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ACCADEMIA di BELLE ARTI di BRERA  MILANO

CORSO di
FENOMENOLOGIA
DELL’IMMAGINE
2016/2017
Parte generale

ELEMENTI DI
FILOSOFIA
DELL’IMMAGINE

Dispense

Prof. Romano Gasparotti


romanogasparotti@ababrera.it
I. La concezione platonica dell’IMMAGINE
1.
Platone – nello stesso dialogo in cui mette a punto la tecnica della diairesis e la applica per
discriminare il sofista dal vero filosofo – ritiene sia oltremodo urgente applicare il procedimento
definitorio al campo aleatorio, sfuggente e proteiforme delle immagini.
[NOTA 1 – Che cos’è la diairesis platonica? Essa è considerata l’atto di nascita della logica occidentale
e consiste in un procedimento tecnico volto a definire univocamente l’identità specifica di qualsiasi
cosa, nella misura in cui ogni cosa è sé stessa in quanto non è altro da sé. Nel dialogo platonico del
Sofista, tale tecnica logico-definitoria viene messa a punto per identificare in maniera evidente e
inequivocabile la figura pericolosissima(a detta di Platone) del sofista. Il sofista si spaccia per vero
filosofo, ma per Platone non lo è affatto. E’ necessario, quindi, far capire che il sofista non è il filosofo,
ma il suo contrario, però, per far questo – si rende conto Platone – bisognerebbe identificare con
precisione e il sofista e il vero filosofo, nella loro contrarietà. Non esiste, tuttavia – rileva Platone –
alcuna procedura tecnica efficace in grado di produrre questo risultato, cosicché Platone stesso si
propone di mettere a punto una téchne logica ad hoc applicabile poi alla definizione di qualsiasi cosa si
vogli definire onde evitare equivoci, confusioni, malintesi, ecc. Questa tecnica è chiamata da platone
stesso diairesis, laddove la parola, etimologicamente, ha il tema del verbo diaireo, che significa
‘taglio’, ‘recido’, ‘separo nettamente’. Essa infatti consiste in un procedimento binario, dicotomico,
oppositivo ed escludente, che opera all’interno di un sistema di coppie di contrari, all’interno di ognuna
delle quali è necessario scegliere un opposto scartando così automaticamente il suo contrario nella
coppia. Una volta posto il definiendum(ossia l’elemento o il termine o l’oggetto che si vuole definire)
lo si include all’interno del genere più ampio nel quale sicuramente è incluso, dopodiché si ritagliano,
all’interno di questo genere massimo, delle coppie di sottogeneri e sottosottogeneri sempre più
specifici, fino a che si arriva alla definizione del definiendum. Esempio. Supponiamo di dover definire
con precisione che cos’è la pesca con l’amo. A quale genere massimo sicuramente appartiene al di fuori
di ogni dubbio? E’ di sicuro una tecnica. Con ciò abbiamo trovato il genere di partenza: la
tèchne(tecnica). A questo punto sottopongo tale genere ad una prima partizione binaria: Tecnica
divina/tecnica umana. La pesca a quale appartiene? E’ una tecnica umana. Divido a sua volta il termine
scelto e lo divido nuovamente in maniera più specifica: tecnica di cattura/tecnica di caccia. Scelgo il
primo termine e automaticamente escludo il secondo. Riopero la divisione binaria sul risultato: tecnica
di cattura con reti o tecnica di cattura con uncini? Scelgo il secondo termine e lo divido di nuovo: con
uncini dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso? Dall’alto verso il basso. Quando ritengo di
fermarmi – perché ho ottenuto ciò che cercavo – mi fermo. La definizione sarà data semplicemente
riepilogando a livello discorsivo gli elementi delle coppie di contrari scelti: la pesca con l’amo è una
tecnica umana di cattura con uncini dall’alto verso il basso. Ecco la definizione!
Essa è una semplice tecnica di definizione ed ha, quindi, un valore puramente strumentale: è come il
cacciavite quando devo avvitare una vite. Lo stesso Aristotele dirà che la logica tutta, in generale, è
organon, cioè semplice strumento di cui il pensiero si avvale quando deve raggiungere certi risultati e
quindi ha un carattere formale. E tuttavia di fatto, essa, nel corso degli sviluppi del pensiero
occidentale, è stata sempre di più interpretata al di fuori del suo valore puramente formale e
strumentale, come se avesse, invece, un valore sostanziale, con la conseguenza che si è ritenuto che il
mondo sia realmente suddiviso in coppie di opposti, i cui elementi si escludono reciprocamente: se è
ateniese non è spartano; se è greco non è barbaro; se è maschio non è femmina e così via. F.Nietzsche
dirà che la diairesis socratico-platonica è all’origine della “malattia dell’occidente”, nella misura in cui
abitua a pensare per opposizioni binarie – come per esempio Bene/Male, Giusto/Ingiusto – ritenendo
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che tali opposizioni fotografino la realtà così come essa effettivamente è. ]
Come riportano gli storici dell’arte antica, le prime manifestazioni di un linguaggio plastico
riconoscibile e compiuto nella Grecia arcaica, si evidenziano, nella ceramica, nel rilievo e nella
scultura, a partire dall’VIII secolo a.C. Eppure anche quando la statuaria classica giunge a realizzare i
suoi indiscussi capolavori, inizialmente ancora non c’è, nella lingua, un termine unico e specifico per
designare l’opera statuaria, come ha rilevato il linguista E. Benveniste1.
Analogamente non esisteva nemmeno un termine unico ed universale per designare ciò che si chiamerà
immagine. Proprio per questo Platone, nel Sofista – e siamo ormai arrivati al IV sec. a.C. – sostiene la
necessità di indicare con un unico termine generale eidolon(apparenza, presenza visibile, idolo), ciò che
prima, nell’età arcaica, era disseminato in una pluralità di singolarità differenti l’una dall’altra,
cercando di definire l’essenza unitaria che le possa accomunare tutte.2
E’ proprio a partire dal risultato di questa operazione, che la cultura occidentale verrà ad acquisire per
la prima volta una dimensione unitaria dell’‘immagine’, mentre, in precedenza, la lingua greca aveva a
disposizione decine di nomi diversi relativi a ciò che, solo da Platone in poi, sarà unitariamente
L’IMMAGINE.
La definizione dell’immagine proposta da Platone è di carattere onto-logico.
E, dal punto di vista filosofico, è dettata dal convergere di due principali esigenze: 1)quella di uscire dal
vicolo cieco nel quale Parmenide aveva condotto il pensare in quanto necessariamente vincolato a
pensare-l’essere-che-è – 2) quella di rendere ragione e giustificare la presenza del falso.
Abbiamo accennato al procedimento della diairesis, senza il quale nessuna definizione potrebbe essere
incontraddittoriamente prodotta. Ebbene, da dove trae Platone la struttura oppositiva, binaria e
dicotomica, in cui consiste il procedimento logico-diairetico? Dalla filosofia di Parmenide, quel
sapiente pre-socratico, il quale aveva concentrato per la prima volta l’attenzione del pensiero
sull’opposizione originaria, ovvero sulla madre di tutte le opposizioni: quella tra Essere e Non Essere.
Nel suo poema(del quale si è salvato solo un certo numero di frammenti)Parmenide sostiene che,
stando alla rivelazione di una Dea della Sapienza, ai mortali si dischiude una e una sola via
percorribile, quella dell’Essere-che-è e che, in quanto tale, non è non-Essere.
La via del non-Essere, invece, è una via sbarrata e del tutto impercorribile.
Parmenide aveva una concezione assolutamente univoca dell’Essere, sulla base della quale tutto ciò che
non era l’Essere stesso, di necessità era non-Essere. Secondo il più inappellabile degli Aut …. Aut …
Quali conclusioni aveva tratto Parmenide da ciò(secondo le prime interpretazioni filosofiche del suo
pensiero)? L’inevitabilità del fatto che tutti i molteplici nomi, che i mortali attribuiscono alle cose
sensibili manifestantesi nella loro quotidiana esperienza, si riferiscono a dei non-essenti e quindi non
indicano nulla. Ovvero indicano il nulla.
Lo stesso pensiero avrebbe dovuto coincidere con l’Essere stesso, secondo un monismo assoluto, che
negava ogni realtà a tutto ciò che non fosse l’unità semplicissima dell’Essere in quanto Essere. Rispetto
agli esiti aporetici di una tale impostazione ontologica, Platone si preoccupa di salvaguardare l’esigenza
di sozein ta phainomena, ossia di “salvare i fenomeni”, sottraendoli al Nulla, in cui li aveva dissolti
Parmenide.
Come avviene tale salvataggio dei fenomeni – ossia di ciò che appare all’umana esperienza sensibile –
da parte di Platone?
Platone giudica il pensiero parmenideo viziato da una logica ancora troppo elementare, la quale
concepisce la negazione, l’opposizione, l’alterità esclusivamente nel senso della contrarietà.
Secondo Platone, invece, l’Altro dall’Essere non è solamente il suo “contrario(enantion)”, che
corrisponde al Non-Essere come Nulla(assolutamente nulla, Nihil absolutum). Perché è ammissibile

1 É. Benveniste, “Le sens du mot KOΛΟΣΣΟΣ et les noms grecs de la statue”, in Revue de Philologie, 6, 1932, p.133
2 Vedi Platone, Sofista, 240 a, 3-6
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anche e in primo luogo il “diverso(éteron)” dall’Essere, il quale, in quanto diversamente essente, non è
né l’Essere in quanto tale, né il Non-Essere in quanto Nulla assoluto. Bensì è “intermedio” tra l’Essere
e il Nulla.
Ebbene, la molteplicità dei fenomeni sensibili, secondo Platone, si colloca in tale dimensione diversa e
intermedia, tra l’Essere-che-è e il Non-Essere-che-non-è.
Nel contempo, Platone, per completare il superamento dell’unilaterale monismo parmenideo, non
identifica più la realtà veramente essente alla pura e vuota unità dell’ Essere, bensì la identifica alle
Idee, le quali costituiscono gli archetipi eterni, immobili ed immutabili di tutto ciò che sensibilmente
appare. Le Idee sono i significati universali ed originari allo stato puro aventi un carattere
sovrasensibile, ovvero privi di corpo, di materia e di presenza sensibile.
Qual è, allora, lo status ontologico proprio di tutte quelle molteplici presenze sensibili, che non sono le
Idee, ma, in qualche modo, derivano da esse?
Come definire, in altri termini, salvandola dal nulla, la natura di tutto ciò che imita tali archetipi,
essendo “diverso” tanto rispetto all’essere delle Idee, quanto rispetto al nulla assoluto? Ecco
l’IMMAGINE. L’immagine è proprio questo.
Contestualmente, Platone intende altresì fornire una risposta alla domanda circa la questione della non-
verità. Non si manifesta, infatti, solo ciò che è vero. E, rispetto ad esso, non si dà solo il non-vero quale
nulla assoluto. Perché c’è anche il falso, che appare come tale, ossia appare come non-vero(in quanto
diverso dal vero), ma appare…Analogamente, la menzogna, l’illusione, l’inganno non ci pongono al
cospetto del nulla assoluto. Colui che mente dice qualcosa, che non è il vero, ma non è nemmeno nulla.
E così l’illusione è qualcosa che ha la sua apparenza. L’inganno, a sua volta, ci induce a percorrere una
via errata, che è percorribile, pur non conducendoci alla giusta meta, né alla verità. Qual è, allora, la
radice di tutto ciò - della falsità, dell’inganno, dell’illusione e dell’errore? L’IMMAGINE. La presenza
dell’immagine quale diversamente essente.
Questa è, pertanto, la definizione unitaria dell’immagine – nominata come eidolon, che,
etimologicamente, è una parola costruita sulla radice indoeuropea *id, indicante ciò che si offre alla
visione dei sensi – che Platone determina ed esplicita nel Sofista.
L’immagine è “un qualcosa che si presenta tal quale (aphomoiomenon) la cosa
vera(talephinon), pur essendo diverso da essa”(Sofista, 240 a, 7-8).
Attraverso questa definizione unitaria ed universale dell’immagine – la prima del genere nella vicenda
della filosofia occidentale – Platone ritiene di essere riuscito a risolvere sia il problema lasciato
dall’eredità ontologica parmenidea, sia il problema relativo alla presenza di ciò che non è veramente
essente o realmente vero(che il filosofo identifica con l’Idea).
In questo modo, l’immagine quale “diversamente essente” - ed intermedia, dunque, tra il vero essente e
il nulla assoluto - viene a porsi come copia, ovvero come fenomeno derivato, il quale imita e simula, a
livello di apparenza, ciò che originariamente è l’essente vero e reale(ontos on), il quale coincide con le
Idee sovrasensibili, eterne, immobili ed immutabili.
Leggiamo il passo del Sofista, nel quale Platone esplicitamente connette la sua nuova definizione
dell’immagine con il “parricidio”(simbolico naturalmente) da effettuarsi nei confronti di Parmenide:
Non credere che io divenga quasi un parricida.(…)Ma per difenderci sarà necessario che noi
sottoponiamo a indagine il discorso del nostro padre Parmenide e dovremo sostenere con forza, che
ciò che non è, in un certo senso, è esso pure e che ciò che è, a sua volta, in un certo senso non è.
(…)Altrimenti mai si potrà sfuggire al ridicolo, quando si parli intorno ai discorsi falsi e alle false
opinioni, siano esse idoli(eidola), icone(eikona), imitazioni(mimemata), apparenze(phantasmata),
oppure ancora intorno alle arti, tutte le arti, le quali hanno a che fare con quanto sopra
enunciato(Sofista, 241 d, 2 – e, 5).
Poter parlare in modo “non ridicolo”, cioè serio e rigoroso, tanto dei discorsi e delle opinioni falsi,
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quanto delle immagini, quanto ancora di tutte le arti, nella misura in cui hanno a che fare con
l’immagine, esige la confutazione degli esiti della rigida ed esclusiva posizione ontologica parmenidea
e quindi l’uccisione simbolica di uno dei primissimi padri nobili della filosofia.
In tale contesto, inoltre, Platone usa diversi nomi per indicare l’immagine: eidola(idoli), eikona(icone),
mimemata(imitazioni) e phantasmata(fantasmi).
La giustificazione di ciò non sta nel fatto che Platone voglia perpetuare l’arcaica ed anarchica pluralità
dei modi di dire l’immagine, bensì nel fatto che Platone si accinge a costruire e ad esporre una del tutto
nuova logica e psicologia delle immagini.
Il termine eidolon, in questa prospettiva, è il nome più universale, indicante il genere comune di tutte le
immagini, in quanto esse sono apparenza sensibile. Il termine mimema indica l’attributo essenziale,
che, secondo il modello platonico, compete ad ogni immagine, ossia l’essere imitazione della realtà
vera. I termini eikon e phantasma, a loro volta, indicano la partizione secondo la quale il genere
comune dell’immagine-eidolon può essere diaireticamente diviso, in due sottogeneri opposti, tra i quali
vige la legge dell’ aut … aut ….
Dunque, tutte le immagini, considerate quali apparenze, sono eidola; all’interno del genere degli eidola
è possibile logicamente distinguere le immagini quali eikona, icone, rispetto a quelle come
phantasmata.
Phantasmata, come suggerisce il nome, indica le apparenze che si presentano come fenomeno sensibile
nella e a partire dalla phantasia, che, per Platone, costituisce la zona più bassa(e, quindi, in qualche
modo anche più degradata) dell’anima, in quanto si trova direttamente in contatto con il corpo
senziente.
Il corpo percepente, attraverso i suoi sensi, incontra gli oggetti esterni e la phantasia è quella facoltà
dell’anima, che riceve e fissa, all’interno dell’anima stessa, un’immagine/traccia degli oggetti
sensibilmente percepiti, mettendo così in comunicazione il corpo con l’anima.
Se non vi fosse questa comunicazione, garantita dalla fantasia, gli uomini percepirebbero, ma non
saprebbero che cosa hanno percepito.
Non dobbiamo dimenticare, che, nel sistema platonico, gli oggetti incontrati dai sensi corporei non
sono altro che immagini e quindi imitazione(mimemata). Imitazioni di che cosa? Delle idee.
Non tutte le immagini, però, stanno sullo stesso identico piano. Platone costruisce una gerarchia
all’interno dell’universo delle immagini, secondo la quale le immagini della fantasia – i fantasmi -
sono immagini di immagini, immagini alla seconda potenza potremmo dire, in quanto immagini degli
oggetti sensibili, i quali, a loro volta, sono imitazioni delle idee.
Il carattere gerarchicamente basso e degradato dei phantasmata è ribadito anche dal fatto che essi
stanno sì nell’anima, ma provengono, nel contempo, dall’attività dei sensi corporei, risentendo di quella
contaminazione, che, per Platone, riguarda tutto ciò che ha a che fare con il corpo, ossia con ciò che,
nell’essere umano, è eidolon rispetto all’anima(psyché).
Vi sono, però, anche delle immagini più pure e meno contaminate dai sensi corporei. Esse sono le
icone. Dal punto di vista logico-diairetico, l’immagine quale eikon NON E’ l’immagine come
phantasma.
Le immagini quali icone(eikona) si differenziano dalle altre apparenze, in quanto esibiscono sì una
imitazione, la quale, però, riproduce “il suo modello(paradeigma, )rispettandone le interne proporzioni
in lunghezza, larghezza e profondità e, oltre a ciò, fornisce all’imitazione anche i colori che
convengono a ciascun particolare”(Sofista, 235, d, 7-10).
L’icona rende visibile, quindi, “ciò che è somigliante(eikós)” – non solo a livello di mera apparenza
esteriore, ma anche a livello di intima struttura essenziale - da cui appunto il nome eikon, la cui radice,
etimologicamente, è quella del verbo eikazo, che significa ‘assomiglio’, ‘eguaglio’.
L’imitazione(mimesis)propria di tutte le immagini-eidola viene, quindi, diaireticamente bipartita, da un
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lato, tra quella che rende visibili mere apparenze(phantasmata), le quali mostrano “ciò che appare
somigliante al bello, ma non lo è”(ivi, 236 b, 6-7), in modo tale che “per chi avrà avuto modo di
osservarle bene,(…)esse non appariranno nemmeno somiglianti a ciò cui pretendono di
assomigliare”(ivi, 4-6).
E, dall’altro, quella che imita, invece, nel modo più perfetto consentito ad un’immagine, dando luogo
all’icona. L’immagine non iconica, cioè fantasmatica, ostenta una somiglianza che, a ben vedere,
nemmeno assomiglia propriamente, perché si limita a riprodurre degli oggetti imitati alcuni sommari
tratti esteriori e superficiali, che la rendono, quindi, grossolanamente ingannevole.
Essa vorrebbe presentarsi come pienamente somigliante, ma, in realtà, non assomiglia veramente.
E quindi, anziché riportarci all’originale, all’archetipo, al modello e cioè all’idea, ci allontana da esso.
A differenza dell’immagine iconica, la quale, invece, nel suo restituire per imitazione la forma stessa
del modello ideale nel suo intimo schéma, ci riconduce ad esso, in virtù dell’imitazione.
2.
Se le immagini, nella misura in cui vengono percepite, si installano nell’anima, da dove hanno origine,
in generale, le immagini?
Il problema dell’origine non si pone per le realtà essenti, ovvero per le Idee, in quanto queste ultime,
essendo eterne, immobili ed immutabili, non hanno inizio né fine.
Ma le immagini, secondo Platone, sono effimere, mobili e mutevoli e quindi hanno una fine ed un
inizio.
Non possono, però, essere uscite dal nulla, perché, per il pensiero greco vale incontrovertibilmente il
principio – anch’esso di origine parmenidea - secondo il quale ex nihilo nihil fit: là dove non c’è nulla,
nulla potrà mai scaturire.
Ecco che, allora, per spiegare l’origine delle immagini, Platone ricorre – raccontando un mito – alla
figura del Demiurgo.
Dal momento che né è nulla, né è eterna, l’immagine non può che essere prodotta, non può che essere
l’effetto di una produzione(poiesis).
Da parte di chi?
Le immagini-oggetto, che non sono immediatamente naturali, sono prodotte dagli artigiani, le
immagini artistiche sono prodotte dagli artisti, i fantasmi degli oggetti sensibili sono prodotti dalla
fantasia dell’individuo umano in quanto dotato di anima e corpo.
Ma anche tutte queste figure di produttori, in quanto figure del mondo di quaggiù, sono anch’esse
immagine e quindi, in quanto tali, presuppongono un Modello: il demiurgo.
Chi è il demiurgo platonico?
E’ l’originario artefice dell’universo delle immagini. E’ colui che, secondo il mythos platonico
raccontato nel Timeo, produce originariamente il kosmos, in tutta la sua ricchezza e varietà di immagini,
contemplando le Idee eterne e modellando, secondo la loro impronta, la materia prima(CHORA).
Fornendo così il paradigma originale di ogni umana produzione, la quale ha come protagonisti quegli
artefici, a cui si devono la fabbricazione di tutti i manufatti umani. E’ colui che, secondo il mythos
platonico raccontato nel Timeo, produce originariamente il kosmos, in tutta la sua ricchezza e varietà di
immagini, contemplando le Idee eterne e modellando, secondo la loro impronta, la materia prima.
Fornendo così il paradigma originale di ogni umana produzione, la quale ha come protagonisti quegli
artefici, a cui si devono la fabbricazione di tutti i manufatti umani.
Anche tra questi artefici – che sono immagine del demiurgo – Platone pone una gerarchia simmetrica a
quella delle immagini, sulla base della quale gli artisti imitativi, a cominciare dai pittori e dagli scultori,
sono posti al grado più basso, in modo che ciò giustifica, nel X libro della Repubblica, il ben noto
bando degli artisti imitatori dalla Città ideale. Perché? Perché essi realizzano immagini di immagini,
che allontanano dalla vera realtà, anziché condurci verso di essa. Se, infatti, l’artigiano, nel suo
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produrre, per esempio, un tavolo, cerca di imitare direttamente l’idea di tavolo, il pittore - che
riproduce il tavolo realizzato dal falegname – rende visibile un’immagine dell’immagine, una copia
della copia e quindi il risultato della sua opera è analogo al phantasma. E’ come se i pittori – dice
Platone – giocassero con uno specchietto, girandolo da ogni dove, in maniera tale da riflettere in
immagine ciò che è già immagine. Il loro, pertanto, è un puro gioco e un divertimento altamente
diseducativi, perché non ha come scopo la vera conoscenza e la ricerca della verità, nè contribuisce al
Bene comune. Insomma, tutti gli artisti imitatori, giocando con lo specchio o sognando ad occhi aperti,
si limitano a catturare, a “rubare” fantasmi, ossia copie, riproduzioni puramente esteriori di altre
immagini apparenti. Inoltre, nel “rubare” questi fantasmi allo specchio, gli artisti impiegano una
téchne, il cui valore e spessore conoscitivo è molto meno rilevante di quello implicato da altre téchnai.
Da un certo punto di vista, infatti, secondo Platone, gli artigiani sono più vicini alla realtà delle Idee
che gli artisti. Da un altro punto di vista pratico, conosce più profondamente la cosa chi la sa usare al
meglio: il cavaliere rispetto alle briglie del cavallo; il flautista rispetto al flauto; l’arciere rispetto
all’arco. A differenza del sapiente utilizzatore, l’artigiano che realizza queste cose(le redini, il flauto,
l’arco, ecc.) non ne ha la massima conoscenza(epistéme), bensì solo una “retta opinione”, mentre
l’artista, nella migliore delle ipotesi, solo una semplice opinione(doxa) estremamente vaga, quando non
addirittura una vera e propria ignoranza(agnoia), dal momento che il pittore, se è abile tecnicamente,
può dipingere qualsiasi cosa, anche senza saperla minimamente usare, oltre che senza aver avuto come
modello direttamente l’idea di essa. E quindi si colloca agli ultimi posti nella gerarchia del percorso
degli uomini verso la verità(che sta nelle idee).
Uno spiraglio veritativo, tuttavia, si apre per gli artisti che, rinunciando ad essere imitatori di immagini,
si dedichino, invece, alla realizzazione di immagini perfettamente iconiche(eikona). Esse, infatti, come
si è detto, sono quelle immagini, che non si limitano a imitare e riprodurre l’aspetto esteriore di ciò che
imitano, ma imitano anche – e in modo conforme – la struttura interna del modello, la sua pura forma e
per questo, sono, tra le immagini, quelle più vicine alla realtà e alla verità. Proprio perché riescono a
restituire nell’immagine, la forma stessa dell’Idea, la quale forma non è coglibile attraverso i sensi,
bensì solo attraverso il puro intelletto.
Come fare, allora, per produrre immagini iconiche e non meri fantasmi? Innanzitutto non bisogna
giocare con lo specchio, né sognare ad occhi aperti, ossia non bisogna basarsi sull’osservazione
sensibile di oggetti apparenti – perché così si finirebbe per realizzare meri fantasmi. La via intrapresa
dalla grande arte classica sarà, proprio in questa direzione, quella di attenersi scrupolosamente a dei
canoni universali, consistenti in misure, rapporti, proporzioni espressi in forma matematico-
geometrica. In modo tale che, di conseguenza, il bravo artista non è quello più “personale”, più
originale o più “creativo”(come diremmo noi), ma, al contrario, quello che aderisce all’universalità
dei canoni nel modo più fedele e impersonale. Lo sforzo dell’artista non si misura, quindi, nella sua
capacità di esprimere liberamente le sue capacità meramente imitative, bensì nella sua capacità di
assoggettare la materia – di per sé refrattaria, ostile e recalcitrante – sino a far sì che essa venga ad
assumere quella forma che l’artista ha ricavato dall’Idea attraverso i canoni. Solo in questo modo,
l’artista stesso riesce ad operare come pura icona dell’originario demiurgo e non come il suo
fantasma…

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II. L’IMMAGINE PRIMA DI PLATONE
1.
Solo con la nascita della filosofia e a partire da Platone, si può parlare dell’immagine sapendo di che
cosa si sta parlando. L’epocale definizione platonica segna un punto di non ritorno per la cultura
occidentale. Ma qual è l’esperienza delle immagini prima di Platone? E’ lecita la domanda? Può avere
una risposta? Il fatto è che, prima della decisione/definizione platonica, non c’è nessuna immagine,
perché non ne è stato ancora delimitato il significato universale. Circolano sì molteplici parole, le quali
- per noi, a posteriori e quindi a partire dalla definizione platonica stessa - sembrerebbero riferirsi
all’immagine. Ma ognuna di queste parole ha il significato che ha, all’interno dei contesti di esperienze
vissute suoi propri(appartenenti ad un’epoca, che è orale, pre-alfabetica e pre-filosofica). Non
dovremmo nemmeno considerare ciò che è indicato da tali molteplici nomi come dei significati
particolari dell’esser immagine, perché prima dell’apertura dell’orizzonte dell’universale – che
presuppone l’avvento della civiltà della scrittura e si deve alla filosofia – non c’è nemmeno alcun
“particolare”, dal momento che il particolare si definisce come tale solo in relazione all’universale e
perciò presuppone di necessità l’universale stesso. Ne dovremmo concludere, a rigore, che, prima della
scrittura alfabetica, della nascita della filosofia e di Platone, c’è tutto quello che si dice ci sia, ma, in
ogni caso, non c’è alcuna immagine…Come non c’è alcuna datità…
Nonostante questo, i filologi, gli studiosi di mitologia e gli storici delle culture arcaiche hanno cercato
di indagare ugualmente sulle esperienze pre-filosofiche dell’immagine, nel tentativo di ipotizzare delle
risposte verosimili, le quali, tuttavia, non possono evidentemente prescindere dalle posteriori(rispetto al
campo di indagine) definizioni e concezioni. Si tratta di un problema insormontabile – di carattere
ermeneutico - che riguarda anche il rapporto tra la filosofia classica e la sapienza cosiddetta pre-
socratica, nonché, se vogliamo, anche il rapporto tra il pensiero occidentale e quello orientale. Nel
primo caso, la parola degli antichi sapienti è giunta frammentariamente sino a noi, in quanto
testimoniata e tramandata dai primi filosofi classici e dai posteriori commentatori, il cui filtro
interpretativo è condizionato dalle filosofie classiche stesse, con il risultato che le più antiche
espressioni di pensiero ci sono state restituite in quanto reinterpretate alla luce di significati elaborati
successivamente. Nel secondo caso, da un lato il nostro generale approccio ad un modo di pensare altro
quale quello orientale, quand’anche ne conoscessimo bene la lingua originaria di espressione, è
condizionato dalle categorie di pensiero, secondo le quali si è configurata la nostra occidentale mente
interpretante, mentre, dall’altro, ogni traduzione linguistica, quand’anche filologicamente attenta e
scrupolosa, non può che operare attraverso il confronto tra un certo sistema di significati posto come
riferimento implicito e originario ed un altro sistema di significati.
2.
Possiamo prendere ugualmente in considerazione – sulla base di quanto premesso e con le dovute
cautele – alcuni dei risultati di quest’opera di indagine sulle concezioni arcaiche dell’immagine. Alcuni
dei termini utilizzati da Platone sono già ampiamente usati in precedenza, come emerge dalla letteratura
dell’epoca, a cominciare dalla parola psyché – sulla quale ci siamo già soffermati – e dalla parola
eidolon, che, in Omero, viene spesso associata alla prima.
Come scrive l’insigne mitologo K.Kerenyi: “Eidolon è, in greco, un’immagine che consiste unicamente
in una superficie senza profondità; applicato a un uomo, si tratta dell’immagine della sua ombra, ma
non l’ombra che l’uomo proietta nel mondo dei viventi, la skia, bensì l’ombra che l’uomo è(…) quando
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la sua sostanza, la profondità e la pienezza del corpo vivente, sono perdute. Secondo Omero(…), i
morti sono diventati eidola(…)”3. Da ciò J.P.Vernant – lo storico del pensiero antico a cui si devono gli
studi tra i più importanti sul tema - ricava che l’eidolon: “E’ sì apparenza, ma l’apparenza di chi non è
lì; la sua presenza è la presenza di un assente. L’assenza insita nell’eidolon non è, però, tutta negativa;
non è l’assenza di ciò che non esiste, dell’assoluto nulla, bensì quella di un ente che non è di quaggiù”4.
E’ evidente il debito di una tale interpretazione nei confronti del modello platonico, per quanto,
secondo la prospettiva illustrata dagli studi di J.P.Vernant e della sua scuola, l’eidolon si sottragga alla
determinazione propriamente logica. Vernant non sfugge all’imperativo – tipico della nostra mentalità
occidentale nata dalla filosofia – di cercare di accomunare le varie significazioni legate ai molteplici
termini aventi a che fare con l’immagine, sotto un unico significato principale o dominante, che
Vernant individua nella nozione di Doppio. L’eidolon, pertanto, è un modo di esprimere la duplicità
propria dell’immagine arcaica, per quanto essa non abbia alcun carattere logicamente negativo-
sostitutivo. Il non, per la mentalità logico-definitoria nata dal procedimento della diairesis platonica,
assume sempre un carattere alternativo e sostitutivo: se è greco, non è barbaro; se è giorno, non è notte,
ecc. In quanto immagine del defunto, invece, l’eidolon arcaico non nega alcunché, né sostituisce altro,
dal momento che l’esistere e il dimorare del defunto nell’oltretomba è reale tanto quanto l’esistere qui e
ora dei viventi, che possono imbattersi nel suo eidolon. L’immagine, in questo caso, in quanto doppio,
ha la sua realtà piena e incontrovertibile, la quale non è incompatibile con la realtà di cui è “doppio”.
Insomma, tra l’immagine/doppio e la corrispondente realtà non vi è alcun aut … aut …, ma semmai un
et … et… L’eidolon, inoltre e per questo, non simula alcunché, dal momento che non è ancora
“qualcosa che si presenta tal quale la cosa vera, pur essendo diverso da essa”(Platone). Esso possiede
la sua realtà parallela, talvolta anche sensibile, che le consente addirittura di agire e di parlare. Se, per
Platone, le immagini sono assimilate ai “morti” segni della scrittura, nella misura in cui: “qualora
domandi loro qualcosa, essi se ne restano muti, chiuse in un imperturbabile silenzio”(Fedro, 205 d),
l’eidolon arcaico, invece, può avere voce, con la quale parla, manifestando qui gli spiriti del defunto
che abita nell’al di là. Nulla a che vedere con il senso di simulazione, di inganno e di falsificazione, che
Platone, per primo, indicherà tra i caratteri essenziali dell’immagine.
Vernant sottolinea, inoltre, che, nel mondo greco, gli eidola non indicano affatto, restrittivamente, le
immagini degli dei e nemmeno le immagini cultuali della religione. Sarà il pensiero cristiano ad
attribuire il termine eidolon alle immagini degli dei degli Elleni, alla luce della sua condanna
dell’”idolatria” dei pagani denunciata a partire dalla risignificazione del termine eidolon operata da
Platone.
Il termine eikon, a sua volta – che, in Platone indica l’immagine in quanto profondamente somigliante
alla realtà imitata in quanto riproducente la sua intima forma – veniva usato comunemente dai greci per
indicare i ritratti di uomini. Non le statue degli dei e quindi sempre al di fuori del contesto cultuale e
religioso. Tanto che, come precisa Kerenyi, l’uso corrente da parte degli archeologi e degli storici
dell’arte antica delle espressioni ‘statue aniconiche’ e ‘statue iconiche’ “dal punto di vista della lingua
greca non ha senso”5.
Linguisticamente eidolon è un termine molto antico, mentre eikon “non viene usato prima del V secolo
a. C.” e quindi si affaccia sulla scena del linguaggio agli inizi della civiltà della scrittura e all’epoca
della svolta filosofico-socratica. Perciò la contrapposizione, letteralmente anacronistica, eidolon/eikon -
la quale sarà all’origine, nell’Impero romano d’oriente, della cosiddetta “lotta iconoclastica”, tra
sostenitori ed avversari del culto delle immagini sacre - è sicuramente posteriore e non è nemmeno

3 K.Kerényi, “Agalma, Eikon, Eidolon”, in Scritti italiani(1955-1971), Guida, Napoli 1993, p.92
4 Ivi, p.194
5 K.Kerenyi, Op.cit., p.94
J.P.Vernant, “Raffigurazione e immagine”, inTra mito e politica, tr. it. Cortina, Milano 1998, p. 191
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pienamente di origine platonica, dal momento che Platone oppone diaireticamente l’eikon al
phantasma, all’interno del sovragenere dell’eidolon.
Se, come sostiene K.Kerenyi, l’eidolon, nell’età arcaica, indica l’ombra dell’uomo, quando la sostanza
e la pienezza del corpo vivente sono ormai irrimediabilmente perdute, è opportuno riflettere su che
cosa questo implichi alla luce della decisiva svolta platonica. In seguito a quest’ultima, infatti,
l’immagine – come, peraltro, comunemente si ritiene – appare quando l’essente reale non c’è, così
come c’è il morto, quando il vivente non c’è più, in maniera tale che o c’è il vivente e non c’è il morto
o c’è il morto e non c’è più il vivente. Con la svolta platonica, dunque, il “venir dopo” di cui parla
Kerenyi, viene interpretato nel modo logico, ovvero secondo una modalità sostitutiva fondata sull’aut
… aut. Una modalità logico-negativa, alla quale sembrerebbero estranee le concezioni arcaiche
dell’immagine. Come testimonia il già citato episodio omerico del canto XXIII dell’Iliade, l’epifania
della psyché allude all’evento di un ritornare che può sempre rinnovarsi, al di là di ogni nostra volontà
o attesa, pur essendo il ritornare del non ritornante, ovvero di colui che non può ritornare, perché abita
definitivamente altrove. In quanto tale, questa apparizione non è mai destinata a stare, ma semmai può
capitare che essa attraversi l’orizzonte dell’apparire attuale nel suo dileguare, in quanto presenza
necessariamente dileguante. E proprio questa sembra essere, alla luce dell’esperienza arcaica, una delle
principali differenze tra gli eidola e le cose reali. Queste ultime tendono a permanere nell’apparire,
mentre quella dell’immagine è una presenza dileguante. 6Insomma, le cose stanno, mentre le immagini
fluiscono, laddove questo fluire è scandito da certi ritmi.
A questo proposito, nella sua disquisizione a proposito dell’origine della parola rythmos, il linguista e
semiologo E.Benveniste, dopo aver confutato l’interpretazione triviale che, sulla base del rapporto
etimologico tra il sostantivo rythmos e il verbo réo(che significa sì scorrere, ma mai in relazione
all’acqua del mare), riconduce il termine al movimento delle onde, richiama, invece, l’attenzione sul
suffisso –mós. Applicato ai termini astratti, quest’ultimo, nella lingua greca, indica, di norma, la
realizzazione di ciò che è espresso dalla radice della parola secondo una peculiare modalità visibile,
come, per esempio, nei casi di orchethmós, che indica il danzare visto in un suo particolare realizzarsi,
o stathmós, che indica un certo peculiare modo di stare. Analogamente rythmos, secondo l’ipotesi di
Benveniste, indica un particolare modo di apparire del movimento del fluire all’opera, il quale
differisce da ogni altro. Per che cosa? Per le peculiari figurazioni(schémata), che esso viene
momentaneamente ad assumere. Se, dunque, come sostenevano gli atomisti Leucippo e Democrito e
come conferma Aristotele(Met., II, 985 b, 4), rythmos e schéma costituiscono un binomio indissolubile.
Tale intimo legame fa sì che la parola schéma non indichi affatto la forma nella sua inerte staticità, ma
designi “la forma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove”, ovvero “la forma improvvisata,
momentanea, modificabile”7. Lo schéma, indisgiungibile da ogni rythmos, pertanto, “è la forma
improvvisata, momentanea, modificabile”8, il cui apparire coincide con il dileguare. E’ questa la forma
originaria dell’immagine?
2.
Secondo Vernant, alla categoria arcaica dell’immagine come “doppio, appartiene anche il kolossós, il
quale è una sorta di antenato della statua di un defunto. In origine era un semplice palo di legno, che,
col tempo, verrà sbozzato e intagliato, legato sia al culto dei morti, sia alle sacre leggi dell’ospitalità.
Ciò che è rilevante in esso, in ogni caso, non è l’imitazione o la riproduzione delle fattezze della
persona che era viva, perché il kolossós non nasce affatto come immagine rappresentativa. Esso,

6 Questa caratteristica sarà ripresa da Platone – che considera l’immagine ciò che, come è venuto, così anche se ne va,
affine in ciò all’opinione(doxa), ma radicalmente diversa rispetto all’Idea, che, invece, eternamente sta – in quanto
funzionale al suo sistema di pensiero.
7 É.Benveniste, Problemi di linguistica generale, vol.I, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1971, p.396
8 Ivi
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quindi, non rappresenta affatto, bensì è il Doppio qui presente nel regno dei Vivi di qualcuno che ora
abita il regno dei Morti. Se il cadavere del defunto non era disponibile, per esempio quando il defunto
era morto sul campo di battaglia o in condizioni di prigionia, allora nella tomba veniva sepolto il
kolossós, assieme ad alcuni oggetti che erano appartenuti al defunto stesso. Negli altri casi, il kolossós
veniva piantato nel terreno, in posizione eretta. Quando? In particolare quando si intendeva onorare nei
dovuti modi le sacre e inviolabili leggi dell’ospitalità. Per esempio, quando un pellegrino straniero
arrivava in un certo luogo e chiedeva ospitalità a qualcuno, spesso, per rassicurare il suo ospite, diceva
il nome di un suo protettore che lo aveva mandato. Se questo protettore era morto, il padrone di casa
ospitante, innanzitutto, lo invocava ad alta voce per tre giorni consecutivi, se ne conosceva il nome.
Altrimenti, se, invece, l’identità del mandante era ignota, l’ospitante lo invocava con la formula:
“Umano, uomo o donna che tu sia…”. Dopodiché costruiva due kolossoi, uno maschile e uno
femminile, che inizialmente collocava presso la propria mensa, nutrendoli di cibo, per sdebitarsi nei
confronti di colui/colei, che gli aveva inviato e raccomandato l’ospite. Infine, compiuto questo rito, i
kolossoi venivano portati fuori della casa, assieme ai resti del cibo, e piantati al suolo in un bosco mai
tagliato e quindi sacro. Così è stato spiegato il senso di tali antichi riti: il ripetuto richiamo – per nome
o senza nome - rievoca la persona del defunto attraverso il suo Doppio(il kolossós), al quale vanno
tributati tutti gli onori che si devono al defunto stesso, invitandolo all’interno della casa e nutrendolo, in
ottemperanza ai sacri doveri dell’ospitalità, come se esso fosse lì presente. Espletati tali doveri, però, è
necessario che il defunto – in sembianza del suo Doppio - ritorni nel suo luogo proprio e se ne stia lì,
ovvero nel regno dei Morti, altrimenti la sua presenza impropria nel luogo dei vivi potrebbe assumere
un carattere contaminante e perturbante, venendo a portare la presenza della morte nel luogo dei
viventi. Anche tale scopo apotropaico si realizza attraverso il Doppio, ovvero il kolossós, che, alla fine,
viene piantato nello spazio sacro e “separato” del bosco incolto. Siamo sempre all’interno della
concezione del Doppio interpretato da Vernant come concreto effetto raddoppiato o raddoppiante di
realtà, al di qua della risignificazione logica della copia/duplicazione platonica(dove la realtà compete
solo all’originale, che l’immagine imita e simula inadeguatamente).
3.
Un altro termine arcaico avente a che fare con l’immagine e con la statua è xoanòn(al plurale xoana), in
origine un semplice pezzo di legno, che si riteneva fosse letteralmente piovuto dal cielo, in quanto dono
di qualche divinità, al fine di far sentire, tra gli uomini, la presenza attiva del dio. Tale divina immagine
– e qui sta la sua peculiarità - non era, però, destinata alla semplice visione. Anzi, la sua visione, di
norma, era interdetta, proibita, giacché avrebbe provocato la morte o, nella migliore delle ipotesi, la
cecità. Esso era, invece, destinato ad essere mosso, agìto, da parte di sacerdoti autorizzati, nel corso di
particolari riti religiosi riservati ad un pubblico di iniziati. Da ciò possiamo ricavare che, se lo xoanon
ha a che fare con l’immagine, quest’ultima, nel suo carattere sacro, non era affatto in primo luogo ciò
che è destinato ad essere visto, bensì era qualcosa che era destinato ad essere messo all’opera, in un
contesto, che oggi potremmo definire performativo. Ancora una volta l’immagine non sta, ma, inoltre,
in questo caso, non è nemmeno qualcosa che si offre per essere visto.
Una tale caratteristica è riscontrabile anche riguardo a ciò che è indicato da un altro dei presunti nomi
arcaici dell’immagine: il prosopon, cioè la maschera, il cui modello originario è la mitica gorgonide
Medusa, la quale ci guarda e non può fare altro che guardarci implacabilmente con i suoi grandi occhi
sempre spalancati, ma non può essere guardata direttamente, perché ciò pietrifica o lascia senza respiro.
Secondo Esiodo, le Gorgonidi sono figlie di Forco, uno dei “vecchi del mare” e sono tre: 1)Steno(la
“forte”), 2)Еuriale(“del vasto mare”), 3)Medusa(la “sovrana del mare”).
Medusa era l’unica mortale, mentre le altre due erano immortali e non invecchiavano.
Quali figure mitologiche, le Gorgonidi avevano il corpo dotato di ali d’oro, mani di bronzo, zampe
simili a quelle dei cinghiali e serpenti attorcigliati in vita a mo’ di cintura. Anche i capelli erano
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serpentiformi e il viso mostruoso e dilatato mescolava tratti animaleschi con tratti antropomorfi. La
forma della testa richiamava l’aspetto leonino, anche se poteva presentare delle corna; gli occhi,
anch’essi molto grandi, erano fissamente spalancati e le orecchie assomigliano a quelle di una vacca.
La bocca tagliava l’intera lunghezza del volto ed era semiaperta in un ghigno, che lasciava scoprire
delle zanne animalesche e la lingua sporgente al di fuori. Il mento era peloso o barbuto e la pelle
rugosa come quella di una vecchia. In primo piano compare sempre la testa e in particolare l’orribile
volto. Chiunque l’avesse guardato direttamente sarebbe rimasto senza respiro, oppure pietrificato sul
posto. Anche questa immagine/maschera, pertanto, non deve e non può essere vista. Semmai – per
evitare di essere pietrificati e quindi ridotti a immagine di chi abita nel regno dei morti - la si poteva
solo guardare indirettamente, cioè mediatamente, attraverso uno specchio o comunque una superficie
riflettente. Questo spiega anche perché la Gorgonide compaia sempre senza corpo, come puro volto. I
miti raccontano che ciò è legato ad una delle imprese dell’eroe Perseo. Egli voleva affrontare e
sconfiggere la Medusa, ma non sapeva come farlo, senza poterla guardare. Come avrebbe fatto a
colpirla con la sua lancia? L’eroe, allora, chiede consiglio alla dea Atena, la quale suggerisce a Perseo
come fare. Egli dovrà affrontarla munito di uno scudo dalla superficie nitidamente specchiante,
cercando di usare questo scudo per guardare la Medusa solo di riflesso e mai direttamente. E così fa
Perseo, il quale affronta Medusa guardandola sempre attraverso lo specchio e avanzando implacabile
verso di lei senza paura. Poi, anziché usare la lancia o la spada per colpirla, giunto il più vicino
possibile ad essa, si serve di una falce, forse avuta da Atena stessa, con la quale ne recide di netto la
testa. Era, infatti, quest’ultima ciò che era terribilmente pericoloso, a causa soprattutto dei tremendi
occhi pietrificanti. Dalla ferita sul collo sprizzerà fuori Pegaso, il cavallo alato. Da quel momento in
poi, la testa della Gorgonide diventa qualcosa a se stante: ciò che sarà, appunto, la maschera. Essa
compare sui vasi, sul frontone dei templi, sugli scudi, su certi utensili domestici, sui forni dei fabbri e
incisa sulle monete, a partire dal VII secolo a.C.. In tutte queste raffigurazioni e incisioni, anche in
aperto contrasto con i canoni e le convenzioni figurative del periodo, la maschera della Medusa
compare sempre frontalmente, di faccia, in modo che sembra stia sempre guardando lo spettatore. Nel
cosiddetto Vaso François del VI secolo a.C., compare il corteo delle principali divinità dell’epoca: tutte
sono presentate di profilo, ad eccezione della Gorgone, di Dioniso e della Musa Calliope, la quale
suona il flauto e, per i greci, come raccontano altri miti, chi suonava il flauto assumeva l’aspetto stesso
della Gorgone… Perché la maschera della Gorgone compare sempre e solo di faccia e mai di profilo?
Perché la Gorgone, se è immagine, non è l’immagine visibile, ma è l’immagine che guarda, con i suoi
terribili occhi sempre spalancati. E’ l’immagine che ci guarda e non ci perde mai di vista. Mentre noi
possiamo vederla solo indirettamente, attraverso il medium di uno specchio. Questo particolare è
interessante, perché sembra suggerire il fatto che l’immagine – nella sua natura originariamente non
visibile e non sensibile, oltre che deinon, ossia tremendamente pericolosa – può rendersi apparente e
fruibile, senza esiziali conseguenze, solo in virtù di un medium(nel caso del mito di Perseo
rappresentato dallo specchio). Il che riporta l’attenzione sul fatto che l’apparire dell’immagine è, sin
dalle origini, un fenomeno squisitamente mediale, nel senso che a prescindere dal medium, che ne
rende possibile l’apparire, l’immagine arcaica agisce sì, opera sì, esercita sì la sua irresistibile
influenza, ma resta interdetta alla visione.
4.
Un altro dei termini più antichi dell’immagine, il quale sembra avvicinarsi a quella che sarà l’immagine
artistica, è agalma, la cui etimologia significa ‘presenza festiva’, ‘gioia di un dio’ e che K.Kerenyi
sostiene avesse il valore di un evento: un evento divinamente all’opera. Stiamo parlando, infatti, di
un’immagine, che appare come tale solo nel suo evento. Mai come immagine/oggetto, che si offre,
nella sua inerzia e passività, all’osservazione o alla contemplazione visiva. Come sostengono gli
studiosi, tra il vastissimo spettro di nomi a disposizione, il termine arcaico preciso e più appropriato per
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indicare le immagini in quanto sacre è proprio agalma. E la parola agalma sottolinea il carattere
festivo, come è testimoniato dalla stessa etimologia della parola: i verbi greci agallo e agallomai
significano, infatti, in primo luogo ‘celebro, esulto, festeggio’, il che rende l’agalma la manifestazione
di una festosa exultatio. In quanto tale, sostiene Kerényi, questa parola “non sta ad indicare, presso i
Greci, una cosa solida e determinata, ma (…)è la fonte perpetua di un evento, al quale si suppone che la
divinità prenda parte non meno dell’uomo. L’agalma ha sì una superficie ed è sempre una bella
superficie, ma da ciò deriva sempre anche un’altra dimensione, la dimensione dell’evento”9.
Come lo xoanon, anche l’agalma ha, dunque, a che fare con la prodigiosa azione di un dio, ma in modo
tale che il divino non abbia affatto il ruolo di modello, di archetipo originale, né di realtà vera, di cui
l’immagine sarebbe solo una copia negativa. Perché? Perché quando e fintantoché l’immagine/agalma
è all’opera, la forza divina che essa esprime e fa irrompere nel mondo è tutta lì attivamente operante.
Non si tratta affatto di un surrogato della forza del dio. Per questo il mettersi all’opera di questa
immagine ha un potere sia attivo che attrattivo di gran lunga superiore e infinitamente più potente
rispetto a qualsiasi forma di realtà oggettiva. E, al suo cospetto, anche chi si relaziona con essa è
sollecitato ad assumere un comportamento dinamicamente attivo.
5.
Volendo riepilogare in modo schematico i principali esiti delle ricerche storiografiche nel campo delle
immagini arcaiche, cercando di mettere in luce gli elementi di discontinuità, che esse palesano in
riferimento alla definizione epocale platonica, viene ad emergere un quadro del genere.
1 L’immagine è una potenza – non una mera presenza – autonoma, di origine sovrumana e tale da
non rappresentare, né imitare, né simulare alcun modello originale.
2 Non è ciò che è destinato ad essere visto. Anzi, guardare l’immagine può essere esiziale.
3 E’ l’immagine, piuttosto, che guarda e ci ri-guarda
4 L’immagine non ha nulla di oggettivabile, perché si realizza in una azione coinvolgente, ossia
tale da suscitare, come risposta, altre azioni.
5 La sua presenza sta dalla parte dell’evento e non dell’oggetto, né del significato.
6 Quando l’immagine si rende sensibile e visibile, ciò è dovuto ad un medium, che, in quanto tale,
nella misura in cui esercita la sua azione mediale, non è un semplice oggetto, né una cosa tra le
cose, ma viene ad assumere – momentaneamente - un’altra natura, quella di fungere da
supporto tale da intercettare, catturare e lasciare apparire sensibilmente un’immagine, la quale,
grazie a ciò, esce dal suo nascondimento.

9 Ivi, p.95
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III. LA CONCEZIONE DELL’IMMAGINE NELLA FILOSOFIA DI ARISTOTELE
1.
Aristotele è il filosofo classico che, dopo essersi formato con Platone a partire dall’età di 17 anni ed
essersi poi dedicato da discepolo all’insegnamento della filosofia platonica per un ventennio, giunto
alla soglia dei 50 anni di età, elabora un proprio sistema di pensiero e fonda ad Atene una propria
scuola, il Liceo.
Nel costruire il suo originale sistema di pensiero, Aristotele muove dal tentativo di risolvere quelli che
si erano evidenziati essere gli aspetti più critici e tendenzialmente aporetici della filosofia platonica, in
particolare: il cosiddetto “dualismo platonico”(ossia la separazione e l’opposizione tra idee e cose
sensibili e tra anima e corpo), la trascendenza delle idee e quindi anche l’opposizione tra idee e
immagini). Quella di Aristotele intende essere una filosofia dell’immanenza(termine che, nel
linguaggio filosofico, significa il contrario di trascendenza), che conduce al massimo compimento uno
degli scopi originari già propri del programma platonico – rispetto al vicolo chiuso in cui la filosofia di
Parmenide aveva portato il pensiero – quello di sozein ta phainomena, ossia di “salvare i fenomeni
sensibili”. Essi erano stati posti da Parmenide come del tutto equivalenti al nulla. Platone li riabilita, ma
solo fino ad un certo punto, dal momento che li salva sì dal nulla, ma in quanto immagini, le quali NON
SONO la realtà vera, che si identifica con le IDEE, ma sono solo imitazioni e copie sensibili delle Idee
stesse. Con la conseguenza che, per Platone, l’esperienza sensibile ed empirica non ci dà mai la vera
realtà delle cose, ma solo il contatto con dei surrogati imitativi(effimeri, instabili e mutevoli) della
realtà vera(eterna, immobile e immutabile) – le immagini appunto in quanto “diverse” dalle idee, di
modo che, per proiettarci verso la vera realtà, è necessario oltrepassare l’esperienza sensibile, superare i
limiti del corpo e risvegliare, nelle nostre anime, una superiore esperienza sovrasensibile, l’unica
capace di offrirci autentica esperienza.
Per Aristotele, invece, ciò di cui facciano quotidianamente diretta esperienza nel mondo che ci
circonda, non è affatto un’imitazione, una copia, il derivato o il surrogato – ingannevole ed illusorio
nella misura in cui si confonde con la vera realtà - di un ALTRO MONDO, ovvero del
SOVRAMONDO vero e reale. Per il semplice fatto che, per Aristotele, non ci sono affatto due mondi
totalmente diversi, quello sensibile e quello sovrasensibile, ma un unico universo. Con la conseguenza
che il nostro ordinario e quotidiano esperire ci mette in contatto con la realtà vera, non con un suo
surrogato, né con una sua inaffidabile imitazione(come per Platone). La realtà vera, infatti, secondo
Aristotele, è data non da idee sovrasensibili e trascendenti, ma da SOSTANZE. E le sostanze che
occupano l’orizzonte della dimensione sub-lunare(ossia l’atmosfera terrestre delimitata dal cielo della
luna, che è il primo dei 9 pianeti, le cui orbite circolari, dal raggio via via progressivamente più ampio,
definiscono la struttura concentrica dell’universo), che è quella in cui abitano gli uomini quali “esseri
viventi dotati di logos”, sono definite da Aristotele “synolon di materia e forma”, ovvero “tutt’uno di
materia e forma”, cioè materia formata(tale per cui, in ogni sostanza sensibile, non sia possibile in
alcun modo separare l’elemento formale da quello materiale, che appunto costituiscono un tutt’uno).
Ogni sostanza è un ente autonomo, autosufficiente e determinato, laddove, per Aristotele, il principio
determinante, nella sostanza, è la sua forma, che esprime, perciò, l’essenza e il significato della
sostanza stessa. La forma, in quanto significato ed essenza, richiama l’idea platonica, ma con la
fondamentale differenza che, mentre l’idea platonica è realtà autonoma e trascendente(ossia al di là di
tutto ciò che è sensibile e separata da ciò che è sensibile), in Aristotele, invece, la forma non è una
realtà piena e autonoma, ma solo un principio ed è immanente(cioè costitutivamente interna ed
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intrinseca) in ogni sostanza e, indissolubile – nelle sostanza sensibili e corruttibili – rispetto alla loro
materialità.
La sostanza, per Aristotele, è ciò che si rende esperibile in quanto cosa determinata in virtù della forma
e dunque è l’atto e il risultato finale di un essersi determinato. Ogni determinarsi, in quanto tale,
presuppone l’indeterminato – ogni determinarsi infatti non è che il circoscriversi, il definirsi,
finitizzarsi, l’assumere cioè un orizzonte(che lo rende visibile ed esperibile) da parte di ciò che
originariamente è ancora indeterminato. Pertanto, per Aristotele, è possibile un determinarsi solo a
partire dall’indeterminato, con la conseguenza che senza l’indeterminato non vi sarebbe alcun
determinato e quindi nessuna sostanza, ma le sostanze determinate esistono, perché ciò è testimoniato
dall’esperienza e quindi è necessario presupporre anche l’esserci dell’indeterminato, il quale si dà -
nella sua infinita indeterminatezza – ma non si vede, né è esperibile in quanto tale, perché è esperibile
solo ciò che si rende visibile in quanto circoscritto entro certi limiti, entro i suoi determinati limiti.
L’indeterminato è chiamato da Aristotele materia(yle) in riferimento alla SOSTANZA e
potenza(dynamis) in riferimento all’ATTO(il quale indica la sostanza stessa in quanto realtà
pienamente realizzata ed evidente).La sostanza è il risultato attuato di un certo determinarsi della
materia prima(infinita, indeterminata e invisibile)secondo una certa forma, ma la materialità, in ciò,
non è stata cancellata, obliterata; semplicemente non appare, perché non può apparire in quanto
tale(appare solo ciò che è determinato e quindi formato): ecco perché Aristotele definisce le sostanze
sensibili “synolon di materia e forma”.
Va specificato, a questo punto, che la SOSTANZA, per Aristotele, indica la cosa determinata,
autonoma, autosufficiente ed autofondata intesa nella sua universalità. Aristotele non intende affatto
smentire che la filosofia nasce e continua ad essere cura ed attenzione in primo luogo per ciò che è
universale e necessario, non per ciò che è accidentalmente e contingentemente particolare e singolare.
Perché, in ogni caso, il particolare presuppone l’universale, per essere tale, così come il tutto precede
sempre la parte(ci deve essere la torta intera, nell’universalità delle sue parti, affinchè si diano le sue
fette). Dunque ciò che è particolare e accidentale nella sua particolarità presuppone sempre una certa
sostanza, nel senso che inerisce, ovvero si riferisce sempre ad una certa sostanza, la quale abbraccia e
tiene saldamente assieme tutti i suoi accidenti particolari e lo fa letteralmente da sotto, venendo prima
e stando sotto la molteplicità delle particolari apparizioni della sostanza stessa. Sotto questo punto di
vista, Aristotele, infatti, definisce la sostanza col termine ypokeimenon, che è un verbo al participio
presente, che alla lettera significa “sottostante”, nel senso che ciò che emerge in primo piano sono
sempre gli accidenti di una certa sostanza, non la sostanza in quanto tale nella sua universalità, che
abbraccia, raccoglie, unifica e tiene assieme tutti i suoi possibili accidenti senza apparire in primo
piano, bensì appunto stando sotto quale ypokeimenon. Insomma, potremmo dire che il termine
ypokeimenon designa la sostanza in quanto identità universale. Dice Aristotele esemplificando: ciò che
si rende visibile in primo piano è l’essere, da parte di Socrate, ora non ancora filosofo, ora filosofo, ora
celibe, ora sposato, senza barba, con la barba, ecc. ma l’identità sostanziale di Socrate, nella sua
universalità, non appare mai in primo piano in quanto tale, ma resta sempre sotto tutti i suoi evidenti
accidenti, invisibile, ma sempre attiva e operante e influente, tant’ è vero che, nonostante gli accidenti
di una sostanza appaiano, scompaiano, mutino continuamente, io riconosco sempre a quale sostanza
essi appartengono.
[NOTA – Con ciò Aristotele non viene a dire che la sostanza, cioè la vera realtà, non appare
sensibilmente, smentendo così il suo superamento della posizione platonica, ma sostiene che della
sostanza non appare mai la sua essenziale universalità – che si dà, però, e fa da sfondo sotto - ma
appaiono sensibilmente solo i particolari aspetti(gli accidenti), che la caratterizzano, i quali non sono
altro dalla sostanza, non sono diversi dalla sostanza – ciò che è diverso dalla sostanza può essere solo
un’altra sostanza – ma sono tutto ciò che appare sensibilmente di ogni sostanza in quanto appartenente
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alla sostanza stessa e inseparabile da essa. Insomma, l’essere con la barba di Socrate non è lo stesso
essere con la barba di Platone; gli accidenti non sono più niente se separati dalla sostanza cui
appartengono, perché non sono autosufficienti, non sono capaci di esistere autonomamente, in quanto
solo le sostanze sono autonome e indipendenti nella loro realtà originaria.
Dunque, l’essere invisibile, ma intelligibile sì – ossia intuibile dall’intelletto - in quanto ypokeimenon
da parte della sostanza non implica che essa sia trascendente come le idee platoniche, perché se fosse
tale – quindi separata dai suoi accidenti particolari – questi ultimi non sarebbero più accidenti della
sostanza(di quella certa sostanza e non di altre), ma sarebbero enti autonomi, autosufficienti ed
autofondati, vale a dire ognuno di essi sarebbe una sostanza. Del resto se io parlo non della barba di
Socrate e/o della barba di Platone, bensì parlo della barba in quanto tale sto parlando di una sostanza e
non di un accidente!
In definitiva, se io separassi l’identità di ciò che è identico, da ciò che è identico, quest’ultimo, privato
della sua identità, non sarebbe più identico!]
2.
Date queste condizioni e poste queste basi, si ricava, in riferimento al nostro tema, la seguente
fondamentale conseguenza: Aristotele non può più concepire le cose(sensibili) come immagini e
quindi nemmeno le immagini come cose!
Per Aristotele ciò che di particolare ogni volta io vedo, sento, tocco, manipolo a livello sensibile – che
costituisce i molteplici accidenti di una certa sostanza - non è affatto immagine – come era nel sistema
platonico – ma è il particolare modo di presentarsi e di offrirsi sensibilmente all’umana esperienza di
una certa sostanza, ovvero della sostanza che vi sta sotto quale identità sottostante di quegli accidenti.
Pertanto, se noi andiamo alla ricerca delle immagini, per Aristotele, non le troveremo mai tra i
fenomeni sensibili – i quali sono sempre accidenti di una certa sostanza inseparabilmente legati ad essa.
L’immagine, per Aristotele, non si identifica né con la sostanza, né con i suoi accidenti.
L’immagine non è cosa e nemmeno è un particolare accidente sensibile.
Le cose nella loro determinata universalità(l’albero, il tavolo, Socrate, ecc.) non sono immagini, ma si
chiamano SOSTANZE e i vari particolari sensibili che io percepisco non sono nemmeno essi
immagine, bensì sono gli accidenti di una certa sostanza. Il tavolo può apparire come tavolo di legno, di
colore marrone, liscio, grande ecc., ma questo non ha nulla a che vedere con le immagini. Solo per
Platone tutto ciò era immagine, ma non per Aristotele, per il quale le immagini certamente sono un
“qualcosa” – del tutto indeterminato e indeterminabile, però - ma non sono cose, né fenomeni sensibili.
[NOTA – Dal punto di vista generale, se Aristotele elimina le idee platoniche, sostituendole con le
sostanze, in quanto realtà piene, è chiaro che deve ripensare radicalmente anche la natura
dell’immagine, in quanto, in Platone, la definizione dell’immagine è necessariamente legata e
dipendente dalla definizione primaria dell’idea, nella misura in cui l’immagine è ciò che appare
sensibilmente come se fosse l’idea senza, però, esserlo realmente. Il destino dell’immagine, insomma,
in Platone è subordinato e legato a quello dell’idea, essendo appunto l’immagine copia dell’idea.]

Aristotele non intende affatto sbarazzarsi delle immagini, nello stesso modo in cui ha cancellato le idee
platoniche, ma le ripensa radicalmente, perché ritiene che l’immagine giochi comunque un ruolo
decisivo, una volta ripensata. Come?
Questo è il modo di ragionare di Aristotele. Anch’ egli, come Platone, parte dal fatto che l’immagine
non è la cosa(intesa come vera e piena realtà, ossia nei termini aristotelici, non è la sostanza). Ma non è
nemmeno ciò che appare sensibilmente della sostanza. Quindi l’immagine non possiede alcuna natura
eminentemente sensibile, ma nemmeno sovrasensibile(come le idee platoniche), bensì semmai,
potremmo dire, pre-sensibile(che è ben diverso dalla platonica realtà sovrasensibile, che compete alle
idee).
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Premesso questo, non essendo la cosa determinata, cioè la sostanza – che in Aristotele indica l’ente
reale – l’immagine non appartiene quindi alla dimensione della realtà, pur non essendo nemmeno
nulla. L’immagine non è universale, né particolare. Non è nulla, ma nemmeno sostanza. Potremmo dire
che è ni-ente, ossia alla lettera non è un ente determinato e cioè finito e formato.
In quanto non-nulla, ma nemmeno sostanza reale, l’immagine, pertanto, non può che appartenere
all’ambito del possibile e del virtuale. Il che la avvicina alla MATERIA e alla POTENZA, le quali, nel
sistema aristotelico, indicano ciò che è possibile e ciò che è indeterminato nel suo esser possibile.
Il pensiero di Aristotele, in generale, è contraddistinto dall’intima tensione data da una polarità
indissolubile, tra indeterminato e determinato, ovvero tra materia e forma, ovvero tra potenza e atto,
ovvero tra possibilità e realtà. Ebbene, in tale tensione – che non è mai divaricazione, né separazione,
altrimenti la tensione stessa verrebbe meno, l’immagine sta tutta dalla parte della possibilità, della
potenza, della materia, dell’indeterminato, dell’infinito(apeiron),nella misura in cui
l’indeterminato costituisce la condizione originaria di ogni determinarsi; la materia non è
separabile dalla forma secondo la quale essa si determina; l’atto esige la potenza per essere tale;
il reale è il realizzarsi del possibile.
In quanto POTENZA, l’immagine ha a che fare con la fondamentale dottrina aristotelica del rapporto
tra potenza e atto, la quale fornisce una variante della teoria del determinarsi reale della sostanza in
quanto materia formata.
Per tutto il pensiero greco vige il divieto assoluto di pensare che qualcosa che è apparso prima di
apparire era nulla, perché è incontrovertibile e originaria la legge secondo la quale ex nihilo nihil fit(la
quale rappresenta ciò che di positivo il pensiero filosofico classico ha salvato in Parmenide). Pertanto,
se qualcosa determinatamente viene ad apparire, prima di determinarsi e apparire non era mai NULLA,
ma esisteva già in un’altra modalità, in modalità nascosta, ossia, nei termini di Aristotele, prima di
realizzarsi come atto(ossia come realtà determinata e sostanzializzabile), era GIà in potenza.
Ogni ATTUARSI non è altro che il passaggio di qualcosa dalla potenza all’atto. Esemplifica Aristotele:
Socrate in quanto avente la barba(in atto), aveva già la barba ancora prima di farsela crescere… in
potenza!
3.
Poste queste doverose premesse, veniamo ora alla definizione che Aristotele, nel De Anima, dà
dell’immagine.
Il pensare(noein), dice Aristotele, “è una sorta di immaginare(phantasίa tis) o non è possibile senza
l’immaginazione”(Aristotele, De Anima, I, 403 a, 8-9).
In questo modo, anzitutto Aristotele sottrae il discorso sull’immagine dal piano del rapporto
realtà/simulazione, dove l’aveva collocata Platone.
E così l’immagine viene a perdere il carattere di simulazione e quindi anche quello di copia, imitazione,
riflesso di un originale reale, ecc. In questo modo, Aristotele sottrae l’immagine anche al suo essere
l’origine dell’illusione e della falsità, come sosteneva Platone. In più, per Aristotele, l’immagine non è
nemmeno DOPPIO come le immagini arcaiche( secondo l’interpretazione di J.P.Vernant e della sua
scuola).
Se l’interpretazione platonica è decisiva, perché è la prima interpretazione e definizione universale e
unitaria dell’immagine prodotta dalla civiltà occidentale, quella di Aristotele è altrettanto decisiva,
perché ripensa l’immagine oltre Platone, rivalutandola.
E la ripensa riportandola all’interno dell’orizzonte del nesso tra esperire e pensare. L’immagine,
per Aristotele, gioca un ruolo fondamentale e decisivo nella genesi, nello sviluppo e nell’esplicarsi del
pensare, di ogni pensare – a partire dall’esperienza.
Aristotele afferma in maniera perentoria e categorica che: IL PENSARE NASCE ESSENZIALMENTE
DA UN IMMAGINARE
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IL PENSARE A PRESCINDERE DALL’IMMAGINE NON VI SAREBBE, ovvero non sarebbe mai in
atto.
L’IMMAGINE, quindi, SI COLLOCA indeterminatamente TRA L’ESPERIENZA VISSUTA E IL
PENSARE DETERMINATO.
L’IMMAGINE E’ UN TRA
Vediamo di approfondire le implicazioni che questa presa di posizione innanzitutto implica.
Il pensare è un processo e, per Aristotele, ogni processo è spiegabile incontraddittoriamente solo come
passaggio dalla potenza all’atto. Ciò vuol dire che il pensiero, pensando, procede sino al suo
determinarsi come tale, ossia come questo o quel pensiero pensato. Nel suo determinarsi, esso
presuppone l’indeterminato che si determina, con l’avvertenza che tale indeterminato non può essere
altro dal determinato. Perché? Perché altro dal determinato è solo un altro determinato!
L’indeterminato non coincide con il determinato, ma non è nemmeno altro dal determinato, bensì è ciò
che viene ad essere determinato, è IL DETERMINABILE, vale a dire ciò che può determinarsi.
Ormai sappiamo che, nella filosofia di Aristotele, l’ indeterminato è, innanzitutto, MATERIA e
POTENZA e la potenza è sempre la potenza relativa a quell’atto che si è realizzato a partire dal suo
essere(stato) tale in potenza.
In modo che la potenza non è mai autonoma – perché, se così fosse, sarebbe atto, in quanto ogni realtà
autonoma è realtà attuata e attuale e quindi sostanza – mentre la potenza indica la provenienza di ogni
atto che si è attuato così come si è attuato, ossia in questo determinato modo, ma sempre a partire dalla
sua potenza.
La potenza, ossia l’indeterminata provenienza e insieme l’indeterminata destinazione di ogni atto –
ossia ciò in cui ogni atto sfuma e si dissolve dopo essersi compiutamente attuato - non viene
completamente obliterata nell’atto, ma permane come la sua inseparabile ombra, la quale, come tutte le
ombre, appartiene alla cosa che fa ombra ed è indissolubile da essa.
Ebbene, per quanto riguarda i pensieri determinati, ossia i pensieri attuali in quanto attuatisi come
pensiero-di-questo o di-quest’altro , la potenza da cui essi provengono e verso la quale essi vanno a
parare, nella dinamicità del loro sviluppo, è proprio l’immagine.
Questo significa che i pensieri determinati(e in atto) nascono sempre da immagini e, una volta
determinatisi/attuatisi, tendono a ridiventare immagini, cioé si sdeterminano ritornando al loro
sostrato immaginale(il quale non è l’originario, perché prima di tutto c’è il fare esperienza, che si
traduce in immagini).
Su questa base, Aristotele costruisce la sua teoria del rapporto tra esperienza e pensare. I cui cardini
sono così sintetizzabili. Accade qualcosa, noi lo intercettiamo a livello percettivo, in maniera tale che,
nella misura viene da noi intercettato, esso lascia una sua ripercussione all’interno dell’anima
individuale(cioè l’anima di colui che fa esperienza in prima persona). Tale ripercussione non è ancora
un ente determinato – è ancora indeterminatamente ni-ente - perché non ha ancora ricevuto una
forma(e se l’avesse ricevuta sarebbe già sostanza attuata) e ogni formare determinate, inoltre, è sempre
il risultato di un PENSARE, che si realizza in atto a partire dalla sua potenza. Pertanto la prima
ripercussione dell’evento nell’anima quale immagine non è ancora pensiero attuale e attuato – non è
pensiero determinato; è un non ancora pensiero, che potrebbe diventare tale, come anche non potrebbe
farlo mai - ovvero è pura IMMAGINE, la quale – in quanto materia e potenza del pensare – può
trasformarsi in pensiero pensato( ma anche no e anche non subito). Perché? Perché, secondo la dottrina
aristotelica dell’atto e della potenza: “tutto ciò che ora appare in atto, prima doveva necessariamente
essere in potenza; ma non tutto ciò che ora è in potenza è necessariamente destinato ad attuarsi”.
Appunto perché solo l’atto è realtà sostanziale, esistente nella sua realtà determinata qui e ora, mentre
la potenza è pura e non ancora determinata possibilità-di e quindi possibilità di attuarsi tanto quanto di
non attuarsi.
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Ecco perché Aristotele afferma che ogni pensare è prima di tutto un immaginare e che senza immagine
non vi sarebbe alcun pensare. Perché quello del pensare è un processo sempre in movimento, che, in
quanto tale, è spiegabile solo secondo la relazione tra potenza e atto, la quale, sul piano potenziale,
coinvolge necessariamente l’immagine: ogni pensiero determinato costituisce l’atto formato del
pensare, mentre l’immagine ne costituisce la materia e la potenza(infinitamente indeterminate).
In questo senso Aristotele sostiene che è impossibile pensare a prescindere dalle immagini e che la
phantasia(il luogo dell’anima che ospita l’affiorare ninfale delle immagini)è la fonte di ogni pensare,
beninteso a partire dalle esperienze vissute.
Abbiamo anche precisato che l’immagine può, ma non deve automaticamente e sempre trasformarsi in
pensiero attuale. Ebbene, qualora tale passaggio(dalla potenza all’atto, cioè dall’immagine immaginata
nell’anima in seguito alle esperienze vissute, al pensiero pensato) effettivamente ed attualmente
accada, a partire da che, in virtù di che cosa accade?
Aristotele, in generale, è il filosofo che sancisce in maniera perentoria che conoscere e spiegare
qualcosa comporta individuarne e indicarne la CAUSA specifica – scire per causas. Il passaggio
dall’immagine quale pensiero in potenza, all’atto quale determinato pensiero attuale, esige dunque, per
essere giustificato, una causa efficiente. Qual è questa causa? Né per caso né per magia…
Aristotele è un filosofo fortemente razionalista e causalista. Egli, quindi, si domanda: se qualcosa
passa dalla potenza all’atto, ciò è stato indotto necessariamente da un causa – che non può coincidere
con ciò che cambia e muta - che cosa, allora, causa tale passaggio? RISPOSTA – Ci deve essere un
altro ente sostanziale, che funge da causa efficiente(che rappresenta una delle quattro principali cause,
nel sistema aristotelico), il quale, per causare, deve essere già in atto(non può essere in potenza) ed è il
“motore” e la causa efficiente del passaggio dalla potenza all’atto. (N.B. Non è detto che sia una
singola causa, può essere anche il concorso di vari fattori causali, l’importante è che essi siano in atto e
non coincidano con l’ente diretto protagonista del mutamento. Per esempio: quando d’estate l’albero
che era in fiore(ma già con i frutti in potenza) fa spuntare i suoi frutti in atto, ciò si deve, per es., al
concorso tra il calore prodotto dal sole e il nutrimento portato dall’acqua).
Ebbene, abbiamo detto che ogni immagine – derivante dall’esperienza, non dimentichiamolo - ha la
possibilità di diventare pensiero pensato, ma non è detto che lo diventi sempre e comunque. Potrebbe
diventarlo ora, potrebbe diventarlo in un qualsiasi momento dopo, anche a distanza di anni o decenni,
oppure non diventarlo mai…L’immagine, nella sua indeterminatezza, nel suo essere ni-ente, non abita
il tempo, non abita già l’orizzonte temporale e quindi non conosce tempo – solo ciò che si è
determinato avendo assunto una certa forma e quindi si è attuato abita il corso del tempo. Il tempo, per
Aristotele, è indissolubilmente legato alla processualità del logos e riguarda il succedersi degli enti
determinati, ossia delle sostanze attuatesi, mentre l’immagine precede la dimensione del logos, in
quanto viene prima del pensiero che si esprime logicamente mettendo in successione gli enti
determinati e quindi l’immagine non ha tempo, né è soggetta al corso del tempo. E un’immagine può
diventare pensiero determinato in atto(oppure no), temporalizzandosi; quando lo diventa, come lo è
diventato? Non si tratta affatto di un processo automatico, né scontato, né pre-definibile, né
programmabile, perché è un processo letteralmente inconscio, ossia tale da precedere la dimensione del
pensiero consapevole(Freud è partito proprio da qui … così come Jung, il quale sottolinea la natura
immaginale degli archetipi dell’inconscio collettivo). Aristotele risponde chiaramente che questo
passaggio da pensiero in potenza nell’immagine a pensiero attuato è causato da un motore in atto e da
una causa efficiente e poi lascia capire – senza essere in questo caso troppo esplicito e dettagliato – che,
come chiariranno meglio gli aristotelici medievali, questa causa efficiente si mette in moto nella misura
in cui è chiamata, è pro-vocata dall’immagine stessa, nella misura in cui essa ha raggiunto un certo
grado di intensità. Vi sono, nell’anima, immagini deboli, a bassa intensità e immagini più forti. Che
cosa rende più intense e potenti certe immagini piuttosto che altre? Aristotele a questo proposito non
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risponde esplicitamente, ma il filosofo e commentatore aristotelico arabo e islamico Averroè(XII sec.
d.C.) Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd, ( ‫ )أبو الوليد محمد ابن احمد ابن رشد‬e certi altri aristotelici
medievali hanno interpretato nel senso che sono le esperienze vissute ripetute, che possono per così
dire “caricare”, cioè intensificare e rendere più forti certe immagini, in maniera tale che esse chiamino
l’intervento del motore in atto e della causa efficiente, che consente il passaggio dall’immagine
potenziale al determinato pensiero in atto.
4.
Resta fermo il fatto, in Aristotele, che tale causa esterna non può coincidere né con l’immagine – e
quindi dev’essere esterna all’anima individuale dove risiedono le immagini – né col pensiero che ne
risulta. Pertanto, visto che si tratta di un processo DI PENSIERO, nel De Anima Aristotele ricorre a
quella che è stata chiamata dottrina dei tre intelletti, in quanto Aristotele, per spiegare tale processo
distingue - ma non separa! - un intelletto potenziale, un intelletto attuale e un intelletto agente. I quali
non sono tre intelletti diversi, ma tre modalità o funzionalità distinte del medesimo pensare, del
medesimo intelligere.
Il passaggio dalla pura immagine al pensiero pensato si esplica come passaggio dall’intelletto possibile
o potenziale – dove si sono portate le immagini giunte a un certo grado di intensità e quindi reclamanti
il loro trasformarsi in pensieri - all’intelletto attuale(dal quale fuoriescono i determinati pensieri
pensati), a partire da un intelletto AGENTE, il quale è il motore e la causa efficiente, che muove il
passaggio dalla potenza all’atto, ossia dall’immagine al pensiero pensato dall’intelletto in quanto
intelletto attuale.
La funzione motrice – per il passaggio dalla pura immagine al pensiero pensato - è svolta dall’intelletto
agente, perché è esso che causa il passaggio dall’intelletto potenziale – dove si collocano le anime
chiamanti - all’intelletto attuale.
[PRECISAZIONE – Questa azione causante non è un atto a se stante, tale da distinguersi nella sua
realtà autonoma. Vale a dire non è un’azione separata, evidente nella sua determinatezza, ma è
implicita. Anche in natura, ciò che appare in primo piano è il passaggio dall’albero in fiore all’albero in
frutto. L’azione del sole e dell’acqua, è fondamentale e decisiva, ma rimane sullo sfondo, pur operando
e causando attivamente.
Abbiamo detto che l’intelletto agente interviene, quando l’anima individuale ha effettuato una sorta di
connessione con esso, a partire dall’urgenza di certe immagini giunte ad un certo livello di intensità. Le
quali invocano il loro passaggio allo stato di pensieri. Tale intelletto agente è esplicitamente definito da
Aristotele choristòs, cioè distinto ed esso, scrive Aristotele, “penetra nell’anima dall’esterno”.
Questo significa che ogni processo di pensiero, inteso nella sua totalità, non è un processo che riguarda
solo le anime individuali, non è un processo che avviene tutto all’interno dell’anima personale. L’anima
di ognuno di noi non sarebbe in grado di produrre alcun pensiero in atto, a prescindere dall’intervento
dell’intelletto in quanto agente, il quale, per l’appunto, penetra nell’anima dall’esterno, chiamato da
certe immagini dell’anima. Questo innanzitutto testimonia che, nella prospettiva aristotelica, da un lato
ogni pensare presuppone delle immagini – le quali abitano le anime individuali e sono diverse da anima
ad anima, in quanto derivano dalle esperienze individualmente vissute – dall’altro è un processo il cui
soggetto responsabile, la cui causa prima ed efficiente, non è propriamente l’anima individuale, ma una
sorta di competenza UNICA, IMPERSONALE, SOVRAINDIVIDUALE(cioè l’intelletto agente), alla
quale ogni anima individuale può attingere – previa connessione – ma che non appartiene a nessuna
delle anime individuali, essendo a disposizione di tutte, qualora si determinino le condizioni del suo
intervento, che è un intervento da fuori. Con la conseguenza che il pensare, per Aristotele, non è una
proprietà esclusiva del soggetto individualmente pensante, né dell’anima individuale, né della persona.]
Detto questo, non bisogna, d’altro canto, cadere nell’equivoco secondo il quale l’intelletto agente
infonda nelle anime individuali pensieri già pre-fabbricati nel loro contenuto e significato. Non
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dobbiamo dimenticare che l’Intelletto agente svolge la funzione di mera causa efficiente e di motore,
ma non produce né fornisce, né pre-fabbrica alcun contenuto. Il contenuto e il significato di ogni
pensare – ossia di ciò che appare a livello di intelletto attuale – è il risultato finale di quel complesso
processo, che coinvolge, ognuno nel suo specifico ruolo, intelletto potenziale, intelletto agente e
intelletto attuale e quindi il contenuto del pensiero si produce al compimento del processo come
risultato finale. Il quale risultato finale è diverso da persona a persona. Il fatto che ogni pensare dipenda
necessariamente dal ruolo decisivo dell’intelletto agente, che è unico, sovraindividuale e “distinto”, non
comporta affatto che, allora, tutti pensiamo le stesse cose o che i pensieri di ognuno siano prefabbricati
in altra sede. Perché? Perché l’intelletto agente svolge un ruolo decisivo e impersonale in quanto causa
determinante a livello formale, ma la materia del pensare, che si attualizza nell’intelletto attuale a
partire dall’intelletto potenziale, è data dalle immagini, le quali derivano dalle esperienza individuali, le
quali ovviamente sono diverse da persona a persona.
Analogamente, in natura, è la potenza del fiore di trasformarsi in frutto, ossia il fiore in potenza, che
chiama, provoca e sfrutta la forza della combinazione del sole e dell’acqua necessaria affinché il fiore
si trasformi in frutto, in modo che ogni albero, che aveva i suoi fiori, produrrà i suoi frutti, per quanto,
senza sole né acqua, nessun albero produrrà né fiori né frutti(oppure solo fiori e mai frutti).

A questo punto, resta da precisare un ultimo aspetto importante della questione. I pensieri attuatisi
non permangono in atto indefinitamente. I pensieri vanno e vengono e, in generale, nulla, per
Aristotele, nell’area sublunare e umana dell’universo, mantiene eternamente e immutabilmente la sua
attualità. Il nostro mondo non ha affatto l’eternità e l’immobilità, che Platone aveva attribuito al mondo
delle idee. E allora, se i pensieri, nel loro sorgere, provengono dalle immagini, nel loro dileguare dove
vanno a finire? Non possono andare nel nulla, così come non possono provenire dal nulla, perciò
tornano ad essere immagini, si sdeterminano e si ritrasformano in immagini, potendo così riattualizzarsi
in nuovi pensieri.
In ogni caso, la riflessione aristotelica apre la strada verso una filosofia dell’esperienza vissuta, in cui
l’IMMAGINE gioca un ruolo originario e decisivo.
Un’immagine che, però, non è già cosa, oggetto determinato, attualità, ma mantiene la sua natura
virtuale e il suo status di possibilità/potenzialità(infinita e indeterminata).

IV.L’IMMAGINE NEL MEDIOEVO


1.
Per spiegare la potente e tangibile influenza delle immagini, la cultura medievale fonde assieme la
concezione dell’immagine/phantasma di origine aristotelica con la concezione stoica e neoplatonica del
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pneyma, ossia del soffio vitale.
In questo modo l’immagine, in quanto immagine pneumatica, viene ad assumere una sua vitalità attiva,
agendo come un “soffio” immateriale capace di agire vitalmente producendo effetti non solo spirituali,
ma anche materiali e tangibili.
La magia, dall’antichità sino al Rinascimento, si occupava espressamente dello studio di una parte di
questi effetti, ma non solo la magia, giacché anche la medicina pre-scientifica spiegava in questo modo
l’insorgere delle malattie. Le stesse filosofia(basti pensare a Giordano Bruno), teologia ed arte si
basavano su una tale prospettiva fondata sul carattere influente delle immagini.
Le immagini pneumatiche vengono a promanare come potenti effluvi, attraverso un certo medium, sino
a produrre i loro effetti sugli oggetti e sui corpi viventi. In questo modo si riusciva a dare una risposta e
una spiegazione plausibile a fenomeni considerati altrimenti inspiegabili, i quali, invece, così venivano
ad essere spiegati grazie all’influenza delle immagini fuoriuscite dalle anime e dai corpi.
La sfera erotica in particolare è l’ambito in cui queste teorie sull’influenza attiva e trasformatrice delle
immagini fu particolarmente valorizzata. Stiamo parlando della sfera erotica intesa sia dal punto di
vista fisico-corporeo, sia “spirituale”. Nel medio evo, per esempio, così si spiegava il rizzarsi del
membro maschile sensualmente eccitato. Dal corpo della donna desiderata fuoriuscivano certe
immagini pneumatiche, il cui soffio vitale produceva una potente azione trasformatrice nel corpo
maschile. E tale effetto perdurava sintantoché agivano tali immagini influenti, per cessare solo al
termine del compimento dell’atto sessuale che tali immagini sollecitavano.
Sul piano più spirituale, tali teorie stanno alla base di tutte le concezioni dell’”amore cortese”, che
caratterizzano anche l’opera di Dante, Petrarca sino a Boccaccio. Andrea Cappellano(XII-XIII secolo)
sintetizza queste teorie nel trattato de Amore. Qui egli definisce l’amore innanzitutto come immoderata
cogitatio, ossia come pensiero smodato o privo di qualsiasi misura, il quale scaturisce a partire da un
fantasma che è stato interiorizzato dall’anima dell’amante, in maniera tale che esso, depositatosi
nell’anima individuale, si trasforma in pensiero – secondo la dinamica di matrice aristotelica- il quale
pensiero diventando sempre più ossessivo, a sua volta genera immagini, che alimentano una passione
sempre più incontrollabile. Così scrive Cappellano:
“L’amore è una passione innata, che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro
sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro, e nell’amplesso realizzare
concordemente tutti i precetti d’amore”.10
La “bella persona” dell’amata o dell’amato si offre alla vista. Quando l’occhio del potenziale amante si
fissa su tale “bella persona”, se essa irradia delle immagini, queste, incontrando gli occhi che
guardano, possono entrare all’interno del guardante attraverso le aperture degli occhi, in modo tale che
l’immagine, entrata attraverso gli occhi, si imprime nell’anima del guardante, laddove – secondo la
dinamica messa in luce da Aristotele - può generare un pensare, il quale più viene pensato, più
alimenta il desiderio di possedere chi ha suscitato una tale cogitatio divenuta così immoderata.
Il desiderio sempre più ardente, a sua volta, stimola l’immaginazione dell’amante, suscitando altre e
nuove immagini, le quali possono esercitare la loro influenza tanto sull’anima e sul corpo dell’amante
stesso, quanto sull’anima e il corpo dell’amata/amato, provocando in quest’ultimo delle reazioni, che si
trasmettono anch’esse grazie al veicolo di immagini.
Ricordiamo, a questo proposito, le parole di Francesca da Rimini nel V canto dell’Inferno dantesco:
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui della bella persona/ che mi fu tolta; e il modo
ancor m’offende”.
E il grande amico di Dante, Guido Cavalcanti, in un sonetto dal titolo Pegli occhi fere un spirto
sottile, ci dice che l’immagine proveniente dalla “bella persona” dell’amata, che penetra attraverso gli
occhi di chi guarda sino a installarsi nella sua anima, è un’immagine caratterizzata da uno “spirito”(la

10 Andrea Cappellano, De Amore, trad. it., Studio Editoriale, Milano 2002, cit. p.14
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traduzione del greco pneyma), che, essendo appunto “sottile”, e cioè leggero, volatile e insieme
estremamente penetrante, può facilmente entrare attraverso gli occhi e prendere possesso dell’anima
dell’amante, sino a “offendere”(come dice Francesca da Rimini). E’ tale “spirito”, scrive Cavalcanti,
che fa “tremare” di paura gli amanti e, pieno di potenza, nutre “ogni altro spiritel”.
Perché Andrea cappellano parla di immoderata cogitatio?
Perché a seconda dell’intensità delle immagini, i pensieri che ne scaturiscono presentano una diversa
qualità: se le immagini intercettate sono neutre o debolmente intense, ne scaturisce un “pensiero
misurato”, il quale, a sua volta, può dar luogo ad altre immagini “moderate”. Più le immagini sono
poco intense, meno esse sono potenti e quindi poco influenti e quindi tali da non provocare quelle
reazioni psico-fisiche, secondo le quali si esplica di solito la passione d’amore.
Questa concezione, sviluppatasi in età medievale, continuerà il suo corso anche nel Rinascimento e sarà
accolta dagli ambienti umanistici dell’Accademia platonica sorta a Firenze nel XV secolo. Dove uno
dei più illustri esponenti dell’Accademia platonica fiorentina come Marsilio Ficino, per spiegare la
grande diffusione della cosiddetta pederastia greca, sostiene che sono gli adolescenti, che più
facilmente fanno innamorare di sé donne e uomini. Perché? A causa del fatto che i loro “spiritelli” sono
particolarmente puri e sottilissimi e perciò si esprimono in immagini ultraleggere, le quali, pertanto,
salgono subito verso la parte alta del corpo, sino a risplendere negli occhi, fuoriuscendo da essi per
rientrare in altri occhi spalancati, dato che la loro leggerezza mantiene gli “spiritelli” sempre in alto. E
così questo brillare degli occhi degli adolescenti, più scintillante e intenso appare, più è pronto a
trapassare, come una micidiale saetta, negli occhi di chi guarda.
In tal modo, l’immagine sgorgata dal cuore dell’uno colpisce, come una freccia, l’altro, facendolo
diventare amante “furioso”, colpendolo al cuore, di modo che, nell’organismo, si produce una
mescolanza tra sangue e immagine-pneyma, da cui nascono la “fascinazione” e la passione amorosa.
SANGUE +IMMAGINE costituiscono, infatti, un mix destabilizzante e tremendo. Perché la potenza
pneumatica delle immagini si mescola con i fluidi che scorrono nel corpo alterandone la vitalità e le
dinamiche. Devastante è l’effetto di quando le immagini provenienti da un giovane colpiscono il cuore
di una persona più anziana. Essendo il cuore anziano più duro e denso, perché colmo di sangue più
grosso e scuro, lo spirito sottile proveniente dal giovane si condensa e condensandosi produce altro
sangue spesso, il quale, grazie alle immagini scambiate, porta in sé contemporaneamente le
caratteristiche dell’uno e dell’altro(del giovane e del vecchio). E’ per questo che – come Marsilio
Ficino spiega quanto scritto nel dialogo platonico Lisia dedicato all’amore tra il giovane Fedro e
l’anziano Lisia – non appena Fedro appare, Lisia “a bocca aperta” fissa il suo bel volto. Dato che Fedro
non abbassa lo sguardo, le immagini saettanti dei suoi occhi feriscono irrimediabilmente quelli di Lisia
e penetrano all’interno sino a giungere, col loro “spirito”, nel cuore spesso e indurito di Lisia. Qui lo
spirito di Fedro si condensa, in modo che si genera altro sangue, che è tanto appartenente all’uno
quanto all’altro. E’ per questo che, come scrive Platone, Lisia si trova costretto a gridare all’indirizzo
del compagno: “o cuor mio” e Fedro non può che rispondere: “O spirito mio, o mio sangue”. Tra i due
ormai si è creato un legame indissolubile – grazie alle immagini e al sangue - in modo che l’uno non
può che “seguitare” l’altro.
Questo meccanismo è anche ciò che sta alla base di tutte le concezioni legate al cosiddetto
“malocchio”, ossia al mal d’occhio.
2.
Tra Medioevo e Rinascimento tale concezione viene ad essere associata anche al tema della
malinconia, i cui sintomi, secondo la medicina del tempo, erano causati da “imaginationes malae”,
ovvero “cattive immaginazioni”. Alberto Magno sosteneva che tali cattive immaginazioni si
moltiplicano a dismisura, nell’individuo soggetto alla malinconia, ovvero all’”umor nero”, in quanto
l’organismo dei malinconici è caratterizzato dal prevalere del vapore secco, il quale trattiene più
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saldamente le immagini. Pertanto le immagini installatesi nell’anima non abbandonano più l’anima
stessa, ma anzi si radicano in essa sempre più profondamente, generando altre immagini simili, con la
conseguenza che viene ad essere alimentata una passione, che assume tratti sempre più ossessivi.
Tale concezione dell’immagine caratterizza anche le teorie artistiche. Romano Alberti(XVI secolo),
l’autore del Trattato della nobiltà della pittura(1585), sostiene che i pittori necessariamente
“divengono melencolici”, perché dovendo imitare per poter dipingere, si abituano a tenere i fantasmi il
più possibile “fissi nell’intelletto”, facendo di tutto perché essi non se ne vadano. Solo così possono
imitarli con agio, avendoli sempre a disposizione dentro di sé. Tutto questo spiega come le immagini
scaturiscano da corpi e oggetti per influenzare profondamente corpi e oggetti. Ma questo non significa
affatto che le immagini siano delle conseguenze, che siano degli epifenomeni, che siano qualcosa che
viene dopo gli oggetti, come mera ripercussione dei corpi e degli oggetti. Nient’affatto, l’immagine ha
una sua realtà autonoma e originaria. Tanto che potremmo dire che sono gli oggetti stessi a custodire le
immagini in quanto immagini cristallizzate entro un involucro sensibile permanente. In che senso?
L’oggetto - come suggerisce l’etimologia, dal latino objectum – letteralmente è ciò che è stato gettato
davanti ad un soggetto. Esistono degli oggetti solo nella misura in cui vi è un soggetto, rispetto al quale
gli oggetti sono ciò che sta di-contro, secondo la polarità soggetto-oggetto, che è una polarità logica.
Ossia è una costruzione del Logos. I soggetti e gli oggetti – e quindi anche la loro relazione polare –
sono delle raffinate costruzioni logiche, ossia sono dei prodotti inerti e rigidi della pura razionalità
logica. Da questo punto di vista, soggetti ed oggetti sono semplicemente i poli di una pura relazione di
carattere logico, affine per esempio alla relazione tra causa ed effetto, laddove la causa esiste nella
misura in cui produce un certo effetto e quest’ultimo esiste nella misura in cui presuppone una causa
che l’ha determinato. Ma sono le immagini che conferiscono vitalità e dinamicità a tali costruzioni
logiche, che altrimenti resterebbero del tutto astratte.

V. I L M O D E L L O D A N T E S C O
P e r c h é D a n t e ? E p e r c h é D a n t e a p r o p o s i t o d e l l a q u e s t i o n e d e l l ’ i m ma g i n e ?
I n n a n z i t u t t o p e r c h é l a D i v i n a C o m m e d i a , i n p a r t i c o l a r m o d o n e l l e p r i me d u e

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cantiche, è il viaggio poetico-letterario-teologico in oltremondi popolati di pure
immagini – di defunti - da parte di una persona reale, vivente in carne ed ossa.
N e l l a v i s i o n e d a n t e s c a , c h e è c o n s i d e r a t a , p e r mo l t i a s p e t t i , u n a v e r a e p r o p r i a
s u m m a d e l l a c u l t u r a me d i e v a l e , c o n f l u i s c o n o e s i i n t r e c c i a n o i c o n t r i b u t i d e l l a
cultura omerica, delle concezioni filosofiche platonica, neoplatonica ed
aristotelica, nonché il meglio della cultura medievale in tutte le sue principali
c o mp o n e n t i .
1.
D a n t e d e f i n i s c e l e i m m a g i n i “ o m bre” . L a p a r o l a d e r i v a d i r e t t a me n t e d a l l a t i n o
u m b r a ( us a t a , t r a l ’ a l t r o d a l p o e t a O v i d i o n e l r a c c o n t a r e i l m i t o d i N a r c i s o , c h e
a p p u n t o s i i n n a mo r a p e r d u t a me n t e e t r a g i c a me n t e d e l l ’ o m b r a d i s é s t es s o ) , l a
q u a l e , a s u a v o l t a , c o r r i s p o n d e a l g r e c o a n t i c o s k i a , i l q u a l e è u n o d e i t e r mi n i p i ù
o r i g i n a r i a p p a r t e n e n t i a q u e l l e d e c i n e d i p a r o l e , c h e a r c a i c a me n t e e r a n o u s a t e p e r
indicare ciò che più tardi sarà unificato dalla parola eidolon, immagine.
C o me h a s c r i t t o l o s t u d i o s o d i mi t o l o g i a K . K e r e n yi :
“ E i d o l o n è , i n g r e c o , u n ’ i m m a g i n e c h e c o n s i s t e u n i c a me n t e i n u n a s u p e r f i c i e
s e n z a p r o f o n d i t à ; a p p l i c a t o a u n u o mo , s i t r a t t a d e l l ’ i m m a g i n e d e l l a s u a o mb r a ,
m a n o n l ’ o m b r a c h e l ’ u o mo p r o i e t t a n e l m o n d o d e i v i v e n t i , l a s k i á , b e n s ì l ’ o m b r a
che l’uomo è(…) quando la sua sostanza, la profondità e la pienezza del corpo
v i v e n t e , s o n o p e r d u t e . S e c o n d o O me r o ( … ) , i mo r t i s o n o d i v e n t a t i e i d o l a ( … ) ” 1 1 .
A n c h e p e r D a n t e , i mo r t i s o n o d i v e n t a t i o m bre/ e i d o l a , n e l s e n s o d i om b re, l e
q u a l i , a d i ffe r e n z a d e i v i v e n t i , n o n l a s c i a n o a l c u n a o mb r a d i e t r o o d a v a n t i a s é .
Eppure, nel poema dantesco, essi parlano, in risposta a Dante che li interpella,
n o n c h é s i e m o z i o n a n o , s o ffr o n o e p a t i s c o n o s e ns i b i l me n t e , a d i m m a g i n e e
somiglianza delle persone viventi che furono.
2.
L a p r i ma “ o mb r a ” , c h e D a n t e i n c o n t r a a l l ’ i n i z i o d e l s u o v i a g g i o o l t r e mo n d a n o ,
poco prima di addentrarsi negli abissi infernali, è quella dell’antico poeta
a u g u s t e o Virg i l i o , c h e s a r à l ’ i m ma g i n e c h e f a r à d a g u i d a a D a n t e p e r 2 / 3 d e l s u o
v i a g g i o . C o s ì è d e s c r i t t o p o e t i c a m e n t e i l p r i mo i n c o n t r o c o n Virgi l i o ( I n f e r n o ,
c a n t o I , v v. 6 1 e s s . ) :
M e n t re c h ' i' rov i n a v a i n b as s o l o c o ,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
c h i p e r l u n g o s i l e n z i o p area f i o c o .

Quando vidi costui nel gran diserto,


« M i s e rere d i m e » , gr i d a i a l u i ,
« q u a l c h e t u s i i , o d om b r a o d o m o c e r t o ! » .

R i s p u o s e m i : « N o n om o , o m o g i à f u i (… )

All’inizio, Dante è terrorizzato, anzi colto da vera e propria angoscia, perché non
sa né che né chi sia ciò in cui si imbatte.
N o n s a n e m m e n o s e s i t r a t t a d i u n ’ ” o m b r a ” , c i o è d i u n ’ i m ma g i n e o d i u n a
p r e s e n z a v i v a e r e a l e , o v v e r o “ o mo c e r t o ” . D a l l a s i t u a z i o n e d i a n g o s c i a , c h e
s u s c i t a n e l p e l l e g r i n o u n a c c o r a t o d o ma n d a r e , D a n t e us c i r à g r a z i e a l l a r i s p os t a

11 K.Kerényi, “Agalma, Eikon, Eidolon”, in Scritti italiani(1955-1971), Guida, Napoli 1993, p.92
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p r o v e n i e n t e d a l l ’ A l t r o , i l q u a l e s i q u a l i f i c a d a s è c o me “ o mb r a ” , o s s i a c o m e
immagine.
U n ’ i m ma g i n e c h e p a r l a , p e r ò , r a s s i c u r a n d o D a n t e e i n v i t a n d o l o a n o n s p a v e n t a r s i
più.
Può sembrare p a r a d o s s a l e i l f a t t o c h e q u e l l a mi s t e r i o s i s s i ma i n d e t e r mi n a t a
presenza, i n i z i a l m e n t e n o n i d e n t i f i c a b i l e , s i q u a l i f i c h i c o me “ o mb r a ” ( c i o è
immagine), parlando, ossia esercitando una delle facoltà proprie solo delle
p e r s o n e v i v e e r e a l i ( o s s i a d e g l i “ o m i n i c e r t i ” ) . M a è c o me s e , a l c o s p e t t o d i
D a n t e , t a l e e s s e n t e s i f o s s e a n i m a t o d i r i f l e s s o o p e r u n a s o r t a d i e ffe t t o
e mp a t e t i c o d i c o n t a g i o ( v e n e n d o a d a s s u me r e u n s i mu l a c r o d i a n i ma c a p a c e d i
r e p l i c a r e t u t t e l e f u n z i o n i p r o p r i e d e l l ’ a n i m a a u t e n t i c a d e l v i v e n t e ) . E ’ c o me s e l a
p r e s e n z a v i v a e r e a l e d i D a n t e f a c e s s e d a s p e c c h i o / me d i u m, i n m a n i e r a t a l e c h e
t u t t o c i ò c h e e n t r a i n c o n t a t t o c o n t a l e m e d i u m s i a n i ma d i r i f l e s s o , c o m e t r a m i t e
u n e ffe t t o / s p e c c h i o , d o v e l a f u n z i o n e m e d i a l e o r a è a s s u n t a d a l l a p r e s e n z a v i v a d i
Dante stesso in carne, ossa e logos.
E ’ i l f a t t o d i p a r l a r e i l s e g n o e v i d e n t e c h e D E T E R M IN A q u e l l ’ A l t r o p e r t u r b a n t e
q u a l e “ o mb r a ” d i c o l u i , c h e u n t e mp o f u “ o mo c e r t o ” ( n e l l a f a t t i s p e c i e i l p o e t a
Virgi l i o ) . F i n t a n t o c h é n o n p a r l a v a , q u e l l a p r e s e n z a e r a d e l t u t t o “ f i o c a ” , c i o è
i n d e t e r mi n a t a m e n t e v a g a , p i ù p a r l a – r i s p o n d e n d o a l l e d o m a n d e d i D a n t e – p i ù
t a l e p r e s e n z a s i d e f i n i s c e . E s i d e f i n i s c e c o me i m m a g i n e - d i , s e c o n d o
un’accezione di origine platonica.
C o me D a n t e r i s c o n t e r à a n c h e a l t r e v o l t e n e l s u o v i a g g i o n e l l ’ I n f e r n o , f i n t a n t o c h é
non sono chiamate a parlare, le ombre dell’oltretomba appaiono come qualcosa di
i n d e t e r mi n a t o , p r i v o d i q u a l s i a s i f o r ma e q u i n d i a n c h e d i q u a l s i a s i i d e n t i t à . P u r a
a mo r f a i n d e t e r m i n a t e z z a i n d e t e r m i n a b i l e . Q u a l o r a , p e r ò , D a n t e p r o v o c h i e i n v i t i
a p a r l a r e t a l i v u o t i e c t o p l a s mi , e c c o c h e e s s i , m a n o a m a n o c h e r i p r e n d o n o
c o n f i d e n z a c o n l a p a r o l a , i n i z i a n o a d e f i n i r s i s e mp r e p i ù p r e c i s a m e n t e , v e n e n d o
a d a s s u m e r e u n a b e n d e t e r mi n a t a f o r ma s e mp r e p i ù c o n f o r me a q u e l l a c h e l i
c o n t r a s s e g n a v a q u a n d ’ e r a n o v i v e n t i . U n a f o r m a c h e , p e r ò , l i i d e n t i f i c a c o me
“ o mb r e ” e N O N P I U ’ c o me e s s e r i r e a l i e v i v e n t i . N i e n t e a l t r o , o mb r e e b a s t a .
Tal e a u t o d e f i n i z i o n e s u b s p e c i e u m b r a e l i q u a l i f i c a , p e r ò , L O G I CA M E N T E , n e l
s e n s o c h e n e d e t e r m i n a f o r ma l me n t e l a p r e s e n z a c o me c i ò c h e s e è o m b r a n o n p u ò
e s s e r e “ o mo c e r t o ” e v i c e v e r s a : a u t … a u t … e t e r t i u m n o n d a t u r … S e c o n d o u n
dispositivo, quindi, che è perfettamente logico(anche nel significato formale del
t e r m i n e ) . D a q u e s t o p u n t o d i v i s t a , D a n t e ma n t i e n e l a d i s t i n z i o n e t r a r e a l t à e
i m m a g i n e , s e c o n d o i l m o d e l l o p l a t o n i c o . An c h e s e , me n t r e p e r P l a t o n e t a l e
d i s t i n z i o n e è o r i g i n a r i a e o n t o l o g i c a , p e r D a n t e , i n v e c e , è p u r a me n t e l o g i c a , n e l
senso che può essere solo posta dal logos – che agisce da medium – ed espressa
a t t r a v e r s o i l l i n g u a g g i o , a l t r i m e n t i è c o m e s e o g n i d i ffe r e n z a e o g n i d i s t i n z i o n e
precipitassero nel nulla: nel nulla dell’indeterminato allo stato puro.
Dante ci mostra che, là dove la parola tace, tutto si sdetermina e quindi tutto
precipita nell’indistinguibilità, in modo che, in tale assoluta indeterminatezza,
n e s s u n a d i ffe r e n z a e s i s t e p i ù , c o mp r e s a q u e l l a t r a i m m a g i n e e r e a l t à .
Q u i n d i , l ’ i m ma g i n e è t a l e e c i o è s o l o i m ma g i n e e n o n c o s a r e a l e s o l o i n v i r t ù e a
p a r t i r e d a u n me d i u m, c h e i n q u e s t o c a s o s t a n e l l o g o s p a r l a n t e i n p r i m o l u o g o d e l
vivente e di riflesso nell’ombra loquente.

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P e r q u e s t o , i n D a n t e , q u e l l a t r a i m ma g i n e e c o s a r e a l e n o n è u n a d i ffe r e n z a
o r i g i n a r i a m e n t e o n t o l o g i c a e q u i n d i e t e r n a me n t e e i n c o n t r o v e r t i b i l me n t e d a t a a
p r i o r i , m a è u n a d i ffe r e n z a c h e s i p o n e s o l o a p a r t i r e d a u n c e r t o m e d i u m.
D u n q u e , i l l i n g u a g g i o è t a l me n t e d e c i s i v o , i n D a n t e , a t a l p u n t o c h e u n ’ im m ag i n e
p u ò a p p a r i re c om e t a l e , s o l o m e d i a t am e n t e , o s s i a s o l o a t t r a v e r s o i l m ed i u m
d e l l a p a rol a .
E ’ i l p a r l a r e d o m a n d a n t e d i D a n t e c h e s u s c i t a i l p a r l a r e r i s p o n d e n t e d i Virgi l i o
c h e , i n q u e s t o mo d o , p u ò q u a l i f i c a r s i e d e t e r m i n a r s i c o m e p u r a i m m a g i n e , o s s i a
o mb r a .
I l l o g o s d e l l a p e r s o n a v i v a , i n q u e s t o c a s o , a s s o l v e u n a f u n z i o n e m e d i a l e s i mi l e a
q u e l l a d e l l o s p e c c h i o . I n f a t t i , c o me s a p e v a n o b e n e i m e d i e v a l i , s e n z a s p e c c h i o
n e s s u n a i m ma g i n e …
L o g i c a me n t e e me d i a t a me n t e / m e d i a l me n t e , l ’ i m ma g i n e v i e n e a d a p p a r i r e c o me
c i ò c h e N O N E ’ l a c o s a o p e r s o n a r e a l e , i n c o n f o r mi t à c o n i l mo d e l l o ( o n t o l o g i c o
e a priori)platonico.
D e r i v a d a l m o d e l l o p l a t o n i c o a n c h e i l f a t t o c h e l ’ i m ma g i n e – l ’ ” o mb r a ” – a p p a r e
s e n s i b i l m e n t e , q u a l e p r e s e n z a d e t e r mi n a t a m e n t e v i s i b i l e .
E p p u r e è c o me s e D a n t e a s s u me s s e t u t t o c i ò , n o n c o me v e r i t à i n c o n t r o v e r t i b i l e ,
bensì come acquisizione sempre aperta e soggetta al dubbio.
P u r a v e n d o i n t r a p r e s o u n l u n g o v i a g g i o a l l ’ i n t e r n o d e l l ’ i n f e r n o e d e l p u rga t o r i o –
c h e s o n o p o p o l a t i s o l o e d e s c l u s i v a m e n t e d a “ o mb r e ” – D a n t e s i mo s t r a s e mp r e
incerto e dubbioso circa la natura di coloro che incontra. Non dovrebbe aver
capito, ad un certo punto, che è destinato ad incontrare solo pure immagini? E
i n v e c e d u b i t a s e mp r e . P e r c h é ? E ’ c o me s e l a d i ffe r e n z a t r a i m m a g i n e e r e a l t à
f o s s e s e mp r e s u l p u n t o d i c o n f o n d e r s i e d i a n n u l l a r s i , d i mo d o c h e i l p e l l e g r i n o
D a n t e h a c o n t i n u a me n t e b i s o g n o d i u l t e r i o r i p r o v e c h e l o r a s s i c u r i n o i n t a l s e n s o .
C o me s e n e a n c h e l a m e d i a l i t à d e l l o g o s b a s t a s s e a r a s s i c u r a r e i n v i a d e f i n i t i v a i
dubbi di Dante. In modo che la stessa pratica dell’identificazione logica deve
e s s e r e c o n t i n u a me n t e r i p e t u t a , c o me s e f o s s e a s c a d e n z a …
I l m e d i u m d e v e a g i r e a t t i v a me n t e o g n i v o l t a , c o me s e i l c a r a t t e r e m e d i a l e d e l
l o g o s a g i s s e s o l o p e r u n i s t a n t e e d o v e s s e , q u i n d i , e s s e r e o g n i v o l t a r i me s s o
all’opera.
Dante, con ciò, sottolinea il fatto che i confini tra realtà e immaginazione sono
e s t r e m a me n t e l a b i l i , d a l mo m e n t o c h e l ’ u n a t e n d e a c o n f o n d e r s i c o n l ’ a l t r a .
I s e n s i d a s o l i n o n s o n o s u ffi c i e n t i a d i s t i n g u e r e e d i s c e r n e r e , p e r c h é i s e n s i
senza il logos è come se fossero del tutto ciechi. Dante sin dall’inizio, alla
p r e s e n z a d i c o l u i c h e p o i a p p r e n d e r à e s s e r e l ’ o m b r a d i Virgi l i o , a ffi d a n d o s i a i
sensi non sa chi e che cosa vede. Sente, avverte un’indeterminata presenza, ma
n o n v e d e n u l l a d i d e t e r m i n a t o . Ved e f i n a l m e n t e q u a l c o s a – i n q u e s t o c a s o
u n ’ o mb r a - s o l o q u a n d o l o s o c c o r r o n o i l l o g o s e i l l i n g u a g g i o ( s u o e d e l l ’ o m b r a
stessa).
C ’ è c h i , a q u e s t o p r o p os i t o , c o m e H a ns B e l t i n g 1 2 , h a s o t t o l i n e a t o l a s t r a o r d i n a r i a
a t t u a l i t à d i D a n t e , i n q u a n t o i l s u o r a c c o n t o a p p a r e mo l t o v i c i n o a l l e e s p e r i e n z e
e s t e t i c h e p r o p r i e d i q u e l c o n t e mp o r a n e o c h e , g r a z i e a l l a d i ffu s i o n e a l i v e l l o d i
massa dei prodotti delle nuove tecnologie mediali, ci proietta in un orizzonte, nel

12H.Belting, Antropologia delle immagini, tr. it. Carocci, Roma 2013


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q u a l e i c o n f i n i t r a r e a l t à e i m m a g i n e s o n o a s s a i l a b i l i e l e d u e d i me n s i o n i t e n d o n o
a confondersi o a sovrapporsi l’una all’altra.
I n e ffe t t i , D a n t e c i mo s t r a c o m e l ’ e s p e r i e n z a d i r e t t a e c o n c r e t a d e l n os t r o e s s e r e
v i a n d a n t i n e i l a b i r i n t i d e l mo n d o , f a f a t i c a a d i s c e r n e r e c o n s i c u r e z z a e i n mo d o
definitivo tra immagine e realtà e ha continuamente bisogno di prove logiche, le
q u a l i , p e r ò , r a s s i c u r a n o mo m e n t a n e a m e n t e , m a n o n me t t o n o ma i d e f i n i t i v a me n t e
al riparo da ogni dubbio.

R i g u a r d o a i M O D E L L I c h e , n e l l a n o s t r a i n d a g i n e a b b i a mo r i c o s t r u i t o , p o t r e m mo
d i r e c h e D a n t e p a r t e n d o d a l l ’ e s p e r i e n z a o m e r i c a e d a r c a i c a d e l l ’ i m ma g i n e c o m e
D O P P I O , l a i n t e r p r e t a a l l a l u c e d e l mo d e l l o p l a t o n i c o , n e l s e n s o c h e p e r l u i
l ’ i m m a g i n e – q u a n d o è s t a t a l o g i c a m e n t e d e t e r m i n a t a e c e r t i f i c a t a c o me t a l e - è
ciò che non ha una vera realtà, pur essendo sensibilmente evidente e presente
c o me s e l ’ a v e s s e . An c h e s e , p e r D a n t e , t a l e d i ffe r e n z a n o n h a u n i n c o n t r o v e r t i b i l e
f o n d a me n t o o n t o l o g i c o t a l e d a r e n d e r l a o r i g i n a r i a m e n t e i n n e g a b i l e .
D a l mo d e l l o a r c a i c o e p r e - p l a t o n i c o , i n o l t r e , D a n t e r i p r e n d e , a l t r e s ì , i l f a t t o c h e
a n c h e l e o mb r e p o s s o n o p a r l a r e , s i a p u r e d i r i f l e s s o . I n m o d o c h e a d d i r i t t u r a p i ù
p a r l a n o , p i ù i l l o r o e s s e r e u mb r a t i l e s i d e f i n i s c e e a s s u m e c o n s i s t e n z a , m e n t r e
m e n o p a r l a n o , p i ù p e r d o n o f o r ma , p e r d o n o d i d e f i n i z i o n e , s i n o r i p r e c i p i t a r e
n e l l ’ i n d e t e r mi n a t o . Q u a n d o l a p a r o l a t a c e , t u t t o t e n d e a r i p r e c i p i t a r e
n e l l ’ i n d e t e r mi n a t o e l e o mb r e p e r d o n o i l l o r o s i mu l a c r o d i a n i ma .
C i ò è p a r t i c o l a r me n t e e v i d e n t e n e l c a n t o VI d e l l ’ I n f e r n o - a mb i e n t a t o n e l t e r z o
c e r c h i o , d o v e s c o n t a n o l a l o r o p e n a l e o mb r e d e i g o l o s i - q u a n d o D a n t e s c r i v e
c h e n o n s o l o D a n t e s t e s s o , m a a n c h e Virgi l i o i n i z i a l me n t e c a m m i n a n o
c a l p e s t a n d o l e o mb r e d e i g o l o s i , c h e g i a c c i o n o a t e r r a , c o m e s e q u e s t e o m b r e
f o r ma s s e r o u n a m m a s s o i n f o r m e , i n d e t e r m i n a t o e p r i v o d i c o n s i s t e n z a e d i
s p e s s o r e , p r os s i mo a l n i e n t e . . .
E l a s p i e g a z i o n e è c h e s i t r a t t a d i o mb r e c h e d a l u n g h i s s i m o t e m p o n o n p a r l a n o
più, perché nessun vivente passa mai tra loro nell’oltretomba, interpellandole.
Il testo recita così :
N o i p a s s a v am s u p e r l ' om br e c h e a d o n a
l a gr e v e p i o g g i a , e p o n a v am l e p i a n t e
sovra lor vanità che par persona.

E l l e g i a c e a n p e r t e r r a t u t t e qu a n t e ,
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante.

C o n l ’ e s p r e s s i o n e “ v a n i t à c h e p a r p e r s o n a” , D a n t e i n t e n d e s o t t o l i n e a r e i l f a t t o
c h e l a r e a l t à d e l l e o m b r e i n f e r n a l i s i mi l i a p e r s o n e , p u r e s s e n d o s e n s i b i l m e n t e
percepibile – ma solo dopo che esse hanno parlato! - è qualcosa di vano, di
i n g a n n e v o l e e i l l u s o r i o ( i n c o n f o r mi t à c o n l a c o n c e z i o n e d i o r i g i n e p l a t o n i c a ) .
N e l I I c a n t o d e l P u rga t o r i o , D a n t e i n c o n t r a n d o C a s e l l a , c h e i n v i t a e r a s t a t o s u o
i n t i mo e c a r o a mi c o , s c r i v e :
“ O h i o m bre v a n e , f u o r c h e n e l ’ a s p e t t o ! ” ( v.7 9 )
I n c h e s e ns o “ f u o r c h e n e l ’ a s p e t t o ” ? L’a s p e t t o è s i mi l e a l l a p e r s o n a r e a l e e p i ù
lo diventa, più l’ombra parla rispondendo alle domande di Dante, per quanto ciò a
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c u i s i r i f e r i s c e q u e s t o a s p e t t o r e a l i s t i c o , è e r e s t a s e m p r e u n a s e mp l i c e o m b r a ,
una pura immagine e nient’altro...

C’è un altro aspetto caratteristico delle o m b r e , os s i a d e l l e i m m a g i n i d e l l a


C o m me d i a d i D a n t e , c h e h a c o l p i t o t u t t i g l i i n t e r p r e t i . L e o mb r e d e l l ’ I n f e r n o e
d e l P u rga t o r i o n o n a s s u m o n o s o l o l ’ a s p e t t o c o r p o r e o c h e l e r e n d e s i mi l i ,
nell’aspetto, alle persone viventi che furono un tempo e ora non più. Esse, nella
Commedia dantesca, anche subiscono e patiscono il dolore delle pene infernali,
c o me s e i l o r o f os s e r o c o r p i r e a l m e n t e s e n s i b i l i a l p a r i d i q u e l l i v i v e n t i . M a c o m e
f a n n o l e o mb r e , s e s o n o o mb r e v a n e , a s o ffr i r e c o s ì a t r o c e m e n t e p e r l e p u n i z i o n i
infernali?
D a n t e , n e l c a n t o X X V d e l P u rga t o r i o c e n e d à u n a s p i e g a z i o n e n e i v e r s i 9 1 - 1 0 5 :
E come l'aere, quand'è ben pïorno,
per l'altrui raggio che 'n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
così l'aere vicin quivi si mette
i n q u e l l a f o r ma c h ' è i n l u i s u g g e l l a
96 virtüalmente l'alma che ristette;
e s i mi g l i a n t e p o i a l a f i a m m e l l a
c h e s e g u e i l f o c o l à ' v u n q u e s i mu t a ,
99 segue lo spirto sua forma novella.
P e r ò c h e q u i n d i h a p os c i a s u a p a r u t a ,
è c h i a m a t a o mb r a ; e q u i n d i o rga n a p o i
102 ciascun sentire infino a la veduta.
Q u i n d i p a r l i a mo e q u i n d i r i d i a m n o i ;
q u i n d i f a c c i a m l e l a g r i m e e ' s os p i r i
105 c h e p e r l o mo n t e a v e r s e n t i t i p u o i .
Parafrasi
E c o me l ’ a r i a , q u a n d ’ è b e n p i o v u t o , s i a d o r n a d e i d i v e r s i c o l o r i d e l l ’ i r i d e , a
causa dei raggi del sole che si riflettono in essa,
così l’aria che c’è qui si configura secondo quella forma che è impressa
v i r t u a l me n t e d a l l ’ a n i m a c h e l ì s i è f e r ma t a .
E come la fiamma segue il fuoco ovunque esso divampa, così la nuova forma
segue lo spirito(dell’anima).
P o i c h é d a c i ò e s s a r i c e v e p o i l a s u a v i s i b i l i t à , e s s a è c h i a ma t a o mb r a e d a q u i d à
p o i u n o rga n o a c i a s c u n s e n t i r e , s i n o a q u e l l o d e l l a v i s t a .
I n q u e s t o mo d o n o i p a r l i a mo e r i d i a m o , e e m e t t i a mo l a g r i me e i s os p i r i c h e t u
puoi aver sentito in tutto il monte.

S e c o n d o D a n t e , q u i n d i , l e o mb r e d e l l ’ i n f e r n o e d e l p u rga t o r i o p a t i s c o n o l e p e n e
c o me s e f o s s e r o c o r p i a n c o r a s e n s i b i l i , i n q u a n t o i l l o r o e s s e r e i m ma g i n i d i
p e r s o n e u n t e m p o v i v e c o mp o r t a c h e e s s e a b b i a n o a n c h e u n ’ i m ma g i n e d e l l ’ a n i ma
c h e a v e v a n o u n t e m p o . E c o m e f a n n o a r i c e v e r e t a l e i m m a g i n e d e l l a l o r o a n i ma ?
S e mp r e a t t r a v e r s o u n m e d i u m , c h e p u ò e s s e r e a n c h e l ’ a r i a , c h e h a a v v o l t o l a
p r e s e n z a v i v e n t e d i q u e l l e o mb r e , l a q u a l e a r i a , c o m e u n m e d i u m r i f l e t t e n t e ,
q u a n d o l e p e r s o n e e r a n o i n v i t a a v e v a t r a t t e n u t o i n s é l a f o r ma d e l l a l o r o a n i m a ,
p e r p o i p o t e r l a r i l a s c i a r e e t r a s m e t t e r e a l l e o mb r e q u a l o r a r i a t t r a v e r s i n o l a
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medesima aria. Quando le persone reali conducono la loro vita nell’atmosfera del
m o n d o d e i v i v e n t i s o n o i m me r s e n e l l ’ a r i a . Q u e s t ’ a r i a , f u n g e n d o d a s p e c c h i o e d a
m e d i u m , è c o m e s e t r a t t e n e s s e l a f o r ma d e l l e a n i me c h e l ’ h a n n o a t t r a v e r s a t a , i n
m o d o d a p o t e r s e m p r e r e s t i t u i r e e r i f l e t t e r e q u e s t a f o r ma a d e l l e i m m a g i n i , l e
q u a l i c o n c i ò , l e t t e r a l me n t e s i a n im an o , os s i a a s s u m o n o , d i r i f l e s s o , l a f o r ma
d e l l ’ e s s e r e d o t a t e d i a n i ma e q u i n d i s i a l a c a p a c i t à d i s e n t i r e e s o ffr i r e – c h e è
p r o p r i a , s e c o n d o Ar i s t o t e l e , d e l l a p a r t e s e n s i t i v a d e l l ’ a n i m a – s i a l a c a p a c i t à d i
pensare e parlare, che spetta alla componente razionale dell’anima stessa.
C o s ì l e i m ma g i n i , a t t r a v e r s o i l m e d i u m d e l l ’ a r i a , s i a n i ma n o d i r i f l e s s o e
v e n g o n o a d a c q u i s i r e c a p a c i t à d i p a r o l a e a n c h e d i s o ffe r e n z a , i n mo d o t a l e d a
p a t i r e c o n d o l o r e l e p e n e e t e r n e d e l l ’ i n f e r n o o l e p e n e n o n e t e r n e d e l p u rga t o r i o .

C o me h a r i l e v a t o H a ns B e l t i n g , Wil l i a m H e n r y F o x Tal b o t ( 1 8 0 1 - 1 8 7 7 ) – u n o
degli inventori della fotografia, il quale aveva depositato il brevetto della sua
i n v e n z i o n e a l l a R o ya l S o c i e t y s o l o s e t t e me s i d o p o D a g u e r r e , n e l 1 8 3 9 – e r a
s t a t o i n c e r t o s e c h i a ma r e l a s u a i n v e n z i o n e k a l o t i p i a , o p p u r e p i t t u r a d i om b r a ,
d a t o c h e , c o me s c r i s s e Tal b o t s t e s s o , c o me i n u n a s o r t a d i “ ma g i a n a t u r a l e ” ,
a t t r a v e r s o q u e s t a t e c n i c a , l ’ o m b r a d i u n a t t i m o “ v e n i v a c o n s e r v a t a p e r s e mp r e ” .
In fondo, rileva Belting, la fotografia e poi i l c i n e ma n o n s i l i m i t a n o a
“ c o ns e r v a r e p e r s e mp r e ” l ’ o m b r a – c h e , p e r s u a n a t u r a è e ffi me r a e d i l e g u a n t e –
m a a n c h e l a r e s t i t u i s c o n o c o m e s e f os s e a n i m a t a , i n m o d o t a l e c h e , c o s ì , d e l l e
p u r e o mb r e , d e l l e s e mp l i c i i m m a g i n i s e ns i b i l i , s i p r e s e n t i n o c o m e a n i m a t e e
perciò del tutto simili a cose e persone reali, senza esserlo veramente. Proprio
c o me a c c a d e a l l ’ e s p e r i e n z a d i D a n t e v i a g g i a t o r e e p e l l e g r i n o n e l mo n d o d e l l e
immagini dell’al di là!
D a s o t t o l i n e a r e i l f a t t o c h e è s e mp r e u n me d i u m s p e c i f i c o – n e l c a s o d e l l a
f o t o g r a f i a e d e l c i n e m a u n me d i u m d i c a r a t t e r e t e c n i c o – c h e c o n s e n t e a l l e
i m m a g i n i d i a p p a r i r e c o m e s e f os s e r o “ a n i ma t e ” .
Hans Belting osserva che tale confusione, che ci porta a rapportarci con le
i m m a g i n i c o m e s e f o s s e r o c os e r e a l i , è m o l t o c o m u n e n e l l a d i m e n s i o n e d i
e s i s t e n z a v i r t u a l e d i s c h i u s a d a i n u o v i m e d i a , d o v e s e mb r a i mp e r v e r s a r e s e mp r e d i
più il modello di Narciso, il quale si innamora, addirittura furiosamente, di quella
c h e n o n è a ffa t t o “ c os a s a l d a ” , b e l c o r p o v i v e n t e , ma , c o m e r a c c o n t a O v i d i o n e l
I I I l i b r o d e l l e M e t a m o r f o s i , è s o l o i m a g i n i s um b r a , “ o mb r a d i i m ma g i n e ” ,
p a g a n d o q u e s t ’ e s p e r i e n z a t r a g i c a me n t e , c o n l a mo r t e .
P e r c h é c o n l a m o r t e? P e r c h é s i t r a t t a d i u n’ e s p e r i e n z a i n c o m p a t i b i l e c o n l a v i t a
r a z i o n a l m e n t e v i s s u t a ! O v v e r o c o n l a v i t a d i c o l u i c h e è d o t a t o d i a n i ma
r a z i o n a l e . P e r c h é ? P e r c h é l ’ a n i ma r a z i o n a l e è d o t a t a d i l o g o s e i l l o g o s f u n z i o n a
o ffr e n d o c i c e r t e z z e l o g i c h e c i r c a l ’ i d e n t i t à , l e d i ffe r e n z e , l e o p p o s i z i o n i .
L’a b b a t t i m e n t o d i q u e s t e s t r u t t u r e l o g i c h e e q u i v a l e a l l a c a t a s t r o f e d e l mo n d o
u ma n o - r a z i o n a l e , o v v e r o d i q u e s t o k o s mo s . E c i ò c i f a l e t t e r a l m e n t e a n n e g a r e …
D a n t e s e mb r a s e mp r e s u l p u n t o d i f a r l o – s t a q u i i l s e ns o d e l s u o e s s e r s i p e r s o
n e l l a “ s e l v a os c u r a ” , a v e n d o p e r d u t o l a “ d i r i t t a v i a ” . Tan t ’ è v e r o c h e D a n t e , s e
n o n p u ò a ffi d a r s i c o n t i n u a m e n t e a l l a p a r o l a , h a b i s o g n o d i a l t r e P RO V E .
Q u a l i ? P e r e s e mp i o i l f a t t o c h e m e n t r e l e c o s e s a l d e , a l l a l u c e , p r o i e t t a n o s e m p r e
l a l o r o o mb r a q u a l e l o r o i m m a g i n e - c h e , c o m e i m ma g i n e / o mb r a s e g u e s e m p r e i l
c o r p o v i v e n t e e n o n è m a i s e p a r a b i l e d a e s s o , n é è c o g l i b i l e i n d i p e n d e n t e me n t e d a
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e s s o - l e v a n e o m b r e , i n v e c e , n o n l a s c i a n o o m b r a , p e r c h é s o n o e s s e s t es s e o mb r a
e l e o mb r e n o n p os s o n o l a s c i a r e o mb r a d i s é , i n q u a n t o s o n o p r e s e n z e v a n e .
N e l c a n t o I I I d e l P u rga t o r i o , v v. 1 6 - 1 9 e 2 5 - 2 6 - i l c o r p o d i D a n t e , a p p a r s o a l l a
l u c e , l a s c i a u n ’ o mb r a s u l t e r r e n o , me n t r e q u e l l o d i Virgi l i o “ f a c e a o m br a ” u n
tempo, ma ora non più.
A n c h e D a n t e n e l l a D i v i n a C o m m e d i a v u o l e f a r s i “ p i t t o r e d i o mb r e ” , os s i a , i n u n
certo modo, secondo Belting, fotografo ante litteram!
F e r mo r e s t a n d o i l f a t t o c h e , p e r D a n t e , I C O RP I N O N S O N O M A I I M M A G I N I E
L E I M M A G IN I N O N H A N N O M A I C O RP O .
P e r q u a n t o t a l e d i s t i n z i o n e s i a s e m p r e s u l p u n t o d i v e n i r me n o e s i p r e s t i a d
e s s e r e s e mp r e p r e d a d e l d u b b i o , u n d u b b i o f o n t e d i a n g os c i a .
C h e c o s a i m p l i c a , i n g e n e r a l e , i l f a t t o c h e me n t r e l e o mb r e n o n p o s s o n o l a s c i a r e
u n ’ o mb r a , l e c o s e s a l d e i n v e c e s ì? L a p e r s i s t e n z a d e l mo d e l l o p l a t o n i c o ( s i a p u r e
d i s - o n t o l o g i c i z z a t o ) . L e c os e r e a l i ( p e r P l a t o n e l e I d e e ) h a n n o s e mp r e la
p o s s i b i l i t à d i r i c a v a r e d a s é s t e s s e u n ’ o mb r a , c i o è u n’ i m m a g i n e .
D a l l e c o s e r e a l i p u ò s e mp r e e s s e r e e s t r a t t a , r i c a v a t a , d u p l i c a t a u n ’ i m m a g i n e , d a l
m o me n t o c h e a p p a r t i e n e a l l a n a t u r a d e l l e c o s e s a l d e e d e i c o r p i e o g g e t t i r e a l i
c u s t o d i r e i n s é l a p o s s i b i l i t à d i es s e r e r e p l i c a t i i n i m ma g i n e . S e c o n d o D a n t e e l a
cultura medievale – che si è intrattenuta assai sul tema dello specchio quale
medium dell’immagine – ciò avviene attraverso un medium: la parola, l’aria, la
luce ecc.
I n e ffe t t i , s e n o n c i f o s s e l a l u c e d e l s o l e , n e s s u n c o r p o p o t r e b b e p r o i e t t a r e o mb r a
a l c u n a . S e n o n c i f o s s e l o s p e c c h i o o c o m u n q u e u n a s u p e r f i c i e s p e c c h i a n t e ( c o me
il laghetto di Narciso), nessun corpo e nessun persona potrebbero restituire di sé
alcuna seducente immagine visibile.
E ’ s o l o g r a z i e a d u n me d i u m c h e i c o r p i e l e c o s e s a l d e e r e a l i p o s s o n o l a s c i a r e d i
s é u n ’ i m ma g i n e , l a q u a l e , p e r ò – c o m e c o n f e r m a i l m i t o d i N a r c i s o - è i n c a p a c e
d i e s i s t e r e r e a l me n t e i n q u a n t o t a l e , p e r c h é l a s u a p r e s e n z a , a d i ffe r e n z a d i q u e l l a
d e i c o r p i e d e g l i o g g e t t i , o l t r e c h e M ED I ATA, è a n c h e d i l e g u a n t e , e ffi me r a e d
i n c a t t u r a b i l e . E ’ v a n a , è v a n i t à c h e p a r p e r s o n a , c o me d i c e D a n t e .
Dietro Dante c’è, dunque il fantasma di Platone, ma un Platone ridotto, per
l’appunto, a fantasma, in quanto il suo modello è incapace ormai di fornire
incrollabili certezze. E anche questo è un aspetto vicino alla nostra sensibilità
c o n t e m p o r a n e a , l a q u a l e t e n d e s e mp r e p i ù a c o n f o n d e r e o m e s c o l a r e l e d i me n s i o n i
d e l r e a l e e d e l v i r t u a l e . A p a r t i r e d a l l e p r o d u z i o n i d e i c os i d d e t t i n u o v i m e d i a , t r a
i quali la “vecchia” fotografia continua a svolgere un ruolo ancora fondamentale
q u a l e “ p i t t u r a d i o m bre” .
I n m o d o c h e – s e v o l e s s i mo d a r r a g i o n e a l l e t e o r i e d i B o u r r i a u d – n e l l a n o s t r a
c i v i l t à i n f o r m a t i z z a t a a l i v e l l o g l o b a l e – a n c h e l a d i f f e ren za t r a rea l t à e
im m ag i n e , c h e p e r P l a t o n e e r a as s o l u t am en t e i n c o n t rov e r t i b i l e , o r a è i l
p rod o t t o d i u n a i n f i n i t a n e g o z i a zi o n e t r a m o l t e p l i c i rel a z i o n i p o s s i b i l i .
VI. L’IMMAGINE/MOVIMENTO TRA BERGSON E DELEUZE
1.
Nel suo primo saggio dedicato al Cinema – Cinema 1 – Deleuze applica all’arte cinematografica la
concezione dell’immagine desunta dalla filosofia di Bergson, nonostante Bergson avesse maturato
un’idea negativa sul cinema ritenuto responsabile della produzione di una finzione puramente illusoria
del movimento, che, invece, per la filosofia di Bergson è costitutivo della realtà in quanto tale.
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Deleuze, invece, intende dimostrare che, a dispetto del giudizio di Bergson, il cinema realizza al
massimo grado e nel modo più compiuto la concezione bergsoniana dell’immagine quale immagine-
movimento.
Deleuze si basa, in particolare, sul capolavoro di Bergson L’evoluzione creatrice e sul primo capitolo di
un altro fondamentale libro di Bergson intitolato Materia e memoria.
La tesi fondamentale sostenuta da Bergson in tali testi è che NON ESISTONO COSE MA SOLO
AZIONI, nel senso che la vita non è altro che il perenne pulsare e vibrare di azioni e reazioni, le quali,
nel loro staccarsi dallo sfondo indifferenziato della vita stessa appaiono quali immagini.
Le azioni nelle quali scorre la vita senza soluzione di continuità sono movimento puro e, rispetto a tale
movimento puro, l’immagine non è altro che il movimento stesso nella misura in cui viene ad apparire
come tale, ossia come movimento in moto. L’immagine, quindi, non è altro che il movimento nel suo
venire ad apparire. La natura dell’immagine è cinetismo allo stato puto ed originario, nel senso che
l’immagine è il movimento nella misura in cui esso si mostra in un certo stacco o in un certo ritaglio,
quello stacco e quel ritaglio che appunto gli consente di rendersi apparente, ossia di risaltare quale
qualcosa che appare. Infatti, per Bergson, il movimento in quanto tale, nella sua pura assolutezza, in
quanto flusso continuo, infinito, indeterminato e omnipervasivo non appare mai in quanto tale.
Il movimento in quanto tale è assoluto e l’assoluto anche per Bergson, come già per Hegel, non può
mai apparire nella sua sconfinata e indelimitabile assolutezza.
Tutto ciò che appare si rende evidente solo all’interno di un certo orizzonte, che lo delimita e lo
circoscrive, mentre l’assoluto in quanto tale non ha limiti.
[NOTA Già Aristotele, alle origini della filosofia classica, aveva detto che l’infinito non può mai
apparire in quanto tale, perché appare, si mostra, solo ciò che è finito e de-terminato, ovvero
circoscritto all’interno di un certo orizzonte che gli consente di staccarsi dall’indeterminatezza e
apparire. Lo stesso potrebbe dirsi, per esemplificare, di un suono unico, uniforme ed infinito: esso
sarebbe inudibile. Affinché il suono sia udibile e possa diventare musica percepibile, deve presentare
delle modulazioni, deve intervallarsi, deve cadenzarsi anche ritmicamente…
Hegel, la cui filosofia è una delle più radicali meditazioni sulla divinità dell’’assoluto, a sua volta, nella
modernità, afferma che l’assoluto non potrebbe mai apparire nella piena concretezza della sua
assolutezza. Ma può apparire di volta in volta solo in forma astratta.
Nel linguaggio idealistico-dialettico di Hegel, il concreto, dal latino cumcretum, è l’intero nella infinita
ricchezza dei suoi elementi che si intrecciano tutti saldamente e indissolubilmente assieme.
Ma poiché, come aveva già rilevato Aristotele, l’infinito non può mai apparire come tale, perché ciò
che appare è sempre qualcosa di finito, per Hegel l’Assoluto si mostra sempre e solo astrattamente,
ossia sempre e solo in un sottoinsieme finito dell’infinita ricchezza dei suoi elementi e questo, per
Hege, spiega e giustifica l’esistenza del movimento, del divenire, della variazione e della diversità.
La realtà, insomma, appare in continuo divenire, proprio perché l’assoluto, ovvero il concreto, si
mostra di volta in volta secondo un suo determinato sottoinsieme, il quale ogni volta deve far posto e
lasciare spazio ad altri determinati sottoinsiemi, in maniera tale che sempre qualcosa scompare per far
apparire qualcos’altro dell’assoluto, che è infinito. Ecco perché appare sempre qualcosa di diverso.
Per Hegel, è come se l’assoluto, nella infinita ricchezza dei suoi elementi inseparabili l’uno dall’altro,
nel suo apparire potesse farsi vedere solo attraverso un cerchio finito, il cerchio dell’apparire, in
maniera tale che tutto ciò che dell’assoluto non è ancora apparso – e ci sarà sempre qualcosa che non è
ancora apparso, dato il contenuto infinito dell’assoluto stesso – per apparire dovrà estromettere dal
cerchio ciò che è già apparso e così via all’infinito. Questo spiega perché il mondo appaia sempre
nuovo e diverso.
Bergson, da parte sua si concentra sul movimento della materia. Per Bergson assoluto è il movimento
della vita universale. Anche per Bergson, quindi, esso non appare mai nella sua assolutezza.
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Noi possiamo percepire qualcosa che si muove, ma mai il movimento in quanto tale, solo qualcosa che
si muove e in origine, per Bergson, questo qualcosa che si muove è immagine.
E’ immagine, la quale non è altro che il movimento nella misura in cui esso si rende evidente, si rende
apparente, a partire da un certo stacco.
Per fare un esempio potremmo far riferimento al mare, all’oceano come metafora del movimento
bergsoniano. Il mare si rende evidente nelle sue onde, ma le onde non sono altro rispetto all’acqua del
mare; sono l’acqua stessa del mare che, nel movimento continuo delle sue azioni e reazioni, si increspa
e produce degli stacchi, i quali indicano quanto l’acqua del mare sia mosso. Ma le onde non possono
essere staccate dal mare, in quanto sono il mare stesso. E non possono nemmeno essere staccate l’una
dall’altra, in quanto sono una stessità unica, che appare come una molteplicità effetto di processi
continui di reciproche azioni e reazioni in tempo reale.
Per Bergson, dunque, le immagini sono come le onde del mare, ognuna delle quali agisce su tutte le
altre e reagisce rispetto a tutte le altre incessantemente.
L’infinito insieme di tutte le immagini, per Bergson, non è altro che la materia, ossia la vita materiale,
la materia in movimento. La materia fluente, per Bergson, come precisa Deleuze nella sua ripresa
bergsoniana, è la stessa cosa delle immagini in movimento, così come l’acqua del mare è lo stesso delle
onde in cui si disegna il complesso movimento dell’acqua marina medesima.
In tutto questo, per Bergson – vedi L’evoluzione creatrice – non c’è affatto alcun meccanicismo.
Per Bergson il movimento della materia non è affatto un movimento di tipo meccanicistico, perché, per
avere il meccanicismo, è necessario avere un sistema chiuso e limitato, all’interno del quale ci devono
essere degli oggetti originariamente diversi l’uno dall’altro, i quali entrano in contatto l’uno con l’altro
producendo degli effetti: l’oggetto X urta l’oggetto Y, il quale a sua volta urta l’oggetto Z e così via.
Pensiamo al gioco del biliardo o delle bocce o del bowling – o ad un certo ingranaggio meccanico -
per avere un’idea del meccanicismo.
Ma per Bergson, la vita materiale, cioè la vita in quanto tale dell’universo, non è originariamente un
insieme finito di oggetti diversi, così come l’oceano mare non è la sintesi o la somma delle onde intese
come oggetti determinati, chiusi, rigidi ognuno diverso dall’altro. Le onde sono l’acqua dell’infinito
mare in movimento.
2.
Bergson, come ricorda Deleuze, quando parla delle immagini come delle originarie apparizioni della
materia in movimento, mette in guardia dall’interpretare tali apparizioni come se esse esistessero solo a
partire e in virtù di un occhio che le vede e le guarda.
Noi siamo troppo abituati alla persuasione che c’è qualcosa da vedere solo se, all’esterno di essa, c’è un
occhio che la vede, estraneo e separato rispetto allo spettacolo della visione.
Noi, come denunciò Nietzsche, ne La nascita della tragedia, siamo abituati al fatto che uno spettacolo
c’è solo PER uno spettatore, il quale è altro ed estraneo rispetto allo spettacolo stesso.
Ma nella tragedia attica originaria, secondo Nietzsche, non c’era nessuno spettacolo da vedere da parte
di uno spettatore separato dallo spettacolo, perché la tragedia era un evento collettivo e corale al quale
si poteva solo partecipare attivamente, sia pure in modalità diverse e con diversi ruoli.
E’ con Socrate e con Euripide, che sono contemporanei(V secolo a.C.), che, secondo Nietzsche, la
coralità dell’opera d’arte totale si spezza e si divide in uno spettatore e in uno spettacolo.
A partire da Socrate nasce la figura del filosofo quale contemplatore delle Idee, le quali abitano un
mondo reale esterno, estraneo e trascendente rispetto allo spettatore e, contemporaneamente, con
Euripide la tragedia diventa uno spettacolo teatrale al quale un pubblico può assistere senza partecipare.
Questa nuova prospettiva sarà talmente potente, influente e condizionante che, secondo Nietzsche,
tenderà a dominare completamente la scena sia filosofica che artistica, che religiosa, sino a dar origine,
a partire dal XVII secolo, alla scienza moderna.
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Nel 1600 nasce, infatti, la nuova scienza sperimentale galileiana, quando contemporaneamente la
filosofia risorge dal medioevo attraverso il cosiddetto dualismo cartesiano. Cartesio ri-fonda su nuove
basi moderne e codifica tale atteggiamento appunto dualistico, sostenendo che esistono ab origine due
sostanze diverse che si contrappongono l’una all’altra: da una parte la sostanza pensante(res cogitans) e
dall’altra l’oggettività res extensa, in modo che, potremmo dire, l’universo diventa la scena di uno
spettacolo che prevede l’originaria e insuperabile separazione di guardante(il soggetto depositario del
pensare) e guardato(gli oggetti empirici).
E’ nel ‘900 che iniziano a cambiare le cose. Bergson registra il fatto che la stessa scienza del primo
novecento ha superato tale impostazione tradizionale, sia a livello di teoria della relatività di origine
einsteiniana, sia di fisica quantistica.
Basti dire che, secondo il principio di indeterminazione, che sta alla base della meccanica quantistica, è
impossibile determinare dall’esterno in modo esattamente definitivo il moto di una particella di
materia, perché? Perché l’energia messa in campo dall’osservatore nelle sue osservazioni altera
continuamente e modifica costantemente lo stato di tutto il sistema in cui sono coinvolti osservatore ed
osservato.
Disse Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica, che da un lato non esiste fenomeno se non
in quanto fenomeno osservato, ma dall’altro, contemporaneamente osservatore e osservato
interagiscono all’interno di un sistema che non è mai determinabile una volta per tutte, come se ci fosse
un osservatore esterno neutrale indifferente e distaccato al quale si contrappone separatamente un
oggetto osservato.
A sua volta il fisico Werner Heisenberg, facendo il punto sul “mutamento nelle basi della scienza”
apportate dal principio di indeterminazione scrive nel libro intitolato proprio Mutamenti nelle basi
della scienza:
“Mentre in origine lo scopo di ogni indagine scientifica era quello di descrivere(…)la natura come
essa sarebbe di per sé, vale a dire senza il nostro intervento e senza la nostra osservazione, ora noi
comprendiamo che questo scopo è irraggiungibile. Nella fisica atomica è impossibile astrarre dalle
modificazioni che ogni osservazione produce nell’oggetto osservato”
E il fisico statunitense contemporaneo Fritjof Capra, a sua volta scrive:
“Quando ci si occupa della materia a livello atomico, non si può più operare la separazione
cartesiana tra l’Io e il mondo, tra l’osservatore e l’osservato. Nella fisica atomica, non possiamo mai
parlare della natura, senza parlare, nel contempo, di noi stessi.”
Su questa linea, nella seconda metà degli anni ’70, all’interno della comunità scientifica internazionale
ha cominciato a farsi sempre più strada la proposta di abolire addirittura il termine tradizionale
“osservatore”, per sostituirlo con il termine più adeguato “partecipatore”, facendo presente che esso
opera all’interno di un universo definito esso stesso “partecipatorio”.
Bergson – le cui opere principali si collocano tra gli ultimissimi anni dell’’800 e la prima metà del ‘900,
fu un filosofo molto attento a tali trasformazioni scientifiche, le quali rafforzarono in lui la convinzione
che l’immagine in quanto immagine/movimento non è qualcosa che è tale nella misura in cui appare ad
un occhio esterno ed estraneo ad essa.
Perché l’occhio possibile, nella misura in cui si definisce come tale nel suo guardare, è esso stesso
originariamente immagine e quindi appartiene alla materia stessa che nel suo movimento fa apparire le
immagini stesse. Qualsiasi osservante, dunque, – come dice Deleuze nel suo linguaggio – appartiene al
medesimo piano di immanenza al quale appartengono tutte le immagini possibili.
In tale prospettiva Bergson ripensa anche la distinzione tra immagini e oggetti o corpi.
Tutto deriva dal movimento universale della materia, nel quale la nostra stessa mente non è che una
delle immagini possibili.

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Il movimento della materia, che è assoluto, nel suo dispiegarsi si increspa, come il mare nelle sue onde,
in modo tale che l’azione di tali ripiegamenti su sé stesso lasci apparire delle immagini, le quali
incessantemente emergono, variano, si trasformano senza soluzione di continuità.
Ad un certo punto, coinvolta negli effetti di queste azioni/reazioni o azioni reattive, una di queste
immagini, la mente, cerca di isolare, fissare, determinare e, per così dire, blindare nella loro identità,
alcune delle immagini, costruendo così gli oggetti autonomi e autosufficienti e ottiene tale risultato
attraverso la definizione logica dei significati, di modo che gli oggetti e i concetti, ossia tutti gli oggetti
sia fisico-materiali che immateriali e ideali non sono altro che alienazioni e ipostatizzazioni di
originarie immagini, le quali vengono così a perdere la loro originaria natura.
Originariamente, infatti, le immagini, in quanto immagini/movimento – scrive Deleuze – non hanno
alcuna rigidità né alcuna defintiva individuazione, ma sono come fasci di luce propagantesi, i quali si
distinguono l’uno dall’altro solo nel loro reciproco intervallarsi.
E per Bergson, l’intervallo non è una separazione, non è una divisione, non è affatto ciò che dà luogo
ad una determinata separatezza, in quanto l’intervallo è ciò che unisce distinguendo e distingue unendo,
ovvero è ciò che apre chiudendo e contemporaneamente chiude riaprendo, senza soluzione di
continuità, in un continuum che resta indiviso e indivisibile.
3.
Proprio da qui Deleuze ricava il rapporto diretto tra questa concezione di Bergson e il cinema.
Nel senso che è come se le immagini si distinguessero le une dalle altre solo all’interno di una certa
inquadratura.
La particolare enfasi data dal cinema all’inquadratura, fa sì, secondo Deleuze, che le immagini vengono
ad essere coinvolte ina sorta di doppio sistema:
1)un primo sistema nel quale ogni immagine varia incessantemente in quanto tutte le immagini
agiscono e reagiscono le une rispetto alle altre nel movimento universale della materia vivente;
2)un secondo sistema, più evidente, nel quale a partire dal fatto che un’immagine, secondo una certa
inquadratura, balza in primo piano, tutte le altre immagini reagiscono anche tutte in funzione di essa e
in relazione ad essa in particolare.
Secondo Bergson il nostro cervello mette in risalto questo secondo sistema, dal momento che è
quell’immagine privilegiata, rispetto alla quale tutte le altre immagini acquistano un certo senso, che
organizza e dispone la nostra prospettiva, la prospettiva della nostra visione.
Il cosiddetto secondo sistema, però, non va mai isolato né separato rispetto al primo, anche se il
razionalismo logico tende proprio a fare questo ed in ciò diventa responsabile dell’esistenza di un
mondo di oggetti caratterizzato dal meccanicismo.
Il cinema, operando tecnicamente sul secondo sistema, coinvolge e asseconda anche il primo. Lo lascia
agire. Perciò, il cinema, secondo Deleuze, lavora con le immagini, elaborandole attraverso le
inquadrature, ma in maniera tale da far sì che il doppio sistema non si separi. Come avviene nella vita
stessa concretamente intesa!
E’ proprio per questo che il cinema, come diceva lo stesso Bergson e come hanno detto molti altri ci dà
l’illusione della realtà. Eppure, per Deleuze, la parola “illusione” è troppo forte, in quanto secondo
Deleuze, il cinema cerca di restituire lo stesso rendersi visibile reale del movimento vitale medesimo.

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