliamo ora approssimare questo secondo lato dell’analisi.
62

SENSAZIONI (PERCEZIONI, IMPRESSIONI)

1. Sensazioni e realtà
Per avviare l’analisi della natura delle sensazioni ripartiamo da una considerazione di
Wittgenstein sui limiti della volontà:
“Ma non sarebbe concepibile un essere umano per il quale l’abituale attività del vedere sia
soggetta alla volontà? – In questo caso il vedere lo istruirebbe ugualmente intorno al mondo esterno?
Avrebbero colori le cose, se potessimo vederle come vogliamo?” 141

“Quando infatti modifico volontariamente la mia impressione visiva, sono le cose che
obbediscono alla mia volontà.” 142

E chiaramente, se le cose seguono la mia volontà, allora non ho più alcun materiale,
alcuna datità su cui esercitare né l’interpretazione né la volontà. Dunque, come già visto, ci
deve essere una predatità indipendente che si sottrae all’attività del soggetto. Dobbiamo da ciò
trarre conclusioni di stampo realistico? In un senso limitato. Niente è detto, a questo punto,
circa l’obiettività o meno con cui le sensazioni ci informano sulla realtà esterna. L’unica cosa
che è finora certa è che la grammatica della percezione implica che il percepito abbia un
valore informativo, il percepire fa costitutivamente riferimento ad un’alterità apportatrice di
elementi autonomi e nuovi rispetto all’esercizio della volontà cosciente. La grammatica di
«sensazione» ci dice che “sensazione è ciò che si considera come immediatamente dato e
concreto, ciò che bisogna solo guardare per riconoscere; ciò che è veramente lì. (La cosa non
il suo emissario). 143” Va osservato che l’attribuzione di questa funzione alla percezione non
può esser fatta sulla scorta di un’osservazione empirica: “(…) come si fa a osservare che gli
uomini vedono? (...) posso convincermi, per così dire, che gli uomini vedono?” 144 In qualche
modo io ho appreso ad usare la parola «vedere», e questo senza «vedere che qualcosa o
qualcuno vede» e senza «vedermi vedere», ma nella forma di un rapporto ad oggetti e di
comportamenti reattivi specifici. Io posso aprire e chiudere gli occhi, ed in tal modo
determinare i confini tra vedere e non vedere, e poi posso descrivere cose viste, scansarle o
andarvi incontro, ecc.; ciò che però non accade è di vedere, per così dire, il vedere da una
parte, il mondo dall’altra e poi la correttezza con cui il vedere mi informa sul mondo: questo,
che è l’ideale del realismo obiettivista, non si dà, né può darsi di diritto. Il ruolo oggettivo
della percezione è determinato come resto, per differenza rispetto al ruolo soggettivo

141
FP2, § 79.
142
FP2, § 91.
143
FP1, § 807.
144
FP2, § 75.
63

dell’azione, la quale a sua volta presuppone l’obiettività percepita per definirsi: questa
distinzione tra percezione e volontà non è un fatto dell’esperienza, ma qualcosa che potremmo
chiamare una «codefinizione grammaticale», che essendo fondata su di un gioco linguistico,
su di una pratica, non implica alcuna convenzionalità definitoria. L’attribuzione di un valore
strettamente realistico alla percezione implicherebbe però qualcosa di più, e cioè il fatto che le
sensazioni, nella loro realtà autonoma, dettino necessariamente il proprio significato,
insegnino ciò di cui sono portatrici per la coscienza. Chiaramente nei termini dell’analisi
grammaticale wittgensteiniana la questione fondamentale si colloca qui a livello delle
operazioni di attribuzione di sussistenza obiettiva e di attribuzione di significato, e poi
nell’unificazione di questi due elementi.
L’attribuzione di sussistenza obiettiva si lega alla localizzabilità della sensazione: una
sensazione priva di un luogo preciso non può per definizione darci un’informazione sulla
realtà obiettiva. Questo perché il concetto di realtà obiettiva e quello di articolazione spaziale
si coappartengono: se qualcosa sussiste obiettivamente, sussiste in qualche luogo (al limite in
ogni luogo, ma non in nessun luogo). Per dire che una sensazione ci detta una realtà obiettiva
dovremmo richiedere che la sensazione determini per virtù propria l’informazione circa la
propria localizzazione. Seguiamo il seguente esempio:
“Immagina che una punta di matita venga posta a contatto con la mia pelle in un punto
qualunque, allora io potrei dire che sento dov’è. Ma sento dove la sento? «Come fai a sapere che la
punta ora ti tocca la coscia?» - «Lo sento». Per il fatto che sento il contatto, so localizzarlo; ma devo
per questo parlare di un senso del luogo (Ortsgefühl)? E se non c’è un senso del luogo (Ortsgefühl),
perché dovrebbe esserci un senso della posizione (Gefühl der Lage)? ” 145

La sensazione di contatto non contiene elementi che ne determinino il carattere


spaziale; non c’è una sensazione di prurito o dolore legata al contatto più un’ulteriore
sensazione di posizione. La sensazione, si potrebbe essere tentati di dire, accade sul mio
corpo, ed io sento dove sono le parti del mio corpo; tuttavia anche questa espressione è
scorretta:
“Il mio avambraccio in questo momento giace in posizione orizzontale e io vorrei dire che lo
sento; (...) come se «il senso corporeo» (Körpergefühl) del braccio fossedisposto o distribuito
orizzontalmente, come se, più o meno, un vapore o un pulviscolo fossero distribuiti in questo modo
sulla superficie del mio braccio. Non è, quindi, come se sentissi effettivamente la posizione del mio
braccio e la sensazione avesse questa e questa posizione. Cosa che però vuol dire soltanto che so
semplicemente qual è la sua posizione, - senza sapere perché… così come so anche dove provo dolore,
- ma quello che non so è perché…” 146

145
FP1, § 785.
146
FP1, § 786.
64

Io sento il dolore, la pressione, ma non sento la posizione, bensì la so. Se non sapessi
già come è distribuito ed orientato il mio corpo non potrei conoscere la collocazione della
sensazione. È per questo motivo, sembrerebbe, che è molto più facile sbagliarsi nella
localizzazione di una sensazione nelle interiora o nei denti, rispetto a quelle, ad esempio, in un
braccio: in quei casi non abbiamo pratica di operazioni articolate che costituiscono le
distinzioni spaziali; distinguo facilmente piccole differenze di posizione sulle dita, ma molto
più difficilmente differenze oggettivamente maggiori sulla superficie della schiena. In verità
anche dire che io sento il mio braccio è troppo, se con questo si vuole indicare un contenuto
della sensazione: io posso, ad esempio, «sentire» che il mio braccio è anestetizzato: in questo
caso non sento pressione o dolore o alcuna sensazione su di esso, e tuttavia lo «sento»
insensibile. (Una situazione analoga potrebbe essere richiamata in connessione col fenomeno
degli «arti fantasma»). Una cosiddetta «sensazione posturale» mostra la sua natura di
«sensazione impropria», cioè di «sapere» sul percepire, anche nel fatto che non possiede
gradazioni, come invece le sensazioni propriamente dette: non possiamo dire di avere una
sensazione posturale più o meno forte 147.
Si potrebbe pensare che, se le sensazioni di posizione non sono autentiche sensazioni,
almeno le sensazioni di movimento lo siano, visto che talvolta viene chiamato in soccorso
proprio un movimento per determinare la posizione del proprio corpo, quando questa è
dubbia. Ad esempio quando, non appena svegliati, ci capita di essere del tutto immobili e di
essere in dubbio circa la posizione relativa dei nostri arti: qui un movimento anche piccolo
scioglie subitaneamente l’enigma. Wittgenstein scrive a questo proposito:
“Noi sentiamo i nostri movimenti. Sì, li sentiamo realmente; la sensazione non è simile a una
sensazione di gusto o di calore, ma a una sensazione tattile: a quella che si prova quando pelle e
muscoli vengono premuti, tirati, spostati.” 148

E tuttavia:

“Come posso aver bisogno, nei miei movimenti, di essere guidato dalla sensazione di
movimento? Infatti come faccio, prima che il movimento abbia avuto inizio, a individuare fra tutti i
muscoli quelli che mi daranno la sensazione motoria giusta?” 149

In altri termini, un movimento può essere più o meno violento, può implicare torsioni
più o meno accentuate, e tutto ciò può suscitare sensazioni più o meno intense. Tuttavia le
sensazioni di movimento, le sensazioni cinestetiche sono in realtà sensazioni “che vengono

147
FP1, § 771.
148
FP1, § 796.
149
FP1, § 797.
65

richiamate attraverso movimenti” 150, e non, come si può credere, sensazioni-del-movimento,


cioè portatrici del significato «movimento-così-e-così». Sembra di dover dire che le
sensazioni provocate da un movimento, come quelle provenienti da un fattore esogeno, sono
adeguate allo scopo di percepire il proprio corpo, e, a partire da questa percezione, si può
sviluppare il movimento; ma la sensazione non insegna nulla circa il movimento. Se così
fosse ogni movimento dovrebbe partire dall’immobilità con un movimento a caso e solo
allora, traendo dal moto le informazioni sufficienti a guidarci, dovrebbe essere in grado di
dirigere volontariamente le membra in un modo o in un altro. Se fosse la sensazione
cinestetica ad insegnarci il movimento che stiamo facendo, allora dovremmo essere incerti o
del tutto incapaci di muoverci correttamente quando le sensazioni che provengono dai nostri
arti sono alterate a causa della stanchezza, di dolori muscolari, bruciori cutanei, ecc. 151. Il fatto
che la sensazione non contenga l’informazione sul movimento si può vedere, ad esempio, nel
fatto che non possiamo apprendere un movimento nuovo semplicemente facendo attenzione
alle sensazioni provenienti dal nostro corpo in moto. Se dobbiamo apprendere una nuova
coordinazione delle dita nello studio di una tecnica chitarristica ci può capitare di non sapere
come si fa a muovere le dita: non sapere come si fa a volere è esattamente la descrizione di
questa situazione, in quanto condizione di quel movimento è un sapere intorno al movimento,
e non la mera sensazione. La tentazione cui dobbiamo resistere qui è quella tipica di
formulare un’ipotesi teorica e verificarla in un tipo di situazione particolare; è vero che in
assenza di sensazioni muscolari anche la nostra capacità di identificare la posizione delle
nostre membra verrebbe negativamente influenzata 152, ma ciò significa soltanto che tali
sensazioni concorrono alla determinazione della posizione, non che la determinano senz’altro.
La costruzione teorica ad hoc di «sensazioni posturali» crea il concetto che incarna quella
particolare teoria esplicativa, senza che però alcun fenomeno corrisponda propriamente al
concetto «sensazioni posturali».
Wittgenstein distingue le sensazioni, in relazione alla loro localizzazione, ponendo da
una parte sensazioni di pressione (tatto), di temperatura locale, di gusto e di dolore, le quali
sono localizzate sul corpo, e dall’altra sensazioni provenienti dalla vista o dall’udito, che
localizzano qualcosa al di là del corpo proprio. Le prime risultano essenziali per determinare
il limite tra soggetto e realtà obiettiva. Bisogna osservare, a questo punto, che la nozione di
realtà obiettiva ha in sé almeno due fattori distinti che la determinano: l’obiettività della
sensazione è legata alla sua spazialità (sensazioni diffuse, indeterminate, vengono attribuite a

150
FP1, § 772.
151
FP1, § 382.
66

mutamenti o limiti soggettivi); ma la realtà della sensazione è invece legata al suo rapporto di
limitazione della corporeità, in quanto agente. Un’osservazione di Wittgenstein ci può lasciare
avvicinare al meglio a questo secondo punto:
“Non è un fatto importante che il teatro ci presenti colori e suoni, ma non sensazioni tattili? Ci
si potrebbe anche immaginare l’impiego di odori e di sensazioni di temperatura, ma non quello di
sensazioni tattili.” 153

Il limite che qui viene tracciato è un limite graduato: colori e suoni sono l’incarnazione
consueta della distanza rappresentativa; essi avvengono al di là del mio corpo come
corrispondenti agli stati di coscienza del vedere e dell’udire. Odori e sensazioni di
temperatura, così come il gusto, trovano già una collocazione presso il mio corpo, ed il loro
uso nella rappresentazione potrebbe essere ammesso come una forma di iperrealismo: essi
tuttavia non sono ancora vincolati in modo stretto all’attività del soggetto, così io posso
sentire un odore, un sapore in bocca o, poniamo, una vampa di calore, per cause endogene,
senza che ciò indichi necessariamente un rapporto interno-esterno. Invece per il dolore, per le
sensazioni tattili, e le connesse sensazioni suscitate dal movimento, la rappresentazione
diventa impossibile, perché qui la soglia tra rappresentazione e realtà verrebbe infranta. Lo
spettatore può al limite sentire gli odori che sente, o mostra di sentire, l’attore, senza uscire
dalla rappresentazione, ma non può sentire i movimenti corporei, le sensazioni di pressione e
reazione degli oggetti, il dolore che causano, così come l’attore mostra di sentirli, giacché in
tal caso non vi sarebbe più distanza rappresentativa, ogni riserva di distacco tra soggetto e
oggetto rappresentato andrebbe perduta: egli diverrebbe il personaggio rappresentato.
L’elemento distintivo fondamentale è dato qui dal fatto che le sensazioni tattili non possono
semplicemente accadere, ma sono il frutto di un fare, e parimenti il dolore, in quanto sentito,
suscita una reazione attiva: il confine tra interiorità e realtà viene varcato dall’azione, dal
coinvolgimento attivo. L’informazione sul mondo oggettivo di cui le sensazioni sono latrici
non è un contenuto delle sensazioni, bensì una loro organizzazione in rapporto alla
localizzazione e all’azione. Wittgenstein ricorda a questo proposito l’esempio della
percezione della durezza di un oggetto per mezzo di un bastone, in cui si è inclini a dire che la
durezza viene sentita in cima al bastone e non nella mano 154. Di fatto la durezza, o la forma, o
qualunque altra qualità oggettiva è, in quanto tale, già una struttura di sensazioni, qualcosa
che potrebbe forse essere espresso nei termini di un’«inferenza a base sensoriale», piuttosto
che come il contenuto di una sensazione oggettiva: «sentire», si potrebbe dire, è già sempre

152
FP3, § 387.
153
FP1, § 773.
154
RF, § 626.
67

un atto intenzionale, è già sempre indirizzato verso un oggetto ed il significato percepito è


quel che è in quanto parte emergente di un percorso, di un rinvio. Ciò che vale come
sensazione oggettiva è un contrassegno presente di una correlazione assente, o meglio, di una
correlazione non tematizzata; è, in certo modo, il segno attuale che sta per il significato
generale.
Sarebbe ora interessante analizzare quali interazioni si danno tra determinazioni di
localizzazione visiva ed auditiva, ed azione; e non sarebbe difficile mostrare come valutazioni
di direzione, distanza e profondità presuppongono il riferimento ad attività soggettive, che
vanno dal moto oculare agli spostamenti ambientali. Wittgenstein tuttavia non si sofferma su
questo genere di analisi, e sembra appagarsi dell’analisi del rapporto tra azione e
localizzazione svolta in rapporto alle cosiddette «sensazioni di movimento». Mostrando come
l’unità del movimento ha una natura irriducibile a quella di sensazioni obiettive e come
proprio il movimento attivo e reattivo fornisce la determinazione di realtà attribuita alle
sensazioni, egli mostra anche che non sono le sensazioni obiettivamente intese ad avere un
contenuto di realtà. Sensazioni obiettive, come una sensazione di pressione sul corpo, un
rumore od un sapore hanno un contenuto reale solo in quanto inserite in un sistema di
relazioni e correlazioni, dove una pressione ha una posizione, un rumore una direzione ed una
fonte, un gusto è il gusto di un alimento, ecc..
Oltre alle sensazioni tattili, di posizione e di movimento, Wittgenstein dedica
particolare attenzione soltanto a due altri ordini di sensazioni, ovvero le sensazioni di dolore e
le sensazioni cromatiche. Ci soffermeremo innanzitutto su alcuni tratti dell’analisi dei colori,
che risulta particolarmente efficace per illustrare il rapporto tra grammatica ed «essenza».

2. Grammatica dei colori


La natura delle sensazioni cromatiche ha occupato con continuità Wittgenstein dai
Quaderni fino alle ultime analisi. L’importanza che ha una ripresa, dopo il Tractatus, del
tema dei colori balza agli occhi se si pensa al particolare ruolo che gioca l’esempio cromatico
nella costituzione delle idee del Tractatus stesso. Là l’esempio dei colori era fondamentale in
quanto modello rappresentativo degli «oggetti semplici», cioè di quel che in una forma di
realismo ingenuo sarebbe il ruolo giocato dalle sensazioni oggettive come elemento
irriducibile estremo della realtà. Il problema dell’unità-differenza tra i vari colori, cioè il
problema della rappresentabilità tramite proposizioni elementari delle gradazioni cromatiche
(e sonore) è poi il problema che apre le prime esplicite breccie autocritiche nell’impianto del
68

Tractatus, e che introduce una nuova modalità di considerazione delle relazioni interne, non
più semplicemente legate alla rappresentazione disgiuntiva di unità indipendenti 155. In questo
senso si possono considerare gli esiti successivi, con la sottolineatura dell’esistenza di una
grammatica delle sensazioni cromatiche, come uno dei lati da cui si può scorgere nel migliore
dei modi lo spostamento teorico che segue il trattato, con le sue interne evoluzioni. La
centralità della questione dei rapporti tra grammatica e ontologia, che qui si pone, la si può
trovare così riassunta: “Abbiamo un sistema dei colori così come abbiamo un sistema dei
numeri. Questi sistemi stanno nella nostra natura o nella natura delle cose? Come dovremo
dire? - Non nella natura dei numeri o dei colori.” 156 Dire che il sistema dei colori non sta nei
colori è quanto dire che non sono le particolari sensazioni cromatiche a dettare la loro
organizzazione, che non vi sono prima rilevazioni di colori obiettivi isolati, i quali si
costituiscono poi in insieme sistematico. Facciamo una rapida escursione attraverso le analisi
wittgensteiniane.
Le Osservazioni sui colori 157 iniziano con un esempio che ci pone subito nel mezzo del
genere di questioni che sono qui fondamento problematico.
“Un gioco linguistico: Riferire se un determinato corpo sia più chiaro o più scuro di un altro. -
Ma ora c’è n’è uno affine: Esprimersi sul rapporto delle luminosità tra determinati toni cromatici. (...)
La forma delle proposizioni in entrambi i giochi linguistici è la medesima: «X è più chiaro di Y». Ma
nel primo è una relazione esterna e la proposizione è temporale, nel secondo una relazione interna e la
proposizione intemporale.” 158

“In un quadro, in cui un pezzo di carta bianca riceve la sua luminosità dal cielo, questo è più
chiaro della carta bianca. E tuttavia, in un altro senso, il blu è colore più scuro, il bianco più chiaro
(Goethe). Sulla tavolozza il bianco è il colore più chiaro.” 159

I due giochi linguistici ci mostrano come il giudizio di luminosità relativa tra due
colori sia determinato dal rapporto interno tra i colori percepiti, nel contesto in cui sono
percepiti, e non dai colori in sé. Sulla tavolozza, che rappresenta qui il modello della relazione
interna tra colori, è sottinteso che il blu ed il bianco ricevono luce comune da una fonte terza,
e la luminosità che qui viene giudicata è la risposta dei pigmenti alla luce: in tal caso il blu
non può che essere giudicato meno luminoso del bianco. Nel caso del cielo reale confrontato
con un bianco illuminato da quel cielo, ad essere giudicato è il rapporto di subordinazione

155
Per un’argomentazione dettagliata di questo passaggio, così come di tutti quelli che analogamente si
richiamano ad un’esegesi evolutiva dell’opera di Wittgenstein non possiamo che rinviare ad un nostro
lavoro di prossima pubblicazione dal titolo Metodo ed etica in Ludwig Wittgenstein.
156
FP2, § 426.
157
Le Osservazioni sui colori si compongono di tre brevi sezioni distinte in paragrafi, che citeremo d’ora in poi
rispettivamente con ÜF 1, ÜF 2, e ÜF 3. L’edizione di riferimento è sempre l’edizione tedesca Suhrkamp, 1984,
(vol.8), la traduzione è nostra.
158
ÜF 1, § 1.
159
ÜF 1, § 2.
69

della seconda luminosità dalla prima: il cielo non è qui un pigmento azzurro, non un oggetto,
ma senz’altro la luce, che si colora d’azzurro quando è vista come un pigmento, cioè in
rapporto oggettivo con altri pigmenti. La luce che proviene dal cielo non è azzurra, solo il
cielo come oggetto lo è. Nel caso del quadro le due possibilità di giudizio sono compresenti, e
si ha perciò un caso analogo a quello del cambiamento d’aspetto: astraendo dalle relazioni
rappresentate nel quadro, e guardando solo i pigmenti, il blu del cielo appare più scuro del
bianco, mentre in quanto sistema di relazioni luce-illuminato il blu è più chiaro del bianco
della carta. L’importanza del caso del quadro è data proprio dalla dipendenza del giudizio dal
«sapere» intorno al sistema visto, e non dunque in diretta dipendenza dall’impressione
sensibile.
Un analogo vincolo logico-materiale si trova ben espresso nel seguente esempio: “Mi
si dice che una certa sostanza brucia con fiamma grigia. Io non conosco tuttavia il colore delle
fiamme di tutte le sostanze; perché non dovrebbe esser possibile?” 160 Anche qui sarebbe errato
guardare alla rilevazione empirica dell’oggetto sensibile come alla fonte ultima per la
determinazione del nostro giudizio. Noi, dati i nostri concetti di luce e colore, possiamo
sapere a priori che non vedremo mai una fiamma grigia, cioè che non giudicheremo mai, di
qualcosa che riconosciamo come una fiamma, che esso possieda la colorazione grigia. Il
problema in un caso del genere è che questa apriorità rispetto all’esperienza, non mostra con
chiarezza le ragioni che la sostengono; possiamo supporre che le nostre definizioni di
«colore», «luce», «grigio», ecc. ci impongano un sistema di vincoli interni, di necessità ed
impossibilità, ma come e perché questo accada, non è affatto chiaro. Non ci troviamo, cioè, di
fronte ad un caso come quello dei numeri, dove, ad esempio, per intendere come mai non
possiamo risolvere nelle radici componenti la radice quadrata di un numero negativo,
possiamo riferirci alla concatenazione di definizioni formali che hanno portato alla
composizione dei numeri negativi e dell’estrazione di radice. Le definizioni nel campo
percettivo non sono né semplici battesimi di atomi ostensivamente definibili, né definizioni
formali esplicitamente connesse. Proviamo a comprendere la natura di questi vincoli
grammaticali studiando l’esempio della «fiamma grigia». Perché non riesco a raffigurarmela?
La mia immaginazione non è abbastanza vigorosa? Una fiamma grigia posso immaginarmela,
con la massima approssimazione, come una debole fiamma azzurrognola; similmente, una
«fiamma marrone» posso tutt’al più approssimarla come una fioca fiamma rossa; una fiamma
nera mi è assolutamente irrappresentabile, o, se vogliamo, me la posso raffigurare come la
rappresentazione di una fiamma di colore nero in un cartone animato, dove però so che solo
70

della rappresentazione di una rappresentazione si tratta. Ora, ammettiamo che in un


laboratorio chimico si scopra una nuova sostanza, la quale, così ci viene riportato da una seria
rivista scientifica, ardendo produce una fiamma nera. Perché dovremmo essere sospettosi di
fronte a questa espressione? Con quale diritto? Cosa c’è che non va nella realtà descritta da
quest’espressione? La fiamma nera dell’esempio possiamo pensare che scaldi come una
fiamma, che abbia la forma ed il tremolio di una fiamma, ma possiamo pensare che irraggi
luce? E la questione diventa allora: chiamerei ancora fiamma qualcosa che non irradia luce?
Analizziamo l’intorno logico-operativo di questo problema. Se parlo di un rosso
incandescente ciò che caratterizza questa espressione è il fatto che il rosso in questione è
concepito come apportatore di luce rossa agli oggetti circostanti. Ma la possibilità logica di
apportare una luminosità è condizionata dal fatto che vi siano varianti cromatiche di quello
stesso colore meno luminose, e siccome ogni variante meno luminosa, ma purtuttavia
luminosa, può di principio ancora illuminare, ci debbono essere varianti prive di luminosità.
Così a fronte di una luminescenza verde ci sarà un verde terminale, qualcosa come un «verde
marcio», che non può essere concepito come irraggiante; similmente a fronte di un rosso
troveremo un marrone, a fronte di un giallo un ocra, di un azzurro un grigio, della luce
«bianca» un nero. La forma «tautologica» che qui si mostra è la seguente: ogni fiamma
illumina, ogni illuminazione presuppone varianti meno luminose, ogni gradazione di varianti
presuppone una graduazione terminale, dunque ci debbono essere a priori varianti cromatiche
inconcepibili come fiamme (e formulando l’ipotesi di una fiamma nera ne costruiamo una).
Ora ci si deve chiedere: in che misura questa tautologicità è qualcosa di formale, di puramente
verbale? La domanda equivale su di un piano più generale alla domanda: in che misura un
gioco linguistico può dirsi arbitrario? Su di un livello più specifico essa invece è equivalente a
quella, più concreta, posta più sopra: chiamerei ancora fiamma qualcosa che ha il
comportamento generale della fiamma, con l’eccezione della capacità di illuminare? È chiaro
che nessuno mi vieta di chiamare fiamma anche la neoscoperta fiamma nera. Tuttavia il mio
arbitrio non è privo di conseguenze: questa estensione dell’uso della parola non
sopprimerebbe il carattere distintivo dell’irraggiamento luminoso per le altre fiamme; mi
ritroverei dunque semplicemente con l’aver aumentato l’ambiguità del termine «fiamma»,
non con l’averne mutato il concetto. Per mutare invece il concetto dovrebbe mostrarsi
assolutamente irrilevante per la mia (nostra) vita il fatto che le fiamme producano luce o
meno, e questo non lo posso decidere arbitrariamente. Il concetto che nel nostro linguaggio
corrisponde a «fiamma», concetto in cui è analitico che una fiamma debba poter illuminare, si

160
ÜF 1, § 41.
71

radica nell’importanza della soglia operativa dell’illuminare. Questo significa che per mutare
lo spazio dove si giocano i giochi linguistici che definiscono il significato di «fiamma» dovrei
semplicemente vivere in un mondo completamente diverso, dove la luce non giochi alcun
ruolo importante: un mondo di ciechi potrebbe accogliere senza difficoltà la fiamma nera
come una fiamma tra le altre, chiaramente però qui il concetto stesso di «nero» sarebbe
differente e non ci sarebbe comunque mai stato un criterio di luminosità per l’apprendimento
del concetto di fiamma. Questo caso è analogo a quello che emerge quando in fisica si usa il
termine di «luce infrarossa»: “ci sono buone ragioni per farlo, ma lo si può anche dichiarare
un abuso.” 161 Quando parliamo comunemente di luce, al di fuori del campo della ricerca
fisica, si intende, in assenza di ulteriori precisazioni, la luce dello spettro consueto,
infravioletta ed ultrarossa, in quanto la luce e la visione sono considerate come concetti
(pratiche) codefiniti. Nel parlare di luce «infrarossa», o «ultravioletta» non ci limitiamo ad
aggiungere una qualità alla nozione di luce, ma ne sottraiamo alcune che appartengono alla
definizione essenziale del termine nel suo uso quotidiano; in questo senso si potrebbe dire che
l’espressione «luce infrarossa» è un abuso. D’altra parte, siccome, contrariamente a quanto
Wittgenstein riteneva nel Tractatus, l’aggiunta di un predicato non necessariamente deve
operare come semplice specificazione, ma può anche costituire un’unità semantica
completamente nuova (come «leone» e «leone marino»), ne segue che un’espressione come
«luce infrarossa» può essere utilizzata legittimamente. Tutto ciò che conta è che il fatto che si
tratta di un concetto diverso, legato solo da una somiglianza di famiglia al vecchio, e non di
una precisazione del vecchio concetto sia esplicito; se così è, allora non possono sorgere
confusioni ed il linguaggio funziona in modo appropriato. Così, in tal caso, chi in una notte
buia si lamentasse per la troppa luce, intendendo con ciò la luce infrarossa, potrebbe venir
considerato un fenomeno fisiologico bizzarro, oppure un pazzo, ma in nessun caso la
comunicazione farebbe insorgere questioni di ambiguità semantica.
Un’ulteriore analisi dei limiti grammaticali nella sfera cromatica, che illustra utilmente
il legame grammatica-ontologia, è proposto da Wittgenstein in relazione al rapporto tra colori
e trasparenza.
“Com’è che qualcosa di trasparente può essere verde, ma non bianco? Trasparenza e
rispecchiamento si danno solo nella dimensione della profondità di un’immagine visiva.
L’impressione del medio trasparente è quella che qualcosa sta dietro il medio. Una perfetta
monocromaticità dell’immagine visiva non può essere trasparente.” 162

161
ÜF 3, § 127.
162
ÜF 1, § 19.
72

“Qualcosa di bianco dietro ad un medio colorato appare nel colore del medio, qualcosa di nero
nero. Secondo questa regola il nero su sfondo bianco attraverso un medio «bianco trasparente» deve
esser visto come attraverso uno incolore.” 163

“Ogni medio colorato oscura ciò che viene visto attraverso di esso, assorbe luce: Anche il mio
vetro bianco deve allora oscurare? E quanto più è spesso, tanto maggiormente? Allora sarebbe in realtà
un vetro scuro!” 164

Una delle maggiori difficoltà nell’affrontare considerazioni del genere sta nel non
cadere nella tentazione di utilizzare conoscenze fisiche in funzione esplicativa. Tutto ciò che
sappiamo intorno ad assorbimento e riflessione, alla natura delle superfici, e alla
composizione delle lunghezze d’onda deve essere qui lasciato da parte. E non perché qui si
effettui una indagine che non ha relazioni con quella scientifica, ma perché il livello a cui si
svolge l’analisi grammaticale è già sempre presupposto dalla sperimentazione scientifica, e
ciò che risulta dall’analisi dei concetti non può essere spiegato da una argomentazione
empirica.
Alla grammatica della trasparenza appartiene la nozione di una luce esterna che
attraversa un medio, cioè che illumina qualcosa al di là di qualcos’altro (se ci fosse solo il
medio, ma nessuna entità riflettente dopo il medio, non potrei sapere se davvero il medio
lascia passare la luce). Alla grammatica del colore bianco appartiene la sua collocazione, in
quanto pigmento, all’estremo superiore della chiarezza: nessun colore è più chiaro del bianco.
Ma cos’è la chiarezza di un pigmento, rispetto alla chiarezza di una luce? Come abbiamo
visto sopra, la differenza è una differenza di relazione interna: il cielo può essere fonte della
luce, oppure oggetto illuminato, e la valutazione di chiarezza dipende anche dal rispetto sotto
cui è considerato; il sole non può essere oggetto dotato di un determinato pigmento, ma
soltanto fonte luminosa («Perché si disegna il sole giallo?» Solo su di un foglio scuro
potremmo disegnarlo bianco). Ad ogni modo nell’uso normale noi non diciamo di una forte
luce che è bianca, perché il bianco è il nome di un pigmento, dunque di un modo di
presentarsi all’illuminazione data. Il carattere distintivo del colore bianco è la sua
collocazione a) di pigmento (cioè di risposta ad una fonte luminosa, ma non di fonte esso
stesso), il quale b) occupa la posizione estrema maggiore nella risposta alla fonte luminosa. Se
guardiamo sotto una luce non diffusa una superficie nera opaca diremo che la parte
maggiormente illuminata è la parte più chiara (questo potrebbe essere un modo per insegnare
il concetto di «chiarezza»). Ammettiamo che cambiando l’angolazione della luce una parte
diventi sempre più chiara, fino a riflettere distintamente in un determinato intorno: ora questo

163
ÜF 1, § 20.
164
ÜF 1, § 30.
73

punto di massima chiarezza sulla superficie nera, se dovessimo valutarlo come pigmento, (ad
esempio dovendolo dipingere), lo diremmo bianco. Il bianco è distinto dalla chiarezza come il
nero dall’oscurità: i primi sono le risposte estreme ad un’illuminazione ambientale, le seconde
nominano l’illuminazione ambientale tout court: la loro distinzione non è una differenza nelle
sensazioni, ma nelle funzioni: il riflesso dipinto è bianco, la notte sullo schermo televisivo è
nera, ma di un riflesso o di una notte reali non diremmo che sono rispettivamente bianco e
nera. La differenza poi tra i concetti di chiarezza e riflessione è data dal fatto che la riflessione
non è solo chiara, ma si pone anche come fonte luminosa a sua volta: tuttavia i due concetti
sono apparentati nell’essere entrambi nomi della risposta all’illuminazione ambientale. Ora,
se la bianchezza è definita dalla massima, più intensa, risposta all’illuminazione ambientale,
allora una superficie bianca può essere trasparente solo a spese della bianchezza: un vetro
verde può avere una colorazione più o meno intensa, e la conseguenza sarà una colorazione
più o meno intensa della superficie posteriormente vista; per un vetro bianco, invece, non può
apparire un punto dietro ad esso, perché esso dovrebbe essere del colore del medio, solo meno
chiaro, ma essendo la bianchezza definita in riferimento alla chiarezza, ciò comporta che il
punto posteriore dovrebbe essere bianco, come lo è il medio, ma meno chiaro, cioè meno
bianco del medio, perciò verrebbe ad essere coperto dal medio. La «tautologia materiale» 165
che qui appare è dunque semplicemente la seguente: dato che la trasparenza è il passaggio
della luce attraverso un medio, e dato che il bianco è per definizione il colore con la massima
riflessione (massima chiarezza), il bianco non può essere trasparente. Nel caso di una
superficie speculare la medesima contraddittorietà viene avvertita immediatamente, e perciò
l’inconcepibilità di uno specchio trasparente non viene avvertita come problematica. Nel caso
del bianco invece la sua collocazione come pigmento tra pigmenti, cui però compete
l’eccellenza nei confronti della reazione all’illuminazione, rende l’impossibilità scarsamente
perspicua.
La «logica comportamentale» inerente all’organizzazione delle impressioni
cromatiche emerge nella misura in cui si danno giudizi che hanno un valore indipendente
dall’esperienza, senza però essere neppure giudizi convenzionali. La convenzionalità è
limitata al legame tra singoli nomi ed «oggetti», in questo caso colori; tuttavia la caratteristica
di questi «oggetti semplici» è proprio di non essere affatto oggetti, cioè di non avere un
contenuto proprio: “Il rosso è qualcosa di specifico; ma questo non lo vediamo quando
guardiamo qualcosa di rosso. Invece [vediamo] i fenomeni, che noi delimitiamo per mezzo del

165
Per una presentazione della nozione di «tautologia materiale» ci permettiamo di rinviare il lettore alla
sezione D) di Zhok A., Fenomenologia e genealogia della verità, Milano, Jaca Book, 1998.
74

gioco linguistico della parola «rosso».” 166 Un colore è in generale irriducibile ad elementi più
semplici, è internamente inarticolato, e fissando attentamente un’estensione rossa non
otteniamo più informazioni sul contenuto del rosso di quante ne possiamo ottenere
richiamandolo alla mente: noi non apprendiamo l’uso dei colori semplicemente guardando
colori 167, ma utilizzandoli nella discriminazione dei fenomeni; ma questo è quanto dire che il
«contenuto» dei colori sta fuori di essi, cioè sta nei limiti che i colori mettono in rilievo. La
regola di applicazione del rosso è seguita quando la regola di applicazione per il colore è
seguita propriamente ed essa non si sovrappone a quella di alcun riconoscibile «non-rosso».
Questo contenuto funzionale si dà a vedere in casi come la visione di immagini in bianco e
nero, nella misura in cui ci si immerge nell’immagine, e non la si confronta con altro:
“Io vedo su di una fotografia (non a colori) un uomo con capelli neri ed un fanciullo con i
capelli biondi pettinati all’indietro davanti ad un tornio, (...). Le superfici di ferro lavorate le vedo del
color del ferro, i capelli del ragazzo biondi, la griglia color dello zinco, sebbene tutto sia rappresentato
tramite toni più chiari e più scuri della carta fotografica.” 168

“Ma vedo veramente i capelli sulla fotografia biondi? E cosa parla a favore di ciò? Quale
reazione dell’osservatore deve mostrare che egli li vede biondi, e non solo inferisce dai toni della
fotografia che essi sono biondi? - Se mi venisse richiesto di descrivere quella fotografia, allora lo farei
nel modo più diretto con quelle parole.” 169

La caratteristica distintiva della percezione è quella di definirsi come informazione


immediata, dunque, sostenere in un caso del genere che di un’inferenza si tratti sarebbe
scorretto quanto dire che è un’inferenza riconoscere dei capelli biondi come tali nella realtà.
L’«interno» del colore designato come «biondo» è irrilevante, mentre la specificità
irriducibile del colore si vede nella sua posizione relativa agli altri colori e alla luce
ambientale. Di fronte alla richiesta di indicare gli elementi che compongono il colore «rosso»
noi non sappiamo cosa potremmo indicare, giacché non appartiene all’uso che abbiamo
appreso del colore, cioè al suo significato, una tecnica di analisi. Il gioco linguistico in cui «il
rosso è composto» è un gioco che “non possiamo imparare.” 170 Esso contraddice l’uso che
definisce la natura del rosso. Ovviamente possiamo sempre introdurre una nuova definizione,
e su questa base svolgere anche un’analisi del rosso, così come accade con l’indicazione della
lunghezza d’onda quale determinazione del colore in fisica, ma dev’esser chiaro che per
questa via viene introdotta una nozione equivoca: il rosso come lunghezza, o frequenza,
dell’onda luminosa non è il rosso che viene appreso nel linguaggio comune, ma è un oggetto

166
FP1, § 619.
167
ÜF 1, § 72.
168
ÜF 1, § 63.
169
ÜF 1, § 64.
170
Z, § 339.
75

istituito tramite un nuovo criterio di identificazione, sulla base dell’oggetto «rosso», astratto
dall’uso quotidiano, e che può anche collidere con il criterio originario. Si noti che in caso di
una collisione della determinazione di «rosso» tramite il giudizio intersoggettivo dei consueti
giochi linguistici con la determinazione scientifica in termini di lunghezza d’onda, sarebbe il
secondo giudizio a cadere e non il primo: se di fronte alla bandiera sovietica qualcuno dicesse
che la lunghezza d’onda corrispondente la definisce come verde e non rossa, questa
informazione tra le varia applicazioni interessanti che potrebbe avere non avrebbe quella di
correggere il nostro uso della parola «rosso».
Come per le sensazioni prossimali (tatto, sensazioni muscolari), anche per gli elementi
semplici che compongono la sensazione distale per eccellenza, cioè la vista, troviamo che la
sensazione circoscritta ed isolata è muta, ed assume senso solo come punto di connessione in
un sistema di rimandi. La sensazione è «oggetto», cioè sta in modo determinato di fronte al
soggetto, solo come momento emergente di una connessione operativa. Questo ci consente di
intendere il rapporto, spesso confuso, tra sensazioni e loro apprensione da parte del soggetto
che le esperisce. Come abbiamo visto le sensazioni valgono come livello della datità
immediata e concreta; tale immediatezza implicita nella grammatica della sensazione può
indurre, e spesso lo fa, a concepire la sensazione come qualcosa che sta al di là del discorso, al
di là di ciò che è argomentabile e comunemente giudicabile. Le sensazioni, si dice talvolta,
sono eminentemente private, noi non sappiamo ciò che l’altro sente, anche se poi possiamo in
qualche modo far giungere queste sensazioni al linguaggio. Tuttavia, da quanto abbiamo
osservato dovrebbe emergere chiaramente come la validità di un gioco linguistico
intersoggettivamente giocato è essenziale al riconoscimento di ogni significato, incluso
dunque anche quello di «sensazione». In che senso allora possiamo parlare delle sensazioni
come qualcosa di «privato»?

3. Sulla privatezza delle sensazioni e del linguaggio

Il primo passo da svolgere qui è quello di sgombrare il campo da alcune ovvietà, che
possono ostacolare una percezione del problema: in che misura è scontato che noi non
possiamo sapere ciò che sente un altro? O pensare ciò che pensa un altro? L’impostazione più
immediata del problema è probabilmente così riassumibile: io lascio in generale valere le sue
comunicazioni intorno al suo proprio sentire come criterio di esso, e tuttavia so che egli può
mentire, celando ciò che sente. Ma in che misura questa impostazione è impregiudicata
76

rispetto ad un criterio grammaticale? In che misura la si deve accettare come un dato di fatto
originario? Innanzitutto bisogna notare che in generale “[d]ella sensazione dell’altro posso
essere così sicuro come di qualsiasi fatto” 171. In generale il comportamento dell’altro, se ad
esempio lo osservo senza essere visto, mi rivela ciò che lui prova, sia attraverso
comportamenti reattivi caratteristici, come quelli del dolore, della collera, ecc., sia con
l’osservazione dei suoi atti, dell’orientamento dello sguardo, ecc.. In un contesto normale non
si solleva la questione se le sensazioni dell’altro mi siano accessibili o meno: io le intendo
frequentemente, anche se ciò non significa che io le «sento». Quanto a ciò che egli pensa, in
generale mi affido a quanto lui mi riferisce se interrogato, o spontaneamente. Si possono certo
dare contesti, in rapporto alle comunicazioni sulle proprie sensazioni, in cui non lasciamo
valere le comunicazioni altrui come criterio ultimo: ad esempio nel caso in cui l’altro sia sotto
l’effetto di qualche droga 172, oppure se abbiamo ragioni per credere che egli menta. In questo
secondo caso tuttavia è fondamentale mettere in rilievo il fatto che, per pensare ad una
menzogna, abbiamo appunto bisogno di ragioni, mentre non abbiamo bisogno di ragioni
specifiche per credere che quanto l’altro ci dice corrisponde a verità: non pensiamo di un
neonato 173 o di un cane 174 che mentano, o che fingano di sentire un dolore. Questo perché il
mentire è un gioco linguistico che ha bisogno di essere imparato, e come gioco si colloca in
una situazione dove si danno lo sdoppiamento riflessivo, con la possibilità di scindere
circoscritte unità d’azione dall’insieme delle proprie convinzioni, e motivi per mentire,
giacenti nelle circostanze personali e materiali in cui avviene la comunicazione. “Dunque non
è possibile che ogni comportamento, in ogni circostanza sia simulazione” 175, giacché, come
per il dubbio, o l’interpretazione, è necessario che si dia una base di certezze, di
comunicazioni vere, di regole funzionanti, di comportamenti espressivi del sentire perché
possa costituirsi il caso della simulazione, in cui si danno segni finalizzati a far credere un
determinato contenuto; è ovvio che per farlo si devono poter utilizzare segni disponibili
funzionanti, che veicolano i contenuti già sedimentati nella normalità per richiamare un
significato in questo frangente assente. Il distacco tra espressione (corporea o verbale) e
interiorità è necessariamente l’eccezione, non la regola. Se l’emergere di una mediazione tra
sentire ed esprimere è un momento secondario, derivato, possiamo allora chiederci:
“ (…) in che senso le mie sensazioni sono private? – Ebbene, solo io posso sapere se provo
veramente un dolore; l’altro può soltanto congetturarlo. – Per un verso ciò è falso, per un altro verso

171
RF, p. 293.
172
RF, § 160.
173
RF, § 249.
174
RF, § 250.
175
FP3, § 253.
77

insensato. Se usiamo la parola «sapere» come la si usa normalmente (e come dovremmo usarla
altrimenti?!), gli altri riescono molto spesso a sapere se provo dolore. – Già, ma certamente non con la
sicurezza con cui lo so io stesso! – Di me non si può dire in generale (se non per scherzo) che so di
provar dolore. Ma che cosa deve mai significare, - se non, forse, che provo dolore? ” 176

Un sapere è qualcosa che è preceduto da un processo di comprensione, mentre ciò che


sento non è accolto come risultato di un processo, ma al contrario come avvio immediato,
come fondamento di un significato. Se dico «Io so di avere un dolore», questa può essere
forse la forma di una replica ad un dubbio altrui, ma come espressione essa presenta il
soggetto parlante come scisso, quasi il dolore riguardasse un corpo, e la sua anima si limitasse
a prenderne nota, senza coinvolgimento. Il problema è che un dolore, come ogni sensazione,
non ha altro significato che la reazione che suscita, ed una sensazione che non muove alcuna
reazione non è sentita, cioè non è affatto una sensazione. Ovviamente vi sono usi
dell’espressione «so di avere dolore» che possiamo escogitare, usi che tenendo conto dell’uso
consueto lo piegano per ottenere un effetto espressivo particolare. Con quell’espressione che
segnala un distacco tra me dolorante e me consapevole del mio dolore posso comunicare
l’idea che il dolore è lieve, o che io sono tanto valoroso da non farmici davvero coinvolgere,
ma questi sono significati secondari, che riposano sulla indubitabilità del fatto che io senta le
mie sensazioni, mentre all’altro compete eventualmente il sapere che provo sensazioni.
A questo punto si potrebbe però avere comunque la tentazione di dire che, giochi di
parole a parte, sono alla fin fine solo io a sentire (se non a sapere) privatamente ciò che sento:
le sensazioni sono private. Questa è tuttavia completamente un’altra proposizione, ed il suo
significato reale non deve essere confuso con le immagini collaterali che essa può suggerire.
L’immagine comunicata da «le sensazioni sono private» è quella di oggetti che potrebbero
appartenere a diversi soggetti, ma che di fatto sono sempre soltanto in possesso di singoli
individui, i quali sono di ciò privatamente consapevoli. Wittgenstein contesta puntualmente la
sensatezza di una simile immagine:
“«Un altro non può avere i miei dolori.» - Quali sono i miei dolori? Qual è, qui, il criterio
d’identità? (...) Nella misura in cui ha senso dire che il mio dolore è lo stesso del suo, è anche possibile
dire che entrambi proviamo lo stesso dolore. (Certo si potrebbe anche immaginare che due persone
sentano dolore non solo nel punto omologo dei loro rispettivi corpi, ma addirittura nello stesso punto.
Questo potrebbe accadere, ad esempio, nei fratelli siamesi.)” 177

“Non è così semplice rappresentarsi il dolore di un altro secondo il modello del proprio: dovrei
infatti rappresentarmi, in base a dolori che sento, dolori che non sento. Cioè, nell’immaginazione non
devo semplicemente compiere il passaggio da un punto dolente a un altro; per esempio dalla mano al
braccio. Infatti non devo immaginare di sentire dolore in un punto del suo corpo. (Il che sarebbe anche

176
RF, § 246.
177
RF, § 253.
78

possibile.) - Il comportamento tipico del dolore può indicare un punto che duole, - ma è la persona
sofferente che esterna il dolore.” 178

Se possedessi un quadro d’autore, potrei dire che sono io a possederlo e non un altro, e
a sostegno di questa affermazione verrebbero portati criteri intersoggettivi per
l’identificazione dell’oggetto in questione. Ma, quando affermo che l’altro non può avere i
miei dolori, o che le sensazioni sono private, non faccio riferimento ad un confronto tra
oggetti; se, in questo senso, qualcuno dicesse di avere lo stesso dolore che sento io, perché
dovrei dubitarne? o perché credergli? Il problema qui non è quello della localizzazione del
dolore sul mio corpo, che può essere esplicitato secondo criteri esterni, e come tale anche
confrontato, ed immaginato diversamente da come è; la questione centrale è qui quella del
criterio dell’identità personale. Io posso sentire un dolore in un luogo o in un altro, ma non
posso sentire un dolore al di fuori del mio corpo, e questo per necessità, non empiricamente,
giacché il possesso del corpo proprio e la possibilità di reagire alle sensazioni appartengono
ad una codefinizione. Non si tratta di immaginare proiettivamente il dolore, ma di sentirlo, di
subirlo, soffrirlo e reagirvi: ciò che sente dolore è sempre il mio corpo. La localizzazione delle
sensazioni nel corpo, come abbiamo visto, è un’informazione che non appartiene al contenuto
della sensazione, ma dipende dai comportamenti che essa suscita, o cui essa partecipa: senza
la possibilità di un passaggio dalla sensazione all’azione, che è azione del corpo, non è
possibile localizzare fisicamente la sensazione. Ma, contemporaneamente, l’azione volontaria
ed i suoi limiti definiscono i limiti tra soggettività ed oggettività: tra ciò che posso
direttamente fare e ciò che non posso guidare volontariamente sta la soglia tra ciò che sono ed
il mondo, l’alterità. Il corpo in cui sento dolore è un corpo che, in qualche misura, debbo poter
(o aver potuto) attivare. Perciò non ha senso supporre di poter sentire dolori nel corpo altrui:
se sento dolore ciò che sente, ciò che reagisce, mi appartiene e tutt’al più potremmo sentire
dei dolori in un corpo comune a me e ad un altro (come nel caso di gemelli siamesi), ma non
possiamo sentire dolori in un corpo altrui.
Quanto all’attribuzione di un dolore ad un altro soggetto questo avviene con
l’immediatezza con cui i comportamenti caratteristici delle emozioni incarnano l’emozione
stessa, il moto dell’animo. Il dolore e il comportamento del dolore si coappartengono ed il
comportamento sofferente altrui non è la premessa di un sillogismo mediato a partire dalla
mia sofferenza, ma è direttamente l’esser-sofferto del dolore in presenza. Io non immagino il
dolore altrui «dietro» il suo comportamento, ma mi «rappresento» il suo dolore in quanto
convivo il suo comportamento: “In un certo senso la rappresentazione del dolore entra

178
RF, § 302.
79

davvero nel gioco linguistico [«Egli prova dolore»]; soltanto non vi entra come immagine.” 179
Qui è cruciale tener presente la differenza evidenziata in precedenza tra rappresentazione ed
immagine: se l’immagine è un vissuto, un oggetto mentale, la rappresentazione è
comportamento attivo che «guida» la volontà. Ciò che Wittgenstein ci dice è che del gioco
linguistico in cui si determina il significato di «dolore» entra anche una componente di
pensiero, di rappresentazione, che va al di là del puro comportamento reattivo tipico del
sentire. Questo momento, tuttavia, non è quello della supposta inferenza: «Siccome quando
ho un dolore ho anche un comportamento reattivo di dolore, quando vedo un comportamento
simile nell’altro ne inferisco che provi dolore». Questa distinzione non è notata persino da un
attento lettore come Kripke, nella sua analisi del linguaggio privato, e ciò lo porta ad una
conclusione generale 180 che qui vogliamo criticare a titolo esemplare. L’obiezione di
Wittgenstein all’idea di proiezione a partire dal proprio sé viene solo apparentemente aggirata
da Kripke, ma si ripropone nel momento in cui, come egli dice, io mi mettessi «al suo posto»,
cioè al posto di un altro io in prima persona. Il punto in cui tale analisi incorre in
un’inadeguatezza è quando contrappone la qualità autentica di un vissuto in prima persona
all’esteriorità di un mero apprendere “un insieme di regole su quando attribuire un dolore agli
altri e su come aiutarli”. Egli illustra questo contrasto con l’esempio di comportamenti
corporei e linguistici di natura erotica in un bambino che non abbia fatto queste esperienze
«dall’interno»; qui, egli dice, la comprensione non potrebbe essere che di una “qualità acerba
e meccanica, che scomparirà solo quando il bambino sarà in grado di entrare in questo mondo
come uno che prova egli stesso sensazioni erotiche.” 181 Nel caso del dolore questo contrasto
sarebbe nascosto dal fatto che tutti, di fatto, hanno provato qualche dolore sin dalla più tenera
età. Ora, vi è innegabilmente un fenomeno reale dietro a questa notazione: di fatto capita che
si diano esperienze le quali vengono riconosciute come il vero riempimento di significato di
qualcosa che prima si sapeva solo astrattamente, qualcosa di cui prima si conoscevano degli
intorni d’uso comune senza però alcune importanti connessioni con altri comportamenti.

179
RF, § 300.
180
“Come dunque «la rappresentazione del dolore in un certo senso entra davvero nel gioco linguistico» se non
«come immagine»? La mia ipotesi è che essa entri nella formazione e nella qualità del mio atteggiamento nei
confronti di chi soffre. Avendo sperimentato io stesso il dolore e potendolo immaginare, io posso
immaginativamente collocare me stesso al posto di chi soffre; e la mia capacità di far questo dà al mio
atteggiamento una qualità che non avrebbe se avessi semplicemente imparato un insieme di regole su quando
attribuire un dolore agli altri e su come aiutarli. (...) I problemi di Lichtenberg e Hume discussi più sopra [=
critiche alla rilevabilità dell’io] mi impediscono di cercare di immaginare che un altro «io» «abbia» il dolore al
posto di «me», ma naturalmente posso immaginare che «ci sia dolore», intendendo con ciò quel che
normalmente esprimerei dicendo «Provo dolore». Quando mi dispiace per lui, io «mi metto al suo posto»,
immagino me stesso in preda al dolore e nell’atto di esprimerlo”. [Kripke S., Wittgenstein on Rules and Private
Language.,Basil Balckwell, Oxford, 1982, p. 114.]
181
Kripke S., op. cit., p.115.
80

Tuttavia tali esperienze non creano il significato, lo arricchiscono, e di fronte a questo


arricchimento possiamo essere inclini a dire cose come «Ora sì che so di cosa si trattava!»,
«Ora sì che ne posso parlare!». Ad esempio se mi hanno descritto spesso un leone, me ne
hanno narrato le capacità, me ne hanno parlato come protagonista di gesta fiabesche e novelle
esotiche, ma senza mai mostrarmene un’immagine, quando infine mi mostrassero un filmato
sui leoni potrei essere tentato di dire che d’un tratto, finalmente, so «davvero» di cosa si
parlava, e potrei essere incline ad imputare l’autenticità della conoscenza alla «sensazione in
prima persona», ma, chiaramente, riconoscere percettivamente zampe, zanne e criniera,
vedere nelle sue movenze il predatore, ecc. non è un’imposizione immediata sensibile, ma
un’integrazione nella cornice di un saper-percepire. Le esperienze che arricchiscono il
significato, se sono sensazioni, sono a loro volta parti di strutture di significato dotate di
consequenzialità, contesto, finalità ed è questo intero di comportamento ed affezione ad
integrarsi col precedente significato astratto, arricchendolo; se così non fosse, sarebbe, tra
l’altro, enigmatico che una sensazione mai provata prima possa essere riconosciuta come
riempimento di quel significato. I comportamenti corporei e grammaticali con cui è appresa la
«versione astratta» del significato hanno già un senso e sensazioni (rappresentazioni, nel
senso wittgensteiniano) caratteristiche, e non sono affatto da concepire come «regole
esteriori», come segni vuoti cui manca il riempimento sensibile. Io avevo dunque già
sperimentato il contenuto di quel concetto, in una qualche forma più o meno povera e
l’integrazione esperienziale successiva, che può certo avere molti gradi diversi, se è
l’integrazione di quel concetto, ne conserva il senso, specificandolo senza stravolgerlo. Si dà
anche il caso in cui una esperienza toto coelo nuova subentri nell’uso del segno di un concetto
e lo sostituisca completamente come concetto con un concetto differente, designato
contingentemente dal medesimo segno: può essere il caso del linguaggio erotico usato da un
bambino solo per suscitare ilarità, rispetto ad un uso differente in età adulta: qui il significato
è semplicemente un altro, il comportamento corporeo ed anche linguistico che lo definisce è
del tutto separato e non è riconoscibile come affine al precedente uso omonimo. E in ogni
caso non sono comunque mai le «sensazioni» in prima persona ad essere decisive, ma l’intero
della nuova esperienza in cui si connetteranno sensazioni di varia fonte, motivazioni interiori,
relazioni con gli altri, ecc.. La critica di Kripke manca il segno perché commette l’errore
capitale, contro cui Wittgenstein ci mette in guardia, di attribuire alle nozioni di sensazione e
di interiorità, astrattamente prese rispetto alla loro collocazione grammaticale, il ruolo di
portatori del «significato autentico».
81

Riassumendo le relazioni esposte tra sensazioni ed egoità possiamo giungere alla


seguente struttura codefinitoria: le sensazioni sono l’immediato momento corporeo delle
reazioni; le reazioni sono la soglia nel comportamento tra attività (volontarietà) e passività;
ma l’ambito dell’azione volontaria definisce lo spazio della soggettività; dunque le sensazioni
sono la soglia immediata della soggettività, e non è perciò possibile che un soggetto senta
sensazioni come sensazioni di un altro soggetto. Sulla base di una tale tautologia materiale si
può vedere con chiarezza perché: “La proposizione «Le sensazioni sono private» è
paragonabile a: «Il solitario si gioca da soli».” 182 Bisogna tuttavia sottolineare qui, come
altrove, che la necessità grammaticale esposta non è un banale truismo, non è un gioco
formale: nei vincoli grammaticali si mostrano comportamenti reali, che non siamo davvero in
grado di rappresentarci diversamente da come li troviamo nella grammatica. Di fronte ad ogni
obiezione come: «È una questione definitoria: se in un solitario si associa un altro, non lo
chiamiamo più solitario, e tanto basta», bisogna rispondere: la soglia tra la mia partecipazione
solitaria e quella di un altro è reale ed importante, perciò non si tratta solo di un nuovo nome,
ma di un nuovo genere di gioco.
C’è un secondo lato della medesima questione che va ora considerato, quella che
trasporta la questione della supposta privatezza delle sensazioni sul piano della costituzione di
un linguaggio privato. L’impostazione del problema è descritto nel seguente passo:
“Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze vissute interiori, e che soltanto io sono
in grado di comprendere? In che modo designo le mie sensazioni con parole? – Così come facciamo
abitualmente? – Le parole che esprimono le mie sensazioni sono dunque collegate con le naturali
manifestazioni esterne delle mie sensazioni? – In questo caso il mio linguaggio non è «privato». Un
altro potrebbe comprenderlo come lo comprendo io. – Ma che dire, se possedessi soltanto la
sensazione; e nessuna naturale manifestazione esterna della sensazione? E ora associo semplicemente
nomi a sensazioni, e impiego questi nomi in una descrizione. ” 183

L’ipotesi qui formulata di un «linguaggio privato» si colloca in una posizione


problematica di fondamentale interesse per comprendere quale spazio può essere attribuito
alla soggettività individuale. Di fatto, come abbiamo visto, il linguaggio delle sensazioni si
innesta come un comportamento nuovo sulla radice del comportamento reattivo ad una
sensazione: dall’espressione reattiva immediata, all’esclamazione grammaticata, fino al gioco
linguistico con parole e proposizioni, questi momenti possono rappresentare sommariamente
un processo di passaggio dalla sensazione al linguaggio che la esprime. Seguendo questo
percorso il linguaggio delle sensazioni non è assolutamente privato: io comprendo le
espressioni di collera, dolore, gioia senza bisogno di costruirmi un’inferenza che porti dal suo

182
RF, § 248.
183
RF, § 256.
82

comportamento esteriore al mio sentimento interiore: quelle espressioni sono il loro


significato.
Facciamo invece l’ipotesi contraria, che non vi siano comportamenti caratteristici delle
sensazioni, oppure anche soltanto non per tutte le sensazioni; dopo tutto abbiamo visto che
non vi sono comportamenti caratteristici per le sensazioni di pressione, di calore, per le
impressioni cromatiche, ecc.. In riferimento a queste sensazioni non potremmo forse costruire
un linguaggio privato, che designi solo gli elementi del mio paesaggio interiore, e ne possa
così descrivere i lineamenti? Una volta ammesso e consolidato il concetto che l’ingresso in
una articolazione grammaticale è fondamentale per l’attribuzione di significato alle
sensazioni, la questione se vi possa essere un linguaggio privato diventerebbe equivalente alla
questione se vi possano essere significati individuali, o altrimenti detto, se l’egoità individuale
sia fondante o fondata in rapporto all’intersoggettività grammaticale.
Ipotizziamo, seguendo Wittgenstein, di segnare il ricorrere di una sensazione su di un
diario, associandovi un segno: «S», e scrivendolo ad ogni ripresentarsi di tale sensazione. Il
primo problema concerne la definizione di questo segno: una definizione ostensiva in questo
caso non è possibile. Ora potrebbe però sembrare che si possa dare qualcosa come una
«definizione ostensiva privata», che consisterebbe dell’imprimersi nella memoria l’aspetto di
questa sensazione concentrandovi sopra l’attenzione. Tuttavia questa sorta di battesimo
privato dell’occorrenza di una sensazione non sembra particolarmente illuminante: qual
sarebbe qui l’aspetto della sensazione? Si dirà che per definizione non posso descriverlo,
giacché appunto di una sensazione privata si tratta. In prima istanza, empiricamente, è allora il
caso di notare che, a prescindere dalla privatezza o meno del linguaggio, questa supposta
operazione del fissarsi di un’impressione dedicandovi una forte attenzione, sembra essere
nell’apprendimento pratico davvero soltanto un’immagine, cui non corrisponde alcun metodo
di apprendimento: quando studiamo una lingua straniera non apprendiamo nuovi termini
fissando l’attenzione sulle sensazioni corrispondenti e ripetendoci la parola con l’attenzione
rivolta ad esse. L’immagine che qui viene usata è quella depositata nei termini «impressione»,
«imprimersi», in cui l’attenzione più o meno forte dovrebbe essere più o meno come un
premere più o meno forte la tavoletta di cera della memoria sul contorno della sensazione.
Tuttavia:
“«Me la imprimo in mente» può soltanto voler dire: questo procedimento fa sì che in futuro io
ricordi correttamente questa connessione. Però nel nostro caso non ho alcun criterio di correttezza.
Qui si vorrebbe dire: corretto è ciò che mi apparirà sempre tale. E questo vuol dire soltanto che qui
non si può parlare di «corretto».” 184

184
RF, § 258.
83

Un battesimo privato della sensazione porrebbe come equivalenti il seguire la regola


della designazione corretta con il credere di seguire la regola, e ciò sopprime, come abbiamo
visto, i confini tra la regola e la deviazione da essa.
Ma allora cosa succede quando segno sul diario il ricomparire della sensazione? Devo
dire che non annoto in realtà nulla, oppure che annoto scorrettamente? Il punto è proprio che
non so né ho modo di sapere, quando rileggo il diario, se ho annotato in modo corretto o
scorretto. In che senso è legittimo dire che ho annotato ogni volta una sensazione, o almeno
«qualcosa»? Il concetto di «sensazione» appartiene al linguaggio comune, non a quello
privato; e lo stesso vale se mi ritiro nella generalità del concetto di «qualcosa» 185. Un
linguaggio che fosse davvero privato dovrebbe poter ottenere il contenuto semantico
immediatamente dall’esperienza privata, e poi escogitare un segno arbitrario per richiamare
alla memoria tale esperienza. Se la sensazione che annoto è un forte dolore alla tibia, questo
designazione è oltremodo legittima, ed io posso anche inventare un segno abbreviativo
arbitrario per annotare il ritorno del dolore; nel linguaggio comune distinguo un dolore da un
piacere, la mia tibia dalla sua o dal mio polso, e tutto ciò fa sì che la mia registrazione sia
legittima in quanto di principio ciascuno può comprendere cosa ho annotato, e perciò anch’io,
in momenti successivi all’annotazione. Se però l’indomani ho di nuovo un forte dolore alla
tibia con la stessa localizzazione, durata ed intensità, posso essere sicuro che si tratti dello
stesso dolore? Di fatto ciò che per l’appunto può accadere è che semplicemente mi sento di
affermare che si tratta dello stesso dolore nei limiti dei concetti intersoggettivamente validi
con cui l’avevo descritto il giorno prima, ma che se qualcosa è cambiato nell’«interno» del
dolore, se magari ieri era un dolore reumatico ed oggi post-traumatico, questo non lo so (a
meno che non vi siano ancora altri criteri pubblici che non ho menzionato).
Ora, se il problema della riconoscibilità della sensazione dipende dal fatto che essa
non ha ancora alcuna collocazione in un gioco di riferimenti, associazioni e differenze, non
potrei ben inventarmi una simile applicazione? Ma, posso inventarmi qualcosa senza
utilizzare il linguaggio comune? Posso immaginarmi un uso per un segno, una regola
d’applicazione articolata senza parlare con me stesso? E ammettendo anche che ciò sia
possibile, e che io abbia escogitato per intuizione una applicazione del segno privato; in che
misura l’identità della sensazione è essenziale all’applicazione del segno, ed in che misura
questa applicazione è ancora privata?

185
RF, § 261.
84

“Immaginiamoci ora un’applicazione della registrazione del segno «S» nel mio diario. Io
faccio la seguente esperienza: Ogniqualvolta ho una determinata sensazione, un manometro mi mostra
che la mia pressione sanguigna sale. Così vengo messo in condizione di comunicare un aumento della
pressione sanguigna senza l’ausilio di un apparato. Questo è un risultato utile. E qui sembra essere del
tutto indifferente se ho riconosciuto correttamente la sensazione oppure no. Ipotizziamo che io mi
sbagli continuamente nella sua identificazione: non fa proprio niente. E questo mostra già che l’ipotesi
di tale errore era solo un’apparenza.” 186

Se anche la sensazione avesse ogni volta un aspetto diverso, una volta si presentasse
come un senso di leggerezza ed un’altra come un senso di pienezza, questo sarebbe irrilevante
per determinare l’accezione di significato della sensazione qui intenzionata: la sensazione-di-
leggerezza-per-la-pressione-sanguigna significa l’aumento di pressione e non
un’iperossigenazione o una discesa sull’otto volante, e quando significasse una di queste altre
cose tale sensazione non avrebbe più alcuna «somiglianza» con la sensazione relativa alla
pressione. L’errore nell’identificazione della sensazione è l’errore nel segnalare l’aumento
della pressione sanguigna; qui sta il suo criterio d’identità, il suo significato grammaticale ed
il suo senso nella mia vita, mentre il sostrato sensibile, finché non diventa caratterizzante per
ulteriori specificazioni di questa applicazione, o per applicazioni diverse, è assolutamente
irrilevante.
Ma è davvero legittimo considerare irrilevante il sostrato sensibile, non solo
semanticamente, ma anche quanto al proprio valore per la mia vita? Prendiamo il caso del
gusto di differenti tipi di tè. Assaggio il tè per la prima volta, e non riesco a fare differenze tra
quasi nessun tipo e nessun altro; se ho voglia di un tè non penso ad un tè nero o verde,
fermentato o semifermentato, ecc. ma ad un tè in generale, l’anonimo tè di bustina del bar,
privo di caratteri distinguibili; quando lo gusto non registro il gusto particolare di quel tè. In
seguito, poniamo, dopo averne bevuto molti tipi diversi per un lungo periodo, acquisisco la
capacità di distinguere persino la stagione del raccolto di un tè, e considerare intercambiabili,
per dire, un Keemun e un Oolong, mi sembra con tutta evidenza un’assurdità. Un processo di
evoluzione del gusto di questo genere è tutt’altro che raro, e lo si può ritrovare ad ogni livello
di percezione sensibile. Bisogna dire che le sensazioni relative al tipo di tè c’erano già sempre
tutte, ma semplicemente mancavano le «categorie» per differenziarli e ricordarli? In certo
modo sembra sia necessario esprimersi in questo modo, giacché, se le sensazioni non fossero
già state presenti non avremmo potuto farne tesoro, aumentando la nostra esperienza e
competenza, la nostra capacità discriminatoria, e se qualcosa viene distinto ora doveva essere
anche potenzialmente distinguibile in precedenza. Tuttavia, se ci esprimiamo così, dobbiamo
fare attenzione al fatto che ciò che nominiamo con «sensazione» in senso potenziale non

186
RF, § 270.
85

venga assimilato alla qualità sensibile, alla percezione che avvertiamo, che emerge quando ci
si trova in una connessione di associazioni e distinzioni che per l’appunto qualificano la
sensazione: la sensazione indifferenziata è insignificante, attualmente priva di senso, non è
esperita in alcun modo, ma non è un nulla.
“«Ma tu concederai tuttavia che c’è una differenza tra comportamento del dolore con dolori e
comportamento del dolore senza dolori.» - Concedere? Quale differenza potrebbe essere più grande! -
«E tuttavia approdi sempre di nuovo al risultato che la sensazione stessa sia un nulla.» - Nient’affatto.
Essa non è un qualcosa, ma neppure un nulla! Il risultato era soltanto che un nulla fornirebbe gli stessi
servigi di un qualcosa, sul quale non si può dire nulla. Noi abbiamo soltanto rigettato la grammatica
che tende qui ad imporcisi.” 187

Wittgenstein si rivolge in questo contesto in particolare contro l’idea che la sensazione


sia da considerare grammaticalmente come una cosa, un oggetto; questa considerazione
potrebbe far credere che la sua critica intenda essere essenzialmente di natura verbale. Il
dolore, la sensazione, sembra di dover dire, c’è, è fondamentale a prescindere da qualunque
altra cosa accada, solo non può essere considerato un oggetto e non se ne può parlare se non
all’interno di un gioco linguistico. Questo modo di vedere sarebbe però riduttivo. È vero che
il comportamento del dolore senza dolore non è lo stesso comportamento di quando è
originato da un dolore, anche se esternamente può essere indistinguibile; questo va
interpretato dicendo che la sensazione come momento reattivo fa parte del significato
comportamentale, così come i campioni di colore fanno parte del linguaggio che li esprime, e
come nel Tractatus il segno era già sempre parte del simbolo. D’altro canto negare che la
sensazione sia un oggetto significa negare l’immagine di una sensazione come un’entità
circoscritta, indipendente, la cui ispezione può portare alla luce predicati inerenti; negando
questa immagine si nega contemporaneamente l’idea di sensazioni come parte fondativa
autonoma del significato e del senso, ed in seconda battuta si nega la privatezza di principio
del significato e del senso. “Un «processo interno» abbisogna di criteri esterni.” 188 Che è
quanto a dire: l’interiorità individuale è debitrice del suo spazio all’intersoggettività
grammaticale: “Se la gente smettesse (improvvisamente) di essere d’accordo nei giudizi sui
sapori, - direi ancora che ciascuno sa, comunque, di che sapore si tratta? – Non diverrebbe
chiaro, allora, che ciò è privo di senso?” 189 Qui il «sapere» ciò che si sente, e la sua
dipendenza dal giudizio intersoggettivo, invadono l’intero ambito di significato del sentire:
immaginiamo che nei casi dove io sento «dolce», un altro senta «acido», un terzo niente del
tutto, e così avanti. È rilevante che ciò che io sento sia dolce? Cosa me ne faccio del giudizio

187
RF, § 304.
188
RF, § 580.
189
FP2, § 347.
86

di gusto in un simile frangente? Non posso chiedere nulla di dolce, non posso partecipare la
mia soddisfazione per aver mangiato una cosa con un certo gusto, come non posso soddisfare
alle richieste gustative altrui, non posso usare la metafora della dolcezza o dell’amarezza, non
posso usare la dolcezza come criterio del contenuto nutrizionale (senza altri parametri), non
posso neppure, alla lunga, fidarmi del mio gusto, giacché, se fossero intervenute
modificazioni, deviazioni stabili o momentanee nel mio giudizio gustativo (la cui possibilità
mi è ben nota), non potrei rendermene conto in alcun modo. L’intero linguaggio del gusto
diverrebbe rapidamente una lingua morta, straniera, e con esso il mio sapere intorno al gusto.
Ma che dire del mio gusto privato? Chiaramente il «dolce» che conoscevo prima non
esisterebbe più, quel significato si sarebbe dissolto in quanto le applicazioni del segno, le
operazioni che prendevano le mosse da esso, sarebbero scomparse; tuttavia è pensabile che, se
fossi in grado di trovare, o mantenere, alcune applicazioni per il mio gusto personale,
l’articolazione semantica, intersoggettivamente appresa, potrebbe conservarsi in vita una volta
che l’accordo intersoggettivo è venuto meno: ad esempio, quando so di avere bisogno di
energie, mangio qualcosa che per me ha il gusto dolce, e con ciò accade che appago il
bisogno. Il criterio della dolcezza diverrebbe ora quell’appagamento energetico (che non
garantirebbe la «dolcezza oggettiva» dell’appagante), e se anch’esso venisse a mancare, se
alcuni errori lo rendessero anche transitoriamente inaffidabile, con ciò sparirebbe l’ultimo
frammento dell’orizzonte di significato del «dolce», così come è scomparso nell’oblio per
ciascuno il significato delle parole del suo primo idioma infantile. A questo punto il nostro
gusto non sarebbe lo stesso di prima, anzi non ci sarebbe più nulla che corrisponda a quanto
ora identifichiamo come gusto: come ci è accaduto di apprendere le distinzioni tra tipi di tè,
sentendo cose che prima non sentivamo, così ora avremmo perso distinzioni che prima
sentivamo.
*
* *
Va osservato infine come sulla natura più propriamente qualitativa delle sensazioni
Wittgenstein non si soffermi se non per sottolineare che ciò che accomuniamo sotto il nome
di «sensazioni» non ha sostanzialmente niente di accomunante: sapori, suoni, dolori, colori
non sembrano in alcun modo affini, se non per la loro collocazione di fonti immediate da cui
la realtà sgorga. Un sapore è portatore di una qualità materiale assolutamente irriducibile, ma
tale specificità è differente dalla specificità, ad esempio, del colore «rosso»: la specificità di
un colore è la sua determinazione specifica nel sistema dei colori, delle sensazioni cromatiche
e d’illuminazione; ma la specificità del colore in sé, dell’esser-colore, non ha connessioni
87

grammaticali che gli conferiscano significato: Cos’è caratteristico di tutte le sensazioni


visive? Non sembra che si possa menzionare nulla oltre alla connessione empirica con
l’organo della vista. Non ci vediamo vedere, né tantomeno riconosciamo col tatto o con
l’udito la visione. Dobbiamo forse dire che la qualità del colore, o del sapore è insignificante?
Qui la domanda è posta in modo ambiguo: cosa vuol dire «insignificante»? Privo
d’importanza o privo di un significato linguistico? Si vorrebbe dire che, in certo senso, niente
può essere più importante della «qualità» dei colori, dei sapori, dei suoni; ma la domanda non
pone in questione i diversi colori, sapori o suoni, ma il colore in sé, rispetto al sapore in sé,
ecc. In un caso simile si è inclini a dire che l’evidente specificità di significato del colore
rispetto al sapore non si lascia esprimere, ma che ha la natura di un’evidenza immediata:
ciascuno per sé sa quanto è importante la percezione del colore e la sua assoluta diversità da
quella del sapore. Ma è davvero la differenza tra il sapore ed il colore quella che abbiamo
davanti agli occhi, o non è forse quella tra «colori» e «sapori»? Se esperisco colori non
esperisco la specificità del colore, così come se ho un pensiero non esperisco la specificità del
pensare, ma la natura del pensare la esperisco nella misura in cui ne scorgo la differenza ad
esempio rispetto all’agire; possiamo porre un simile genere di contrasto tra i sensi? Ad
esempio, posso dire che il colore è una sensazione percepita con gli occhi, mentre il sapore è
una sensazione percepita con la lingua. Posso dire anche che gli oggetti della visione e
dell’udito si pongono come esterni e distanti dal corpo, mentre il tatto lo sento sul mio corpo,
oppure che l’occhio si dirige verso il suo oggetto, mentre l’orecchio lo attende, ecc. Questo
genere di analisi, tuttavia, non ha più niente del riconoscimento di una qualità immediata, ma
descrive secondo parametri comportamentali le funzioni sensoriali: nell’esser percepito
dall’occhio non c’è una specifica qualità che indica la natura distale della sensazione, così
come nell’esser percepito dal tatto non c’è una qualità di prossimità: una macchia colorata nel
campo visivo, conseguente ad un lampo, non viene presa per un oggetto esterno, giacché non
posso cambiare la mia prospettiva rispetto ad essa, non posso metterla a fuoco, ecc.
Altrettanto possiamo dire per il tatto, ricordandoci del caso della percezione tattile mediata da
un bastone. Riassumendo si può dire che la natura di «qualità» delle sensazioni, tanto in
riferimento all’organizzazione interna ad un senso, quanto alla specificità di ciascun senso,
nomina semplicemente la posizione dell’immediato sentire informativo nel comportamento
grammaticato. Posso esperire la specificità dello sperare o del pensare attraverso una
collocazione grammaticale in un sistema di differenze, ma la specificità del sapore si sottrae
ad una semplice considerazione differenziale rispetto agli altri sensi: ciò dovrebbe permetterci
di vedere a maggior ragione come la qualità del sapore in sé non è affatto una qualità, non è
88

una qualità sensibile, come il rosso, ed è grammaticalmente solo la rappresentazione di una


modalità d’esperire. In quanto tale rappresentazione, collocata in un sistema di
comportamenti ed aspettative, la «qualità» del sapore è enormemente importante,
rappresentando uno specifico accesso alla realtà, un modo della sensazione. Ma quanto al suo
significato sul piano sensibile esso è realmente insignificante, in tutti i sensi del termine: un
gusto salato è una qualità rilevante rispetto al dolce, o all’amaro, ma non ci si deve figurare la
specificità del sapore guardando, per dire, alla differenza tra sapore e colore come alla
differenza, ad esempio, tra salato e rosso, perché è come tentar di esporre la particolare qualità
sensibile dei numeri confrontando il 7 ed il salato: non ci sono né somiglianze né differenze
che illuminino il carattere qualitativo che si pretenderebbe di esibire.

4. Dalle sensazioni alle emozioni: il concetto del dolore


Il dolore, ci mostra Wittgenstein, ha una collocazione del tutto particolare tra le
sensazioni, in quanto al dolore è essenziale il legame con una reazione caratteristica, con
un’espressione reattiva conseguente 190. Il dolore rappresenta una sorta di anello di
congiunzione tra le sensazioni obiettive e le «emozioni» 191 (Gemütsbewegungen), giacché
esso ha localizzazione, intensità e durata, come le sensazioni, ma gli è anche caratteristico un
elemento espressivo (gesti, suoni, espressioni del volto), che invece, come vedremo,
caratterizza i «sentimenti» connessi alle emozioni (gioia, paura, collera, ecc.). Questa
considerazione sul dolore è di particolare rilievo se pensiamo che l’esempio del dolore è valso
frequentemente nella tradizione filosofica come esempio di sensazione per eccellenza, e
questo proprio in quanto esso sembra testimoniare un modello di sensazione realistico, dove
la sensazione oggettiva detta il proprio contenuto. È invece importante osservare che il
«contenuto» della sensazione di dolore è un contenuto sui generis, non completamente
assimilabile a quello delle emozioni. Ciò che il dolore detta è semplicemente un immediato
moto di ripulsa, di rifiuto e fuga: il dolore è, senza resti, questa reazione, la sua grammatica
non è quella di un agito, ma di un subito che provoca un’immediata risposta di rifiuto. Nel
caso del dolore quanto detto a proposito dell’impossibilità di un linguaggio privato risulta
particolarmente pregnante, in quanto ci invita ad osservare come il dolore vada sempre
innanzitutto riconosciuto attraverso un tipico comportamento del dolore 192, un’espressione
reattiva che viene poi sostituita da un’appropriata espressione verbale, un’esclamazione, un

190
FP2, § 63.
191
FP2, § 499.
192
Cfr. FP4, p. 209.
89

lamento, una dichiarazione di sofferenza. «Contemplando» i nostri dolori privatamente non


possiamo notare in nessun modo una qualità dolorifica sensibile comune a tutti i casi di
dolore, ad una bruciatura così come ad una puntura o ad una botta; non è tale supposta qualità
comune ciò che ci permette di nominare in modo comune tutte le occorrenze del dolore. In
questo senso è vero che l’essenza del dolore sta nel gioco linguistico del dolore e non nelle
varie sensazioni di dolore, anche se ciò non significa affatto che il dolore è nient’altro che la
sua verbalizzazione o il comportamento ad esso associato. Del gioco linguistico fanno infatti
parte anche l’unione di circostanze ambientali di un certo tipo e di relative reazioni
comportamentali, tra cui quelle propriamente verbali: è il carattere reattivo e non attivo del
dolore a far sì che il dolore non sia il comportamento del dolore nel senso di una simulazione.
La simulazione del dolore è infatti un esercizio attivo, intenzionale, e presuppone
l’apprendimento primario di un comportamento reattivo in presenza di certi eventi. A
differenza dalle emozioni il dolore non «colora» i pensieri: ci sono pensieri tristi, collerici, ma
non “pensieri del mal di denti” 193. Il carattere emozionale del dolore, essendo limitato al
comportamento di repulsione, non è legato al momento eminentemente attivo del pensiero.
Tutti questi tratti caratteristici fanno del dolore piuttosto un’eccezione, che un esempio
di sensazione le cui modalità possano essere generalizzate.

193
FP1, § 804.
90

EMOZIONI (MOTI DELL’ANIMO; SENTIMENTI)

Il caso del dolore introduce un ordine di concetti psicologici irriducibile a quello del
sentire ricettivo, a sensazioni, impressioni, «dati sensoriali». Nel caso del dolore il nesso tra
emozioni e pensieri è assente o secondaria: l’emozione legata al dolore proviene senz’altro dal
mondo; al contrario tutte le altre forme emozionali potrebbero addirittura constare di pensieri
senz’altro 194. Tra le emozioni in questo senso (Gemütsbewegungen) Wittgenstein menziona
gioia, tristezza, piacere, paura, speranza, collera, depressione, angoscia, diletto, ecc. 195. Se è
ben vero che le emozioni «si sentono», non è però possibile concepirle alla stregua di un
genere particolare di sensazioni 196. Innanzitutto, come abbiamo già avuto modo di notare
sopra, le emozioni sono caratterizzate dal fatto di «colorare» i pensieri, di essere, per così dire,
il sentire immediato del contenuto di un pensiero. Le sensazioni invece non colorano i
pensieri, non danno ad essi alcuna particolare connotazione di senso: una sensazione tattile, o
parimenti un’impressione cromatica, non conferiscono un tono particolare al contenuto di un
atto di pensiero. In molte emozioni sono presenti sensazioni, più o meno caratteristiche,
tuttavia il contenuto significativo non è mai riducibile a quelle sensazioni:
“«Ma la depressione è certamente qualcosa che si sente (ein Gefühl): non vorrai certo dire che
sei depresso e non l’avverti? (…) Se rivolgo l’attenzione alle mie sensazioni fisiche(Körpergefühle),
noto un leggero mal di testa, un lieve disagio nella regione dello stomaco; forse una certa stanchezza.
Ma è a questo che intendo riferirmi, quando dico che sono gravemente depresso? ” 197

“Se l’angoscia è terribile, e se quando sono angosciato sono consapevole della mia respirazione e di
come siano tesi i miei muscoli facciali, - tutto ciò dice forse che sono queste sensazioni la cosa che
trovo terribile? Non potrebbero addirittura significare un sollievo? ” 198

In questi casi (depressione, angoscia) la tentazione a considerare primarie le


sensazioni 199 che accompagnano il moto dell’animo può essere particolarmente forte, perché
non si presenta un chiaro oggetto cui il moto dell’animo si riferisca. Tuttavia anche qui è
chiaro che né le singole sensazioni di accompagnamento, né il loro insieme, determinano il
contenuto dell’angoscia o della depressione; in questi due casi non vi è una tematizzazione

194
FP2, § 153.
195
Cfr. FP1, § 836; FP2, § 148.
196
Wittgenstein nota come si sia inclini a parlare delle emozioni in termini di «stati d’animo» quando si
esprime la propria emozione ad altri, ma non nella forma di un’esclamazione, bensì in quella di una
semplice comunicazione. (FP2, § 177.)
197
FP1, § 133.
198
FP1, § 730.
199
La distinzione italiana tra sensazioni e sentimenti non coincide perfettamente con quella in tedesco tra
Empfindungen e Gefühle, giacché la «sensazione» in italiano coincide, in tutti i casi in cui viene indicato un
generico esser-sentito, con il Gefühl tedesco.
91

dell’oggetto di riferimento ma un’intenzionalità diffusa, in cui l’oggetto dell’angoscia o della


depressione è piuttosto un oggetto indeterminato che nessun oggetto: la depressione o
l’angoscia hanno ragioni, ma non ragioni particolari, che si potrebbero sopprimere con un atto
o disarmare distogliendo l’attenzione. Il loro «oggetto intenzionale» è piuttosto l’oggetto
come alterità tout court, il mondo tutto, la totalità che come tale non può mai essere
obiettivata, reificata, ma che può essere considerata oggetto intenzionale. In altri casi invece
la tematizzazione nelle emozioni è molto più evidente, e mostra la netta divaricazione rispetto
alle sensazioni:
“Chi domanda se il piacere è una sensazione, probabilmente non distingue tra ragione e causa,
perché altrimenti noterebbe che si prova piacere per qualcosa, il che non vuol dire che questo qualcosa
causi in noi una sensazione. ” 200

“Alladichiarazione: «Non posso pensarci senza provare paura...» si può rispondere: «Non c’è
motivo di aver paura, perché…» In ogni caso questo è un mezzo per accantonare la paura, mezzo che
però non vale per il dolore. È una sensazione il disgusto? – Ha una sua localizzazione? – E ha un
oggetto, come la paura. E qui si danno anche sensazioni caratteristiche.” 201

Nel caso del dolore, o di sensazioni tattili, muscolari, visive, ci si riferisce ad una
causa, cioè ad un evento indipendente, appartenente al mondo oggettivo, che funge da origine
delle sensazioni, in quanto le sensazioni sono definite proprio dalla loro funzione informativa
rispetto al mondo. Le emozioni si riferiscono invece ad oggetti che entrano a livello del
pensiero, di cui ci si occupa, e che rientrano in concatenazioni generali di ragioni e scopi. Si
potrebbe parlare, metaforicamente, di «dolori dell’anima», ad esempio in rapporto al
pentimento, ma “se volessimo trovare qualcosa di analogo al luogo del dolore, non si
tratterebbe, naturalmente, dell’anima (come del resto il luogo del dolore fisico non è il corpo),
bensì dell’oggetto del rimorso.” 202 L’oggetto intenzionale dell’emozione si può dare
empiricamente come una rappresentazione puramente interiore, come l’evento, magari
impossibile, che però occupa i miei pensieri, mi tormenta, suscita la mia apprensione come
una possibilità soggettiva, non meno angosciante perché irrazionale; parimenti sembra che
oggetto intenzionale dell’emozione possa anche essere un’entità esterna incombente, come il
cane che qui ed ora ci abbaia contro 203. Tuttavia, anche in questo secondo caso si potrebbe dire
che è la potenzialità di un evento piuttosto che la sua attualità ad essere oggetto della paura:
ho paura che il cane mi possa assalire, mi immagino possibilità confuse, sono paralizzato
dall’indecisione, ecc., mentre una volta morso non ho paura del dolore attuale, semplicemente

200
FP1, § 800.
201
FP2, § 161.
202
FP2, § 307.
203
FP2, § 154.
92

ne soffro. Ovviamente potrebbe darsi che le mie sensazioni organiche precedenti (tremore,
battito accelerato, ecc.) perdurino immutate anche una volta cessata la ragione della paura, ma
non sono esse ad essere il contenuto della paura, bensì l’intera struttura dei pensieri che la
sorregge, le conseguenze immaginate, le reazioni immediate, le sensazioni
d’accompagnamento: tutti questi elementi rappresentano il contenuto della paura. Tolta
l’impalcatura di pensieri, con il collocamento della paura e del suo oggetto nell’insieme della
mia vita, con le sue aspettative, i suoi scopi e valori, ciò che rimane è del tutto irriconoscibile,
ed insufficiente a determinare un significato piuttosto che un altro.
L’oggetto di un moto dell’animo può essere di principio posto e sospeso, in quanto vi
sono ragioni per dedicarvi l’attenzione, come per distogliervela. Questo punto è
particolarmente interessante in rapporto alle sensazioni, nel caso in cui oggetto di un moto
dell’animo siano sensazioni attuali: “Un odore può essere estremamente piacevole. Ciò che in
esso vi è di piacevole è solo una sensazione? Allora la sensazione della piacevolezza
accompagnerebbe l’odore. Ma come potrebbe riferirsi ad esso?” 204 La piacevolezza non è la
sensazione piacevole perché il piacere è già un’emozione, implica già la reazione soggettiva
alla sensazione, un atteggiamento nei confronti di essa. Ma il piacere non è neppure
semplicemente un vissuto ulteriore, una sensazione interna, perché questo significherebbe che
potremmo sentire la piacevolezza di un profumo in assenza del profumo; ciò duplicherebbe il
sentire in una «sensazione interna» astratta contrapposta ad una sensazione esterna, di natura
cognitiva. La piacevolezza dunque non è un vissuto oggettivo, bensì l’accoglimento
soggettivo di un oggetto, e senza l’oggetto perde la propria riconoscibilità, perde il proprio
significato (in un caso del genere parleremmo forse di «stato di benessere», ma non di
piacevolezza). Di fronte ad un profumo generalmente intenzionato con piacere è nostra facoltà
quella di mutare atteggiamento, sospendendo il piacere, col distrarci da esso; parimenti è in
nostro potere di indurre causalmente in noi stessi un significato differente ed un accoglimento
differente della stessa sensazione, per esempio ponendoci di fronte all’odore di una frittura in
una condizione di fame o di indigestione; tuttavia ciò che non possiamo fare è «interpretare»
arbitrariamente il profumo, attribuendogli volontariamente un significato piacevole o
sgradevole: l’emozione non è un’opinione. Il passaggio dalla sensazione al suo accoglimento,
dall’oggetto dell’emozione al sentimento non è un passaggio necessario in generale, ma è un
passaggio immediato, dunque non disponibile per interpretazioni arbitrarie. Da questo lato si
scorge il nesso tra emozione e sensazione: entrambe si danno su di un piano di immediatezza.
D’altro canto l’indipendenza relativa tra l’oggetto come datità e l’oggetto come ragione
93

dell’emozione si vede nel fatto che sensazioni provenienti da diversi aditi sensibili possono
venir accolte sinteticamente con la stessa emozione: “il rosso e il verde posso soltanto vederli,
ma non udirli – però la tristezza, nella misura in cui posso vederla, posso anche udirla.” 205 Il
sentire la tristezza, come il sentire la lamentosità di una “melodia lamentosa” 206, è un sentire
in senso diverso dal sentire una sensazione. Quando in italiano usiamo il verbo «sentire» (o in
tedesco «Fühlen») indifferentemente per sensazioni e sentimenti, lo facciamo sulla base
dell’area semantica comune, che può essere descritta come: «l’immediato esser-affetto presso
di me», indifferentemente se preso come informativo sul mondo o meno. Si dice di un gusto,
una sensazione tattile, un dolore, della tristezza o della paura, che li si sente; mentre non si
dice di sentire un colore (se non consapevolmente in senso metaforico), perché il colore non
accade presso di me ma è posto come localizzato al di là del mio corpo; altrettanto: non si
dice di sentire un ragionamento, perché il ragionamento è un’attività mediata. Ma la
differenza specifica nel sentimento rispetto alla sensazione sta nel passaggio tra passività ed
attività, o meglio tra funzione oggettiva e funzione espressiva (attiva o reattiva). Le emozioni,
ed i sentimenti che le caratterizzano, hanno un oggetto, determinato o indeterminato, attuale o
pensato; le sensazioni (Empfindungen) sono oggetti, nel senso che sono alterità poste per
definizione al di là della sfera d’azione del soggetto, tuttavia non hanno contenuto proprio;
sono, per così dire, oggetti cui non ineriscono predicati. Le emozioni, ed in questo senso il
dolore è affine ad un’emozione, sono poi caratterizzate da espressioni tipiche, da reazioni
comportamentali, anche se non necessariamente esse sono riconoscibili con criteri esterni:
“La collera è un sentimento (Gefühl)? E perché no? – Prima di tutto: che cosa fa uno quando è
arrabbiato? Come si comporta? In altre parole: Quand’è che si dice di qualcuno che è arrabbiato?
Bene, è in quelle circostanze che egli impara a usare l’espressione «sono arrabbiato». ” 207

La collera è definita da un comportamento collerico, e da ragioni della collera. Nella


collera posso agitarmi, tendere i muscoli, alzare la voce, trattenermi a stento dal percuotere o
rompere qualcosa, ed il tutto deve ricondursi ad un oggetto della collera (altrimenti
parleremmo non di collera, ma probabilmente di pazzia). Un’emozione è proprio una reazione
comportamentale, accompagnata da sentimenti caratteristici, conseguente ad una ragione (non
ad una causa). Tanto l’assenza dell’oggetto, quanto l’assenza della reazione specifica
distruggono il significato dell’emozione. Vi sono sensazioni/sentimenti di collera, ma la
collera non è semplicemente tali vissuti immediati: le ragioni che la muovono ed il

204
FP1, § 804.
205
RF, p. 275.
206
FP3, § 342 e sgg.
207
FP1, § 127.
94

comportamento che la esprime sono parte della sua essenza. Il ruolo del comportamento
espressivo, che qui emerge in primo piano, segna un’importante differenza rispetto al caso
delle impressioni sensibili. Nel caso delle emozioni e del loro significato può sembrare
addirittura che il comportamento relativo sia senz’altro il portatore essenziale dell’emozione.
Se, ad esempio, proviamo “a riflettere su qualcosa di molto triste con il volto raggiante di
gioia” 208, troviamo che ciò è a rigore impossibile: l’espressione gioiosa sottrae la tristezza a
ciò che pensiamo, e tanto più quanto più liberiamo l’espressione senza remore. Se siamo
buoni attori possiamo comporre un’espressione che, per un altro, può essere presa per
espressione autentica di gioia, e contemporaneamente tener fermo un oggetto di pensiero
triste, tuttavia la tristezza qui riprodotta non è più una tristezza profonda e coinvolgente, ma
forse piuttosto una sorta di ironica malinconia, o amarezza di fondo.
Qui sembra che ci si trovi alle soglie del comportamentismo: non stiamo forse
osservando come il comportamento di un significato sia propriamente l’essenza del
significato? Non stiamo dicendo che l’«interno» è l’«esterno»?

“Prendi i diversi fenomeni psicologici: Pensare, Dolore, Collera, Gioia, Desiderio, Paura,
Intenzione, Ricordo, ecc., e confronta il comportamento che corrisponde a ciascuno. - Ma cosa
appartiene qui al comportamento? Solo il gioco dell’espressione visiva ed i gesti? oppure anche
l’intorno, per così dire il motivo di questa espressione? E se si include anche l’intorno - com’è allora
da confrontare il comportamento nella collera e nel ricordo, per esempio?” 209

Tutte queste osservazioni sono ad un tempo osservazioni sull’essenza delle emozioni e


sulla loro grammatica: il significato della tristezza, della gioia, ecc. incorpora un
comportamento, sulla cui base, osservata e vissuta, abbiamo appreso l’uso dei termini in
questione. Tuttavia non è come se i termini linguistici si sovrapponessero a comportamenti
bell’e pronti, non è come se ci fosse già sempre il comportamento della collera o della gioia
cui poi venisse assegnata un’etichetta verbale, ma quei comportamenti stessi diventano
qualcosa di specifico nel momento in cui diventano comportamenti anche linguistici:
“Un bambino si è ferito, grida; ed ora gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e più
tardi proposizioni. Essi gli insegnano un nuovo comportamento del dolore. - «Allora tu dici che la
parola >dolore< in realtà significa il gridare?» - Al contrario; l’espressione verbale del dolore
sostituisce il grido e non lo descrive.” 210

Questa sostituzione è appunto un nuovo comportamento, ed un nuovo significato.


Anche per il dolore, che, come abbiamo visto, non è pienamente un’emozione, giacché il
legame con la sensazione oggettiva si presenta come un vincolo cogente, anche in questo

208
FP1, § 801.
209
FP1, § 129.
95

caso, con l’assunzione in un comportamento linguistico, il comportamento reattivo muta di


senso: dolori obiettivamente indistinguibili possono suscitare sofferenze (emozioni) molto
differenti, in dipendenza dalle ragioni di un dolore, e dal suo legame con conseguenze temute
o meno: lo «stesso dolore» (o forse meglio, lo stesso stimolo doloroso) come conseguenza di
una tortura o di un trattamento medico, suscita reazioni comportamentali differenti, e dunque
diversa sofferenza. La certezza del quadro della giustificazione, rispetto ad un sapere
superficiale, conferisce maggior peso al dolore «assurdo» o semplicemente inatteso rispetto
ad un dolore noto e giustificato (dal dentista come consuetudine, rispetto alla prima volta).
Negli altri casi di emozioni, fino alla speranza (o al ricordo nostalgico) che stanno, per così
dire all’estremo opposto del dolore, con un livello minimo di comportamento corporeo
reattivo all’oggetto ed un massimo di motivazione mediata, la collocazione del
comportamento reattivo in un gioco linguistico è ancor più chiaramente decisiva per la
determinazione del significato del moto dell’animo e del sentimento che lo caratterizza. Nei
casi limite del ricordo nostalgico (non dunque della semplice rammemorazione di un fatto), e
della speranza (contrapposta all’aspettativa), il comportamento reattivo è, per così dire, del
tutto introiettato, completamente sospeso nell’inattualità, e ciò è possibile solo in una
concatenazione di ragioni riflesse, in cui il comportamento linguistico è elemento
fondamentale. Qui l’attualità del comportamento è tutta linguistica, ed il sentimento che
accompagna il comportamento non è in alcun modo riconoscibile in assenza dell’articolazione
verbale.
È interessante qui notare come cambia, in una luce grammaticale, la problematica
classica dei «segni naturali», di segni che si suppongono essere immediatamente compresi nel
loro significato. Una formulazione tradizionale della domanda suona: le espressioni gestuali
delle membra e del volto sono segni che vengono intesi immediatamente, su base innata,
oppure bisogna apprenderne il significato? In un’ottica wittgensteiniana la questione
essenziale diventa semplicemente: qual è il significato di quei segni? Non, cioè: come si
connette un’espressione al suo significato; ma: come sappiamo cosa significa quel
significato?
Ora, cosa sarebbe, supponiamo, una collera perennemente inespressa, sempre priva di
espressioni della collera? Dovremmo forse rispondere che, per chi la prova, è sempre lo stesso
significato, ma, semplicemente, non è più riconoscibile all’esterno? È concepibile che io sia in
collera furibonda, mentre sorrido rilassato? Posso provare una gioia serena mentre fracasso
urlando i mobili della mia stanza? Al significato di collera, gioia, dolore, ecc. appartiene

210
RF, § 244.
96

essenzialmente un comportamento caratteristico: le espressioni non sono rimandi al


contenuto, ma sono il contenuto in presenza immediata, perciò non si tratta, in generale, di
scoprire come è stato agganciato un segno al suo significato (se innatamente, o per
apprendimento), ma di vedere quali limiti dei fenomeni espressivi sono stati tracciati
nell’apprendere la grammatica di un concetto del genere. In altri termini la descrizione
interessante non è quella del comportamento della collera isolatamente preso, né tantomeno
quella dei sentimenti vissuti in prima persona, ma la descrizione dell’intero gioco linguistico
che determina l’essenza della collera. Se il significato della collera fosse senz’altro il
comportamento esterno che diciamo collerico, allora io non potrei mai usare l’espressione in
prima persona «sono in collera» se non come descrizione della mia immagine (in un filmato o
allo specchio). Se il significato della collera fosse il sentimento vissuto in prima persona,
allora non potrei mai identificare la collera altrui. Ma ciò che va compreso è che non esiste la
collera in sé prima del gioco linguistico in cui viene definita. Non ha nessun senso dire
originariamente che «vedo diversamente la mia collera e quella altrui», giacché l’insieme di
manifestazioni di fronte a cui mi trovo non sono ancora segni del significato «collera», ma
esso deve appena venir determinato a partire dalle manifestazioni. Ma allora devo forse dire
che, semplicemente, vedo manifestazioni disomogenee? Che la mia emozione è
fenomenicamente dissimile dalla sua? Cosa vuol dire questo? Forse che le mie smorfie le
sento muscolarmente, mentre le sue le vedo? Ma, sono proprio sempre le stesse sensazioni
quelle che provengono dalla mia faccia, in occasioni successive? Oppure: è sempre la stessa
smorfia quella che vedo su facce diverse, di fronte e di profilo, ecc.? L’unica risposta sensata
sta nel rifiutare l’idea di una somiglianza ed omogeneità cogenti nei fenomeni: il significato
non è ciò che è comune a vari fenomeni oggetto di considerazione, non è la somiglianza tra
sensazioni a circoscrivere e definire un significato. Il significato della collera, il suo senso
all’interno della nostra esistenza, è dato sì da un insieme di espressioni, ma non da un blocco
di espressioni «simili»: possiamo trovare «somiglianze di famiglia» tra il mio tono di voce
irato ed il suo, ma non è questo che pone come uniti dal significato di «collera» i vissuti della
prima e della terza persona. «Somiglianza» tra sensazioni, «associazioni spontanee» tra esse,
non sono affatto da negare, o da ritenere irrilevanti, ma non sono i fattori determinanti di un
significato. Dunque l’insieme «sensibilmente eterogeneo» delle manifestazioni di collera
viene reso omogeneo dall’essere quelle tutte manifestazioni di collera, e la collera è
immediatamente e necessariamente tutte e ciascuna di quelle manifestazioni 211.

211
Una critica che eviti queste conseguenze dovrebbe risalire, con coerenza, fino ad una critica della concezione
del significato come uso. Un tentativo di questo genere è quello di Birnbacher, tramite quelli che lui chiama
97

Quando noi notiamo, ad esempio seguendo W. James, che non possiamo concepire
propriamente la tristezza profonda con una faccia raggiante, o che facendo una faccia
rispettivamente gioiosa o disperata posso avvertire il significato della gioia o della
disperazione, questa osservazione ha più il carattere di un pleonasmo 212 (di una tautologia
materiale) che quella di una scoperta psicologica. Infatti in entrambi i casi ciò che stiamo
cercando di fare è innanzitutto di rappresentarci un’emozione, ma tale emozione per essere
rappresentata deve essere parzialmente «recitata»:
“(…) mi immagino di essere triste, e quindi, in quello stesso momento, cerco di vedermi e
sentirmi, nell’immaginazione (Vorstellung), esultante. A questo scopo traggo un profondo respiro e
imito un volto raggiante. Adesso non posso certo farmi una chiara rappresentazione della tristezza:
perché rappresentarmela vorrebbe dire recitarla. (…) La persona addolorata non può indubbiamente
ridere e gioire in modo persuasivo, e se lo potesse, ciò che chiamiamo espressione della tristezza non
sarebbe allora l’espressione della tristezza, così come il gioire non lo sarebbe dell’emozione
opposta.” 213

Ovvero, la tristezza pienamente intesa è quel concetto psicologico che include


costitutivamente il comportamento-della-tristezza, dunque rappresentarsi la tristezza mimando
contemporaneamente la gioia toglie all’afferramento del concetto di tristezza una sua parte
costitutiva, rendendo tale rappresentazione impropria o distorta. Io posso ben concepire in un
caso del genere una tristezza profonda celata sotto un sorriso e ciò però darà spazio ad
un’espressione precipua di gioia superficiale, forzata, ironica, o dimidiata. Allo stesso modo
recitare la tristezza mi mette in contatto col significato della tristezza in un modo più
profondo del semplice uso-immagine della parola «tristezza», ma ciò non equivale ancora a
pormi in uno stato d’animo triste: per ciò mancano le ragioni della tristezza. Il comportamento
proprio di una certa emozione è parte essenziale dell’emozione reale, non è semplicemente il
suo guscio, la sua apparenza priva della sostanza: noi descriviamo direttamente un volto o un
atteggiamento come triste, allegro, annoiato, ecc., senza inferire dai tratti del volto
metricamente determinati quale sentimento deve albergare nell’animo altrui 214. Ma questo
non vuol dire che l’essenza primordiale dell’emozione è allora il suo comportamento,
esternamente identificato, o internamente avvertito come sensazioni che accompagnano quel
comportamento. Il comportamento e le sensazioni che vi ineriscono caratteristicamente sono
quelle che sono in quanto appartengono all’unità comportamentale, linguistica e
circostanziale che quell’emozione è definita essere. Questo, beninteso, non significa neppure

«criteri di evidenza». Confronta Birnbacher D., Die Logik der Kriterien, Felix Meiner Verlag, Hamburg, p. 82
sgg..
212
FP1, § 451.
213
FP2, § 321. Cfr., FP3, § 24.
214
FP2, § 570.
98

che il linguaggio o la definizione convenzionale degli uomini hanno creato arbitrariamente


quella unità emozionale, perché l’intero terreno di ragioni, circostanze, reattività
comportamentali ed abiti in cui quell’unità semantica è definita predeterminano le sue
possibilità, anche se non determinano esattamente i limiti del concetto. Potrebbe accadere che
invece di considerare tristezza e gioia come concetti principali, descrivendo concetti intermedi
nei termini di quei due («una gioia velata da una antica tristezza», una «tristezza rasserenata
da una connaturata gioiosità», ecc.), potremmo avere altre partizioni comportamentali in
primo piano e potremmo descrivere gioia e tristezza come casi limite.
Il ruolo essenziale della partizione linguistica nella costituzione del concetto spiega
anche quanto abbiamo già avuto modo di osservare in precedenza circa le dissimmetrie nei
criteri che identificano certi concetti psicologici in prima o in terza persona. I criteri per
identificare la paura o la rabbia non possono essere esattamente i medesimi sia che si tratti di
paura esperita presentemente in prima persona o osservata nelle espressioni comportamentali
altrui, e questo non perché «soltanto l’intuizione interna testimonierebbe dell’autenticità
dell’emozione», ma semplicemente perché i fenomeni disponibili da riconoscere come
afferenti alla paura o alla rabbia sono, almeno in parte, diversi a seconda della prospettiva. Il
fatto che in un caso io abbia a disposizione dei tratti del volto e dei movimenti corporei,
nell’altro delle sensazioni di agitazione non toglie che io possa identificare una certa
emozione come la stessa; e questo proprio perché l’unità del concetto è sorretta da un
intreccio di condizioni «esterne» ed «interne», intreccio che identifico a partire da angolature
diverse, ma non senza richiedere per una determinazione inequivoca l’intero delle condizioni.
Un lato della questione dell’identificazione di concetti psicologici in prima ed in terza persona
che Wittgenstein non tratta, ma che potrebbe portare certamente qualche lume ulteriore è
quello legato all’annosa questione dei processi di imitazione: che io imiti una faccia altrui
spaventata o rabbiosa senza aver bisogno di uno specchio su cui confrontare la variazione dei
miei lineamenti e di quelli altrui è un fenomeno tanto caratteristico quanto complesso. Senza
poterci qui soffermare oltremodo sulla questione vogliamo notare che l’imitazione si struttura
chiaramente in modo diverso dalla comparazione visiva: il fatto che io imiti la sua espressione
non significa affatto che io sappia come essa appare. Di fronte ad un filmato che mi mostrasse
la mia faccia durante quell’imitazione io potrei esserne sorpreso almeno quanto sono sorpreso
dal suono della mia stessa voce quando la sento in una registrazione. Tuttavia l’imitazione
avviene, tanto per l’espressione del volto che per quella vocale, riproducendo non l’effetto
sensibile vero e proprio (che normalmente non siamo in grado di osservare) ma piuttosto i
rapporti tra certe parti (lineamenti o andamenti vocali) la cui corrispondenza con quelli altrui
99

ci è nota. Così, possiamo imitare l’aggrottare delle sopracciglia e l’inarcamento delle labbra di
un’espressione corrucciata in quanto sappiamo cosa sono nel viso altrui le sopracciglia e le
labbra, ed in quanto sappiamo muovere le nostre di sopracciglia e labbra, mentre ci può
sfuggire del tutto un suo particolare corrugamento attorno al naso che non dominiamo
motoriamente in noi stessi: ciò può rendere le nostre espressioni sensibilmente diverse, anche
quando rimanga chiaro che l’una è l’imitazione dell’altra. In generale l’aver appreso
corrispondenze tra tratti del volto, posizioni corporee, gesti, ecc. miei ed altrui consente di
costruire correlazioni imitative che a loro volta possono costituire un ponte naturale nel
passaggio dal riconoscimento di un comportamento emozionale in prima persona a quello in
terza. Queste capacità possono entrare come interi nella complessa stratificazione di
operazioni di cui sono costituiti i concetti in generale e quelli psicologici in particolare.
Tutta questa discussione si connette alla questione generale del rapporto tra il
«sentimento» associato all’uso-immagine delle parole ed il loro significato:
“Non proviamo mai il sentimento del se quando non pronunciamo la parola «se»? In ogni
caso, è degno di nota se questa è l’unica causa che produce tale sentimento. E lo stesso vale, in
generale, per l’«atmosfera» di una parola: - perché si considera così ovvio che solo questa parola abbia
quest’atmosfera? (...) - Il sentimento del se non è un sentimento che accompagna la parola «se». Il
sentimento del se dovrebbe essere paragonato al particolare «sentimento» che una frase musicale fa
nascere in noi. (...) Ma non si può scindere questo sentimento dalla frase? E tuttavia esso non è la frase
stessa; infatti uno può udire la frase senza provare questo sentimento.” 215

Il sentimento del «se», come l’atmosfera di ogni parola, di ogni parte del discorso, di
ogni pensiero, più o meno complesso, appartiene al linguaggio, non diversamente da come il
sentimento per la frase musicale appartiene a quella frase: non ha alcun senso dire che provo i
sentimenti relativi rispettivamente alla sorte di Re Lear, all’espressione «Addio!», o alla nona
di Beethoven, ma che li provo isolatamente, senza sapere di che cosa sono i sentimenti, e che
quindi potrei confonderli l’uno con l’altro. La separabilità del sentimento dal fatto in cui
l’emozione si radica sta nel poter limitare, volontariamente o involontariamente, e anche
negare del tutto il mio comportamento reattivo, e dunque il mio sentire, di fronte a quel fatto,
a quel segno. Ciò che, all’opposto, non è a disposizione del mio arbitrio è l’attribuzione di un
nuovo significato, di reazioni e sentimenti differenti, di fronte a quei segni. Questa
impossibilità è legata alla logica del linguaggio: poter attribuire arbitrariamente un nuovo
significato significherebbe sospendere con l’aiuto di significati sedimentati ogni
sedimentazione, rimuovere con ragioni la condizione di possibilità del fornire ragioni.
Qualcosa del genere può approdare tutt’al più ad un’uscita dal piano delle ragioni per entrare
in quello delle cause: posso costruire usi linguistici artificiali ed allenarmici, posso togliermi
100

dalla possibilità di poggiare su ragioni sedimentate togliendomi la coscienza, stordendomi,


sucidandomi. Come avevamo osservato discutendo dell’intenzione, si intende qualcosa in un
certo senso o in un altro soltanto in quanto c’è un terreno di significazione
intersoggettivamente condiviso e funzionante: nel momento in cui ci affacciamo alla soglia
del funzionamento dei segni, come esseri coscienti che hanno intenzioni e danno
interpretazioni, l’orizzonte del significato ci è già dato.
In riferimento al linguaggio possiamo apprezzare al meglio il ruolo funzionale, e non
sostanziale, di sensazioni e sentimenti in quanto intesi come «datità causante» immanente ad
un processo di significazione. Una parola può essere usata, e mentre è usata è parte di un
comportamento, è un gesto che non compare come oggetto; essa origina da un non-luogo per
definizione «interiore» senza che noi possiamo sottoporre a controllo ciò che ne emerge prima
che sia emerso: tale luogo può facilmente essere considerato un «sentimento». Una parola può
però anche essere percepita come una sensazione visiva, auditiva, magari tattile (Braille), che
suscita il suo significato. (La distinzione tra corpo sensibile della parola e suo significato si
mostra con evidenza in casi come quelli del cambiamento d’aspetto di una parola; se notiamo
come il «se» di «se... allora» diviene in un contesto ambiguo il «se» di «se stesso» ci
rendiamo conto chiaramente della disgiunzione tra parola e significato avvertito.) Talvolta
siamo inclini a vedere nel sentimento della parola il nocciolo del significato, talaltra nel
sentimento della parola. Quando uso la parola sono incline a considerare come primario il
«sentimento», l’atmosfera, cioè la base immediata da cui emerge il mio uso verbale; quando
invece percepisco la parola sono incline a considerare essenziale il corpo sensibile della
parola, che è ancora una volta la base immediata da cui il significato si sviluppa. In generale,
dunque, per ogni significato, la funzione di origine immediata è quella che sembra
rappresentare l’orizzonte primario della significazione, la radice di ogni giustificazione, e
quindi assume il ruolo di fondamento: quando dobbiamo dare ragioni, ad un certo punto viene
il momento in cui non diamo più giustificazioni, ma ci appelliamo al «sentire»: sentiamo che
qualcosa è giusto o ingiusto, giustifichiamo un’azione dicendo che in definitiva
semplicemente ci piace, ecc.. Questo appello al momento immediato è ineccepibile, purché
non dia adito all’impressione che l’immediatezza vada intesa come una causa prima, un
motore immobile della significazione (come nella tradizione sono stati di volta in volta i
pensieri o le sensazioni). Sensazioni, sentimenti, emozioni, disposizioni, pensieri sono tutti
lati del processo significativo, concatenati e correlati funzionalmente in modo tale da poter

215
RF, p. 240-1.
101

essere rappresentati solo come elementi del gioco in cui sono intrecciati, solo come
articolazioni di un gioco linguistico.
Possiamo sintetizzare in conclusione queste considerazioni sulle emozioni rifacendoci
a note riassuntive di Wittgenstein stesso:
“Le «emozioni» sono «vissuti» ma non sono «esperienze». (…) E si potrebbero distinguere
«emozioni dirette-a» ed «emozioni senza direzione». L’emozione ha una durata; non ha alcuna
localizzazione; ha esperienze e pensieri caratteristici; ha una sua caratteristica espressione mimica.” 216

“Emozioni. In comune hanno una durata autentica, un decorso. (La collera divampa, si placa,
sparisce; così fanno anche la gioia, la depressione, la paura). Differenza dalle sensazioni: non sono
localizzate (e nemmeno diffuse!). Tratto comune: hanno un’espressione comportamentale
caratteristica. (Espressioni del volto). E questo di per sé comporta: anche sensazioni caratteristiche.
Così la tristezza spesso si accompagna al pianto, e alle sue sensazioni caratteristiche. (La voce roca per
il pianto). Ma queste sensazioni non sono le emozioni. (Nello stesso senso in cui la cifra 2 non è il
numero 2). (…) Il contenuto di un’emozione – ce lo si rappresenta sempre come un’immagine, o
qualcosa di cui ci si può fare un’immagine. (Le tenebre della depressione, che calano su una persona,
le fiamme dell’ira). Si potrebbe chiamare anche il volto umano un’immagine di questo tipo e
rappresentare il decorso della passione mediante i suoi mutamenti. A differenza delle sensazioni: non
ci istruiscono sul mondo esterno. (Osservazione grammaticale). Amore ed odio si potrebbero chiamare
disposizioni dell’animo; anche la paura, in un senso ben determinato.” 217

Nei termini che Wittgenstein provvisoriamente utilizza nelle Osservazioni sulla


filosofia della psicologia le emozioni sono vissuti (Erlebnisse), ma non sono esperienze
(Erfahrungen); cioè sono qualcosa che esperiamo e non qualcosa che creiamo secondo la
nostra volontà, tuttavia sono qualcosa che esperiamo senza che tale esperienza ci istruisca
sulla realtà esterna. Le emozioni crescono dalla realtà esterna come le sensazioni, ma mentre
per le sensazioni la loro origine è una causa della sensazione, per le emozioni è una ragione,
un motivo. Tutte queste sono ovviamente osservazioni grammaticali, non dati empirici: è
parte della determinazione grammaticale della sensazione di informarci sulla realtà, e se un
vissuto è giudicato non informarci più sulla realtà noi non lo chiameremmo più sensazione,
ma magari allucinazione, interpretazione, emozione o quant’altro. La natura delle
«classificazioni» grammaticali non impedisce poi di descrivere concetti che non rientrano
compiutamente in uno o nell’altro degli ordini concettuali principali: il caso del dolore illustra
precisamente questa possibilità della descrizione di un concetto intermedio, qui tra sensazione
ed emozione. L’ultima frase della seconda citazione ci indica infine la posizione concettuale
dell’ordine emozionale, collocato tra il livello di costituzione dell’esterno (sensazioni) e
quello della costituzione dell’interno (disposizioni). Si danno condizioni emozionali in cui la
dipendenza da una ragione particolare è allentata fino quasi a scomparire e ciò si ripercuote

216
FP1, § 836.
217
FP2, § 148.
102

sul fattore «durata» proprio delle emozioni: amore, odio, talvolta la paura, soprattutto la
speranza sono condizioni che pur avendo un oggetto, pur avendo ragioni particolari, possono
tradursi in attitudini costitutive, indipendenti dalla sussistenza del loro oggetto. Ciò fa perdere
a tali condizioni emozionali la qualità di avere una durata reale, un decorso, e le avvicina alla
natura delle disposizioni come credere o sapere.
Cerchiamo ora di chiudere il cerchio concettuale avviato con l’analisi della
comprensione e del sapere riapprossimandoci al livello delle disposizioni dal lato delle
emozioni.

Dalle emozioni alle disposizioni: speranza ed aspettativa

“Diciamo «L’aspetto», quando crediamo che verrà, ma la sua venuta non ci tiene occupati.
(Qui «L’aspetto» vuol dire: «Sarei stupito se non venisse» - e nessuno direbbe che questa è la
descrizione di uno stato d’animo.) Ma diciamo anche «L’aspetto», quando questo vuol dire: L’aspetto
con ansia. Potremmo immaginare un linguaggio che, in questi casi, utilizzi in modo coerente verbi
differenti.” 218

Un’attesa, in entrambi i sensi, è condizionata da una situazione che rende probabile un


determinato evento 219: attendo l’esplosione della bomba, mentre guardo la miccia consumarsi;
attendo con ansia l’arrivo di una persona cara, con cui ho un appuntamento. La probabilità
dell’evento è stabilita dalla storia contestuale precedente e dal mio sapere intorno a quel
genere di evento. Ciò che differenzia l’aspettativa neutrale dalla speranza è ciò che in prima
battuta chiameremmo il «tipo di sentimento». Tuttavia, come già in precedenza,
quest’espressione è piuttosto traviante. Si vorrebbe dire che nella speranza ci si protende
verso l’evento, e non ci si limita a prepararsi al suo accadere, dunque che lo sperare è una
particolare colorazione dell’aspettare, una sua specificazione. Ma, usando la metafora, che
Wittgenstein spesso adopera, della «colorazione», vogliamo forse dire che l’aspettativa era
incolore? Che non era affettivamente determinata, che era priva di una sua «propria
atmosfera»? L’idea della colorazione sembra voler esprimere proprio senz’altro quella della
specificazione, cioè di una determinazione superiore all’interno di un campo già determinato:
l’aspettativa può essere tanto distaccata che coinvolgente, così come la speranza. (Se dico
«Spero faccia bel tempo, la prossima volta che andremo in vacanza», lo spero davvero, ma
indefinitamente, senza coinvolgimento). Non di una colorazione più intensa si tratta, ma di
una colorazione più specifica: posso aspettarmi qualcosa che temo, così come qualcosa che

218
RF, § 577.
219
RF, § 581.
103

spero, oppure che mi è indifferente e che semplicemente credo accadrà. Ora, però, se anche
l’aspettativa può essere vista dal punto di vista della speranza, tuttavia sperare non è
semplicemente un caso particolare dell’aspettarsi: nell’aspettativa la protensione soggettiva
non ha alcun necessario riferimento al fatto che lo stato cui ci si protende sia accolto con
favore; l’aspettativa è piuttosto affine ad un sapere, ad una valutazione cognitiva, laddove la
speranza manifesta una considerazione di valore.
Nel caso dell’aspettativa il problema del rapporto tra rappresentazione e realtà si
presenta con estrema urgenza. Cosa accade quando mi aspetto un determinato evento? La
struttura dell’aspettativa (come quella del desiderio o della speranza) consta di una
disposizione recettiva che può venire adempiuta da un evento reale, cioè non dipendente dalla
mia volontà. Come si configura il confronto tra questi due elementi eterogenei?
“Vedo qualcuno che punta il fucile e dico: «Mi aspetto una detonazione». Il colpo parte. –
Che? Era questo che aspettavi? Allora questa detonazione era già in qualche modo presente nella tua
aspettativa? Oppure la tua aspettativa corrisponde all’accaduto solo da un altro punto di vista? Non
potrebbe darsi che quel rumore non fosse contenuto nella tua aspettativa, e sia sopravvenuto soltanto
per un accidente, allorché l’aspettativa fu adempiuta? (...) «La detonazione non fu così forte come me
l’ero aspettata». - «Dunque, nella tua aspettativa, la detonazione è stata più forte?» ”. 220

L’esempio e la sua problematizzazione sono particolarmente efficaci, e ci permettono


di vedere con chiarezza la natura della rappresentazione e del suo rapporto con la realtà. Nel
caso di uno sparo difficilmente cadremmo nella tentazione di concepire la rappresentazione
che governa l’aspettativa come un’immagine obiettiva, come un oggetto mentale da
confrontare con l’oggetto percepito. E tuttavia una sorta di rappresentazione dell’evento deve
ben essere disponibile, dato che possiamo giudicare se l’evento reale è risultato diverso
rispetto alle aspettative. Ma, cosa facciamo in pratica quando ci aspettiamo un botto?
Generalmente ci tappiamo le orecchie, e se ciò non è possibile o opportuno, contraiamo i
muscoli, soprattutto quelli intorno al collo e alle mascelle, e ciò fa sì che il rumore ci scuota di
meno, riecheggi di meno nel nostro intero corpo e nelle nostre orecchie in particolare. Questa
contrazione muscolare è tanto più intensa quanto più la violenza del rumore è temuta, e
possiamo dire di esserci aspettati un rumore più violento di quello effettivo nel momento in
cui la contrazione sarebbe stata sufficiente ad attutire anche un rumore maggiore, cioè la
percezione reale giunge più soffocata di quanto comunque sappiamo sarebbe stato tollerabile.
Se concepiamo la rappresentazione in generale in modo analogo a questa contrazione
preparatoria vediamo che il problema classico del confronto tra le nature eterogenee di
un’immagine mentale ed una percezione attuale, viene senz’altro meno: ciò che il linguaggio
104

richiama è non un oggetto del mondo, ma una reazione comportamentale, che in quanto
evocabile volontariamente diviene una sorta di azione, anche se non ulteriormente
analizzabile. In quest’ottica, dell’aspettativa sono parti essenziali: 1) un sapere sedimentato,
od una certezza immediata, relativi ad un tipo di esperienza; 2) la possibilità di attivare questo
sapere in assenza dell’esperienza stessa; e 3) indicazioni presenti che suggeriscono un
ripresentarsi di essa. L’indice oggettivo che caratterizza l’aspettativa nel suo essere
«aspettativa di...» è data dal terzo fattore, cioè dalla storia immediatamente precedente che dà
motivo di attendersi qualcosa: sulla scorta di ciò che so, o credo, intendo una sequenza di fatti
come un’unità che sfocia in... In certo modo l’aspettativa mediata è la forma del sapere
nell’ordinamento degli eventi futuri, dove di un sapere in senso proprio non si può parlare: la
tematizzazione mediata dell’atteso è compito del secondo momento, dell’attivazione di un
vissuto. Nell’esempio formulato da Wittgenstein egli dice: «Mi attendo un colpo», e così
facendo attiva il vissuto del colpo esplicitando l’aspettativa. Ma è necessario il linguaggio
all’aspettativa? Non all’aspettativa in generale: se vedo la miccia bruciare non ho bisogno di
dirmi nulla per rappresentarmi lo scoppio, ma me lo aspetto senz’altro, perché ciò appartiene
ad uno strato di credenza immediata. Se però aspetto l’arrivo di un amico, posso farlo in
assenza di linguaggio? “Un cane può attendere il suo padrone, ma può aspettare che il suo
padrone arrivi dopodomani?” 221 Se può farlo, non so come farei a saperlo, perché se io aspetto
la visita di un amico dopodomani, io, in un qualche momento, ed in una qualche forma, me lo
sono detto, mentre al cane non riconosco la possibilità di dirsi qualcosa, perché non l’ho mai
sentito dire nulla. L’aspettativa immediata vede nel presente il germe del futuro, in modo tale
che tale futuro non è davvero altro dal presente, è incipiente in esso: se vedo un bicchiere che
inizia a cadere, la caduta del bicchiere è già tutta presente, anche se poi magari qualcuno lo
afferra al volo, mentre, se sul calendario è segnato un appuntamento, questo segno non
diviene aspettativa senza una mia partecipazione attiva, senza che la rappresentazione
dell’evento intervenga nel dialogo muto dell’anima con se stessa: “Nel linguaggio si toccano
aspettativa ed adempimento.” 222
Questo duplice livello, immediato e mediato, è presente nell’aspettativa, ma non nella
speranza: posso aspettarmi immediatamente che un grave lasciato a se stesso si muova verso
il basso, posso sperare che qualcuno lo lasci cadere, ma una volta lasciato, non posso
«sperare» che cada. L’aspettativa immediata è, come detto, un credere immediato, un esser

220
RF, § 442 (preferiamo rendere Erwartung con «aspettativa» piuttosto che con il termine, che compare nella
traduzione italiana, di «aspettazione».
221
FP3, § 360.
222
RF, § 445.
105

certo, e dunque qualcosa di indipendente dall’identità del soggetto, mentre nello sperare,
come nell’aspettativa mediata, il soggetto, in quanto luogo del sapere, interviene nella
rappresentazione; per così dire: sperando non posso spingere nell’immaginazione il bicchiere
verso il basso, perché esso si muove già alla massima velocità cui le mie aspettative lo
possono muovere. Si sperano cose di cui non si è certi, ma del contenuto di un’aspettativa
immediata si è certi. Sapere e certezza, che non si predicano del futuro, sono espressi per il
futuro rispettivamente nell’aspettativa mediata ed immediata.
Una soglia interessante è quella tra sperare e desiderare. L’uso dei due verbi è
ampiamente comune: «Vorrei ricevere un regalo» equivale a «Spero di ricevere un regalo»; se
tuttavia dico: «Desidero cenare», questo non equivale a «Spero di cenare», e questo perché
sperare è completamente disgiunto dal volere, mentre desiderare ne è la forma condizionale.
Se desidero cenare questo significa che, se potessi, farei in modo di cenare; nello sperare
invece non c’è alcun cenno alla mia azione: ciò che spero è un evento di principio, e non solo
di fatto, indipendente dalla mia volontà. Similmente aver l’intenzione si differenzia dallo
sperare in quanto si ha l’intenzione di fare qualcosa, o di fare in modo che qualcosa accada,
ma non si può aver l’intenzione che qualcosa accada, lo si può però sperare.
Nel caso della speranza si presenta con forza la tentazione di considerare la speranza
un sentimento, ma come osservato in precedenza nessuna emozione (ed in generale nessun
concetto) può essere ridotta al sentimento che pure le è caratteristico: “Se (...) si dice: «Io
spero che egli verrà» - è il sentimento a dare alla parola «sperare» il suo significato? (E com’è
con la proposizione «Non spero più che egli venga»?).” 223 Il sentimento sembra conferire
significato, perché è un contrassegno di autenticità: se si spera con sentimento, si vorrebbe
dire, si spera davvero, e non si finge di sperare. Nel caso della proposizione negativa, in cui si
dice di non sperare più, sembra che non ci sia la possibilità di questa identificazione attraverso
il sentimento; certo, in taluni casi è concepibile che la frase indichi in realtà la speranza
delusa, e non l’assenza di speranza, ma se dico: «Quand’ero bambino speravo sempre...», qui
posso effettivamente usare il verbo in modo sensato ed autentico, anche se attualmente non
c’è più traccia di quel sentimento. Nell’uso del verbo alla prima persona presente il verbo
«sperare» può avere anche la funzione di una sorta di esclamazione: “Spero che venga!” (o
anche “Speriamo che venga!”, che funge comunque da prima persona singolare). In tale uso
sembra preponderante la funzione di esternazione di uno stato d’animo, piuttosto che quella di
comunicazione. Nel caso della speranza il confine tra funzione esclamativa e comunicativa è
particolarmente difficile da scorgere, perché non c’è un comportamento caratteristico della
106

speranza: si può recitare, senza parole, il volere ed il desiderio (anche se con difficoltà la loro
differenza), ma non la speranza 224, giacché nessuna azione del soggetto le è caratteristica. Non
ci sono dunque veri e propri criteri esterni per identificare la speranza, a prescindere dal
linguaggio. Una speranza immediata non ha tratti diversi da un desiderio o un’aspettativa
immediata: un cane, diciamo, spera che gli venga gettato del cibo, se dà i segni del desiderio
ma non si prende il cibo da sé, bensì attende. Tuttavia, nel senso immediato, cioè in presenza
dell’oggetto e senza intervento linguistico, non è possibile distinguere «desiderare» da
«sperare»: nulla nel comportamento esterno li distingue.
La speranza è nominata da Wittgenstein tra le emozioni (Gemütsbewegungen) 225,
tuttavia essa manca di una caratteristica espressione mimica ed è invece legata a doppio filo
con il livello rappresentativo, come il desiderio. La speranza e il desiderio hanno una
collocazione particolare, in quanto si presentano come i concetti psicologici orientati
teleologicamente, con la maggiore portata: se un soggetto c’è, esso deve poter sperare e
desiderare sempre, anche quando non è in grado di volere: nel caso capiti che io sia
completamente paralizzato non posso propriamente volere, ma posso sempre sperare che
qualcosa accada. Il fatto che una paralisi così ipotizzata, l’impossibilità di agire, sia da
considerare come accidentale, momentanea, e non coinvolgente l’intera vita di una persona è
un dettaglio essenziale: di una pietra non possiamo dire che vuole, perché non agisce ne ha
mai agito, non mostra di poter fare, e perciò la sua staticità non è immobilità e dunque non vi
è spazio per il rilevamento di una soggettività. La persona che fosse nella medesima
condizione di impossibilità totale di agire da sempre non potrebbe neppure apprendere a
volere un’azione (neppure un atto percettivo) e dunque non potrebbe neppure sperare che
qualcosa di determinato accada: in questo caso non potremmo parlare di soggettività. Sperare
è il livello minimo di soggettività teleologica, sempre di fatto possibile; il suo unico
presupposto è il sapere: posso sperare anche contro ogni empirica possibilità di volere,
dunque anche là dove non c’è più uno spazio per il desiderio. La speranza è un momento
psicologico connesso all’emozione, cioè ad un’origine e ragione esterna, laddove il desiderio
e la volontà determinano l’origine del relativo oggetto come interna. Si sperano accadimenti,
si vogliono azioni. Lo spazio per lo sperare è quello racchiuso tra il sapere, come limite
estremo, e l’agire come limite interno al sapere: posso sperare solo se so cosa sperare, non
spero nel momento in cui voglio (agisco), e non posso sperare ciò di cui sono certo. Questa
portata del concetto di speranza rende insensate espressioni come “Oggi ha sperato per la

223
RF, § 545.
224
RF, p.511.
107

prima volta” 226, e questo in quanto l’orizzonte della speranza è coestensivo con quello della
vita cosciente: di fatto finché c’è vita (cosciente) c’è speranza, magari quella speranza
indeterminata che siamo talvolta inclini a chiamare «curiosità verso il domani». Per sapere
quando si comincia a sperare bisognerebbe poter determinare quando si comincia a pensare, il
che ovviamente non è temporalmente determinabile, giacché per saperlo dobbiamo già poter
pensare.

*
* *

Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di mostrare come l’analisi wittgensteiniana


della concettualità psicologica faccia riferimento ad alcune direttrici principali; tali direttrici
vengono rilevate ed esposte «fenomenologicamente» e non sovraimposte come una teoria
della soggettività, come una «psico-logia». I concetti psicologici esaminati si sgranano in un
modo che sembra seguire le «teorie del senso comune» intorno alla mente, salvo però
mostrarci che i cardini di queste «teorie» sono diversi nella sostanza da ciò che il loro uso-
immagine farebbe pensare. L’opposizione tra interno ed esterno, tra mente e realtà, che guida
i nostri saperi psicologici quotidiani è fuorviante nelle connessioni e conclusioni che sembra
suggerire: l’analisi grammaticale dei concetti psicologici ci ha mostrato che l’alterità della
realtà (la «cosa-in-sé») è costruita nel linguaggio delle sensazioni come ciò che esse ci
insegnano e che tale alterità è conosciuta in forma di comportamenti reattivi. La soglia tra
mente e realtà sembra configurarsi piuttosto come la soglia tra il momento attivo e quello
passivo, nel senso di re-attivo, del comportamento. Ma la nozione sintetica di
«comportamento», che consente di gettare un ponte tra la «cosa-in-sé» ed il soggetto, è essa
stessa composita e problematica. Seguendo la scansione concettuale dettata dalla nozione di
gioco linguistico la nozione di comportamento si articola in vari momenti, il cui ruolo
specifico nella costituzione della soggettività è per il momento poco chiaro. Tenteremo a
seguire di delineare con maggiore precisione lo spazio grammaticale complessivo proprio
della soggettività, della «psiche», con particolare riferimento al ruolo del comportamento
nella sua definizione.

225
FP2, § 154; FP1, § 596.
226
FP2, § 15.
108

L’IO E IL SUO LINGUAGGIO

Nel Tractatus, come abbiamo notato in precedenza, il soggetto scompariva dal mondo
come entità su cui era possibile parlare sensatamente e veniva ridotto a specchio o limite del
mondo fenomenico. L’intera analisi di Wittgenstein, tanto nel primo periodo quanto in
seguito, rifiuta la mossa teorica di postulare un’interiorità spirituale, eterogenea rispetto al
mondo dei fenomeni e della loro espressione: tale postulazione rimuoverebbe il problema
della relazione veritativa, ed invero di ogni relazione tra espressione e realtà, senza fornirvi
alcuna soluzione. D’altro canto parlare di un’omogeneità tra realtà fenomenica, linguaggio e
soggettività non significa «materializzare l’anima» e neppure, come nel Tractatus, concepire
il livello rappresentativo (l’immagine) come un livello fattuale. Le analisi precedenti non
hanno però fornito, almeno non esplicitamente, un approccio chiaramente alternativo sia ad
una materializzazione dell’interiorità, ad esempio in forma comportamentistica, sia ad una sua
spiritualizzazione. La prima di queste opzioni è quella cui è più facile propendere sulla scorta
della discussione wittgensteiniana, in quanto aree psicologiche considerate tipicamente
«private», come quella delle sensazioni, si sono mostrate prive di un significato privato e la
possibilità stessa di costituire un linguaggio privato è stata refutata. Ora, se così stanno le
cose, dobbiamo chiederci: quale spazio è attribuibile nella nostra grammatica alla soggettività
individuale?
Nella discussione sull’idea di «sensazioni private» ed in quella sulle emozioni
abbiamo avuto modo di vedere che: a) le sensazioni sono funzioni di un comportamento, che
vogliamo chiamare «grammaticato», cioè di un comportamento corporeo ed intersoggettivo
fuso in un’unità originale con il comportamento linguistico; b) sensazioni e sentimenti sono
fattori immediati di una funzione mediata, grammaticale, in cui essi hanno il significato che
tale funzione rivela; c) l’invenzione di regole grammaticali presuppone regole già consolidate,
così come il dubbio e l’interpretazione presuppongono la certezza immediata; d) dunque ogni
fattore di individualità irriducibile (sensazioni, sentimenti, regole personali) è funzione di un
comportamento grammaticato già in funzione, o detto altrimenti, l’individualità soggettiva è
funzione del linguaggio intersoggettivo. Tutto ciò ci dovrebbe indirizzare a scorgere
agevolmente lo spazio grammaticale dell’individualità.
109

1. Prima e terza persona dei verbi psicologici


Wittgenstein ci dice ripetutamente che ogni spiegazione di un significato che posso
dare a me la posso dare anche ad un altro 227, e che anch’io ho soltanto i miei segni, così come
li ha l’altro 228, tuttavia va qui rimarcato che l’ordinamento funzionale dei segni è
essenzialmente diverso. Io non identifico le mie sensazioni attraverso criteri 229, ma esse
rappresentano il punto di partenza immediato del gioco linguistico, del «comportamento
grammaticato»; come abbiamo visto, non si inferiscono dalle proprie parole, o dal proprio
tono di voce, le proprie convinzioni o intenzioni, e questo non perché esse si sottraggano di
fatto alle mediazioni grammaticali, al contrario, ma perché la loro funzione è di essere il punto
di partenza di un’azione del soggetto, di un gioco linguistico, e dunque di non essere
raggiungibili mediatamente dal soggetto stesso, finché conservano tale funzione. In ogni
azione mediata vi è necessariamente un lato immediato, giacché la mediazione, che è sempre
anche una «presa di distanza» abbisogna di qualcosa di primariamente accolto da cui
distanziarsi: il dispiegarsi mediato di una regola riposa sul funzionamento immediato di un
comportamento. In questo senso l’ovvietà grammaticale che le sensazioni o le intenzioni
siano private non parla a favore di un senso e significato privato di esse, bensì di un ordine di
estrinsecazione peculiare del loro significato: per sapere il colore di un oggetto lo guardo, ma
per sapere che colore percepisce l’altro glielo chiedo, e a partire da questa fonte si può
sviluppare il significato della sua sensazione (non: il suo significato della sensazione!). Il
colore in sé, poi, non è né l’immediato «questo» che si dà alla mia visione, né le parole a
proposito che l’altro mi comunica, ma è definito dall’intero gioco linguistico di cui la mia
capacità di discriminazione percettiva e la sua condivisione comunicativa fanno parte. La
distinzione tra uso in prima e terza persona dei verbi psicologici mostra proprio questo ordine
di connessione differente: nella prima persona il verbo psicologico può avere diversi sensi, ma
non generalmente quello di una descrizione osservativa 230. Perciò espressioni verbali che
esprimono una discontinuità tra il soggetto e la realtà, e che dunque vengono utilizzati
soltanto sulla base di un esame critico esterno del comportamento altrui (o, anche nostro, ma
in un tempo non presente) non consentono l’uso della prima persona presente: non ha senso
dire in senso proprio “io sto sognando” 231, o “io sto credendo falsamente” 232, o magari «io
non penso». L’uso in prima persona può essere dichiarativo, tipicamente nel caso di

227
RF, § 210.
228
RF, § 504.
229
RF, § 290.
230
FP2, § 63.
231
FP3, § 423.
232
FP3, § 141.
110

«disposizioni» o «volizioni», come quando dico di sapere o volere qualcosa. Ma esso può
anche essere esclamativo, tipicamente nel caso delle emozioni, come quando mi lamento per
un dolore o do voce alla mia paura. Tanto nel caso dichiarativo che in quello esclamativo il
senso dell’espressione non è quello di comunicare oggettivamente un fatto, non è la
descrizione di un proprio stato d’animo. Tra esclamazione e dichiarazione vi sono comunque
gradazioni, nel senso usuale in cui i giochi linguistici determinano aree concettuali intermedie
tra concetti principali. Nell’articolare le parole «ho paura» possiamo semplicemente dare
espressione linguistica a ciò che a livello di espressione primitiva sarebbe un grido o un
lamento, ed in tal caso la nostra attenzione è tutta concentrata sull’oggetto della paura.
Parimenti possiamo anche esprimere la nostra paura a qualcun altro, affinché egli vi reagisca
in un modo determinato, ad esempio soccorrendoci; e tra questi due usi vi sono innumerevoli
casi intermedi in cui non sapremmo dire quale fosse esattamente la nostra intenzione o
dovremmo descriverla con termini appartenenti parte al gioco esclamativo, parte a quello
dichiarativo.
Ciò che si mostra nell’uso esclamativo della prima persona del verbo è il punto
d’inserzione del linguaggio sul comportamento reattivo: è in questo senso, e solo in questo,
che “«Io» non nomina alcuna persona” 233, proprio perché si pone sul medesimo piano della
reazione, dell’esclamazione inarticolata, anche se fa uso di un linguaggio già articolato.
Tuttavia, come abbiamo notato, questo uso immediato, reattivo della prima persona non è
l’uso totale, e l’io che si profila in altri utilizzi può anche essere un io come persona tra
persone. Nella prima persona presente di un verbo come «sapere», come «volere» o «aver
l’intenzione», l’elemento immediatamente espressivo può essere secondario, mentre la
comunicazione fornisce non un’estrinsecazione del mio stato d’animo, bensì, per così dire, la
collocazione della mia persona nella concatenazione di eventi ed aspettative cui gli altri, cui
mi rivolgo, partecipano. Nel caso poi della prima persona utilizzata al passato, questa
valutazione del proprio io come di una persona tra le altre è addirittura la norma: se è vero da
un lato che non riconosco, ad esempio, il fatto di aver sperato qualcosa, o di aver avuto
un’intenzione, a partire dal mio comportamento, è anche vero che neppure l’altrui intenzione
o speranza attuale la posso giudicare dal comportamento esteriore, e tutto ciò che mi resta, per
me, come per l’altro, è la concatenazione di ragioni verbalmente esprimibili. In questi casi
bisogna dire che l’io ha una propria collocazione distinta esattamente come ce l’hanno, sui
generis, il tu, l’egli, ecc. con le connotazioni che sono peculiari a ciascuno: il «tu» è un altro
io, le cui esternazioni accolgo immediatamente, cui posso chiedere ciò che sente e pensa,
111

l’«egli» è invece un tu solo potenziale, le cui espressioni vedo obiettivamente, e che non si
presenta come interlocutore, e così avanti.
Va osservato a proposito delle espressioni psicologiche in terza persona che esse non
equivalgono affatto a descrizioni oggettive in senso scientifico. L’opposizione tra prima e
terza persona non è una contrapposizione, per dirla nei termini di un dibattito del tutto
estraneo alla speculazione wittgensteiniana, tra «fenomenologia trascendentale» e «scienza».
Le analisi basate sull’uso in prima persona (come peraltro quelle fenomenologiche) non sono
«introspettive» nel senso che non c’è nulla che davvero corrisponda all’idea di introspezione:
non si tratta di analizzare fatti privati che accadono nell’interno della mente. D’altro canto le
descrizioni in terza persona così come esposte da Wittgenstein sono comunque
«fenomenologiche» in quanto non si tratta di formulare una teoria da verificare nei fatti, ma di
lasciar eventualmente una «teoria», una visione sinottica, emergere dai fenomeni, accettando
talvolta l’indeterminatezza o l’assenza di confini concettuali netti. Della descrizione in terza
persona non fanno parte i comportamenti nel senso di moti dei corpi nello spazio: noi
vediamo primariamente l’altro gesticolare, annuire, lamentarsi, guardarci, ecc., senza bisogno
di identificare prima la variazione spaziale dei suoi moti e poi dedurne le espressioni. Il
mutamento prospettico tra la prima e la terza persona non è un mutamento del concetto
descritto, né del tipo di descrizione, ma piuttosto nel «settore» di criteri identificativi, tra
quelli che pertengono al concetto analizzato, che vengono di fatto applicati.

2. Comportamento e comportamentismo
Da quanto detto discende che l’attenzione al «comportamento» che Wittgenstein rimarca nelle
sue descrizioni non va affatto associata all’approccio teorico «comportamentista»:
“Perché mai dovrei negare che c’è un processo mentale?! Soltanto, «Adesso ha avuto luogo in
me il processo mentale del ricordare…» non vuol dire nient’altro che: «Adesso mi sono ricordato
di…» Negare il processo spirituale vorrebbe dire negare il ricordare; negare che qualcuno si ricordi
mai di qualcosa.” 234

“«Non sei in fondo un comportamentista sotto mentite spoglie? In fondo non dici che
all’infuori del comportamento umano tutto è finzione?» - Se parlo di una finzione, allora si tratta di
una finzione grammaticale.” 235

Parlare di un processo mentale del ricordare è un’espressione ridondante, una finzione


fondata erroneamente sulla grammatica del ricordare. I concetti di stato, processo, fatto

233
RF, § 410.
234
RF, § 306.
235
RF, § 307 (traduzione mia).
112

accennano ad un livello fenomenico analogo a quello degli oggetti dei sensi, ma la nozione
del «mentale» gli dà un carattere qualitativamente differente, irriducibile e misterioso. Questa
è la prospettiva che da un lato apre all’introspezionismo e dall’altro, per reazione ad esso, al
comportamentismo. La prospettiva wittgensteiniana ha in comune con il comportamentismo
un unico elemento negativo, cioè il rifiuto di parlare di condizioni psicologiche
intersoggettivamente inaccessibili. Ma tanto i motivi di questo rifiuto quanto i modi di
elaborare un’alternativa sono profondamente differenti da quelli proposti dalle varie correnti
che vengono raccolte sotto la voce «psicologia comportamentista».
Quanto alle ragioni del rifiuto, per il comportamentismo di Watson o Skinner
l’inaccessibilità intersoggettiva è intesa nel senso apparentemente radicale di inaccessibilità al
giudizio scientifico-sperimentale: tutto ciò che non è sottoponibile ad esperimento è
«soggettivo», idiosincratico, opinabile. Per Wittgenstein l’inaccessibilità intersoggettiva da
rifiutarsi è semplicemente quella di ciò che è «privato» per definizione, di ciò che si sottrae al
discorso comune rivendicando però all’interno di esso uno spazio di legittimità.
L’argomentazione wittgensteiniana mette semplicemente in luce come qualcosa che abbia
esistenza linguistica e di cui possiamo e vogliamo parlare deve avere criteri di identificazione
intersoggettivi (il che non significa di per sé «ripetibilità sperimentale») 236. Ciò non nega che
fattori incomunicabili nell’esistenza umana possono sussistere; soltanto, se davvero sono
incomunicabili allora non possono che rimanere incomunicati, pena la caduta
nell’insensatezza ed in confusioni concettuali di vario genere e peso. Tutto ciò che
Wittgenstein ci dice è che l’incomunicabile è privo di significato.
Quanto all’alternativa allo spiritualismo psicologico e all’introspezionismo il
comportamentismo non è realmente in grado di fornirne alcuna, in quanto gli esperimenti
comportamentisti non possono costitutivamente dire nulla che abbia natura psicologica, salvo
che introducendo ad un qualche livello inferenze gratuite dal fisico allo psicologico. Se le
unità comportamentali analizzate sono variabili fisiche o fisiologiche, posizioni nello spazio,
tempi di reazione, secrezioni chimiche, ecc. non c’è modo di coprire lo iato tra di esse e la
dimensione dei concetti psicologici. La produzione di esperimenti in assenza di una profonda
chiarificazione concettuale circa le variabili psicologiche che si vogliono esaminare, la loro
espressione fenomenica e la loro eventuale misurabilità è una perdita di tempo, o, magari
peggio, una chiacchiera ideologica. Già parlare di «comportamento» in senso

236
Cfr.: “«Come si dovrebbe mai definire una sensazione? La si può conoscere soltanto in se stessi.» Ma
l’uso delle parole bisogna pur poterlo insegnare!” (PP IV, p. 164; vedi RF, p. 246). Oppure: “«Che cosa
diremmo se qualcuno ci comunicasse di vedere, in un determinato oggetto, un colore che non sarebbe
113

comportamentista è una pesante improprietà: solo esseri animati «si comportano», ma


l’analisi comportamentista si pregia di descrivere proprio soltanto ciò che potrebbe essere
parimenti descritto per un oggetto fisico; niente di descrivibile soltanto in termini fisico-
chimici può dirsi comportamento. Le descrizioni comportamentali wittgensteiniane accolgono
invece come proprio oggetto le unità che il nostro linguaggio ci fornisce come concetti
psicologici e cerca semplicemente di stabilire gli estremi che ne consentono l’identificazione,
l’apprendimento e dunque l’ingresso sul piano del significato. In questo senso sono fenomeni
primitivi del comportamento persino relazioni intersoggettive, nella loro complessità 237. Non
solo, la nozione di «comportamento» così come usata da Wittgenstein ha tutta l’estensione
richiesta dal fatto che ogni gioco linguistico è comportamento 238. Dunque, anche la nozione
wittgensteiniana di «comportamento», come lui stesso ammette 239, è, almeno in parte,
fuorviante, ma solo nel senso di essere più inclusiva del normale. Nella misura in cui la
fenomenologia dei giochi linguistici di Wittgenstein descrive il comportamento, tale
accezione di comportamento include non solo l’espressione facciale e gestuale, ma anche
circostanze di contorno che si presentano come motivo del comportamento 240. Siccome le
circostanze menzionate sono riconosciute come ragioni o motivi in quanto appartengono ad
un gioco linguistico consolidato, e non come meri fatti esterni compresenti ad un’espressione
comportamentale, possiamo articolare schematicamente l’area coperta dalla nozione di
comportamento secondo i due estremi di «comportamento corporeo» e «comportamento
grammaticale». Ovviamente l’idea di un «comportamento grammaticale» non va intesa nel
senso di alcun «comportamentismo linguistico»; e tuttavia ci si può chiedere in che misura la
riconduzione del pensiero al linguaggio, in termini wittgensteiniani, possa sfuggire a
conseguenze di tipo comportamentista.

3. Linguaggio e pensiero
Nelle Ricerche Wittgenstein sembra sostenere l’idea di una sostanziale identità tra
linguaggio e pensiero:

capace di descrivere altrimenti? Si esprime in modo necessariamente corretto? Intende necessariamente un


colore?” (PP IV, p. 165).
237
“È d’aiuto qui se si nota che è una reazione primitiva quella di curare, di occuparsi della parte dolente
del corpo altrui e non solo della propria – anche di fare attenzione all’altrui comportamento del dolore, così
come di non fare attenzione al proprio.” (FP1, § 915; traduzione mia).
238
FP1, § 151. Cfr., RF, p. 237.
239
FP1, § 314.
240
FP1, § 129. Cfr., FP2, § 166.
114

“Se penso col linguaggio, davanti alla mia mente non passano, oltre le espressioni linguistiche,
anche i «significati»; ma lo stesso linguaggio è il veicolo del pensiero.” 241

“È vero che talvolta chiamiamo «pensare» l’accompagnare una proposizione con un processo
spirituale, ma non chiamiamo «pensiero» quell’accompagnamento. – Enuncia una proposizione e
pensala; enunciala comprendendola! – E ora non enunciarla, ma limitati a rifare quello con cui
l’hai accompagnata quando l’hai enunciata comprendendola! – (Canta questa canzone con
espressione! E ora non cantarla, ma ripeti l’espressione! – E anche qui si potrebbe ripetere
qualcosa: per esempio certi ondeggiamenti del corpo, respirare più lentamente o più in fretta,
ecc.” 242

“Il parlare pensando e il parlare senza pensare si possono paragonare al suonare un pezzo di
musica pensandoci e al suonarlo senza pensarci.” 243

Ciò che Wittgenstein sta qui osservando è, innanzitutto, che la nostra propensione a
distinguere linguaggio e pensiero sembra legata primariamente al fatto che si può utilizzare il
linguaggio senza pensare le parole che stiamo utilizzando. Di fatto, come abbiamo avuto
modo di osservare analizzando l’intenzione, noi non intendiamo esplicitamente ogni singolo
elemento delle nostre espressioni linguistiche, così come non sempre ci rappresentiamo
tematicamente le nostre intenzioni ogni qualvolta abbiamo l’intenzione di fare qualcosa.
Come per azioni abituali possiamo aver l’intenzione di farle senza che ciò comporti un
particolare atto rappresentativo o espressivo, così possiamo parlare sensatamente senza
concentrarci sull’intendere le nostre parole o parimenti possiamo suonare intenzionalmente un
pezzo musicale senza attenzione e sentimento. Se è vero che in tutti questi casi c’è una
differenza indubbia tra le due modalità di espressione, è anche vero che sembra trattarsi di
livelli di intensità, di gradi in un atto che comunque rimane centrato su ciò che potrebbe
essere esternato materialmente (articolazione linguistica o esecuzione strumentale). Questo
però ci consente soltanto di affermare due cose: innanzitutto che il pensiero non è il processo
interiore essenziale di cui il linguaggio o l’espressione in generale sono la mera
manifestazione esteriore; in secondo luogo che pensiero non è però neppure l’epifenomeno, il
processo di accompagnamento secondario dell’espressione linguistica materiale. Pensare non
è né un comportamento materiale, né uno stato d’animo 244. In questo senso pensare e parlare
non coincidono: pensare non è un vissuto, non è un’esperienza di cui si può determinare
l’inizio e la fine 245, in quanto tutto ciò che c’è «nel» pensiero intende al di là di sé. Pensare
non è discorrere 246, parlare e pensare sono concetti di genere diverso, per quanto strettamente

241
RF, § 329.
242
RF, § 332.
243
RF, § 341.
244
FP2, § 12.
245
FP1, § 257.
246
FP1, § 180.
115

connessi 247. “[Q]uando si parla di un «processo di pensiero», si tratta di qualcosa come


l’operare (per iscritto o oralmente) con dei segni.” 248 Questo va inteso chiaramente in tutto ciò
che comporta. In primo luogo ci si dice che il linguaggio abbisogna di segni, il che dà una
sorta di concretezza «materiale» al pensiero, nella misura in cui la disponibilità di certi tipi di
segno (ad esempio la scrittura) anziché di altri incide sulla natura intrinseca del pensiero e
sulle sue potenzialità. Questo però non comporta una «materializzazione» del pensiero, il
pensiero non diventa un prodotto meccanico di stringhe di segni, in quanto i segni non sono
mere cose, ma entità che vengono intese come rimandi: i segni sono adoperati come segni. In
secondo luogo ciò significa che il pensare, in quanto operare, è essenzialmente connesso
all’agire, alla volontarietà 249. Questo però non può significare che il pensiero è subordinato
alla volontà, che noi possiamo voler pensare, tentar di pensare o decidere di pensare, giacché
si vuole, tenta o decide soltanto se già si pensa. Ma allora in che senso il pensare è
essenzialmente qualcosa di volontario?
“(…) Chi pensa mentre lavora, farà intervenire nel lavoro delle attività ausiliarie. Ora, la
parola «pensare» non designa queste attività ausiliarie, non più di quanto il pensare stesso sia parlare.
Benché il concetto di «pensare» sia costruito sul modello di un’immaginaria attività ausiliaria.(…)” 250

“Queste attività ausiliarie non sono il pensare; ma noi ci rappresentiamo il pensiero come ciò
che deve scorrere sotto la superficie di questi mezzi ausiliari se essi non devono essere azioni
puramente meccaniche.” 251

Da questa prospettiva possiamo scorgere ciò che accomuna volontà e pensiero, anche
se Wittgenstein non sviluppa in dettaglio queste osservazioni. Il pensiero, egli ci fa notare, è
concepito come ciò che sta dietro ogni attività ausiliaria rispetto ad un’attività principale,
l’esecuzione di un compito, la risoluzione di un problema. Più propriamente questa «meta-
ausiliarietà» è semplicemente il concetto dell’essere ausiliario in sé, a prescindere da quale
particolare attività ausiliaria sia in gioco. Il concetto del pensiero è il concetto della possibilità
(capacità) di fare un «passo indietro» rispetto all’attività che ci coinvolge primariamente. È
perciò che “«pensare» ha qualche parentela con «riflettere»” 252, e d’altro canto riflettere è per
definizione ciò che non può essere svolto meccanicamente 253. Pensare non è senz’altro
riflettere perché noi diremmo anche di un discorso tenuto con passione e senza alcun
momento di distacco riflessivo che è stato detto pensando, ma ciò non significa che la
riflessione vi sia estranea, ma piuttosto che l’abbiamo concepita come una potenziale

247
RF, p. 284.
248
FP2, § 7.
249
FP2, § 222.
250
FP2, § 226.
251
FP2, § 227.
252
FP1, § 559.
116

mediazione inerente in quel parlare immediato. Pensare è l’attività per eccellenza, è ciò che
distingue l’azione del soggetto dalla passività inerziale degli abiti, degli istinti o dei processi
meccanici.
Pensare non è né una disposizione, né una volizione, ma per così dire avvolge
disposizioni e volizioni come l’operazione primaria di cui quelle sono specificazioni: pensare
è saper agire, saper essere agenti. Del verbo pensare non esiste neppure un senso reattivo,
esclamativo: «Io penso» non è in alcun modo paragonabile con «Io provo dolore» 254. Che un
«io» pensi, come condizione definitoria normale, è dato per scontato, e solo in particolari
condizioni possiamo usare sensatamente l’espressione in prima persona (senza oggetto); ad
esempio: «E ora, perché non vai avanti?» - «Penso.» (cioè non dormo, non sogno ad occhi
aperti, ecc.). Lo spazio del soggetto è lo spazio del pensiero, e l’identificazione dei
comportamenti e delle circostanze in cui è opportuno applicare il concetto di «pensare»
devono avvenire, come per tutti i concetti, secondo criteri intersoggettivamente disponibili,
dunque lo spazio del riconoscimento di soggettività è qualcosa di intersoggettivamente
determinato. Questo getta luce sulla questione di in che misura possiamo parlare
legittimamente del soggetto come di un «interno» contrapposto ad una realtà esterna.

4. Interno ed esterno
La dicotomia interno-esterno è profondamente radicata nel linguaggio psicologico, sia
esso quotidiano che scientifico. La tendenza scientifica, osservata nel caso del
comportamentismo, ad «esternalizzare» l’interno non sembra rendere giustizia a questa
(problematica) contrapposizione. Di fatto noi tendiamo a parlare di un «interno» come spazio
mentale sulla scorta di alcuni specifici fenomeni:
“L’imprevedibilità del comportamento umano. Ma se non avessimo presente questa
imprevedibilità – diremmo ancora che non si può mai sapere che cosa passa per la testa di un altro?
” 255

“«Non so che cosa stia accadendo ora dentro di lui!» - lo si potrebbe dire di un meccanismo
complicato; magari di un orologio artistico che, in base a leggi molto complicate dà vita, esternamente,
a diversi movimenti. Allora, forse, contemplandolo uno pensa: Se sapessi com’è fatto dentro, che cosa
sta succedendo ora, saprei che cosa aspettarmi.” 256

“Ma, rispetto all’essere umano, si dà per ipotesi che nel meccanismo non si possa gettare uno
sguardo (keinen Einblick gewinnen kann). Dunque l’indeterminatezza è postulata.” 257

253
FP2, § 560.
254
FP2, § 231.
255
FP2, § 663.
256
FP2, § 665.
257
FP2, § 666 (traduzione mia).
117

Il concetto di un «interno» come luogo della soggettività individuale si basa sul


riconoscimento di un’imprevedibilità del comportamento umano, del comportamento
pensante, che è per definizione qualcosa di non meccanico, di non inerziale. Il suo
comportamento esterno non ci dà garanzie sulla prevedibilità del suo comportamento futuro:
posto che il comportamento debba avere un’origine, una motivazione, l’interno è il non-
esterno come origine del comportamento. Tuttavia l’immagine di un interno nascosto dove
giace la vera fonte ed origine delle azioni soggettive è fuorviante. Infatti ciò che sembra il
vero ostacolo non è affatto un ostacolo: il punto cruciale non è l’impossibilità empirica di
«vedere l’interno», ma la sua impossibilità funzionale, grammaticale:
“Io non posso sapere quali piani egli prepara nel suo intimo. Ma supponiamo che egli facesse
sempre piani scritti; quale importanza avrebbero? Se egli, per esempio, non si regolasse mai in base ad
essi.” 258

“Forse si dirà: non si tratta in realtà i piani. Ma allora non lo sarebbero nemmeno se essi
fossero in lui, e guardare in lui non ci servirebbe a nulla. ” 259

Anche di fronte al panorama dispiegato della sua ipotetica interiorità non avremmo
risolto l’interiorità in esteriorità, l’imprevedibile in prevedibile, e questo proprio perché ciò
che definisce la soggettività individuale è la sua collocazione funzionale di origine del proprio
comportamento, di attività, di volontà, e non un particolare contenuto in-dividuale, non
condivisibile. Una «lettura» dei pensieri altrui, (così come l’interpretazione normale dei suoi
comportamenti esteriori), non costituirebbe una limitazione della sua «libertà» individuale,
perché essa sarebbe sempre la mia lettura dei suoi segni, dunque qualcosa che potrebbe essere
confermata dalla sua lettura, come anche smentita. Di fatto se facciamo per un attimo mente
locale sulla nostra normale attività riflessa possiamo notare che spesso i nostri pensieri
rimangono indeterminati quanto alla loro natura (ad esempio: di ipotesi, di credenza, di
progetto, ecc.) nel mentre sono elaborati, lasciando indeterminata anche la modalità delle
inferenze così svolte, la loro logicità od illogicità, ecc. Possiamo fantasticare su qualcosa per
poi scoprirne la plausibilità, trasformando la fantasticheria in credenza, o al contrario
possiamo sviluppare un pensiero con piena convinzione per poi svoltare all’improvviso ad un
certo punto, rifuggendo da alcune conseguenze impreviste o prendendone ironicamente le
distanze, possiamo in generale svolgere una serie di ragionamenti senza che sia
predeterminato ai nostri occhi se quanto facciamo è un sogno ad occhi aperti, un’ipotesi
filosofica, uno sfogo o quant’altro. Inoltre tra i segni con cui il nostro pensiero opera vi sono

258
FP3, § 234.
118

fattori che nessuno equiparerebbe a qualcosa che può essere «letto». Nell’immagine confusa
di cosa una «lettura dei pensieri» possa essere non compare mai, né può mai sensatamente
comparire, ciò che farebbe le veci del «testo» da leggere; un testo sarebbe qualcosa che si
presenta come un oggetto e che poi può essere decodificato; al contrario nel caso del pensiero
vorremmo immaginare proprio una chiusura di questa distanza tra oggetto da interpretare e
pensiero interpretante. Solo così infatti potremmo dire che la nostra è una lettura direttamente
di pensieri, un’apprensione immediata del suo interno e non semplicemente un’inferenza
basata sui segni che egli manifesta. Anche se avessimo accesso al suo discorso interiore, la
stessa proposizione pensata in un contesto personale o in un altro, preceduta da un certo
ragionamento o da un altro, o accompagnata da un atteggiamento o da un altro, potrebbe avere
significati completamente differenti. In ultima istanza è proprio la prospettiva da cui un
soggetto esperisce gli eventi, ovvero l’ordine in cui essi sono stati esperiti nel passato e
sorgono al presente, a rendere una «lettura dei pensieri» priva di senso: se i suoi pensieri li
«leggo» allora semplicemente interpreto alcuni segni che lui esprime, in modo non diverso da
come posso interpretare le sue manifestazioni esplicite, le sue dichiarazioni, il suo tono di
voce, ecc. Ma se all’idea di una lettura del pensiero si vuole dare il senso di una comprensione
certa, di un’apprensione immediata di ciò che lui pensa, questo non potrebbe accadere se non
assumendo che io possa completamente sostituirmi all’altro. L’unico senso possibile di
«leggere i pensieri» altrui è pensarli in prima persona. Solo in questo modo i segni che l’altro
adopera pensando potrebbero essere intesi da me come lui li intende, solo in quanto io possa
diventare lui, possa avvertire l’emergere degli stimoli ambientali nel medesimo ordine e con
le medesime attribuzioni di significato, dunque con la stessa memoria degli eventi connessi.
Da questo lato è utile osservare come il linguaggio che io parlo con me stesso nell’interiorità,
pur essendo connesso con uno o più lingue comuni e dunque essendo sempre traducibile in
una lingua intersoggettivamente riconoscibile, non è un linguaggio compiutamente articolato,
piuttosto è qualcosa come i linguaggi che si sviluppano tra persone che si conoscono da lungo
tempo, pieno di sottintesi, di abbreviazioni, di simboli: che qualcuno abbia accesso a quel
guazzabuglio di mezze parole, espressioni dialettali o straniere, pause coperte da gesti o
osservazioni empiriche, che è il mio «discorso interiore», questo non gli faciliterebbe di molto
la comprensione dei miei pensieri.
L’impredicibilità del comportamento altrui, nel senso in cui possiamo invece predire i
moti inerziali di un corpo fisico, sta alla base del nostro giudizio che l’interno altrui ci è

259
FP3, § 235.
119

nascosto: dei suoi processi interni mi preoccupo solo se non mi fido di lui 260. Questa
imprevedibilità ci si presenta spesso nella forma della possibilità altrui di non manifestare i
suoi pensieri e con ciò di mentire o simulare, ma come abbiamo visto in precedenza la
menzogna e la simulazione sono comportamenti per definizione eccezionali, fondati su di una
normalità di funzionamento coerente della significazione. Più profonda per la questione
dell’imprevedibilità individuale è la possibilità del sussistere di profonde differenze culturali:
“L’incertezza in linea di principio: Se una persona non lo esprime, in non lo so che cosa pensa.
Prova allora a immaginare che lei lo esprima benissimo, ma in un linguaggio che tu non capisci.
Potrebbe tamburellarlo col dito di una mano sul dorso dell’altra. In codice Morse o qualcosa di simile.
Non sarebbe forse un segreto anche in questo caso, e proprio altrettanto segreto che se non fosse mai
stato espresso? (…)” 261
“Così uno può nascondermi ciò che pensa ad alta voce, esprimendosi in una lingua per me
straniera. Ma qui dov’è l’evento mentale nascosto?” 262

Così come l’altro non verrebbe illuminato su ciò che penso se potesse avere un
accesso diretto al mio «discorso interiore», così l’incomprensibilità del pensiero altrui si può
presentare nel caso di una differenza di cultura ed esperienza, anche laddove nulla sia
nascosto. L’inclinazione cui qui bisogna resistere è quella di invocare un linguaggio di puri
significati, senza segni storicamente ed esperienzialmente vincolati: nella misura in cui un
significato è appreso, i vincoli storici ed empirici sono ineludibili. Ciò su cui ci si deve
concentrare è proprio l’indipendenza della questione della simulazione da quella
dell’incertezza circa le altrui manifestazioni espressive. Di fatto una forma di vita
radicalmente diversa ci potrebbe essere incomprensibile anche se il suo «interno» ci fosse
trasparente: “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo” 263. Ma questo ci mostra
che
“L’«interno» è un’illusione. E cioè: l’intero complesso di idee al quale si allude con questa
parola è come un sipario dipinto calato davanti alla scena della vera applicazione della parola.” 264

“Noi vorremmo proiettare tutto sul suo interno. Vorremmo dire che è di questo che si tratta.
Perché così ci sottraiamo alla difficoltà di descrivere il campo della proposizione.” 265

In definitiva Wittgenstein ci mostra come l’opposizione interno-esterno non è affatto


in grado di definire ciò che è caratteristico della soggettività, e che anzi tende a confonderne
la manifestazione. Tale contrapposizione ci spinge allo stesso tempo a sopravvalutare e
sottovalutare la soggettività individuale altrui: da un lato ci spinge a concepire ciò che è

260
FP2, § 602.
261
FP2, § 563.
262
FP2, § 564.
263
RF, p. 292.
264
FP4, p. 236.
120

proprio del soggetto come luogo di ciò che è celato, idiosincratico, inaccessibile, e dall’altro a
concepire tale soggettività come qualcosa che potrebbe idealmente essere oggettivato, esposto
(tutto ciò che è «dentro» può di diritto essere portato «fuori»). Nell’opposizione interno-
esterno soggettivismo ed obiettivismo si toccano. Ciò che è trascurato e nascosto da questa
contrapposizione è proprio ciò che consente di concepire una soggettività autentica e
significativa: la falsa alternativa tra soggettivismo e obiettivismo comporta una tipica
oscillazione tra incomprensibilità e spiegazione scientifica, tra irrazionalità e razionalità
deterministica. Al contrario Wittgenstein mostra come ci sia un modo di parlare della
soggettività in senso proprio, senza riduzionismi psicofisiologici, che non solo non esclude la
comprensione intersoggettiva, ma anzi essenzialmente la esige.
In conclusione possiamo dire che la soggettività individuale si mostra come spazio di
comportamento grammaticato definito essenzialmente da due limiti. In primo luogo il
soggetto è determinato secondo l’opposizione soggetto-oggetto, la quale va intesa
specificamente in rapporto alla scissione azione-reazione. Il corpo proprio si definisce con la
possibilità di reagire alle sensazioni, cioè di corrispondere immediatamente o mediatamente
con un’azione volontaria. A parte subjecti le sensazioni sono l’immediato momento corporeo
delle reazioni, e le reazioni, nel momento in cui hanno collocazione in un comportamento
generale grammaticato, determinano la soglia tra attività e passività. Affinché una soggettività
vi sia, ci deve essere azione volontaria, ma un’azione volontaria si dà soltanto quando si dà
anche un’alterità che non segue la volontà soggettiva: se oggetti materiali, colori, suoni si
dessero come manifestazioni arbitrarie della volontà, essi non si darebbero affatto; una tale
situazione non è affatto immaginabile: persino in un sogno gli eventi si danno come alterità
indipendenti dalla volontà. Una volontà soggettiva assolutamente sovrana sarebbe qualcosa
come uno strumento senza nulla cui applicarsi, uno sconfinato potere senza niente su cui
esercitarlo, poiché qualcosa su cui applicare una volontà deve in qualche misura resistere alla
volontà che vi si applica. Tale volontà supposta sovrana sarebbe anche uno strumento senza
articolazioni riconoscibili, sarebbe un potere informe, poiché non si potrebbe mai riconoscervi
funzioni diverse, poteri particolari, in quanto tali particolarità potrebbero emergere soltanto
sulla scorta dei modi peculiari in cui affrontano specifiche resistenze del reale. Infine tale
volontà sarebbe un potere senza scopi, giacché non ci sarebbe mai nulla di mediato da
raggiungere che non fosse già raggiunto. In altri termini la sussistenza di una soggettività, con
la spontaneità volitiva che vi inerisce, è per definizione possibile soltanto in contrapposizione
ad un livello di datità del reale che la soggettività conosce reagendovi: tale datità in termini

265
FP4, p. 234.
121

psicologici è primariamente quanto si incontra sotto il termine di «sensazione»


(«impressione»). La grammatica della soggettività è codefinita in modo caratteristico con la
grammatica dell’oggettività.
Il secondo limite definiente, pur avendo a che fare con il primo non vi coincide; esso è
dato dall’opposizione tra livello di validità intersoggettiva dell’azione e livello dell’origine
senziente dell’azione. La soggettività altrui, come abbiamo visto, ricopre il ruolo di origine di
azioni, cioè di punto non ulteriormente mediabile da cui scaturiscono eventi che non
dipendono dalla mia volontà. Io riconosco l’altro come soggettività autonoma in quanto esso
si presenta come perenne sorgente di azioni non meccaniche, spontanee, indipendenti dalla
mia volontà.. D’altro canto nel confronto con altri soggetti anche io mi riconosco come una
tale sorgente di azione, autonoma rispetto all’altrui volontà soggettiva. Soffermiamoci per un
attimo ad esaminare questo punto, mettendo alla prova l’ipotesi opposta di una soggettività
autonoma, solipsistica, sussistente in assenza assoluta di alterità intersoggettive. Tale
soggettività solipsistica, può essere soggettività soltanto essendo una fonte immediata di atti e
significati. Ma io non sono una fonte, un’origine per me stesso: io non direi di me stesso che
agisco per ragioni che stanno al di là del mio agire; per me i miei pensieri non hanno una
fonte diversa e «nascosta», rispetto ai miei atti volontari: anche i miei pensieri sono mie
azioni. Dunque io non sarei per me stesso una persona, un soggetto individuale; piuttosto,
come per il Wittgenstein del Tractatus, io sarei il mio mondo, laddove il termine «mio» è un
puro accessorio, la proposizione un pleonasmo. Ma, ulteriormente: non sarebbe comunque
possibile riconoscere l’egoità nel nesso tra («mio») linguaggio e («mie») azioni fisiche? Non
potrei, magari con l’aiuto di uno specchio, vedere le mie azioni e giudicarle l’«esterno» dei
miei pensieri? Qui ricadiamo nella situazione del seguire privatamente le regole. Che
grammatica avrebbe un linguaggio cui ogni significato rivolto alla comunicazione fosse
sottratto? In cui comparissero soltanto parole e proposizioni utili a dar conto delle mie proprie
esperienze? Ma, di più, cosa distinguerebbe le esperienze relative ad esempio a sensazioni
muscolari, o uditive, da quelle relative a «segni»? Come si potrebbe istituire una duplicazione
tra un’esternazione esclamativa (un grido di dolore) ed un suono emesso con funzioni
segniche? Per porre la duplicità interno-esterno in me stesso dovrei dare dei segni a me stesso:
ma per quale ragione dare dei segni per trasmettermi ciò che ho immediatamente? E anche a
prescindere dalle ragioni: come potrebbe un soggetto solipsistico intendere talune sensazioni
(ad esempio i suoni della propria voce) come segni, cioè come portatori di un significato?
Portatori di che cosa e dove? Tutto ciò che portano ce l’ho già, e non possono portarlo da
122

nessuna parte, perché non c’è un’altra parte che non sia io. Dunque, tutto ciò ci mostra come
la funzione segnica presupponga già l’alterità «intersoggettiva».
A questo punto possiamo ritornare al punto iniziale e scorgere come la soggettività,
per essere un soggetto particolare, e non semplicemente l’altro rispetto alla datità sensibile, ha
bisogno di essere un soggetto in relazione segnica con altri soggetti. Il soggetto singolo è in
relazione segnica in quanto entità corporea posta in relazione ad un ambiente e ad altri
soggetti (attuali o potenziali). In questa interazione il soggetto è dunque riconosciuto secondo
il suo comportamento corporeo in situazione e secondo le sue espressioni segniche
(comportamento grammaticale). Un soggetto appare per un altro soggetto attraverso il suo
comportamento corporeo e grammaticale.
Queste due coppie di coordinate, azione/reazione e comportamento corporeo /
comportamento grammaticale, determinano lo spazio proprio del soggetto, così come esso
emerge dalle analisi wittgensteiniane dei concetti psicologici. Va osservato che esse non sono
coordinate congeneri, al contrario, la prima coppia caratterizza il modo in cui il soggetto si
esperisce dall’interno, in prima persona, mentre la seconda coppia caratterizza il modo in cui
esso è esperito da altri soggetti. Quando esperiamo noi stessi come soggetti noi scorgiamo
primariamente il rapporto tra la nostra attività e la datità inerziale del mondo sensibile;
quando esperiamo gli altri come soggetti scorgiamo primariamente il loro comportamento
rispetto alle circostanze ambientali e rispetto a noi. Tuttavia i giochi linguistici in cui i
concetti psicologici vengono costituiti uniscono sempre questi due livelli, consentendoci di
individuare atti e vissuti psicologici come «gli stessi» in prima ed in terza persona. Nel
Tractatus l’unica soggettività di cui si faceva menzione era la soggettività in prima persona, il
soggetto volente e pensante, cui nessuna manifestazione fenomenica apparteneva
essenzialmente. Chiaramente di un tale soggetto un linguaggio vero-funzionale come quello
argomentato nel Tractatus non poteva parlare: il soggetto, come l’etica e l’estetica, era
trascendentale. Con l’introduzione dell’analisi dei giochi linguistici come modalità principale
di determinazione del significato lo iato tra soggetto in prima ed in terza persona scompare
d’un tratto: il funzionamento quotidiano del linguaggio ha già sempre superato la
problematica post-cartesiana relativa alla collocazione dominante della prima persona. Il
soggetto non deve chiedersi se mai riuscirà a colmare l’abisso tra sé e l’altro, perché chiedersi
qualcosa è già un gioco linguistico in cui, come per ogni forma verbale, la sussistenza di più
persone è presupposta. Ciò non toglie che chiedersi come operi tale funzionamento di un
medesimo significato da prospettive diverse può essere una domanda importante, domanda
che chiama in causa un esame di come il relativo gioco linguistico viene giocato.
123

Può essere illuminante osservare come si presenta la questione dei criteri per
determinare la natura di soggettività pensante rispettivamente in una prospettiva «cartesiana»
o in una prospettiva wittgensteiniana. Nel primo caso, parlando un po’ alla buona, si potrebbe
articolare il problema come segue: io dubito, dunque penso, dunque sono una cosa che pensa
e come tale esisto, ma come faccio a dire che l’altro pensa, come faccio a dire che l’altro è più
che mera estensione? Wittgensteiniamente si potrebbe replicare: come fai a sapere che dubiti?
Come fai a sapere che pensi? Se questo è evidente, non si capisce perché lo sia più del fatto
che ci sono altre persone pensanti o che la realtà esterna esiste. Se invece vogliamo
argomentarlo, allora dobbiamo chiederci come facciamo a riconoscere che qualcuno è un
essere pensante, ed i criteri che emergono già richiedono una validità intersoggettiva. Ovvero,
per riconoscere che qualcuno pensa ci richiamiamo a criteri pubblici, a tratti distintivi che altri
possono riconoscere e non ad una «somiglianza» tra ciò che significa pensare per il me
pensante in prima persona e ciò che si manifesta come comportamento pensante nell’altro:
infatti una tale somiglianza fenomenica non c’è. Ma ciò ci porta addirittura a fare un passo
ulteriore e riconoscere come io di fronte a me stesso non ho neppure la possibilità di dire che
penso; la prima premessa di quell’ipotetica comparazione non sussiste: io non ho esperienza
del mio pensare, pensare non è un particolare vissuto. Per me di fronte a me stesso non ci
sono ad esempio criteri per distinguere se sto pensando o sognando o avendo allucinazioni,
ecc.. Alla fine ciò che emerge è che per determinare se io penso devo affidarmi al giudizio di
altri, i quali peraltro, in quanto mi possono giudicare, sono necessariamente pensanti (criterio
depositato nell’uso grammaticale). L’approccio al significato che Wittgenstein ci propone
mostra nel modo più sobrio come l’io sia già sempre connesso al tu e al noi, come ed in che
limiti ciò può essere asserito e giustificato, come, in generale, il soggetto non sia né il luogo di
un’anima spirituale ineffabile, né un territorio di conquista per spiegazioni materialistico-
scientifiche.
124

SINTESI E CONCLUSIONI

Il quadro della concettualità psicologica che abbiamo presentato non fornisce una
rappresentazione completa delle analisi wittgensteiniane a proposito, tuttavia si tratta di una
campionatura sufficientemente ampia per tentar fondatamente di delinearne struttura ed
orientamento. Cercheremo ora di fornire una breve quadro sinottico del percorso svolto, per
poi trarne alcune conclusioni di natura teorica.
La presente analisi ha preso le mosse dalla questione, che attraversa tutto il pensiero
wittgensteiniano, del rapporto tra immagine e comprensione. Ammesso che nel comprendere
noi facciamo un’esperienza che tendiamo a descrivere come un farci immagini dei fatti,
questa «immagine» non è però la comprensione stessa, giacché accade che, richiesti di
riprodurre quanto compreso, ed avendone un’immagine, non siamo poi in grado di
svilupparne alcuna applicazione sensata. Pur essendoci processi concomitanti a certe modalità
di comprensione, questi processi concomitanti non sono la comprensione ed i criteri per
decidere se comprensione vi è stata sono i criteri del sapere.
Il sapere non è un vissuto, non si dà come qualcosa dotato di durata temporale propria,
esso semplicemente perdura indeterminatamente. Vi sono criteri esterni per decidere se
qualcuno sa qualcosa: il sapere non è un processo interiore, ma è qualcosa che esige di essere
giustificabile. Perciò il sapere si distingue dalla semplice certezza immanente: so quando mi
sono convinto di qualcosa, quando lo ho compreso. Il sapere è giustificato dunque da un certo
passato e si estrinseca in forma di un saper fare, di possesso soggettivo di una capacità, perciò
è insensato dire che si sanno (o conoscono) eventi futuri. In quanto il sapere è un saper fare
esso predispone alla possibilità di un connesso esercizio della volontà: sapere non è percepire
o intuire (interno o esterno).
Sapere qualcosa implica analiticamente crederlo, ma non vale la conversa: si può
credere qualcosa senza saperlo o saperne. Come per il sapere il credere non è un vissuto, non
ha durata propria e non è caratterizzato da un comportamento peculiare. Credere nella prima
persona singolare ha una forma assertoria ed una forma ipotetica: nella prima la credenza
asserisce qualcosa sulla realtà, nella seconda piuttosto su chi enuncia la credenza. Tuttavia,
anche nella forma assertoria «io credo» intende dare un’informazione all’interlocutore sul
parlante. Il contenuto della credenza ha una collocazione ambigua rispetto a chi usa il verbo
credere: per credere non c’è bisogno di alcuna ragione, diversamente dal sapere; anzi, il segno
più distintivo del credere è semplicemente l’assenza di dubbi. D’altro canto esprimere
125

qualcosa come contenuto di credenza lo rende un contenuto possibile, lo espone alla


possibilità del dubbio, e così facendo richiama l’esigenza di giustificazioni. Si può essere certi
di qualunque cosa, ma non si può credere qualunque cosa, perché credere è già pensare.
Sapere, credere e, in modo più ambiguo, comprendere sono stati classificati, seguendo
l’indicazione wittgensteiniana, come «disposizioni». Ciò che è caratteristico delle
«disposizioni» è la sussistenza di un possesso a parte subjecti, che può essere un concetto o
una pratica immanente, e che è considerato equivalente ad un contenuto attribuito o
attribuibile alla realtà. Le disposizioni non sono soggette alla volontà (non posso credere né
sapere ciò che voglio), né provengono immediatamente dalla realtà (come le impressioni
sensibili), ma segnalano un’appropriazione soggettiva della realtà.
Dall’esame delle disposizioni siamo passati a quello di ciò che abbiamo chiamato
«volizioni». Wittgenstein non classifica unitariamente le nozioni che noi abbiamo discusso
sotto la voce di «volizioni», né tale termine occorre in una qualche funzione classificatoria nei
testi wittgensteiniani. Abbiamo ritenuto di introdurre questa nozione in quanto dalla
descrizione dei concetti psicologici emerge senz’altro quest’area concettuale, concentrata per
l’appunto attorno all’essenziale soglia della volontarietà, e l’uso di un’etichetta sintetica può
aiutare a scorgerne le comunanze funzionali. L’utilità dell’introduzione di tale nozione
unitaria può essere scorta se ne confrontiamo la funzione con l’area concettuale delle
emozioni: tanto le volizioni che le emozioni stanno tra l’estremo soggettivo delle disposizioni
e l’estremo oggettivo delle sensazioni. Ora, se le emozioni traggono origine da una ragione,
da un oggetto, che le muove, le volizioni vanno intese come sviluppantesi in senso opposto, in
quanto la loro origine essenziale è nel soggetto, che estrinseca se stesso nel volere. Le
emozioni sono qualcosa che il soggetto ha, qualcosa che gli accade, le volizioni sono ciò che
il soggetto è.
Come abbiamo avuto modo di scorgere il momento primigenio del volere è nominato
dall’aver l’intenzione di…: l’intenzione in questo senso è semplicemente l’origine
grammaticale del volere. Essa non ha alcun vissuto caratteristico, non può essere messa alla
prova, come un potere particolare, ma funziona in quanto si affida ad abiti, pratiche, regole
già funzionanti nell’uso grammaticale. L’intenzione in questo senso è qualcosa che si riferisce
alla nostra azione, essa si distingue dall’intendere (Meinen) nel senso di voler dire, voler
significare, che si riferisce non ad azioni proprie, ma a segni (a ciò che nel caso fa la funzione
di segno).
Ciò che abbiamo di mira avendo un’intenzione è il nostro volere. Volere è già agire:
quando vogliamo ci applichiamo già in una certa direzione, e l’intenzione ne è il momento
126

ideale primo. Per volere dobbiamo poter fare, nel senso di possedere la tecnica per avviare
l’azione consona a ciò che vogliamo; se così non è, allora dobbiamo dire che stiamo
desiderando qualcosa, senza propriamente volerlo. Si desidera uno stato di cose cui la volontà
ci condurrebbe se sapessimo come agire. Il desiderare è un comportamento verso
un’immagine, è un volere derealizzato, condizionale.
Se l’intenzione, in ogni senso, si dà come qualcosa di fondato su di un percorso
grammaticale già dato, su regole, abiti, pratiche consolidati, cui ci affidiamo nel proporci
un’azione o una significazione, l’interpretazione invece è un’operazione che porta alla luce
una prosecuzione del presente tra varie prosecuzioni possibili. Intendendo qualcosa in un
certo senso noi sappiamo qual è il fine di ciò che intendiamo, e questo fa sì che una ed una
sola strada sia già sempre colta dall’intenzione come suo contenuto. Interpretando, invece, il
fine della significazione è qualcosa che dobbiamo trovare sulla base dei segni, e con ciò, in
quanto soggetti interpretanti, siamo in una posizione attiva, di scelta.
Volere, desiderare, intendere o interpretare sono tutti momenti eminentemente attivi
della soggettività. Nell’interpretare tuttavia lo spazio della datità cresce fino a mostrare la
soglia concettuale del percepire, dove l’essere attivo del soggetto viene meno.
Le percezioni, le impressioni sensibili, le sensazioni sono quel livello della realtà che
per definizione non segue la volontà, ma si presenta come alterità informativa rispetto al
soggetto volente. A definire la realtà obiettiva della sensazione è soprattutto la sua
localizzabilità, ma ciò non significa che la posizione di una sensazione sia segnalata dalla
sensazione stessa: non ci sono sensazioni di posizione, né sensazioni posturali, né sensazioni
cinestetiche. Le sensazioni prossimali, che avvengono sul nostro corpo, segnalano l’identità
del corpo proprio rispetto alla realtà. L’informazione sul mondo, così come l’informazione su
posizione e moto delle sensazioni stesse, non risiede nelle sensazioni ma nella loro
organizzazione reciproca.
Tra le sensazioni distali Wittgenstein si sofferma soprattutto sulla vista ed in
particolare sui colori. I colori costituiscono un sistema, ma tale sistema non dipende dalla
natura interna dei colori, ma piuttosto dalla loro funzione grammaticale. Tale funzione è
connessa alle operazioni di discriminazione tra le cose e al loro riconoscimento, e non è
riducibile a considerazioni particolari di colori presi isolatamente.
Il fatto che le sensazioni prossimali possano essere latrici di informazione sulla realtà
solo attraverso la loro organizzazione reciproca o che i colori debbano la loro natura al mutuo
ordinamento disgiuntivo mostra come il significato delle sensazioni non sia inerente in esse,
non sia vissuto immediatamente nel sentire privato della sensazione. Le sensazioni, non
127

diversamente da altri fattori psicologici, debbono il loro significato al modo in cui entrano in
giochi linguistici. Perciò non è possibile considerare le sensazioni come qualcosa di privato,
nonostante le sensazioni siano senz’altro qualcosa che accade «presso» il soggetto. La
tentazione a considerare le sensazioni come qualcosa di privato deriva dalla perenne
possibilità altrui di simulare ciò che sente, ma la possibilità della simulazione è
necessariamente secondaria rispetto alla possibilità che la comunicazione circa il proprio
sentire sia veritiero: alle comunicazioni altrui su se stesso generalmente mi affido. Una
sensazione è privata solo in un senso non informativo, definitorio, in quanto è una reazione e
non un oggetto che di principio potrebbe appartenere a più persone. Chi sente la sensazione è
l’io per definizione, dell’altro identifico sensazioni o percezioni attraverso il relativo
comportamento. Ma tale privatezza della sensazione nel senso di luogo della loro emergenza
non implica alcuna privatezza del significato delle sensazioni, il quale dipende come sempre
dal comportamento connessovi, dal gioco linguistico in cui esse intervengono.
Tra le sensazioni una collocazione particolare è rivestita dal dolore, il quale si presenta
come una sensazione prossimale, dotata di localizzazione, intensità e durata, ma ha l’ulteriore
caratteristica di suscitare una reazione espressiva caratteristica ed un sentimento ad essa
connessa. In questo senso il dolore può essere considerato in certo modo l’anello di
congiunzione tra sensazioni ed emozioni.
Ciò che Wittgenstein nomina come emozioni (collera, paura, piacere, depressione,
ecc.) sono qualcosa che «si sente», ma non sono sensazioni, sono vissuti, ma non esperienze,
nel senso che non informano sulla realtà. Le emozioni sono intenzionali, hanno un oggetto
che è oggetto di coscienza, mentre le sensazioni hanno oggetti solo come cause. Le emozioni
dipendono dal loro oggetto in modo immediato, ma non necessario: l’oggetto dell’emozione è
inteso come è inteso in quanto origine dell’emozione e non è semplicemente un oggetto
cognitivo cui poi sopravviene un’interpretazione emozionale. Le emozioni, infine, hanno
comportamenti caratteristici, ma non sono riducibili a tali comportamenti: a definire
un’emozione è l’intero gioco linguistico dell’emozione, di cui fanno parte, oltre alle reazioni
comportamentali caratteristiche, le ragioni (l’oggetto intenzionale) e le circostanze tipiche di
quell’emozione.
Al limite dell’area semantica delle emozioni stanno la speranza, che è ancora
determinabile come un’emozione, e l’aspettativa, che ha già il carattere di una disposizione.
La speranza ha, come emozione, il carattere di una presa di posizione, di un giudizio di valore
rispetto al suo oggetto, ma non possiede alcun comportamento espressivo tipico.
Diversamente dalla speranza, l’aspettativa non manifesta un giudizio di valore sul suo
128

oggetto, ma ha piuttosto una natura cognitiva, neutrale. L’aspettativa scorge nei segni presenti
qualcosa di cui si sa, o si presente immediatamente, l’accadere. Si può distinguere
un’aspettativa mediata da un’aspettativa immediata: la seconda vede il futuro come
immanente nel presente, la prima costituisce il futuro atteso come un’inferenza ipotetica. In
questo senso l’aspettativa immediata è una forma di certezza e non un sapere. Nella speranza
non c’è un momento immediato, giacché non si spera ciò di cui si è immediatamente certi. È
infine interessante notare come la speranza sia affine al desiderio eppure nettamente distinta
da esso. Speranza e desiderio sono coestensivi con la soggettività in quanto attiva: qualunque
cosa accada è sempre possibile sperare e desiderare. Tuttavia la natura della speranza è affine
a quella delle emozioni, per cui l’origine e fonte dell’emozione, il suo oggetto, è un evento,
qualcosa che accade nel mondo; al contrario la natura del desiderio è quella delle volizioni, la
cui origine e fonte è il soggetto agente: desiderare è un possibile agire.
Dal quadro complessivo dei verbi psicologici abbiamo potuto trarre alcune conclusioni
circa la definizione della soggettività, della psiche così come essa si dà prima di diventare
oggetto di una teoria psicologica.
In primo luogo abbiamo osservato come vi sia un’asimmetria tra le modalità di giocare
giochi linguistici in prima ed in terza persona, anche se il gioco linguistico che definisce il
relativo significato psicologico è poi unitario. Anche di fronte a noi stessi noi possiamo
intendere il significato dei nostri atti psichici soltanto utilizzando criteri pubblici, ciò però non
toglie che l’ordinamento funzionale dei segni cambi tra prima e terza persona: noi non
identifichiamo le nostre sensazioni attraverso criteri, piuttosto esse sono il vissuto immediato
del gioco linguistico. La prospettiva da cui il gioco linguistico è giocato cambia, anche se esso
può essere sempre identificato come il medesimo gioco. All’uso della prima persona
appartiene un uso esclamativo ed un uso dichiarativo, con vari gradi intermedi: si va da
qualcosa di prossimo alla mera reattività, come il grido o il lamento, all’articolazione del
proprio sentire in una forma che chiaramente intende segnalare qualcosa a qualcun altro. In
terza persona l’uso verbale è invece essenzialmente descrittivo: il contenuto si presenta al
parlante in forma oggettiva.
Che l’uso in terza persona sia descrittivo non significa che criteri di rappresentazione
scientifica siano all’opera, così come l’uso in prima persona non implica che siano all’opera
atti di «introspezione». L’introspezionismo è rifiutato da Wittgenstein in termini che possono
suonare simili a quelli comportamentistici, tuttavia la somiglianza è solo apparente: da un lato
l’appello all’accessibilità intersoggettiva dei fenomeni psicologici per Wittgenstein non
significa sperimentabilità scientifica, ma descrivibilità di un gioco linguistico giocato,
129

dall’altro l’idea wittgensteiniana di comportamento non è quella di movimento fisico nello


spazio, ma di un’espressione corporea e gestuale in circostanze caratteristiche.
La distanza da ogni forma di comportamentismo, anche quelle più moderate, si può
scorgere nel caso esemplare dei rapporti tra pensiero e linguaggio. Il pensiero è considerato
connesso al linguaggio, ma anche essenzialmente distinto da esso, nella misura in cui con
linguaggio si voglia intendere la pura esteriorità oggettiva dei segni linguistici. Pensare non è
un semplice comportamento materiale, anche se non è neppure un puro stato o processo
spirituale. Pensare non è discorrere, perché nel pensare intervengono segni ulteriori rispetto a
quelli strettamente linguistici, ma non è neppure riducibile all’esternazione di segni oggettivi,
perché i segni vanno usati: pensare può essere detto un operare con dei segni. Il pensiero usa i
segni come segni, li fa intendere al di là di sé, e si manifesta come un momento volitivo, non
inerziale: il pensare è sempre qualcosa che segnala una non meccanicità, tipica dell’agire, un
processo ausiliario, laterale rispetto al decorso comportamentale principale, qualcosa che
consente di fare un passo indietro e di riarticolare tale decorso. L’immagine di uno spazio
dove poter arretrare rispetto all’azione principale richiama quella di un interno individuale
come contrapposto ad un esterno pubblico, ma tale immagine va repressa o considerata
criticamente.
Il concetto di interiorità individuale si basa principalmente sull’imprevedibilità del
comportamento umano, ma, se così è, l’interno di cui si parla non può in linea di principio
essere portato alla luce: noi infatti non potremmo sapere ciò che lui pensa neppure se
avessimo accesso diretto a tutti i segni che lui usa nella sua interiorità. I pensieri non sono
qualcosa che possa essere letto, ma soltanto qualcosa che si può compiere in prima persona.
Del pensare è parte essenziale la prospettiva da cui i pensieri emergono, l’ordine temporale
rispetto alla memoria e agli stimoli ambientali correnti, le motivazioni inscritte nella nostra
identità personale; perciò «leggere un pensiero» direttamente nella mente altrui non potrebbe
rappresentare un mutamento essenziale di esperienza rispetto all’interpretazione esterna dei
suoi segni linguistici e corporei. In questo senso l’imprevedibilità del comportamento umano,
che sta alla radice dell’idea di un’interiorità irriducibile può ripresentarsi anche quando tutto è
reso esterno, tutto è detto, nella misura in cui il linguaggio altrui sia differente dal nostro (lo
sfondo «storico-culturale» sia essenzialmente diverso).
-----------
Il percorso qui svolto cerca di illustrare i principali snodi concettuali che Wittgenstein
espone con riferimento alle nozioni psicologiche. Sotto le voci di «disposizione», «volizione»,
«sensazione» ed «emozione» abbiamo cercato di ordinare le connessioni tra concetti così
130

come esse sono emerse nell’immanenza dell’analisi. Disposizioni e sensazioni rappresentano i


momenti psicologici determinati rispettivamente in maggior misura dalla componente di
comportamento grammaticale e di comportamento corporeo. Il livello delle sensazioni è
quello che definisce il corpo come corpo proprio dotato di una collocazione nello spazio. Le
sensazioni non hanno un contenuto immanente ad esse, interno, ma si danno come modalità di
discernimento operativo: l’organizzazione reciproca delle sensazioni, che è ciò che vi fornisce
significato, è data dalle modalità con cui il nostro corpo agisce/reagisce nello spazio
distinguendo i lineamenti della realtà. Le sensazioni sono per definizione portatrici di
informazione sulla realtà, in quanto hanno prima di tutto il carattere di reazioni immediate del
corpo a ciò che è altro da sé. In questo senso la collocazione grammaticale delle sensazioni è,
in prima persona, quella di presenza immediata della realtà, ed in terza persona, di pura
reattività corporea alla realtà. Al contrario le disposizioni si presentano in prima persona come
coscienza della realtà ed in terza persona come puro potere di agire, che definisce il soggetto.
Le disposizioni manifestano perciò il massimo grado di comportamento grammaticale ed il
minimo di comportamento corporeo. Le sensazioni sono vissuti, hanno una durata,
un’intensità ed una localizzazione; le disposizioni non sono vissuti, non hanno una durata, ma
perdurano indefinitamente, e non hanno alcuna gradazione di intensità.
Il soggetto, che in terza persona si dà come luogo delle disposizioni (e di quella
fondamentale «disposizione» generale che è il pensiero), in prima persona emerge come
azione volontaria, come volizione. Il soggetto si riconosce in prima persona come ciò che
agisce e non semplicemente reagisce. Il campo di ciò che abbiamo chiamato «volizioni» è
quello dove il soggetto progetta l’azione e modifica la realtà. In opposizione simmetrica alle
volizioni possiamo considerare le emozioni, come il momento in cui il soggetto prende
posizione rispetto ad una datità e ne dà un giudizio affettivo. Le volizioni perciò, non avendo
una componente ricettiva, non presentano peculiari vissuti, mentre le emozioni («passioni»)
ne sono caratterizzate. Parimenti, le volizioni non presentano comportamenti caratteristici, in
quanto il momento attivo in esse è il pensiero, cioè qualcosa di prossimo ad un puro
comportamento linguistico, al contrario le emozioni sono per lo più caratterizzate da
comportamenti tipici, in quanto si rapportano ad una datità come reazioni (coscienti) ad essa.
In questo senso le volizioni sono identificabili in terza persona essenzialmente con riferimento
a dichiarazioni dell’agente, o comunque a suoi comportamenti linguistici, mentre le emozioni
possono essere identificate attraverso un comportamento corporeo, anche se tale
comportamento ha generalmente bisogno dell’espressione verbale dell’oggetto dell’emozione
per raggiungere piena esplicitezza.
131

-------------
Di importanza capitale per determinare il valore e la portata dell’esame che
Wittgenstein dedica ai concetti psicologici, come peraltro del suo lavoro tutto, è la questione
di come intenderne la valenza ontologica e normativa. In altri termini: in che misura l’attività
teorica wittgensteiniana, che si vuole eminentemente descrittiva, può produrre conseguenze
normative, in che misura può suggerire un certo uso linguistico piuttosto che un altro, una
certa concettualità piuttosto che un’altra? E da un altro punto di vista: in che misura possiamo
dire che l’elaborazione wittgensteiniana parla, diciamo così, della realtà e non soltanto di
parole? Wittgenstein non ci sta forse dicendo in definitiva che la filosofia si limita e si deve
limitare ad un’indagine sulle parole?
Abbiamo già dato alcune risposte a queste domande, ma le ambiguità delle esplicite
prese di posizione di Wittgenstein sulla natura della filosofia, così come le sue stesse
oscillazioni teoriche e le complessità intrinseche del suo lavoro ci inducono ad un ulteriore
commento (lungi comunque dal poter ambire ad una chiarificazione esaustiva). Innanzitutto,
quanto al valore normativo dell’analisi concettuale esposta, è di fatto evidente che
Wittgenstein corregge a più riprese alcuni usi linguistici comuni; la domanda è: come questo
può essere legittimo? Potrebbe infatti sembrare che vi sia contraddizione con il carattere
descrittivo della sua indagine e con l’esigenza più volte dichiarata di ritornare all’uso comune,
al linguaggio quotidiano come al parametro fondamentale di giudizio dei significati.
Pensiamo, a titolo di esempio, alle considerazioni sulla dicotomia interno-esterno. Qui è
chiaro come l’uso psicologico dei termini «esterno» ed «interno» faccia parte di un
utilizzazione quotidiana del linguaggio, non tecnica, e solidamente radicata in un’eredità
linguistico-concettuale antica. Wittgenstein mostra come l’immagine di un interno soggettivo,
di un’interiorità nascosta come luogo del pensiero, dell’anima, dell’intimo, possa essere
fuorviante. Egli mostra come l’interno non è qualcosa che potrebbe di diritto diventare
esterno, mostra come i fenomeni che generalmente vengono spiegati con riferimento alla
natura dell’interno mentale siano più propriamente determinati con riferimento ad altre
nozioni, quali la possibilità di simulare, la capacità riflessiva, o i presupposti storico-culturali.
Fatto ciò, non si tratta di proibire l’uso dei termini «interno» ed «esterno» in campo
psicologico, tendenza questa cui Wittgenstein fu prossimo nel periodo del Tractatus, ma di
sapere che certe applicazioni di queste nozioni sono impossibili o meramente apparenti. Non
essendoci una connessione immediata tra «segno essenziale» e significato (come in
precedenza tra molteplicità logica della proposizione elementare e stato di cose) è sempre
possibile che un segno sia usato con più significati in contesti differenti, senza che ciò porti
132

necessariamente a confusione concettuale. Ora, però, anche se non si tratta di una


delegittimazione dell’uso di certi segni, è chiaro che una delegittimazione di certe
applicazioni di certi segni ha luogo. Com’è che ciò può avvenire? Come è possibile
denunciare certe effettive utilizzazioni del segno come ingannevoli? Per dare una
giustificazione radicale di questa operazione dovremmo risalire ad alcune istanze ontologiche,
implicite nell’analisi wittgensteiniana, e che potremo toccare soltanto in parte tra breve. Ma
ad un primo livello di giustificazione possiamo semplicemente notare quanto segue: del
funzionamento dei giochi linguistici, delle regole, fa parte costitutivamente la possibilità che
il modo in cui noi intendiamo l’uso di un segno sia inteso da altri o da noi stessi in futuro.
Ovvero: l’applicazione del segno che intendiamo deve essere possibile e comprensibile, a me
e ad altri. Nel momento in cui si verifica una difformità tra l’applicazione prefigurata e quella
che noi stessi o gli altri siamo in grado di svolgere il funzionamento del relativo gioco
linguistico viene a cadere. Essendo poi sempre possibile, in teoria, che una reinterpretazione
dei segni e della loro applicazione possa mostrarsi funzionante, non ci sono mai gli estremi
per dire senz’altro che una certa applicazione del segno è fallimentare. Con un esempio già
svolto: che la rosa sia rossa anche nell’oscurità non ha applicazioni descrittive possibili, ma
può essere legittimata come uso poetico, metaforico o metafisico. Wittgenstein non ci dice
mai direttamente che un certo uso è impossibile, o illegittimo, ma semplicemente denuncia usi
apparenti, ma non di fatto funzionanti. Dove il linguaggio non funziona non si tratta
primariamente di imporre divieti o dare giudizi di valore, ma di manifestare l’impossibilità di
comprendere, e questo ha già di per sé la stessa portata di esplicite posizioni normative o
assiologiche.
Direttamente connessa a tale questione è quella circa la portata ontologica delle analisi
wittgensteiniane. In che senso l’oggetto e gli esiti di un’analisi che si mostra come
eminentemente linguistica possono trascendere la sfera del linguaggio in senso stretto e venir
considerate come indicazioni sull’essere? A legittimare questo modo di questionare sembrano
esserci anche i ripetuti passi dove Wittgenstein rimarca che le sue osservazioni sono
grammaticali e non empiriche o scientifiche. Quest’opposizione capitale è quella che
giustifica il tentativo stesso di formulare un’analisi dei concetti psicologici; a conclusione
delle Ricerche troviamo infatti scritto:
“La confusione e la sterilità della psicologia non si possono spiegare dicendo che è una
«scienza giovane»; il suo stato non si può paragonare, ad esempio, con quello della fisica ai suoi
primordi. (Piuttosto con quello di certi rami della matematica. Teoria degli insiemi.) In altre parole, in
psicologia sussistono metodi sperimentali e confusione concettuale. (Come, nell’altro caso, confusione
concettuale e metodo di prova.) – L’esistenza di metodi sperimentali ci fa credere di possedere i mezzi
133

per risolvere i problemi che ci assillano; per quanto problema e metodi non abbiano nulla da
spartire.” 266

L’analisi grammaticale è, senza resti, analisi concettuale. Ad essa viene contrapposta


l’indagine empirica e sperimentale. La chiave per intendere questa opposizione sta nel fatto
che, quando descriviamo uno stato di cose o quando formuliamo un’ipotesi da riscontrare
empiricamente, noi facciamo uso di concetti che hanno già inscritto in se stessi il loro ambito
d’uso, le conseguenze che se ne possono trarre, i loro nessi con altri concetti. Ora, se
l’operazione che l’esperimento vuole mettere alla prova per stabilire la validità di una certa
proposizione (legge) non rientra nelle operazioni che definiscono i rapporti tra i concetti che
rientrano in quella proposizione, l’esperimento risulta ridondante o fuorviante. In questo
senso l’analisi grammaticale non è un momento alternativo all’indagine
empirica/sperimentale, ma ne è un’essenziale precondizione. Dunque, anche, l’analisi
grammaticale ha un valore reale (ontologico) almeno quanto ne hanno i risultati dell’indagine
empirica/sperimentale, essendone parte costitutiva necessaria 267.
Ma c’è qualcosa di più. L’analisi grammaticale si colloca alla medesima altezza di
quella che nella metafisica tradizionale era l’indagine sull’essenza dell’ente, anche se il
metodo dell’analisi concettuale è radicalmente nuovo. Wittgenstein mostra come ciò che è
stato di volta in volta nominato come essenze intenzionali, ovvero come idee che i soggetti
rammemorano nel dialogo, ecc., è descrivibile in termini di usi linguistici, come giochi
linguistici consolidati. Tali usi, e questo è il punto dove una forma di relativismo sembra
potersi nascondere, sono appresi nel tempo e appartengono a certe culture. Tuttavia, è bene
notarlo, una tesi che derivi un’ontologia relativista dall’appartenenza dei concetti ad
ordinamenti linguistici storicamente determinati rappresenta solo una possibile filosofia della
storia, con dalla sua l’onere della prova: che ciò che è storico o temporale sia anche perciò
accidentale è tesi antica, ma certo non priva di ricche controargomentazioni (si pensi,
esemplarmente, ad una teoria della storia come quella hegeliana). Ovviamente non è qui luogo
per prendere posizione a questo proposito; tutto ciò che dobbiamo sottolineare è che la
riconduzione dell’analisi dei concetti, dell’essenza, ad ordinamenti linguistici storicamente
dati non implica di per sé una forma di relativismo culturale.

266
RF, p. 301.
267
Che poi la condizione di confusione concettuale in presenza di un metodo sperimentale sia proprio della
psicologia scientifica e non della fisica è affermazione non facilmente dimostrabile, e che, anzi, chi scrive
non si sente affatto di condividere. Che nella psicologia scientifica, nella psicofisiologia in particolare,
questa condizione problematica sia particolarmente acuta non toglie che vi siano ambiti della fisica (in
particolare, vorremmo dire, la cosmologia) in cui essa non è meno grave. Per una argomentazione di questa
opinione rinviamo al già citato Fenomenologia e genealogia della verità.
134

Infine, ciò che dobbiamo osservare è come l’analisi grammaticale, in quanto analisi
concettuale, si trova all’altezza delle questioni filosofiche più tradizionali, escludendone
soltanto un particolare approccio «metafisico». Come Wittgenstein sostiene, senza soluzione
di continuità dai tempi del Tractatus, ciò che va escluso come «metafisico» è l’idea che un
problema filosofico possa essere risolto con un’indagine empirica; ad esempio, che il
problema dell’eternità dell’anima possa essere risolto con esperimenti di psicofisiologia o che
il problema dell’origine del mondo possa essere risolto con teorie cosmologiche o che la
natura del tempo può essere indagata fisicamente. Dire però che ogni approccio a tali
problemi deve passare per un’analisi grammaticale non significa liquidare tali antiche e
profonde questioni relegandole ad un ambito «soggettivo»: non si tratta di dire che l’anima è
«in realtà» la nostra idea dell’anima, che l’universo è la nostra idea dell’universo, o il tempo
la nostra idea del tempo. I concetti, analizzati attraverso i relativi giochi linguistici, non sono
più soggettivi che intersoggettivi, più mentali che pratici, più «interni» che «esterni». Il limite
che l’analisi wittgensteiniana pone all’uso dei concetti è dato da ciò che con una nozione si
può intendere: è inutile parlare di una volontà onnipotente finché non riusciamo ad averne un
concetto, cioè applicazioni possibili. Ciò non toglie che, magari, un diverso approccio possa
portare alla luce un concetto comprensibile corrispondente all’espressione «volontà
onnipotente», ma finché ciò non accade ogni occorrenza di tale espressione come fondamento
di un’argomentazione è un abuso. In questo senso la realtà non è risolta nel suo concetto,
giacché, e di questo abbiamo un concetto, i concetti si apprendono in pratiche reali; tuttavia di
una realtà che va al di là del concetto che ne abbiamo, di un essere che va al di là del
linguaggio che ne parla, è insensato parlare.
135

BIBLIOGRAFIA

La natura introduttiva di questo lavoro ci ha indotto a tralasciare pressoché


integralmente un confronto critico con altre interpretazioni. Peraltro va anche detto che la
letteratura secondaria specificamente dedicata alla «filosofia della psicologia» di Wittgenstein
è tutt’altro che estesa, soprattutto se comparata con quella vastissima dedicata ad altri aspetti
del suo pensiero. In questa sede vogliamo soltanto suggerire al lettore alcuni titoli che
possano introdurlo più articolatamente all’oggetto di questo breve lavoro.
In primo luogo vanno menzionati alcuni lavori di natura introduttiva all’insieme del
pensiero wittgensteiniano; possiamo citare a questo proposito
Gargani A.G., Introduzione a Wittgenstein, Bari, Laterza, 1973.
Kenny A., Wittgenstein, London, Allen Lane, 1973 (trad. it.: Torino, Boringhieri, 1984).

Sempre sull’insieme del pensiero di Wittgenstein, ma di carattere maggiormente


critico possiamo ricordare:
Fogelin R., Wittgenstein, London, Routledge, 1976.
Gargani A. G., Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, Firenze, Le Monnier, 1966.
Hacker P.M.S., Insight and Illusion, Oxford, Clarendon Press, 1972.
Pears D.F., Wittgenstein, New York, Viking Press, 1970.
Pitcher G., The Philosophy of Wittgenstein, Englewood Cliffs, N.J., 1964.

Va ricordato a parte il libro di von Wright G., Wittgenstein, Oxford, Blackwell, 1982
(trad. it.: Bologna, Mulino, 1983.), non tanto sul piano critico, quanto per il suo essenziale
contributo filologico relativo alla storia della redazione dei testi wittgensteiniani e
all’ordinamento ai fini della pubblicazione.
Sul Tractatus esiste una letteratura vastissima, ma possono essere menzionati in
particolare come introduzioni (non elementari) al testo nel suo insieme:
Anscombe G.E.M., An Introduction to Wittgenstein’s Tractatus Logico-Philosophicus,
London,
Hutchinson, 1959. (trad. it.: Roma, Ubaldini, 1966.)
Black M., A Companion to Wittgenstein’s Tractatus Logico-Philosophicus, Ithaca, N.Y., 1967
(trad.
it.: Roma, Ubaldini, 1967).
Stenius E., Wittgenstein’s Tractatus Logico-Philosophicus, Oxford, Basil Blackwell, 1960.

Sulle Ricerche Filosofiche esistono diverse introduzioni, più o meno articolate; tra le
più dettagliate, ricordiamo:
Baker G.P. e Hacker P.M.S., Wittgenstein: Understanding and Meaning. An Analytical
136

Commentary on the Philosophical Investigations, Oxford, Blackwell, 1980 (vol. 1),


1985
(vol. 2).
Hallett G.L., A Companion to Wittgenstein’s Philosophical Investigations, Ithaca, N.Y.,
Cornell
University Press, 1976.
Von Savigny E., Der Mensch als Mitmensch, DTV, München, 1996.

Infine sulla «filosofia della psicologia», emersa relativamente tardi all’attenzione dei
critici come ambito autonomo di indagine, possiamo menzionare:
Budd M., Wittgenstein’s Philosophy of Psychology, London, Routledge, 1991.
Rust A., Wittgensteins Philosophie der Psychologie, Frankfurt, Klostermann, 1996.
Schärtl Th., Jenseits von Innen und Außen, Münster/Hamburg/London, 2000.
Schulte J., Erlebnis und Ausdruck, München, Philosophia Verlag, 1987.

Vi sono poi numerosi testi su singoli aspetti del pensiero wittgensteiniano che abbiamo
qui trattato come afferenti alla filosofia della psicologia, dalle analisi sui colori, alla critica
della nozione di linguaggio privato, alla nozione di sensazione, e così via. A questo proposito,
vista l’ampiezza dei riferimenti, è opportuno che il lettore si rivolga senz’altro ad alcune
bibliografie generali sul pensiero wittgensteiniano, da cui eventualmente evincere riferimenti
ai particolari temi che si vogliano approfondire; ricordiamo nel novero delle bibliografie
wittgensteiniane le seguenti:
Lapointe F., Ludwig Wittgenstein: A Comprehensive Bibliography, Westport, Greenwood
Press,
1980.
Mc Guinness B., Frongia G., Ludwig Wittgenstein. Bibliographical Guide, Cambridge Mass.,
Basil
Blackwell, 1990.
Shanker V.A.S., Wittgenstein Bibliography, Croom Helm, 1986.
137

INDICE

INTRODUZIONE............................................................................................................................................... 7
VERSO LA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA ........................................................................................... 10
1. Immagine e soggetto. ................................................................................................................................ 10
2. La natura dei giochi linguistici .................................................................................................................. 12
CONCETTI PSICOLOGICI ............................................................................................................................. 14
DISPOSIZIONI................................................................................................................................................. 15
1. Comprendere ............................................................................................................................................. 15
2. Sapere (potere) .......................................................................................................................................... 31
3. Credere ...................................................................................................................................................... 35
VOLIZIONI ...................................................................................................................................................... 43
1. Aver l’intenzione (Beabsichtigen) ed intendere (Meinen) ........................................................................ 43
2. Volere (desiderare) .................................................................................................................................... 49
3. Interpretare ................................................................................................................................................ 55
SENSAZIONI (PERCEZIONI, IMPRESSIONI) ............................................................................................. 62
1. Sensazioni e realtà ..................................................................................................................................... 62
2. Grammatica dei colori ............................................................................................................................... 67
3. Sulla privatezza delle sensazioni e del linguaggio .................................................................................... 75
4. Dalle sensazioni alle emozioni: il concetto del dolore .............................................................................. 88
EMOZIONI (MOTI DELL’ANIMO; SENTIMENTI) ..................................................................................... 90
Dalle emozioni alle disposizioni: speranza ed aspettativa........................................................................... 102
L’IO E IL SUO LINGUAGGIO ..................................................................................................................... 108
1. Prima e terza persona dei verbi psicologici ............................................................................................. 109
2. Comportamento e comportamentismo .................................................................................................... 111
3. Linguaggio e pensiero ............................................................................................................................. 113
4. Interno ed esterno .................................................................................................................................... 116
SINTESI E CONCLUSIONI .......................................................................................................................... 124
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................ 135

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