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Roberto Bazlen

LE PAROLE E LE COSE
Letteratura e realtà

Roberto Bazlen e «l’arte di morire ogni secondo»


26 ottobre 2017 di Le parole e le cose | 1 commento
di Diego Bertelli
[È da poco uscito il saggio Viaggio al termine della scrittura (Le Lettere) di Diego Bertelli.
Queste sono le pagine dedicate a Roberto Bazlen].
1. L’insieme degli scritti che oggi costituisce il corpus delle opere edite di Bazlen esce
postumo tra 1968 e 1973. La successione delle pubblicazioni comprende tre volumi distinti:
le Lettere editoriali (1968), che costituiscono una selezione dei «pareri su opere e autori
[redatti da Bazlen] come consulente della casa editrice Einaudi, dal 1951 fino all’estate del
1962, e poi della casa editrice Adelphi» [1]; le Note senza testo (1970), «appunti scelti da
quaderni manoscritti»[2] i quali non ebbero mai una circolazione concreta, tanto che il
titolo fu allora una mera scelta redazionale; il Capitano di lungo corso (1973), un romanzo
incompiuto e mai pubblicato, la cui parziale diffusione fu limitata a un circolo ristretto di
amici. Per quanto riguarda le Note senza testo e Il capitano di lungo corso (nella versione
originale, Der Schiffskäpitan) bisogna inoltre tenere a mente che si tratta di appunti
eterogenei e stralci di romanzo originariamente scritti in lingua tedesca. Tutti e tre i volumi
sono stati più tardi riuniti nell’edizione Adelphi degli Scritti (1984), in cui è compreso un
apparato di riferimento conclusivo con informazioni di carattere storico-documentario e
l’aggiunta ulteriore delle Lettere a Montale.
Proprio questa edizione, considerata nel suo complesso, costituisce un sistema stratificato
di relazioni intertestuali che manifesta tanto sul piano ideologico quanto su quello creativo
una visione radicale dell’opera. Sostenitore di una scrittura che non può aspirare alla
forma libro tradizionale, Bazlen riduce la creazione letteraria alla sua unità esplicativa
minima, quella della nota a piè di pagina: «Io credo che non si possano più scrivere libri.
Perciò non scrivo libri – Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi
(volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina») [3]. Questa constatazione è qualcosa di più
di una critica culturale al contenuto dei libri, la cui controparte ideologica si risolve in
un’azione uguale e contraria: lo scrivere note a piè di pagina al posto dei libri che non si
possono più scrivere implica da subito un’inflazione della creatività. La possibilità
dell’opera (libro) in Bazlen non è messa in crisi solo da un punto di vista formale; a
differenza di Calvino e Pasolini, a interferire è una dislocazione decisiva dello spazio. Il
testo, concentrandosi nel luogo tradizionalmente destinato alla sua spiegazione perde la
propria relazione primaria con la scrittura, di cui si riduce, per quantità e qualità, la
funzione. Per questo motivo, Il capitano di lungo corso,elaborato nel corso di circa un
ventennio, dal 1944 al 1965, anno della morte di Bazlen, rappresenta il libro che non è più
possibile scrivere, e cioè quell’insieme di note a piè di pagina che lo scrittore invece di
gonfiare in volume è andato riducendo drasticamente nel corso del tempo.
La diminuzione del testo ad apparto esplicativo impone che si ponga l’accento sul ruolo
determinante dell’interpretazione. Il libro, rappresentando una forma gonfiata di nota, fa
pensare che l’ermeneusi non sia conseguente alla lettura, ma simultanea. L’«Io scrivo»
posto in enfasi da Bazlen nei suoi quaderni riporta sul piano del presente la questione della
verità della scrittura in cui coincidono espressione e spiegazione; senza più un testo,
l’interpretazione si riferisce adesso a uno strumento che non ha ruolo di complemento, ma
assume invece una funzione rivelatrice. La verità ha dunque un rilievo di tipo esoterico che
solo la “lettura di chi scrive” può mettere in luce. Ciò significa che per quel che riguarda
nello specifico la scrittura, la perdita del profilo autoriale da parte dell’io scrivente non è
imputabile a un’intenzione prestabilita; è casomai la sua autorità di lettore che prevale. In
1
questo senso, non meraviglia che proprio le Lettere editoriali rappresentino senz’altro la
parte più organica della sua intera opera.
2. Nelle Notizie sui manoscritti poste in calce all’edizione complessiva degli Scritti,
Roberto Calasso riassume così le poche informazioni certe sul romanzo incompiuto di
Bazlen:
Non è possibile stabilire con certezza in quali anni sono stati scritti questi testi. Unico
punto di riferimento sicuro è la data posta alla fine di una prima, rapida stesura della storia
in otto pagine dattiloscritte: 3-4 ottobre 1944. […] Bazlen «si dedicò a questo romanzo
negli anni del dopoguerra […]. In quel periodo il manoscritto era voluminoso, constava
sicuramente di almeno quattrocento pagine. Si può supporre che successivamente Bazlen
abbia distrutto questa stesura del romanzo e lo abbia ridotto a una forma più lineare, quale
è rimasta. Egli tornò, comunque, più volte su questo libro, anche negli ultimi anni prima
della sua morte[4].
In una lettera privata del 28 giugno 1950 indirizzata a Luciano Foà, amico e segretario
generale della casa editrice Einaudi, Bazlen parla del romanzo che sta scrivendo usando
toni entusiastici: «scrivo per me molte ore al giorno (spero che fra una decina d’anni
saltino fuori tre libri, e non uno: tutto il materiale scorre organicamente in tre direzioni
diverse)»[5]. Durante questa fase esaltante della scrittura, in una lettera di poche settime
successiva, Bazlen vede crescere ancora le possibilità del testo di moltiplicarsi, «Credo che i
miei tre sono quattro – comunque uno fila che è un gusto»[6]. È dunque a cavallo tra la
primavera e l’estate del 1950 che possiamo situare una delle fasi redazionali più intense (se
non addirittura la più intensa in assoluto) de Il capitano di lungo corso. Trascorre a
malapena un anno dal culmine creativo descritto — in cui a dominare è il flusso della
scrittura — quando Bazlen spedisce a Foà una lettera editoriale divenuta tra le sue più
celebri. Si tratta della missiva del 12 giugno 1951, nella quale è contenuta un’attenta analisi
delle ragioni per cui pubblicare una traduzione italiana de L’uomo senza qualità di Robert
Musil — romanzo monumentale, incompiuto nell’essenza, oltre che in ragione delle
contingenze biografiche del suo autore — sarebbe un azzardo: «[…] pubblicare un libro di
questo genere è un rischio un po’ grosso; per leggerlo ci vuole tempo, pazienza, premesse
culturali in comune con l’autore, e via dicendo»[7].
Al momento della lettura del romanzo di Musil, sono passati poco più di cinque anni
dall’inizio della stesura del Capitano di lungo corso. Confrontando i due testi e le parole di
Bazlen sul proprio romanzo con la lettura professionale de L’uomo senza qualità dell’anno
successivo, emerge dapprincipio un’interessante serie di punti di tangenza. Inizialmente
Bazlen, che afferma di fare per l’occasione l’avvocato del diavolo, elenca i difetti del libro di
Musil in quattro punti:
1˚) troppo lungo
2˚) troppo frammentario
3˚) troppo lento (o noioso, o difficile, o come vuoi chiamarlo)
4) austriaco[8]
Se Bazlen scrittore supererà il terzo e il quarto dei macrodifetti caratterizzanti L’uomo
senza qualità, il caso de Il capitano di lungo corso desta una certa meraviglia per come è
apparso nell’edizione del 1973, perché in essa sembra ripetersi strutturalmente l’opera di
Musil, la cui «prima parte è svolta completamente; seguono capitoli disordinati; nessun
accenno alla conclusione»[9].
Continuando a leggere i giudizi contenuti nella lettera, è facile intuire che proprio in quei
difetti risiede il fascino che il romanzo esercita su Bazlen. Pur paventando il fallimento di
fronte a un’operazione editoriale così rischiosa, dopo aver tentato di raccontare a Foà il
“soggetto” del romanzo, egli scrive in chiusura:
Ora, tutto questo, che ti potrebbe sembrare vivissimo, va avanti soltanto per mezzo di
riflessioni, saggi, dialoghi, considerazioni laterali, descrizioni, diagnosi storiche, ecc. e
dopo poco, si legge con molta fatica, spesso con noia, benché tutti questi saggi siano […] di

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una precisione di pensiero e di una scrittura impeccabile, e di una sensibilità di
associazioni da battere spesso le più belle pagine di prosa di Rilke. Dopodiché ti succede
che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, trattati, feuilletons , – e dopo di esserti
abbondantemente irritato – ti si formi lentamente un mondo vivissimo le persone (delle
quali credevi di conoscere principalmente i pensieri astratti, ecc.) assumono lentamente
una densità ed una plastica da grandissimi personaggi da romanzo, che l’azione, della
quale non ti sei accorto, fila che è un gusto […][10].
Parlando da scrittore de Il capitano di lungo corso e da lettore de L’uomo senza qualità,
Bazlen usa un’espressione che permette di legare tra di loro queste due esperienze: «fila
che è un gusto». La formazione di un mondo «vivissimo» per chi legge deve infatti riuscire
a essere tanto immediato quanto lo è per chi scrive. Non è un caso che Bazlen, parlando più
approfonditamente della lentezza (o noia) de L’uomo senza qualità, riporti una nota
postuma di Musil al romanzo:
I lettori sono abituati ad esigere di sentirsi raccontare della vita, e non del riflesso della vita
sulle teste della letteratura (sic) e degli uomini. Questo è sicuramente giustificato soltanto
in quanto questo riflesso è una copia impoverita, diventata convenzionale, della vita. Io
tento di dar loro l’originale, ed è quindi giusto che loro sospendano il loro pregiudizio [11].
Seppure s’intraveda in Bazlen una contraddizione iniziale tra le intenzioni di chi scrive e i
risultati di chi legge, la possibilità che la vita raccontata in un’opera letteraria possa essere
infine “ridata”[12] si realizza contrariamente alle premesse. Se andiamo a guardare con
attenzione, i passaggi che conducono a una consapevolezza del genere sono fra loro
contraddittori: «Ora, tutto questo, che ti potrebbe sembrare vivissimo, va avanti soltanto
per mezzo di riflessioni, saggi, dialoghi, considerazioni laterali, descrizioni, diagnosi
storiche, ecc.»; «si legge con molta fatica, spesso con noia, benché tutti questi saggi siano
[…] di una precisione di pensiero e di una scrittura impeccabile»; «Dopodiché ti succede
che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, trattati, feuilletons, – e dopo di esserti
abbondantemente irritato – ti si formi lentamente un mondo vivissimo». Nel giudizio di
Bazlen è come se un’infrazione logica intercorresse tra i sintagmi «ti potrebbe sembrare» e
«dopodiché ti succede», i quali racchiudono la premessa e la conseguenza del mondo
vivissimo che interessa allo scrittore: esso altro non è che il «riflesso della vita sulle teste
della letteratura (sic) e degli uomini».
Questo aspetto del romanzo, ossia la possibilità di «riuscire a ridare al lettore l’originale
della vita» è per Bazlen il motivo che sta alla base dell’impossibilità di concludere un’opera.
La cosa interessante è che egli non impara da Musil questa lezione, ma ne ritrova conferma
leggendolo. Il giudizio su L’uomo senza qualità è infatti di poco successivo a un’altra
lettera indirizzata a Foà, quella del 21 marzo 1951, in cui scrive: «Caro Luciano […] ero
occupato a far naufragare il capitano di marina […] ed ora mi sento considerevolmente
erleitet (alleggerito)»[13]. Il naufragio testuale rappresenta l’escamotage compositivo per
evitare una forma che corrisponda alla morte («la forma è morte») [14]. Attraverso un
procedimento di riduzione del testo, Bazlen comprova la sua definizione della scrittura
come «de-scrizione»[15]. Il dash interposto suggerisce una lettura specifica del termine che
ne recuperi il significato etimologico: quello di copia ridotta di una precedente scrittura.
Questa pratica è realmente attuata da Bazlen, come testimonia Foà: «Negli anni successivi
non mi parlò più del ‘Capitano’. Quando, dopo la sua morte, chiesi a Fabrizio Onofri […] se
sapeva qualcosa che spiegasse come mai la parte ricopiata a macchina del ‘Capitano’ si
fosse talmente ridotta, Onofri ricordò che una sera Bobi gli aveva detto, accennando al suo
romanzo, di essersi reso conto come un manoscritto di 400 pagine potesse essere
condensato senza alcun danno in 80 pagine»[16].
Naturalmente non è possibile sapere quale sarebbe stato l’esito finale del romanzo di
Bazlen, né è dato supporre se quel processo ideale di “de-scrizione” del testo fosse, nelle
intenzioni dello scrittore, destinato a ridurre ulteriormente Il capitano di lungo corso;
tantomeno possibile è ricostruire i passaggi “de-scrittivi” del testo in maniera

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consequenziale. Possiamo però affermare che attraverso la “de-scrizione” la scrittura
aspira a un nuovo testo annullando il suo precedente, in un ciclo progressivo di distruzione
e creazione che vanifica ogni coordinata: «L’unica soluzione è indicibile, indescrivibile –
fino a quel punto non c’è altro che la problematica gioia della de-scrizione sempre più
stretta – eppure il provvisorio (vissuto coscientemente) porta con sé che questa gioia viene
negata»[17]. Estendendo al dominio della creazione artistica la necessità di «capire che ogni
secondo è contro la trasformazione degli altri» [18], risulta chiaro che la scrittura in Bazlen
non si confronta soltanto con la dislocazione, ma anche con l’impossibilità di una
progressione analogica sull’asse temporale. Il conflitto prodotto dalla scansione nelle unità
minime del secondo rende impossibile qualsiasi tipo di processo che non implichi la
distruzione di ciò che lo precede. Necessaria per Bazlen è solo una pratica, «l’arte di morire
ogni secondo»[19], ossia un annullamento i cui esiti sono evidenti da un punto di vista
creativo nella scelta di fare de Il capitano di lungo corso una vera e propria esperienza di
morte. Per questa ragione, possiamo dire che lo stesso naufragio cui aspira il capitano è,
sul piano narrativo, contrario alla trasformazione del suo viaggio in senso progressivo; egli
ricerca nel naufragio la sola possibilità di annullare l’ordine spazio-temporale della
direzione: «Finalmente l’aveva trovata, la nuova vita […]: quello che aveva cercato per tutta
la sua vita era il naufragio»[20].
Solo attraverso la mutazione continua (di cui la forma rappresenta l’esatto contrario) è
possibile ridare la versione originale della vita, aspirando alla realizzazione di quella che
Bazlen stesso definisce con un neologismo rimasto celebre «primavoltità» [21]. Così, una sola
direzione e una sola durata altro non sono che i due assi di quella forma che Bazlen
considera come non-vitale e nella quale riconosce la scrittura dell’opera in quanto libro:
egli sa che il provvisorio, ossia la forma temporanea dei passaggi de-scrittivi, ha di per sé
un’estensione:
Verso il culmine – il fatto che ogni forma, nella sua suprema possibilità di compimento,
dura solo un secondo – l’ininterrottamente creativo – ma questo è impossibile, perché la
forma sorge dal caos – e così la disgregazione, che fa parte del fatto che nasca una nuova
forma – Solo chi accetta la disgregazione è creativo, c’è anche la creatività del negativo – è
dell’uomo potere non far nulla, vivere, arte di non dilazionare la morte [22].
Abbiamo a che fare, da una parte, con una forma che, laddove stia per compiersi, non
debba e non possa durare; dall’altra, con l’impossibilità implicita che essa non nasca se non
dal caos e sia dunque disgregazione. Si tratta della stessa paradossale relazione implicita
alla necessità di «morire ogni secondo» [23] per non dover morire. Creare ininterrottamente
significa dunque agire attraverso la distruzione: «Distruggere vuol dire creare» [24]. A
governare tale processo è il principio della primavoltità, e cioè l’incessante reinvenzione
del testo; un processo metamorfosante che esclude la realizzazione intesa come ripetizione:
uno sterile modus operandi che accomuna l’azione di Penelope — il suo fare e disfare la
tela — a «lavoro per il lavoro»[25].

3. È nel simbolo del Tao, dove coabitano ordine e caos, in cui la via è annullamento della
direzione («Ogni via è una via sbagliata»)[26] che Bazlen riconosce l’essenza della propria
scrittura, quella dell’erranza: «Lao-tze, l’unico che non muore – se ne va» [27]. Il naufragio,
divenendone il corrispettivo romanzesco, si fa l’immagine più consona a rappresentare tale
alternarsi di ordine e caos. Per questo motivo, la circolarità narrativa e la salda forma
poematica dell’Odissea costituiscono, assieme ai ripetuti approdi del suo eroe eponimo,
l’anti-modello del Capitano di lungo corso. Come Penelope è descritta negativamente — la
sua attesa e la ripetizione del suo gesto sono interpretati come contrari alla vita, perché
dilazionano la morte e creano la forma, anche da un punto vista narrativo —, così pure il re
di Itaca diviene una figura di contrasto cui si contrappone l’esperienza del capitano.
Il ricorso al naufragio di fronte al compimento del viaggio di Ulisse è senza dubbio l’esito
più adatto per compiere quel «disastro» che in Bazlen va inteso come uno strumento

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profondamente creativo: «C’est que l’ordre du live est nécessaire à ce qui lui manque, à
l’absence qui se dérobe à lui […]. De là l’appel au fragmentarie et le recours au désastre, si
nous nous rappelons que le désastre n’est pas seulement le désastreux» [28]. L’ordine è
allora qualcosa che trascende sia forma che direzione. Allo stesso modo, «la continua
elusione dell’opera da parte di Bazlen», come ha scritto Roberto Calasso, «è stata proprio
una delle sue massime scoperte»[29]. La scrittura aspira alla dislocazione per ridursi a un
tipo specifico di nota, quella a piè di pagina, che è espressione di un ordine senza direzione.
Se la nota in quanto tale è l’avvenimento di un processo de-scrittivo che riduce il testo,
l’assenza della scrittura è di conseguenza il risultato estremo della forma più caotica e
creativa cui giunge «l’elusione del testo».
L’idea di Giulia de Savorgnani di rinvenire il testo assente di Bazlen sia nelle Lettere
editoriali sia nel Capitano di lungo corso[30], toglie alla de-scrizione il valore assoluto di cui
si nutre. Il testo assente è invece l’invenzione di un nuovo testo nella forma di una
riduzione. Attraverso l’annullamento di ogni direzione, in uno spazio precedente e
successivo al tempo, il naufragio che porta il capitano nella pancia della balena offre al
medesimo l’esperienza, anch’essa “de-scrittiva”, della fantasia:
scuro… scuro… scuro…[…] nero! E uno è così solo, così solo, così solo e non si ha più una
donna, che poi ha delle macchie blu sul corpo […] e intorno gira e si agita tutto ciò che è
stato e ciò che è e ciò che sarà, e tutto puzza […] si continua a stare seduti nell’oscurità, e
non si sa se si sarà di nuovo sputati fuori, se si potrà di nuovo strisciare fuori… Disperati, e
la cosa peggiore è che in realtà non si vuole per niente uscire dalla pancia della balena, in
fondo dov’è che si viene sputati fuori? […]. In questo mondo si viene sputati fuori; ma che
cos’è mai questo mondo? […]. Null’altro che un granello di sabbia nella pancia di una
balena ancora più grossa… voi non avete fantasia[31].
Il ventre della balena cancella ogni coordinata reale e diviene luogo in cui restare, perché
rappresenta lo spazio del possibile, ossia lo spazio minimo rispetto al quale c’è solo
amplificazione: il «very comfortable, cosy, homelike thought» che apre all’esperienza
dell’assenza[32]. Esso è dunque una raffigurazione dell’essere e del non-essere del Tao,
dell’identità e dell’alterità. Attraverso il corpo della balena, il capitano compie una
navigazione senza rotta: essa è assenza di direzione proprio come lo è, per la scrittura, una
nota a piè di pagina di cui non è dato il testo. Si tratta di un’esperienza che ripete
quell’insieme di radicamento e sradicamento, la cui discussione impone di ritornare fuori
di metafora, sostituendo al naufragio l’immagine precedente dell’erranza. Bazlen ritrova
nelle proprie origini culturali ebraiche una fantasia (quella che il capitano non attribuisce
agli uditori del suo racconto) che ha un limite: «La fantasia dell’ebreo si arresta di fronte
alla morte ([…] gli Ebrei temono solo la morte)» [33]. Si determina a questo punto una
tensione tra il limite imposto alla fantasia, che è biologico, e il caos creativo. Il processo
metamorfico, nel senso di stato «posteriore alla forma» della primavoltità, è per la
scrittura il solo modo di vincere la forma libro, e dunque la morte. Ciò avviene attraverso
una morte continua (che si fa mezzo del superamento di se stessa), la già ricordata «arte di
morire ogni secondo»[34] in cui «ogni secondo è contro la trasformazione degli altri» [35].
Solo così si cancella la morte di fronte alla quale si arresta la fantasia. La questione della
creatività assume un carattere radicale perché non è separata dalla realtà, ma ha invece
presupposti esistenziali notevoli che Bazlen non manca di rilevare in più parti dei suoi
quaderni. Il nostro è «un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si
moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi» [36]. La tragedia
di questa vita da vivere in uno stato di morte è quella dell’erranza in un deserto di sabbia in
fondo al mare. È la stessa tragedia appartenuta al popolo ebraico: «La tragedia degli Ebrei:
che passano il Mar Rosso asciutti (si gettano immediatamente nel Mar Rosso, presi dal
panico. A piede asciutto sul fondo del mare. Eliot – annega – il mio capitano – si
salva)»[37]. Al deserto, Bazlen sostituisce il mare, ai piedi, la balena, la quale si fa il mezzo
organico della deriva: «Una balena è una nave, solo che tutto è confuso […]» [38].

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4. L’esperienza del Capitano, uomo senza nome, è il verso di quella dell’Ulisse omerico —
colui che nega il nome per riaffermarlo, l’uomo della navigazione, l’eroe della nostalgia —,
come pure è il verso dell’esperienza di Giona, che trova nella balena la giusta direzione per
volontà di Dio. Parimenti, la moglie del capitano è il verso di Penelope: cuce ma non scuce,
a differenza della tela fatta e disfatta ogni giorno e ogni notte. La moglie è colei che non
attende, e di fronte alla quale il capitano non ha neppure memoria dell’evento della balena,
perché in quell’evento egli è solo, senza una donna, con delle macchie blu sul corpo:
«C’era una strana cosa, però», disse il Capitano «mi posso ricordare esattamente di tutto,
ma c’è una cosa che non so proprio: sono stato nella pancia della balena oppure no? Ma
com’era dentro e come poi sono riuscito a uscirne, questo lo vedo così chiaramente davanti
ai miei occhi […] ma comunque allora dovevo ben sapere dov’è che sono uscito, e questo
veramente non posso dirlo…». «Non sarebbe la prima volta», disse la moglie [39].
Nel dialogo con la moglie, il capitano sembra addirittura mettere in dubbio l’evento, quasi
che la memoria del fatto debba essere in una certa misura dimenticata, perché un ritorno
non è mai atteso. Questo passaggio mette in evidenza anche sul piano della narrazione il
processo de-scrittivo di Bazlen e il modo paradossale in cui la primavoltità è «per una
volta soltanto». Così, la cucitura può solo progredire fino a terminare. Non è un caso che la
moglie smetta di cucire:
Egli sorrise «Se mi cuci un’altra volta un paio di pantaloni…». «No», rispose lei con uno
strano tono serio «forse è stato quello lo sbaglio. Ci sono apposta le sarte per fare queste
cose – forse non prenderò mai più un ago in mano…»[40].
Il naufragio rende la “forma” del capitano diversa, così come rende diversa la “forma” del
testo: l’abito custodito del passato risulta una forma morta, che non riesce più ad adeguarsi
al presente: «Il capitano è magro, la giacca gli va troppo larga e i pantaloni non sono
finiti»[41]. Per questo nella conversazione successiva egli ride, intimando alla moglie di non
cucire più. Il capitano, che torna senza bisogno di un intermediario per l’agnizione — come
invece accade nel caso di Euriclea, la quale riconosce Ulisse dalla cicatrice che ha sulla
gamba —, nel momento in cui la moglie lo abbraccia vedendolo indossare abiti grigi a
brandelli, afferma:
«Finché non avrai dei vestiti nuovi, dovrai contentarti del vestito rosso». Lei buttò lì queste
parole con tono piuttosto garbato, e senza prendere neppure un’aria trionfante. «Rosso è
comunque meglio che grigio». «Qualsiasi cosa è meglio che grigio» disse il Capitano, lo
disse con tono garbato, ma la frase mancava comunque di tatto. Volle rimediare e raccontò
quanta nostalgia aveva avuto di quei pantaloni. Credo che saprei riconoscere ogni
cucitura[42].
Se i brandelli rimandano alla distruzione del testo, il colore può riferirsi sia agli «uomini
grigi» che il capitano incontra durante il suo viaggio sia alla distruzione dei loro «valori
eterni»[43], fondati sulla tradizione. Così l’uniforme rossa, che il capitano deve
provvisoriamente usare fino a quando non ne avrà una nuova, rappresenta anch’essa, come
il Mar Rosso, una forma morta: ogni cucitura riconoscibile è il segno di una cicatrice che il
suo corpo non può portare. Per tale ragione, tanto alla scrittura quanto alla vita è
necessaria un’invenzione che cancelli il testo precedente:
«Tutto dipende da quei pantaloni impossibili, non graditi, scomodi che mi hai imposto».
«Non cucio più».
«Ma puoi comprarli fatti e poi dirmi che li hai cuciti tu…»
«Sì, e ti posso fare anche degli altri tiri, sono piena di spiritelli maligni».
«Perdonata a priori – così dopo ti posso lasciare con migliore coscienza».
«E allora cosa fai?».
«Non lo so ancora. Lo deciderò dopo. Tutti i mari mi sono aperti… Prima di tutto voglio
finire di scrivere il mio libro».
«Ma cos’è che scrivi veramente?».

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«Veramente è la mia storia… la storia di un certo capitano di lungo corso».
«Ti manca ancora molto?».
«No, solo… alcune righe».
«Allora non ci vorrà molto».
«Chissà, forse invece ci vorrà molto».
«Ho tempo».
«Ma con me le righe durano… più a lungo».
«Ho più tempo di te».
«Chi ha più tempo?».
«Staremo a vedere. Questa conversazione è inclusa?».
«Certamente, e adesso mi mancano solo… alcune righe. Ma ora smetti, altrimenti la
conversazione esce dalla cornice. E allora ci sono delle righe in più. Se non le cancelliamo,
la fine viene proprio in mezzo a una frase».
Risero tutti e due.
«Perché mai faremo delle conversazioni così sciocche?».
«Credo per ironia romantica».

E il capitano scrisse l’ultima riga
5. Si comprende come il rapporto fra “fine” e “inizio” sia quello della fine della scrittura in
relazione all’inizio di un altro naufragio. Il capitano è l’uomo che per eccesso di ordine
«dimentica di fissare la rotta… quasi naufragio» [45]. È dunque evidente una tensione che è
prima di tutto culturale tra Talmud e Tao, tra ordine legato alla dottrina e molteplicità
della direzione[46]: «Ce qui est exaltant, c’est que la suite imprévisible du livre n’est pas
seulement liée à l’approfodissement de son thème, mais rendue nécessaire per la
mythologie propre de l’écrivain et la cohérence de quelque rêve obscure» [47]. Consonanti
allo spirito che informa la scrittura di Bazlen sono le parole con cui Blanchot introduce e
descrive l’incontro tra Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità, e la sorella Agatha.
Si tratta di un «rencontre» in questo caso diversamente animato:
passion […] d’une forme singulière, longtemps et presque jusqu’à la fin inaccomplie, tout
en étant la plus libre et la plus violente, à la fois méthodique et magique, principe d’une
recherche abstraite et d’une effusion mystique, union de l’une et de l’autre dans
l’entrevision d’un état suprême, le Règne millénaire dont la vérité, au commencement
accessible à la passion privilégiée du couple interdit, à la fin s’étendra peut-être à la
brûlante communauté universelle[48].
Nella serie di confronti possibili tra Musil e Bazlen, l’incontro tra il capitano e la moglie è
invece il momento in cui l’inanità della passione ristabilisce il paradigma esistenziale del
personaggio. Il «tono garbato» è dunque sinonimo di sterilità e funzione di un distacco
necessario alla solitudine, questa sì unica forma possibile di unione: quella dell’uno e
dell’altro se stesso, del corpo e dell’abito del capitano. Il naufragio si risolve in tal modo in
un’esperienza in cui la fine o il niente — che è ciò che accade — acquisisce una funzione
essenziale per la direzione della scrittura, distruggendola al solo scopo di ricomporla:
Enfin seul, passò per la testa del capitano, sorrise. A parte questo, impassibile come
sempre, cominciò a nuotare con tutte le sue forze. Come aveva odiato la nave, com’era bello
che tutti i libri si sciogliessero nel mare. Era tutto ovvio e consequenziale, lo aveva saputo
sempre, sempre, e lo aveva anche voluto, quella volta, quando aveva rifiutato i pantaloni
rossi – quello era stato il primo atto di preparazione al naufragio – […] un bel naufragio
plausibile, elaborato, curato, la logica interna che un paio di pantaloni rossi, asciutti,
doveva condurlo finalmente a un paio di pantaloni blu, tutti bagnati […]. Ora era
finalmente tutto in ordine […] anche se non lo sapeva, poteva dire dove si trovava, era la
fine del prologo […]. Ora soltanto Tiamat, Tiamat, per creare alla fine un cosmo, nuotava
[…] che indecenza la nave e il porto e la casa, ora aveva il mare, e aveva anche un

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programma, e poi il felice scioglimento, lo happy end – ignoto su una costa ignota, l’eroe
che esce dal mare […][49].
Se il sorriso e il blu sono simboli essenziali al processo caotico della de-scrizione, il caos,
raffigurato dalla dea marina Tiamat, è il punto di partenza di un nuovo progetto. Bazlen
aveva già sottolineato nei frammenti del capitolo Città grigia, contenuti nel quaderno B,
che cosa significasse essere sul punto di naufragare: «il vero naufragio è quando tutto si
dissolve in acqua, non c’è terra abbastanza buona per gettarci l’ancora – eppure deve
esserci un ancoraggio»[50]. Il naufragio risolve allora la questione del prologo, nel quale
risuona ciò che Bazlen scrive a proposito della scrittura dei libri: «questo è il prologo, forse
non possiamo scrivere che prologhi […]» [51]. A fondamento di una considerazione così
vicina all’idea che sia possibile soltanto scrivere note a piè di pagina, si pone, per mezzo di
una tensione faustiana, il superamento di un pregiudizio: «Pregiudizio: che debba esserci
una fine: tu parli della fine: ora è inizio e fine: perciò è così bello» [52].
Il capitano, dunque, compie il suo progetto a partire dalla fine, poiché la fine diviene ogni
possibile inizio. Egli, in quanto anti-Ulisse — «Ulisse […] crea direzione […] la linea chiara
è nel caos»[53] —, rappresenta anche l’opposto di se stesso (il capitano come figura guida e
autoritaria, capitaneum e capite). Per questa ragione la sua figura incarna in Bazlen il
senso stesso della scrittura, ossia lo spazio assente in cui alterità e identità coincidono
entro il circolo delle opposizioni. Esattamente in questo spazio, l’atto della primavoltità
inventa in maniera incessante una vita e una scrittura nuove:
altri naufragi nello stesso luogo – Ma nessun capitano torna indietro […] non si deve mai
naufragare lì dove sono naufragati altri… vera vita vuol dire: inventare nuovi luoghi dove
poter naufragare… ogni nuova opera è solo l’invenzione di una nuova morte [54].
[1]
Roberto Calasso, Notizie sui manoscritti, in Roberto Bazlen, Scritti, Milano: Adelphi
1984 (20022), p. 396.
[2]
Ibidem, p. 395.
[3]
Bazlen (20022), p. 203.
[4]
Ibid., p. 393.
[5]
Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo 85, a c. di Roberto
Dedenaro, Udine: Zanotto 1995, p. 16.
[6]
Ibid. [corsivo mio].
[7]
Bazlen (20022), pp. 278-79
[8]
Ibid., p. 274. Il quarto riguarda il carattere “troppo austriaco” del Mann che nella
traduzione italiana subirebbe per Bazlen un’inevitabile dispersione.
[9]
Ibid., p. 274.
[10]
Ibid., p. 278.
[11]
Ibid., p. 275
[12]
Riportiamo per intero l’aforisma di Bazlen: «Fino a Goethe: la biografia assorbita
dall’opera / Da Rilke in poi: la vita contro l’ opera», Ibid., p. 184.
[13]
Per Roberto Bazlen (1995), p. 16.
[14]
Bazlen (20022), p. 185.
[15]
Ibidem, p. 189.
[16]
Per Roberto Bazlen (1995), p. 17.
[17]
Bazlen (20022), p. 189.
[18]
Ibidem, p. 181.
[19]
Ibid.
[20]
Ibid., p. 70.
[21]
Ibid., p. 230.
[22]
Ibid., p. 212.
[23]
Ibid., p. 181.
[24]
Ibid., 186.

8
[25]
Ibid., p. 231.
[26]
Ibid., p. 214.
[27]
Ibid., p. 178.
[28]
M. Blanchot, L’écriture du désastre, Paris: Gallimard 1980, p. 155. La consonanza tra
Blanchot e Bazlen è, in questo specifico caso, evidente, anche se Blanchot non cita mai
Bazlen in questo libro e non abbiamo prova che avesse letto l’edizione delle Note senza
testo uscita nel 1970. Ciononostante, il sintagma «désastre dé-crit» (p. 17 ) consuona in
modo impressionante con il concetto di de-scrizione di Bazlen, anche negli esiti: «Le
désastre in expérimenté, ce qui se soustrait à toute possibilité d’expérience — limite de
l’écriture. Il faut répéter: le désastre dé-crit. Ce qui ne signifie pas que le désastre, comme
force d’écriture, s’en exclue, soit hors écriture, un hors-texte» (ibidem). Risalendo indietro
nel tempo, in una lettera editoriale del 9 aprile 1961, Bazlen raccomanderà caldamente a
Foà L’Espace littéraire. Dopo lo scetticismo iniziale di fronte a Blanchot, il giudizio
positivo si fonda su certe questioni a lui care: «Mi sono trovato davanti a sei pagine
stupende, scritte non al di qua né al di là ma sullo spartiacque, dove la paradossalità
inafferrabile del rapporto artista-opera è espressa come non l’ho trovata espressa mai», in
Bazlen (20022), p. 306.
[29]
Bazlen (20022), pp. 17-18 Si legga di seguito: «[…] qui non c’è l’opera, solo un gruppo di
appunti messi insieme da altri a formare un libro. Bazlen è riuscito tanto bene a passare fra
le maglie da render vano anche questo tentativo di legare degli scritti al suo nome. Direi
che questa è la ragione più convincente per decidersi a pubblicare questi scritti: la certezza
che qualunque sforzo non basti a fare di questa opera fantasma l’opera di Roberto B. Il
testo delle Note senza testo è da sempre altrove».
[30]
Cfr. G. De Savorgnani, Bobi Bazlen: lo scrittore che non scrive?, in Bobi Bazlen sotto il
segno di Mercurio, Trieste: LINT 1998, pp. 123-214.
[31]
Bazlen (20022), pp. 63-4.
[32]
George Orwell, Inside the whale and other essays, London: Victor Gollancz LTD 1940,
p. 177.
[33]
Bazlen (20022), p. 196. «Le Juif est l’homie des origins, qui se rapport à l’origine, non
pas en demeurant, mais en s’éloignant, distant anise que la vérité du commencement est
dans la séparation», in N. Blanchot, L’entretien infini, Paris: Gallimard 1969, p. 185.
[34]
Ibidem, p. 181.
[35]
Ibid.
[36]
Ibid.
[37]
Ibid., p. 196.
[38]
Ibid., p. 65.
[39]
Ibid., p. 138.
[40]
Ibid., p. 138-39.
[41]
Ibid., p. 137.
[42]
Ibid., pp. 136-7.
[43]
Ibid., p. 98.
[44]
Ibid., p. 148-9.
[45]
Ibid., p. 162.
[46]
Per un paragone con la medesima tensione culturale che si rinviene in Kafka, cfr. Bernd
Müller, Zwischen Thora und Tao, in “Denn es ist noch nichts geschehen” Walter
Benjamins Kafka-Deutung, Böhlau, Köln 1996, pp. 205-219.
[47]
Blanchot (1959), pp. 209-210.
[48]
Ibidem, p. 210.
[49]
Bazlen (20022), pp. 76-7.
[50]
Ibidem, p. 108.
[51]
Ibid., p. 208.
[52]
Ibid., p. 222.

9
[53]
Ibid., p. 213.
[54]
Ibid., p. 170.

[Immagine: Sol LeWitt, Wall Drawing #564]


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Categorie: Interventi | Tag: Adelphi, Diego Bertelli, Editoria italiana, Einaudi, Le Lettere,
Letteratura italiana, Roberto Bazlen | Permalink

UN COMMENTO
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1. adriano barra
26 ottobre 2017 a 08:42
“ 25 maggio 1984 – Una sera Natalia Ginzburg passeggiava con Bazlen sul Lungotevere. «
Quell’impermeabile è vecchio – le diceva Bazlen – perché non lo butti? ». « No, no, lo
voglio conservare », replicava lei. Allora Bobi si è tolto la giacca e l’ha buttata nel fiume. «
Ricordo che la vidi galleggiare », conclude la scrittrice. (Raccontato dalla medesima alla tv)
“.

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