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Gilles Deleuze
Spinoza
e il problema dell'espressione
Le definizioni correnti della filosofia male si applicano a Spinoza: pensatore
solitario e controverso, che concepisce la filosofia come un'impresa di libera-
zione e di demistificazione radicali, che ha equivalend solo in Lucrezio o più
tardi in Nietzsche. Il pensiero di Spinoza pone oggi questioni attualissime che
riguardano il ruolo dell'ontologia (teoria della sostanza), dell'epistemologia
(teoria dell'idea), dell'antropologia polirica (teoria dei modi, delle passioni e
delle azioni). L'oggetto di questo libro è di determinare il nesso fi-a queste tre
dimensioni: l'affermazione speculativa o l'univocità dell'Essere nella teoria
della sostanza; la produzione del vero o la genesi del senso nella teoria dell'i-
dea; la gioia prarica o l'eliminazione delle passioni tristi, l'organizzazione selet-
tiva delle passioni nella teoria dei modi. Queste tre dimensioni sono ordinate
secondo un concetto sistematico, quello di espressione (la sostanza si esprime
negli attributi, gli attributi si esprimono nei modi, le idee sono espressive).
Senza dubbio il concetto di espressione ha una lunga storia già prima di
Spinoza, esso ha caratterizzato una delle forme essenziali del neoplatonismo
cristiano ed ebraico così come si svilupparono nel Medioevo e nel Rinasci-
mento. In che modo allora Spinoza si inserisce nella tradizione espressionista?
La domanda è importante soprattutto perché anche Leibniz fa dell'espressione
uno dei suoi concetti fondamentali. In Spinoza come in Leibniz l'espressione
anima la teoria di Dio, delle creature e della conoscenza. In maniera indipen-
dente l'una dall'altra, le due filosofie si affidano all'idea di espressione per supe-
rare le difficoltà del cartesianesimo, per riproporre una filosofia della natura e
della sua potenza e per ricreare una logica e un'ontologia: un nuovo "materia-
lismo" e un nuovo "formalismo". Ma il modo in cui Spinoza comprende e svi-
luppa tale concetto, conferendogli una nuova struttura, costituisce forse il
cuore del suo pensiero e del suo stile, ed è uno dei segreri à&WEtica.
ISBN 978-88-86570-30-5
Spinoza
e il problema dell'espressione
Quodlibet
I
Prima edizione ottobre 7999
Quarta edizione febbraio 2014
Titolo originale
Spinoza et le problème de l'expression
ISBN 978-88-86570-30-5
Avvertenza del traduttore
Nel corso della traduzione, abbiamo preferito riprodurre e rispettare integralmente il siste-
ma di note e di citazioni dell'originale francese. Le opere di Spinoza, tranne YEpistolario,
sono designate dalle abbreviazioni dei titoli: BT (Breve Trattato)-, TEI ijrattato sull'emenda-
zione dell'intelletto)-, PFD [Principi dellafilosofia di Cartesio)-, PM [PensieriMetafisici)-, T I P [Trat-
tato teologico-politicó)-, E [Etica)-, TP [Trattatopoliticò). Gli altri testi, non spinoziani, sono cita-
ti nella traduzione italiana, quando utilizzata, oppure nell'edizione riportata dall'autore.
Per quanto riguarda l'Epistolario e il Trattato teologico-politico indichiamo il numero del-
la lettera o del capitolo seguito dal numero della pagina, mentre per le altre opere faccia-
mo direttamente riferimento al numero della proposizione, della dimostrazione, dello sco-
lio, del capitolo e del paragrafo.
Le traduzioni italiane utilizzate sono le seguenti: Breve Trattato, introduzione, edizio-
ne traduzione e note di F. Mignini.Japadre, L'Aquila 1986; Trattato sull'emendazione dell'in-
telletto, a cura di E. de Angelis, SE, Milano 1990; Principi dellafilosofiadi Cartesio, Pensieri
Metafisici, a cura di E. Scribano, Laterza, Roma-Bari 1990; Trattato teologico-politico, intro-
duzione di E. Giancotti, traduzione e commento di A. Droetto e E. Giancotti, Einaudi,
Torino 1972 (1980); Etica, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988 (1993); Trattato
politico, a cura di L. Pezzillo, Laterza, Roma-Bari 1991; Epistolario, a cura di A. Droetto,
Einaudi, Torino 1974.
Nei brani citati i corsivi sono di Deleuze.
Questo libro fu presentato dall'autore come tesi di dottorato complementare con il tito-
lo "L'idea di espressione nella filosofia di Spinoza".
Introduzione
Nella prima parte àtWEtica, l'idea di espressione appare fin dalla definizione 6:
"Per Dio intendo l'ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di
infiniti attributi, ciascuno dei quali esprìme un'eterna ed infinita essenza". Essa
acquista in seguito un'importanza sempre maggiore ed è ripresa in contesti
diversi. Spinoza dice talvolta: ciascun attributo esprime una certa essenza eter-
na ed infinita, un'essenza corrispondente al genere dell'attributo. Talaltra: cia-
scun attributo esprime Xessenza della sostanza, il suo essere o la sua realtà.
Talaltra ancora: ciascun attributo esprime l'infinità e la necessità esistenza
sostanziale, ovvero l'eternità'. Spinoza mostra senza dubbio con chiarezza
come si possa passare da una formula all'altra. Ciascun attributo esprime
un'essenza, ma in quanto esprime nel suo genere l'essenza della sostanza; e
poiché l'essenza della sostanza implica necessariamente l'esistenza, appartie-
ne a ciascun attributo di esprimere, oltre l'essenza, anche l'esistenza etema di
Dio^. Ciò nonostante, l'idea di espressione riassume tutte le difficoltà riguar-
danti l'unità della sostanza e la diversità degli attributi. La natura espressiva
degli attributi appare quindi come una delle tematiche fondamentali della
prima parte Adì'Etica.
Anche il modo è espressivo: "Qualunque cosa esiste esprime in un modo
certo e determinato la natura, ossia l'essenza di Dio''3. Si deve quindi distin-
guere un secondo livello dell'espressione, una sorta di espressione dell'espres-
sione. La sostanza si esprime in primo luogo negli attributi, ed ogni attributo
esprime un'essenza. Ma, in secondo luogo, anche gli attributi si esprimono: si
' Le formule si trovano adVEtica: i) aetemam et infinitam certam essentiam exprimit {I, io, se.); 2)
divinae substantiae essentiam exprimit (I, ly, dim.); realtitatem sive esse substantiae exprimit (1,10, se.); 3)
existentiam exprimunt (1,10, se.). Le tre formule sono riunite nello seolio di L 10, il quale comporta,
a tale proposito, sfumature e variazioni estremamente sottili.
^ E, L 19 e 20, dim.
3 E, L 36, dim. (efr. anehe 25, eoroilario: Modi quibus Dei attributa certo et determinato modo expri-
muntur).
I,, SL'INO/A I! II. l'KOIll.UMA Dlil l.'liSI'RI'.S.SIONK
esprimono nei modi die ne dipendono, e ciascun modo esprime una modifi-
cazione. Vedremo che il primo livello deve essere inteso come una vera e pro-
pria costituzione, quasi come una genealogia dell'essenza della sostanza. Il
secondo deve essere inteso come una vera e propria produzione delle cose. In
effetti. Dio produce infinite cose perché la sua essenza è infinita; ma poiché
possiede infiniti attributi, produce necessariamente le cose in infiniti modi,
ciascuno dei quali rimanda all'attributo nel quale è contenuto^. L'espressione
non è, in sé, una produzione, ma lo diventa al secondo livello, quando l'at-
tributo si esprime a sua volta. Inversamente, l'espressione-produzione ha il
proprio fondamento nella prima espressione. Dio si esprime per se stesso
"prima" di esprimersi nei suoi effetti; Dio si esprime costituendo per sé la
natura naturante, prima di esprimersi producendo in sé la natura naturata.
La nozione di espressione ha una portata non solo ontologica, ma anche
gnoseologica. Questo non deve stupire, dal momento che l'idea è un modo
del pensiero: "I pensieri singolari, ossia questo o quel pensiero, sono modi che
esprimono la natura di Dio in maniera certa e determinata"'. La conoscenza
diventa così una specie dell'espressione. Il rapporto che la conoscenza delle
cose ha con la conoscenza di Dio è lo stesso che hanno le cose con Dio: "Poi-
ché senza Dio nulla può essere né essere concepito, è certo che tutte le cose
che sono in natura implicano ed esprimono il concetto di Dio in ragione della
loro essenza e della loro perfezione, e perciò quanto meglio conosciamo le
cose naturali, tanto maggiore e più perfetta conoscenza di Dio acquistiamo"^.
L'idea di Dio si esprime in tutte le nostre idee come origine e causa, cosicché
tutte le idee riproducono esattamente l'ordine dell'intera natura. E l'idea, a sua
volta, esprime l'essenza, la natura o la perfezione del suo oggetto: la defini-
zione o l'idea esprimerebbero la natura della cosa quale è in sé. Le idee sono
tanto più perfette quanta più perfezione o realtà di un oggetto esprimono; le
idee che l'intelletto forma "assolutamente" esprimono quindi rinfinità7. La
mente concepisce le cose sotto la specie dell'eternità perché possiede l'idea
che, sotto questa specie, esprime l'essenza del corpo®, come se la concezione
dell'adeguato in Spinoza sia inseparabile da una simile natura espressiva del-
l'idea. Il Breve Trattato tenta già di definire la conoscenza non come un'ope-
razione estema alla cosa ma come una riflessione ed una espressione della cosa
4 E, 1, i6, dim.
s E, II, I, dim.
® TTP, cap. 4, pp. 105-106.
7 TEI, 108 (infinilatem exprimunt).
^ E, V, 29, prop. e dim.
mum
INTRODUZIONI! jj
nella mente. UEtica continua a far sua questa esigenza, anche se la interpreta
in maniera nuova. In ogni caso, non basta dire che il vero è presente nell'idea.
Bisogna andare più a fondo, e chiedersi: che cosa è presente nell'idea vera?
Che cosa si esprime nell'idea vera? Che cosa esprime l'idea vera? È in funzio-
ne del problema dell'espressione che Spinoza supera la concezione cartesiana
del chiaro e del distinto e forma la sua teoria dell'adeguato.
9 Cfr. BT, II, cap. 20, 4 (uytgedmkt)-, I, secondo dialogo, 12 (vertoonen)-, I, cap. 7 , 1 0 (vertoond).
» TEI, 76.
" E, 1,8, se. 2; Veram uniuscusque rei defmitionem nihil involvere neque exprimerepraeter definitae natu-
ram-, TEI, 95: Definitio, ut dicaturpeifecta, debebit intimam essentiam rei explicare. [Il francese distingue
envelopper e impliquer-, il primo traduce il latino involvere, mentre il secondo traduce implicare. L'ita-
liano non permette tale distinzione, per questo motivo, per non stravolgere il senso dell'interpreta-
zione deleuziana di Spinoza, abbiamo preferito seguire la traduzione corrente italiana del verbo lati-
no involvere, traducendo envelopper con "implicare". Ndt]
" E, 1,19, dira.; 20, dim.
y E, II, 45 e 46, dim.
ppassisi^ii'tJSHSHa
Cfr. A. Foucher de Careil, Leibniz, Descartes et Spinoza (1862). E. Lasbax è uno degli interpreti
che sostiene con maggior vigore l'identificazione fra l'espressione spinoziana e l'emanazione neo-
platonica: La Hiérarcììie dans Wnivers chez Spinoza, Vrin, Paris 1919.
E. Erdmann interpreta gli attributi spinoziani sotto l'influenza di Hegel, considerandoli sia
forme dell'intelletto che forme della sensibilità (Versuch einerwissenschaftlichen Darstellungdnneueren
Philosophie, 1836; Crundriss der Geschichte der Philosophie, i86é).
J^ SL'lNO/A 1! II. l'ROni.l'.MA lllil l/liSPRliSSlONi;
è inferita .1 partire d.ti loro effetti. Sono mezzi, artifici, finzioni perché le figure
sono qui enti di ragione. Ciò non toglie che le proprietà, dedotte dal geometra
una dall'altra, possano acquisire un essere collettivo rispetto alle cause e ai mez-
zi della finzione^^. Ora, nel caso dell'assoluto, non vi è più alcuna finzione: la
causa non è più inferita a partire dall'effetto. Affermando che l'Assolutamente
infinito è causa, non affermiamo, come nel caso della rotazione del semicer-
chio, qualcosa che non è contenuto nel suo concetto, Non è quindi necessario
fingere affmché i modi, nella loro infinità, siano assimilati a proprietà colletti-
vamente dedotte dalla definizione della sostanza, e gli attributi a punti di vista
intemi alla sostanza sulla quale hanno presa. Di conseguenza, se la filosofia ha
bisogno della matematica, è perché la matematica perde con la filosofia i suoi
limiti ordinari. Il metodo geometrico non incontra difficoltà quando si applica
all'assoluto; anzi, l'assoluto è il modo naturale per superare le difficoltà che gra-
vano sul suo esercizio, fintantoché si applica agli enti di ragione.
Gli attributi sono punti di vista sulla sostanza, ma, nell'assoluto, i punti di
vista cessano di essere esterni, la sostanza comprende in sé i suoi infiniti pun-
ti di vista. I modi vengono dedotti dalla sostanza, così come le proprietà sono
dedotte da una cosa definita; ma, nell'assoluto, le proprietà acquistano un
essere collettivo infinito. Non è più l'intelletto finito che deduce le proprietà
una dall'altra, che riflette sulla cosa e la esplica riferendola ad altri oggetti. È
la cosa che si esprime e che si esplica. Allora tutte le proprietà "cadono sotto
un intelletto infinito". L'espressione non deve quindi essere oggetto di dimo-
strazione, perché è l'espressione che porta la dimostrazione nell'assoluto, che
fa della dimostrazione la manifestazione immediata della sostanza assolutamen-
te infinita. E impossibile comprendere gli attributi senza le dimostrazioni, poi-
ché le dimostrazioni sono la manifestazione di ciò che non è visibile, lo sguar-
do sotto cui cade quel che si manifesta. In tal senso, dice Spinoza, le
dimostrazioni sono gli occhi della mente, grazie ai quali percepiamo le cose^4.
TEI, 72: "Per formare il concetto di una sfera ne fingo una causa a piacere, cioè che un semi-
cerchio ruoti intorno al centro e che la sfera quasi risulti dalla rotazione. Questa idea è certamente
vera, e sebbene sappiamo che nella natura mai una sfera ha avuto origine in questo modo, tuttavia
questa percezione è vera ed è un modo facilissimo di formare il concetto della sfera. È da notare
inoltre che questa percezione afferma che il semicerchio mota, la quale affermazione sarebbe falsa
se non fosse unita al concetto della sfera".
^ E, V, 23, se.; TTP, cap. 13, p. 336: "Se qualcuno dice che non è necessario comprendere gli attri-
buti di Dio, ma che basta credere semplicemente in essi, senza alcuna dimostrazione, dice cose sen-
za senso. Infatti, le cose invisibili, che sono oggetto della sola mente, non possono essere viste con
altri occhi, che mediante le dimostrazioni; quindi, chi non le possiede non può avere di quelle cose
alcuna nozione".
PRIMA PARTE
' Cfr. M. Merleau-Ponty, Les Philosophes célèbres, Mazenod, Paris 1956, p. 136.
2() Sl'INO/A I! Il l'KoMII MA I)l.LL'LISRKIISSKINI!
Fin dall'inizio àdVEtica, Spinoza si domanda in che modo due cose, nel
senso più generale del termine, possano distinguersi, e in che modo due
sostanze, nel senso preciso del termine, debbano distinguersi. La prima
domanda prepara la seconda. E la risposta alla seconda domanda sembra
non lasciare dubbi: se è vero che due cose in generale differiscono o secon-
do gli attributi della sostanza o secondo i modi, allora due sostanze non pos-
sono distinguersi secondo il modo ma soltanto secondo l'attributo. E quin-
di impossibile che vi siano due o più sostanze dello stesso attributo^. Sul
fatto che Spinoza prenda qui le mosse in ambito cartesiano, non v'è alcun
dubbio. Ma dobbiamo anche considerare con molta attenzione quello che
prende in prestito da Cartesio, quello che rifiuta, e soprattutto quello che
accetta per rivolgerlo contro Cartesio.
In Cartesio ritroviamo esplicitamente il principio secondo cui esistono
solo la sostanza, che è in sé, ed i modi, che sono in altro^. E se i modi pre-
suppongono sempre una sostanza e sono sufficienti per farcela conoscere,
è in virtù di un attributo principale che essi implicano e che costituisce
l'essenza della sostanza: due o più sostanze si distinguono e sono conosciute
distintamente secondo i loro attributi principali^. La conclusione che Car-
tesio ne ricava è che noi concepiamo una distinzione reale fra due sostanze,
una distinzione modale fra la sostanza e il modo che la presuppone senza
reciprocità, e una distinzione di ragione fra la sostanza e l'attributo, senza il
quale non potremmo averne una conoscenza distinta'. L'esclusione, l'im-
^ E, I, 5, prop. e dira.
3 Spinoza espone la tesi cartesiana in questi termini, PM, II, y. "... si devono richiamare alla
memoria le cose che Cartesio ha sostenuto nei Principi dellafilosofia(parte I, articoli 48 e 49) e cioè
che nella natura non vi è altro che le sostanze e i loro modi; da ciò è ricavata questa triplice distin-
zione (articoli 60, 61 e 62), e cioè la reale, la modale e la distinzione di ragione."
+ Descartes, Principia philosophiae, I, 53; tr. it. [Principi della filosofia, in Operefilosofiche,a cura
di Ettore Lojacono, 2 voli., Utet, Torino 1994, voi. 2.
5 Ibid, I, 60, 61 e 62.
I.i; I HIADI l)l!l,l,A M)SIAN/A 21
Descartes, Risposte alle quarte obiezioni, in Obiezioni e risposte, tr. it. di A. Tilgher, Operefilo-
sofiche, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 216.
HI iiji '''''''''^lIBBWBIliP'''''''
cose non sarebbero distinte se non vi fosse al di fuori della definizione una
causa esterna per la quale esse esistono in un certo qual numero. Due o
più cose numericamente distinte presuppongono quindi qualcos'altro al di
là del loro concetto. Per questo sostanze numericamente distinte potreb-
bero esistere soltanto se vi fosse una causalità esterna in grado di produrle.
Quando affermiamo che più sostanze sono prodotte, facciamo in realtà una
gran confusione. Diciamo infatti che hanno una causa, ma non sappiamo
come questa causa possa procedere; pretendiamo di avere un'idea vera di
queste sostanze, poiché esse sono concepite per sé, ma dubitiamo che que-
sta idea sia vera, perché non sappiamo se esse esistano per sé. Ritroviamo
qui la critica di quella strana formula cartesiana: ciò che può esistere per sé.
La causalità esterna ha si un senso, ma solo rispetto ai modi esistenti finiti:
ogni modo esistente rimanda ad un altro modo proprio perché non può
esistere per sé. Quando applichiamo alle sostanze questa causalità, la fac-
ciamo intervenire al di fuori delle condizioni che la legittimano e la deter-
minano. L'affermiamo a vuoto, togliendole ogni determinazione. Insomma,
la causalità esterna e la distinzione numerica condividono la stessa sorte:
si applicano ai modi e soltanto ai modi.
L'argomento dello scolio 8 si presenta dunque così: i) la distinzione
numerica richiede una causa esterna, alla quale rimanda; 2) ora, è impossi-
bile applicare una causa esterna ad una sostanza, per la contraddizione
implicita in questo uso del principio di causalità; 3) due o più sostanze non
possono distinguersi in numero, quindi non si possono dare due sostanze del-
lo stesso attributo. L'argomento delle prime otto dimostrazioni non ha la
stessa struttura: i) due o più sostanze non possono avere lo stesso attribu-
to, perché dovrebbero distinguersi per i modi, il che è assurdo; 2) una sostan-
za non può quindi avere una causa esterna, non può essere prodotta o limi-
tata da un'altra sostanza, poiché dovrebbero avere tutte e due la stessa natura
o lo stesso attributo; 3) non esiste quindi una distinzione numerica in una
sostanza di un certo attributo, "ogni sostanza è necessariamente infinita"".
In precedenza, dalla natura della distinzione numerica, abbiamo dedot-
to la sua impossibilità ad applicarsi alla sostanza. Adesso, dalla natura del-
la sostanza, deduciamo la sua infinità, dunque l'impossibilità di applicarle
la distinzione numerica. La distinzione numerica non distingue mai le
sostanze, ma solo i modi che implicano lo stesso attributo. Il numero espri-
me infatti i caratteri del modo esistente: la composizione delle parti, la limi-
Non esistono più sostanze dello stesso attributo. Di qui deduciamo, dal pun-
to di vista della relazione, che una sostanza non possa essere prodotta da
un'altra sostanza; dal punto di vista della modalità, che alla natura della
sostanza appartenga l'esistere; dal punto di vista della qualità, che ogni
sostanza sia necessariamente i n f i n i t a ^ ' . Ma queste conclusioni sono in un
certo qual modo implicate nell'argomento della distinzione numerica. Ed
è proprio questo argomento che ci riporta al punto di partenza: "Esiste sol-
tanto un'unica sostanza dello stesso attributo""^. Ora, a partire dalla pro-
posizione 9, sembra che Spinoza cambi prospettiva. Non si tratta più di
dimostrare che esiste una sola sostanza per attributo, ma che esiste una sola
sostanza per tutti gli attributi. La correlazione fra queste due tematiche sem-
bra difficile da cogliere. Infatti, in questa nuova prospettiva, qual è l'im-
Lettera 81 a Tschirnhaus, p. 309. Cfr. anche la Lettera iz a Meyer: il numero non esprime
in maniera adeguata la natura dei modi nella loro infinità, vale a dire nel loro essere nella sostan-
za (p. 81).
'3. E, 1,15, se.
BT, I, capp. 19-22.
's E, I, prop. 5, 6, 7 e 8.
E, I, 8, se. 2.
l.i; IRIADI Ulil.l.A M»SIAN/A
•7 E, I, IO, se.
Cfr. l'interpretazione di P. Lachièze-Rey, Les Origines cartésiennes du Dieu de Spinoza, Vrin,
Paris 1950^, p. 151: "L'uso di questa distinzione non implica per nulla la sua ammissione da parte
di Spinoza; la distinzione reale rimane semplicemente un mezzo di dimostrazione utilizzato a
partire dall'ipotesi di una pluralità di sostanze e destinato ad annullare gli effetti possibili di
questa ipotetica pluralità".
'' Lettera9 a De Vries, p. 71. ì^dVEtica, il primo argomento si trova quasi letteralmente in 1 , 9 ;
il secondo, meno chiaramente, in 1 , 1 1 , se.
26 Sl'INO/A 11 II. l'KOMI I'.MA Wlil l.'ll.SI'RliSSIONi;
to questa analisi ci dice che è possibile attribuire tutti gli attributi ad un ente,
quindi passare dall'infinità di ciascun attributo all'assolutezza di un ente che
li possiede tutti. Il passaggio, essendo possibile o non implicando alcuna
contraddizione, si rivela, secondo la prova dell'esistenza di Dio, necessa-
rio. Meglio, è proprio l'argomento della distinzione reale a mostrarci che tut-
ti gli attributi sono infiniti. Infatti, non potremmo mai passare tramite tre
o quattro attributi senza reintrodurre nell'assoluto la stessa distinzione
numerica che abbiamo appena escluso dall'infinito^".
Se dividessimo la sostanza conformemente agli attributi, bisognerebbe
considerare la sostanza come un genere, e gli attributi come differenze spe-
cifiche. La sostanza sarebbe un genere che non ci permetterebbe di cono-
scere nulla di particolare; sarebbe allora distinta dai suoi attributi, come il
genere dalle sue differenze, e gli attributi sarebbero distinti dalle sostanze
corrispondenti, come le differenze specifiche e le specie. Facendo della
distinzione reale fra attributi una distinzione numerica fra sostanze, intro-
duciamo nella realtà sostanziale semplici distinzioni di ragione. Solo l'attri-
buto può determinare l'esistenza necessaria di una sostanza della stessa "spe-
cie"; la differenza specifica determina solo l'esistenza possibile di oggetti che
gli corrispondono nel genere. In questo caso si riduce la sostanza ad una
semplice possibilità di esistenza, e l'attributo indicazione, al segno di que-
sta esistenza possibile. Spinoza critica per la prima volta la nozione di segno
ntWEtica proprio in riferimento alla distinzione reale^^ La distinzione rea-
le fra attributi non è il "segno" di una diversità delle sostanze, così come
ogni attributo non è il carattere specifico di una sostanza che gli corrispon-
de o potrebbe corrispondergli. La sostanza non è un genere, gli attributi non
sono differenze, e le sostanze qualificate non sono specie^^. Spinoza critica
nello stesso modo il pensiero che procede per genere e differenza e il pen-
siero che procede per segni.
Régis, in un libro in cui difende Cartesio contro Spinoza, invoca l'esi-
stenza di due tipi di attributo, gli uni "specifici", che distinguono le sostan-
ze di specie diversa, e gli altri "numerici", che distinguono sostanze della stes-
sa specie^3. Ma è proprio questo che Spinoza rimprovera al cartesianesimo.
^ PM, II, 5.
28
Spinoza non dice che gli attributi esistono per sé, né che sono concepiti in
modo tale che l'esistenza segua o derivi dalla loro essenza. Non dice nean-
che che l'attributo è in sé e concepito per sé, come la sostanza. Dice solo che
l'attributo si concepisce per sé e in sé^ Lo statuto dell'attributo prende for-
ma attraverso le formule particolarmente complesse del Breve Trattato, così
complesse che il lettore può scegliere fra piìi ipotesi: presupporre diverse
date di redazione; segnalare tutte le imperfezioni del manoscritto; fare appel-
lo alle esitazioni del pensiero del giovane Spinoza. Ma questi argomenti
potrebbero essere validi solo se le formule del Breve Trattato non coincides-
sero fra di loro, e non coincidessero neanche con le formulazioni àtWEtica.
Non pare però che le cose stiano in questi termini. I testi del Breve Trattato
non sono superati ddlVEtica ma trasformati, grazie ad un uso più sistemati-
co dell'idea di espressione. Utilizzati in maniera inversa, possono quindi
informarci sul contenuto concettuale informato dall'idea di espressione in
Spinoza.
Questi testi ci dicono di volta in volta che: i) "all'essenza degli attributi
appartiene l'esistenza, così che al di fuori di essa non c'è alcuna essenza o esi-
stenza"; 2) "li concepiamo esclusivamente nella loro essenza e non nella loro
esistenza, cioè non concepiamo che la loro esistenza appartenga necessaria-
mente alla loro essenza"; "non li concepisci come esistenti da se stessi"; 3) esi-
stono "formalmente" e "in atto"; "dimostriamo a priori che esistono"^.
Secondo la prima formula, l'essenza in quanto tale non esiste al di fuo-
ri degli attributi che la costituiscono. L'essenza si distingue quindi negli attri-
buti nei quali esiste, ed esiste sempre in un genere, in tanti generi quanti
' Lettera 2 a Oldenburg, p. 39: quod concipiturper se et in se. Non ci sembra quindi fondata
l'affermazione di V. Delbos secondo cui, in questa lettera, l'attributo si definisce come la sostan-
za (cfr. La Doctrine spinoziste des attributi de Dieu, "Année philosophique", 1912).
^ Cfr. i) BT, Appendice, I, 4, cor; z) BT, cap. 2,17, nota e Dialogo Primo, 9; 3) BT, I, cap. 2,
passim e 17 nota.
JO Spinoza m, ii. l'Koiti.HMA.oiii I.'iisPRiis.sioNi!
il fatto che aveva preso il calzare del fratello"^. Il rapporto dello spinozistno
con la teoria dei nomi deve essere valutato da due punti di vista. In che modo
Spinoza si inserisce nella tradizione? Ma, soprattutto, come la rinnova? Pos-
siamo già intuire come la rinnovi doppiamente: concependo in modo diver-
so il nome o l'attributo, determinando in modo diverso l'attributo.
Gli attributi sono per Spinoza forme dinamiche ed attive. Ed è proprio
questo che ci sembra l'essenziale: l'attributo non è più l'attribuito ma è per
così dire l'^'attributore". Ogni attributo esprime un'essenza e l'attribuisce alla
sostanza. Tutte le essenze attribuite si confondono nella sostanza di cui sono
l'essenza. Fintantoché concepiamo l'attributo come qualcosa che è attribui-
to, siamo costretti a concepire una sostanza dello stesso genere o della stes-
sa specie; una sostanza che ha quindi, per sé, una sola esistenza possibile, poi-
ché la sua esistenza, conforme all'attributo che ce la fa conoscere, dipende
dalla buona volontà di un Dio trascendente. Se invece poniamo l'attributo
come "attributore", lo concepiamo come attribuente la sua essenza a qual-
cosa che rimane identico per tutti gli attributi, vale a dire ad una sostanza che
esiste necessariamente. L'attributo riferisce la sua essenza ad un Dio imma-
nente, che è al contempo principio e risultato di una necessità metafisica.
Questo significa che, in Spiinoza, gli attributi si presentano come veri e pro-
pri verbi, con un valore espressivo: essendo dinamici, non sono più attri-
buiti a sostanze variabili, ma attribuiscono qualcosa ad un'unica sostanza.
Ma che cosa attribuiscono e che cosa esprimono gli attributi? Ogni attri-
buto esprime un'essenza infinita, ossia una qualità illimitata. Si tratta di qua-
lità sostanziali, poiché qualificano tutte un'unica sostanza con tutti gli attri-
buti. Vi sono due modi per riconoscere un attributo: o si ricercano a priori
le qualità che si concepiscono come illimitate, oppure, partendo da ciò che
è limitato, si ricercano a posteriori le qualità che possono essere portate
all'infinito, cioè le qualità "implicate" nei limiti del finito. Così, da questo
o quel pensiero, arriviamo fino al pensiero come attributo infinito di Dio;
da questo o quel corpo, all'estensione come attributo infinito7.
Il metodo a posteriori deve essere analizzato con attenzione, poiché pone
il problema dell'implicazione dell'infinito. Esso ci fa infatti conoscere gli
attributi di Dio a partire dalle "creature", ma non procede né per astrazio-
ne né per analogia. Gli attributi non sono astratti dalle cose particolari, e
non sono neanche trasferiti a Dio in modo analogico. Si arriva agli attributi
direttamente, come a forme di essere comuni alle creature e a Dio, comuni ai modi e
alla sostanza. Il pericolo insito in un simile procedimento è evidente: l'an-
tropomorfismo, e, più generalmente, la confusione del finito con l'infini-
to. Nel metodo analogico, ci si propone esplicitamente di evitare l'antro-
pomorfismo: secondo san Tommaso, le qualità che attribuiamo a Dio non
comportano una comunanza di forme fra la sostanza divina e le creature,
ma solo un'analogia, una "convenienza" di proporzione o di proporziona-
lità. A volte Dio possiede formalmente una perfezione che rimane estrin-
seca nelle creature, a volte possiede eminentemente una perfezione che con-
viene formalmente con le creature. L'importanza dello spinozismo deve
essere valutata a partire dal modo in cui rovescia questo problema. Ogni-
qualvolta si procede per analogia, si prende per così dire in prestito dalle
creature un certo numero di qualità, e le si attribuisce a Dio in maniera equi-
voca ed eminente. Dio possiede così Volere e Intelletto, Bontà e Saggezza,
ma sempre in modo equivoco o eminente^ L'analogia non può fare a meno
dell'equivocità e dell'eminenza, e nasconde quindi un antropomorfismo sot-
tile, pericoloso come l'antropomorfismo ingenuo. È chiaro che il triango-
lo, se avesse la possibilità di parlare, direbbe che Dio è eminentemente trian-
golare. Il metodo analogico nega l'esistenza di forme comuni a Dio e alle
creature, ma, lungi dall'evitare il pericolo che denuncia, confonde costan-
temente le essenze delle creature con l'essenza di Dio. Talvolta sopprime
l'essenza delle cose, riducendo le loro qualità a determinazioni che con-
vengono intrinsecamente soltanto a Dio. Talaltra sopprime l'essenza di Dio,
prestandogli eminentemente ciò che le creature posseggono formalmente.
Spinoza afferma invece l'identità formale fra Dio e le creature, ma si guarda
bene dal confondere l'essenza.
Gli attributi costituiscono l'essenza della sostanza, ma non costituisco-
no assolutamente l'essenza dei modi o delle creature. Sono comunqueforme
comuni, perché le creature li implicano nella loro essenza e nella loro esi-
stenza. Di qui l'importanza della regola della convertibilità: l'essenza non
è solo ciò senza cui la cosa non può né essere né essere concepita, ma, reci-
® Per quanto riguarda la critica dell'equivocità, cfr. E, 1 , 1 7 , se. (Se la volontà e l'intelletto fos-
sero attribuiti a Dio, lo sarebbero in modo equivoco, vale a dire in modo puramente verbale, così
come il termine "cane" designa il segno celeste.) Per quanto riguarda invece la critica dell'emi-
nenza, cfr. la Lettera $6 a Boxel, p. 242. (Se il triangolo avesse la possibilità di parlare, direbbe
che Dio è eminentemente triangolare... Spinoza risponde qui a Boxel, il quale pensava che l'e-
minenza e l'analogia fossero le sole in grado di salvarci dall'antropomorfismo.)
Sl'INOZA H I I l'KOIII liMA DI'.l.l.'llSI'RUSSIONl!
procamentc, ciò che, senza la cosa, non può né essere né essere concepita.
È in base a questa regola che gli attributi costituiscono l'essenza della sostan-
za, ma non costituiscono assolutamente l'essenza dei modi, per esempio l'es-
senza dell'uomo: possono infatti benissimo essere concepiti senza i modi^.
Rimane il fatto che i modi li implicano, e che li implicano esattamente sotto
laforma che gli è propria, cioè in quanto costituiscono l'essenza di Dio. Gli attributi
contengono o comprendono quindi a loro volta le essenze dei modi, e le
comprendono formalmente, non eminentemente. Gli attributi sono forme
comuni a Dio, di cui costituiscono l'essenza, e ai modi, o alle creature, che li impli-
cano essenzialmente. Le stesse forme si affermano di Dio e delle creature,
anche se Dio e le creature differiscono quanto all'essenza e all'esistenza.
La differenza consiste nel fatto che i modi sono compresi soltanto sotto que-
ste forme, le quali invece sono reciprocabili con Dio. Questa differenza non
riguarda la ragione formale dell'attributo in quanto tale.
Spinoza, su questo punto, è conscio della sua originalità. Con il prete-
sto che le creature differiscono da Dio sia per l'essenza che per l'esistenza,
si cerca di togliere ogni comunanza formale fra Dio e le creature. In realtà,
è proprio il contrario: gli stessi attributi si dicono di Dio, che si esplica in essi,
e dei modi che li implicano - che li implicano sotto la stessa forma che con-
viene a Dio. Anzi: fintantoché si nega la comunanza formale, si è condannati
a confondere le essenze: le si confonde per analogia. Ma non appena si pone
la comunanza formale, si è in grado di distinguerle. Per questo Spinoza van-
ta il merito non solo di aver riportato alla condizione di creature delle cose
che fino ad allora erano considerate come attributi di Dio, ma anche di aver
elevato al rango di attributi di Dio delle cose che erano considerate come crea-
ture'". Spinoza non vede in generale nessuna contraddizione fra l'affermare
una comunanza di forme e porre una distinzione di essenze. Dice infatti: i)
se le cose non hanno nulla in comune fra di loro, una non può essere causa
dell'altra; 2) se una cosa è causa tanto dell'essenza quanto dell'esistenza di
un'altra, essa deve necessariamente differirne tanto in ragione dell'essenza
quanto in ragione dell'esistenza". Non ci sembra che l'unità di questi testi
ponga un particolare problema nello spinozismo. Allorché i corrispondenti
9 E, II, IO, scolio del corollario. La definizione insufficiente dell'essenza (ciò senza cui la cosa
non può né essere né essere concepita) si trova in Suarez: cfr. E. Gilson, Index scolastico-cartésim,
pp. 105-106.
Lettera 6 a Oldenburg, p. 62.
" Cfi-.: i) E, 1 , 3 , prop.; 2) E, 1 , 1 7 se. (Al fine di trovare un'unità fi-a questi testi, si sono cer-
cati differenti punti di vista: causalità immanente, causalità transitiva, ecc. Cfr. Lachièze-Rei,
Les Origine! cartésiennes du Dieu de Spinoza cit., pp. 156-159, nota.)
LH TRIADI l)HM,A .SOSTANZA
Spinoza può allora distinguere gli attributi dal proprio. Il punto di par-
tenza è aristotelico: il proprio è ciò che appartiene alla cosa ma non spiega
Lettera 4 a Oldenburg, p. 47: "Quanto alla vostra osservazione, che Dio non ha formal-
mente nulla in comune con le cose create, io ho proprio sostenuto il contrario nella mia defini-
zione" (si tratta della definizione di Dio come sostanza che consta di infiniti attributi). Lettera
64 a Schuller, p. 260: "Passo alla seconda difficoltà, e cioè se una cosa possa produrne un'altra
dalla quale differisca sia per essenza che per esistenza, considerato che le cose le quali differiscono
in tal modo tra loro non sembrano avere nulla in comune. Ma, siccome le cose particolari, ad
eccezione di quelle che sono prodotte dalle loro simili, differiscono dalle loro cause sia di essen-
za che di esistenza, non vedo come possa esservi motivo di dubbio" (Spinoza rimanda qui alla
definizione del modo. E, I, 25, cor.).
. S p i n o z a k ii l ' K t m i i M-A i)i:i i.'i:.si'iii:,ssi()NI':
36
mai ciò che essa è. I propri di Dio sono quindi solo "aggettivi" che non ci
fanno conoscere nulla di sostanziale; Dio non sarebbe tale senza di essi, ma
Dio non esiste a causa di essi'^. Spinoza può, conformemente ad una lun-
ga tradizione, dare ai propri il nome di attributo; ma ci sarà sempre, a suo
parere, una differenza di natura fra i due tipi di attributo. Ma che cosa inten-
de dire Spinoza aggiungendo che i propri di Dio sono solo "alcuni modi che
possono essergli r i f e r i t i " Q u i , il termine modo non deve essere inteso
nel senso particolare che spesso gh dà Spinoza, ma in un senso più genera-
le, nel senso scolastico di "modalità di essenza". L'infinità, la perfezione,
l'immutabilità, l'eternità sono propri che si affermano di tutti gli attributi.
L'onniscienza e l'onnipresenza sono propri che si affermano di un attribu-
to determinato (il pensiero, l'estensione). Infatti, tutti gli attributi esprimo-
no l'essenza della sostanza, ogni attributo esprime un'essenza della sostan-
za. Ma i propri non esprimono nulla: "non possiamo conoscere, attraverso
quei propri, ciò che questo essere - a cui tali propri appartengono - sia e
quali attributi abbia"''. Non costituiscono la natura della sostanza, ma si
affermano di ciò che costituisce questa natura. Non formano quindi l'es-
senza di un Ente, ma solo la modalità di questa essenza, così come è for-
mata. L'infinità è il proprio della sostanza, vale a dire la modalità di ogni
attributo che ne costituisce l'essenza. L'onniscienza è il proprio della sostan-
za pensante, vale a dire la modalità infinita di questo attributo del pensie-
ro che esprime un'essenza della sostanza. I propri non possono essere attri-
buti appunto perché non sono espressivi. Sono piuttosto "nozioni impresse",
una sorta di caratteri stampati in tutti quanti gli attributi o soltanto in alcu-
ni di essi. L'opposizione fra gli attributi e i propri riguarda quindi due pun-
ti. Gli attributi sono verbi che esprimono essenze o qualità sostanziali; ma
i propri sono soltanto aggettivi che indicano la modalità di queste essenze
o di queste qualità. Gli attributi di Dio sono forme comuni, forme comu-
ni alla sostanza, che si reciproca con esse, e ai modi, che le implicano sen-
za alcuna reciprocità; ma i propri di Dio sono veramente propri di Dio,
che non sono predicati dei modi ma soltanto degli attributi.
Una seconda categoria di propri riguarda Dio come causa, cioè in quan-
to agisce o produce: non più infinito, perfetto, eterno, immutabile, ma cau-
sa di tutto, predestinazione, provvidenza'^. Ora, poiché Dio produce nei
suoi attributi, questi propri sottostanno allo stesso principio degli altri: alcu-
ni sono predicati di tutti gli attributi, altri soltanto di alcuni di essi. Que-
sta seconda categoria di propri sono ancora aggettivi, ma invece di indica-
re le modalità, indicano le relazioni di Dio con le sue creature o con le sue
produzioni. Infine, una terza categoria designa propri che non appartengo-
no neanche a Dio; Dio come sommo bene, misericordioso, giusto e carita-
tevole'7. A questo proposito, il Trattato teologico-politico può esserci utile.
Infatti il Trattato parla della giustizia e della carità divine come di "attributi
che gli uomini possono imitare con una determinata regola di vita"'^. Tali
propri non appartengono a Dio come causa; non si tratta più di un rapporto
fra Dio e le sue creature, ma di determinazioni estrinseche che indicano solo
il modo in cui le creature immaginano Dio. È vero che queste denomina-
zioni hanno un senso e un valore estremamente variabili: si arriva fino al
punto di conferire a Dio ogni sorta di eminenza, come bocca e occhi divi-
ni, qualità morali e passioni sublimi, monti e cieli. Ma, pur limitandosi
alla giustizia e alla carità, non si arriva mai alla natura di Dio, né alle sue
operazioni in quanto Causa. Adamo, Abramo e Mosé ignorano non solo i
veri attributi di Dio, ma anche la maggior parte dei propri della prima e del-
la seconda categoria'?. Dio si rivela loro attraverso denominazioni estrinse-
che, che fungono da ammonimenti, comandamenti o regole di vita. Bisogna
dire ancora una volta che questo terzo genere di propri non hanno nulla
di espressivo. Non sono espressioni divine, ma nozioni impresse nell'im-
maginazione per farci obbedire e per farci servire un Dio di cui ignoriamo
la natura.
•7 BT, I, cap. 7.
TTP, capitolo 13, p. 337.
,5 -j-j-p, capitolo 2, p. 56: per esempio, Adamo sa che Dio è causa di tutto, ma non sa che
Dio è onniscente e onnipresente.
Capitolo terzo
significa che Dio non sia cattivo; né che sia causa di bontà. Significa inve-
ce che ciò che chiamiamo bontà nelle creature "preesiste" in Dio, secondo
una modalità più alta che conviene con la sostanza divina. Qui, è ancora
una volta il dinamismo a definire il nuovo metodo, un dinamismo che con-
serva i diritti del negativo e dell'eminente, ma comprendendoli nell'analo-
gia: si risale da una negazione preliminare ad un attributo positivo, poiché
quest'attributo si applica a Dio formaliter eminentet^.
La filosofia araba e la filosofia ebraica hanno a che fare con lo stesso pro-
blema. Come possono i nomi applicarsi non solo a Dio ma anche all'essenza
di Dio? Devono essere considerati negativamente, ossia negati in base a cer-
te regole? Oppure devono essere affermati, in base ad altre regole? Dal pun-
to di vista dello spinozismo, le due tendenze appaiono ugualmente false,
perché falso è il problema al quale fanno riferimento.
È evidente che la divisione tripartita dei propri riproduce in Spinoza la
classificazione tradizionale degli attributi di Dio: i) denominazioni simbo-
liche, forme e figure, segni e riti, metonimie dal sensibile al divino; 2) attri-
buti di azione; 3) attributi di essenza. Si consideri una lista qualunque di
attributi divini: bontà, essenza, ragione, vita, intelligenza, saggezza, virtiì,
beatitudine, verità, eternità; oppure grandezza, amore, pace, unità, perfe-
zione. Ci si chieda se questi attributi convengano con l'essenza di Dio, e
se vadano intesi come affermazioni condizionali o come negazioni che indi-
cano solo l'ablazione di un privativo. Per Spinoza, queste domande non
hanno senso, perché la maggior parte di questi attributi sono soltanto pro-
pri. E quelli che non lo sono, sono enti di ragione, che non esprimono nul-
la della natura di Dio, né negativamente né positivamente. Ipropri non
nascondono Dio così come non lo esprimono. Non sono quindi né negativi né
positivi: in termini kantiani, diremmo che sono indefiniti. Se si confonde la
natura di Dio con i suoi propri, si ha inevitabilmente un'idea indefinita di
Dio. Di conseguenza, si oscilla fra una concezione eminente della nega-
zione e una concezione analogica dell'affermazione. Ciascuna concezione,
' Su tutti questi aspetti, cfr. M . de Gandillac, Intraduction aux ceuvres complètes du Pseudo-
Denys (Aubier, Paris 1941); La phibsophie de Nicolas de Cues (Aubier, Paris 1943). In quest'ultimo
testo, M. de Gandillac fa vedere come la teologia negativa da una parte e l'analogia dall'altra
riescano entrambe a combinare le affermazioni e le negazioni, ma in un rapporto dì contra-
rietà: "Al contrario quindi di Dionigi, che riduce le affermazioni a negazioni mascherate, Tom-
maso utilizza soprattutto l'apofasi per risalire, da una negazione preliminare, ad un attributo posi-
tivo. Dall'impossibilità del movimento divino dedurrà per esempio una prova dell'Eternità divina;
farà, dell'esclusione della materia, un argomento decisivo in favore della coincidenza in Dio
dell'essenza e dell'esistenza" (p. 272).
Sl'INO/A I' Il l'IKIIllUMA |)|:l I'HM'KliSSIONi;
nel suo dinamismo, implica qualcosa di un'altra. Si crea una concezione fal-
sa della negazione perché si introduce l'analogia in ciò che è affermato.
Ma l'affermazione, quando non è più univoca o non si afferma formalmente
dei suoi oggetti, non è più tale.
Una delle tesi principali di Spinoza è che la natura di Dio non è mai sta-
ta definita perché è sempre stata confusa con i "propri". Si spiega così il suo
atteggiamento nei confronti dei teologi. Ma i filosofi hanno seguito i teolo-
gi: anche Cartesio crede che la natura di Dio consista nell'infinitamente
perfetto. Eppure l'infmitamente perfetto è solo una modalità di ciò che costi-
tuisce la natura divina. Gli elementi costitutivi di Dio sono soltanto gli attri-
buti nel vero senso del termine, il pensiero e l'estensione, che sono le sue
espressioni costituenti, le sue affermazioni, le sue ragioni positive e formali,
in una parola la sua natura. Bisogna tuttavia domandarsi perché tali attribu-
ti, che non sono nascosti per vocazione, siano stati ignorati, perché Dio sia
stato snaturato, confuso con i suoi propri che ne fornivano un'immagine
indefinita. Bisogna trovare un motivo in grado di spiegarci perché i prede-
cessori di Spinoza, nonostante il loro genio, si siano limitati a considerare
le proprietà di Dio e non abbiamo saputo scoprire la sua natura.
La risposta di Spinoza è semplice: non si è trovato un metodo storico,
critico ed interno per interpretare la Scrittura^. Non ci si è mai chiesti qua-
le fosse il progetto dei testi sacri, e li si è sempre considerati come la Paro-
la di Dio, come il mezzo dell'espressione divina. Quel che dicono di Dio è
parso come tutto ciò che può essere "espresso", e quel che tacciono come l'i-
nesprimibile^. Non è mai stata posta la domanda se la rivelazione religiosa
avesse a che fare con la natura di Dio, se avesse come fine di farci conosce-
re questa natura e se avesse bisogno dei tanti procedimenti, positivi o nega-
tivi, che gli si applicano per fornire la determinazione di tale natura. In
realtà, la rivelazione riguarda solo alcuni propri, poiché non si propone affat-
to di farci conoscere la natura divina ed i suoi attributi. È indubbio che le
tematiche della Scrittura siano eterogenee: siamo di fronte ad insegnamen-
^ TTP, cap. 7, p. 202: "La via indicata (da questo metodo) come vera e retta non fu mai pre-
sa in considerazione né seguita dagli uomini, e perciò con l'andar del tempo essa divenne così
ardua e quasi impervia". Cfr. anche cap. 8, p. 229: " M a temo di accingermi troppo tardi a que-
sto tentativo".
3 TTP, cap. 2, p. 54: " È sorprendente la facilità con la quale si è diffusa la convinzione che i
profeti sapessero tutto ciò che è accessibile all'umano intelletto: e benché alcuni passi della Scrit-
tura ci dicano nel modo più chiaro che i profeti ignorano certe cose, si preferisce dichiarare di
non riuscire a comprendere questi passi, piuttosto di riconoscere che i profeti hanno ignorato
qualcosa, oppure ci si sforza di modificare a tal segno le parole della Scrittura da far dire ad essa
quel che proprio non vuol dire".
l.l, IKIADI Olii I A SOSIAN/A
41
ti rituali particolari c ad insegnamenti morali universali, come anche ad un
insegnamento speculativo, lo stretto necessario per impartire un insegna-
mento morale. Ma nessun attributo è mai stato rivelato. Ci sono solo "segni"
variabili, denominazioni estrinseche che garantiscono il comandamento
divino. Tutt'al più vi sono "propri", quali l'esistenza divina, l'unità, l'onni-
scienza e l'onnipresenza, che garantiscono un insegnamento moralct. Infat-
ti, il fine della Scrittura è di insegnarci regole di vita, di farci obbedire e di
fondare l'obbedienza. E quindi assurdo pensare che la conoscenza possa
sostituirsi alla rivelazione: come può la natura divina, la cui conoscenza è
presupposta, servirci da regola pratica nella vita quotidiana? Ma è ancora più
assurdo pensare che la rivelazione ci faccia conoscere qualcosa della natu-
ra o dell'essenza di Dio. Una tale assurdità percorre tuttavia l'intera teolo-
gia, compromettendo così tutta quanta la filosofia. Da un lato si cerca di conci-
liare i propri della rivelazione con la ragione; dall'altro si scoprono i propri
della ragione, distinti da quelli della rivelazione. Ma non è così che si fuo-
riesce dalla teologia; ci si basa sempre su proprietà per esprimere la natura
di Dio. Ci si ostina a non riconoscere la loro differenza di natura con i veri
attributi, ed è quindi inevitabile che Dio sia in una posizione di eminenza
rispetto ai suoi propri. Se si concede ai propri un valore espressivo che non
hanno, si concede alla sostanza divina una natura inesprimibile che nean-
che lei possiede.
Mai si è andati così a fondo nella distinzione di due ambiti: la rivelazione
e l'espressione. Come anche nella distinzione di due relazioni eterogenee:
quella del segno e del significato, dell'espressione e di ciò che è espresso. Il
segno si riferisce sempre ad un proprio-, significa sempre un comandamento e
fonda la nostra obbedienza. L'espressione concerne sempre un attributo-, espri-
me un'essenza, vale a dire una natura all'infinito, e ce la fa conoscere. La
"Parola di Dio" ha quindi due sensi molto diversi fra loro: una Parola espres-
siva, che non necessita né di parole né di segni ma solo dell'essenza di Dio
e dell'intelletto dell'uomo. E una Parola impressa, imperativa, che opera per
segni e per comandamenti: una Parola che non è espressiva, ma che colpi-
sce la nostra immaginazione e ci infonde la necessaria obbedienza^. Possia-
Cfr. TTP, cap 14: l'elenco dei "dogmi della fede". Si può osservare che la rivelazione, anche
dal punto di vista dei "propri", è limitata. Tutto è incentrato sulla giustizia e la carità. L'infi-
nità, in modo particolare, non pare che sia rivelata nella Scrittura; cfr. cap. 2, dove Spinoza trat-
ta dell'ignoranza di Adamo, di Abramo e di Mose.
' Sui due sensi della "Parola di Dio", cfr. TTP, cap. 12. Il Breve Trattato contrapponeva già la
comunicazione immediata alla rivelazione per segni (II, cap. 24, 9-11).
^2. Sl'INO/A I! Il m m i llMA DUI l.'llSI'RUSSIONI!
« TTP, cap. I.
7 TTP, cap. 4, p. 109. Lettera 19 a Blyenberg, pp. 109-110.
8 Cfr. TTP, capp. 2 6 3 .
I.t! TRIADI l)l!I.I.A SOSTANZA ^^
Cfr. le formule ricorrenti nel Breve Trattato (soprattutto I, cap. 2), secondo cui gli attribu-
ti si affermano, e si affermano di una Natura che è positiva. Cfr. anche TEI, 96: "Ogni definizione
deve essere affermativa".
'' Cfr. a questo proposito le osservazioni di Lewis Robinson, e i testi dei cartesiani da lui cita-
ti: Kommentar zu Spinozas Ethik, Leipzig 1928.
BT, I, cap. 2, 5, nota. Sull'imperfezione dell'estensione per Cartesio, cfr. per esempio / Prin-
cipi (kllafilosofia cit., I, 23.
l,i; TKIADI Di;i,I.A SOSTANZA
brano uscite dal niciilc, le nature mancano sempre di qualcosa. Ritorna ad
operare così tutto quel che doveva essere espulso dalla logica della distin-
zione reale: la privazione e l'eminenza. Vedremo in seguito che l'analogia,
l'eminenza e perfino una certa qual equivocità rimangono categorie pressoché spon-
tanee del pensiero cartesiano. Bisogna invece giungere all'idea di un'unica
sostanza, con tutti gli attributi realmente distinti, per far emergere le con-
seguenze radicali della distinzione reale, concepita in quanto logica dell'af-
fermazione. Bisogna in primo luogo evitare ogni confusione non solo fra gli
attributi e i modi ma anche fra gli attributi e i propri.
La distinzione fra "ciò che è espresso" (il senso) e "ciò che è designato" (designatum, deno-
minatuni) non è nuova nelle teorie logiche della proposizione, benché si ritrovi in molti filosofi
moderni. L'origine si trova nella logica stoica, che distingue Vesprimibile e l'oggetto. Anche
Ockham distingue la cosa in quanto tale {extra animarti) e la cosa espressa nella proposizione {deck-
ratio, explicatio e significatio sono sinonimi àtWespressio). Alcuni discepoli di Ockham radicaliz-
zano ancora di più la distinzione, riallacciandosi ai paradossi stoici e facendo di "ciò che è espres-
so" un'entità non esistente, irriducibile alla cosa e alla proposizione; cfr. H. Elie, Le Complexe
significabk, Vrin, Paris 1936. Tali paradossi dell'espressione svolgono una funzione decisiva nella
logica moderna (Meinong, Frege, Husserl), ma la loro origine è antica.
1,1! TRIADI l)i:i.l,A SOSTANZA ^y
l'univocità dell'Ente: l'ente si dice con lo stesso significato di tutto ciò che è, fini-
to o infinito, anche se non nella stessa "modalità". L'ente non cambia natu-
ra cambiando modalità, ovvero quando il suo concetto è predicato dell'en-
te infinito e degli enti finiti (in Duns Scoto l'univocità non implica nessuna
confiisione fira le essenze)'^. E l'univocità dell'ente comporta l'univocità
degli attributi divini: il concetto di un attributo che possa essere innalzato
all'infinito è comune a Dio e alle creature, a patto di essere considerato
nella sua ragione formale o nella sua quiddità, poiché "l'infinità non toglie
per nulla la ragione formale di quello a cui si aggiunge"^". Dicendosi però
formalmente e positivamente di Dio, per quale motivo gli attributi infiniti
o i nomi infiniti non dovrebbero introdurre in Dio una pluralità corri-
spondente alle loro ragioni formali, alle loro quiddità distinte?
Scoto applica a questo problema un concetto, fra i più originali del suo
pensiero, che completa quello dell'univocità: l'idea della distinzione forma-
le^'. La distinzione formale concerne l'apprensione di quiddità distinte appar-
tenenti però ad uno stesso soggetto. Essa rimanda chiaramente ad un atto del-
l'intelletto, ma l'intelletto non si limita qui ad esprimere la stessa realtà sotto
due aspetti che possono esistere autonomamente in altri soggetti, né ad espri-
mere la stessa cosa a diversi gradi di astrazione, e neppure ad esprimere qual-
cosa analogicamente rispetto ad altre realtà. L'intelletto "afferra" oggettiva-
mente forme attualmente distinte, ma che, come tali, compongono un solo
ed unico soggetto. Fra animale e razionale, non c'è solo una distinzione di
ragione così come c'è fra homo-humanitas\ è necessario che la cosa stessa sia
già "strutturata secondo la diversità pensabile del genere e della specie"".
La distinzione formale è certamente una distinzione reale, dal momento
che esprime i diversi strati di realtà che formano o costituiscono un ente,
ed è per questo che si dice formalis a parte rei o actualis ex natura rei. Ma si trat-
ta di una distinzione reale ridotta ai minimi termini, poiché le due quiddità
realmente distinte si coordinano e compongono un unico ente^^. Reale ma
Duns Scoto, Opus oxoniense (ed. Vivès): per quanto riguarda la critica dell'eminenza e del-
l'analogia, I. D3, q. I, 2 e 3; per l'univocità dell'ente, I, D8, q. 3. Si è spesso sottolineato che
l'Ente univoco lascia sussistere la distinzione dei suoi "modi": se non lo si considera nella sua
natura, in quanto Ente, ma nelle sue modalità individuanti (infinito, finito), non è più univoco.
Cfi-. E. Gìhon, Jean Duns Scot, Vrin, Paris 1952, p. 89 e 629.
Op. ox, I, D8, q. 4 (a. 2, n. 13).
" Op. ox, I, D2, q. 4; D8, q. 4 (cfi'. anche E. Gìhon, Jean Duns Scot cit., cap. 3).
" M . de Gandillac, Duns Scot et la Via antiqua, in Le Mouvement doctrinal du IX^ au XIV^ siè-
ck, (Bloud et Gay, 1951), p. 339.
Op. ox., I, D2, q. 4 (a. 5, n. 43): La distinzione formale è minima in suo ordine, idest inter omnes
quae praecedunt intettectionem.
4« SPINI)/A i' ii ntcmii MA ni'ii'I;SI'KI:S.sioni;
non numerica, questo è lo statuto della distinzione formiiie^'', in più, biso-
gna aggiungere che, nel caso del finito, due quiddità come animale e razio-
nale comunicano solo in virtù del terzo termine, al quale sono identiche.
Il caso dell'infinito è diverso. Due attributi, portati all'infinito, sono anco-
ra formalmente distinti, pur essendo ontologicamente identici. Come dice
E. Gilson, "dal momento che è una modalità dell'ente (e non un attribu-
to), l'infinità può essere comune alle ragioni formali, quidditativamente irri-
ducibili, e dar loro l'identità nell'ente, senza togliere la loro distinzione nel-
la f o r m a l i t à " ^ ' . Due attributi di Dio, per esempio la Giustizia e la Bontà,
sono quindi nomi divini che designano un Dio assolutamente uno, pur
significando quiddità distinte. E come se avessimo a che fare con due ordi-
ni, l'ordine della ragione formale e l'ordine dell'essere, la pluralità dell'uno
conciliandosi perfettamente con la semplicità dell'altro.
Un tale statuto trova in Suarez un avversario dichiarato. Secondo Sua-
rez, la distinzione formale può essere ridotta o ad una distinzione di ragio-
ne o ad una distinzione modale^^. Quello che afferma è troppo o troppo
poco: troppo per una distinzione di ragione, ma troppo poco per una distin-
zione reale. Cartesio, su questo punto, la pensa come S u a r e z ^ 7 . Gli è diffi-
cile concepire una distinzione reale fra cose che non si trovano in soggetti
diversi, vale a dire che non sono accompagnati da una divisione nell'ente
o da una distinzione numerica. Per Spinoza è diverso: nella sua concezio-
ne della distinzione reale non numerica, non abbiamo difficoltà a ricono-
scere la distinzione formale di Scoto. Anzi, con Spinoza, la distinzione
formale non è più ridotta ai minimi termini, ma diventa la distinzione rea-
le, conferendo a quest'ultima uno statuto esclusivo.
i) Gli attributi sono in Spinoza realmente distinti, o concepiti come real-
mente distinti. Posseggono infatti ragioni formali irriducibili; ogni attribu-
to esprime un'essenza infinita, come sua ragione formale o quiddità. Dun-
que, gli attributi si distinguono "quidditativamente" o formalmente: sono
sostanze, in un senso puramente qualitativo; 2) ciascuno di essi attribuisce
Op. ox., II, D3, q. 1: la forma distinta possiede un'entità reale, ista unitas est realis, non
autem singularis vel numerdis.
E. Gìhon, Jean Duns Scot cit., p. 251.
^^ F. Suarez, Metaphysicarum disputationum, D VII.
Caterus, nelle Prime obiezioni, invoca la distinzione formale a proposito dell'anima e del
corpo. Cartesio risponde: "Per ciò che riguarda la distinzione formale, che questo dottissimo teo-
logo dice di aver tolto da Scoto, io rispondo brevemente che essa non differisce dalla modale, e
che non si estende che agli esseri incompleti" {Risposte alle prime obiezioni, in Obiezioni e risposte
cit., p. 113).
I.M TRIADI l)lil,l,A SOSIAN/A
lii sua essenza alla sostanza come ad altro. In altri termini: alla divisione for-
male fra attributi non corrisponde alcuna divisione nell'essere. La sostanza
non è un genere, e gli attributi non sono differenze specifiche: non vi sono
quindi sostanze della stessa specie degli attributi, cosi come non vi è una
sostanza uguale ad ogni attributo {formalitas)-, 3) Questo "altro" è lo stesso
per tutti gli attributi. E per giunta, è lo stesso di tutti gli attributi. Quest'ulti-
ma determinazione non contraddice affatto la precedente. Tutti gli attribu-
ti formalmente distinti sono rapportati dall'intelletto ad una sostanza onto-
logicamente una. Ma l'intelletto non fa altro che riprodurre oggettivamente
la natura delle forme che apprende. Tutte le essenze formali formano l'es-
senza di una sostanza assolutamente una. Tutte le essenze qualificate for-
mano un'unica sostanza dal punto di vista della quantità. Gli attributi sono
quindi, al contempo, identici nell'essere e distinti nella formalità. Lo statu-
to degli attributi è il seguente: ontologicamente uno, formalmente diversi.
Nonostante l'allusione al "ciarpame delle distinzioni peripatetiche", Spi-
noza ripristina la distinzione formale, dandole un'importanza che non ave-
va in Duns Scoto. La distinzioneformalefornisce un concetto assolutamente coe-
rente dell'unità della sostanza e della pluralità degli attributi, e conferisce una lo^ca
del tutto nuova alla distinzione reale. Ma allora perché Spinoza non usa mai que-
sto termine e parla sempre solo della distinzione reale? Perché la distinzio-
ne formale è, a tutti gli effetti, una distinzione reale. In più, Spinoza ha
interesse ad utilizzare un termine che Cartesio, per l'uso che ne ha fatto, ha
in qualche modo teologicamente neutralizzato; il termine "distinzione rea-
le" consente ampi spazi di manovra, senza per questo alimentare vecchie
polemiche, che Spinoza giudica inutili e dannose. Siamo convinti che il
cosiddetto cartesianesimo di Spinoza sia meno radicato di quanto si creda:
tutta la sua teoria delle distinzioni è profondamente anticartesiana.
Si rischia comunque di esagerare proponendo l'immagine di uno Spinoza
scotista e non cartesiano. In realtà, intendiamo soltanto dire che le teorie
di Duns Scoto erano certamente conosciute da Spinoza, e che possono aver
contribuito, insieme ad altre tematiche, alla formazione del suo panteismo^.
Interessante è quindi il modo in cui Spinoza utilizza e rinnova le nozioni
^ Non è proprio il caso di chiedersi se Spinoza abbia letto Duns Scoto. È improbabile che
l'abbia letto. Ma conosciamo, anche solo dall'inventario della sua biblioteca [cfr. l'"Inventario
della biblioteca di Spinoza" in J.M. L u c a s J . Colerus, Levile di Spinoza, Quodlibet, Macerata 1994,
pp. 149-174], il suo interesse per i trattati di metafisica e di logica, del tipo quaestiones disputatae\
in questi trattati si trovano sempre presentazioni dell'univocità e della distinzione formale di Sco-
to. Tali presentazioni fanno parte dei luoghi comuni della logica e dell'ontologia del XVI e del
Sl'INO/A I! Il i'HOill l'MA DHI.l 'liSI'KliSSIONi;
50
della distinzione formale e dell'univocità. Quali sono, per Duns Scoto, gli
"attributi"? Giustizia, bontà, saggezza, cioè propri. Egli sa perfettamente che
l'essenza divina può essere concepita senza questi attributi, ma definisce l'es-
senza di Dio facendo riferimento a perfezioni intrinseche, l'intelletto e la
volontà. Scoto è un "teologo", e, come tale, rimane prigioniero dei propri
e degli enti di ragione. Per questo la distinzione formale ha in lui una por-
tata limitata, e si applica sempre ad enti di ragione, generi, specie, facoltà
dell'anima, oppure a propri, per esempio i cosiddetti attributi di Dio. In piiì.
Scoto dà l'impressione di compromettere l'univocità per scrupolo di evita-
re il panteismo. Infatti, la prospettiva teologica, "creazionista", lo obbliga
a concepire l'Ente univoco come un concetto neutralizzato, indifferente. Indif-
ferente al finito e all'infinito, al singolare e all'universale, al perfetto e all'im-
perfetto, al creato e all'increato^^. Per Spinoza invece l'ente univoco è per-
fettamente determinato nel suo concetto, come ciò che si predica nello
stesso senso della sostanza che è in sé e dei modi che sono in altro. L'uni-
vocità diventa, con Spinoza, l'oggetto di un'affermazione pura. La stessa
COSA, formaliter, costituisce l'essenza della sostanza e contiene le essenze
dei modi. L'idea di causa immanente dà seguito all'univocità, liberandola
così dall'indifferenza e dalla neutralità alle quali la costringeva la teoria
della creazione divina. L'univocità trova nell'immanenza la formula pro-
priamente spinoziana: Dio si dice causa di tutto nello stesso senso (eo sensu)
in cui si dice causa di sé.
XVII secolo (cfr. per esempio il Colkgium hgicum di Heereboord). Siamo anche a conoscenza, gra-
zie alle ricerche di Gebhardt e di Revah, della probabile influenza di Juan de Prado su Spinoza;
ora, Juan de Prado conosceva sicuramente Duns Scoto (cfr. I.S. Revah, Spinoza et Juan de Prado,
Mouton, Paris 1959, p. 45). Bisogna aggiungere che i problemi della teologia negativa o positiva,
dell'analogia o dell'univocità dell'ente, e di uno statuto corrispondente delle distinzioni, non
appartengono propriamente al pensiero cristiano. Li possiamo invece ritrovare nel pensiero ebrai-
co del Medioevo. Alcuni interpreti hanno sottolineato l'influenza di Hasdai Crescas su Spino-
za, specialmente per quanto riguarda la teoria dell'estensione. Ma, più in generale, sembra che
Crescas abbia elaborato una teologia positiva, che implica l'equivalente di una distinzione for-
male fra attributi di Dio (Cfr. G. Vadja, Introduction à la pensée juive du Moyen Age, Vrin, Paris 1947).
Op. ox., I, D3, q. 2 (a. 4, n. 6): Et ita neuter ex se, sed in utroque iUomm includitur; ergo univocus.
Capitolo quarto
L'assoluto
3 BT, I, cap. 2, é. Il fatto che non esistano "due sostanze uguali" non contraddice l'uguaglianza
degli attributi: le due tematiche si implicano.
4 Derscartes, Terza Meditazione, in Meditazioni sulla filosofia prima, contenuto nelle Opere filo-
sofiche (a cura di E. Lojacono) cit, voi. i, p. 693 e p. 697.
l.l', TRIAOI l>HI,l,A SOSI AN/A 53
mare con verità che egli esiste"'. Nella premessa minore, la ricerca alla qua-
le Cartesio fa allusione riguarda la determinazione del "sommamente per-
fetto" in quanto forma, essenza o natura di Dio. L'esistenza, che è perfezio-
ne, appartiene a tale natura. Grazie alle premessa maggiore, si deduce invece
che Dio esiste effettivamente.
La prova ontologica implica quindi l'identificazione dell'infinitamente
perfetto con la natura di Dio. Se prendiamo infatti in considerazione le
seconde obiezioni, vediamo che la critica che viene mossa a Cartesio è di non
avere dimostrato, nella premessa minore, che la natura di Dio è possibile o
non implica contraddizione: se è possibile. Dio esiste. Leibniz riprenderà que-
st'obiezione in una serie di testi molto noti^. Cartesio, da parte sua, ribatte
che la difficoltà che si vuole denunciare nella premessa minore è già risolta
nella maggiore. La premessa maggiore non significa che ciò che concepia-
mo chiaramente e distintamente appartenere alla natura di una cosa possa
essere detto con verità appartenere alla natura di questa cosa, perché si trat-
terebbe di una semplice tautologia. Significa invece: "Ciò che chiaramente
e distintamente concepiamo appartenere alla natura di qualche cosa, può
essere detto o affermato con verità di questa cosa". Tale proposizione garanti-
sce la possibilità di tutto ciò che concepiamo chiaramente e distintamente.
Pretendendo un altro criterio di possibilità, in quanto ragion sufficiente da
parte dell'oggetto, non facciamo altro che confessare la nostra ignoranza, cioè
l'impotenza dell'intelletto a conoscere proprio quella ragione^.
Cartesio sembra da un lato intuire il senso dell'obiezione, ma dall'altro
sembra non capirlo o non volerlo capire. Egli viene criticato per non avere
dimostrato la possibilità della natura di un ente il cui "infinitamenteperfetto"
può essere soltanto il proprio. Forse, a non essere possibile, è proprio una simi-
le dimostrazione, ma, in tal caso, l'argomento ontologico non è probante®.
Ad ogni modo, l'infinitamente perfetto non ci fa conoscere nulla della natu-
ra dell'essere al quale appartiene. Se Cartesio pensa di avere risolto tutte le
difficoltà nella premessa maggiore, è perché confonde la natura di Dio con
un proprio: pensa che la concezione chiara e distinta del proprio sia suffi-
ciente per garantire la possibilità della natura corrispondente. È vero che a
XVII secolo. Per Spinoza, l'infinitamente perfetto è solo un proprio. Tale pro-
prietà non ci fa conoscere nulla della natura dell'ente al quale appartiene, e
non è sufficiente a dimostrare che questo ente non implichi contraddizio-
ne. Finché l'idea chiara e distinta non è afferrata come "adeguata", si può
rimettere in dubbio sia la realtà che la possibilità del suo oggetto. Finché non
si pone una definizione reale, che poggi sull'essenza di una cosa e non su pro-
pri (propria), si resta nell'ambito arbitrario di ciò che è semplicemente con-
cepito ed è privo di qualsiasi relazione con la realtà della cosa quale è fuori
dell'intelletto^. In Spinoza, corrie in Leibniz, la ragion sufficiente sembra
quindi far valere le sue prerogative. Spinoza fa dell'adeguazione la ragion suf-
ficiente dell'idea chiara e distinta, e dell'assolutamente infinito la ragion
sufficiente dell'infinitamente perfetto. La prova ontologica non conduce più
a un ente indeterminato, infinitamente perfetto, ma a un ente assolutamen-
te infinito, determinato in quanto consta di infiniti attributi. (L'infinitamen-
te perfetto è solo il modo di ciascuno di questi attributi, la modalità dell'es-
senza espressa da ogni attributo.)
Ma, se la nostra ipotesi è corretta, è sorprendente il modo in cui Spino-
za dimostra a priori che l'assolutamente infinito, ossia una sostanza che con-
sta di infiniti attributi, esiste necessariamente'^. La prima dimostrazione
afferma: se non esistesse, non sarebbe una sostanza, poiché ogni sostanza
esiste necessariamente. Seconda dimostrazione: se l'ente assolutamente infi-
nito non esistesse, dovrebbe darsi una ragione della sua non esistenza; tale
ragione dovrebbe essere interna, l'assolutamente infinito implicherebbe
quindi contraddizione; "ma affermare questo dell'Ente assolutamente infi-
nito e sommamente perfetto è assurdo". È evidente che queste argomenta-
zioni si fondano ancora sull'infinitamente perfetto. L'assolutamente infini-
to (la sostanza che consta di infiniti attributi) esiste necessariamente,
altrimenti non sarebbe una sostanza, né sarebbe infinitamente perfetto.
Ma il lettore ha tutti i diritti di richiedere una dimostrazione più approfon-
dita, e, soprattutto, preliminare. Bisogna infatti dimostrare che una sostan-
za, che esiste necessariamente, consta per natura di infiniti attributi, oppu-
re che l'assolutamente infinito è la ragione dell'infinitamente perfetto.
Ma Spinoza ha fatto quello che è nel diritto del lettore richiedere. L'i-
dea secondo la quale Spinoza, xvtVìEtica, "si stabilisce" in Dio e "comin-
cia" da Dio, è un'idea approssimativa e letteralmente inesatta. Vedremo
Sul carattere nominale della definizione di Dio basata sull'infinitamente perfetto, cfir. la Let-
tera 60 a Tschirnhaus, p. 254.
Cfi-. le due prime dimostrazioni di E, 1 , 1 1 ,
56 Si'iN()/.A I! Il l'HoniiiMA i)i ii 'i;,si'Ri;.s.si()Ni:
E, I, IO, se.: "Lungi dunque dall'essere assurdo attribuire a un'unica sostanza una pluralità
d'attributi".
I li TKIADI DI'I I.A SOSI'AN/A jj
Una controprova può essere fornita dall'analisi del Breve Trattato. Infatti,
c|uello che, a torto, si dice AtWEtica, può valere per il Breve Trattato, il qua-
le comincia proprio da Dio e dall'esistenza di Dio. In questa fase del suo
pensiero, Spinoza crede ancora che si possa cominciare dall'idea di Dio.
La prima formulazione dell'argomento a priori è del tutto conforme all'e-
nunciato cartesiano^^. In tal modo però l'argomento si svolge completa-
mente nell'ambito dell'infmitamente perfetto, e non ci permette di cono-
scere la natura dell'ente che gli corrisponde. La prova ontologica, cosi come
si trova all'inizio del Breve Trattato, non serve assolutamente a nulla. Spi-
noza vi aggiunge allora un secondo enunciato, assai oscuro ("L'esistenza è
essenza di Dio'')'7. A nostro parere, si può interpretare questa formula solo
dal punto di vista dell'assolutamente infinito, mentre non è possibile farlo
da quello dell'infinitamente perfetto. In effetti, affinché l'esistenza di Dio
sia essenza, è necessario che gli stessi "attributi" che costituiscono la sua
essenza costituiscano anche la sua esistenza. Ecco perché Spinoza aggiun-
ge una nota esplicativa, che anticipa il seguito del Breve Trattato e fa già
riferimento agli attributi di una sostanza assolutamente infinita: "Alla natu-
ra di un essere che ha infiniti attributi appartiene un attributo che è esiste-
re"^^. Ci sembra che le differenze fra il Breve Trattato e l'Etica siano le seguen-
ti: i) Il Breve Trattato incomincia con "Che Dio esiste", prima di ogni
definizione reale di Dio. Dispone quindi della prova cartesiana soltanto di
diritto, ed è obbligato a giustapporre a questa prova un altro enunciato che
anticipi il secondo capitolo ("Che cos'è Dio"); 2) MEtica, invece di giustap-
porre due enunciati, l'uno che procede dall'infinitamente perfetto e l'altro
dall'assolutamente infinito, propone una prova che, benché proceda ancora
dall'infinitamente perfetto, è però subordinata alla posizione preliminare
dell'assolutamente infinito. Al secondo enunciato del Breve Trattato viene
quindi meno la sua necessità, così come il suo carattere oscuro e disordi-
nato. Quest'enunciato avrà invece il suo equivalente ntWEtica, ma non
come prova dell'esistenza di Dio, bensì come prova della sua immutabihtà'^^.
BT, I, cap. I, I.
BT, cap. I, 2. (Sull'ambiguità della formula e la sua traduzione cfr. la nota di Appuhn, ed.
Garnier, p. 506.)
BT, I, cap. 2, nota 3.
' ' E, I, 20, dim. e cor.
58 S p i n o z a i! ii I'Koiii i'.ma i)hi,i.'iì.si'Ri;,s.si{)ni!
Cfr. Leibniz, Ekmenta cakuli. Pian de la science générak, Introductio ad Encyclopaediam Arca-
nam. Per quanto riguarda gli assolutamente semplici, puri "disparati", antecedenti le relazioni logi-
che, cfr. M. Gueroult, La Constitution de la subitanee ehez Leibniz in "Revue de métaphysique et
de morale", 1947.
E, I, IO, se.
6c) Si'iNo/A i( Il l'Himii'MA DI ii'i;si'Ki;ssi()Ni;
Lettera 2, a Oldenburg, p. 40; Lettera 4 a Oldenburg, p. 47; Lettere e 36 a Hudde, pp. 178-184.
Lettera 60, a Tschirnhaus, p. 2J4.
62 S l ' I N O Z A I! Il mUllKMA l)l'.l.l.'l'.SmiSSI()Nli
La potenza
' Leibniz, lettera alla principessa Elisabetta, 1678: "Bisogna confessare che i suoi ragionamenti
[le prove cartesiane dell'esistenza di Dio] sono un po' sospette, perché sono troppo precipitose
e ci aggrediscono senza illuminarci". II tema "troppo precipitoso" è costante: contro Cartesio,
Leibniz ribadisce il proprio gusto per lo spirito lento e pesante, il gusto per il contìnuo che impe-
disce i "salti", per le definizioni reali e i polisillogismi, per un ars inveniendi che proceda con
calma. Quando Leibniz critica Cartesio per aver creduto che la quantità di movimento si con-
servi, bisogna vedere in questa critica un aspetto particolare (senza dubbio particolarmente impor-
tante) di un'obiezione piià generale: Cartesio, a forza di esser troppo precipitoso, confonde, in
tutri i campi, il relativo con l'assoluto.
^ PPD, I, 7, se.: "Io non so cosa voglia dire con questo. Che cosa, infatri, chiama facile e
difficile?... Il ragno tesse facilmente una tela che gli uomini non potrebbero tessere senza gran-
dissime difficoltà".
64 Si'iNo/A I' Il l'iKinii'MA ni;i I'i;si'Ui:ssi()Ni',
caso, l'insieme della prova a posteriori procede secondo un esame delle quan-
tità di realtà o di perfezione considerate in quanto tali. Quando Spinoza
espone Cartesio, non può trattenersi dall'attaccare la seconda dimostrazione;
ritrova o riprende le obiezioni contro la nozione di "facile". Ma il modo in
I ui Io fa, lascia supporre che, quando parla a proprio nome, non sia affatto
più indulgente riguardo alla prima dimostrazione. In effetti, nell'opera di Spi-
noza si trovano numerose versioni della prova a posteriori dell'esistenza di
Dio. Crediamo che tutte abbiano qualcosa in comune, ossia tutte hanno come
unicofinedi sostituire l'argomento dette quantità di realtà con l'argomento dette poten-
ze, le une implicando una critica della prima dimostrazione cartesiana, le altre
una critica della seconda. È come se Spinoza suggerisse, in modi certo mol-
to diversi, sempre la stessa critica: Cartesio ha scambiato il relativo con l'as-
soluto. Nella prova a priori, Cartesio confonde l'assoluto con l'infinitamen-
te perfetto; ma l'infinitamente perfetto è soltanto un relativo. Nella prova a
posteriori, scambia la quantità di realtà o di perfezione con un assoluto; ma
anche questo è soltanto un relativo. L'assolutamente infinito in quanto ragion
sufficiente e natura dell'infinitamente perfetto; la potenza in quanto ragion
sufficiente della quantità di realtà: tali sono le trasformazioni correlative
che Spinoza impone alla prove cartesiane.
Il Breve Trattato non contiene traccia alcuna del secondo enunciato carte-
siano, ma conserva invece il primo, in termini simili a quelli di Cartesio: "Se
c'è un'idea di Dio, la sua causa deve esistere formalmente e deve contenere in
sé tutto ciò che l'idea contiene oggettivamente; ma un'idea di Dio esiste''^.
Tuttavia, è proprio la dimostrazione di questo primo enunciato ad essere
profondamente modificata. Abbiamo qui a che fare con una moltiplicazione
di sillogismi, che indicano una fase del pensiero di Spinoza che, per quanto
oscura essa sia, cerca di andare oltre l'argomento delle quantità di realtà e di
sostituirvi un argomento fondato sulla potenza. Il ragionamento è il seguen-
te: un intelletto finito non ha da se stesso il "potere" di conoscere l'infinito,
né di conoscere questo o quello; ma "può" conoscere qualcosa; bisogna quin-
di che un oggetto esista formalmente, un oggetto che lo spinga a conoscere
questo o quello; e "può" concepire l'infinito; bisogna quindi che Dio stesso
esista formalmente. In altre parole, Spinoza domanda: perché la causa dell'i-
dea di Dio deve contenere formalmente tutto ciò che questa idea contiene
oggettivamente? Questo vuol dire che l'assioma cartesiano non lo soddisfa
piià. L'assioma di Cartesio dice: deve esservi "almeno tanta" realtà formale nel-
vedere quello che cercava fin dal Breve Trattato: sostituire l'assioma carte-
siano, considerato oscuro, delle quantità di realtà con l'assioma delle poten-
ze: "'la potenza di pensare non è maggiore a pensare di quanto sia la poten-
za della natura a esistere e a operare'. Questo è un assioma chiaro e veritiero,
onde l'esistenza di Dio segue in modo del tutto chiaro ed efficace dalla
sua idea"'°
Dobbiamo comunque notare che Spinoza giunge tardi al pieno posses-
so del suo "assioma". Anzi, non lo enuncia completamente, perché ciò
implicherebbe una uguaglianza rigorosa fra le due potenze, e presenta come
assioma una proposizione che sa dimostrabile solo in parte. Dietro tutte que-
ste ambiguità, vi è un motivo. L'uguaglianza delle potenze può essere dimo-
strata più facilmente se si prende come punto di partenza un Dio che già esi-
ste. Quindi, nel momento in cui Spinoza perviene a una padronanza vera
di questa formula dell'eguaglianza, non la usa più per stabilire a posteriori
l'esistenza di Dio, ma le riserva un altro utilizzo in un altro ambito. In effet-
ti, l'uguaglianza delle potenze svolgerà un ruolo fondamentale nel libro II
àtWEtica, poiché sarà il fattore decisivo nella dimostrazione del paralleli-
smo, una volta provata l'esistenza di Dio.
Non bisogna dunque stupirsi se la prova a posteriori àtWEtica sia diver-
sa da quella del Breve Trattato e da quella del Trattato sull'emendazione. Deri-
va sempre dalla potenza, ma non passa più per l'idea di Dio o per una
potenza di pensare corrispondente per dedurre la potenza infinita di esi-
stere. Opera immediatamente nell'esistenza, attraverso la potenza di esi-
stere. VEtica si serve quindi delle indicazioni che Spinoza aveva già forni-
to nella versione modificata dei Principi. Qui, Spinoza esponeva la prima
dimostrazione cartesiana senza commenti né correzioni, nel mentre modi-
ficava radicalmente la seconda. Spinoza attaccava in modo molto violento
l'uso cartesiano del termine "facile", proponendo un altro tipo di ragiona-
mento. i) Quanta più realtà o perfezione una cosa possiede, tanto più gran-
de è l'esistenza che essa implica (esistenza possibile che corrisponde ai gra-
di finiti di perfezione, esistenza necessaria che corrisponde all'infinitamente
perfetto). 2) Chi ha la potenza (potentiam o vini) di conservare se stesso, non
necessita di alcuna causa per esistere, non solo per esistere "di esistenza pos-
sibile" ma anche di "esistenza necessaria". Chi ha la potenza di conservare
se stesso, esiste quindi necessariamente. 3) Ma io sono imperfetto, non ho
quindi l'esistenza necessaria, e non ho quindi neanche la potenza di con-
Senza dubbio Spinoza parla più spesso di uno sforzo di perseverare nel suo essere. Ma que-
sto conatus è potenza agendi. Cfr. E, III, 57, dim.: potentiaseu conatus. E, III, definizione generale degli
affetti: agendipotentia sive existendi vis. E., IV, 29, dim.: hominispotentia qua existit et operatur.
BT, II, cap. 20,3, nota 3: "Tale idea considerata [in sé], al di fuori di [ogni relazione con]
tutte le altre idee, non può essere niente più che un'idea di una tal cosa, senza che abbia una
conoscenza di una tal cosa. Poiché un'idea così considerata è solo una parte, non può avere il
concetto più chiaro e distinto di se stessa e del suo oggetto. Questo può [averlo] invece solo la
cosa pensante, che sola è l'intera Natura; infatti una parte, considerata fuori del suo tutto, non
può ecc."
•7 E, II, 5, dim.
70 Sl'INO/i^ l( It l'KOItl l'.MA DI'.l l.'liSI'RIÌSSIONIi
essenza oggettiva; in base alla quale, inoltre, viene attribuita alle idee una
potenza di conoscere identica all'essenza oggettiva che le definisce rispet-
tivamente. Gli enti finiti sono perciò condizionati, proprio perché sono
modificazioni necessarie della sostanza, o modi di un attributo; la sostan-
za è una sorta di totalità incondizionata, dal momento che possiede o rea-
lizza a priori infinite condizioni; gli attributi sono condizioni comuni,
comuni alla sostanza che li possiede in senso collettivo e ai modi che li
implicano in senso distributivo. Come dice Spinoza, Dio non "comuni-
ca" agli uomini le loro perfezioni servendosi di attributi umani (bontà, giu-
stizia, carità...)'^, ma comunica attraverso i suoi attributi la potenza che spet-
ta a tutte quante le creature.
Il Trattato Politico presenta una prova a posteriori simile a quella dei Prin-
cipi e àél'Etica-, gli enti finiti non possono esistere e conservarsi per mezzo
della loro sola potenza; per esistere e conservarsi, hanno bisogno della
potenza di un ente in grado di conservare se stesso e di esistere da se stes-
so; la potenza per la quale un ente finito esiste, si conserva e agisce è dun-
que la potenza stessa di Dio^9. Per un certo verso, si potrebbe pensare che
il testo intenda togliere ogni potenza che spetta alle creature. Così non è. Lo
spinozismo nel suo insieme è concorde nel riconoscere agli enti finiti una
potenza di esistere, di agire e di perseverare; e il contesto del Trattato politi-
co sottolinea che le cose hanno una loro potenza, identica alla loro essenza
e costitutiva del loro "diritto". Spinoza non intende sostenere che un ente
che non esiste per sé non ha potenza; vuol dire invece che ha una sua poten-
za solo se è parte di un tutto, ossia parte della potenza di un ente che esi-
ste per sé. (La prova a posteriori si fonda interamente su questo ragiona-
mento che dal condizionato conduce all'incondizionato.) Spinoza afferma
ntWEtica che la potenza dell'uomo è "una parte dell'infinita potenza di
Dio"^°. Ma la parte è irriducibile, è un grado di potenza originario e distin-
to da tutti gli altri. Siamo si una parte della potenza di Dio, ma solo in quan-
to tale potenza è "esplicata" dalla nostra stessa essenza^^ Spinoza pensa sem-
pre la partecipazione in termini di partecipazione di potenze, ma la
partecipazione di potenze non sopprime mai la distinzione delle essenze.
Spinoza non confonde mai un'essenza di modo con un'essenza di sostan-
za: la mia potenza rimane sempre la mia essenza, la potenza di Dio rima-
ne sempre la sua essenza, anche se la mia potenza non è altro che una par-
(e della potenza di Dio".
Come è possibile tutto ciò? Come conciliare la distinzione delle essenze
con la partecipazione delle potenze? La potenza o l'essenza di Dio può esse-
re "esplicata" da un'essenza finita perché gli attributi sono forme comuni a
Dio, di cui costituiscono l'essenza, e alle cose finite, di cui contengono le
essenze. La potenza di Dio si divide o si esplica in ogni attributo secondo le
essenze comprese in questo stesso attributo. Per questo il rapporto parte-tutto ten-
de a confondersi con il rapporto attributo-modo, sostanza-modificazione. Le cose fini-
te sono parti della potenza divina perché sono modi degli attributi di Dio. La
"riduzione" delle creature a modi, lungi dal toglier loro ogni potenza, mostra
invece come una parte di potenza appartenga loro in proprio, in modo
conforme alla loro essenza. L'identità fra l'essenza e la potenza si afferma
anche (alle stesse condizioni) dei modi e della sostanza. Queste condizioni
sono gli attributi, grazie ai quali la sostanza possiede un'onnipotenza identi-
ca alla sua essenza, in base ai quali i modi posseggono una parte di potenza,
identica alla loro essenza. Ecco perché i modi, che implicano gli attributi
che costituiscono l'essenza di Dio, sono detti "esplicare" o "esprimere" la
potenza divina^3. Ridurre le cose a modi d i un'unica sostanza non significa
farne delle apparenze o dei fantasmi, come credeva o faceva fmita di credere
Leibniz, ma farne invece degli enti "naturali", dotati di forza o di potenza.
" Ibid. : "La potenza dell'uomo, in quanto si esplica per mezzo della sua attuale essenza, è una
parte dell'infinita potenza, cioè essenza di Dio o Natura".
E, 1,36, dim.
^ L'identità fra potenza e atto, almeno nel noùs, è un tema frequente nel Neoplatonismo.
È presente sia nel pensiero cristiano che in quello ebraico. Nicolò Cusano ne deduce il concet-
to di Possest, che applica a Dio (M. de Gandillac, Laphilosophie de Nicolas de Cues, Aubier, Paris
1941, pp. 298-306), mentre Giordano Bruno la estende fino al "simulacro", ossia all'universo o
Natura (cfr. De la causa, principio et uno, terzo dialogo).
Tale tradizione trova già un esito in Hobbes (cfr. De Carpare, cap. X).
Sl'IN()/.A H II m m i K M A Ul.lt.'l'.M'KlSSUlNI'
72
riferimento all'essenza della sostanza, l'altra all'essenza del modo. Nello spi-
nozismo, infatti, ogni potenza reca con sé una capacità di essere affetta che
le corrisponde e che ne è inseparabile. La capacità di essere affetti è sem-
pre e necessariamente colmata. Alla potentia corrisponde una aptitudo o pote-
stas, ma tale capacità o potere è sempre effettuato, e perciò ogni potenza è
sempre attuale^^.
Un'essenza di modo è potenza, e le corrisponde in un modo una capa-
cità di essere affetto. Ma poiché il modo è una parte della natura, la sua capa-
cità è sempre colmata, sia da affezioni prodotte dalle cose esterne (affezio-
ni passive) sia dalle affezioni che si esplicano per mezzo della sua essenza
(affezioni attive). La distinzione fra potenza e atto, rispetto al modo, scom-
pare così a favore della correlazione fra due potenze ugualmente attuali,
potenza di agire e potenza di patire, che si modificano per ragioni oppo-
ste, ma la cui somma è costante e costantemente effettuata. Spinoza può così
presentare la potenza del modo come un'invariante identica all'essenza, poi-
ché la capacità di essere affetti rimane costante, ma anche come soggetta a
variazioni, poiché la potenza di agire (o forza di esistere) "aumenta" o "dimi-
nuisce" secondo la proporzione delle affezioni attive che contribuiscono a
colmare tale capacità in qualunque m o m e n t o ^ ^ . H modo comunque pos-
siede solo una potenza attuale: in ogni momento è tutto ciò che può esse-
re, la sua potenza è la sua essenza.
Al polo opposto, l'essenza della sostanza è potenza. Tale potenza asso-
lutamente infinita di esistere implica una capacità di essere affetti in infini-
ti modi. Ma, questa volta, la capacità di essere affetti può essere colmata sol-
tanto da affezioni attive. Come potrebbe infatti la sostanza assolutamente
infinita avere una potenza di patire, dal momento che questa presuppone
chiaramente una limitazione della potenza di agire? Essendo onnipotente in
sé e per sé, la sostanza è necessariamente capace di infinite affezioni, ed è
causa attiva di tutte le affezioni di cui è capace. Dire che l'essenza di Dio è
potenza equivale a dire che Dio produce infinite cose, in virtù della stessa
potenza mediante la quale esiste. Le produce, dunque, così come esiste. Causa di
tutte le cose "nello stesso senso" in cui è causa di sé, produce tutte le cose
nei suoi attributi, poiché i suoi attributi costituiscono nello stesso tempo
Spinoza parla spesso della capacità del corpo, che corrisponde alla sua potenza: il corpo è
atto {aptus) a fare e a patire (E, II, 13, se.); può essere affetto in molti modi (E, III, postulato I), la
superiorità dell'uomo dipende dal fatto che il suo corpo è "capace di molte cose" (E, V , 39). Inol-
tre, la potestas corrisponde alla potenza di Dio ipotentid)-. Dio può essere affetto in infiniti modi,
e produce tutte le affezioni di cui è in possesso (E, 1,35).
Per quanto riguarda la vis existendi, cfr. E, III, Definizione generale degli affetti.
I.i; TUIADI l)l.l,l.A SOSI AN/A
la sua essenza e la sua esistenza. Non basta quindi dire che la potenza di Dio
è attuale: essa è necessariamente attiva, è atto. L'essenza di Dio non è poten-
za senza che ne seguano infinite cose, proprio negli attributi che la costi-
tuiscono. I modi sono certamente affezioni di Dio, ma Dio non patisce mai
a causa dei suoi modi, perché possiede solo affezioni attive^®.
Ogni essenza è essenza di qualcosa. Al che, bisogna distinguere: l'es-
senza come potenza; ciò di cui è l'essenza; la capacità di essere affetta che
le corrisponde. Ciò di cui l'essenza è essenza, è sempre una quantità di realtà
o di perfezione. Ma una cosa possiede tanta più realtà o perfezione quanti
più sono i modi in cui può essere affetta: la quantità di realtà ha sempre la
ma ragione in una potenza identica all'essenza. La prova a posteriori si basa
sulla potenza degli enti finiti: si ricerca la condizione grazie alla quale un
ente finito possiede uria potenza e si arriva fino alla potenza incondiziona-
ta di una sostanza assolutamente infinita. In effetti, un'essenza di un ente
finito è potenza solo rispetto ad una sostanza di cui tale ente è modo. Ma il
procedimento a posteriori è solo il modo in cui possiamo giungere ad un
procedimento a priori ancora più profondo. L'essenza della sostanza asso-
lutamente infinita è onnipotente perché la sostanza possiede a priori tutte
le condizioni in base alle quali la potenza viene attribuita a qualcosa. Se è
vero però che i modi, in virtù della loro potenza, sono predicati in rappor-
to alla sostanza, è vero anche che la sostanza, in virtù della propria potenza,
viene predicata in rapporto ai modi: non può essere una potenza assoluta-
mente infinita di esistere senza che sia colmata, da infinite cose in infiniti
modi, la capacità di essere affetta che corrisponde a tale potenza.
Spinoza ci conduce così ad un'ultima triade della sostanza. A partire dal-
le prove della potenza, la scoperta di questa triade occupa la fine della pri-
ma parte Etica. La triade è la seguente: l'essenza della sostanza come
potenza assolutamente infinita di esistere; la sostanza come ens realissimum
esistente per sé; la capacità di essere affetti in infiniti modi, corrispondente
a tale potenza, necessariamente colmata da affezioni la cui sostanza è la cau-
sa attiva. Questa terza triade si situa accanto alle altre due. Non indica, come
la prima, la necessità di una sostanza che possiede tutti gli attributi; né, come
la seconda, la necessità per questa sostanza di esistere assolutamente. Indica
invece la necessità, per la sostanza esistente, di produrre infinite cose. Non
si limita solo a farci giungere ai modi, ma si applica o si comunica ad essi.
E ciò nonostante il modo presenti a sua volta la propria triade: essenza di
SECONDA PARTE
Il parallelismo e l'immanenza
Capitolo sesto
^E.II,3, se.
5 E, I, 25, se.: "Nel senso in cui D i o si dice causa di sé, deve anche dirsi causa di tutte le cose";
II, 3, se.: " C i è tanto impossibile concepire che Dio non agisca quanto concepire che Dio non sia";
IV, Pref.: "Dio o Natura agisce con la stessa necessità con la quale esiste".
^E,II, 7, se.
5 E, II, 3, se.: " C o m e tutti unanimemente affermano" (Vedi anche la Lettera 75- ad Oldenburg, p.
274)-
II. I'AKAI.I,I1I,ISM() li I.'IMMANIIN/A
sando se stesso, pensa anche tutte le altre cose che necessariamente ne seguo-
no: la tradizione aristotelica tendeva in questo m o d o verso un certo teismo,
talora perfino verso una sorta di panteismo che identificava il conoscente, la
conoscenza e il conosciuto (gli Ebrei ricordati da Spinoza sono dei filosofi
ebrei aristotelici).
A d ogni m o d o , la teoria spinozista dell'idea di D i o è troppo originale per
fondarsi su di un semplice assioma o per fare appello a una tradizione. Il fat-
to che D i o intenda se stesso, deve seguire dalla necessità della natura divina''.
Ora, da questo punto di vista, la nozione di espressione svolge un ruolo deter-
minante. D i o n o n si esprime senza intendere se stesso in quanto si esprime.
D i o n o n si esprime formalmente nei suoi attributi senza intendere se stesso
oggettivamente in un'idea. L'essenza di D i o n o n è espressa negli attributi
come essenza formale, senza essere espressa in un'idea come essenza oggetti-
va. Ecco perché, già nella definizione dell'attributo, Spinoza fa riferimento ad
un intelletto in grado di percepire. N o n che l'attributo sia "attribuito" dal-
l'intelletto: il termine "percepire" è sufficiente a indicare che l'intelletto coglie
solo ciò che è nella natura. M a gli attributi n o n esprimono l'essenza della
sostanza senza riferirsi necessariamente ad u n intelletto che li comprenda
oggettivamente, vale a dire che percepisca ciò che essi esprimono. In tal m o d o
l'idea di D i o trova il suo fondamento nella stessa natura divina: poiché D i o
possiede per natura un numero infinito di attributi, ciascuno dei quali "espri-
me" un'essenza infinita, da questa natura espressiva segue che D i o intende se
stesso e, intendendo se stesso, produce tutte le cose che " c a d o n o " sotto u n
intelletto infinito^. Le espressioni sono sempre esplicazioni. M a le esplicazioni
dell'intelletto s o n o soltanto percezioni. L'intelletto n o n esplica la sostanza,
ma le esplicazioni della sostanza rinviano necessariamente ad un intelletto
che le comprende. D i o intende se stesso necessariamente, così come si espli-
ca o si esprime.
^ Questo appare già nella dimostrazione di II, 3, che rimanda a 1,16. E lo scolio stesso sottolinea
questo riferimento ( Dalla necessità della natura divina segue che Dio intende se stesso").
7 E, 1,16, prop. e dim.
8o Sl'INt )/.A I! It IH( mi UMA I im l 'USPKI'.SSK )Ni:
capacità di essere affetto in infiniti modi, potestas che corrispondc alla sua
potenza o potentia. Tale capacità è necessariamente colmata, ma p u ò essere
colmata soltanto da affezioni che provengano da D i o ; quindi D i o produce
necessariamente e attivamente infinite cose che l'affettano in un numero infi-
nito di modi.
Il fatto che D i o produca necessariamente, ci dice al contempo come egli
produca. D i o , intendendo se stesso c o m e una sostanza composta da un
n u m e r o infinito di attributi, esistendo come una sostanza composta da u n
numero infinito di attributi, agisce così c o m e intende se stesso e così come
esiste, quindi in quegli attributi che esprimono sia la sua essenza che la sua
esistenza. Produce un numero infinito di cose, ma "in un numero infinito di
modi". Ossia: le cose prodotte n o n esistono al di fuori degli attributi che le
contengono. Gli attributi sono le condizioni univoche secondo le quali D i o
esiste e secondo le quali agisce. Gli attributi sono forme univoche e comuni:
sono predicati, secondo la stessa forma, delle creature e del creatore, dei pro-
dotti e del produttore, costituiscono formalmente l'essenza dell'uno, conten-
g o n o formalmente l'essenza degli altri. Il principio della necessità della pro-
duzione rinvia quindi ad una doppia univocità. Univocità della causa: D i o è
causa di tutte le cose nello stesso senso in cui è causa di sé. Univocità degli attri-
buti: D i o produce attraverso gli stessi attributi che costituiscono la sua essen-
za. Per questo Spinoza reitera in maniera costante una polemica: n o n cessa
infatti di dimostrare l'assurdità di un D i o che produca tramite attributi mora-
li, come bontà, giustizia o carità, o anche secondo degli attributi umani, come
intelletto e volontà.
Supponiamo, in analogia con l'uomo, che l'intelletto e la volontà siano attri-
buti anche di Dio*. N o n se ne esce, la volontà e l'intelletto continueranno sem-
pre ad essere attribuiti a D i o solo in un m o d o equivoco: in virtù della disfin-
zione di essenza fra l ' u o m o e D i o , la volontà e l'intelletto divini hanno con
l'umano una semplice "comunità di nome", come il Cane-segno celeste e il
cane-animale latrante. Ne derivano numerose assurdità, ad esempio il fatto che
D i o debba contenere in m o d o eminente le perfezioni mediante le quali produ-
ce le creature, i) Dal punto di vista dell'intelletto: diciamo che D i o è "onnipo-
tente" proprio perché "non può" creare le cose con le stesse perfezioni che inten-
de, vale a dire sotto le stesse forme che gli appartengono. In tal m o d o cerchiamo
di provare l'onnipotenza di D i o per m e z z o di un'impotenza?. 2) Dal punto di
® E, 1.17, se.
9 E, 1,17, se., e 1,33, se. 2. BT, cap. 4, 1-5.
Il, PARAM,HI.I,SM( ) i; I,'lMMANl!N/A 8l
vista della volontà: diciamo chc Dio avrebbe potuto volere un'altra cosa, o che
le cose avrebbero potuto essere di un'altra natura se D i o l'avesse voluto. Attri-
buiamo a D i o una volontà, facciamo di questa l'essenza di D i o ; ma allo stesso
tempo presupponiamo che avrebbe potuto avere un'altra volontà, quindi un'al-
tra essenza (a meno di fare della volontà divina un puro ente di ragione, nel qual
caso le contraddizioni si ripeterebbero); presupponiamo quindi che si possano
dare due o più dei. Questa volta, poniamo in D i o una variabilità e una pluralità
al fine di provare la sua eminenza^".
Stiamo semplificando le critiche di Spinoza. M a crediamo che, ogniqual-
volta egli combatta l'immagine di un D i o dotato essenzialmente di intelletto
e di volontà, sviluppi le implicazioni critiche della sua teoria dell'univocità.
Egli vuole dimostrare che l'intelletto e la volontà possono essere considerati
attributi di D i o solo per analogia. M a l'analogia n o n p u ò nascondere l'equi-
vocità da cui parte, così come l'eminenza alla quale giunge. Ora, le perfezio-
ni eminenti di D i o , così come gli attributi equivoci, implicano ogni sorta di
contraddizioni. Sono attribuite a D i o solo quelle forme che sono perfette nel-
le creature che le implicano, così come sono perfette nel D i o che le intende.
D i o non produce perché vuole, ma perché è. N o n produce perché concepisce,
ovvero perché concepisce le cose come possibili, ma perché intende se stesso,
perché intende la sua natura necessariamente. Insomma, D i o produce "per le
sole leggi della sua natura": n o n avrebbe potuto produrre un'altra cosa, né pro-
durre le cose con un altro ordine, senza avere un'altra natura®. Possiamo osser-
vare in generale che Spinoza n o n ha certamente bisogno di denunciare diret-
tamente le incoerenze dell'idea di creazione. GU è sufficiente chiedere: come
produce D i o , a quali condizioni? Le condizioni stesse della produzione fan-
n o di essa qualcosa di diverso da una creazione, e delle "creature" qualcosa di
diverso da semplici creature. Poiché D i o produce necessariamente, e nei suoi
propri attributi, i prodotti sono necessariamente modi di questi attributi che
costituiscono la natura di Dio.
E, 1 , 3 3 , dim. e se. z; B T , I, c a p . 4 , 7 - 9 .
" E, 1,17 e 33, prop. e dim.
IL Spinoza ii ii I'houi mma di'I i'um-russioni;
" E, II, 7, se. Abbiamo visto in precedenza (cap. Ili) come Spinoza riprenda, nella sua teoria
dell'espressione, alcune tematiche di una logica delle proposizioni, di origine stoica e rinnovata dal-
la scuola di Ockham. Ma bisognerebbe tener conto anche di altri fattori, in particolare della lingua
ebraica. Nel suo Compendiumgrammalùxi lingme hebrae, Spinoza sviluppa un certo numero di aspet-
ti che formano una vera e propria logica dell'espressione secondo le strutture grammaticali dell'e-
braico, e che fondano una teoria delle proposizioni. In mancanza di un'edizione commentata, que-
sto testo è difficilmente comprensibile per un lettore che non conosca la lingua. Non possiamo
quindi che coglierne un certo numero di elementi molto semplici: i) il carattere intemporale del-
l'infinitivo (cap. 5, cap. 13); z) il carattere participiale dei modi (cap. 5, cap. 33); 3) la determinazione
di diverse specie di infinitivi, di cui una esprime l'azione riferita ad una causa principale (l'equiva-
lente di constituere aliquem regnantem o constitui ut regnaret, cfr. cap. 12).
y E, 1,21-23. prop. e dim.
Il, l'AKAI,l,l!l.l,SM() li l.'lMMANUN/A
83
modi infiniti, nel genere di ciascun attributo, non contenessero leggi o princì-
pi di legge a partire dai quali i modi finiti corrispondenti sono determinati
ed ordinati.
Se esiste un ordine di produzione, è lo stesso per tutti gli attributi. Infatti,
D i o produce simultaneamente in tutti gli attributi che costituiscono la sua
natura. Gli attributi si esprimono quindi in un solo e stesso ordine: fino ai
modi finiti, che devono avere lo stesso ordine nei diversi attributi. U n a tale
identità di ordine definisce una corrispondenza dei m o d i : ad ogni m o d o di
ciascun attributo corrisponde necessariamente un m o d o di ciascuno degli altri
attributi. Questa identità di ordine esclude ogni rapporto di causalità reale. Gli
attributi sono irriducibili e realmente distinti; nessuno è causa di un altro, né
di qualunque altra cosa nell'altro. I m o d i implicano quindi esclusivamente il
concetto del loro attributo, e n o n quello di un altro'^.
L'identità di ordine, la corrispondenza fi-a modi di attributi diversi, esclude
quindi ogni relazione di causalità reale attiva fi-a questi modi, come anche fi-a
questi attributi. E a questo proposito, n o n c'è alcuna seria ragione per credere
ad un mutamento del pensiero di Spinoza: n o n sembra infatti che le celebri
pagine del Breve Trattato, nelle quali Spinoza parla dell'azione di un attributo
sull'altro, di un effetto di un attributo nell'altro, di un'interazione fra modi di
attributi diversi, si debbano interpretare nei termini di una causalità reale''. H
contesto precisa che due attributi (il pensiero e l'estensione) agiscono l'uno sul-
l'altro quando sono "presi tutti e due insieme", o che due m o d i di attributi
diversi (la mente e il corpo) agiscono l'uno sull'altro in quanto formano "le par-
ti di un tutto". N o n c'è nulla, qui, che superi realmente l'affermazione di una
corrispondenza: poiché due cose sono parti di un tutto, n o n c'è nulla che pos-
sa cambiare nell'una senza che vi sia un corrispondente nell'altra, e nessuna
delle due p u ò cambiare senza che il tutto cambi a sua volta'^. Tutt'al più
potremmo vedere in queste pagine un semplice m o m e n t o in cui Spinoza n o n
esprime ancora in maniera adeguata la differenza fra la sua dottrina e le dottri-
ne che le sono apparentemente vicine (causalità occasionale, causalità ideale).
N o n sembra c o m u n q u e che Spinoza abbia mai ammesso una causalità reale
attiva per rendere conto del rapporto fra modi di attributi diversi.
•4 E, II, 6, dim.
'' BT, II, cap. 19, 7 sgg., cap. 2 0 , 4 - 5 . ( A l b e r t Lion aveva già dimostrato che i testi del Breve Trat-
tato non implicavano n e c e s s a r i a m e n t e l ' i p o t e s i di u n a c a u s a l i t à reale fra attributi, o fra la mente e il
corpo: cfr, Lei éUments carlésiens de h doctrine spino^iste sur lei rapporti de lapemée et de ion objet, Alcan,
Paris 1907, p. 200).
BT, II, cap. 20, 4, n o t a 4 ; " N e l l ' o g g e t t o n o n p u ò avvenire alcuna alterazione senza che que-
sta avvenga realmente anche n e l l ' i d e a " .
Si'iNo/A u II W( mi |!MA di'I i 'usi-riìssioni;
'7 Leibniz intende per "parallelismo" una concezione dell'anima e del corpo che li rende in qual-
che modo inseparabiU, pur escludendo ogni rapporto di causalità reale fra i due. Ma egli indica in
questi termini la sua concezione. Cfr. Considérations sur h doctrim d'un Esprit univmel (1702), § 12.
E, II, 7, se.
Il, l'ARAI.I.I'.I.I.SM() I! I.'IMMANHNZA
85
•s E, II, 7, se.
C a p i t o l o settimo
' E, II, 7, se.: "E lo stesso intendo per gli altri attributi..."
^ Così la mente è un'idea che rappresenta esclusivamente un certo modo dell'estensione: cfr.
E, II, 13, prop.
Il l'AKAl l.lll.I.SMO I! I.'|MMANI!N/.A
i Su questo uso del termine "individuo" i h r indica i'unitù tra l'idea e il suo oggetto, cfr. E, II, 21, se.
Lettera 6s di Tschirnhaus (pp. ihd-^hi).
go Sl'INOZA I! Il fHOm UMA l»l!l l'USI'RI'.SSlONIi
e perché qualcosa sia o sia stato fatto; ed abbiamo inoltre diinostruto che i suoi
effetti oggettivi nell'anima procedono proporzionalmente alla formalità dello
stesso oggetto, il che equivale a quello che gli antichi dissero, cioè che la vera
scienza procede dalla causa all'effetto; sennonché essi mai, a quanto sappia,
concepirono, come noi qui, l'anima agire secondo leggi certe e quasi come un
automa spirituale"^. "Automa spirituale" significa in primo luogo che un'idea,
essendo u n m o d o del pensiero, trova la sua causa (efficiente e formale) solo
nell'attributo del pensiero, e n o n altrove. C o s ì come un oggetto, qualunque
esso sia, trova la sua causa efficiente e formale solo nell'attributo di cui è il
m o d o e di cui implica il concetto. Ecco quindi che cosa divide Spinoza dalla
tradizione antica: fra le idee e le cose, fra le cose e le idee è esclusa ogni sorta
di causalità efficiente o formale (a maggior ragione materiale e finale). Questa
doppia esclusione n o n rimanda ad un assioma, ma è oggetto delle dimostra-
zioni che occupano l'inizio della parte II AeWElicci. Spinoza p u ò quindi affer-
male l'indipendenza di due serie, serie delle cose e serie delle idee. Il fatto che
ad ogni idea corrisponda qualcosa costituisce, in simili circostanze, un primo
elemento del parallelismo.
M a solo u n primo elemento. A f f i n c h é le idee abbiamo la stessa connes-
sione delle cose, è necessario che ad ogni cosa corrisponda un'idea. Ritrovia-
m o le due formule del Breve Trattato: "Nessuna idea p u ò esistere senza che la
cosa debba anche esistere"; " n o n esiste alcuna cosa la cui idea n o n sia nella
cosa pensante"^. Per dimostrare che ogni cosa è l'oggetto di un'idea, n o n
andiamo più incontro alle difficoltà che ci avevano ostacolato nella prova a
posteriori, perché adesso prendiamo le mosse da un D i o esistente. Sappiamo
che D i o intende se stesso, che forma un'idea di se stesso e che possiede un
intelletto infinito. M a è sufficiente che questo D i o intenda se stesso perché
possa produrre, e, producendo, intenda tutto ciò che produce.
In quanto D i o produce così come intende se stesso, tutto ciò che produce
"cade" necessariamente sotto il suo intelletto infinito. D i o n o n intende se stes-
so e la sua essenza senza intendere anche tutto ciò che deriva dalla sua essen-
za. Per questo l'intelletto infinito comprende tutti gli attributi di D i o , ma
anche tutte le affezioni^. L'idea che D i o forma è l'idea della sua propria essen-
za; ma è anche l'idea di tutto ciò che D i o produce formalmente in tutti i suoi
attributi. Vi sono quindi tante idee quante sono le cose, ogni cosa è l'oggetto
"pnrli", tluc metà Se l'jssoluto possiede due potenze, è in sé e per sé, nell'impli-
cazione della sua unità radicale. Non cosi per gli attributi: l'assoluto ne possiede
infatti un numero infinito. Noi ne conosciamo soltanto due, il pensiero e l'e-
stensione, ma questo perché la nostra conoscenza è limitata, perché siamo costi-
tuiti da un modo dell'estensione e da un modo del pensiero. Mentre la determi-
nazione delle due potenze non è per nulla relativa ai limiti della nostra
conoscenza, né tanto meno dipende dalla nostra costituzione. La potenza di esi-
stere che affermiamo di Dio è una potenza assolutamente infinita: Dio esiste "asso-
lutamente", e produce infinite cose nell'"infinità assoluta" dei suoi attributi (quin-
di in infiniti modi)^. Anche la potenza di pensare è assolutamente infinita. Spinoza
non si limita a dire che è infinitamente perfetta; Dio si pensa assolutamente, e pen-
sa infinite cose in infiniti modi'°. D i qui l'espressione ahsoluta contado per desi-
gnare la potenza di pensare; intelkctus absolute infmitus per designare l'intelletto infi-
nito; e la tesi secondo cui, dall'idea di Dio, seguono (oggettivamente) infinite cose
in infiniti modi". Le due potenze non hanno quindi nulla di relativo: sono le metà
dell'assoluto, le dimensioni dell'assoluto, le potenze dell'assoluto. Schelling è spi-
nozista quando sviluppa una teoria dell'assoluto, rappresentando D i o con il sim-
bolo A3, che comprende il reale e l'ideale come sue potenze".
Possiamo chiederci: a quali condizioni afiFermiamo di D i o una potenza assolu-
tamente infinita di esistere e di agire, che corrisponda alla sua natura? A condi-
zione che vi siano infiniti attributi formalmente distinti che, insieme, costitui-
scano questa stessa natura. È vero che conosciamo solo due attributi, ma
sappiamo anche che la potenza di esistere n o n si confonde con l'attributo del-
l'estensione: un'idea esiste tanto quanto un corpo, il pensiero è, come l'estensio-
ne, una forma di esistenza o un "genere". Il pensiero e l'estensione non bastano
ad esaurire o a colmare una potenza assoluta di esistere. Arriviamo qui alla ragio-
ne positiva grazie alla quale Dio possiede infiniti attributi. In un passo importante
del Breve Trattato, Spinoza afferma che "troviamo in noi qualcosa che ci indica
chiaramente non solo un maggior numero, ma anche un'infinità di attributi per-
fetti"; gli attributi sconosciuti "ci dicono che esistono, senza tuttavia dirci che cosa
sono'''^. In altri termini: il fatto stesso della nostra esistenza ci indica che l'esi-
stenza non si limita ai soli attributi clic conosciamo. Poiché l'infinitamente per-
fetto non ha la sua ragione in se stesso, Dio deve avere un'infinità di attributi infi-
nitamente perfetti, tutti uguali fra di loro, ognuno dei quali costituisce una for-
ma di esistenza ultima o irriducibile. Sappiano che nessuno di loro esaurisce
questa potenza assoluta di esistere che spetta a D i o come ragion sufficiente.
L'assolutamente infinito consiste in primo luogo in infiniti attributi for-
malmente o realmente distinti. Tutti gli attributi sono uguali, nessuno è supe-
riore od inferiore ad un altro, o g n u n o esprime un'essenza infinitamente per-
fetta. Tutte le essenze formali sono espresse dagli attributi c o m e l'essenza
assoluta della sostanza, vale a dire che s'identificano nella sostanza ontologi-
camente una. L'essenza formale è l'essenza di D i o che esiste in ogni attributo.
L'essenza assoluta è l'essenza stessa, che si rapporta ad una sostanza la cui esi-
stenza consegue in m o d o necessario, una sostanza che possiede quindi tutti
gli attributi. L'espressione si presenta qui come il rapporto tra forma e assolu-
to: ogni forma esprime, esplica o sviluppa l'assoluto, ma l'assoluto contiene o
"complica" un'infinità di forme. L'essenza assoluta di D i o è potenza assoluta-
mente infinita di esistere e di agire; ma affermiamo questa prima potenza
come identica all'essenza di D i o sulla base di infiniti attributi formalmente o
realmente distinti. La potenza di esistere e di agire è quindi l'essenza formale-
assoluta. Ed è così che bisogna intendere il principio di eguaglianza degli attri-
buti: tutti gli attributi sono uguali rispetto alla potenza di esistere e di agire
che essi condizionano.
M a l'assoluto ha una seconda potenza, una sorta di seconda formula o
"periodo" dell'espressione: Dio si comprende o si esprime oggettivamente. L'es-
senza assoluta di D i o è formale negli attributi che costituiscono la sua natura,
oggettiva nell'idea che rappresenta necessariamente questa natura. Per questo l'i-
dea di D i o rappresenta tutti gli attributi formalmente o realmente distinti, a tal
punto che una mente o un'idea distinta corrisponde ad ognuno di essi'^. Gli stes-
si attributi che si distinguono formalmente in D i o , si distinguono oggettiva-
mente nell'idea di Dio. M a questa idea è comunque assolutamente unica, come
la sostanza costituita da tutti gli attributi''. L'essenza oggettivo-assoluta è quindi
la seconda potenza dell'assoluto: non possiamo porre un ente, causa di tutte le
cose, senza che la sua essenza oggettiva non sia anche la causa di tutte le idee^^.
L'essenza assoluta di D i o è oggettivamente potenza di pensare e di conoscere,
•'t BT, Appendice II, 9: "Tutti gli inliniti attributi the hanno una mente, tanto quanto l'esten-
sione..."
E, II, 4, prop. e dim.
TEI, 99: Si deve ricercare "se c'è un t|ualchc ente, e contemporaneamente quale, che sia cau-
sa di tutte le cose e la cui essenza oggettiva sia anche la causa di tutte le nostre idee".
Spinoza m ii. wiinikma iiiti i'iisi'riìssioniì
'7 E, 1,31, dim.; L'intelletto, essendo un certo modo di pensare, "deve essere concepito per mez-
zo del pensiero assoluto, cioè per mezzo di un qualche attributo^ che esprime l'eterna ed infinita
essenza del pensiero, deve essere concepito in modo tale che non possa essere né essere concepito
senza di esso".
E, II, I, se.: "Un ente che può pensare infinite cose in infiniti modi è necessariamente per virtù
del pensare infinito" (Ossia: un ente che ha una potenza assoluta di pensare ha necessariamente un
attributo infinito che è il pensiero). E, II, 5, dim.: "Concludevamo che Dio può formare l'idea della
sua essenza e di tutte le cose che da essa seguono necessariamente per il fatto solo, cioè, che Dio è
una cosa pensante".
Il, l'ARAI.I,l'.I.I.SM() 11 I.'IMMANUNZA pj
Dal rapporto (quindi anche dalla differenza) fra la potenza di pensare e l'at-
tributo del pensiero, derivano tre conseguenze. In primo luogo, la potenza di
pensare si afferma, per natura o partecipazione, di tutto ciò che è "oggettivo".
L'essenza oggettiva di D i o è potenza assolutamente infinita di pensare; e tutto
ciò che deriva da questa essenza partecipa di questa potenza. Ma l'essere oggetti-
vo non sarebbe nulla se non avesse un essereformale nell'attributo delpensiero. N o n solo
l'essenza oggettiva di ciò che è prodotto da Dio, ma anche le essenze oggettive
degli attributi, l'essenza oggettiva di D i o stesso, sono sottoposte alla condizio-
ne di essere "formate" nell'attributo del pensiero'^. È in questo senso che l'idea di
Dio è solo un modo delpensiero e fa parte della natura naturata. Q u e l che è m o d o
dell'attributo del pensiero, n o n è, propriamente parlando, l'essenza oggettiva
o l'essere oggettivo dell'idea in quanto tale. C i ò che è m o d o o prodotto, è sem-
pre l'idea considerata nel suo essere formale. Per questo Spinoza è cauto nel
dare il nome di intelletto infinito al primo m o d o del pensiero: l'intelletto infi-
nito n o n è l'idea di D i o da un punto di vista qualsiasi, ma è l'essere formale
dell'idea di Dio^°. È vero, e dobbiamo insistere su questo punto, che l'essere
oggettivo n o n sarebbe nulla se n o n vi fosse l'essere formale grazie al quale è un
m o d o dell'attributo del pensiero. O , se si preferisce, sarebbe solo in potenza,
senza che tale potenza sia effettuata.
Rimane c o m u n q u e il fatto che d o b b i a m o distinguere due punti di vista:
secondo la sua necessità, l'idea di D i o è fondata nella natura naturante. Spetta
infatti a D i o , considerato nelle sua natura assoluta, di intendere se stesso neces-
sariamente. Gli tocca una potenza assoluta di pensare identica alla sua essenza
oggettiva o corrispondente alla sua idea. L'idea di D i o è quindi principio ogget-
tivo, principio assoluto di tutto ciò che segue oggettivaniciitc in Dio. Ma secon-
do la sua possibilità, l'idea di D i o è fondata solo nella natura naturata, alla qua-
le appartiene. Essa p u ò essere "formata" solo nell'attributo del pensiiero, tro-
va nell'attributo del pensiero il principio formale da cui dipende, proprio
perché questo attributo è la condizione in virtù della quale viene affermata la
potenza assolutamente infinita di pensare di Dio. La distinzione di due pun-
ti di vista, necessità e possibilità, ci sembra importante nella teoria dell'idea di
Dio^'. La natura di D i o , alla quale corrisponde la potenza di esistere e di agi-
re, è fondata allo stesso tempo secondo la necessità e secondo la possibilità: la
possibilità è data dagli attributi formalmente distinti, e la necessità da questi
stessi attributi considerati insieme, ontologicamente "uno". C o s i n o n è per l'i-
dea di Dio: la sua necessità oggettiva è data nella natura di Dio, ma la sua pos-
sibilità formale è data nel solo attributo del pensiero, al quale, quindi, appar-
tiene c o m e un m o d o . Sappiamo che la potenza di D i o è sempre atto; ma
proprio per questo la potenza di pensare che corrisponde all'idea di D i o n o n
sarebbe attuale se D i o n o n producesse l'intelletto infinito come l'essere for-
male di quest'idea. L'intelletto infinito è perciò chiamato il figlio di Dio, il Cri-
sto^^. Nell'immagine, assai p o c o cristiana, che Spinoza propone del Cristo,
come Saggezza, Parola o Voce di D i o , possiamo distinguere un aspetto per il
quale coincide oggettivamente con la natura assoluta di D i o , e un aspetto per
il quale consegue formalmente dalla natura di D i o considerata sotto il solo
attributo del pensiero^^. Per questo, sapere se il D i o spinozista pensi se stesso
in se stesso, è un problema delicato, che n o n si risolve ripetendo che l'intel-
letto infinito è solo un modo^4. Infatti, la saggezza o la scienza che D i o pos-
siede è scienza di se stesso e della sua propria natura; se D i o intende se stesso
necessariamente, è in virtù della sua propria natura: la potenza di pensare e di
" Gli interpreti hanno spesso distinto diversi aspetti dell'idea di D i o o dell'intelletto infinito.
Georg Busolt è andato più a fondo, sostenendo che l'intelletto infinito appartiene alla natura natu-
rata come principio dei modi intellettuali infiniti, ma appartiene alla natura naturante se lo si con-
sidera in se stesso (Die Grundzuge derErkenntnisstheorie undMetapl^sik Spinoza's, Berlin 1875, II, p. 127
sgg.). Questa distinzione ci sembra tuttavia mal fondata, poiché, in quanto principio di ciò che segue
oggettivamente in Dio, l'idea di D i o dovrebbe al contrario appartenere alla natura naturante. Per
questo crediamo che sia più legittima una distinzione fra l'idea di Dio, considerata oggettivamen-
te, e l'intelletto infinito, considerato formalmente.
Cfr. BT, I, cap. 9,3. Lettera a Oldenburg, pp. 291-292.
Cfr. BT, II, cap. 22, 4, nota 1: "L'intelletto infinito, che chiamavano Piglio di Dio, deve esiste-
re nella Natura da tutta l'eternità. Infatti, poiché Dio è esistito eternamente, anche la sua idea deve
esistere (eternamente) nella cosa pensante, cioè in lui stesso. Tale idea coincide oggettivamente con
lui stesso".
^ Victor Brochard esprimeva già dei dubbi a tale proposito: cfr. Le Dieu de Spinoza in Etudes d£
philosophie amienne et dephilosophie moderne, Vrin, Paris lyhfi, pp. 332-370.
Il, PARAI,I HI.ISMO i; l,'lMMANI'.N/.A ^y
In terzo luogo, tutto ciò che esiste formalmente ha un'idea che gli corri-
sponde oggettivamente. Ma l'attributo del pensiero è una forma di esistenza, e
ogni idea ha un essere formale in questo attributo. Per questo ogni idea è a sua
volta l'oggetto di un'idea che la rappresenta; e quest'altra idea è l'oggetto di una
terza, e così all'infinito. In altri termini: se è vero che ogni idea che partecipa
alla potenza di pensare appartiene formalmente all'attributo del pensiero, vice-
versa ogni idea che appartiene all'attributo del pensiero è l'oggetto di un'idea
che partecipa alla potenza di pensare. Di qui deriva quest'ultimo apparente pri-
vilegio dell'attributo del pensiero, che fonda la capacità dell'idea di riflettersi
all'infinito. Talvolta Spinoza afferma che l'idea dell'idea ha, con l'idea, lo stes-
so rapporto dell'idea con il suo oggetto. C i ò p u ò risultare sorprendente, in
quanto l'idea e il suo oggetto sono una stessa cosa concepita sotto due attri-
buti, mentre l'idea dell'idea e l'idea sono la stessa cosa sotto un solo attribu-
to^9. M a l'oggetto e l'idea n o n rimandano soltanto a due attributi, rimandano
anche a due potenze, potenza di esistere e di agire, potenza di pensare e di
conoscere. E così l'idea e l'idea dell'idea: rimandano senza dubbio ad un solo
attributo, ma anche a due potenze, poiché l'attributo del pensiero è, da una par-
te, una forma di esistenza, e, dall'altra, la condizione della potenza di pensare.
È comprensibile quindi che la teoria dell'idea dell'idea si sviluppi lungo due
direzioni diverse. Possiamo infatti distinguere fra l'idea e l'idea dell'idea a patto
di considerare la prima secondo il suo essere formale, rispetto alla potenza di
esistere, e la seconda nel suo essere oggettivo, rispetto alla potenza di pensare:
il Trattato sull'emendazione presenta l'idea dell'idea come un'altra idea, distinta
dalla primato. M a d'altra parte, ogni idea si riferisce alla potenza di pensare: per-
fino il suo essere formale è solo la condizione in base a cui partecipa a questa
potenza. D a tale punto di vista, si può vedere l'unità fi-a l'idea e l'idea dell'idea,
così come esse sono date in Dio, con la stessa necessità della stessa potenza dipen-
sare^^. Vi è così solo una distinzione di ragione fra le due idee: l'idea dell'idea, è
la forma dell'idea, riferita in quanto tale alla potenza di pensare.
Cfr. E, II, 21 scolio. Albert Leon cosi riassume la difficoltà: " C o m e uscire da un tale dilem-
ma? O l'idea e l'idea dell'idea si trovano nello stesso rapporto cge c'è tra un oggetto estraneo al pen-
siero e l'idea che lo rappresenta, e allora esse sono due espressioni di uno stesso contenuto sotto due
attributi diversi; oppure il loro contenuto comune è espresso sotto un solo e unico attributo, e allo-
ra l'idea dell'idea è assolutamente identica all'idea considerata, la coscienza assolutamente identica
al pensiero, e questo non potrebbe definirsi al di fuori di quella". {Les éléments cartésiens de la doctri-
ne spinozhte sur ks rapporti de la pensée et de son ohjet, Alcan, Paris 1907, p. 154).
TEI, 34-35: altera idea o altera essentia objectiva è detto tre volte. La distinzione fi-a l'idea e l'idea
dell'idea è perfino assimilata a quella fta l'idea del triangolo e l'idea del cerchio.
E, II, 21, scolio (sull'esistenza di una semplice distinzione di ragione fi-a l'idea dell'idea e l'i-
dea, cfi-. E, IV, 8, dim. e V, 3, dim.).
II. l'ARAU.liMSMO li l.'lMMANI!N/,A ^^
I. Kant, Critica del Giudizio, § 73, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 264-265.
s La domanda è posta da Schuller nella Lettera p. 257.
Capitolo oliavo
Espressione e idea
' Cfr. TEI, 39: Una meéodipars\ 106: Prarcipua nostrae methodipars. Secondo le afFermazioni di
Spinoza, l'esposizione di questa prima parte si c o n c l u d e c o n 91-94.
^ TEI, 91: Secundampartem. V e d i anche 94.
^ TEI, 37 (anche 13: Naturam aliquam humanam sua muìlo firmiorem).
TEI, 106: Vires etpotentiam inlelltclHs. C f r . Letteraa Bouwmeester, p. 186: "Di qui dunque
appare chiaramente quale d e b b a e n e r e il vero m e t o d o e in che cosa esso consista, ossia nella sola
conoscenza del puro intelletto, della tua natura e delle sue leggi".
5 TEI, 38.
I02 S l ' I N O / A It II IH! mi ItMA l)|i| |,'l .SI'RI'SSI()Nl',
ne, in quanto effettuazione piena di tale potenza. Di qui il titolo della quinta
parte: Depotentia intellectus seu de liberiate humana.
"Poiché il metodo è la stessa conoscenza riflessiva, questo principio che deve
dirigere i nostri pensieri non può essere altro che la conoscenza di ciò che costi-
tuisce la forma della verità"^. In che cosa consiste questo rapporto fra la forma
e la riflessione? La conoscenza riflessiva è l'idea dell'idea. Abbiamo visto che l'i-
dea dell'idea si distingue dall'idea perché questa è rapportata, nel suo essere for-
male, alla potenza di esistere e quella, nel suo essere oggettivo, alla potenza di
pensare. Ma, da un altro punto di vista, l'idea considerata nel suo essere formale
si rapporta già alla potenza di pensare. In effetti, l'essere formale dell'idea cor-
risponde alla sua esistenza nell'attributo del pensiero. Tale attributo non è sol-
tanto un genere dell'esistenza, ma è anche la condizione in base alla quale si
rapporta a qualcosa una potenza di pensare, di comprendere o di conoscere.
Dio, sotto l'attributo del pensiero, possiede una potenza assolutamente infini-
ta di pensare. Un'idea, nell'attributo del pensiero, possiede una potenza deter-
minata di conoscere o di comprendere. La potenza di conoscere appartenente
ad un'idea è la potenza di pensare di Dio, in quanto "si esplica" per mezzo di
quest'idea. È chiaro quindi che l'idea dell'idea è l'idea considerata nella sua for-
ma, in quanto possiede una potenza di comprendere o di conoscere (come par-
te della potenza assoluta di pensare). In tal senso, forma e riflessione si impli-
cano l'una con l'altra.
Quindi, la forma è sempre forma di un'idea che possediamo, senza dimen-
ticare però che vi è una forma soltanto della verità. Se il falso avesse una for-
ma, n o n potremmo scambiare il vero con il falso, cioè n o n potremmo esse-
re indotti in errore^. La forma è dunque sempre una forma di un'idea vera
che possediamo. Basta avere un'idea vera perché essa si rifletta, e rifletta la
sua potenza di conoscere; basta sapere per sapere che si sa^. Ecco perché il
metodo presuppone che si abbia una qualche idea vera. Il m e t o d o presup-
pone una "forza innata" dell'intelletto che n o n p u ò fare a meno, fra tutte le
sue idee, di averne almeno una che sia vera^. Il fine del m e t o d o n o n è affatto
«TEI, loj.
7Cfr. E, 11,33, dim.
® E, II, 43, prop. (Questo passaggio si concilia perfettamente con quello del Trattato sull'emen-
dazione, 34-35, secondo il quale non c'è bisogno di sapere che si sa per sapere).
' TEI, 33; "L'idea vera, abbiamo infatti l'idea vera..."; 39: "Innanzitutto deve esistere in noi l'i-
dea vera, come strumento innato...". L'idea vera presupposta dal metodo non pone particolari pro-
blemi: la possediamo e la riconosciamo attraverso la "forza innata dell'intelletto" (TEI, 31). Per que-
sto Spinoza afferma che il metodo non richiede altro che una "storiella" della mente (mentis
historialam), simile a quella che insegna Bacone; cfr. la Ulirra ìy a Bouwmeester, p. i8é.
II. I'ARM,I.UI,ISM() I'. I.'1MMANI',N/A I03
quello di farci acquisire tale idea, ma di farci "riflettere" quella che posse-
diamo, oppure di farci conoscere la nostra potenza di conoscere.
Ma che cos'è questa riflessione? La forma non si contrappone al contenuto
in generale. L'ente formale si contrappone all'ente oggettivo o rappresentativo:
l'idea dell'idea è l'idea nella sua forma, indipendentemente dall'oggetto che rap-
presenta. Infatti, il pensiero, come tutti gli attributi, è autonomo; i modi del
pensiero, le idee, sono quindi automi, vale a dire dipendono unicamente dal-
l'attributo del pensiero nel loro essere formale: sono considerati "senza rela-
zione all'oggetto"'". La forma dell'idea si contrappone quindi al suo contenu-
to oggettivo o rappresentativo, ma n o n si contrappone affatto all'altro
contenuto che l'idea possiede indipendentemente dall'oggetto che rappresen-
ta. Infatti, dobbiamo fare attenzione a n o n commettere un doppio errore,
riguardo al contenuto e alla forma dell'idea. Ad esempio, è chiaro che la defi-
nizione della verità come corrispondenza fra l'idea e l'oggetto n o n dice nulla
sulla forma dell'idea vera: come si potrà mai sapere qual è l'idea che conviene
con il suo oggetto? Inoltre, questa definizione n o n dice nulla sul contenuto
dell'idea vera, poiché un'idea vera, sempre secondo questa definizione, n o n
avrebbe maggiore realtà o perfezione intema di un'idea falsa".
La concezione della verità come corrispondenza n o n ci fornisce alcuna
definizione del vero, né materiale né formale; ci offre solo una definizione
nominale, una denominazione estrinseca. A questo punto, si p u ò forse sup-
porre che "il chiaro e il distinto" ce ne diano una miglior determinazione, ossia
che ci diano una caratteristica interna del vero quale è w^//idea. In realtà, così
non è. Considerati in sé, il chiaro e il distinto riguardano sì il contenuto del-
l'idea, ma solo il contenuto "oggettivo" o "rappresentativo". Riguardano anche
la forma, ma solo la forma della "coscienza psicologica" dell'idea. Ci consento-
no quindi di riconoscere un'idea vera, quella che il metodo presuppone, ma n o n ci
offrono conoscenza alcuna del contenuto materiale di quest'idea né della sua
forma logica. Anzi, il chiaro e il distinto n o n sono in grado di andare al di là
della dualità della forma e del contenuto. La chiarezza cartesiana non è una,
ma duplice; lo stesso Cartesio ci invita a distinguere l'evidenza materiale, che
si presenta come una sorta di chiarezza e di distinzione del contenuto ogget-
tivo dell'idea, dall'evidenza formale, che è la chiarezza che concerne la "ragio-
ne" della nostra credenza nell'idea". Questo dualismo giungerà fino alla divi-
L'idea vera, dal punto di vista della forma, è l'idea dell'idea; dal p u n t o di
vista della materia, è l'idea adeguata. C o m e l'idea dell'idea costituisce Videa
riflessiva, cosi l'idea adeguata costituisce {'idea espressiva. In Spinoza, il termi-
ne "adeguato" n o n indica la corrispondenza dell'idea con l'oggetto che essa
rappresenta o designa, ma la convenienza interna dell'idea con quello che essa
esprime. Ma che cosa esprime l'idea? Prendiamo prima di tutto in considera-
zione l'idea in quanto conoscenza di qualcosa. È una conoscenza vera solo se
si riferisce all'essenza della cosa, nel senso in cui deve "esplicare" tale essenza.
Ma può spiegare l'essenza solo se comprende la cosa attraverso la sua causa
prossima: deve "esprimere" questa causa, ossia "implicare" la conoscenza del-
la causai. Tale concezione della conoscenza è interamente aristotelica. Spi-
noza n o n intende dire soltanto che gli effetti conosciuti dipendono dalle cau-
ragione formale che muove la nostra volontà a darla". Secondo Cartesio, tale principio spiega per-
ché noi abbiamo una chiara ragione nel dare il nostro assenso (luce della grazia) alla materia oscu-
ra (materia di religione). Esso si applica anche nel caso della conoscenza naturale: la materia chiara
e distinta non si confonde con la ragione formale, essa stessa chiara e distinta, della nostra creden-
za (luce naturale).
y La definizione (o il concetto) spiega l'essenza e comprende la causa prossima: TEI, 9J-96. La defi-
nizione esprime la causa efficiente: Lettera 60 a Tschirnhaus, p. 254. La conoscenza dell'effetto (idea)
implica la conoscenza della causa: E, I, assioma 4, e II, 7, dim.
Il l'AKAl I IÌI ISMC ) l; I,'lMMANI(N/A
TEI, 92: "Conoscere l'effetto non vuol dire altro che acquistare una più perfetta conoscenza
della causa".
Letteraa Bouwmeester, p. i8j. È questa la concatenatio inteUectus (TEI, 95).
TEI, 19 e 21 (sull'insufficienza dell'idea chiara e distinta, cfr. il capitolo seguente).
•7 TEI, 72.
Ad esempio, abbiamo l'idea del cerchio come figura i cui raggi sono uguali: questa è solo l'i-
dea chiara di una "proprietà" del cerchio (TlìI, 95). Allo stesso modo, nella ricerca finale di una defi-
nizione dell'intelletto, dobbiamo procedere da proprielà dell'intelletto conosciute con chiarezza-, TEI,
106-110. C o m e abbiamo visto, sono questi i ret{uisili del metodo.
,O6 S P I N O Z A H II. H»C»BI K M A DIÌII'USI-KIÌSSIONH
non passiamo dalle proprietà dell'effetto alle proprietà della causa, in quanto
condizioni necessarie in funzione di quest'effetto. A partire dall'effetto, deter-
miniamo la causa, anche solo ricorrendo ad una "finzione", come ragion sufficiente
di tutte le proprietà che concepiamo che l'effetto possieda'^. È cosi che cono-
sciamo attraverso la causa, o che la causa è meglio conosciuta dell'effetto. Il
metodo cartesiano è un metodo analitico e regressivo. Il metodo spinoziano
è invece un metodo riflessivo e sintetico: riflessivo poiché comprende la cono-
scenza dell'effetto attraverso la conoscenza della causa, e sintetico poiché pro-
duce tutte le proprietà dell'effetto a partire dalla causa conosciuta come ragion
sufficiente. Abbiamo un'idea adeguata in quanto formiamo una definizione
genetica della cosa di cui concepiamo chiaramente alcune proprietà, da cui
dipendono almeno tutte le proprietà conosciute (ed anche quelle che n o n
conosciamo). Si è spesso notato che il ruolo della matematica in Spinoza si
limita a tale processo genetico^". La causa come ragion sufficiente è quel che,
una volta posto, fa in m o d o che anche tutte le proprietà lo siano, e, una vol-
ta tolto, lo siano anche tutte le proprietà^'. Definiamo il piano per mezzo del
movimento della linea, il cerchio per mezzo del movimento di una linea di
cui un'estremità è fissa, la sfera per mezzo del movimento di un semicerchio.
Nella misura in cui la definizione della cosa esprime la causa efficiente o la
genesi del definito, l'idea stessa della cosa esprime la propria causa: abbiamo
fatto così dell'idea un qualcosa di adeguato. Per questo Spinoza dice che la
seconda parte del metodo è prima di tutto una teoria della definizione: "Il car-
dine di tutta questa seconda parte del metodo consiste solo nella conoscenza
delle condizioni della buona definizione"".
Secondo quanto precede, il metodo spinozista si discosta dal procedimen-
to analitico, ma conserva pur sempre un'apparenza regressiva. La riflessione
prende in prestito l'apparenza dall'anaUsi, dal momento che "presupponiamo"
un'idea e che procediamo dalla conoscenza presupposta di un effetto. Noi sup-
poniamo che certe proprietà del cerchio siano conosciute con chiarezza e che
si arrivi fino alla ragione sufficiente da cui derivano tutte le proprietà. Ma pur
determinando la ragione del cerchio in quanto movimento di una linea attor-
no ad uno dei suoi estremi, n o n perveniamo ancora ad un pensiero formato
In tal modo, a partire dal cerchio come figura dai raggi uguali, possiamo formare la finzione di
una causa, cioè che un semicerchio ruoti attorno al suo centro: fingo ad libitum (TEI, 72).
La matematica che interessa Spinoza non è affatto la geometria analitica di Cartesio ma il
metodo sintetico di Euclide e le concezioni genetiche di Hobbes: cfr. Lewis Robinson, Kommentar
zu Spinozas Ethik, F. Meiner, Leipzig 1928, pp. 270-273.
^ TEL no.
" T E L 94-
Il, l'AKAM.I'.I.ISMO li I.'IMMANI!N/A I07
Fichte, come Kant, parte da un"'ipotesi''. Ma, contrariamente a Kant, vuole giungere ad un
principio assoluto che faccia scomparire l'ipotesi di partenza: in tal modo, non appena il princi-
pio è trovato, il dato deve lasciare il posto ad una costruzione del dato, il "giudizio ipotetico" ad
un "giudizio letico", l'analisi ad una genesi. M. Gueroult lo dice con estrema chiarezza: "La Dot-
trina della Scienza afferma sempre che, poiché il principio deve valere da solo, il metodo analitico
deve avere come unico fine la propria soppressione; l'efficacia riguarda quindi soltanto il metodo
costrutrivo" {L'Evolution et la structure de la Doctrine de la Science chez Fichte, Les Belles Lettres, Paris,
1930,1.1, p. 174).
^ Spinoza ha invocato r"ordine dovuto" (debito ordine) in TEI, 44. Nel paragrafo 46 aggiunge: "Se
per caso mi si chiede perché io, subito e prima di tutto, esponga con quest'ordine le verità della Natu-
ra, poi che la verità manifesta se stessa, risponderò e nello stesso tempo esorterò... ad esaminare l'or-
dine nel quale le proviamo". (La maggior parte dei traduttori pensa che in questo ultimo testo vi sia
una lacuna. Viene sottolineato il fatto the Spinoza muove una "obiezione pertinente" a se stesso, e
che più tardi, ntWEtica, troverà il modo di esporre le verità "nell'ordine dovuto' - cfr. Trattato sull'e-
mendazione, tr. fr. a cura di A. Koyré, Vrin, Paris 1969, p. 105. A noi non pare vi sia la minima lacuna:
Spinoza dice che non può fin dall'initio sapere l'ordine dovuto perché a tale ordine si può pervenire
solo a un certo stadio nell'ordine delle dimostrazioni. E neWEtica, Spinoza si guarda bene dal corregge-
re questo passo, mantenendolo invece férniameiue, tome vedremo nel capitolo XVIIL)
S P I N O Z A IÌ II I K O H I IIMA D I ' I I'USI-RI;,SSIONI;
TEI, 49, 75, 99. (Anche in questo ultimo passo molti traduttori spostano et ratio postulai attrì-
buendolo all'insieme della frase.)
E, I, 26, prop.
TEI, 54.
II. l>AHAI,l.i;i,ISM() i; l.'lMMANHN/.A IO<)
Adesso l'ordine non è più solo quello della sintesi progressiva, e le idee stes-
se, considerate in quest'ordine, non sono più enti di ragione, ed escludono
quindi ogni tipo di finzione. Sono necessariamente idee di "cose reali ossia
vere", idee alle quali corrisponde qualcosa nella natura^^. A partire dall'idea di
Dio, la produzione di idee è in sé una riproduzione delle cose naturali; la con-
catenazione delle idee n o n deve ricopiare la concatenazione delle cose, ma la
riproduce automaticamente, poiché le idee sono prodotte dall'idea di Dio^9.
È vero che le idee "rappresentano" qualcosa ma solo nella misura in cui
"esprimono" la loro causa e l'essenza di Dio che determina tale causa. Cia-
scuna idea, dice Spinoza, esprime o implica l'essenza di Dio, e, in quanto tale,
è un'idea di una cosa reale ossia vera3°. N o n abbiamo più a che fare qui con
il procedimento regressivo che unisce l'idea vera con la sua causa, anche se
tramite la finzione, per arrivare quanto prima all'idea di Dio: un simile pro-
cedimento determina solo di diritto il contenuto dell'idea vera. Seguiamo
invece adesso un procedimento progressivo, che esclude la finzione, e che va
da un ente reale all'altro, deducendo le idee le une dalle altre a partire dall'i-
dea di Dio: le idee si concatenano così in m o d o conforme al loro contenuto,
e il loro contenuto è determinato dalla concatenazione. Cogliamo l'identità del-
laforma e del contenuto, siamo certi che la concatenazione delle idee riproduca
la realtà in quanto tale. Vedremo in seguito nei dettagli il m o d o in cui si effet-
tua questa deduzione. Per ora ci basti considerare che l'idea di Dìo, in quan-
to principio assoluto, si libera dell'ipotesi da cui si era partiti per arrivare fino
ad essa, e fonda una concatenazione di idee adeguate identica alla costruzio-
ne del reale. La seconda parte del metodo non si limita quindi ad una teoria
della definizione genetica, ma si conclude con una teoria della deduzione
produttiva.
^ Cfr. E, V, 30, dim.: "... concepire le cose in quanto per mezzo dell'essenza di Dio vengono
concepite come enti reali".
TEI, 42.
E, II, 45, prop.: "Ciascuna idea di qualunque corpo o cosa singolare esistente in atto, impli-
ca necessariamente l'essenza eterna ed inlinitj di Dio" (In questo Scolio, come anche nello Scolio
di V, 29, Spinoza specifica che le cose esistenti in alto designano le cose come "vere ossia reali", qua-
li derivano dalla natura divina, c t h e le loio idee sono t|uindi idee adeguate).
n o S l ' I N O / A l( I l WOBKIMA Dlil.l.'li.SI'KliS.SIONi;
ma: la forma dell'idea vera è l'idea dell'idea ossia l'idea riflessiva. La defini-
zione formale della verità è la seguente: l'idea vera è l'idea in quanto si esplica
attraverso la nostra potenza di conoscere. Il metodo, sotto tale aspetto, è riflessivo.
La seconda parte del metodo riguarda invece il mezzo per realizzare que-
sto fine: si presuppone che l'idea vera sia data, ma che debba essere resa ade-
guata. Il rendere adeguato costituisce la materia del vero. La definizione del-
l'idea adeguata (definizione materiale della verità) si presenta così: l'idea in
quanto esprime la propria causa, e in quanto esprime l'essenza di Dio che determina
tale causa. L'idea adeguata è quindi l'idea espressiva. Sotto questo secondo
aspetto, il metodo è genetico: la causa dell'idea viene determinata come ragion
sufficiente di tutte le proprietà della cosa. Questa parte del metodo ci condu-
ce al pensiero più alto, ossia ci conduce quanto prima all'idea di Dio.
La seconda parte si conclude con un terzo ed ultimo capitolo, che riguar-
da l'unità della forma e del contenuto, del fine e del mezzo. Per Spinoza,
come d'altronde per Aristotele, la definizione formale e la definizione mate-
riale parcellizzano in generale l'unità reale di una definizione completa. Fra
l'idea e l'idea dell'idea vi è solo una distinzione di ragione: l'idea riflessiva e
l'idea espressiva sono in realtà la stessa cosa.
Come deve essere intesa quest'ultima unità? Un'idea non ha mai come cau-
sa l'oggetto che rappresenta, ma rappresenta un oggetto perché esprime la sua
causa. Vi è quindi un contenuto dell'idea, un contenuto espressivo e non rap-
presentativo, che rimanda soltanto alla potenza di pensare; ma la potenza di
pensare è ciò che costituisce la forma dell'idea in quanto tale. L'unità concreta
di entrambi si manifesta allorché tutte le idee si deducono le une dalle altre,
materialmente a partire dall'idea di Dio, formalmente sotto la potenza di pen-
sare. Da questo punto di vista, il metodo è deduttivo: la forma, come forma logi-
ca, e il contenuto, come contenuto espressivo, si riuniscono nella concatena-
zione delle idee. Va sottolineata l'insistenza di Spinoza a proposito dell'unità
della concatenazione. Quando afferma che il metodo n o n si propone di farci
conoscere qualcosa ma di farci conoscere la nostra potenza di conoscere, aggiun-
ge anche che possiamo conoscere tale potenza solo se conosciamo più cose uni-
te fra di loro''. Invece, quando dimostra che le nostre idee sono causa le une del-
le altre, ne deduce che tutte le idee hanno come causa la nostra potenza di
conoscere o di pensare^^. Ma è soprattutto il termine di "automa spirituale" che
illustra l'unità. La mente è una sorta di automa spirituale; in altri termini, quan-
do pensiamo, obbediamo solo alle leggi del pensiero, leggi che determinano nel-
TEI, 40-41.
^ Letterayy a Bouwmeester, p. 185.
11. l'AKAl.l,lil,ISM() li l'iMMANIlNZA IH
In che senso l'idea di Dio è "vera"? Di essa non si può certo dire che espri-
ma la sua causa: formata assolutamente, ossia senza il contributo di altre idee,
esprìme l'infinito. Spinoza dichiara a tale proposito che "la forma del pensiero
vero deve risiedere proprio nel pensiero stesso, senza relazione ad altri pen-
s i e r i " 3 4 . Può sembrare comunque strano che Spinoza n o n applichi tale princi-
pio alla sola idea di Dio ma lo estenda a tutti gli altri pensieri. Tanto che
aggiunge: "Né bisogna dire che questa differenza (tra il vero ed il falso) nasca
da ciò, che pensiero vero è conoscere le cose attraverso le loro cause prime,
proprietà questa in cui certo differisce molto dal pensiero falso". Riteniamo
che questo passo, abbastanza oscuro, vada interpretato in questo senso: Spi-
noza riconosce che la conoscenza vera si produce attraverso la causa, ma pen-
sa anche che si tratti solo e ancora di una definizione materiale del vero. L'i-
dea adeguata è l'idea che esprime la causa, ma non sappiamo ancora ciò che
costituisce la forma del vero, ciò che fornisce della verità una definizione for-
male. Nei due casi non si deve assolutamente confondere quel che si esprime con
quel che viene espresso: l'espresso è la causa, mentre quel che si esprime è sempre
e soltanto la nostra potenza di conoscere o di comprendere, la potenza del
nostro intelletto. Per questo Spinoza afferma che "quel che costituisce la for-
ma del vero pensiero va ricercato proprio nel pensiero stesso e dedotto dalla
natura dell'intelletto"^'. E per questo aggiunge che il terzo genere di cono-
scenza ha la mente o l'intelletto come unica causa formale^^. La stessa cosa
accade per quanto riguarda l'idea di Dio: quel che è espresso è l'infinito, ma
quel che si esprime è la potenza assoluta di pensare. È quindi necessario riu-
nire il punto di vista della forma con quello della materia, al fine di concepi-
re l'unità concreta di entrambi quale si mostra nella concatenazione delle idee.
^^ L'"automa spirituale" appare in T E I , 8j. Leibniz, dal canto suo, che non usa il termine prima
del Nuovo Sistema del 1695, pare proprio l'abbia preso in prestito da Spinoza. E malgrado la diffe-
renza fra le due interpretazioni, l'automa spirituale possiede un aspetto comune a Leibniz e a Spi-
noza: designa la nuova f o r m a logica dell'idea, il n u o v o contenuto espressivo dell'idea, ed anche l'u-
nità fra la forma e il c o n t e n u t o .
34 Cfr. TEI, 70-71.
» TEI, 71.
E, V, 31, dim.
1,2 Sl'INOZA |i II IKIIKIUMA IH'I l'li.SI'RliSSIONI'
Sulla distinzione fra l'infinità (in senso negativo) e la cosa infinita (concepita positivamente
ma non pienamente), cfr. Cartesio, Risposte alle prime obiezioni, in Obiezioni e risposte cit., p. io8. La
distinzione cartesiana che si trova nelle risposte alle ijuarte obiezioni, fra la concezione completa e
la concezione piena si applica in un certo senso anche alla conoscenza di Dio: la Quarta Medita-
zione parli dell'idea di Dio come di un "ente completo", anche se non possiamo averne una cono-
scenza piena (Meditazioni cit., p. 699).
Il l ' A R A I l l ' I I S M O li I . ' I M M A N I I . N Z A JI^
nient'altro che l'attributo del pensiero. "Quindi questa idea del corpo impli-
ca la conoscenza di Dio in quanto si considera soltanto sotto l'attributo del-
l'estensione... e l'idea di quest'idea implica la conoscenza di Dio in quanto si
considera soltanto sotto l'attributo del pensiero e non sotto un a l t r o A n z i ,
Spinoza fonda meglio di Cartesio l'idea stessa delle parti di Dio, poiché l'u-
nità divina è perfettamente conciliata con la distinzione reale fra gli attributi.
Eppure, anche su questo secondo punto, la differenza fra Cartesio e Spi-
noza è fondamentale. Infatti, ancor prima di conoscere una parte di Dio, la
nostra mente è "una parte dell'infinito intelletto di Dio": possediamo una
potenza di comprendere o di conoscere solo perché partecipiamo alla poten-
za assoluta di pensare che corrisponde all'idea di Dio. È sufficiente quindi che vi
sia qualcosa in comunefra la parte e il tutto perché questo qualcosa cifornisca un'idea
di Dio, che non sia solo chiara e distinta ma anche adeguata>^. Quest'idea che ci è
data n o n è l'idea completa di Dio, ma è comunque adeguata, perché è nella
parte come nel tutto. N o n ci si deve quindi stupire se Spinoza afferma a vol-
te che l'esistenza di Dio non è nota per sé: intende dire infatti che tale cono-
scenza ci è necessariamente fornita da "nozioni comuni", senza le quali non
potrebbe essere chiara e distinta, ma grazie alle quali è adeguata^". Allorché
Spinoza ricorda invece che Dio si fa conoscere immediatamente, che è noto
per sé e n o n per altro, intende dire che la conoscenza di Dio n o n necessita né
di segni né di procedimenti analogici: tale conoscenza è adeguata perché Dio
possiede tutte le cose che sappiamo appartenergli, e le possiede nella forma
stessa in cui le conosciamo^'. Qual è il rapporto fra le nozioni comuni, che ci
permettono di conoscere Dio, e le forme comuni o univoche attraverso le qua-
li conosciamo Dio? Quest'ultima analisi deve essere per il momento differita,
poiché essa va al di là del problema dell'adeguazione.
L'inadeguato
Quali sono le conseguenze della teoria spinozista della verità? Bisogna in pri-
m o luogo cercarne la controprova nella concezione dell'idea inadeguata. L'i-
dea inadeguata è l'idea inespressiva. Ma come possiamo avere idee inadeguate?
La possibilità delle idee inadeguate viene alla luce solo se si determinano le
condizioni che ci permettono di avere le idee in generale.
La nostra mente è un'idea. In tal senso, la nostra mente è un'affezione o una
modificazione di Dio sotto l'attributo del pensiero, così come il nostro corpo è
un'affezione o una modificazione di Dio sotto l'attributo dell'estensione. L'idea
che costituisce la nostra mente o il nostro spirito è data in Dio. Dio la possiede,
ma la possiede in quanto è affetto da un'altra idea che è causa di essa. La pos-
siede, ma in quanto ha "simultaneamente" un'altra idea, ossia l'idea di un'altra
cosa. "La causa di un'idea singolare è un'altra idea, ossia Dio, in quanto si con-
sidera affetto da un'altra idea, e anche di questa in quanto è affetto da un'altra,
e così all'infinito''^ Dio non ha solo le idee di tutte le cose che esistono, ma tut-
te le idee, quali sono in Dio, esprimono la loro causa e l'essenza di Dio che
determina tale causa. "Tutte le idee sono in Dio; e, in quanto sono riferite a Dio,
sono vere e adeguate"^. Possiamo invece già intuire che noi non abbiamo l'idea
che costituisce la nostra mente. Almeno, non l'abbiamo immediatamente; infat-
ti essa è in Dio, ma solo in quanto ha anche l'idea di un'altra cosa.
Il m o d o partecipa alla potenza di Dio: come il nostro corpo partecipa alla
potenza di esistere, così la nostra mente partecipa alla potenza di pensare. Il
m o d o è allo stesso tempo parte, parte della potenza di Dio, parte della Natu-
ra, e subisce quindi necessariamente l'influenza delle altri parti. Le altre idee
agiscono necessariamente sulla nostra mente, così come gli altri corpi agisco-
n o sul nostro. Abbiamo qui a che fare con una seconda specie di "affezioni":
' E, II, 9, dim. Cfr. anche E, II, ii, cor.: Dio "in quanto simultaneamente con la mente umana
ha ancltE l'idea di un'altra cosa"; E, III, i, dim.: Dio "in quanto contemporaneamente ha in sé le
menti di altre cose".
^ E, II, 36, dim.
II. I'ARAI.I.I!I.1,SM() li 1,'IMMANHNZA Hj
non si tratta più del corpo, ma di ciò che accade nel corpo; non si tratta più
della mente (idea del corpo), ma di quello che accade nella mente (idea di quel-
lo che accade nel corpo)'. Ora, è proprio in tal senso che noi abbiamo le idee,
poiché le idee di queste affezioni sono in Dio, ma solo in quanto si esplica per
mezzo della nostra mente, indipendentemente dalle altre idee che ha; tali idee
sono dunque in noi^. Se abbiamo una conoscenza dei corpi estemi, del nostro
corpo e della nostra mente, è grazie unicamente alle idee di queste affezioni. È
Punica cosa che ci sia data: percepiamo i corpi estemi in quanto ci affettano,
percepiamo il nostro corpo in quanto è affetto, percepiamo la nostra mente
attraverso l'idea dell'idea dell'affezione'. Quel che chiamiamo "oggetto" non è
altro che l'effetto di un oggetto sul nostro corpo; quel che chiamiamo "io" non
è altro che l'idea che abbiamo del nostro corpo e della nostra mente in quan-
to subiscono un effetto. Il dato appare qui come la relazione più intima e più
vissuta, ma anche più confusa, fra la conoscenza dei corpi, la conoscenza del
corpo e la conoscenza di sé.
Prendiamo in considerazione le idee che abbiamo e che corrispondono
all'effetto di un oggetto sul nostro corpo. Da un lato, dipendono dalla nostra
potenza di conoscere, vale a dire dalla nostra mente, in quanto causa formale.
Ma noi non abbiamo l'idea del nostro corpo, né della nostra mente, indipen-
dentemente dall'effetto che subiamo. N o n siamo quindi in grado di conoscer-
ci in quanto causa formale delle idee che abbiamo, tanto più che esse si pre-
sentano come il frutto del caso^. Dall'altro, hanno come cause materiali le idee
delle cose esteme, ma noi non abbiamo neanche queste idee, poiché esse sono
in Dio, n o n però in quanto costituisce la nostra mente. Di conseguenza, le
nostre idee, nelle condizioni in cui le possediamo, non possono esprimere la
loro causa (materiale). Le nostre idee delle affezioni "implicano" senza alcun
dubbio la loro causa, ossia l'essenza oggettiva del corpo estemo, ma n o n la
"esprimono", n o n la "spiegano". Allo stesso modo, implicano la nostra poten-
za di conoscere, ma non la spiegano attraverso di essa, rimandando cosi al caso.
In tal senso il termine "implicare" non è più il correlativo di "spiegare" o di "esprime-
re", ma si contrappone ad essi, designando il composto che risulta dall'insieme
> E, II, 9, cor.: "Qualunque cosa accade (contingit) nel singolare oggetto di una certa idea...".
4 E, II, 12, dim.: "Di q u a l u n q u e cosa d u n q u e che accada nell'oggetto dell'idea che costituisce la
Mente umana si dà necessariamente in D i o la c o n o s c e n z a , in quanto costituisce la natura della men-
te umana, cioè la conoscenza di quella cosa sari necessariamente nella mente, ossia la mente la per-
cepisce".
5 E, II, 19, 23, 2é.
^ Sulla ftinzione del caso (JhrtHna) riguardo alle percezioni che non sono adeguate, cfr. Xa Lette-
ra 37 a Bouwmeester, p. 185.
vSl'IN()/,A li II l ' K I I H I I I M A DI I I •|:SI'Hi:,S.Sl()Ni:
del corpo esterno e del nostro corpo nell'affezione di cui iibbiaiiio l'idea. La
formula utilizzata spesso da Spinoza è la seguente: le nostre idee delle affezio-
ni indicano la costituzione del nostro corpo, ma non spiegano la natura o l'es-
senza dei corpi esterni^. In altri termini, le idee che noi abbiamo sono segni,
immagini indicative che sono impresse in noi, ma non sono idee espressive,
formate da noi; sono percezioni o immaginazioni, ma non comprensioni.
In un senso ancora più preciso, l'immagine è l'impronta, la traccia, l'im-
pressione fisica, l'affezione stessa del corpo, l'effetto di un corpo sulle parti
fluide e molli del nostro; in senso figurato, l'immagine è l'idea dell'affezione,
che ci fa conoscere l'oggetto soltanto attraverso il suo effetto. Ma questa n o n
è affatto una conoscenza, è al massimo una ricognizione. Di qui derivano le
caratteristiche generali dell'indicazione: il primo "indicato" n o n è mai la
nostra essenza, ma una condizione momentanea della nostra costituzione
variabile; l'indicato secondario (indiretto) n o n è mai l'essenza o la natura di
una cosa esterna, ma l'apparenza che ci permette soltanto di riconoscere la
cosa a partire dal suo effetto, quindi di affermarne la semplice presenza, a tor-
to o a ragione^. Le idee che abbiamo, frutto del caso, puramente indicative,
utili alla ricognizione, sono inespressive, ossia inadeguate. L'idea inadeguata
n o n è né una privazione assoluta né un'ignoranza assoluta, implica semplice-
mente una privazione di conoscenza?.
La conoscenza di cui siamo privati è duplice: conoscenza di noi stessi e
dell'oggetto che produce in noi l'affezione di cui abbiamo l'idea. L'idea ina-
deguata è quindi un'idea che implica la privazione di conoscenza della sua
causa, sia formalmente che materialmente. In tal senso è inespressiva, "tron-
ca", come una conseguenza priva di premesse^". L'essenziale è che Spinoza
abbia dimostrato in Ae modo una conseguenza possa essere disgiunta dalle sue
due premesse. Noi siamo naturalmente in una condizione tale che le idee che
ci vengono date sono necessariamente inadeguate, poiché non possono espri-
7 Indicare: E, II, i6, corollario 2; IV, i, se. Indicare o implicare si contrappongono così a spiegare.
L'idea di Pietro quale è in Paolo "indica la costituzione del corpo di Paolo", mentre l'idea di Pietro
in se stessa "spiega direttamente l'essenza del corpo dello stesso Pietro" (II, 17, se.). Allo stesso modo
le idee che "implicano la natura delle cose che sono al di fuori del corpo umano" si contrappongo-
no alle idee che "spiegano la natura delle stesse cose" (II, 18, se.).
® Sull'indicato principale: le idee delle affezioni indicano in primo luogo la costituzione del
nostro corpo, costituzione presente e variabile (E, II, 16, cor. 2; III, Definizione generale degli Affet-
ti; IV, I, se.). Sull'indicato secondario o indiretto: le idee delle affezioni implicano la natura del cor-
po esterno, ma solo indirettamente, in m o d o tale che crediamo alla presema di questo corpo finché
dura la nostra affezione (E, II, 16, dim.; II, 17, prop., dim., cor.).
' E, II, 35, prop. e dim.
E, II, 28, dim.
II. l'ARAI.Mil.lSMO i; l.'lMMANI!N/.A II7
mere la loro causa ne essere spiegate per mezzo della nostra potenza di cono-
scere. Per quel che concerne la conoscenza delle parti del nostro corpo e del
corpo stesso, la conoscenza dei corpi esterni, la conoscenza della nostra men-
te, la conoscenza della nostra durata e di quella delle cose, abbiamo solo idee
inadeguate". "Quando guardiamo il sole immaginiamo che disti da noi circa
duecento piedi, errore che non consiste in questa sola immaginazione, ma in
ciò che mentre lo immaginiamo così ignoriamo la sua vera distanza e la causa
di questa immaginazioné"'^^. L'immagine, in tal senso, è l'idea che non può espri-
mere la sua causa, ovvero l'idea da cui deriva e che non è data: tale causa è la
causa materiale. Ma l'immagine n o n esprime neanche la causa formale, e
neanche può essere spiegata attraverso la nostra potenza di conoscere. Per que-
sto Spinoza afferma che l'immagine, l'idea dell'affezione, è una conseguenza
priva di premesse: vi sono sì due premesse, una materiale e l'altra formale, ma
di entrambe l'immagine implica la privazione di conoscenza.
E, II, 33, prop. e dim.; Il, 35, se.; IV, i, prop., dirti, e se.
Esempio analogo in TEI, zi.
Cfr. E, II, 22 e 23.
'7 E, II, 17, se.: "Infatti, se la mente, mentre immagina come a sé presenti le cose non esistenti,
sapesse contemporaneamente che quelle cose ih realtà non esistono, in verità attribuirebbe questa
potenza di immaginare non a un suo difetto, bensì ad una virtii della sua natura; soprattutto se que-
sta facoltà di immaginare dipendesse dalla sola sua natura". (Cioè: se questafacoltà non si limitasse ad
implicare la nostra potenza di pensare mafosse spiegata da essa.)
II. l'AKAM.Iil.lSMO li I,'|MMANI!N/,A U^
È evidente che per avere un'idea adeguata non basta cogliere quel che c'è
di positivo in un'idea di affezione. È comunque il primo passo da fare, poi-
ché, a partire da questa positività, possiamo formare l'idea di quel che è comune
al corpo che affetta e al corpo affetto, al corpo esterno e al nostro. Ma vedre-
mo anche che tale "nozione comune" è necessariamente adeguata: è nell'idea
del nostro corpo e nell'idea del corpo esterno; è in noi così come è in Dio;
esprime Dio e si spiega per mezzo della nostra potenza di pensare. Dalla
nozione comune deriva però al contempo un'idea di affezione, anch'essa ade-
guata: la nozione comune è necessariamente la causa di un'idea adeguata del-
l'affezione, che si distingue dall'idea di affezione da cui siamo partiti per una
sola "ragione". Questo meccanismo complesso non consiste nel togliere l'idea
inadeguata che abbiamo, ma nell'utilizzare il positivo che vi è in essa al fine
di formare il maggior numero possibile di idee adeguate, e fare in m o d o che
le idee inadeguate che restano occupino soltanto la minima parte di noi stes-
si. In altre parole, dobbiamo noi stessi accedere a quelle condizioni che ci con-
sentono di produrre le idee adeguate.
C f r . la Letteraìj a Bouwmeester, nella quale S p i n o z a usa i termini "chiaro e distìnto" per desi-
gnare l'adeguato stesso. Più precisamente, S p i n o z a intende per " c h i a r o e distinto" quel che segue
dall'adeguato, quindi quello che deve avere la sua ragione nell'adeguato; " Q u a l u n q u e cosa segua da
u n ' i d e a c h e è in n o i adeguata, tutto c i ò lo c o n o s c i a m o chiaramente e distintamente" (E, V , 4, se.).
M a questo passo fa riferimento a II, 4 0 , che sostiene c h e tutto quello che segue da un'idea adegua-
ta è anch'esso adeguato.
I20 S P I N O Z A it il i'H( m i MMA D M I ' U S I ' R I I S M O N I Ì
's Leibniz, lettera a Amauld 0anet, 1.1, p. 593); "L'espressione è comune a tutte le forme, ed è un
genere di cui la percezione naturale, il senso animale e la conoscenza intellettuale sono una specie".
Il l'AKAI.I.Iil.lSMO l; l 'iMMANKN/A 121
' Descartes, Risposte alk seconde obiezioni in Obiezioni e risposte cit., p. 144. Questo brano, che esi-
ste solo nella traduzione di Clerselier, suscita notevoli difficoltà. F. Alquié le mette in rilievo nella
sua edizione di Cartesio (Garnier, t. II, p. 582). Tuttavia, nelle pagine che seguono, ci chiediamo se
il testo non vada interpretato alla lettera.
^ Descartes, Regok utili e chiare.... Regola 12, in Operefilosojiche (a cura di E. Lojacono) cit., voi. i, p.
279. La conoscenza chiara e distinta, in quanto tale, implica sempre in Cartesio una percezione con-
fusa della causa o del principio. Laporte, nel suo Rationalisme de Descartes (PUF, Paris 194J, pp. 98-99) ne
fornisce una serie di esempi. Quando Cartesio afferma: " H o , in certo modo, in me prima la nozione del-
l'infinito che del finito" {Terza Meditazione) bisogna intendere che l'idea di Dio è implicata in quella
dell'io, ma confusamente oppure implicitamente, cosi c o m e quattro e tre sono implicati nel sette.
Il, I'AI<A1.I.I1I.I.SM() I! 1 , ' i m m a n e n z a I23
dalle cause, lo fa nel modo seguente: a partire da una conoscenza chiara del-
l'effetto, deduciamo chiaramente la conoscenza della causa che essa implica
confusamente, e dimostriamo così che l'effetto non sarebbe quello che cono-
sciamo se non avesse questa causa da cui necessariamente dipende^. Due temi
sono in Cartesio profondamente collegati: la sufficienza teorica dell'idea chia-
ra e distinta e la possibilità pratica di passare da una conoscenza chiara e distin-
ta dell'effetto ad una conoscenza chiara e distinta della causa.
Il fatto che l'effetto dipenda dalla causa non è un problema. Il vero proble-
ma è invece quello di stabilire quale sia il modo migliore per dimostrarlo. Spi-
noza afferma: possiamo partire da una conoscenza chiara di un effetto, ma così
facendo arriviamo solo ad una conoscenza chiara della causa, e non conoscia-
mo nulla della causa al di fuori di quello che consideriamo nell'effetto, ossia
non abbiamo mai una conoscenza adeguata. Il Trattato sull'emendazione contie-
ne una critica fondamentale del metodo cartesiano, del processo di inferenza o
di applicazione di cui esso si serve, della presunta sufficienza del chiaro e del
distinto a cui si richiama. L'idea chiara, oltre una conoscenza delle proprietà del-
la cosa, non ci dà nulla, e, oltre a una conoscenza negativa della causa, non ci
conduce a nulla. "C'è una conoscenza nella quale l'essenza di una cosa si con-
clude da un'altra cosa, ma non adeguatamente". "Non comprendiamo della cau-
sa niente oltre ciò che consideriamo nell'effetto: il che risulta a sufficienza dal-
la constatazione che allora la causa n o n viene espressa che con termini
estremamente generici, come dunque c'è qualcosa, dunque c'è una qualche potenza,
eccetera. O anche dalla constatazione che la causa viene espressa negativamen-
te dunque non è questo 0 quello eccetera". "Nel seguente modo poi si traggono con-
clusioni da un'altra cosa: avendo capito chiaramente di sentire un tale corpo e
nessun altro, ne ricaviamo la chiara conclusione che l'anima è unita al corpo, la
quale unione è causa di tale sensazione; ma quale sia quella sensazione e unio-
ne non possiamo assolutamente capirlo da ciò". "Questa conclusione, sebbene
certa, tuttavia non è abbastanza sicura''^. Ogni singola riga di queste citazioni è
diretta contro Cartesio e il suo metodo. Spinoza non crede alla sufficienza del
chiaro e del distinto perché non crede che si possa in modo soddisfacente pas-
sare da una conoscenza dell'efFetto ad una conoscenza della causa.
^ Ad esempio. Terza MediUaiont in Medilazioni cit., p. 698: "... arguisco che non potrebbe darsi che
io fossi di tal natura quale sono, vale 4 dire in possesso dell'idea di Dio, se anche Dio non esistesse
veramente".
TEI, 19 (§ III) e 21 (più note). In tutti questi passaggi S p i n o z a descrive una parte di quello che
chiama il terzo "modo della conojcenìsa". N o n si tratta di un processo induttivo: l ' i n d u z i o n e appar-
tiene al secondo m o d o , ed è descritta e cridcnta in T E I , 20. Q u i si tratta invece di un processo di
inferenza o di implicazione di tipo cartesiano.
12^ S i M N O / A I! II. n t O H I I i M A lll'l j'l:.SI'RI;,S.SI( )NI';
L'idea chiara e distinta non basta, bisogna arrivare lino all'idea adeguata.
Ossia: non basta dimostrare come gli effetti dipendano dalle cause, bisogna
dimostrare come la conoscenza vera dell'effetto dipenda dalla conoscenza del-
la causa. Questa è la definizione del metodo sintetico. Spinoza segue qui Ari-
stotele - contro Cartesio: "Il che equivale a quello che gli antichi dissero, cioè
che la vera scienza procede dalla causa all'effetto"^. Aristotele sostiene che la
conoscenza scientifica è conoscenza attraverso la causa. Non dice solo che la
conoscenza deve scoprire la causa ed arrivare fino alla causa da cui un effetto
conosciuto dipende, dice anche che l'effetto è conosciuto solo se la causa stes-
sa è conosciuta prima e meglio dell'effetto. La causa n o n è solo precedente
all'effetto perché ne è la causa, ma anche perché, dal punto di vista della cono-
scenza, deve essere conosciuta meglio dell'effetto®. Spinoza riprende questa
tesi: "Conoscere l'effetto n o n vuol dire altro che acquistare una più perfetta
conoscenza della causa"7. Sia chiaro: non "più perfetta" di quella che già abbia-
mo, ma più perfetta di quella che abbiamo dell'effetto stesso, precedente a
quella che abbiamo dell'effetto. La conoscenza dell'effetto p u ò essere detta
chiara e distinta, ma la conoscenza della causa è più perfetta, cioè adeguata; e
il chiaro e il distinto sono fondati solo se derivano dall'adeguato come tale.
Conoscere attraverso la causa è l'unico m o d o per conoscere l'essenza. La
causa è una sorta di termine medio che fonda la connessione tra l'attributo e
il soggetto, il principio o la ragione da cui derivano tutte le proprietà che
appartengono alla cosa. È questo il motivo per cui, secondo Aristotele, la ricer-
ca della causa si confonde con la ricerca della definizione. Di qui l'importan-
za del sillogismo scientifico, le cui premesse ci danno la causa o definizione
formale di un fenomeno, e la conclusione, cioè la causa o definizione mate-
riale. La definizione completa è quella che riunisce la forma e la materia in un
enunciato continuo, in m o d o tale che l'unità dell'oggetto non risulti più fram-
mentata ma affermata invece da un concetto intuitivo. Su tutti questi punti,
Spinoza è in apparenza aristotelico: sottolinea l'importanza della teoria della
definizione, pone l'identità fra la ricerca della definizione e la ricerca delle cau-
se, afferma l'unità concreta di una definizione completa che riunisca la causa
formale con la causa materiale dell'idea vera.
Cartesio non ignora le pretese del metodo sintetico di tipo aristotelico: la
prova che esso contiene, dice, è sovente la prova "degli effetti per mezzo del-
^ Risposte ade seconde obieiìtmi 'xn Okinmi f ri$piule p . 1 4 4 (uiu lic in questo caso il
testo è preso dalla t r a d u z i o n e di Cleriflifr).
9 Ibid.
Cfr. Aristotele, Analitici secondi, 1 , 3 2 , HM b , »j-jci,
" Descattes, Risposte alle seconde obiaiom di., n. I441 *l.« illileii, i l ciinirariu, per una via affatto
diversa, e c o m e e s a m i n a n d o le t a u i e p e r i l o r o f l V f t l I ( b t i u h t Id p r o v a i l i c essa contiene sia soven-
te a n c h e d e g l i e f f e t t i p e r m e z z o d e l l e t i i u i e , , , ) " .
126 S P I N O Z A IT II, PHOMI WMA D I ' . M . ' U S I ' R I L S S I O N I Ì
F. Alquié mette con chiarezza in luce questo punto: "L'ordine sintetico non è affatto l'ordi-
ne della cosa... La cosa è l'unità; è l'ente, l'unità confusa; sono io a mettere ordine quando cono-
sco. E l'ordine della mia conoscenza, che è sempre un ordine della conoscenza, analitico o sintetico
che sia, è vero" {Descartes. Cahiers de Royaumont, Ed. de Minuit, Paris, 1957, p. 125).
TEI, 94: "La retta via d'indagine è di formare pensieri da una definizione data".
'4 TEI, 19, § III.
'5 TEI, 85.
II. l'ARAI,l,lil,lSM( ) H I.'IMMANUNZA I27
TEI, 58: "Quante m e n o cose la m f nif c o n o i c e t quante più tuttavia percepisce, tanto mag-
giore potenza ha di fingere - e quante più c o i r c o n o i t e , tanto più quella potenza diminuisce". In
effetti, quanto più la mente immagina, tanto più la lua polrn7,a di conoscere rimane implicata, quin-
di meno conosce.
lig Sl'INO/A I! Il Wimil'MA |)l!IJ,'i;.SI'Rll,SSI()Ni;
Spinoza prevalgono le nozioni di causa di sé, di causa i» st' c di causa per sé. Que-
sti termini erano già presenti in Cartesio; tuttavia, le difficoltà che egli incon-
tra nel fame uso possono aiutarci a mettere in luce le incompatibilità fra il car-
tesianesimo e lo spinozismo.
Contro Cartesio, Caterus e Arnauld obiettano che "per sé" si dice negativa-
mente e significa soltanto l'assenza di causa'7. Anche ammettendo con Amauld
che, se Dio n o n ha una causa, è in ragione della piena positività della sua essen-
za e n o n in funzione dell'imperfezione del nostro intelletto, n o n si p u ò con-
cluderne che Dio è per sé "positivamente come per una causa", cioè che è cau-
sa di sé. Cartesio, è vero, ritiene che si tratti di una polemica soprattutto verbale.
Egli chiede soltanto che gli si accordi la piena positività dell'essenza di Dio, per-
ché così si p u ò riconoscere che questa essenza svolge un ruolo analogo a quello
della causa. Vi è una ragione positiva per la quale Dio n o n ha una causa, e quin-
di una causa formale per la quale n o n ha una causa efficiente. Cartesio precisa
la sua tesi nel m o d o seguente: Dio è causa di sé, ma in un altro senso, diverso da
quello in cui si dice che la causa efficiente è causa del suo effetto; è causa di sé
nel senso in cui la sua essenza è la sua causa formale, e la sua essenza è detta cau-
sa formale n o n direttamente, ma per analogia, in quanto svolge, rispetto all'esi-
stenza un ruolo analogo a quello della causa efficiente rispetto al suo effetto'^.
Questa teoria riposa su tre nozioni strettamente collegate: l'equivocità (Dio
è causa di sé, ma in un senso diverso da quello in cui è causa efficiente delle
cose che crea; di conseguenza, l'ente n o n si dice allo stesso m o d o di tutto ciò
che è, sostanza divina e sostanze create, sostanze e modi, ecc. ); Veminenza
(Dio contiene tutta quanta la realtà, ma eminentemente, in una forma diver-
sa da quella delle cose che egli crea); l'analogia (Dio come causa di sé n o n è
colto in se stesso, ma per analogia: Dìo p u ò essere detto causa di sé, o per sé
"come" per una causa, per analogìa con la causa efficiente). Cartesio accoglie
ed accetta queste tesi come un'eredità scolasrica e tomista; esse n o n costitui-
scono quindi il risultato di una sua esplìcita formulazione. C o m u n q u e , anche
senza mai essere discusse, h a n n o pur sempre un'importanza essenziale e sono
presenti ovunque in Cartesio, essendo indispensabili alla sua teoria dell'en-
te, di Dìo e delle creature. La sua metafisica n o n riceve il suo senso da esse.
'7 C f r . Prime obiezioni in Obiezioni e risposte cit., p. 9 0 ; Qjtarte obiezioni, ibid., pp. 199-205,
T)t%c3itt$, Risposte alkprime obiezioni, ibid., p p . 105-106: Quelli che si attengono "soltanto al signi-
ficato proprio e stretto di efficiente... non osservano qui nessun altro genere di causa che abbia rap-
porto ed analoga con la causa efficiente". N o n si r e n d o n o c o n t o c h e "ci è lecito pensare che egli (Dio)
fa, in certo modo, riguardo a se stesso quello che la causa efficiente fa riguardo al suo effetto". Risposte
alk quarte obiezioni, ibid, p. 228 ("Tutte queste m a n i e di parlare, t h e han rapporto e analogia con la cau-
sa efficiente").
Il, l'AKAI I.Iil lSMO II I,'lMMANItN/A
ma senza di esse perderebbe gnin parte del suo senso. Per questo i Cartesiani
sostengono cosi volentieri la teoria dell'analogia: essi infatti non cercano tan-
to di riconciliare l'opera del maestro con il tomismo quanto piuttosto di svi-
luppare un elemento essenziale del cartesianesimo che era implicito nello
stesso Cartesio.
Si possono sempre immaginare fra Cartesio e Spinoza fantasiose deriva-
zioni. Ad esempio, in una definizione cartesiana della sostanza ("ciò che non
ha bisogno che di se medesima per esistere"), si può pensare di scoprire una
tentazione monista o addirittura panteista. Questo significa dimenticare la fun-
zione implicita dell'analogia nella filosofia di Cartesio, sufficiente per premu-
nirci da ogni tentazione di questo tipo: proprio come in San Tommaso, l'atto
di esistere delle sostanze create è analogo a quello della sostanza divina^^. E
sembra proprio che il metodo analitico dia luogo naturalmente ad una con-
cezione analogica dell'ente; il suo processo conduce spontaneamente ad un
ente analogo. N o n bisogna quindi stupirsi se nel cartesianesimo si ritrova una
difficoltà che era già presente nel tomismo piìi ortodosso: nonostante le sue
ambizioni, l'analogia non si libera dell'equivocità da cui prende le mosse e del-
l'eminenza alla quale perviene.
Per Spinoza, Dio n o n è causa di sé in un senso diverso da quello in cui è
causa di tutte le cose. Al contrario, è causa di tutte k cose nel senso stesso in cui è cau
sa disé^°. Cartesio o dice troppo o n o n dice abbastanza: troppo per Amauld,
non abbastanza per Spinoza. N o n è infatti possibile utilizzare "per sé" positi-
vamente usando "causa di sé" per semplice analogia. Cartesio ammette che se
l'essenza di Dio è causa della sua esistenza, lo è nel senso della causa formale
e n o n nel senso della causa efficiente. La causa formale è l'essenza immanen-
te, che coesiste con il suo effetto ed è inseparabile da esso. In più ci vuole una
ragione positiva grazie alla quale l'esistenza di Dio n o n abbia una causa effi-
ciente e non faccia tutt'uno con l'essenza. Cartesio scopre tale ragione in una
semplice proprietà: l'immensità di Dio, la sua sovrabbondanza o infinità. Ma
una simile proprietà può svolgere soltanto la funzione di una regola di pro-
porzionalità in un giudizio analogico. Affinché questa proprietà non designi
nulla della natura di Dio, Cartesio deve limitarsi ad una determinazione indi-
'9 Descartes, I Principi dellafilosofiac\X„ I, jl ( " C h e cos'è la sostanza e come tale nome non si
addice univocamente a Dio e alle cose create").
E, I, 25, se. È curioso c o m e P. L a c h i è z e - R e y , nel litare questo passo da Spinoza, ne inverta
l'ordine. Egli fa come se S p i n o z a a v e i i f detto c h e D i o è cauia di s^ nel senso in cui è causa delle
cose. Deformata in questo m o d o , la citazione non i i i n l i c n e solo un lapsus, ma conserva una pro-
spettiva "analogica", e invoca innatuilHltn la caiiialilìt rllicicnle (tfr. Origines cartésiennes duDie
de Spinoza cit., pp. 33-34.)
I^O Sl>lN()/A I! Il IHnHII'MA l>l!M,'HSI'Ri:.S,SK)Ni;
retta della causa di sé: questa si predica in un senso diverso da quello della cau-
sa efficiente, ma si predica anche in analogia con essa. Quel che manca in Car-
tesio è quindi una ragione in virtù della quale la causa di sé possa essere colta
in sé e direttamente fondata sul concetto o sulla natura di Dio. È questa la
ragione che Spinoza scopre distinguendo la natura divina dai propri, l'assolu-
to dall'infinito. Gli attributi sono gli elementi formali immanenti che costi-
tuiscono la natura assoluta di Dio. Essi non possono costituire l'essenza di Dio
senza costituirne anche l'esistenza, e n o n esprimono l'essenza senza esprime-
re anche l'esistenza che necessariamente ne deriva; per questo motivo l'esi-
stenza e l'essenza sono la stessa cosa^'. Gli attributi costituiscono cosi la ragio-
ne formale che fa della sostanza in sé la causa di sé, direttamente e n o n per
analogia.
La causa di sé è innanzitutto colta in se stessa; è a questa condizione che
l"'in sé" e il "per sé" acquistano un significato perfettamente positivo. Ne
segue che la causa di sé n o n si predica più in un senso diverso dalla causa effi-
ciente, anzi è la causa efficiente che si predica nello stesso senso della causa di
sé. Dio produce così come esiste: da un lato, produce necessariamente, dal-
l'altro produce necessariamente negli stessi attributi che costituiscono la sua
essenza. Ritroviamo qui i due aspetti dell'univocità spinozista, l'univocità del-
la causa e l'univocità degli attributi. Fin dall'inizio delle nostre analisi, ci è par-
so che lo spinozismo non potesse essere disgiunto dalla battaglia che esso con-
duce contro la teologia negativa e contro ogni tipo di metodo che proceda
secondo l'equivocità, l'eminenza e l'analogia. Spinoza critica n o n solo l'in-
troduzione del negativo nell'ente ma anche tutte le false concezioni dell'af-
fermazione nelle quali il negativo sopravvive. Sono queste le sopravvivenze
che Spinoza scopre e combatte in Cartesio e nei Cartesiani. Il concetto spi-
nozista dell'immanenza non ha altro senso che questo: esprime la doppia uni-
vocità della causa e degli attributi, ossia l'unità della causa efficiente e della
causa formale, l'identità fra l'attributo che costituisce l'essenza della sostanza
e quello che è implicato dalle essenze delle creature.
N o n si deve credere che Spinoza, riducendo le creature a modificazioni o
a modi, tolga loro ogni essenza o potenza. L'univocità della causa non signi-
fica che la causa di sé e la causa efficiente abbiano un solo e unico senso, ma che entra
be siano predicate nello stesso senso di ciò che è causa. L'univocità degli attributi n
significa che la sostanza e i modi abbiamo lo stesso essere o la stessa perfe-
zione: la sostanza è in sé, le modificazioni sono nella sostanza in quanto sono
" E, 1 , 2 0 , dira.
Il, l'AKM I.l.l.lSMO li L.'LMMANUN/A
in altro. Ciò che è in altro c ciò clic è in sé non sono predicati nello stesso sen-
so, ma l'essere è predicato formalmente nello stesso senso di ciò che è in sé e
di ciò che è in altro: gli stessi attributi, nello stesso senso, costituiscono l'es-
senza dell'uno e sono implicati nell'essenza dell'altro. Anzi, quest'essere
comune in Spinoza non è, come in Duns Scoto, un Essere neutralizzato, indif-
ferente al finito e all'infinito, all'/w-i/ e zW'in-alio. È invece l'essere qualificato
della sostanza, nel quale la sostanza rimane in sé, ma nel quale anche i modi
rimangono come in altro. L'immanenza è quindi la nuova figura che la teoria
dell'univocità acquista in Spinoza. Il metodo sintetico conduce naturalmente
alla posizione di questo essere comune o di questa causa immanente.
Vi sono assiomi che si ritrovano di frequente nella filosofia di Cartesio. Il
principale è che il niente n o n ha proprietà. Ne deriva, dal p u n t o di vista del-
la quantità, che ogni proprietà è proprietà di un ente: quindi, ogni cosa è un
ente o una proprietà, una sostanza o un modo. E anche dal punto di vista del-
la qualità, ogni ente è perfezione. Dal punto di vista della causalità, deve esser-
ci almeno altrettanta realtà nella causa e nell'effetto, altrimenti qualcosa sareb-
be prodotto dal niente. Infine, dal punto di vista della modalità, non p u ò darsi
l'accidente, poiché l'accidente è una proprietà che n o n implica necessaria-
mente l'ente al quale si rapporta. Spinoza dà di tutti questi assiomi una nuo-
va interpretazione, conforme alla teoria dell'immanenza e alle esigenze del
metodo sintetico. Egli è convinto che Cartesio n o n abbia colto il senso e le
conseguenze della proposizione: il niente n o n ha proprietà. Da un lato, la plu-
ralità delle sostanze diventa impossibile: n o n vi sono né sostanze ineguali e
limitate né sostanze uguali illimitate, poiché "dovrebbero avere qualcosa che
ricevono dal nulla"". Dall'altro, non ci si p u ò limitare a dire che ogni realtà è
perfezione. Bisogna anche riconoscere che nella natura di una cosa tutto è
realtà, cioè perfezione; "dire, a proposito di ciò, che la natura della cosa lo
richiedeva (la limitazione), e che perciò non poteva essere altrimenti, è dir nul-
la. Infatti la natura della cosa n o n può richiedere niente, se n o n esiste"^^. Si
evita in tal m o d o di credere che una sostanza subisca una limitazione della sua
natura in virtù della sua possibilità.
Come n o n vi è una possibilità della sostanza rispetto al suo attributo, così
non vi è una contingenza dei modi rispetto alla sostanza. N o n basta mostra-
re, con Cartesio, che gli accidenti non sono reah. I modi della sostanza sono
in Cartesio accidentali perché necessitano di una causalità esterna che in qual-
derato la partecipazione dal punto di vista del piccolo'. In realtà, non è il par-
tecipato che passa nel partecipante. Il partecipato rimane in sé, è partecipato
in quanto produce, e produce in quanto dà, ma non deve uscire da sé, né per
dare né per produrre. Questo è il programma formulato da Plotino: partire
dal più alto, subordinare l'imitazione alla genesi o alla produzione e sosti-
tuire l'idea del dono a quella della violenza. Il partecipato non si divide, non
è imitato dal di fuori né è limitato da intermediari che fanno violenza alla sua
natura. La partecipazione non è né materiale, né imitativa né demoniaca, è
emanativa. Emanazione significa al contempo causa e dono: causalità per
mezzo della donazione ma anche donazione produttiva. La vera e propria
attività è quella del partecipato; il partecipante è soltanto un effetto, e riceve
quello che la causa gli dona. La causa emanativa è la Causa che dona, il Bene
che dona, la Virtù che dona.
Il principio intemo della partecipazione, dallato del partecipato, deve esse-
re necessariamente ricercato "al di là" o "al di sopra". Il principio che rende
possibile la partecipazione non può infatti essere partecipato o partecipabile.
Il principio emana ogni cosa e dà tutto, ma non è partecipato, poiché la par-
tecipazione si realizza soltanto a seconda del dono e del ricevente del dono
da parte del principio. È in tal senso che Proclo elabora la sua teoria dell'Im-
partecipabile; vi è partecipazione solo grazie ad un principio che è imparteci-
pabile, ma che fa partecipare. E Plotino mostra che l'Uno è necessariamente
superiore ai suoi doni, che dona quello che non ha oppure che non è quello
che dona^. L'emanazione si presenta come una triade: il donatore, quel che è
donato, quel che riceve. Partecipare significa sempre partecipare secondo quel
che è donato. Non si deve quindi parlare solo di una genesi del partecipante
ma anche di una genesi del partecipato, che giustifica il fatto che è partecipa-
to. Doppia genesi, di quel che è donato e di quel che riceve: l'effetto che rice-
ve determina la propria esistenza quando possiede completamente quel che
gli è donato, ma lo possiede completamente solo se si volge verso il donato-
re. Il donatore è superiore ai suoi doni e ai suoi prodotti, partecipabile secon-
' Plotino, VI, 6 , , § 2,27-32: "Noi [vale a dire i platonici] poniamo l'essere nel sensibile, poi met-
tiamo laggiù ciò che dovrebbe essere ovunque; quindi imrtiaginando il sensibile come qualcosa di
grande ci chiediamo come quella natura che è laggiù possa riuscire a estendersi a una cosa tanto
grande. Ma in realtà, quello che chiamiamo grande è piccolo; e quello che crediamo piccolo è gran-
de, poiché nella sua immensità raggiunge per primo ogni angolo del sensibile...). Plotino sottolinea
qui la necessità di rovesciare il problema platonico e di prendere le mosse dal partecipato e da ciò
che fonda la partecipazione nel partecipato.
^ Cfr. Plotino, VI, 7, § 17,3-6. La teoria dell'Impartecipabile, del donatore e del dono, è svilup-
pata e approfondita in modo costante da Proclo e da Damasceno nei loro commenti al Parmenide.
II. I'ARAI.I.HI.ISM() li I.'IMMANIIN/A j^j
5 Sulla Causa o Ragione che "rimane in sé" per produrre, e sull'importanza di questo tema in
Plotino, cfr, R. Arnou, B-axi's et Theoria, Alcan, Paris 1921, pp. 8-12.
Il Breve Trattato definisce la causa immanente come causa che agisce in se stessa (I, cap. 2,24).
La causa immanente diventa cosi simile alla causa emanativa, e Spinoza può cosi metterle a con-
fronto analizzando le categorie della causa (BT, I, cap. 3,2). Anche neWEtica, egli utilizza effluere per
indicare la maniera in cui i modi seguono dalla sostanza (1,17, se.); e nella lettera 43 a Osten scrive
omnia necessario a Dei natura emanare. Spinoza sembra non tener conto di una distinzione che gli è
nota: una causa immanente è detta possedere una causalità che si distingue dalla sua esistenza, men-
tre la causalità emanativa non si distingue dall'esistenza della causa (cfr. Yittxthooxà,Meletemataphi-
hsophica, t. II, p. 229). Ma è proprio questa differenza che Spinoza non può accettare.
5 Plotino, V, § 1, 5.
t36 Jil'INO/A l( Il l'HdlllliMA l)i:i l,'liSI'Ki;SSI()Ni;
Plotino dice ancora: l'Uno non ha "nulla in comune" con le cose che ven-
gono dopo di lui^. Infatti, la causa emanativa non è solo superiore all'effetto
ma anche a quello che dona all'effetto. Ma perché l'Uno è la causa prima?
Dando l'essere a tutto ciò che è, la causa prima è necessariamente al di là del-
l'ente o della sostanza. Di conseguenza, l'emanazione in quanto tale non può
essere separata dal sistema dell'Uno-superiore all'ente; la prima ipotesi del Par-
menide domina tutto quanto il neoplatonismo^. Neanche può essere separata
dalla teologia negativa o dal metodo analogico che rispetta l'eminenza del
principio o della causa. Proclo mostra che, nel caso dell'Uno, la negazione
genera affermazioni che si applicano a quello che dona l'Uno e a quello che
procede dall'Uno. Anzi, ad ogni stadio dell'emanazione si deve riconoscere la
presenza di un impartecipabile da cui le cose procedono e nel quale si con-
vertono. L'emanazione serve da principio in un universo gerarchizzato; la dif-
ferenza degli enti è concepita come differenza gerarchica, ogni termine è l'im-
magine del termine superiore che lo precede, e si definisce mediante il grado
di lontananza che lo separa dalla causa prima o dal primo principio.
Vi è quindi una seconda differenza fra la causa emanativa e la causa imma-
nente. L'immanenza implica una pura ontologia, una teoria dell'Ente nella
quale l'Uno è solo la proprietà della sostanza e di ciò che è. Inoltre, l'imma-
nenza allo stato puro richiede il principio dell'eguaglianza dell'ente o la posi-
zione di un Ente-uguale: non solo l'Ente è uguale in sé ma è anche presente
in tutti gli enti. Così come la Causa, presente in ogni cosa: non esiste infatti
una causa remota. Gli enti non si definiscono in funzione del rango che occu-
pano in una gerarchia, né sono più o meno lontani dall'Uno, ma dipendono
tutti direttamente da Dio, partecipano all'eguaglianza dell'ente e ricevono
immediatamente tutto quello che possono ricevere in base alla capacità della
loro essenza, indipendentemente da ogni tipo di vicinanza o di lontananza.
L'immanenza allo stato puro richiede inoltre un Ente univoco che formi una
Natura composta da forme positive, comuni al prodotto e al produttore, alla
causa e all'effetto. Sappiamo già che l'immanenza non sopprime la distinzio-
ne delle essenze, ma per questo sono necessarie forme comuni che costitui-
scano l'essenza della sostanza come causa e che contengano le essenze dei
^ Plotino, V, 5, § 4. Per Plotino vi è senza alcun dubbio una forma comune a tutte le cose, ma
si tratta di una forma finale, la forma del Bene, che deve essere interpretata in senso analogico.
7 cfi:. E. Gilson, L'Etre et l'essence, Vrin, Paris 1948, p. 42: "In una dottrina dell'Ente, l'inferiore
esiste solo in virtii dell'ente superiore. In una dottrina dell'Uno, invece, un principio generale sta-
bilisce che l'inferiore esiste solo in virtù di quel che il superiore non è; m effetti, il superiore non dà
mai quel che non ha, perché, per poter dare qualcosa, deve essere al di sopra".
Il l'AKAI.I.lil.lSMO li I.'IMMANUN/A ^yj
modi in quanto effetti. La superiorità della causa sussiste quindi dal punto di
vista dell'immanenza ma non implica eminenza alcuna, ovvero nessuna posi-
zione di un principio che sia al di là delle forme presenti nell'effetto. L'im-
manenza si contrappone ad ogni eminenza della causa, ad ogni teologia nega-
tiva, ad ogni metodo analogico e ad ogni concezione gerarchica del mondo.
Nell'immanenza, tutto è affermazione. La Causa è superiore all'effetto, ma
non è superiore a quello che dà all'effetto. O meglio, essa non "dà" nulla all'ef-
fetto. La partecipazione deve essere pensata in modo affatto positivo, non a
partire da un dono eminente ma da una comunità formale che lascia sussiste-
re la distinzione delle essenze.
^ M. de Gandillac ha analizzato questa tematica ntLa Phihsophie de Nicolas de Cues, Aubier, Paris
1942.
' Plotino, V, I, § 7,30.
Plotino, VI, 6, § 9. Il termine exelittein (dispiegare, sviluppare) ha grande importanza in Ploti-
no e nei suoi successori, nel quadro di una teoria dell'Ente e dell'Intelligenza.
" Cfr. Piotino, VI, 2, § 11,15: "Una cosa può non avere meno essere di un'altra, pur avendo meno
unità".
Sl'INO/A II II l'KtmntMA I)I!I,I,'|Ì.SI'RI'.,S.SIC)NI!
" Boezio applica all'Ente eterno i termini di comprehendere, di compkctiri (cfr. Consolazione della
filosofia, prosa è). La coppia di sostantivi complicatio - explicatio, o di avverbi complicative - explicative,
assume una notevole rilevanza nei commentatori di Boezio, in particolare nella scuola di Chartres
del XII secolo. Ma è soprattutto con Nicolò Cusano e Giordano Bruno che tali nozioni acquistano
uno statuto filosofico rigoroso: cfi-, M . de Gandillac, Laphilosophie de Nicolas de Cues cit.
Nicolò Cusano, La Dotta Ignoranza, II, cap. 3, Rusconi, Milano 1988, p. 137.
II. l'ARAM.UI.I.SMO i; 1,'IMMANI!N/A
Sulla categoria di espressione in Eckhart, cfr. Lossky, Théologie négative e connaissance de Dieu
chez maitre Eckhart, Vrin, Paris i960.
Plotino, ni, 8, § 8; vedi anche V , 3 § 10: " C i ò che si esplica è molteplice".
Plotino, VI, 8, § 18,18: "Il centro si manifesta per mezzo dei raggi, così come è, così come è
esplicato, ma senza esplicarsi".
m j Sl'lNO/A H II l-Kl mi l'MA DUI I,"|(,S||R|;,SSI()NI!
'7 San Bonaventura sviluppa una triade dell'espressione che comprende la Verità che si espri-
me, la cosa espressa, l'espressione in sé: In hoc autem expressione est tria intelligere, scilicet ipsam verita-
tem, ipsam espressionem et ipsam rem. Veritas exprimens una sola est et re et ratione; ipsae autem res quae expri-
muntur habent multiformitatem vel actualem velpossibilem; expressio vero, secundum id quod est, nihil aliud
est quam ipsa veritas; sed secundum id ad quod est, tenet se ex parte rerum quae exprimuntur (De Scientia Chri-
sti. Opera Ommnia, V, 14 a). Sui termini "esprimere", "espressione" in sant'Agostino e san Bonaven-
tura, cfr. E. Gilson, La Philosophie de saint Bonaventure, Parigi, Vrin, 1953, pp. 124-125.
Nicolò Cusano osserva a tale proposito: "Bisogna, infatti, che l'immagine come tale sia con-
tenuta nel suo modello, altrimenti non sarebbe un'immagine vera... Il modello è in tutte le imma-
gini ed in esso tutte le cose sono immagini. Nessuna è più piccola o più grande di esso. Per questo
tutte le immagini sono immagini di un unico modello." (Tr. it. Il gioco della palla, in Operejilosofiche,
Utet, Torino 1972, p. 893.)
1^2 S P I N O / A I! II I'ROHI I Ì M A I)HI.Ì,'IÌ.SI'RI:S.SK)NIÌ
' ' Il termine e la nozione di Partecipazione (partecipazione alla natura di Dio, alla potenza di
Dio) sono un tema costante ndVEtica e nelle Lettere.
Cfr. E, IV, 4, dim.
Ogni volta che Spinoza parla di "causa ultima o remota", precisa che la formula non deve
essere presa alla lettera: cfr. BT, cap. 3, 2; E, I, 28, se.
Il, l'ARAI I.lil.lSMO i; I . ' I M M A N I ! N / A J^J
E come se ogni attributo fosse affetto da due quantità infinite, ma, per cer-
ti aspetti, ciascuna a modo suo, divisibili: una quantità intensiva, che si divi-
de in parti intensive o in gradi, e una quantità estensiva, che si divide in parti
estensive. Non dobbiamo perciò stupirci se Spinoza, oltre all'infinito qualita-
tivo degli attributi che si rapportano alla sostanza, faccia anche riferimento a
due infiniti quantitativi propriamente modali. Nella lettera a Meyer scrive:
"Talune cose sono di loro natura infinite e in nessun modo si potrebbero con-
cepire come finite; altre invece lo sono in virtià della causa a cui ineriscono, e
queste, ove siano concepite astrattamente, si possono dividere in parti e con-
siderare come finite; altre infine sì dicono infinite, o se si vuole indefinite, per-
ché non si possono fissare con un numero, benché si possano concepire come
maggiori e minori"^. Sorgono qui numerosi problemi: infatti, in che cosa con-
sistono questi due infiniti? Come e a quali condizioni si possono dividere in
parti? Qual è il loro rapporto, e quali sono i rapporti fra le loro parti?
Che cosa Spinoza chiama essenza del modo, essenza particolare o singo-
lare? La sua tesi si può riassumere in questi termini: le essenze dei modi non
sono né possibilità logiche, né strutture matematiche né tanto meno entità
metafisiche, sono realtà fisiche, res physicae. Spinoza intende dire che l'essen-
za, in quanto tale, possiede un'esistenza. Un'essenza di modo possiede un'esisten
za che non si confonde con l'esistenza del modo corrispondente. L'essenza del mo
esiste, è reale ed attuale, anche se non esiste attualmente il modo di cui è l'es-
senza. Di qui deriva la concezione spinoziana del modo non-esistente, il qua-
le non è mai qualcosa di possibile, ma un oggetto la cui idea è necessariamente
compresa nell'idea di Dio, così come la sua essenza è necessariamente conte-
nuta in un attributo^. L'idea di un modo inesistente è quindi il correlato ogget-
tivo necessario di un'essenza di modo. Ogni essenza è essenza di qualcosa;
un'essenza dì modo è l'essenza di qualcosa che deve essere concepito nell'in-
telletto infinito. Non si può quindi dire che l'essenza sia un possibile, così
come non si può dire che il modo non esistente tenda, in virtù della sua essen-
za, all'esistenza. Su questi due punti, l'opposizione fra Leibniz e Spinoza è
radicale: in Leibniz, l'essenza o la nozione individuale è una possibilità logi-
ca, che non sì distacca da una certa realtà metafisica, ossia da un"'esigenza di
^ Leibniz, Sull'origine radicale delle cose-. "Vi è nelle cose possibili, vale a dire nella possibilità stes-
sa o essenza, una certa qual esigenza d'esistere, o, per così dire, una certa pretesa all'esistenza, per
dirla in un parola, l'essenza tende essa stessa all'esistenza".
7 E, 1,26, prop.
^ In E, I, 24 prop. e dim. Spinoza dice che: "... l'essenza delle cose prodotte da Dio non impli-
ca l'esistenza". Ossia: l'essenza di una cosa non implica l'esistenza di questa cosa. Ma, nel corolla-
rio di 1,24, aggiunge: "sia che le cose esistano, sia che non esistano, ogni qual volta poniamo men-
te alla loro essenza troviamo che essa non implica né l'esistenza né la durata; e perciò la loro essenza
non può essere causa né della propria esistenza né della propria durata (neque suae existentiae neque suae
durationis)". C i sembra che i traduttori vadano incontro ad un sorprendente controsenso allorché
fanno dire a Spinoza: "Perciò né della loro esistenza né della loro durata può essere causa la loro
essenza". Anche se questa versione fosse possibile, cosa che assolutamente non è, non si capirebbe
più quel che il corollario presenta di nuovo rispetto alla dimostrazione. Tale controsenso è senza
dubbio provocato dall'allusione alla durata. In che modo Spinoza potrebbe parlare della "durata"
dell'essenza, visto che l'essenza non dura? Ma, in 1,24, non sappiamo ancora che l'essenza non dura;
ed anche quando lo afferma, Spinoza utilizza comunque il termine "durata" in modo assai genera-
le, in un senso letteralmente inesatto: cfr. V , 20, se. Ci pare che 1, 24 si presenti nel suo insieme in
questi termini: i) l'essenza di una cosa prodotta non è causa dell'esistenza della cosa (dimostrazio-
ne); 2) ma non è neanche causa della sua esistenza in quanto essenza (corollario); 3) quindil, 25, Dio
è causa, anche dell'essenza delle cose.
' E. Gilson, in pagine definitive su Avicenna e Duns Scoto, ha mostrato come la distinzione fra
l'essenza e l'esistenza non sia necessariamente una distinzione reale (cfr. L'Etreetl'essence, Vrin, Paris
1948, p. 134 e p. 159).
,J2 S l ' I N O / A || Il l'K( mi U M A l>ia,l 'MSI'KliSSIONi;
ma, l'essenza possiede sempre l'esistenza che le spetta in virtù delia sua causa.
Ecco perché, in Spinoza, si riuniscono le due proposizioni: Le essenze hanno
un'esistenza o una realtàfisica; Dio è causa efficiente delle essenze. L'esistenza del
senza fa tutt'uno con Tessere-causato dell'essenza. Non si deve quindi confon-
dere la teoria spinozista con la teoria cartesiana, in apparenza analoga: quando
Cartesio afferma che Dio produce anche le essenze, intende dire che Dio non
è soggetto ad alcun tipo di legge, che crea tutto, compreso il possibile. Spino-
za intende invece dire che le essenze non sono dei possibili, e che hanno un'e-
sistenza pienamente attuale che spetta loro in virtù della loro causa. Le essen-
ze dei modi possono essere assimilate a dei possibili solo se vengono
considerate astrattamente, vale a dire se vengono separate dalla causa che le
pone come cose reali o esistenti.
Se tutte le essenze convengono, è proprio perché non sono causa le une del-
le altre, ma hanno tutte Dio come causa. Le essenze, quando le si considera
concretamente, rapportandole alla causa da cui dipendono, vengono poste nel
loro insieme, nella loro coesistenza e convenienza'". Tutte le essenze conven-
gono secondo l'esistenza o realtà che deriva dalla loro causa. Un'essenza può
essere separata da un'altra solo astrattamente, allorquando la si considera indi-
pendentemente dal principio di produzione che tutte le comprende. Le essen-
ze formano perciò un sistema totale, un insieme attualmente infinito. Come
dice la Lettera a Meyer, si tratta di un insieme infinito in virtù della sua causa.
Dobbiamo quindi chiederci: come possono distinguersi le essenze dei modi,
dal momento che sono inseparabili le une dalle altre? Come possono essere
singolari, visto che formano un insieme infinito? In altri termini: in che cosa
consiste la realtà fisica delle essenze in quanto tali? È noto che tale problema,
che riguarda sia l'individualità che la realtà, solleva numerose difficoltà all'in-
terno dello spinozismo.
Non sembra che Spinoza abbia avuto presente fin dall'inizio una soluzio-
ne chiara, né tanto meno una posizione chiara del problema. In due testi del
Breve Trattato, egli sostiene che, finché i modi non esistono, le loro essenze non
si possono distinguere né dall'attributo che le contiene né le une dalle altre, e
che quindi non hanno in loro nessun principio di individualità". L'indivi-
priamente estrinseca grazie alla durata (e, nel caso dei modi dell'estensione, gra-
zie alla figura e al luogo).
Finché il muro rimane bianco, nessuna figura può essere distinta in esso e
da esso. Ossia: in questo caso, la qualità non è affetta da qualcosa che si distin-
gua da essa intrinsecamente. Ma rimane il problema di sapere se non esista
un'altra distinzione modale, in quanto principio intrinseco di individuazione.
Anzi, tutto lascia supporre che un'individuazione secondo l'esistenza del
modo sia insufficiente. Le cose esistenti possono essere distinte solo se si pre-
suppone che le loro essenze siano distinte, così come ogni distinzione estrin-
seca presuppone una distinzione intrinseca preliminare. E quindi probabile
che un'essenza di modo sia singolare in sé, anche quando il modo corrispon-
dente non esista. Ma in che senso? Torniamo a Duns Scoto: il bianco, egli
afferma, possiede intensità variabili, che non si aggiungono al bianco come
una cosa ad un'altra cosa, come la figura si aggiunge al muro sul quale è trac-
ciata; i gradi di intensità sono invece determinazioni intrinseche, modi intrin-
seci del bianco, che rimane univocamente immutato, qualunque sia la moda-
lità sotto la quale lo si consideri'^.
Anche in Spinoza le essenze dei modi sono modi intrinseci o quantità
intensive. L'attributo-qualità rimane univocamente quel che è, contenendo tut-
ti i gradi che lo affettano senza modificarne la ragione formale; le essenze dei
modi si distinguono dall'attributo come l'intensità dalla qualità, e si distin-
guonofi-adi esse come i diversi gradi di intensità. Possiamo supporre che Spi-
noza, senza sviluppare esplicitamente questa teoria, propenda per l'idea di una
distinzione o di una singolarità propria alle essenze dei modi come tali. La dif-
ferenza degli enti (essenze dei modi) è al contempo intrinseca e puramente
quantitativa, dal momento che la quantità di cui si tratta qui è quella intensi-
va. Solo una distinzione quantitativa degli enti si può conciliare con l'identità
qualitativa dell'assoluto, ma tale distinzione quantitativa non è per nulla
un'apparenza, è una differenza interna, una differenza di intensità, sebbene
ogni ente finito debba esprimere l'assoluto, secondo la quantità intensiva che ne
costituisce l'essenza, vale a dire secondo il suo grado di potenza''. L'indivi-
dei rettangoli compresi nel cerchio, "anche le idee di essi non soltanto esistono solo in quanto solo
comprese nell'idea del cerchio, ma anche in quanto implicano l'esistenza di quei rettangoli, sì che
esse si distinguono dalle altre idee degli altri rettangoli").
Cfr. Duns Scoto, Opus exoniense, I, D3, q. i e 2, a. 4, n. 17. L'accostamento fra Spinoza e Duns
Scoto riguarda soltanto il tema delle quantità intensive o dei gradi. La teoria dell'individuazione
esposta nel paragrafo seguente appartiene a Spinoza ed è del tutto diversa da quella di Duns Scoto.
In Fichte e in Schelling si ritrova un problema analogo, quello della differenza quantitativa e
dellaforma della quantitatività in rapporto alla manifestazione dell'assoluto (cfr. la lettera di Fichte a
Schelling dell'ottobre 1801, in Fichtes Leben II, Zweite Abth. IV, 28, p. 357).
r Tw)RtA imi, Mono miro ij^
ginare la quantità, per pensare astrattamente i modi. I modi, dal momento che
derivano dalla sostanza e dagli attributi, non sono fantasmi dell'immagina-
zione o enti di ragione: il loro essere è quantitativo, non numerico. Se consi-
deriamo il primo infinito modale, l'infinito intensivo, vediamo che non è divi-
sibile in parti estrinseche. Le parti intensive che esso intrinsecamente
comporta, le essenze dei modi, non sono separabili le une dalle altre; solo il
numero le coglie astrattamente, ossia le separa le une dalle altre e dal princi-
pio che le produce. Se consideriamo invece il secondo infinito, l'infinito esten-
sivo, ci accorgiamo che è divisibile in parti estrinseche che compongono le esi-
stenze; ma queste parti estrinseche procedono sempre secondo insiemi infiniti,
ossia la loro somma supera sempre qualunque numero. Se le spieghiamo
secondo il numero, ci lasciamo sfiiggire l'essere reale dei modi esistenti e non
cogliamo altro che finzioni7
La Lettera a Meyer,fi-ale altre cose, espone quindi il caso specifico di un
infinito modale estensivo, variabile e divisibile. L'esposizione è importante
in quanto tale; Leibniz si congratula a questo proposito con Spinoza per esse-
re andato più a ftjndo di molti matematici®. Ma, dal punto di vista dello spi-
nozismo, la domanda è: a che cosa fa riferimento la teoria del secondo infi-
nito modale rispetto al sistema? La risposta ci sembra sia la seguente:
l'infinito estensivo riguarda l'esistenza dei modi. Infatti, quando Spinoza, nel-
VEtica, afferma che il modo composto possiede moltissime parti, per "moltis-
sime" intende un numero che non si può dare, una moltitudine superiore ad
ogni numero. L'essenza di questo modo è un grado di potenza, ma, qualun-
que sia il grado di potenza che costituisce la sua essenza, il modo non esiste
attualmente senza possedere infinite parti. Se il grado di potenza di un modo
è doppio di quello che Io precede, la sua esistenza è composta da infinite par-
ti, doppie rispetto a quelle che le precedono; al limite, vi possono essere infi-
niti insiemi infiniti, si può dare un insieme di tutti gli insiemi, che è l'insie-
me di tutte le cose esistenti, simultanee e successive. Le caratteristiche che
Spinoza attribuisce, nella Lettera a M^er, al secondo infinito modale hanno
la loro piena applicazione soltanto nella teoria del modo esistente che si tro-
va ntWEtica: il modo esistente possiede infatti infinite parti (moltissime par-
ti), e la sua essenza o grado di potenza costituisce un limite (il minimo o il
massimo); l'insieme dei modi esistenti, non solo simultanei ma anche suc-
cessivi, costituisce l'infinito maggiore, a sua volta divisibile in infiniti più o
meno grandi^.
' L'esempio della Lettera a Meyer (tutte le ineguaglianze dello spazio interposto fra due cerchi)
non è uguale a quello di Etica II, 8, se. (l'insieme dei rettangoli compresi nel cerchio). Nel primo
caso, si tratta di definire la andizione dei modi esistenti, le cui parti formano infiniti più o meno gran-
di, mentre l'insieme di tutti questi infiniti corrisponde alla Faccia dell'Universo. Ecco perché la Let-
tera a Meyer equipara tutte le ineguaglianze dello spazio a tutte le variazioni della materia (p. 82). Nel
secondo invece, quello àtW'Etica, si tratta di definire la condizione delk essenze dei modi quali sono
contenute nell'attributo.
Lettera ii a Meyer, p. 82. Anche nella Lettera 6 a Oldenburg, Spinoza rifiuta sia il progresso
all'infinito che l'esistenza del vuoto ("Della fluidità", p. 59).
" Non capiamo perché A. Rivaud, nel suo studio sulla fisica di Spinoza, veda qui una contrad-
dizione: "Come è possibile parlare di corpi molto semplici all'interno di un'estensione in cui la divi-
sione attuale è infinita! Questi corpi possono essere reali solo rispetto alla nostra percezione." {La
physique de Spinoza, "Chronicon Spinozanum", FV, p. 32.) i) Vi sarebbe contraddizione solo fi'a l'i-
dea di corpi semplici e il principio di una divisibilità all'infinito. 2) I corpi semplici sono reali solo
al di qua di ogni possibile percezione. Infatti, la percezione appartiene soltanto ai modi composti
da infinite parti, e coglie solo tali composti. Le parti semplici non sono percepite ma apprese tra-
mite il ragionamento: cfr. la Lettera 6 a Oldenburg, p. 57.
T I ' O K I A DUI. M O D O MINITO
potenza, per quanto piccolo possa essere; l'universo nel suo insieme corri-
sponde alla Potenza che comprende tutti quanti i gradi.
L'analisi dei modi dell'estensione deve essere intesa in tal senso. L'attribu-
to dell'estensione ha una quantità estensiva modale che si divide attualmente
in infiniti corpi semplici. I corpi semplici sono parti estrinseche che si distin-
j;uono le une dalle altre e si rapportano le une alle altre solo secondo il movi-
mento e la quiete. Il movimento e la quiete sono la forma della distinzione
estrinseca e dei rapporti estemifi-ai corpi semplici. I corpi semplici sono deter-
minati al movimento e alla quiete dal di fuori, all'infinito, e si distinguono
secondo il movimento o la quiete al quale sono determinati. Si raggruppano
sempre secondo insieme infiniti, poiché ogni insieme è definito da un certo qual rap-
porto di movimento e di quiete. Un insieme infinito corrisponde ad una certa
essenza di modo (ossia a un certo grado di potenza) secondo questo rappor-
to, e costituisce nell'estensione l'esistenza del modo. L'insieme di tutti gli insie-
mi infiniti secondo tutti i rapporti fornisce "tutte le variazioni della materia
che si muove", o anche "la faccia di tutto l'universo" sotto l'attributo dell'e-
stensione. Tutte le variazioni della materia o la faccia di tutto l'universo corri-
spondono all'onnipotenza di Dio in quanto comprende tutti i gradi della
potenza o tutte le essenze dei modi nell'attributo dell'estensione'^.
Questo schema sembra dissipare un certo numero di contraddizioni che si
credeva esistessero nella fisica di Spinoza, o meglio, vi&VìEtica,fi-ala fisica dei
corpi e la teoria delle essenze. Rivaud sottolinea a questo proposito che un
corpo semplice è sempre e comunque determinato al movimento e alla quie-
te dal di fiiori: il corpo rimanda ad un insieme infinito di corpi semplici. Ma
come è possibile allora conciliare lo stato dei corpi semplici con lo statuto del-
le essenze? "Un corpo singolare, un corpo semplice, non possiede quindi
un'essenza eterna. La sua realtà sembra essere riassorbita in quella del sistema
infinito delle cause"; "Se cerchiamo un'essenza particolare, troviamo soltanto
una catena infinita di cause in cui nessun termine sembra possedere una sua
realtà essenziale"; "Questa soluzione, imposta dai testi che abbiamo appena
citato, sembra essere in contraddizione con i principi più saldi del sistema di
Spinoza. Che ne è allora dell'eternità delle essenze, così tante volte ribadita?
Come può un corpo, per quanto piccolo e fiigace sia l'essere suo, esistere sen-
L'esposizione della fisica si trova in E, II, dopo la proposizione 13 (al fine di evitare ogni tipo
di confusione, i riferimenti a tale esposizione sono preceduti da un asterisco). La teoria dei corpi
semplici comprende: * assiomi i e 2, lemmi i, 2 e 3, assiomi i e 2. Spinoza insiste sulla determina-
zione puramente estrinseca; è vero che parla della "natura" del corpo, a livello dei corpi semplici,
ma la "natura" indica solo lo stato precedente del corpo.
1(52 S P I N O Z A H II I'HI M I I ' M A DUI I ' I ; S I ' R I ; S S I ( ) N I !
za avere una natura propria, una natura senza la quale non può né fermare né
trasmettere il movimento che riceve? Quel che non ha essenza non può esi-
stere, ed ogni essenza è, per definizione, immutabile. La bolla di sapone, che
esiste per un solo momento, possiede necessariamente un'essenza eterna, sen-
za la quale non sarebbe"'^.
Siamo invece del parere che non si debba cercare un'essenza per ogni parte
estensiva. Un'essenza è un grado di intensità, e le parti estensive e i gradi di
intensità (parti intensive) non corrispondono le une con gli altri. Ad ogni grado
di intensità, per quanto piccolo possa essere, corrispondono infinite partì esten-
sive, che hanno e devono avere fia di loro rapporti solamente estrinseci. Le par-
ti intensive procedono per infinità più o meno grandi, ma sempre e comunque
per infinità; non può essere che ciascuna di loro possegga un'essenza, poiché
infinite parti corrispondono all'essenza più piccola. La bolla di sapone possie-
de sì un'essenza, ma non così ogni parte dell'insieme infinito che la compone
sotto un certo rapporto. In altri termini, non vi è, in Spinoza, modo esistente che no
sia attualmente composto all'infinito, qualunque siano la sua essenza o il suo grado
di potenza. Spinoza dice che i modi composti hanno "moltissime parti", ma
quel che dice del modo composto, bisogna estenderlo ad ogni modo esistente,
poiché ogni modo esistente è composto, ed ogni esistenza è per definizione
composta. Possiamo quindi affermare che le parti semplici estensive esistano? E
che i corpi semplici esistano nell'estensione? Se intendiamo dire che esistono
singolarmente o numericamente, diciamo un'assurdità. Rigorosamente parlan-
do, le parti semplici non hanno né essenza né esistenza propria. Non hanno
un'essenza o una natura intema, si distìnguono estrinsecamente le une dalle altre
e si rapportano estrinsecamente le une alle altre. Non hanno un'esistenza pro-
pria, ma compongono l'esistenza: esistere significa possedere attualmente infi-
nite parti estensive. Secondo infinità più o meno grandi, esse compongono,
secondo diversi rapporti, l'esistenza dei modi la cui essenza è un grado più o
meno grande. Non solo la fisica di Spinoza ma anche lo spinozismo nel suo
complesso diventano incomprensibili se non si distingue quel che appartiene
alle essenze e alle esistenze da quella che è la loro corrispondenza.
Disponiamo adesso di un certo numero di elementi per rispondere alla
domanda: come possono infinite parti estensive comporre l'esistenza di un
modo? Ad esempio, un modo esiste nell'estensione quando infiniti corpi sem-
plici, che corrispondono alla sua essenza, gli appartengono attualmente. Ma
come possono corrispondere alla sua essenza o appartenerle? A partire dal Bre-
TEI, loi.
'9 Letterato a Oldenburg: "... ignoro in che modo ciascuna parte si accordi col suo tutto e in
che modo si connetta con tutte le altre" (p. 164).
S l ' l N d / A U II m i m |IMA DI'I I 'IISPRIISKIONI',
P M , I, cap. 2.
l'UORlA ni'l. M O D O l'INirO 167
E, II, 8, cor.: distinzione fra "esistere nella durata" ed "esistere soltanto in quanto compreso
nell'attributo"; E, V, 29, cor.: distinzione fra "esistere in relazione ad un certo tempo e a un certo
luogo" e "esistere in quanto contenuto in Dio e susseguente dalla necessità della sua natura".
" Cfr. E, II, 8, prop. e se.: non tantum— sedetiam.
^ Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, I ed. ("critica del quarto paralogismo..."): la materia non
è "se non una specie di rappresentazioni (intuizioni), che si dicono esterne non perché si riferisca-
no ad oggetti esterni in sé, ma perché esse riferiscono le percezioni allo spazio, in cui tutte le cose
sono le une fuori delle altre, laddove esso stesso, lo spazio, è in noi... Lo stesso spazio, con tutti i
suoi fenomeni, come rappresentazioni, non è se non in noi; ma in questo spazio nondimeno è dato
il reale o la materia di tutti gli oggetti dell'intuizione esterna realmente e indipendentemente da ogni
finzione." (Critica della ragion pura. Appendice, Brani delle Prima Edizione esclusi dalla Seconda,
Laterza, Bari 1983, voi. 2, pp. 686-689).
Sl'INO/A li II l'Himi l'MA DUI l'llSI'KliSSIC )Ni;
^ Le essenze dei modi, in quanto sono comprese nell'attributo, costituiscono già delle "espli-
cazioni". Spinoza parla in tal senso dell'essenza di Dio in quanto si esplica mediante l'essenza di que-
sto o quel modo: E, IV, 4, dim. Esistono però due registri di esplicazione, e il termine esplicare si
adatta particolarmente al secondo.
Capitolo quattordicesimo
' Cfr. E, II, 28, dira.: "Le affezioni sono modi dai quali le parti del Corpo umano, e conse-
guentemente tutto il Corpo, sono affette". Vedi anche II, postulato 3.
^ E, III, 51, prop. e dim., 57 se.
3 E, IV, 39, dim.
E, III, 2, se.: "In realtà, fino a questo momento, nessuno ha determinato quale sia il potere del
Corpo... Nessuno, infatti, fino adesso, ha conosciuto la struttura del Corpo".
IJQ S P I N O Z A K II I ' H O I H U M A I)I!I.I,'II,SI'KII.SSI()NI!
" L'adeguato e ^inadeguato qualificano in primo luogo le idee. Ma, in secondo luogo, sono le
qualificazioni di una causa: siamo "causa adeguata' di un afFetto che segue da un'idea adeguata che
abbiamo.
•3 E, III, prop. I e 3.
' l ' I : O K I A NI;I. M O D O MNITO
La capacità di essere affetti viene definita da Spinoza come l'attitudine di un corpo sia ad agi-
re che a patire: cfr. E, II, 13, se. ("quanto un certo Corpo è più atto degli altri a fare oppure a patire
simultaneamente una pluralità di cose..."); FV, 38, prop. ("quanto più il Corpo è reso atto ad essere
affetto in molti modi e affetta altri corpi...").
'' E, IV, 39, se.: "Avviene, infatti, talvolta che un uomo subisca tali mutamenti che non facil-
mente direi che egli è lo stesso, come udii raccontare di un certo Poeta Spagnuolo... E se questo
sembra incredibile, cosa diremo dei bambini? La cui natura l'uomo di età avanzata crede che sia tan-
to diversa dalla sua da non potersi persuadere di essere mai stato bambino se non traesse da altri
indizi questa congettura".
ly^ Sl'INOZA H II. I»H<)HI,UMA DHI.I.'USl'RliSSlONK
Le note di Leibniz testimoniano di un interesse costante nei confronti della teoria dell'azio-
ne e della passione di Spinoza: cfr. ad esempio un testo posteriore al 1704, ed. Grua, t. II, pp. 667
sgg. Leibniz si esprime spesso in termini analoghi a quelli di Spinoza: cfr. G. Friedmann, Leibniz, et
Spinoza, Gallimard, Paris 1946, p. 201.
Cfr. Leibniz, Sulla natura in se stessa... (1698), § 11. Il rapporto fra la forza passiva e la forza atti-
va è analizzato da M. Gueroult, Leibniz. Dynamique et métaphysique, Aubier-Montaigne, Paris 1967,
pp. 166-169.
T I I O R I A I)I;I. M O D O P I N I T O I^J
BT, II, cap. 26,7 e I, 2,23. Cfr. anche E, III, 3, se.: "Le passioni non si riferiscono alla Mente,
se non in quanto la Mente ha qualcosa che implica negazione".
•9 E, II, 17, se.
SlMNOZA l! Il l'Kl IMI I MA 1)1(11,'li,SI'KI'SMONIi
È il motivo per cui Spinoza, in E, III (definizione della cupidità), usa i termini: "affezione del-
fessenza", affectionem humanae essmtiae.
E, III, 2, se.: "Essi non sanno di che cosa è capace il Corpo e cosa possa essere dedotto dalla
sola contemplazione della sua natura".
" E, V, 42, se.
I L ' O R I A DI'.I, M O D O MINITO
E, rv, 4, dira.
^ Cfr. F. Alquié, Descartes, l'homme et l'oeuvre, Hatier-Boivin, Paris 1956, pp. 54-55. È vero che Car-
tesio, in particolare nelle sue ultime opere, ritorna a concezioni naturalistiche, che rimangono
comunque nel complesso negative (F. Alquié, La Découverte de k màaphysique de l'homme chez Descar-
tes, Puf, Paris 1950, pp. 271-272).
S P I N O Z A I; II. I>K( m i I Ì M A D U I I . ' I I S I ' R I ' S . S I O N I I
Leibniz, Sulla natura in se stessa..., § 2. Vedi anche § 16: costmire una filosofia che sia "ugual-
mente distante dal formalismo che dal materialismo".
^^ Cfr. la critica di Leibniz a Boyle: Sulla natura in se stessa..., § 3. Per quanto riguarda Spinoza:
Lettere 6e i^i Oldenburg ("In verità, io non credevo, né avrei mai potuto immaginare, che egli non
si fosse proposto altro nel suo Trattato sul Nitro.cht di dimostrare semplicemente come quella pue-
rile e superficiale dottrina delle forme sostanziali, delle qualità, ecc., riposi su un labile fondamen-
to", Lettera 13, p. 87).
Tl'.ORlA Olii. M O I X ) l ' I N I K ) yj^
esser compreso nella volontà di Dio, come credono gli Occasionalisti, deve
esserlo anche nel corpo stesso. Di conseguenza, è necessario attribuire agli aggre-
gati forze derivative: "la natura inerente alle cose non si distingue dalla forza
di agire e di patire"^7. Ma, a sua volta, la forza derivativa non contiene la sua
ragione: è. puramente istantanea, anche se collega l'istante presente con quel-
li passati e futuri. Rimanda ad una legge della serie degli istanti, che è una sor-
ta di forza primitiva o di essenza individuale. Semplici e attive, le essenze sono
la fonte delle forze derivative che si attribuiscono ai corpi. Formano alla fine
una vera e propria metafisica della natura, che non interviene nella fisica anche
se le corrisponde.
Il programma naturalistico di Spinoza presenta numerose analogie con
quello di Leibniz. Il meccanicismo determina i corpi esistenti infinitamente
composti, ma rimanda in prima istanza ad una teoria dinamica della capacità
di essere affetti (potenza di agire e di patire) e, in ultima istanza, ad una teoria
dell'essenza particolare, che si esprime nelle variazioni della potenza di agire
e di patire. In Spinoza, come in Leibniz, si distinguono tre livelli: meccanici-
smo, forza, essenza. Per questo l'opposizione reale fra le due filosofie non deve
essere cercata nella critica, assai generale, di Leibniz, secondo la quale lo Spi-
nozismo priverebbe le creature di ogni capacità e di ogni attività. È lo stesso
Leibniz a rivelare, tramite il pretesto di quella critica, le ragioni autentiche del-
la sua opposizione: si tratta infatti di ragioni pratiche, riguardanti il problema
del male, della provvidenza e della religione, la concezione pratica del ruolo
della filosofia nel suo complesso.
E vero comunque che le divergenze assumono anche una forma speculati-
va. E, a tale proposito, pensiamo che la questione principale riguardi la nozio-
ne del conatus. Per Leibniz, il conatus ha un doppio significato: da un punto di
vista fisico, designa la tendenza al movimento di un corpo, mentre da un pun-
to di vista metafisico, designa la tendenza di un'essenza all'esistenza. Per Spi-
noza, invece, le essenze dei modi non sono dei "possibili", poiché non man-
cano di nulla, sono tutto ciò che sono, anche quando i modi corrispondenti
non esistono. Non implicano quindi la tendenza a passare nell'esistenza. Il
conatus è sì l'essenza del modo (o il grado di potenza), ma dopo che il modo ha
iniziato ad esistere. Un modo comincia ad esistere quando le parti estensive
sono determinate dal di fuori a formare il rapporto che le caratterizza; solo
allora la sua essenza è determinata come conatus. Il conatus di Spinoza non è
altro che lo sforzo di perseverare nell'esistenza, dopo la posizione dell'esi-
^ BT, II, cap. 19,8, nota: "Due modi: perché la quiete non è un nulla". Per Spinoza, si può par-
lare di una "tendenza" al movimento solo nel caso in cui un corpo sia ostacolato, nel seguire il
movimento a cui è determinato dal di fuori, da altri corpi esterni che si oppongono a questa deter-
minazione. Cartesio parla del conatus in questo senso: cfr. l Principi dellafilosofìacit., Ili, 56 e 57.
^^ E, IV, 38 e 39: "Ciò che dispone il Corpo umano in modo che possa essere affetto in molti
modi" e "Le cose che fanno si che sia conservato il rapporto di movimento e di quiete che le parti
del Corpo umano hanno tra di loro".
E, III, 9, prop. e dim.
Sulla determinazione dell'essenza e del conatus per mezzo di una qualunque affezione, cfr. E,
III, 56 fine della dimostrazione e III, definizione della cupidità. In III, 9, se., Spinoza ha solamente
definito la cupidità come conatus o appetito "con la sua consapevolezza". Si tratta di una definizio-
ne nominale. Quando mostra invece che il conatus è necessariamente determinato da un'affezione di
cui abbiamo l'idea (anche inadeguata), ne dà una definizione reale, che implica la "causa di questa
coscienza".
T I ' O R I A I)I;I. M O D O I ' I N H ' O I8I
porzione totale del movimento e della quiete, che contieiie tutti i rapporti che
si compongono all'infinito e sussume l'insieme di tutti gli insiemi sotto tutti
i rapporti. La forma di quest'individuo è la "facies totius universi, la quale, ben-
ché varii in infiniti modi, rimane tuttavia sempre la medesima"^.
7 E, II, 29, cor. : ex communi Naturai ordine. II, 29, se. : Quoties (mem) ex communi Naturae ordine res
percipit, hoc est quoties exteme, ex rerum nempefortuito occunu determinatur... F. Alquié ha sottolineato
l'importanza di questa tematica àtWoccursus nella teoria spinoziana delle affezioni: cfr. Servitude et
libertéchez Spinoza [corso successivamente pubblicato presso C.D.U., Paris 1971, p. 42].
l8(5 Sl'INO/A 11 II, l'HOHi liMA DKI.I.'llSI'RliS.SIONIi
tenza: non si esplicano per mezzo della nostra essenza o potenza, ma per mez-
zo della potenza di una cosa esterna, ed implicano quindi la nostra impoten-
za'^. La passione ci separa dalla nostra potenza di agire; fin quando la nostra
capacità di essere affetti è colmata dalle passioni, siamo separati da ciò che pos-
siamo. Per questo Spinoza afferma: la gioia-passione non è una passione se
non "in quanto la potenza di agire dell'uomo non è aumentata fino al punto
che egli riesca a concepire se stesso e le sue azioni in modo adeguato"'^. Vale
a dire: la nostra potenza di agire non aumenta al punto da permetterci di esse-
re attivi. Siamo ancora impotenti, separati dalla nostra potenza di agire.
Ma la nostra impotenza è soltanto la limitazione della nostra essenza e del-
la nostra potenza di agire. Implicando la nostra impotenza, i nostri affetti pas-
sivi implicano pur sempre un grado, per quanto minimo, della nostra poten-
za di agire. In effetti, ogni affetto determina la nostra essenza o conatus. Ci
determina quindi alla cupidità, ossia ad immaginare e afare qualcosa che derivi
dalla nostra natura. Se l'affetto concorda con la nostra natura, la nostra poten-
za di agire è necessariamente aumentata o favorita. Questa gioia si ag^unge alla
cupidità che ne consegue, dal momento che la potenza della causa esterna
favorisce e aumenta la nostra potenza'^. Il conatus, il nostro sforzo di perseve-
rare nell'esistenza, è la ricerca dell'utile o del bene; comprende sempre un gra-
do della nostra potenza di agire con il quale si identifica: la potenza aumenta
quindi quando il conatus è determinato da un'affezione utile o buona. Non
cessiamo di essere passivi e di essere separati dalla nostra potenza di agire, ma
ce ne avviciniamo di più e tendiamo ad esseme meno separati. La nostra gioia
passiva è e rimane una passione: non si "esplica" per mezzo della nostra poten-
za di agire, ma ne "implica" un grado maggiore.
In quanto l'affetto di gioia aumenta la potenza di agire, ci determina a desi-
derare ad immaginare e a fare tutto quel che possiamo per conservare la gioia
e l'oggetto che ce la p r o c u r a ' ^ . In tal senso, l'amore si concatena con la gioia,
e le altre passioni con l'amore, in modo da colmare interamente la nostra capa-
cità di essere affetti. Se esistesse una genealogia delle affezioni di gioia, deri-
vanti le une dalle altre a partire da un primo affetto di gioia, la nostra capacità
" E, IV, 5, prop.: "La forza e l'incremento di ogni passione e la sua perseveranza nell'esistere non
è definita dalla potenza con la quale ci sforziamo di perseverare nell'esistere, ma dalla potenza del-
la causa esterna paragonata alla nostra".
"3 E, IV, 59, dira.
E, IV, 18, dim.: "La Cupidità che nasce da Gioia è favorita o aumentata dallo stesso affetto
della gioia... E perciò la forza della Cupidità che nasce da Gioia deve essere definita dalla potenza
umana e, contemporaneamente, dalla potenza della causa esterna".
• ' E , 111,37, dim.
•1
«
I88 S P I N O Z A H II I ' K O W K M A U H I I ' U M - R I Ì S S I O N I I
di essere affetti sarebbe colmata in modo tale che la nostra potenza di agire
aumenterebbe di continuo'®. Ma non potrebbe mai aumentare fino al punto
da possederla realmente e da essere attivi, cioè causa adeguata delle azioni che
colmano la nostra capacità di essere affetti.
Passiamo adesso al secondo tipo di incontro. Incontro un corpo il cui rap-
porto non si compone col mio. Questo corpo non concorda con la mia natu-
ra, è ad essa contrario, cattivo o nocivo. Produce in me un'affezione passiva
che è cattiva o contraria alla mia natura'7. L'idea di questa affezione è un affet-
to di tristezza, e tale tristezza-passione è definita dalla diminuzione della mia
potenza di agire. E noi conosciamo quel che è cattivo solo in quanto perce-
piamo una cosa che ci affetta di tristezza. Si può però controbattere dicendo
che si devono distinguere casi diversi. Sembra infatti che, in questo tipo di
incontri, tutto dipenda dall'essenza o dalla potenza rispettiva dei corpi che si
incontrano. Se il mio corpo possiede essenzialmente un grado maggiore di
potenza, distrugge l'altro oppure scompone il rapporto dell'altro. Accade inve-
ce il contrario se possiede un grado minore di potenza. I due casi non sem-
brano potersi ricondurre al medesimo schema.
In verità, l'obiezione è astratta. Infatti, nell'esistenza, non possiamo consi-
derare i gradi di potenza in modo assoluto. Quando consideriamo le essenze
o i gradi di potenza in sé, sappiamo che non si possono distruggere l'un con
l'altro e che tutti concordano. Quando consideriamo invece gli scontri e le
incompatibilità fi-a modi esistenti, dobbiamo far intervenire tutta una serie di
fattori concreti, che ci impediscono di affermare che il modo la cui essenza o
grado di potenza è più forte risulterà sicuramente vincitore. Infatti, i corpi esi-
stenti che si incontrano non sono definiti solo dal loro rapporto globale: dal
momento che si incontrano in modo progressivo mediante le loro parti, si
incontrano necessariamente sulla base dei loro rapporti parziali o delle loro
componenti. Per distruggermi, basta che un corpo meno forte del mio sia più
forte di una delle mie componenti, anche della meno vitale.
Spinoza ricorda in tal senso che lo scontro fì'a i modi, secondo il loro grado
di potenza, non deve essere inteso a partire dai gradi considerati in sé: fra le
essenze in quanto tali non vi è alcun di tipo di scontro'^. Ma quando invece
Spinoza mostra che nell'esistenza vi sono sempre corpi più potenti del mio che
possono distruggermi, non bisogna necessariamente pensare che questi corpi
abbiano un'essenza il cui grado di potenza sia maggiore, o che abbiano una
Infatti, l'amore è in sé una gioia, che si aggiunge alla gioia da cui deriva... (cfr. E, 111,37, dim.).
Cfr. E, V, IO, prop. e dim.: "Affetti che sono contrari alla nostra natura."
i8 E , V , 3 7 , se.
'l i'OKiA iii:i. M o n o l'iNiro 189
maggior perfezione. Un corpo può essere distrutto da un altro corpo con un'es-
senza meno perfetta se le condizioni dell'incontro (cioè il rapporto parziale che
lo definisce) sono favorevoli alla distruzione. Per sapere in anticipo il risultato
dello scontro, bisognerebbe capire esattamente in base a quale rapporto i due
corpi si incontrano, in base a quale rapporto si affrontano i rapporti non com-
ponibili. Ci vorrebbe il sapere infinito della Natura, che noi non abbiamo. In
ogni caso, nell'incontro con un corpo che non concorda con la mia natura vi
è sempre un affetto di tristezza, anche parziale, che nasce dal fatto che il corpo
lede uno dei miei rapporti parziali. Anzi, l'affetto di tristezza è l'unico modo
per sapere se un corpo non concorda con la nostra natura^^. Che si vinca o si
perda, non cambia nulla: non lo possiamo sapere in anticipo. Vinciamo, se riu-
sciamo ad allontanare l'affetto di tristezza, quindi a distruggere il corpo che ci
affetta. Perdiamo, se la tristezza via via si impadronisce di noi e dei nostri rap-
porti di composizione, distruggendo il nostro rapporto globale.
Ma come può la nostra capacità di essere affetti essere colmata da un affet-
to di tristezza? Come la gioia, la tristezza determina l'essenza o il conatus. Ossia,
dalla tristezza nasce una cupidità, l'odio. Questa cupidità si concatena con altre
cupidità e con altre passioni: invidia, ira, irrisione, disprezzo, ecc. Però, in quan-
to determina la nostra essenza o conatus, la tristezza implica sempre una parte
della nostra potenza di agire. Il conatus, determinato dalla tristezza, non cessa
di essere la ricerca di quel che ci è utile o buono: ci sforziamo comunque di
vincere, vale a dire di fare in modo che le parti del corpo che ci affetta di tri-
stezza acquistino un nuovo rapporto che si concili! col nostro. Siamo quindi
determinati a fare di tutto per allontanare la tristezza e per distruggere l'ogget-
to che ne è la causa^°. E tuttavia, in questo caso, la nostra potenza di agire
"diminuisce". Ciò dipende dal fatto che l'affetto di tristezza non si aggiunge
alla cupidità che ne consegue: la cupidità è invece ostacolata da questo affetto,
anche se la potenza della cosa estema si sottrae alla nostrali Le affezioni tristi si
concatenano dunque le une con le altre, colmando la nostra capacità di essere
affetti, ma in modo tale però che la nostra potenza di agire diminuisca sempre
di più e tenda a raggiungere il suo livello piìi basso.
Finora abbiamo supposto che le due linee delle affezioni, quelle di gioia e
di tristezza, corrispondessero ai due tipi di incontri, buoni e cattivi. Ma tale pun-
" E, III, prop. 15 e i6: "Per accidente", così come "fortuito", non si contrappone qui a "neces-
sario".
Cfr. la "fluttuazione dell'animo". E, III, 17, prop. e se. (Ci sono due tipi difluttuazione-,uno,
definito nella dimostrazione della proposizione 17, si spiega per mezzo delle relazioni estrinseche e
accidentali fi:a gli oggetti; l'altro, definito nello se., si spiega per mezzo della differenza dei rappor-
ti che intrinsecamente ci compongono).
^ E, III, prop. 20 e 23.
E, IV, 32,33 e 34.
r
TI'.ORIA DUI, M O D O MNII'O J(JI
"Poiché sono soggetti agli aftictti, che superano di gran lunga la potenza, ossia
la virtù umana, sono spesso trascinati in diverse direzioni, e sono l'uno all'al-
tro contrari"^^. Un uomo, trascinato dagli affetti, può anche essere contrario
a se stesso: i suoi rapporti parziali possono essere modificati e trasformati dal-
l'azione impercettibile delle cause esteme "in modo tale che egli assume un'al-
tra natura contraria alla prima", un'altra natura che lo determina a distruggere
la prima^7.
Non abbiamo quindi molte possibilità di incontrare naturalmente quel che
è buono per noi. Siamo piuttosto determinati a lottare, a odiare, a provare sol-
tanto gioie indirette e parziali, che non ci permettono di rompere la concate-
nazione della nostra tristezza e del nostro odio. Le gioie parziali sono "eccita-
zioni piacevoli" che aumentano la nostra potenza di agire di una parte del
corpo, diminuendo contemporaneamente la potenza di agire nel suo insieme^.
Le gioie indirette sono quelle che proviamo quando vediamo che l'oggetto che
odiamo è triste o distrutto; queste gioie sono però inficiate dalla tristezza. L'o-
dio è in effetti una tristezza, implica la tristezza da cui deriva; le gioie che nasco-
no dall'odio possono coprire la tristezza, ostacolarla, ma non sopprimerla^^.
Siamo quindi quanto mai lontani dal possesso della nostra potenza di agire: la
nostra capacità di essere affetti è colmata non solo da affezioni passive ma
anche da passioni tristi, che implicano un grado sempre più basso della nostra
potenza di agire. Il che non è sorprendente, visto che la Natura non esiste in
vista della nostra utilità, ma in fiinzione di un "ordine comune", al quale l'uo-
mo sottostà in quanto è parte della Natura. Abbiamo comunque fatto dei pro-
gressi, anche se astratti. Abbiamo preso le mosse da un primo principio dello
Spinozismo: l'opposizione fi-a le passioni e le azioni, fra le affezioni passive e
le affezioni attive. Principio che presenta a sua volta due aspetti. Primo, si trat-
ta di un'opposizione reale: affezioni attive e affezioni passive, quindi potenza
di agire e potenza di patire, variano in maniera inversa a partire dalla medesi-
ma capacità di essere affetti. L'opposizione reale è però una semplice negazio-
ne: le affezioni passive indicano solo la limitazione della nostra essenza, impli-
cano la nostra impotenza, si rapportano alla mente solo in quanto implica una
Che cos'è il male? Altro male non v'è che la diminuzione della nostra poten-
za di agire e la scomposizione di un rapporto. E la diminuzione della nostra
potenza di agire è un male perché minaccia e riduce il rapporto che ci compo-
ne. Del male bisogna dare la seguente definizione: è la distruzione, la scompo-
sizione del rapporto che caratterizza un modo. Il male può quindi affermarsi solo
dal punto di vista particolare del modo esistente; nella Natura non vi sono il
Bene e il Male, vi sono soltanto il buono e deattivo, quel che è utile e nocivo per
ogni modo esistente. Il male è ciò che è cattivo dal punto di vista di questo o
quel modo. Essendo uomini, giudichiamo il male dal nostro punto di vista. Spi-
noza sottolinea spesso il fatto che il buono e il cattivo devono essere intesi dal
punto di vista dell'utilità che hanno per l'uomo. Ad esempio, non parliamo di
un male quando, per nutrirci, distruggiamo il rapporto che fa esistere un animale.
Ma parliamo di "male" in altri due casi: quando il nostro corpo è distrutto e il
TW)RIA DUI. MOIM) ('IMITO JP^
33 Quelle che Spinoza, nella corrispondenza con Blyenberg, chiama le "opere" sono precisa-
mente gli effetti ai quali siamo determinati.
34 E, III, 8, prop.: "La forza, con la quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere,
non implica alcun tempo finito, ma indefinito". E, IV, Prefazione: "Nessuna cosa singolare può dirsi
più peifetta perché ha perseverato nell'esistenza per un tempo maggiori.
r TUORIA DL'.L, MOIJO l ' I N i r o ipj
nulla quando il modo non esiste ancora, l'essenza, quando cessa di esistere,
non è privata di nulla.
Prendiamo invece il caso del male che provochiamo quando distruggiamo
un corpo simile al nostro. L'azione di colpire (cioè alzare il braccio, serrare il
pugno, muovere in avanti il braccio), esprime qualcosa di un'essenza in quan-
to il corpo umano è in grado di compierla conservando il rapporto che lo
caratterizza. In tal senso, quest'azione "è una virtù che si concepisce in base
alla struttura del Corpo umano"^'. Ora, tale azione, che sia solo aggressiva o
che minacci o distrugga il rapporto che definisce un altro corpo, palesa un
incontro fra due corpi i cui rapporti sono incompatibili da questo punto di
vista, ma non esprime nulla dell'essenza. Si può dire che l'intenzione è catti-
va, ma la cattiveria dell'intenzione consiste solo nel congiungere l'immagine di que-
st'azione all'immagine di un corpo il cui rapporto è distrutto dall'azione stessd>^. Vi è
"male" solo in quanto l'azione ha come oggetto qualcosa o qualcuno il cui
rapporto non si combina con quello da cui dipende. Abbiamo sempre a che
fare con un caso analogo a quello del veleno.
La differenza fra due famosi matricidi, Nerone che uccide Agrippina e Ore-
ste che uccide Clitemnestra, può aiutarci a chiarire il problema. Si pensa che
Oreste non sia colpevole perché Clitemnestra, avendo ucciso Agamennone, ha
costituito un rapporto che non si può più comporre con quello di Oreste. Si
ritiene invece che Nerone sia colpevole perché ha dimostrato ingratitudine e cat-
tiveria costituendo con Agrippina un rapporto assolutamente incompatibile col
suo e congiungendo all'immagine di Agrippina l'immagine di una azione che la
distrugge. Ma nulla di tutto ciò esprime un'essenza37. Abbiamo a che fare solo
con l'incontro di due corpi i cui rapporti non si compongono, con l'unione fra
l'immagine di un'azione e l'immagine di un corpo il cui rapporto non si com-
pone con quello dell'azione. Il medesimo gesto può essere una virtù se ha come
oggetto qualcosa il cui rapporto si compone col suo (vi sono quindi benedizio-
ni che assomigliano a colpi). Di qui il secondo controsenso di Blyenberg, il qua-
le crede che il male, se esprime un'essenza, anche quella di Nerone, possa diven-
tare un bene, e il crimine, una virtù. Spinoza lo fa ricredere solo a metà, in primo
luogo perché si spazientisce delle sue richieste maldestre ed insolenti, ma soprat-
tutto perché una tesi "amorale" come la sua può essere intesa solo grazie ad un
certo numero di provocazioni^®. In verità, il crimine non esprime nulla dell'es- ^
senza, non esprime alcuna essenza, neanche quella di Nerone.
Il Male appare solo nel terzo ordine, nell'ordine degli incontri. Significa
solo che i rapporti che si compongono non sono sempre quelli dei corpi che si
incontrano. In più, abbiamo visto che il male, nell'ordine totale degli incontri,
non è nulla. Come non è nulla nel caso limite del rapporto distrutto, perché
questa distruzione non affetta né la realtà dell'essenza né la verità eterna del
rapporto. Rimane quindi un unico caso in cui il male sembra essere qualcosa.
Nel corso della sua esistenza, e a seconda degli incontri, il modo segue le varia-
zioni della sua potenza di agire; ora, quando la potenza di agire diminuisce, il
modo esistente passa aduna minorpafezionà^. Il male non risiede quindi in que-
sto "atto di passare ad una minore perfezione". Come dice Blyenberg, bisogna
pur che il male esista allorché si decade da una condizione migliore^". La rispo-
sta di Spinoza è famosa: non vi è privazione alcuna nella transizione ad una
minore perfezione, la privazione è una semplice negazione. Anche in que-
st'ultimo ordine, il male non è nulla. Un uomo diventa cieco, un altro, che pri-
ma era mosso dall'istinto di far del bene, è ora trascinato dall'istinto della pas-
sione. Non disponiamo di alcun criterio per affermare che egh sia privato di
una condizione migliore, poiché questa condizione non si addice alla sua natu-
ra presente più che a quella del diavolo o della pietra^'.
Possiamo intuire le difficoltà che tale risposta implica. Blyenberg contesta
vivamente a Spinoza il fatto di aver confuso due tipi di paragone, distinti fra
di loro: il paragone fra le cose che non hanno la stessa natura e quello fi-a le
diverse condizioni di un'unica cosa. È vero che la vista non appartiene alla
natura della pietra, ma essa appartiene alla natura dell'uomo. Di qui l'obie-
zione principale: Spinoza attribuisce all'essenza di un ente un'istantaneità che
Cfr. l'obiezione di Blyenberg, Lettera 22, p. 144: "Qui di nuovo sorge la questione, se per un
animo, alla cui specifica natura non ripugna ma conviene vivere di piacere e di delitti, esista una
regola di virtù che lo determini a operare il bene e a fuggire il male". Esposta di Spinoza, Lettera 23,
pp. 150-151: "Per quanto riguarda la vostra questione...mi pare equivalere alla domanda, se, posto che
la natura di un individuo sia di impiccarsi, egli possa avere delle ragioni per non farlo. Supposto che
possano esservi nature siffatte, io dico... che, se qualcuno si accorgesse che potrebbe vivere più a suo
agio infisso in croce che a tavola, sarebbe il più stolto degli uomini se non si facesse crocifiggere. E
così pure, chi vedesse chiaramente di poter godere di una vita migliore e più perfetta commettendo
delitti piuttosto che praticando la virtù, sarebbe a sua volta uno stolto se non lo facesse: giacché i
delitti, rispetto a una natura umana pervertita a tal punto, sarebbero virtù'.
» Cfr. E, III, definizione della tristezza.
Lettera 20 di Blyenberg, p. 116.
Lettera 21 a Blyenberg, p. 134.
'l'i'ORIA l)l!l, MODO niNirO i^y
La formula di Spinoza "non sappiamo di che cosa sia capace il corpo" è qua-
si un grido di battaglia. Ad essa Spinoza aggiunge: parliamo della coscienza,
dell'anima, della mente, del potere della mente sul corpo, ma non sappiamo
neanche di che cosa sia capace il corpo^ La chiacchiera morale ha preso il
posto della vera filosofia.
Questa dichiarazione è importante da numerosi punti di vista. Finché si par-
la di un potere della mente sul corpo, non si pensa veramente in termini di
potere o di potenza. Si vuol dire infatti che la mente, in virtù della sua natura
eminente e della sua finalità particolare, detiene "doveri" superiori: deve far
obbedire il corpo, conformemente alle leggi alle quali è soggetta. Per quanto
riguarda il potere del corpo, si tratta o di un potere esecutivo oppure di un pote-
re che distoglie la mente dai suoi doveri. Ma ancora pensiamo in termini mora-
li. La visione morale del mondo si esprime in un principio che domina la mag-
gior parte delle teorie che sostengono l'unione della mente col corpo: la prima
agisce quando l'altro patisce, e viceversa. È questo il principio cartesiano del-
l'azione reale: il corpo patisce quando l'anima agisce, e il corpo non può agire
senza che l'anima patisca^. I successori di Cartesio, pur negando l'azione reale,
non rinunciano all'idea di questo principio: l'armonia prestabilita, ad esempio,
conservafi^al'anima e il corpo un'"azione ideale", grazie alla quale l'uno pati-
sce quando l'altro agisce^. In una simile prospettiva, non abbiamo alcuna pos-
sibilità di confrontare la potenza del corpo con la potenza della mente, e quin-
di non abbiamo neppure la possibilità di valutarle l'una rispetto all'altra^.
' E, III, 2, se. Questo testo fondamentale non deve essere separato da II, 13 se., che lo prepara, e
da V, prefazione, che ne sviluppa le conseguenze.
^ Descartes, Le passioni dell'anima, I, i e 2, in Operefilosofiche(a cura di E. Lojacono) cit., voi. 2,
PP- 597-»8-
3 Leibniz spiega spesso che la sua teoria dell'azione ideate rispetta "il sentire comune" e lascia sus-
sistere la ripartizione fra l'azione o la passione nel corpo e nell'anima secondo la regola del rappor-
to inverso. Infatti, fra due sostanze che "simbolizzano", ad esempio l'anima e il corpo, dobbiamo
attribuire l'azione a quella la cui espressione è piìi distinta, la passione all'altra. Si tratta di un tema
costante nelle lettere ad Arnauld.
E, II, 13, se.
Capitolo sedicesimo
La formula di Spinoza "non sappiamo di che cosa sia capace il corpo" è qua-
si un grido di battaglia. Ad essa Spinoza aggiunge: parliamo della coscienza,
dell'anima, della mente, del potere della mente sul corpo, ma non sappiamo
neanche di che cosa sia capace il corpo^ La chiacchiera morale ha preso il
posto della vera filosofia.
Questa dichiarazione è importante da numerosi punti di vista. Finché si par-
la di un potere della mente sul corpo, non si pensa veramente in termini di
potere o di potenza. Si vuol dire infatti che la mente, in virtù della sua natura
eminente e della sua finalità particolare, detiene "doveri" superiori: deve far
obbedire il corpo, conformemente alle leggi alle quali è soggetta. Per quanto
riguarda il potere del corpo, si tratta o di un potere esecutivo oppure di un pote-
re che distoglie la mente dai suoi doveri. Ma ancora pensiamo in termini mora-
li. La visione morale del mondo si esprime in un principio che domina la mag-
gior parte delle teorie che sostengono l'unione della mente col corpo: la prima
agisce quando l'altro patisce, e viceversa. È questo il principio cartesiano del-
l'azione reale: il corpo patisce quando l'anima agisce, e il corpo non può agire"
senza che l'anima patisca^. I successori di Cartesio, pur negando l'azione reale,
non rinunciano all'idea di questo principio: l'armonia prestabilita, ad esempio,
conserva fra l'anima e il corpo un'"azione ideale", grazie alla quale l'uno pati-
sce quando l'altro agisce^. In una simile prospettiva, non abbiamo alcuna pos-
sibilità di confrontare la potenza del corpo con la potenza della mente, e quin-
di non abbiamo neppure la possibilità di valutarle l'una rispetto all'altra^.
• E, III, 2, se. Questo testo fondamentale non deve essere separato da II, 13 se., ehe lo prepara, e
da V, prefazione, che ne sviluppa le conseguenze.
^ Descartes, Le passioni deÌTanima, 1 , 1 e 2, in Operefilosofiche(a cura di E. Lojacono) cit., voi. 2,
PP- 597-598-
3 Leibniz spiega spesso che la sua teoria àtWazione ideale rispetta "il sentire comune" e lascia sus-
sistere la ripartizione fra l'azione o la passione nel corpo e nell'anima secondo la regola del rappor-
to inverso. Infatti, fra due sostanze che "simbolizzano", ad esempio l'anima e il corpo, dobbiamo
attribuire l'azione a quella la cui espressione è più distinta, la passione all'altra. Si tratta di un tema
eostante nelle lettere ad Arnauld.
4 E, II, 13, se.
2(K) SL'INO/A I! Il l'IKIItllMA I )l(l I'l'SI'KI'SSK )NI1
Il parallelismo è una dottrina originale non perché neghi l'azione reale fra
la mente e il corpo, ma perché rovescia il principio morale secondo cui le azio-
ni dell'una corrispondono alle passioni dell'altro. "L'ordine delle azioni e del-
le passioni del nostro Corpo è simultaneo per natura con l'ordine delle azio-
ni e delle passioni della Mente"'. Quel che è passione nella mente è ugualmente
passione nel corpo, e quel che è azione nella mente è ugualmente azione nel
corpo. In tal senso, il parallelismo esclude ogni tipo di eminenza della men-
te, ogni tipo di finalità spirituale o morale, ogni trascendenza di un Dio che
regoli una serie in fiinzione dell'altra. Ed è in tal senso che il parallelismo si
oppone praticamente non solo alla dottrina dell'azione reale ma anche alle
teorie dell'armonia prestabilita e dell'occasionalismo. Se ci chiediamo invece
di che cosa sia capace un corpo, di quali affezioni, passive o attive, sia capace,
e fin dove arrivi la sua potenza, avremo allora la possibilità di sapere di che
cosa la mente sia capace e quale sia la sua potenza. Avremo la possibilità di
"confrontare" la potenza della mente con quella del corpo; avremo quindi la
possibilità di valutare la potenza della mente in quanto tale.
Per poter giungere alla valutazione della potenza della mente in quanto tale,
bisogna prima effettuare il paragone fra le potenze. "... per determinare in che
cosa la Mente umana differisca dalle altre, e in che cosa sia superiore alle altre,
ci è necessario conoscere la natura del suo oggetto, cioè del Corpo uma-
no...Tuttavia in generale dico che quanto un certo Corpo è atto più degli altri
a fare oppure a patire simultaneamente una pluralità di cose, tanto la sua men-
te è più atta delle altre a percepire simultaneamente una pluralità di cose; e
quanto più le azioni di un solo corpo dipendono soltanto dallo stesso e quan-
to meno gli altri corpi concorrono con esso nell'agire, tanto più atta è la sua
mente a capire distintamente... Per pensare veramente in termini di poten-
za, bisogna prima porre la domanda riguardo al corpo, liberare il corpo dal
rapporto inversamente proporzionale che rende impossibile il paragone fra le
potenze, e che rende di conseguenza impossibile la valutazione della potenza
della mente in quanto tale. Bisogna utilizzare come modello la seguente
domanda: Di che cosa è capace un corpo? Tale modello non implica affatto una
svalutazione del pensiero rispetto all'estensione, implica solo una svalutazione della
coscienza rispetto alpensiero. Platone dice che i materialisti, se fossero intelligenti,
parlerebbero della potenza invece di parlare del corpo. Ma è anche vero che i
fautori del dinamismo, quando sono intelligenti, prima parlano del corpo, poi
5 E, III, 2, se.
^ E, II, 13, se.
TI'UKIA ni'l, MODO l'INITO 20I
La domanda "di che cosa è capace un corpo?" ha senso in quanto tale, poi-
ché implica una nuova concezione dell'individuo corporeo, del genere e della
specie. Vedremo in seguito che il suo significato biologico non deve essere
dimenticato. Ma, come modello, ha in primo luogo un significato etico e giuri-
dico. Tutto quello di cui un corpo è capace (la sua potenza), corrisponde al suo
"diritto naturale". Ponendo il problema del diritto a partire dai corpi, si tra-
sforma tutta quanta la filosofia del diritto, anche rispetto alle menti. Sia la men-
te che il corpo ricercano quel che è per loro utile o buono. Se qualcuno incon-
tra un corpo che si compone col suo in base ad un rapporto favorevole, cerca
di unirsi a lui. Se qualcuno incontra invece un corpo il cui rapporto non si
compone col suo, un corpo che lo affetta di tristezza, fa di tutto per rimuove-
re la tristezza o per distruggere il corpo, ossia per imporre alle parti di questo
corpo un nuovo rapporto che convenga con la sua natura. Le affezioni deter-
minano il conatus in qualunque momento, ma, in qualunque momento, il cona-
tus ricerca quel che è utile in funzione delle affezioni che lo determinano. Un
corpo cerca sempre di fare tutto ciò chepuò, nell'azione come nella passione-, ciò che può
è il suo diritto. La teoria del diritto naturale implica la doppia identità del pote-
re e del suo esercizio, di questo esercizio e del diritto. "Il diritto di ciascuno si
estende fin là dove si estende la sua determinata potenza"^. Il termine legge non
ha altro significato: la legge di natura non è mai una regola di doveri ma la nor-
ma di un potere, l'unità del diritto, del potere e della sua effettuazione®. A tale
proposito, non vi è alcuna differenza fra il saggio e l'ignorante, fra i sani e i paz-
zi, fra il debole e il forte. Essi sono senza dubbio diversi per quanto riguarda le
affezioni che determinano il loro sforzo di perseverare nell'esistenza, ma tutti
si sforzano allo stesso modo di conservare il loro essere, e hanno tanto diritto
quanta potenza, in funzione delle affezioni che colmano attualmente la loro
capacità di essere affetti. L'ignorante appartiene alla natura, e non ne turba affat-
to l'ordine^.
Queste quattro tesi, come anche le tesi contrarie che esponiamo nel paragrafo seguente, sono
state chiaramente delineate da Leo Strauss nel suo Diritto naturak e storia. Neri Pozza, Venezia 1957,
Il melangolo, Genova 1990. Strauss mette a confronto la teoria di Hobbes, di cui sottolinea la novità,
con le concezioni dell'antichità.
" TP, cap. 5,2: "Gli uomini non nascono civili, ma lo diventano".
T I Ì O R I A DIIL. M O D O l ' I N I T O 203
C f r . E , I V , 67-73.
E , I V , 68.
TP, cap. 2, 6.
2O6 SI'INO/A H II l'Rt )l»l |!MA DIll l.'llSI'RUSSIONl!
za, è la nostra debolezza originaria che spiega il mito delpeccato. Spinoza presenta su
Adamo tre tesi, che formano un insieme sistematico: i) Dio non ha proibito
nulla ad Adamo, ma gli ha semplicemente rivelato che il frutto era un veleno
che poteva distruggere il suo corpo se fosse venuto a contatto con esso. 2) Poi-
ché il suo intelletto era debole come quello di un bambino, Adamo ha inter-
pretato la rivelazione come un divieto; ha disobbedito come un bambino, sen-
za comprendere la necessità naturale del rapporto atto-conseguenza, e credendo
che leggi di natura fossero leggi morali che è possibile violare. 3) Come è pos-
sibile immaginare un Adamo libero e razionale, quando il primo uomo è neces-
sariamente affetto da sentimenti passivi e non ha avuto il tempo di intrapren-
dere la lunga formazione che la ragione e la libertà richiedono?^'
Lo stato di ragione, da questo punto di vista, ha un rapporto complesso
con lo stato di natura. Da un lato, lo stato di natura non è soggetto alle leggi
della ragione: la ragione concerne l'utilità propria dell'uomo, e punta unica-
mente alla sua conservazione; la natura invece non riguarda minimamente la
conservazione dell'uomo e comprende infinite altre leggi riguardanti l'intero
universo, di cui l'uomo non è che una piccola parte. Ma dall'altro lato, lo sta-
to di ragione non è un ordine diverso dallo stato di natura. I "dettami" della
ragione non esigono nulla che sia contrario alla natura: esigono che ognuno
ami se stesso, cerchi il proprio utile e si sforzi di conservare il proprio essere
aumentando la sua potenza di agire".
Nello sforzo della ragione non vi è nulla di artificiale o di convenzionale.
Il procedere della ragione non è artificiale, ma fondato sulla composizione
naturale dei rapporti; la ragione non effettua calcoli, ma una sorta di ricono-
scimento diretto dell'uomo da parte dell'uomo^^. Il problema di sapere se esse-
ri razionali, o che stanno per diventarlo, abbiano la necessità di impegnarsi
reciprocamente attraverso un contratto, è estremamente complesso; comun-
que, anche a questo livello, il contratto non implica affatto una rinuncia con-
venzionale al diritto naturale, non implica nessun limite artificiale. Lo stato
di ragione fa tutt'uno con la formazione di un corpo superiore e di una men-
" In E, IV, 68 se., Spinoza fa risalire a Mosè la tradizione adamitica: il mito di un Adamo libe-
ro e razionale si spiega sulla base di un'"ipotesi" astratta, che considera Dio "non in quanto è infi-
nito, ma in quanto soltanto è causa per cui l'uomo esista'.
" E, IV, 18, se.
L'idea del divenire e della formazione della ragione era già stata sviluppata da Hobbes (Cfr.
R. Polin, Politique ephibsophie chez Thomas Hobbes, PUF, Paris 1953, pp. 26-40). Hobbes e Spinoza con-
cepiscono entrambi l'atto della ragione come un aggiungere, come la formazione di un tutto. Ma
per Hobbes si tratta di un calcolo, per Spinoza invece di una composizione di rapporti che, alme-
no di diritto, è oggetto di intuizione.
TI'ORIA DUI. M O D O MINITO 2 0 7
^ TP, cap. é, I.
Cfr. TTP, cap. 16 (Vedi anche E, IV, 37, se. 2). Secondo Spinoza, qualunque sia il regime di
una società, la delega contrattuale non avviene, come in Hobbes, a beneficio di un terzo, ma sem-
pre a beneficio del Tutto, vale a dire delia totalità dei contraenti. M.me Francès ha ragione quando
dice che, in tal senso, Spinoza preannuncia Rousseau (anche se minimizza l'originalità di Rousseau
riguardo al modo di concepire la formazione di questo tutto): cfi-, Les Réminiscences spinozistes dans
le Contrai social de Rousseau, "Revue Philosophique", Gennaio 1951, pp. 66-67. Ma se è vero che il con-
tratto trasferisce la potenza a tutto lo Stato, le condizioni di una simile operazione, la sua differen-
za rispetto ad una operazione della ragion pura, richiedono la presenza di un secondo momento,
mediante il quale lo Stato trasferisce a sua volta la potenza ad un re, ad un'assemblea aristocratica
o democratica. Si tratta quindi di un secondo contratto, realmente distinto dal primo, come sembra
suggerire il TTP, capitolo 17? (Spinoza dice infatti che gli Ebrei formarono un tutto politico trasfe-
rendo la loro potenza a Dio, e che in seguito trasferirono la potenza del tutto a Mose, in quanto inter-
prete di Dio, p. 419.) Oppure il primo contratto esiste solo astrattamente, come fondamento del
secondo? (Nel Trattato Politico, sembra che lo Stato non esista nella sua forma assoluta, absolutum
imperium, ma che sia sempre rappresentato da una forma monarchica, aristocratica o democratica,
visto che la democrazia è il regime che più si avvicina allo Stato assoluto.)
3° E, IV, 37, se. 2; TP; cap. 2, i8,19 e 23.
TI'ORIA 1)1(1 MODO MINirO 209
TP, cap. 3, 2.
32 TTP, cap 16; TP, cap. 2, 21; cap. 3, 8; c a p . 4 , 4 ; cap. 5 , 1 .
» La speranza e il t i m o r e c o s t i t u i j c o n o «empre il m o t o r e della formazione dello Stato, la paura
di un male peggiore e la speranza di un b e n e maggiore. Ma queste sono passioni essenzialmente tri-
sti (cfr. E, IV, 47, dim.). Lo Stato, u n o volta ( o n d a t o , d e v e suscitare V amore per la libertà piuttosto
che il timore di castighi o la speranza di r i t o m p e n i f . "Le r i c o m p e n s e per la virtù sono assegnate agli
schiavi e non agli uomini liberi" ( T P , cap. lo, 8).
2IO Sl'INO/A l( Il l'KOItl liMA DI'.l l 'l'SI'KlLS.SIONI!
stenza e provvedere al proprio utile'4. In tal senso, Spinoza afferma che ognu-
no, pur rinunciando al suo diritto naturale in base all'istituzione dello Stato,
continua a conservarlo nello stato civile^'. D'altro canto, le affezioni della ragio-
ne non sono soggette allo Stato: la potenza di conoscere, di pensare e di espri-
mere il proprio pensiero rimane un diritto naturale inalienabile, che lo Stato
non può rimettere in discussione se non a condizione di instaurare fra di sé e
i propri sudditi rapporti basati sulla pura violenza^^.
Lo Stato "buono" svolge da un lato le funzioni della ragione per coloro
che ancora non la posseggono, dall'altro anticipa, prefigura ed imita a modo
suo l'opera della ragione. È lo Stato che rende possibile la formazione della
ragione. Di conseguenza, non bisogna attribuire ad un ottimismo esasperato
le due proposizioni di Spinoza: alla fine e malgrado tutto, è nello Stato che
l'uomo può diventare razionale ed è sempre nello Stato che l'uomo guidato
da ragione può ritrovare le migliori condizioni di v i t a ^ 7 .
In una visione etica del mondo, abbiamo a che fare solo con la potenza ed
il potere, e con nient'altro. La legge è identica al diritto. Le vere leggi naturali
sono le norme del potere e non le regole del dovere. Per questo la legge mora-
le, che intende proibire e comandare, implica una sorta di mistificazione: meno
si comprendono le leggi di natura, ovvero le norme di vita, piìi le si interpreta
come ordini e divieti. A tal punto che il filosofo deve fare attenzione ad usare
il termine "legge", che conserva ancora un retrogusto morale: è meglio che par-
li di "verità eterne". In realtà, le leggi morali o i doveri sono puramente civili,
sociali: solo la società ordina e proibisce, minaccia e alimenta la speranza,
ricompensa e castiga. La ragione include senza dubbio una pietas e una reli^o\
senza dubbio esistono precetti, regole o "dettami" della ragione, che tuttavia
non sono doveri ma norme di vita riguardanti la "fortezza" di animo e la poten-
za di agire^^. E senza dubbio può accadere che queste norme coincidano con le
MTP.cap. 3,3 6 8-
In due testi importanti (Letterato a Jelles, p. 225, e TP, cap. 3,3) Spinoza dice che la specificità
della sua teoria politica è di conservare il diritto naturale nello stato civile. Quest'affermazione può
essere interpretata in senso diverso nei due casi: o è il sovrano che si definisce mediante il suo dirit-
to naturale, dal momento che il diritto è uguale alla somma dei diritti ai quali rinunciano i sudditi;
oppure sono i sudditi che conservano il loro diritto naturale a perseverare nel loro essere, dal
momento che il diritto è determinato dalle affezioni comuni.
36 j j p ^ pp Vedi anche TP, 3 , 1 0 : "La mente umana, infatti, in quanto fa uso
della ragione, non è soggetta alle somme potestà bensì a se stessa".
E, IV, 35, se. ; IV, 73, prop. e dira.
Sulla pietas e la religio riferite alla nostra potenza di agire, cfr. E, IV, 37, se., e V, 41. Sui "det-
tami" della ragione (dictamina), cfr. E, FV, 18, se.
TllOKIA DUI, MODO l'INITO 211
® Ad esempio, la ragione denuncia l'odio e tutto quello che ne consegue. E, IV, 45 e 46, ma
solo perché l'odio implica sempre la tristezza. La speranza, la commiserazione, il pentimento sono
criticati per lo stesso motivo, perché implicano la tristezza: E, IV, 47,50, 53,54.
212 SlMNO/A l! Il l'UdIlll'MA I)l l l 'iiSI'KliSSIl )NI'.
L'analisi spinoziana della superstizione, nella Prefazione al TTP, è molto simile a quella di
Lucrezio: la superstizione è un insieme di avidità e di angoscia. E la sua causa non risiede in un'i-
dea confusa di Dio, ma nella paura, nelle passioni tristi e nella loro concatenazione (TTP, Prefazio-
ne, p. 2).
TTP, Prefazione, p. 3.
TI.OKIA I)I:I, M O D O PINI I O 213
Cfr. E, IV, 45 se. 2; IV, 50, se.; IV, 63, se.; V, 10, se.; IV, 67.
« TP, cap. I , I.
44 E, IV, Appendice, XIII.
45 E, IV, 54, se.
4^ E, IV, 47, se.
47 TP, c a p . IO, 8.
Capitolo diciassettesimo
Le nozioni comuni
Lo spinozismo non è affatto una filosofia che si stabilisce in Dio o che abbia
nell'idea di Dio il suo naturale punto di partenza. Anzi: le condizioni nelle
quali formiamo le idee sembrano condannarci ad avere solo idee inadeguate,
e le condizioni nelle quali siamo affetti paiono condannarci a provare solo
affetti passivi. Gli affetti che colmano naturalmente la nostra capacità di esse-
re affetti sono passioni che ci diminuiscono, che ci separano dalla nostra essen-
za e dalla nostra potenza di agire.
Tuttavia, pur nell'ambito di una considerazione cosi pessimistica dell'esi-
stenza, si fa strada una speranza: la distinzione radicale fra l'azione e la pas-
sione non deve farci dimenticare una distinzione preliminare fra due tipi di
passioni. Ogni passione ci separa senza dubbio dalla nostra potenza di agire,
ma secondo un "più" e un "meno". Infatti, finché siamo affetti dalle passioni,
non disponiamo formalmente della nostra potenza di agire; ma le passioni
possono essere di gioia o di tristezza: le prime aumentano o assecondano la
nostra potenza, le seconde invece la diminuiscono e la ostacolano. Vale a dire
che le passioni di gioia ci permettono di avvicinarci alla nostra potenza, men-
tre le passioni tristi ce ne allontanano. Di qui la prima domanda dtW'Etica:
che fare per essere affetti il più possibile dalle passioni di gioia? La Natura non
ci aiuta di certo in questo senso. Ecco perché dobbiamo affidarci allo sforzo
della ragione, uno sforzo empirico e molto lento, che ha nello Stato la con-
dizione che lo rende possibile: la ragione, al principio, è lo sforzo che dà luo-
go agli incontri che ci consentono di essere il più possibile affetti da passioni
di gioia. Le passioni di gioia aumentano infatti la nostra potenza di agire; la
ragione è la potenza di comprendere, la potenza di agire propria della mente;
le passioni di gioia si accordano quindi con la ragione, ci aiutano a compren-
dere e a diventare ragionevoli".
E, IV, 59, dim.: "In quanto la gioia è buona, in tanto è in accordo con la ragione (infatti con-
siste in ciò che la potenza di agire dell'uomo è aumentata o coadiuvata)".
T I ' . O K I A I)I!I. M O D O M N I I O 215
Supponiamo due corpi che si accordino interamente, vale a dire che com-
pongano tutti i loro rapporti: essi si presentano come le parti di un tutto. Il
tutto svolge unafunzione generale rispetto alle parti, le parti posseggono una pro-
prietà comune rispetto al tutto. Due corpi che si accordano interamente hanno
quindi un'identità strutturale. Dal momento che compongono i loro rappor-
^ Più o meno utili, più o meno facili da formate; E, II, 40, se. i. Più o meno universali (maxime
univnsaks, minime universalid)-. TTP, cap. 7.
* È il caso delle nozioni comuni meno universali: E, II, 39, prop.
' È il caso delle nozioni comuni più universali: E, II, 37 e 38, prop.
ne interna c ncccsfidrìa, C^i p c r i n c l l o i u ) inlitlli di clclcrminarc il p u n t o a partire
dal quale cessa la concordanza più generale Ira due corpi, mostrando come e per-
ché appare la contrarietù q u a n d o ci d i s p o n i a m o dal p u n t o di vista " m e n o uni-
versale" di questi due corpi. Modificando, con u n a o p e r a z i o n e del pensiero, un
rapporto fino a fargli assumere una natura contraria a quella del corpo corri-
spondente, possiamo comprendere la natura delle discordanze fra i corpi sotto
questo o quel rapporto. Per questo Spinoza, quando definisce la funzione com-
plessiva delle nozioni comuni, dice che la mente è determinata dall'interno a
comprendere le concordanze fra le cose, come anche le loro differenze e le loro
contrarietà®.
Spinoza distingue con cura le Nozioni comuni dalle Nozioni universali
(generi e specie. Uomo, Cavallo, Cane) e dai Termini trascendentali (Ente, Cosa,
qualcosa)". Ma anche le nozioni comuni sono universali, "più o meno" uni-
versali a seconda del loro grado di generalità; Spinoza non critica quindi l'uni-
versale, ma soltanto la concezione dell'universale astratto, e non critica neanche
le nozioni di genere e specie in generale: parla infatti del Cavallo o del Cane
come di tipi naturali, dell'Uomo come di un tipo o di un modello normativo'^.
L'oggetto della sua critica è costituito dalla determinazione astratta dei generi e
delle specie. In effetti, sono due gli aspetti che indicano l'insufficienza dell'idea
astratta: da un lato, il fatto che essa colga soltanto le differenze sensibili e gene-
rali delle cose. Quando cogliamo una caratteristica sensibile, facile da immagi-
nare, distinguiamo gli oggetti che la possiedono da quelli che non la possiedo-
no, identificando così quelli che la possiedono. Al contrario, tralasciamo le
differenze più piccole, perché gli oggetti cominciano a confondersi non appena
il loro numero oltrepassa la capacità della nostra immaginazione. Dall'altro, la
caratteristica della differenza sensibile è per natura estremamente variabile, for-
tuita, dipende dal modo in cui gli oggetti affettano ciascuno di noi, secondo la
casualità degli incontri. "Coloro i quali hanno contemplato più spesso con
ammirazione la statura degli uomini, sotto il nome di uomo intenderanno un
animale a statura eretta; coloro i quali, invece, hanno avuto l'abitudine di con-
templare altro, formeranno un'altra immagine comune degli uomini, e cioè che
l'uomo è un animale che ride, bipede, senza piume, razionale"^^. La caratteristi-
E, II, 29, se.: "Ogni qual volta la mente è determinata dall'interno, per il fatto cioè che con-
templa più cose simultaneamente, a comprendere le loro concordanze, le loro differenze e contra-
rietà, ogni qual volta è disposta dall'interno in questo o in altro modo, allora contempla le cose chia-
ramente e distintamente".
" E, II, 40, se. I.
" Cfr. E, IV, Prefazione.
'3 E, n , 40, se. I.
SI'INO/A I! Il l'KtmiKMA I ll'i l 'USI'Kli.SSIONIi
E, III, 2, se.: "Nessuno, infatti, fino adesso, ha conosciuto la struttura del corpo tanto accu-
ratamente da poter spiegare tutte le sue funzioni".
'5 Etienne Geoffroy Saint-Hilaire definisce la sua "filosofia della Natura" con il principio del-
l'unità di composizione. Contrappone il suo metodo al metodo classico di Aristotele, che conside-
ra le forme e le funzioni. Egli intende determinare i rapporti variabili fra elementi anatomici costan-
ti: i diversi animali corrispondono alle variazioni di rapporto, di situazione e di dipendenza di questi
elementi, anche se non si riducono alle modificazioni di un unico Animale in sé. Geoffroy sosti-
tuisce il punto di vista estrinseco di una unità di composizione o di una similitudine di rapporti alle
somiglianze delle forme e alle analogie delle funzioni, che rimangono esterne. Si richiama a Leib-
T I ' . O R I A 1)111. M O D O IMNITO
Le nozioni comuni non sono idee astratte, sono idee generali, e, in quanto
tali, necessariamente "adeguate". Prendiamo ad esempio il caso delle nozioni
meno universali: ciò che è comune al mio corpo e a certi corpi esterni è "pari-
menti" in ciascuno di questi corpi; di ciò un'idea è data in Dio, non solo in
quanto ha l'idea dei corpi estemi, ma anche in quanto ha l'idea del mio cor-
po; ho quindi in me l'idea di ciò che è comune, e ce l'ho tale quale è in Dio'^.
Nel caso invece delle nozioni più universali, ciò che è comune a tutte le cose
è "parimenti" nella parte e nel tutto, e quindi la sua idea è data in Dio, ecc.'7.
Queste dimostrazioni definiscono gli aspetti mediante i quali le nozioni comu-
ni in generale sono necessariamente adeguate; in altri termini, k nozioni comu-
ni sono idee che si spieganoformalmente per mezzo della nostra potenza di pensare e che,
materialmente, esprimono l'idea di Dio come loro causa efficiente. Si spiegano per mez-
zo della nostra potenza di pensare perché, essendo in noi così come sono in
Dio, cadono sotto la nostra potenza di pensare così come cadono sotto la
potenza assoluta di Dio. Esse esprimono l'idea di Dio come causa perché pos-
sedendole Dio cosi come noi le possediamo, "implicano" necessariamente l'i-
dea di Dio. Infatti, quando Spinoza dice che ciascuna idea di una qualunque
cosa singolare implica necessariamente l'essenza eterna ed infinita di Dio,
intende le cose singolari quali sono in Dio, quindi le idee delle cose quali Dio
le possiede'^. Fra le idee che abbiamo, le uniche che possano esprimere l'essen-
za di Dio o implicare la conoscenza di questa essenza, sono le idee che sono
in noi così come sono in Dio: le nozioni comuni'^.
Di qui derivano numerose conseguenze, i) Ci siamo chiesti come si potes-
sero formare idee adeguate. L'esistenza ci condarma infatti ad avere solo idee ina-
deguate: non abbiamo né l'idea di noi stessi né l'idea dei corpi estemi, ma solo
le idee delle affezioni, che indicano l'effetto di un corpo esterno su di noi. Ma,
a partire da questo effetto, possiamo formare l'idea di ciò che è comune al cor-
po esterno e aJ nostro. Tenendo conto delle condizioni in cui viviamo, si trat-
ta dell'unico modo di cui disponiamo per formare un'idea adeguata. La nozio-
ne comune è la prima idea adeguata che abbiamo, l'idea di "qualcosa in comune".
2) Quest'idea si spiega per mezzo della nostra potenza di comprendere o di pen-
niz e al principio di unità nel diverso. In questo è ancora più spinoziano, poiché la sua filosofia dei-
la Natura è un monismo che esclude radicalmente ogni principio di finalità, interna o esterna. Cfr.
Principes dephihsophie zootogique (1830), Etudesprogressives d'un naturaliste (1835).
E, II, 39, prop. e dim.
E, II, 38, prop. e dim.
E, II, 45, prop. e dim.
E, II, 46, dim.: "Per cui ciò che dà la conoscenza dell'essenza eterna ed infinita di Dio è comu-
ne a tutte le cose ed è ugualmente nella parte e nel tutto".
2 2 0 SPINO/A II I ' R O I I I I M A MI'H'I.M'RI'SMONH
1
sare. Ma la potenza di comprendere è la potenza di agire della mente. Quindi,
in quanto formiamo nozioni comuni, siamo attivi. La formazione della nozio-
ne comune segna il momento del possessoformale della nostra potenza di agire,
e costituisce perciò il secondo momento della ragione. La ragione, nella sua
genesi, è lo sforzo di favorire gli incontri in funzione della percezione delle con-
cordanze e delle discordanze. L'attività della ragione è lo sforzo di concepire le
nozioni comuni, vale a dire di comprendere intellettualmente le concordanze e
le discordanze. Quando formiamo una nozione comune, la nostra mente "si ser-
ve della ragione": prendiamo possesso della nostra potenza di agire o di com-
prendere, siamo diventati esseri razionali. 3) Una nozione comune è la nostra
prima idea adeguata, e, qualunque essa sia, ci permette di formare immediata-
mente un'altra idea adeguata. L'idea adeguata è espressiva, e quel che esprime, è
l'essenza di Dio. Qualunque nozione comune ci fornisce immediatamente la
conoscenza dell'essenza eterna ed infinita di Dio. Un'idea adeguata, cioè espres-
siva, ci fornisce necessariamente la conoscenza di ciò che esprime, quindi ci for-
nisce la conoscenza adeguata dell'essenza stessa di Dio.
E, II, 40, se. i: Con il nostro metodo, si può stabilire "quali nozioni sono comuni e quali
chiare e distinte, soltanto per coloro che non sono travagliati da pregiudizi".
l'iiORIA DI'I. MODO l'INIK) 221
Quest'ultimo errore ha torse lu sua origine nel modo in cui Spinoza introduce
il sistema delle nozioni comuni. La seconda parte <ìt\\'Etica le considera infatti
da un punto di vista puramente speculativo, esponendole nel loro ordine logi-
co, quello che va dalle più universali alle meno universali^'. Ma Spinoza mostra
soltanto che, se formiamo nozioni comuni, esse sono necessariamente idee ade-
guate. La causa e l'ordine della loro formazione ancora ci sfuggono, come anche
la natura della loro funzione pratica, appena accennata nella seconda parte^^.
È vero che tutti i corpi hanno qualcosa in comune, ad esempio l'estensione,
il movimento e la quiete. Anche i corpi che non si accordano e che sono con-
trari hanno qualcosa in comune, una somiglianza generale di composizione che
implica la Natura nel suo complesso sotto l'attributo dell'estensione^^. Per que-
sto l'esposizione delle nozioni comuni, nell'ordine logico, viene fatta a partire
dalle più universali, ossia dalle nozioni che si applicano ai corpi che sono più
distanti gli uni dagli altri e contrari gli uni agli altri. Se è vero però che due cor-
pi contrari hanno qualcosa in comune, un corpo non può mai essere contrario
ad un altro, non può mai essere cattivo per un altro, in virtù di ciò che ha in
comune con lui: "Nessuna cosa può essere cattiva per ciò che ha in comune con
la nostra natura; ma in quanto è per noi cattiva, in tanto è a noi c o n t r a r i a ' ' ^ ^ .
Quando proviamo un affetto cattivo, un affetto passivo triste prodotto da un
corpo che non concorda con il nostro, nulla ci induce aformare l'idea di ciò che è
comune a questo corpo e al nostro. Si verifica l'opposto quando proviamo un
affetto di gioia: poiché una cosa è buona in quanto concorda con la nostra natu-
ra, l'affetto di gioia ci induce a formare la nozione comune corrispondente. Le
prime nozioni comuni che formiamo sono quindi le meno universali, vale a dire
quelle che si applicano al nostro corpo e ad un altro corpo, che concordano
direttamente con il nostro affettandolo di gioia. Se consideriamo l'ordine di for-
mazione delle nozioni comuni, dobbiamo partire dalle nozioni meno univer-
sali, perché le nozioni più universali, applicandosi a corpi contrari al nostro, non
trovano nelle affezioni che proviamo nessun principio di induzione.
In che senso dobbiamo intendere il termine "indurre"? Nel senso di una
causa occasionale. L'idea adeguata si spiega formalmente per mezzo della nostra
potenza di comprendere o di agire. Ora, tutto ciò che si spiega per mezzo del-
" Cfr. E, II, 38 e 39, dim. Cfr. anche TTP, cap. 7, nel quale si parte dalle nozioni piìi universali.
" Cfr. E, 11,39, dim.: Dalla nozione comune deriva l'idea di un'affezione (questa è la sua fun-
zione pratica).
E, IV, 29, prop.: "In assoluto nessuna cosa può essere per noi buona o cattiva se non abbia
qualcosa in comune con noi".
^ E, IV, 30, prop.
n
222 SPINOZA n II l'Hi mi i!MA Diii i 'i'.smnssioNi!
mente che forma un'idea adeguata è causa adeguata delle idee che ne derivano:
in tal senso, la mente è attiva^''. Ma quali sono queste idee, che seguono dalla
nozione comune che formiamo per favorire le passioni di gioia? Le passioni di
gioia sono le idee delle affezioni prodotte da un corpo che concorda con il
nostro; la nostra mente forma l'idea di ciò che è comune a questo corpo e al
nostro; di qui segue un'idea dell'affezione, un affetto che non è più passivo ma attivo.
Tale affetto non è piìi una passione perché segue da un'idea adeguata che è in
noi, è esso stesso un'idea adeguata. Si distingue dall'affetto passivo da cui sia-
mo partiti, ma solo secondo la causa: non ha pivi come causa l'idea inadegua-
ta di un oggetto che concorda con noi, ma l'idea necessariamente adeguata di
ciò che è comune a questo oggetto e a noi. Spinoza può quindi affermare che
"l'affetto che è passione cessa di essere passione non appena ne formiamo un'i-
dea chiafa e distinta ( a d e g u a t a ) ' ' ^ ^ . Possiamo infatti formarne un'idea chiara e
distinta in quanto lo congiungiamo alla nozione comune intesa come causa;
solo così essa dipende dalla nostra potenza di agire e può diventare attiva. Spi-
noza non intende dire che ogni passione venga rimossa: quel che è rimosso
non è la gioia passiva, ma tutte le passioni e le cupidità legate all'idea di una
cosa estema (amore-passione, ecc.), che con essa si concatenano^^.
Qualsivoglia affetto determina il conatus a fare qualcosa in funzione dell'idea
di un oggetto; il conatus così determinato, si chiama cupidità. Ma, in quanto sia-
mo determinati da un affetto passivo di gioia, le nostre cupidità rimangono irra-
zionali, poiché nascono da un'idea inadeguata. Ora però alla gioia passiva si
aggiunge una gioia attiva, distinta da quella solo secondo la causa; dalla gioia
attiva nascono cupidità appartenenti alla ragione, perché nascono da un'idea
a d e g u a t a ^ 9 . "Tutti gli appetiti, ossia le cupidità in tanto sono passioni in quanto
nascono da idee inadeguate; e le stesse cupidità sono accese da virtù quando
sono suscitate o generate da idee adeguate. Infatti, tutte le Cupidità, dalle quali
siamo determinati a fare qualcosa, possono nascere tanto da idee adeguate quan-
to da idee inadeguate"^®. Dunque, le cupidità della ragione prendono il posto
delle cupidità irrazionali, o meglio: la concatenazione razionale si sostituisce alla
concatenazione irrazionale delle cupidità: "Abbiamo il potere di ordinare e di
concatenare le affezioni del corpo secondo l'ordine conforme all'intelletto''^'.
E, III, I, dim.
E, V, 3, prop. E la proposizione seguente precisa il modo in cui può essere formata l'idea chia-
ra e distinta, ossia congiungendo l'affetto ad una nozione comune, in quanto causa dell'affetto stesso.
^ Cfr. E, V, 2, prop. e dim. Cfr. anche V, 4, se.: quel che è distrutto non è la gioia passiva in sé,
ma gli appetiti che ne nascono.
E, IV, 63, dim. dei corollario: "La cupidità che nasce da ragione può nascere dal solo affetto
della gioia che non è passione".
3° E, V, 4, se.
y E, V, IO, prop. e dim.
22^ Sl'INOZA I' Il l'HnilIPMA l)lil l'i;.SI'KI!SM()NI!
alcun modo"". (L'uomo capiscc infatti che il suo corpo c il corpo esterno
avrebbero potuto comporre in modo duraturo i loro rapporti solo in altre cir-
costanze, vale a dire se si davano elementi intermedi, tali da coinvolgere la
Natura intera, dai punto di vista delia quale una simile composizione era pos-
sibile.) Ma un affetto attivo di gioia segue anclie quando una nozione comu-
ne universale ci permette di comprendere una discordanza: da ciò che compren-
diamo segue sempre una gioia attiva. "In quanto comprendiamo ie cause delia
tristezza, in tanto la tristezza cessa di essere passione, cioè cessa di essere tri-
stezza"^^. Quindi, anche prendendo le mosse da una passione triste, lo sche-
ma proposto in precedenza rimane valido: tristezza; formazione di una nozio-
ne comune; gioia attiva che ne consegue.
Nella seconda parte Aé^ìEtica, Spinoza analizza le nozioni comuni secon-
do il loro contenuto speculativo. Le dà come presupposte, o come presuppo-
nibili: è quindi normale che passi dalle più universali alle meno universali,
seguendo un ordine logico. All'inizio della quinta parte, Spinoza analizza la
funzione pratica delle nozioni comuni che presuppone come date: tale fun-
zione consiste nel fatto che la nozione è causa di un'idea adeguata dell'affe-
zione, ossia di una gioia attiva. La tesi è valida sia per le nozioni comuni più
universali che per ie nozioni comuni meno universali: si tratta delie nozioni
comuni nel loro complesso, nell'unità della loro funzione pratica.
Ma la prospettiva muta allorché Spinoza, nel corso delia quinta parte, si
domanda in che modo si possa formare una nozione comune, dal momento
che l'uomo è condannato ad avere solo idee inadeguate e passioni. Ci rendia-
mo conto allora che le prime nozioni sono necessariamente le meno univer-
sali. In effetti, le nozioni meno universali sono quelle che si applicano al mio
corpo e ad un altro corpo che con esso concorda (o ad altri corpi); soltanto esse
possono essereformate a partire dalle ^oie passive che provo. Le più universali, inve-
ce, si applicano a tutti i corpi; si applicano quindi a corpi molto diversi, con-
trari gli uni agli altri. Ma la tristezza, o la contrarietà, prodotta in noi da un
corpo che non concorda con il nostro, non costituisce mai l'occasione per lafor-
mazione di una nozione comune. Il processo di formazione delle nozioni
comuni si presenta dunque in questi termini: facciamo prima di tutto in modo
di provare il maggior numero possibile di passioni di gioia (primo sforzo del-
la ragione). Facciamo cioè in modo di evitare le passioni tristi, di sfuggire alla
loro concatenazione, di scongiurare i cattivi rapporti. In secondo luogo, fac-
» E, V, 6, se.
3«E, V, 18. se.
2 2 6 SPINOZA H II I'ROIII M M A U N I ' I I S P R U S M O N I Ì
clamo uso delle passioni di gioia per formare la nozione comune corrispon-
dente, da cui derivano le gioie attive (secondo sforzo della ragione). Tale
nozione comune è fra le meno universali, poiché si applica soltanto al mio
corpo e ai corpi che con esso concordano. Essa però ci rende piiì forti nell'e-
vitare i cattivi rapporti, e, soprattutto, ci permette di entrare in possesso della
nostra potenza di agire e di comprendere. In terzo luogo, allora, siamo diventa-
ti capaci di formare le nozioni comuni più universali, che si applicano a tutti
i corpi, anche a quelli che ci sono contrari; siamo perfino diventati capaci di
comprendere le nostre tristezze e di far seguire a questa comprensione una
gioia attiva. Siamo in grado di far fronte ai cattivi rapporti che non possiamo
evitare, di ridurre le tristezze che necessariamente sussistono in noi. Nono-
stante l'identità generale della loro funzione pratica (produrre gioie attive),
non va dimenticato che le nozioni comuni sono tanto più utili ed efficaci
quanto più nascono dalle passioni di gioia e quanto meno sono u n i v e r s a l i ^ 7 .
Tutte le nozioni comuni hanno lo stesso contenuto speculativo: implica-
no una generalità senza astrazione. Hanno un'identica funzione pratica: idee
necessariamente adeguate, sono tali che ne deriva una gioia attiva. Ma il loro
ruolo, speculativo e pratico, non è lo stesso se consideriamo le condizioni del-
la loro formazione. Le prime nozioni comuni che formiamo sono le meno
universali, poiché trovano nelle nostre passioni di gioia un efficace principio
di induzione. È al livello del "meno universale" che acquisiamo la nostra
potenza di agire: accumuliamo le gioie passive, trovando in esse la possibilità
di formare le nozioni comuni, da cui derivano le gioie attive. In tal senso, l'au-
mento della nostra potenza di agire ci dà l'occasione di acquisire tale poten-
za, o di diventare realmente attivi. Ed avendo acquisito un certo grado di atti-
vità, diventiamo capaci di formare le nozioni comuni, anche nelle condizioni
meno favorevoli. Vi è un vero e proprio apprendimento delle nozioni comu-
ni, un divenire-attivi: nello Spinozismo, non si deve trascurare l'importanza del
problema di un processo di formazione; bisogna prendere le mosse dalle
nozioni comuni meno universali, le prime che ci è dato di formare.
È l'ordine che si ritrova in E, V, io. i) "In quanto non siamo combattuti da affetti contrari alla
nostra natura", abbiamo il potere di formare idee chiare e distinte (nozioni comuni), e di dedurne le
affezioni che si concatenano le une con le altre in modo conforme alla ragione. Sono quindi le pas-
sioni di gioia (affetti che concordano con la nostra natura) che ci danno la possibilità iniziale di for-
mare le nozioni comuni. Dobbiamo selezionare le nostre passioni, ed anche quando incontriamo qual-
cosa che non concorda con noi, dobbiamo sforzarci di ridurre al minimo la tristezza (cfr. se.). 2) Una
volta formate le prime nozioni comuni, siamo più forti per evitare i cattivi rapporti e gli affetti con-
trari. E in quanto proviamo ancora necessariamente simili affetti, siano in grado di formare nuove
nozioni comuni, che ci permettono di comprendere le discordanze e le contrarietà in se stesse (cfr. se.).
Capitolo diciottesimo
7 Cfr. F. Alquié, Nature et Véritédans laphitosophie de Spinoza, C.D.U., Paris 1965, pp. 30 sgg.
« BT, II, cap. 1,2-3.
' TEI, 19-21 (vedi il nostro cap. X).
Sl'lNO/A I! Il l'Himil'MA DI'l.l 'llSI'RI'SSIONIÌ
23»
TEI, I 0 I - I 0 2 . Il Trattato sull'emendazione si conclude proprio nel momento in cui Spinoza cer-
ca una proprietà comune (aliquid commune) da cui conseguano tutte le caratteristiche positive del-
l'intelletto: no.
" Spinoza dice in effetti che le "cose fisse ed eterne" devono fornirci la conoscenza dell'"essen-
za intima" delle cose; ci troviamo qui nell'ultimo genere di conoscenza. Ma, d'altro canto, le cose
fisse devono anche fungere da "universali" rispetto ai modi esistenti mutevoli: siamo allora nel
secondo genere, nel campo della composizione dei rapporti e non più in quello della produzione
delle essenze. I due oidini sono quindi compresi l'uno nell'altro.
" E, II, 40, se. 1: sul problema delle nozioni e sulle diverse specie di nozioni, Spinoza dice che "vi
ha talvolta meditato". Si tratta chiaramente del Trattato sull'emendazione. Ma aggiunge anche che ha "riser-
vato queste cose ad un altro Trattato": noi facciamo l'ipotesi che si tratti di un rimaneggiamento del
Trattato suU'emendazione, a causa delle conclusioni che hanno costretto Spinoza a riprendere tutto dal-
TIÌORIA Olii. MODO RINITO
Quando Spinoza scopre che le nozioni comuni sono le nostre prime idee
adeguate, viene a crearsi uno iato fra il primo e il secondo genere di cono-
scenza. L'esistenza di questi iato non deve comunque farci dimenticare il siste-
ma di corrispondenze fra i due generi, senza il quale la formazione di un'idea
adeguata o di una nozione comune rimarrebbe incomprensibile. In prece-
denza, abbiamo visto che lo stato civile sostituisce, anticipa e imita lo stato di
ragione. Il che non sarebbe possibile se le leggi morali e i segni imperativi,
nonostante i controsensi che implicano, non coincidessero in un certo qual
modo con l'ordine vero e positivo della Natura. I profeti possono quindi
cogliere e trasmettere le leggi di Natura, pur conoscendole in modo inade-
guato. Allo stesso modo, il maggior sforzo della società consiste nello sceglie-
re i segni e nell'istituire le leggi che coincidano il più possibile con l'ordine
della natura, e, soprattutto, con la sopravvivenza dell'uomo in quest'ordine.
A tale proposito, la variazione dei segni diventa un vantaggio, poiché ci offre
possibilità che non appartengono all'intelletto e che sono proprie all'immagi-
nazione^. Inoltre, la ragione non potrebbe formare nozioni comuni, ossia
entrare in possesso della sua potenza di agire, se non ricercasse se stessa nel
corso di questo primo sforzo, con cui seleziona le passioni di gioia. Prima di
diventare attivi, è necessario selezionare e concatenare le passioni che aumen-
tano la nostra potenza di agire. Tali passioni si rapportano all'immagine degli
oggetti che convengono per natura con noi; le immagini sono ancora idee ina-
deguate, semplici indicazioni che ci fanno conoscere gli oggetti soltanto attra-
verso l'effetto che producono su di noi. La ragione non potrebbe dunque
"ritrovare se stessa" se il suo primo sforzo non avvenisse all'interno del primo
genere e non facesse uso di tutte le risorse dell'immaginazione.
Dal punto di vista della loro origine le nozioni comuni trovano nell'im-
maginazione le condizioni per la loro formazione. Meglio: dal punto di vista
della loro funzione pratica, non possono applicarsi ad altro che ad oggetti del-
l'immaginazione, e possono quindi essere assimilate ad immagini^. L'applica-
zione delle nozioni comuni implica ingenerale una strana armoniafra la ragione e l'im-
ma^nazione,fra le leggi della radane e le leggi dell'imma^nazione. Spinoza analizza
diversi casi. Le parti III e IV àtWEtica hanno mostrato quali siano le leggi spe-
13 j j p ^ (-jp p ^y "Dalle parole e dalle immagini si possono ricavare per composizione assai
più idee che dai soli principi e dalle nozioni sulle quali si basa tutta la nostra conoscenza".
^ In E, II, 47 se., Spinoza sottolinea chiaramente l'affinità delle nozioni comuni con le cose che
possono essere immaginate, cioè coi corpi. Per questo l'idea di Dio viene qui distinta dalle nozioni
comuni. Spinoza parlerà in seguito delle comuni proprietà delle cose che "immaginiamo" sempre
nello stesso modo (E, V, 7, dim.), oppure delle "immagini che si collegano alle cose che conoscia-
mo chiaramente e distintamente" (E, V, u , prop.).
2J2 Sl'INO/A 11 II l'IUmilMA I II I I'ivSI'RI'S.SK )Ni;
cifiche dell'immaginazione che rendono una passione più o meno intensa, più
o meno forte. Ad esempio, l'affetto verso una cosa che immaginiamo sempli-
cemente è più forte dell'affetto che proviamo verso una cosa che crediamo sia
necessaria o necessitata'^. La legge specifica della ragione consiste proprio nel
considerare le cose come necessarie: le nozioni comuni ci fanno conoscere la
necessità delle concordanze e delle discordanze fra i corpi. La ragione è qui
favorita da una disposizione dell'immaginazione: quanto più conosciamo le
cose come necessarie, tanto meno le passioni fondate sull'immaginazione pos-
seggono forza ed intensità'^. L'immaginazione, in virtù della sua legge, comin-
cia sempre coll'affermare la presenza del suo oggetto; in seguito, è affetta dal-
le cause che escludono tale presenza; è colta da una sorta di "fluttuazione", e
non vede altro che la possibilità e la contingenza del suo oggetto. L'immagi-
nazione di un oggetto contiene quindi, col tempo, il principio del suo inde-
bolimento. Ma la ragione, in virtù della sua legge, forma nozioni comuni,
ossia idee delle proprietà "che contempliamo sempre come presenti'''7. La
ragione svolge qui la funzione dell'immaginazione meglio di quanto que-
st'ultima possa fare. L'immaginazione, trascinata dal suo destino e affetta da
cause diverse, non è in grado di tener ferma la presenza del suo oggetto. Solo
la ragione non si accontenta di diminuire in modo relativo la forza delle pas-
sioni: "se si tiene conto del tempo", gli affetti attivi che nascono da ragione o
dalle nozioni comuni sono in sé più forti di tutti gli affetti passivi che nasco-
no dall'immaginazione'^. Secondo la legge dell'immaginazione, quanto più
un affetto è suscitato da più cause contemporaneamente, tanto più è forte'9.
Ma, secondo la sua legge, la nozione comune si applica o si riferisce a più cose
o a più immagini di cose che si congiungono facilmente ad esse: è quindi fre-
quente e viva^°. In tal senso, riduce l'intensità dell'affetto dell'immaginazio-
ne, poiché determina la mente a contemplare più oggetti. Gli oggetti che si
congiungono alla nozione costituiscono però cause che favoriscono l'affetto
della ragione che da questa deriva^'.
Gran parte deU'^ùc-à.,fino a V 21, è scritta dal punto di vista del secondo genere di
conoscenza.^ solo grazie alle nozioni comuni che possiamo avere idee adeguate
ed una conoscenza adeguata di Dio. Non si tratta di una condizione valida
per ogni tipo di conoscenza, ma della condizione della nostra conoscenza,
ossia della condizione valida per i modi esistenti finiti composti da una men-
te e da un corpo. Noi, che abbiamo fin dal principio solo idee inadeguate e
affezioni passive, possiamo entrare in possesso della nostra potenza di cono-
scere e di agire solo formando le nozioni comuni. Tutta la nostra conoscenza
è fondata su queste nozioni. Spinoza può quindi affermare che l'esistenza di
Dio non è nota per sé, ma "deve essere necessariamente dedotta da nozioni la
cui verità sia cosi ferma ed indiscutibile, da non potersi dare e nemmeno pen-
sare potenza capace di mutarle"^. Stessa affermazione ndVEtica: la prima par-
te ci fa conoscere Dio e tutte le cose che dipendono da Dio; questa cono-
scenza è la conoscenza di secondo g e n e r e ^ 3 .
Tutti i corpi convengono in certe cose, estensione, movimento, quiete. Le
idee dell'estensione, del movimento e della quiete sono nozioni comuni uni-
versali, poiché si applicano a tutti i corpi esistenti. Di qui, una domanda:
anche l'idea di Dio deve essere considerata come una nozione comune? Vale
a dire: l'idea di Dio può essere la nozione comune più universale di tutte?
Molti testi paiono s u g g e r i r l o ^ ^ . Le cose non stanno tuttavia in questi termini:
la nostra idea di Dio ha un rapporto molto stretto con le nozioni comuni, ma
non è una nozione comune. In tal senso, l'idea di Dio si contrappone alle
" TTP, cap. 6, p. 154. Cfr. anche la nota aggiunta a questo passo.
E, V, 36, se.
^ In E, II, 45-47, Spinoza passa dalle nozioni comuni all'idea di Dio (cfr. in particolare 46, dim.).
In V, 14-15 si ha un analogo passaggio: dopo aver mostrato che più immagini si possono facilmente
congiungere alla nozione comune, Spinoza ne deduce che si possono congiungere e riferire tutte le
immagini all'idea di Dio.
S P I N I )/,A ii il M m i U M A DIÌI I ' I I S I ' R I I S S I D N I !
nozioni comuni, perché queste ultime si applicano sempre alle cose che sono
oggetto di immaginazione, mentre Dio non può esserlo^'. Spinoza dice solo
che le nozioni comuni ci portano all'idea di Dio, ci "damo" necessariamente
la conoscenza di Dio, e che senza di esse non potremmo avere questa cono-
scenza^^. La nozione comune è in effetti un'idea adeguata; l'idea adeguata è
l'idea espressiva, e ciò che esprime, è l'essenza di Dio. L'idea di Dio ha quin-
di un rapporto espressivo con le nozioni comuni. Le nozioni comuni espri-
mono Dio in quanto fonte di tutti i rapporti costitutivi fra le cose. L'idea di
Dio, riferita alle nozioni che la esprimono, fonda la religione del secondo
genere. Infatti, dalle nozioni comuni derivano affetti attivi e gioie attive, e ciò
precisamente "in concomitanza con l'idea di Dio". L'amore di Dio non è altro
che la gioia concomitante con q u e s t ' i d e a ^ 7 . H massimo sforzo delle ragione,
in quanto concepisce le nozioni comuni, è dunque di conoscere Dio e di
amarlo^^. (Ma il Dio riferito alle nozioni comuni non è tenuto a rispondere al
nostro amore: è un Dio impassibile, che non ci ricambia. Infatti, sebbene atti-
ve, le gioie che derivano dalle nozioni comuni non possono essere disgiunte
dalle gioie passive o dai dati dell'immaginazione che intanto hanno aumen-
tato la nostra potenza di agire e hanno svolto la funzione di cause occasiona-
li. Dio è però esente da passioni: non è toccato né dalle gioie passive né dalle
gioie attive basate sulle gioie passive
Ritornano in mente le esigenze metodologiche del Trattato sull'emendazio-
ne-. non possiamo prendere le mosse dall'idea di Dio, ma dobbiamo arrivarci
quanto prima. Nel Trattato, il "quanto prima" si presenta in questi termini:
dobbiamo partire da quel che è positivo in un'idea data; ci sforziamo di ren-
derla adeguata; essa è adeguata quando è riferita alla sua causa ed esprime la
sua causa; ma non può esprimere la sua causa senza esprimere anche l'idea di
Dio che determina tale causa a produrre un tale effetto. In tal modo, non si
rischia una regressione all'infinito delle cause: Dio è espresso ad ogni livello
come ciò che determina la causa.
E, II, 47, se.: "Che d'altra parte gli uomini non abbiamo di Dio una conoscenza ugualmente
chiara che delle nozioni comuni, dipende dal fatto che non possono immaginare Dio come imma-
ginano i corpi".
^ E, n, 46, dim. (idquoddat).
E, V, 15, dira.
^ E, IV, 28, dim.
Cfr. E, V , 17 e 19. Spinoza ricorda esplicitamente che Dio non può essere toccato da un
aumento della propria potenza di agire, e che quindi non può essere toccato da alcuna gioia passi-
va. Ma sostiene anche che Dio non può essere toccato da alcuna gioia in generale: infatti, le uniche
gioie attive ad essere conosciute a questo punto àdVEtica sono quelle del secondo genere. Poiché que-
ste gioie presuppongono le passioni, come le passioni, non possono appartenere a Dio.
TI'ORIA 1)111. MODO l'INITO 235
nozione comune. Per questo motivo, essa ci fa entrare in una nuova dimen-
sione. Solo attraverso il secondo genere è infatti possibile arrivare all'idea di
Dio, ma è possibile arrivarvi solo se si è determinati ad uscire dal secondo
genere per entrare in una nuova dimensione. Nel secondo genere, l'idea di Dio
è il fondamento del terzo; per "fondamento" bisogna intendere la vera causa
motrice, la causafiendi^^. L'idea di Dio cambia dunque contenuto nel terzo
genere di conoscenza al quale essa stessa ci determina.
Una nozione comune possiede due caratteristiche: si applica a più modi
esistenti e ci fa conoscere i rapporti in base ai quali i modi esistenti concor-
dano o discordano. In tal senso, è comprensibile che un'idea di attributo pos-
sa sembrarci di primo acchito una nozione comune: l'idea dell'estensione è
una nozione universale poiché si applica a tutti i corpi esistenti; e l'idea dei
modi infiniti dell'estensione ci fa conoscere la concordanza fra tutti i corpi dal
punto di vista dell'intera Natura. Ma l'idea di Dio, che si aggiunge a tutte le
nozioni comuni o è loro "concomitante", dà luogo ad una nuova valutazione
degli attributi e dei modi. Ancora una volta, non v'è differenza fra l'Etica e il
Trattato sull'emendazione: l'idea di Dio ci introduce sul terreno degli "enti rea-
li" e della loro concatenazione. L'attributo non è inteso solo come la proprietà
comune a tutti i modi esistenti che gli corrispondono, ma anche come ciò che
costituisce l'essenza singolare della sostanza divina e come ciò che contiene tut-
te quante le essenze particolari dei modi. Il terzo genere di conoscenza è così
definito; esso procede "dall'idea adeguata dell'essenza formale di certi attri-
buti di Dio alla conoscenza adeguata dell'essenza delle c o s e " 3 3 . L'attributo è
ancora una forma comune, ma quel che è cambiato, qui, è il senso del termi-
ne "comune". Comune non significa più generale, ossia applicabile a più modi
esistenti od a tutti i modi esistenti di un certo genere. Comune significa uni-
voco: l'attributo è univoco o comune a Dio, di cui costituisce l'essenza sin-
golare, e ai modi, dei quali contiene le essenze particolari. Vi è perciò una dif-
ferenza fondamentale tra il secondo e il terzo genere: le idee del secondo
genere si definiscono in base alla loro fiinzione generale, si applicano ai modi
esistenti e ci fanno conoscere la composizione dei rapporti che li caratteriz-
zano. Le idee del terzo genere si definiscono invece in base alla loro natura
^^ In E, V, 20, se., Spinoza parla del "fondamento" del terzo genere. Tale fondamento è la "cono-
scenza di Dio". È chiaro che non si tratta della conoscenza di Dio che è data dal terzo genere. Come
è provato dal contesto (V, 15 e lé) si tratta della conoscenza di Dio fondata sulle nozioni comuni.
In E, II, 47, se., Spinoza dice che noi "formiamo" il terzo genere di conoscenza a partire dalla cono-
scenza di Dio. Anche qui, il contesto (II, 46, dim.) mostra che si tratta della conoscenza di Dio
appartenente al secondo genere.
® E, II, 40, se. (Cfr. anche V, 25, dim.).
'l'iiORIA DKI. MDDO lilNI lt) 237
In che misura le idee del secondo e del terzo genere sono le stesse? Si distinguono solo in base
alla loro funzione e al loro uso? Il problema è complesso. Quel che è certo, è che le nozioni comuni
più universali coincidono con le idee degli attributi. In quanto nozioni comuni, sono colte nella fun-
zione generale che esercitano rispetto ai modi esistenti. In quanto idee del terzo genere, sono pensate
nella loro essenza oggettiva, poiché contengono oggettivamente le essenze dei modi. Tuttavia, le nozio-
ni comuni meno universali non coincidono dal canto loro con le idee delle essenze particolari (i rap-
porti non si confondo con le essenze, benché le essenze si esprimano nei rapporti).
TTP, cap. 4, pp. iio-iii.
TTP, cap. I , p. 32.
Capitolo diciannovesimo
Beatitudine
il primo genere di conoscenza non ha altro oggetto che gli incontri fra parti,
secondo le loro determinazioni estrinseche. Il secondo genere arriva fino alla
composizione dei rapporti che caratterizzano le cose. Solo il terzo genere con-
cerne le essenze eterne: conoscenza dell'essenza di Dio e delle essenze parti-
colari quali sono in Dio e sono concepite da Dio. (Nei tre generi di cono-
scenza ritroviamo quindi i tre aspetti dell'ordine della Natura: ordine delle
passioni, ordine della composizione dei rapporti, ordine delle essenze.) Le
essenze hanno diverse proprietà. In primo luogo, sono particolari, dunque irri-
ducibili le une alle altre: ognuna di esse è un ente reale, una resphysica, un gra-
do di potenza o di intensità. Spinoza può per questa ragione opporre il terzo
genere al secondo; infatti, mentre il secondo genere ci mostra in generale che
tutte le cose esistenti dipendono da Dio, il terzo ci fa conoscere la dipenden-
za di un'essenza in particolare'. D'altro canto, però, ogni essenza conviene con
tutte le altre. Tutte le essenze sono in effetti comprese nella produzione di cia-
scuna. Non si tratta piìi di concordanze relative, più o meno generali, fra modi
esistenti, ma di una concordanza, al contempo singolare e assoluta, di ogni
essenza con tutte le altre^. Quindi, la mente non può conoscere le essenze,
cioè le cose sotto una specie d'eternità, senza essere determinata a conoscer-
ne e a desiderare di conoscerne sempre di più^. Da ultimo, le essenze sono
espressive: ogni essenza esprime non solo le altre essenze secondo il principio
della sua produzione, ma esprime anche Dio come il principio che contiene
tutte le essenze e da cui ciascuna dipende in particolare. Ogni essenza è una
parte della potenza di Dio, quindi è concepita per mezzo della stessa essenza
di Dio, ma in quanto l'essenza di Dio si spiega per mezzo di quella essenza^.
' In E, V, 36, se., Spinoza contrappone la dimostrazione generale del secondo genere alla con-
clusione singolare del terzo.
^ E, V, 37, se.: Solo i modi esistenti possono essere distrutti, mentre nessuna essenza può distrug-
gerne un'altra.
3 Cfr. E, V, 25-27.
4 E, V, 22, dim., e 36 prop.
TliORIA nill. MODO l'INITO
' Cfr. E, V, 36, se. (Il contesto prova che si tratta dell'essenza di ciascuno, dell'essenza del suo
corpo: cfr. V, 30, prop. e dira.).
^ E, V, 29, prop.
7 E, V, 31, prop.: "Il terzo genere di conoscenza dipende dalla Mente, come da causa formale,
in quanto la stessa Mente è eterna".
' E, V, 27, dim.: Chi conosce col terzo genere, "è affetto dalla Gioia più alta (summa laetitiay.
2^1) SiMNU/A l> Il l'Unni I MA DI',I l 'iM'KIlSSU )N|;
In che modo le gioie attive del terzo genere si distinguono da quelle del
secondo? Le gioie del secondo genere sono già attive perché si spiegano per
mezzo dell'idea adeguata che abbiamo. Si spiegano quindi per mezzo della
nostra potenza di conoscere o di agire. Implicano, da parte nostra, il possesso
formale di tale potenza. Ed anche se sembra che la nostra potenza non debba
più aumentare, le manca ancora una qualità, una sfumatura qualitativa indi-
viduale corrispondente al grado di potenza o di intensità della nostra essenza.
In effetti, finché rimaniamo al livello del secondo genere di conoscenza, l'i-
dea adeguata che abbiamo non è ancora un'idea di noi stessi, della nostra
essenza e dell'essenza del nostro corpo. Si tratta di una delimitazione impor-
tante, soprattutto se si considera il punto di avvio del problema della cono-
scenza: noi non abbiamo immediatamente l'idea adeguata di noi stessi o del
nostro corpo poiché essa è in Dio solo in quanto è affetto dalle idee degli altri
corpi; noi conosciamo il nostro corpo solo per mezzo delle idee delle affe-
zioni, necessariamente inadeguate, e conosciamo noi stessi solo per mezzo
delle idee di queste idee; per quanto riguarda invece le idee dei corpi estemi,
l'idea del nostro corpo o della nostra mente, nelle circostanze immediate del-
la nostra esistenza, non le abbiamo. Il secondo genere di conoscenza ci forni-
sce si idee adeguate, ma queste idee sono solo quelle delle proprietà comuni
al nostro corpo e ai corpi esterni. Sono adeguate perché sono parimenti nella
parte e nel tutto e perché sono parimenti in noi, nella nostra mente e nelle
idee delle altre cose, ma non costituiscono affatto l'idea adeguata di noi stessi,
né l'idea adeguata di un'altra co,sa'°. Si esplicano per mezzo della nostra essen-
za, ma non costituiscono l'idea di quest'essenza. Anzi, grazie al terzo genere
di conoscenza, formiamo idee adeguate di noi stessi e delle altre cose quali
sono in Dio e sono concepite da Dio. Le gioie attive che derivano dalle idee
del terzo genere sono di un'altra natura rispetto a quelle che derivano dalle
idee del secondo. E, in un senso piìi generale, Spinoza può distinguere due
forme nell'attività della mente, due modi in base ai quali siamo attivi e ci sen-
tiamo attivi, due espressioni della nostra potenza di conoscere: "È della natu-
ra della ragione concepire le cose sotto una specie di eternità (secondo gene-
re), e alla natura della Mente appartiene anche di concepire l'essenza del Cor-
po sotto una specie di eternità (terzo genere), e oltre queste due cose niente altro
appartiene all'essenza della Mente"".
Tutte le affezioni, passive o attive, sono affezioni dell'essenza in quanto col-
mano la capacità di essere affetti nel quale si esprime l'essenza. Ma le affezioni
passive, di gioia o di tristezza, sono avventizie perché sono indotte dall'esterno;
le affezioni attive, le gioie attive, sono invece innate perché si spiegano per mez-
zo della nostra essenza o della nostra potenza di conoscere*^. E tuttavia è come
se l'innato avesse due dimensioni diverse, che danno conto delle difficoltà che
proviamo a raggiungerlo o a trovarlo. In primo luogo, anche le nozioni comu-
ni sono innate, come le gioie attive che ne deriv^o. C i ò non toglie che deb-
bano essere formate, in un modo più o meno faqile, quindi essere più o meno
comuni alle menti. La contraddizione viene meno se si tiene conto del fatto che
nasciamo privi della nostra potenza di agire o di conoscere: dobbiamo, nel cor-
so della nostra esistenza, conquistare ciò che appartiene alla nostra essenza. Ora,
possiamo formare nozioni comuni, persino le più generali, solo se prendiamo
come punto di partenza le passioni di gioia che aumentano la nostra potenza
di agire. In tal senso, le gioie attive che derivano dalle nozioni comuni hanno
per così dire la loro causa occasionale nelle affezioni passive di gioia: innate di
diritto, dipendono comunque dalie affezioni avventizie in quanto cause occa-
sionali. Ma Dio dispone immediatamente di una potenza di agire infinita, che
non può essere aumentata. Dio non prova alcuna passione, neanche di gioia, e
non ha neppure idee inadeguate. Si pone però anche il problema di sapere se
le nozioni comuni e le gioie attive che ne derivano siano in Dio. Dal momen-
to che sono idee adeguate, le nozioni comuni sono si in Dio, ma solo in quan-
to egli ha altre idee che necessariamente le comprendono (queste altre idee sono
le idee del terzo genere)^. Anche se né Dio né Cristo, che è l'espressione del
pensiero di Dio, pensano mai secondo nozioni comurù. Le nozioni comuni non
possono quindi costituire in Dio i principi delle gioie corrispondenti a quelle
" E, V, 29, dim. [le aggiunte tra parentesi sono di Deleuze]. Vi sono dunque due specie di eter-
nità, una definita dalla presenza delle nozioni comuni, l'altra AsW'esistmza dell'essenza singolare.
" Sull'affezione dell'essenza in generale, sull'avventizio e l'innato, cfr. E, III, Spiegazione della
Definizione della Cupidità.
Secondo E, II, 38 e 39, dim., le nozioni comuni sono in Dio, ma solo in quanto sono com-
prese nelle idee delle cose singolari (idee di noi stessi e delle altre cose) che sono anch'esse in Dio.
Cosi non è per noi: le nozioni comuni sono prime nell'ordine della nostra conoscenza, e sono quin-
di all'origine di affezioni speciali (le gioie del secondo genere). Dio invece prova solo affezioni del
terzo genere.
1
242 SPINOZA H II I'ROIII UMA NIIRI 'II.SI'RI'SSIONI!
che noi proviamo nel secondo genere: Dio è esente da gioie passive, ma non
prova neanche le gioie attive del secondo genere che presuppongono un aumen-
to della potenza di agire come causa occasionale. Per questo Dio, in base all'idea
del secondo genere, non prova alcun affetto di gioia'^.
Le idee del terzo genere non si spiegano solo per mezzo della nostra essen-
za, ma consistono anche nell'idea di questa essenza e delle sue relazioni (rela-
zioni con l'idea di Dio, relazioni con le idee delle altre cose, sotto una specie
di eternità). A partire dall'idea della nostra essenza come causa formale e a par-
tire dall'idea di Dio come causa materiale, noi concepiamo tutte le idee così
come sono in Dio. Grazie al terzo genere di conoscenza, formiamo idee ed
affetti attivi che sono in noi così come sono immediatamente ed eternamen-
te in Dio. Pensiamo come Dio e proviamo gli stessi affetti di Dio. Formiamo
l'idea di noi stessi tale quale è in Dio, e, almeno in parte, formiamo l'idea di
Dio tale quale è in Dio stesso: le idee del terzo genere costituiscono quindi
una dimensione più profonda dell'innato, e le gioie del terzo genere sono le
uniche vere affezioni dell'essenza in sé. Stiamo senza dubbio arrivando al ter-
zo genere di conoscenza^'. Ma qui ciò che funge da causa occasionale sono le
nozioni comuni, ovvero l'adeguato e l'attivo. La "transizione" è ormai solo
un'apparenza; in verità, ci ritroviamo tali quali siamo immediatamente ed eter-
namente in Dio. "La Mente ha avuto come eteme queste stesse perfezioni, che
abbiamo immaginato siano ora ad essa inerenti"'^. Le gioie che seguono dalle
idee del terzo genere sono le uniche che meritano il nome di beatitudine: non
sono più le gioie che aumentano la nostra potenza di agire o le gioie che pre-
suppongono ancora tale aumento, sono le gioie che derivano assolutamente
dalla nostra essenza, quale è in Dio ed è concepita da Dio'7
Dobbiamo ancora chiederci: qual è la differenza fra l'idea di Dio del secon-
do e del terzo genere? L'idea di Dio appartiene al secondo genere solo in quan-
to è riferita alle nozioni comuni che la esprimono. E le condizioni della nostra
conoscenza sono tali che "arriviamo" all'idea di Dio attraverso le nozioni
comuni, ma l'idea di Dio non fa parte di queste nozioni. È quindi grazie ad
essa se possiamo lasciare il secondo genere e scoprire un contenuto indipen-
dente: invece delle proprietà comuni, l'essenza di Dio, la mia essenza e tutte le
•4Cfr.E,V,I4-20.
'' E, V, 31, se.: "Sebbene siamo certi che la Mente è eterna, in quanto concepisce le cose sotto
una specie di eternità - affinché le cose che vogliamo dimostrare siano spiegate piìi facilmente e sia-
no comprese meglio - noi la considereremo come se cominciasse ad essere adesso e come se comin-
ciasse adesso a conoscere le cose sotto una specie di eternità".
«^E,V,33,SC.
'7 E, V, 33, se.
T I Ì U R I A DI'.I. M O D O I ' I N I T O 243
altre essenze che dipendono da Dio. Ora, l'idea di Dio, finché si riferisce alle
nozioni comuni, rappresenta un ente sovrano che non prova né gioia né amo-
re. Ma, determinandoci al secondo genere, riceve nuove qualificazioni, ad esso
corrispondenti. Le gioie attive che proviamo nel terzo genere di conoscenza
sono le stesse gioie che prova Dio, poiché le idee da cui seguono sono in noi
così come sono eternamente ed immediatamente in Dio. Non vi è alcuna con-
traddizione fi-a le due forme di amore descritte nella quinta parte At)X'Etica: l'a-
more verso un Dio che non può amarci, perché non prova gioia alcuna; l'a-
more verso un Dio di gioia, che si ama e ci ama con lo stesso amore con cui lo
amiamo. È sufficiente, come lo indica il contesto, riferire il primo gruppo di
proposizioni al secondo genere di conoscenza, e le atee al terzo genere^®.
Le nostre gioie attive, derivando dall'idea di noi ste^i quale è in Dio, sono
parte delle gioie di Dio. La nostra gioia è la gioia di Dib in quanto si esplica
per mezzo della nostra essenza. E l'amore del terzo genere verso Dio "è parte
dell'amore infinito con il quale Dio ama se stesso". L'amore verso Dio è l'a-
more che Dio prova verso se stesso in quanto si esplica per mezzo della nostra
essenza, quindi l'amore che prova verso la nostra essenza'?. La beatitudine non
designa solo il possesso della gioia attiva quale è in Dio, ma anche quello del-
l'amore attivo che è in Dio^°. Il termine parte deve sempre essere inteso in sen-
so esplicativo o espressivo: non è ima parte che compone, ma una parte che
esprime ed esplica. La nostra essenza è parte di Dio, l'idea della nostra essen-
za è parte dell'idea di Dio, ma solo in quanto l'essenza di Dio si esplica per
mezzo della nostra. È quindi nel terzo genere che il sistema dell'espressione
acquista la sua forma finale. La forma finale dell'espressione è l'identitàfi^al'af-
fermazione speculativa e l'affermazione pratica, l'identità fira l'Ente c la Gioia,
fi-a la Sostanza e la Gioia, fra D i o e la Gioia. La gioia manifesta lo sviluppo
della sostanza, la sua esplicazione nei modi e la consapevolezza di tale espli-
cazione. L'idea di Dio non è piìi solo espressa in generale dalle nozioni comu-
ni, ma si esprime e si esplica in tutte le essenze secondo la loro legge di pro-
duzione. Si esprime in ogni essenza in particolare, ma ogni essenza contiene
tutte le altre essenze nella sua legge di produzione. La gioia che proviamo è la
gioia che Dio prova in quanto ha l'idea della nostra essenza; la gioia che pro-
va Dio è quella che noi proviamo in quanto abbiamo le idee che sono in Dio.
Amore verso Dio, del secondo genere: E, V, 14-20. Amore di Dio, del teno gentn: E, V, .11-17,
E, V, 36, prop. e cor.
^E.V,36,sc.
1
244 SL'INO/A 11 II L'WMI I MA 1)1:1.1 'liSI'KI .SSIONH
Fin dalla nostra esistenza nella durata, quindi "durante" la nostra esisten-
za, possiamo accedere al terzo genere di conoscenza. Ma possiamo farlo solo
in un ordine rigoroso, che rappresenta il modo migliore in cui la nostra capa-
cità di essere affetti può esser colmata, i) Idee inadeguate, che ci sono date, che
diminuiscono la nostra potenza di agire, affezioni passive, che ne conseguo-
no, che la aumentano. 2) Formazione della nozioni cornimi in seguito alla
sforzo di selezione riguardante le affezioni passive; le gioie attive del secondo
genere seguono dalle nozioni comuni, l'amore attivo segue dall'idea di Dio
che si riferisce alle nozioni comuni. 3) Formazione delle idee adeguate del ter-
zo genere, gioie attive e amore attivo che seguono da queste idee (beatitudi-
ne). Ma, finché si vive nella durata, è inutile sperare di avere solo gioie attive
del terzo genere o anche solo affezioni attive in generale. Abbiamo sempre e
soltanto passioni, tristezze concatenate con le nostre gioie passive, ed una
conoscenza che dipende sempre dalle nozioni comuni. Tutto quello che pos-
siamo sforzarci di fare è di avere, in proporzione, più passioni di gioia che di
tristezza, più gioie attive del secondo genere che passioni, e il maggior nume-
ro possibile di gioie del terzo genere. Nelle affezioni che colmano la nostra
capacità di essere affetti, tutto dipende dalla proporzione: si tratta di fare in
modo che le idee inadeguate e le passioni non occupino se non la minima par-
te della menté^^.
La durata si riferisce all'esistenza dei modi. Sappiamo che l'esistenza del
modo è costituita da parti estensive che, sulla base di un certo rapporto, sono
determinate ad appartenere alla sua essenza. Per questo la durata è misurata
dal tempo: un corpo esiste finché possiede parti estensive in base al rapporto
che lo definisce. Il corpo cessa di esistere quando l'ordine degli incontri muta
e quando le sue parti formano altri corpi sulla base di nuovi rapporti. E quin-
di evidente che non possiamo, nel corso della nostra esistenza, eliminare le
passioni: le parti estensive, in eflFetti, sono determinate ed affette dall'esterno,
all'infinito. Alle parti del corpo corrispondono facoltà della mente, facoltà di
provare aflfezioni passive. L'immaginazione corrisponde alla traccia attuale
lasciata da un corpo sul nostro, le memoria alla successione delle tracce nel
tempo. La memoria e l'immaginazione sono vere e proprie parti della mente.
La mente ha parti estensive che le appartengono solo in quanto è l'idea di un
corpo, esso stesso composto da parti estensive". La mente "dura" in quanto
esprime l'esistenza attuale del mio corpo che dura. E le facoltà della mente
^Cfr.E,V,2i.sc.;38,dira.
" Sulle parti della mente, cfr. E, II, 15. Sull'equiparazione fra le facoltà e le parti, cfr. E, V, 40,
cor.
TIÌORIA I)I;I, M O D O I'INITO 245
E, V, 23, se., 29, dim. (tale facoltà di patire, di immaginare o di concepire nella durata è una
potenza poiché "implica' l'essenza o la potenza di agire).
^ E, V, 22, dim.
E, V, 22, dim. Questa dimostrazione fa riferimento all'assioma del parallelismo, Mcondo il
quale la conoscenza dell'effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica. La formula di
Spinoza species aetemitaiis designa contemporaneamente la specie di eternità che deriva dalla caUM t
la concezione intellettuale che l'accompagna.
246 SiMNC )/,A H II Wt mi HMA I ll'.l .1 .'!• SI'RI'.SSU )NU
nella durata. Ed anche la mente ha una parte intensiva eterna, cioè l'idea del-
l'essenza del corpo. L'idea che esprime l'essenza del corpo costituisce la parte
intensiva o l'essenza della mente, necessariamente eterna. Da questo punto di
vista, la mente possiede una facoltà, vale a dire una potenza che si esplica per
mezzo della sua essenza: potenza attiva di conoscere, di conoscere le cose con
il terzo genere di conoscenza sotto una specie di eternità. In quanto esprime
l'esistenza attuale del corpo nella durata, la mente ha la potenza di concepire
gli altri corpi nella durata; in quanto esprime l'essenza del corpo la mente ha
la potenza di concepire gli altri corpi sotto una specie di etemità^^.
Lo Spinozismo afferma quindi una distinzione di natura fra la durata e l'e-
ternità. Nell'£f/ca, Spinoza non usa il concetto di immortalità a causa delle con-
fusioni che esso implica. Nella tradizione dell'immortalità che va da Platone
a Cartesio, si ritrovano, a diverso titolo, tre argomenti. In primo luogo, la teo-
ria dell'immortalità riposa sul postulato della semplicità dell'anima: solo il cor-
po è concepito come divisibile; l'anima invece, indivisibile in quanto le sue
facoltà non sono delle parti, è immortale. In secondo luogo, l'immortalità del-
l'anima assolutamente semplice è concepita nella durata: l'anima esiste prima
dell'esistenza del corpo, e dura anche quando il corpo smette di durare. La teo-
ria dell'immortalità dell'anima implica spesso l'ipotesi di una memoria pura-
mente intellettuale, secondo cui l'anima separata dal corpo può essere coscien-
te della sua durata. In terzo luogo, non può esservi, nella durata del corpo,
un'esperienza dell'immortalità. Solo la rivelazione può dirci come l'anima
sopravviva al corpo, quali siano le modalità della sopravvivenza e quali siano
le facoltà dell'anima separata dal corpo.
Queste tre tesi hanno in Spinoza un nemico dichiarato. La teoria dell'im-
mortalità confonde la durata con l'eternità. Il postulato della semplicità asso-
luta della mente implica prima di tutto l'idea confiisa dell'unione della men-
te e del corpo. Rapportando la mente al corpo, si contrappone la semplicità
della mente, considerata come un tutto, alla divisibilità del corpo, anch'esso
considerato come un tutto. Cosi facendo si capisce come il corpo, nel corso
dell'esistenza, possa avere partì estensive, ma non si capisce come possa aver-
le anche la mente, in quanto idea del corpo esistente. Si capisce (più o meno
chiaramente) come la mente abbia una parte intensiva assolutamente sempli-
ce ed etema, che costituisce la sua essenza, ma non si capisce come possa espri-
mere l'essenza, semplice ed eterna, del corpo. In secondo luogo, l'ijjotesi del-
l'immortalità ci porta a pensare in termini di successione, impedendoci di
^ E, V, 23, se. Una tale esperienza appartiene necessariamente al terzo genere; il secondo gene-
re infatti non possiede l'idea adeguata dell'essenza del nostro corpo, e non ci permette di sapere che
la nostra mente è eterna (cfr. V, 41, dim.).
^ E, V, 21, prop.: "La Mente non può immaginare nulla, né ricordarsi delle cose passate se non
nel corso della durata del Corpo".
E, V, 40, corollario: "La parte della Mente che rimane, di qualunque grandezza essa sia, è più
perfetta dell'altra".
y E, V, 34, prop.: "La Mente non è soggetta agli affetti che si riferiscono alle passioni se non nel
corso della durata del corpo".
248 Sl'INO/A II II l'Kollll MA Dl iriSI'KUS.SIONIi
1
cita, e non possiamo più essere separati dalla nostra potenza: quel che rimane
in eflfetti è la nostra potenza di conoscere o di agirei'. Le idee che abbiamo sono
necessariamente le idee adeguate del terzo genere, che sono in noi cosi come
sono in Dio. La nostra essenza esprime adeguatamente l'essenza di Dio, le aflFe-
zioni della nostra essenza esprimono adeguatamente la sua essenza. Siamo diven-
tati totalmente espressivi, in noi non vi è più nulla di "implicato" o di "indicato".
Finché esistiamo, possiamo avere solo un numero limitato di aiFezioni attive del
terzo genere, rispetto alle affezioni attive del secondo genere, le quali, a loro vol-
ta sono di numero limitato rispetto alle affezioni passive. Non possiamo spera-
re altro che in una beatitudine parziale. Ora, è come se la morte ci mettesse in
una situazione tale da non poter essere affetti che da affezioni del terzo genere,
che si esplicano mediante la nostra essenza.
È vero che questo punto solleva ancora numerosi problemi, i) In che senso,
dopo la morte, siamo ancora affetti? La nostra mente ha perso tutto quello che
le appartiene in quanto idea di un corpo esistente. Rimane però l'idea dell'es-
senza del nostro corpo esistente e quella dell'essenza del nostro corpo così come
è in Dio. Noi stessi abbiamo l'idea di quest'idea così come è in Dio. La nostra
mente è quindi affetta dall'idea di sé, dall'idea di Dio e dalle idee delle altra cose
sotto una specie di eternità. Dal momento che tutte le essenze convengono l'u-
na con l'altra e hanno Dio come causa che le contiene nella loro produzione, le
affezioni che derivano dalle idee del terzo genere sono necessariamente affezio-
ni attive ed intense, che si spiegano per mezzo dell'essenza di colui che le pro-
va, esprimendo al tempo stesso l'essenza di Dio. 2) Ma se dopo la morte siamo
ancora affetti, non è forse perché la nostra capacità di essere affetti, il rapporto
che ci caratterizza, sussistono con la nostra essenza? In effetti, il nostro rappor-
to può essere distrutto o decomposto, ma solo in quanto non sussume più par-
ti estensive. La parti estensive che ci appartenevano sono ora determinate a for-
mare altri rapporti, che non si compongono più col nostro. Ma il rapporto che
ci definisce, dal momento che la nostra essenza si esprime in esso, continua ad
essere una verità etema. Il rapporto, con la sua etema verità, rimane nell'essen-
za. (Per questo le nozioni comuni sono contenute nelle idee delle essenze.) Allo
stesso modo, anche la nostra capacità di essere affetti può essere distrutta, ma
solo in quanto non può più essere determinata dalle affezioni passive^^. Rima-
y E, V, 40, cor.: "La parte etema della Mente è l'intelletto, per il quale soltanto si dice che noi
agiamo; la parte, invece, che abbiamo mostrato che perisce è la stessa immaginazione, per la quale
soltanto si dice che siamo attivi".
In E, IV, 39, dim., Spinoza dice che la morte distrugge il corpo, ossia "lo rende del tutto inca-
pace ad essere affetto". Ma, come indica il contesto, si tratta delle affezioni passive prodotte dagli
altri corpi esistenti.
'l'iKmiA DUI, MODI) HNIil) 249
Leibniz, lettera al Langravio, 14 agosto 1683. Cfr. Foucher de Careil, R^utation inèdite ck Spi-
noza par Leibniz, Paris 1854. Leibniz considera l'eternità della mente spinozista simile a quella di una
verità matematica, trascurando cosi le differenza fra il terzo genere e il secondo.
2JO SL'INO/A I! Il l'K( mi I MA 1)111.1,'HSI'RH.SSIONH
sive sono affette da affezioni che si spiegano per mezzo della nostra essenza; le
passioni residue sono quindi, in proporzione, inferiori alle affezioni attive.
Ossia: la nostra capacità di essere affetti è, in proporzione, colmata più dalle
aflfezioni attive che da quelle passive. Le afifezioni attive si spiegano però
mediante la nostra essenza, mentre le affezioni passive si spiegano per mezzo
delle infinite determinazioni estrinseche delle parti estensive. Quindi, delle due
parti da cui siamo composti, la parte intensiva è diventata relativamente più
importante della parte estensiva. Potremmo dire che, quando moriamo, ciò che
perisce "è di nessuna importanza rispetto a ciò che r i m a n e " ^ ' * . Quante più cose
conosciamo con il secondo e il terzo genere di conoscenza, tanto maggiore è
la parte di noi che rimane eterna^'. Va da sé che la parte etema, considerata in
sé, indipendentemente dalle parti estensive che vi si aggiungono per comporre
la nostra esistenza, è un assoluto. Supponiamo invece che, nel corso della
nostra esistenza, la nostra capacità di essere affetti sia colmata e determinata da
affezioni passive. Le parti estensive sono allora relativamente più importanti
della parte intensiva etema. Ciò che perdiamo quando moriamo è maggiore;
di conseguenza, teme la morte solo colui che ha qualcosa da perdere, colui che,
morendo, perde la sua parte relativamente più importante^^. La nostra essenza
continua a rimanere l'assoluto che è in sé e l'idea della nostra essenza continua
a rimanere quello che è in Dio assolutamente, ma la nostra capacità di essere
affetti che le corrisponde eternamente rimane vuota: avendo perso le nostre
parti estensive, abbiamo perso anche le affezioni che si spiegavano per mezzo
di esse. Ma noi non abbiamo altre affezioni: quindi, quando moriamo, la
nostra essenza rimane, ma essa è astratta, priva di affezioni.
Accade il contrario quando abbiamo saputo fare della parte intensiva il
nostro elemento più importante. Morendo, perdiamo poco: le passioni che
sono rimaste in noi, spiegate per mezzo delle parti estensive; in un certo sen-
so, le nozioni comuni e le affezioni attive del secondo genere, che hanno un
valore autonomo solo in quanto si applicano all'esistenza. Le affezioni attive
del terzo genere non possono più imporsi alle parti estensive perché queste
ultime non ci appartengono più. Ma la nostra capacità di essere affetti sussi-
ste eternamente, in concomitanza con la nostra essenza e con l'idea della
E, V, 38, se. Il nostro sforzo nel corso dell'esistenza può quindi definirsi così. E, V, 39, se.: for-
mare un corpo che sia riferito ad una mente che sia molto consapevole di sé, di Dio e delle cose. A
questo punto, ciò che si riferisce alla memoria e all'immaginazione è "appena di qualche impor-
tanza rispetto a ciò che si riferisce all'intelletto".
E, V, 38, dira.: "Quante più cose la Mente conosce con il secondo e il terzo genere di cono-
scenza, tanto maggiore è la parte di essa che rimane illesa".
E, V, 38, prop. e dim.
T I ' O R I A I)I;I, M O D O I'INITO
La forza di una filosofia si misura sulla base dei concetti die crea, o di cui essa
rinnova il significato, e che impongono ima nuova suddivisione alle cose e alle
azioni. Può accadere che questi concetti siano evocati dal tempo, caricati di
un senso collettivo conforme alle esigenze di un'epoca, e che siano scoperti,
creati o ricreati da diversi autori contemporaneamente. È quel che accade con
Spinoza e con Leibniz e il concetto di espressione. Tale concetto si fa carico
della reazione anticartesiana condotta da questi due autori, da due punti di
vista molto diversi. Implica una riscoperta della Natura e della sua potenza,
una ri-creazione della logica e dell'ontologia: un nuovo "materialismo" ed un
nuovo "formalismo". Il concetto di espressione si applica ad un Ente deter-
minato come Dio nella misura in cui Dio si esprime nel mondo. Si applica
alle idee determinate come idee vere nella misura in cui le idee vere esprimo
Dio e il mondo. E si applica agli individui determinati come essenze singola-
ri nella misura in cui le essenze singolari si esprimono nelle idee. Le tre deter-
minazioni fondamentali: essere, conoscere, agire oprodurre sono quindi misurate
e sistematizzate da questo concetto. Essere, conoscere, agire sono le specie del-
l'espressione. E questa l'epoca della "ragion sufficiente": i tre rami della ragion
sufficiente, ratio essendi, ratio cognoscendi, ratio fiendi o agendi, hanno nell'e-
spressione la loro radice comune.
Tuttavia, il concetto di espressione, così come lo riscoprono Spinoza e
Leibniz, non è nuovo: ha dietro di sé una lunga storia filosofica, una storia
nascosta, quasi maledetta. Noi abbiamo cercato in effètti di mostrare come il
tema dell'espressione si inserisca fra le due grandi tradizioni teologiche del-
l'emanazione e della creazione. Esso non è un terzo concetto che interviene
dal di fiiori in antagonismo con le due tradizioni, ma interviene a una certa
fase del loro sviluppo ed è sempre sul punto di raggirarle e impadronirsi di
loro. L'espressione è un concetto propriamente filosofico, dal contenuto
immanente, che si inserisce fi-a i concetti trascendenti della teologia emanati-
va e creazionista. Reca con sé l'autentico "pericolo" filosofico: il panteismo o
l'immanenza - l'immanenza dell'espressione in ciò che si esprime, e di ciò
2J4 Spinoza ii ii i'Kohiuma i)nii'nsi'iti;s.si()NH
che è espresso nell'espressione. Penetra nel profondo, negli "arcani" come dice
Leibniz. Ridà alla natura il suo spessore, e all'uomo la possibilità di far brec-
cia in questo spessore. Rende l'uomo adeguato a Dio, in possesso di una nuo-
va logica: automa spirituale, uguale alla combinatoria del mondo. Le tradi-
zioni dell'emanazione e della creazione, nel cui seno è nato, diventano i suoi
nemici, poiché nega sia la trascendenza dell'Uno superiore all'ente sia la tra-
scendenza di un Ente superiore alla creazione. O g n i concetto possiede vir-
tualmente in sé un apparato metaforico. Lo specchio e il germoglio sono l'ap-
parato metaforico dell'espressione'. L'espressione come ratio essendi si riflette
nello specchio come ratio cognoscendi, e si riproduce nel germoglio come ratio
/tendi. M a lo specchio dà l'impressione di assorbire l'ente che in lui si riflette
e l'ente che guarda l'immagine. Il germoglio, o il ramo, pare assorbire sia l'al-
bero da cui si origina che l'albero a cui dà origine. E che cos'è questa strana
esistenza, "catturata" nello specchio, implicata nel germoglio - insomma, ^uel
che è espresso, entità che esiste appena? A b b i a m o visto che sono due le fonti del
concetto di espressione: una, ontologica, concerne V espressione di Dio, e nasce
nel seno delle tradizioni dell'emanazione e della creazione, pur criticandole
radicalmente; l'altra, logica, nata nel seno della tradizione aristotelica, che poi
rovescia, riguarda ciò che è espresso dalle proposizioni. Le due tradizioni si ritro-
vano nel problema dei N o m i divini, del Logos o del Verbo.
Il fatto che Leibniz e Spinoza, il primo a partire dalla tradizione cristiana,
il secondo da quella ebraica, riprendano nel XVII secolo il concetto di espres-
sione e gli diano un n u o v o senso, dipende evidentemente dal contesto del
tempo, in rapporto ai problemi dei rispettivi sistemi. Cerchiamo quindi in pri-
m o luogo di delineare quel che è comune ai due sistemi, e per quali ragioni
Spinoza e Leibniz reinventino il concetto di espressione.
Concretamente, attaccano Cartesio perché ha costruito una filosofia trop-
po "precipitosa", troppo "facile". In tutti i campi, Cartesio va talmente di fret-
ta che si lascia sfuggire la ragion sufficiente, l'essenza o la vera natura: si limi-
ta, ovunque, al relativo. Prima di tutto riguardo a Dio-, la prova ontologica di
Cartesio si fonda sull'infinitamente perfetto, e ha fretta di trame le conclu-
sioni; ma l'infinitamente perfetto è un "proprio" affatto insufficiente per
mostrare la "natura" di Dio e il m o d o in cui tale natura sia possibile. C o s ì le
prove a posteriori: esse riposano sulla considerazione delle quantità di realtà,
' Riguardo ai due temi dello specchio e del germoglio (o del ramo), che hanno un rapporto
essenziale con la nozione di espressione, cfr. ad esempio il processo di Eckhart. In effetti, questi
temi fanno parte dei principali capi d'accusa: cfr. Edilion critique despièces reìatives auprocès d'Eckha
a cura di G. Théry (Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age), Vrin, Paris 1926-1927.
CoNOI.DSIONIi 255
^ Sulle "forme semplici assolutamente considerate", "attributi stessi di Dio', "cause prime e ragio-
ne ultima delle cose", cfr. Lettera a Elisabetta, 1678 e Medilazioni mila conoscenza, 1684. Nella nota del
1676, QmA enspafectissimum existit, la perfezione è definita da una qualità positiva assoluta seu quae
tluicquidexprimit, sine uttis limitibus exprimit (Gerhardt VII, pp. 261-262). Nei Nuovi Saggi, Leibniz al
de anche alle "qualità originali o conoscibili distintamente" che possono essere portate all'infinito.
CoNcm.sioNi; 257
essenza 0 idea ciò che comprende tutto quanto noi esprimiamo; e poiché
quella esprime la nostra unione con Dio, non ha limiti, e nulla la oltrepassa"'.
Per quanto riguarda il terzo punto, dobbiamo ripensare all'individuo defi-
nito come un composto di mente e di corpo. L'ipotesi di una causalità reale è
probabilmente il modo più semplice per interpretare i fenomeni di tale com-
posto, le sue azioni e le sue passioni, ma non è certo il modo più convincen-
te ed intelligente. Si corre infatti il rischio di dimenticare un mondo ricco e
profondo: quello delle corrispondenze non causali. Anzi, può anche darsi che la
causalità reale agisca solo in alcune regioni di questo mondo di corrispon-
denze non causali, e che in verità le presupponga. La causalità reale diventa
un caso particolare di un principio più generale. Si ha l'impressione che l'ani-
ma (mente) e il corpo posseggano un'identità quasi totale che rende inutile la
causalità reale, ed un'eterogeneità, un'eteronomia, che la rende impossibile.
L'identità o quasi identità è quella di un "invariante"; l'eteronomia, quella di
due serie variabili, la corporea e la spirituale. Ora, la causalità reale interviene
in ciascuna serie, ma il rapporto fi-a le due serie, come il rapporto con l'inva-
riante, dipende da una corrispondenza non causale. Se ci chiediamo adesso
quale sia il concetto in grado di spiegare tale corrispondenza, vediamo che si
tratta del concetto di espressione. Infatti, se è vero che il concetto di espres-
sione si applica in modo adeguato alla causalità reale, nel senso in cui l'effet-
to esprime la causa e la conoscenza deirefFetto una conoscenza delia causa, è
anche vero che esso va al di là della causalità, poiché fa corrispondere e risuo-
nare due serie affatto estranee l'una all'altra. La causalità reale è sì una specie
dell'espressione, ma una specie sussunta sotto un genere più profondo, che
traduce immediatamente la possibilità data a due serie distinte eterogenee (le
espressioni) di esprimere il medesimo invariante (ciò che è espresso), definen-
do in ogni serie variabile la stessa concatenazione di cause ed effetti. L'espres-
sione si stabilisce nel cuore dell'individuo, nel suo corpo e nella sua mente,
nelle sue azioni e nelle sue passioni, nelle sue cause e nei suoi effetti. Leibniz
con il concetto di monade e Spinoza con quello di modo non intendono altro
che l'individuo come centro espressivo.
Cfr. la lettera di Leibniz a Amauid (Janet I, p. 594): "L'espressione è comune a tutte le forme, ed
è un genere di cui sono specie la percezione naturale, il senso animale e la conoscenza intellettuale".
' Gerhardt, Vn, pp. 263-264.
^ Leibniz, lettera ad Amauid (Janet, I, p. 594): "È sufficiente che ciò che è divisibile e materiale e
che è suddiviso in enti diversi, sia espresso o rappresentato in un unico ente indivisibile, oppure nel-
la sostanza dotata di una vera unità". Cfr. anche Nuovi Saggi sull'intelletto umano, Laterza, Roma-Bari
1988, p. 315: L'anima e la macchina, "ciascuna a parte, sono sufficienti alla determinazione; e fra esse
è perfetto accordo; e benché non abbiano reciproca influenza immediata, s'esprimono mutuamen-
te, l'una avendo concentrato in una perfetta unità quanto nell'altra è disperso nella molteplicità".
7 Progetto di una lettera ad Arnauld (Janet, I, pp. 552-553).
C()Nc;i,iisi()Ni'. 259
espressivo che mantiene col suo corpo. li mondo the ogni monade esprime è
un continuum munito di singolarità, ed è intorno a queste singolarità che le
monadi si formano in quanto centri espressivi. Lo stesso accade per le idee:
"La nostra anima riflette solo sui fenomeni singolari che si distinguono dagli
altri, poiché non può pensare distintamente ad ognuno quando pensa nello
stesso tempo a tutti"®. Per questo il nòstro pensiero non raggiunge mai l'asso-
lutamente adeguato, le forme assolutamente semplici che sono in Dio, ma si
limita a forme e a termini relativamente semplici (ossia semplice relativamen-
te alla moltitudine che implicano): il che è vero anche di Dio, "dei diversi pun-
ti di vista di Dio", delle regioni del suo intelletto che riguardano la creazione
possibile: i diversi mondi creabili formano il fondo oscuro a partire dal quale
Dio crea il migliore dei mondi, creando le monadi o le espressioni che lo
esprimono al meglio. Anche in Dio, o perlomeno in alcune regioni del suo
intelletto, l'Uno si combina con lo "zero" che rende possibile la creazione.
Bisogna quindi tener conto di due fattori fondamentali nella concezione leib-
niziana dell'espressione: VAnalogia, che esprime i diversi tipi di unità, rispet-
to alle molteplicità che implicano; VArmonia, che esprime il modo in cui la
molteplicità corrisponde, caso per caso, alla sua unità di riferimento^'.
Tutto ciò forma una filosofia "simbolica" dell'espressione, nella quale l'e-
spressione non è mai distinta dai segni delle sue variazioni e dalle zone oscure
in cui si radica. Il confuso ed il distinto variano in ogni espressione (l'intrae-
spressione significa che quello che una monade esprime confusamente l'altra
10 esprime distintamente). Lafilosofia simbolica è necessariamente unafilosofia di
espressioni equivoche. Invece di opporre Leibniz a Spinoza, rievocando l'impor-
tanza delle tematiche leibniziane del possibile e della finalità, è necessario, a
nostro parere, mettere in luce il modo concreto in cui Leibniz interpreta e vive
11 fenomeno dell'espressione, dal momento che tutte le altre tematiche e tutti
gli altri concetti derivano da esso. È come se Leibniz, al fime di salvaguardare
la ricchezza del concetto di espressione e scongiurare il "pericolo" panteistico,
elaborasse una nuova formula, grazie alla quale la creazione e l'emanazione
A volte Leibniz usa il termine "emanazione" per designare la creazione delle unità e delle loro
combinazioni: cfr. ad esempio il Discorso di metiftsica, § 14.
CONCIIRSKINI; 261
che fa esistere il più perfetto su un altro modo qualitativo rispetto al meno per-
fetto, implica solo un processo quantitativo immanente, che fa esistere il meno
perfetto nel più perfetto, ossia lo fa esistere nella e sotto la stessa forma univo-
ca che costituisce l'essenza del più perfetto. (È in tal senso che si deve con-
trapporre la teoria dell'individuazione qualitativa di Leibniz alla teoria del-
l'individuazione quantitativa di Spinoza, senza che se ne possa dedurre una
minor autonomia del modo rispetto alla monade.)
In Spinoza, come in Leibniz, il rapporto di espressione riguarda essenzial-
mente l'Uno e il Molteplice. Ma si può cercare a lungo ntWEtica un segno
facente si che il Molteplice, in quanto imperfetto, implichi una confusione
rispetto alla distinzione dell'Uno che in lui si esprime. U n grado maggiore o
minore di perfezione, secondo Spinoza, non implica mai un cambiamento di
forma. Di conseguenza, la molteplicità degli attributi è rigorosamente uguale
all'unità della sostanza: sulla base di questa uguaglianza, dobbiamo intende-
re che gli attributi sonoformalmente quel che la sostanza è ontologicamente. Nel
nome di tale uguaglianza, le forme degli attributi non determinano alcuna
distinzione numerica fra le sostanze; al contrario, la loro distinzione formale
è uguale alla differenza ontologica dell'unica sostanza. E se consideriamo la
molteplicità dei modi in ogni attributo, vediamo che i modi implicano l'at-
tributo, ma senza che questa implicazione significhi che l'attributo acquisti
una forma diversa da quella con cui costituisce l'essenza della sostanza: i modi
implicano e esprimono l'attributo nella stessaforma in cui l'attributo implica
ed esprime l'essenza divina. Per questo lo spinozismo è corredato da una
straordinaria teoria delle distinzioni, una teoria che, anche quando prende in
prestito la terminologia cartesiana, parla una lingua del tutto diversa: la distin-
zione reale diventa una distinzione formale non numerica (vedi gli attributi);
la distinzione modale diventa una distinzione numerica intensiva o estensiva
(vedi i modi); la distinzione di ragione, una distinzione formal-oggettiva (vedi
le idee). Anche Leibniz, nella sua teoria, moltiplica le distinzioni, ma al fine
di assicurarsi tutti i vantaggi della simbolizzazione, dell'armonia e dell'analo-
gia. In Spinoza, invece, l'unico linguaggio è quello dell'univocità: prima l'u-
nivocità degli attributi (poiché gli attributi, nella stessa forma, costituiscono l'es-
senza della sostanza e contengono i modi con le loro essenze); poi Vunivocità
della causa (poiché Dio è causa di tutte le cose cosi come è causa di sé) e dell'i-
dea (poiché la nozione comune è la stessa, nella parte come nel tutto). Uni-
vocità dell'ente, univocità del produrre, univocità del conoscere; forma comu-
ne, causa comune, nozione comune - sono queste le tre figure dell'Univoco
che si riuniscono assolutamente nell'idea del terzo genere. L'espressione, invc-
2^2 Sl»IN( )/.A I! Il ine IHI l'MA I )HI.I,'llSI'Rll.S.SI( )NI!
" È un tema costante nelle lettere ad Aniauld: Dio non ha creato Adamo peccatore, ma il mon-
do in cui Adamo ha commesso peccato.
CONCIIIMONI; 263
L'Affermazione speculati-
va.
Non vi sono più sostanze Le 8 proposizioni non sono Prima triade della sostanza:
dello stesso attributo, la ipotetiche ma categoriche; è attributo, essenza, sostanza.
distinzione numerica non quindi falso affermare che
è reale. l'Etica "cominci" dall'idea di
Dio.
La distinzione reale non è Solo qui si raggiunge l'idea Seconda triade della sostan-
numerica, vi è un'unica di Dio in quanto idea di za: perfetto, infinito, asso-
sostanza per tutti gli attri- una sostanza assolutamen- luto.
buti. te infinita; è dimostrato
che la definizione 6 è reale.
L'Idea espressiva.
Esposizio- Il modello del corpo. Le parti estensive, i rapporti l'iiiiu triade individuale
ne della di movimento e di quiete, del rnodo: l'essenza, il rap-
fìsica la composizione e la scom- porto caratteristico, le par-
posizione dei rapporti. ti estensive.
14-36 Le condizioni in cui abbia- L'idea inadeguata è "indica- Carattere inespressivo del-
mo le idee fanno si che tiva", "implicante", all'op- l'idea inadeguata.
esse siano necessariamente posto dell'idea adeguata,
inadeguate: l'idea di sé, l'i- che è espressiva ed esplica-
dea del proprio corpo, l'i- tiva: il caso, gli incontri e il
dea degli altri corpi. primo genere di conoscen-
za.
37-49 Come sono possibili le Le nozioni comuni, con- Carattere espressivo dell'i-
idee adeguate? Quel che è trapposte alle idee astratte. dea adeguata, dal punto di
comune a tutti i corpi o a Come le nozioni comuni vista della forma e della
più corpi. conducono all'idea di Dio: materia.
il secondo genere di cono-
scenza e la ragione.
Ciò che segue dalle idee: Distinzione di due tipi di Seconda triade individuale
gli affetti. Il "conatus", in affetti: attivi e passivi; le del modo: l'essenza, la
quanto è determinato dal- azioni che seguono dalle capacità di essere affetti, gli
gli affetti. idee adeguate, le passioni affetti che colmano tale
che seguono dalle idee ina- capacità.
deguate.
11-57 La distinzione fra due tipi Le due linee, di gioia e di Aumentare e diminuire la
di affetti, passivi ed attivi, tristezza: il loro sviluppo, potenza di agire.
non deve far dimenticare le loro variazioni e le loro
la distinzione fra due tipi combinazioni.
di affetti passivi, quelli di
gioia e di tristezza.
58-59 Possibilità di una gioia atti- Critica della tristezza. Il concetto completo della
va, distinta dalla gioia pas- gioia.
siva: entrare in possesso
della potenza di agire.
Piimo m o m e n t o della iasio- Utililik e necessiti relative Critica sviluppata della tri-
ne: selezionare gli alfcttì piW- della società, come condi- stezza.
sivi, eliminare la tristezza, zione di possibilità e pre-
organizzare gli incontri, com- parazione del primo sforzo
porre i rapporti, aumentare la della ragione.
potenza di agire, provarle il
maggior numero di gioie.
L'idea di Dio, limite del Dalle nozioni comuni all'i- Il Dio impassibile così
secondo genere di cono- dea di Dio. come è inteso nel secondo
scenza. genere.
L'idea di Dio ci fa uscire Le parti della mente sono tan- L'Etica, che fino ad ora ha
dal secondo per accedere te quanti i tipi di affètti: non fatto riferimento alle
al terzo genere di cono- solo degli affetti passivi di nozioni comuni, e solo ad
scenza: il Dio reciproco gioia e di tristezza, ma anche esse, parla adesso nel nome
del terzo genere, l'idea ade- degli afietti attivi di gioia del del terzo genere. Unità, nel
guata di noi stessi, del cor- secondo genere; ed anche terzo genere, fra la gioia
po e degli altri corpi. deg)i affetti attivi di gioia del pratica e l'affermazione
terzo genere. Di qui si deduce speculativa: divenire
quel che è mortale e quel che espressivi, la beatitudine, la
è etemo nella mente: la parte reciprocità, l'univocità.
che muore e quella che rima-
ne, le parti estensive e l'essen-
za intensiva.
sono dare più sostanze dello stesso attributo. Come abbiamo visto nel primo
capitolo, il suo svolgimento è il seguente: i) la distinzione numerica implica una
causalità estema; 2) ma è impossibile applicare una causa estema ad una sostan-
za, poiché ogni sostanza è in sé ed è concepita per sé; 3) quindi, due o più
sostanze non possono distinguersi numericamente, sotto lo stesso attributo.
La proposizione 5 ha uno svolgimento diverso, più breve: due sostanze del-
lo stesso attributo dovrebbero distinguersi per i modi, il che è assurdo. Ma
dopo la 5, la proposizione 6 dimostra quindi che la causalità esterna non può
convenire con la sostanza. E la 7 che una sostanza è quindi causa di sé. E la 8
che una sostanza è quindi necessariamente infinita.
Il gruppo di proposizioni 5-8 e lo scolio 8 hanno uno svolgimento contra-
rio. Le proposizioni partono dalla natura delia sostanza per dedurre la sua infi-
nità, ovvero l'impossibilità di applicarle distinzioni numeriche. Lo scolio par-
te dalla natura della distinzione numerica per dedurre l'impossibilità di
applicarla alla sostanza.
Si potrebbe pensare che lo scolio, per dimostrare che alla sostanza ripugna
la causalità esterna, abbia interesse ad invocare le proposizioni 6 e 7. Di fatto,
è impossibile. Infatti 6 t j presuppongono 5; lo scolio non può quindi essere
un'altra dimostrazione. Invoca però, a lungo, la proposizione 7. In un senso
affatto nuovo: ne conserva un contenuto puramente assiomatico e la priva
interamente del suo contenuto dimostrativo: "Se gli uomini considerassero
attentamente la natura della sostanza, non dubiterebbero minimamente della
verità della proposizione 7; anzi questa proposizione sarebbe un assioma per
tutti e sarebbe annoverata tra le nozioni comuni". Lo scolio può allora opera-
re una dimostrazione del tutto indipendente dal gruppo dimostrativo 5-8.
Da questo scolio possiamo trarre tre conseguenze: i) Propone una secon-
da dimostrazione, positiva e intrinseca rispetto alla prima che opera negativa-
mente ed estrinsecamente. (In effetti, la proposizione 5 si limita ad invocare
l'anteriorità della sostanza per dedume l'impossibilità di assimilare la distin-
zione modale alla distinzione sostanziale. Anche lo scolio di 8 deduce l'im-
possibilità di assimilare la distinzione numerica alla distinzione sostanziale,
ma a partire dai caratteri intrinseci e positivi del numero e della sostanza.) 2)
Lo scolio è ostensivo, poiché, indipendente' dalle dimostrazioni precedenti,
deve prendere il loro posto, e conservare solo alcune proposizioni in modo
assiomatico, staccandole dalla loro concatenazione dimostrativa (uno scolio
può invocare delle dimostrazioni, ma non quelle del gruppo che deve "oltre-
passare"). 3) Da dove deriva allora l'evidenza che consente di utilizzare le pro-
posizioni riprese come assiomi, indipendentemente dal loro primo contesto
ARI'iiNDicii
qualità positive, non può essere numerica. Occorre fare un uso ostensivo del-
la proposizione 9, separata dal suo contesto.
Il carattere positivo degli scolii ha quindi tre aspetti: intrinseco, a priori e
reale. Consideriamo il secondo carattere, quello ostensivo. Anch'esso possiede
diversi aspetti, di cui abbiamo visto il principale. L'aspetto principale è assio-
matico: consiste, per lo scolio, nell'invocare il contenuto di una precedente
proposizione estraendolo dalla catena continua delle proposizioni e delle dimo-
strazioni e conferendogli una nuova forza polemica: è il caso degli scolii di I,
8 (uso della proposizione 7); di I, io (uso della proposizione 9); di II, 3 (richia-
mo all'idea di Dio); di II, 7 (richiamo agli Ebrei). Il secondo è un po' in dispar-
te rispetto al primo: gli scolii riproducono infatti, a volte, un semplice esempio
della proposizione corrispondente: come in II, 8 (esempio delle linee nel cer-
chio); in IV, 59 (esempio dell'azione di colpire); in IV, 63 (esempio del sano e
del malato). La maggior parte degli esempi di Spinoza paiono andare in due
direzioni, più alte ed essenziali: una paradigmatica, l'altra casistica. In II, 13, sco-
lio e in III, 2, scolio viene elaborato il modello del corpo; il corpo non è il
modello del pensiero, e non rompe il parallelismo o l'autonomia rispettiva del
pensiero e dell'estensione, ma funziona come un esempio che sviluppa una
fiinzione paradigmatica, il cui intento è di mostrare "parallelamente" quante
cose vi siano nel pensiero che vanno al di là della coscienza. A l l o stesso modo,
il modello della natura umana preannunciato in IV, 18, scolio e sviluppato in
V, IO, scolio e 20, scolio. Da ultimo il modello del terzo genere, preannuncia-
to in II, 40 scolio, nell'ultima riga di V, 20, e formulato in V, 36, scolio.
D'altro canto, la funzione casistica dello pseudoesempio appare in tutti gli
scolii che, rispetto alla dimostrazione precedente, si esprimono nella forma "è
il caso di". N o n si tratta di un semplice esempio, ma della definizione delle
condizioni in base alle quali l'oggetto della dimostrazione corrispondente è
effettivamente esposto: lo scolio determina il caso sussunto dalla regola con-
tenuta nella dimostrazione corrispondente, non come un caso fra altri, ma
come il caso che adempie alla regola e ne soddisfa tutte le condizioni. Talvol-
ta le condizioni possono essere restrittive e lo scolio, distante dalla proposi-
zione corrispondente, sottolinea che la proposizione e la dimostrazione devo-
no essere intese in un senso restrittivo: II, 45, scolio; IV, 34, scolio. In questo
aspetto degli scolii vi è però qualcosa di più profondo, che si interseca col pro-
cedimento positivo, dal momento che, per quel che riguarda gli errori e le pas-
sioni, è impossibile ottenere una definizione reale indipendentemente dalle
condizioni che effettuano l'oggetto preliminarmente indicato nella proposi-
zione e nella dimostrazione, impossibile anche delineare quel che di positivo
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tutto nella quarta parte, in rapporto col progetto generale Ae.\VEtica quale è
esposto nelle prefazioni o nelle loro conclusioni. La polemica comprende
quindi tre aspetti, speculativo, sensibile e pratico. Perché stupirsi se essi, ed i
caratteri da cui dipendono, si confermano reciprocamente e sconfinano gli uni
negli altri? I grandi scolii li riuniscono tutti. Lo scolio possiede sempre un
intento positivo, ma può realizzarlo solo grazie ad un procedimento estensi-
vo; e può fondare quest'ultimo solo implicando una polemica. Il procedi-
mento ostensivo, dal canto suo, è preso fra l'argomento polemico, che gli con-
ferisce la sua validità, e il principio ostensivo, che favorisce. In che modo
Spinoza riesce a conciliare il procedimento positivo dello scolio con il suo
argomento polemico, critico e negativo? La potenza polemica di Spinoza, così
vivace, si sviluppa in silenzio, lontano dalle discussioni, al servizio di un'af-
fermazione superiore e di un"'ostensività'' superiore. Per Spinoza, la negazio-
ne serve solo per negare il negativo, per negare ciò che nega e che oscura. La
polemica, la negazione, la denuncia esistono solo per negare quel che nega,
quel che inganna e nasconde: quel che serve all'errore, che vive di tristezza,
che pensa nel negativo. Per questo gli scolii maggiormente polemici riunisco-
no, con uno stile ed un tono particolari, i due gusti più alti dell'affermazione
speculativa (quella della sostanza) e della gioia pratica (quella dei modi): un
doppio linguaggio per una doppia lettura àcWEtica. La polemica è senza dub-
bio l'aspetto più importante dei grandi scolii, ma la sua forza diventa maggiore
quando è al servizio dell'affermazione speculativa e della gioia pratica, che essa
riunisce nell'ambito dell'univocità.
Indice dei nomi degli autori citati
51 IV. L'assoluto
L'uguaglianza fra gli attributi. - L'infinitamente perfetto e l'assolutamente infi-
nito.
L'infinitamente perfetto come "nerbo" delle prove cartesiane dell'esi-
stenza di Dio. - Senso delle obiezioni dirette contro la prova ontologica di
Cartesio. - Leibniz e Spinoza: insufficienza dell'infinitamente perfetto. - Spi-
noza: l'assolutamente infinito come ragione dell'infinitamente perfetto. - La
prova ontologica in Spinoza; piano dell'inizio deU'£fy£a. Differenzafirail Bre-
ve Trattato e l'Etica. - Leibniz e Spinoza dal punto di vista della prova onto-
logica. - La definizione 6 è una definizione reale.
Seconda triade dell'espressione: il perfetto, l'infinito, l'assoluto.
63 V. La potenza
Facies totius universi. - In che senso due rapporti possono non comporsi. - 1 tre
ordini, corrispondenti alla triade del modo: l'ordine delle essenze, l'ordine
dei rapporti, l'ordine degli incontri. - Importanza del tema dell'incontro for-
tuito in Spinoza.
L'incontro fra corpi i cui rapporti si compongono. - Aumentare o favori-
re la potenza di agire. - In che modo la distinzione fra le passioni di gioia e
le passioni tristi si congiunge con quella fra le affezioni attive e le affezioni
passive. - L'incontro fra corpi i cui rapporti non si compongono. - Passione
triste e stato di natura. - In che modo possiamo provare passioni di gioia?
N o n esistono il bene o il male, esistono solo il buono o il cattivo. - Il
male come cattivo incontro o scomposizione di un rapporto. - Metafora del-
Tawelenamento. - Il male non è nulla nell'ordine dei rapporti; il primo con-
trosenso di Blyenberg. - Il male non è nulla nell'ordine delle essenze: il
secondo controsenso di Blyenberg. - Il male e l'ordine degli incontri; l'e-
sempio del cieco e il terzo controsenso di Blyenberg.
Significato della tesi: il male non è nulla. - Sostituzione della differenza
etica all'opposizione morale.
227 XVIII. V e r s o il t e r z o g e n e r e
265 Appendice. Studio formale del piano delì'Bt/ca e del ruolo degli sco-
lii nella realizzazione di questo piano: le due Etic/^e