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L’EMILITSA

L’Emilìtsa, un po’ grassa, aveva due tondi rosa carico sulle guance con la cipria intorno, le labbra dipinte
di rosso vivo come una caricatura e la voce ancora ferma da soprano leggero educata al canto dalla madre
greca, cantante lirica. Ogni giorno metteva un po’ di riso sul davanzale per i passeri, lo versava su una panca
di legno in miniatura perché non scheggiassero il marmo con il becco. La panchetta l’aveva costruita il
marito, un omino buono piccolo piccolo che giocava alle bocce.

Il balcone del soggiorno pieno di fiori colorati dava sui giardini pubblici. C’erano il minigolf, il ping pong e
in mezzo a un grande spiazzo di ghiaia la pista di pattinaggio circondata dai pini. D’estate ci montavano un
ring per il catch, una specie di lotta libera molto finta e molto popolare in Francia. I contendenti avevano gli
occhi coperti da una mascherina e alcuni persino il mantello. Una sera l’Angelo bianco, stretto in una presa
del Boia di Bethùne, provò a liberarsi con una mossa di grande effetto: ruotando sulla testa in verticale e
mulinando le braccia per prendere lo slancio. Il pietrisco lanciato sul tappeto da un tifoso esuberante gli
tagliuzzò prima la calotta di stoffa bianco argento e poi la pelle del cranio. Qualcuno disse maschera di
sangue, tre parole che tuttora lo inquietano. Allora, a sette anni, fu il suo primo vero svenimento.

In soggiorno c’era il pianoforte, uno dei primi su cui metteva le mani, verticale, nero e pieno di fregi, con
due candelabri a una fiamma e in mezzo il leggio pieghevole a pantografo. Sul leggio una vecchia edizione
dell’Elisir d’amore. Qualche volta l’Emilìtsa, vezzeggiativo del nome greco Emilìa. si sedeva al piano,
sfogliava la partitura fino a pagina 7, arpeggiava un accordo per prendere la nota e dopo un po’ faceva
tremare i bicchierini da sherry, troppo accosttati nell’angoliera. Oggi si chiederebbe se fossero i ripiani a
vibrare con i bassi oppure il cristallo con gli acuti. Allora restava immobile, semplicemente rapito. A tratti
doveva distrarsi dal suono. Guardava il foglio, i segni ancora ignoti ma belli, pallini neri e ogni tanto bianchi
che si rincorrevano un po’ fitti un po’ radi come passeri sui fili della luce.

L’Emilìtsa è in cucina con mamma. Si siede al piano, ha cinque o sei anni. Tira su il collo della camicia,
ripiego all’indietro i polsini e fingo di scorrere la partitura. Allontana i gomiti dai fianchi, solleva
leggermente i polsi lasciando penzolare le mani in attesa ispirata e poi affonda nei tasti. Un colpo secco. Si
ferma, solleva le mani, si ferma anche il suono (non arrivo ai pedali). Ricomincia, ma questa volta alterna le
mani, le sposto lungo la tastiera, muovo le dita a ragnetto. Mi fermo di nuovo, allungo una gamba scendendo
per metà dallo sgabello, schiaccio il pedale di destra, sollevo le mani. Magia, il suono continua. Chiudo gli
occhi, sono in volo.

“È tardi, andiamo”, dice mamma. L’Emilìtsa saluta, sorride, contrae il viso liberando un po’ della sua cipria.

L’aria è calda. I giardinetti sono pieni di bambini che corrono sulla ghiaia o coi pattini. Per me sono
un film muto. Mamma mi tiene per mano e mi trascina: il mio piede non vuole ancora staccarsi dal
pedale.

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