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Traduzione

dall’inglese di Angela Balzano


© 2014 DeriveApprodi srl
per la traduzione italiana
I edizione: gennaio 2014

© 2013 Polity Press
Titolo originale: The Posthuman

DeriveApprodi srl
piazza Regina Margherita 27
00198 Roma
tel 06 85358977 fax 06 97251992

info@deriveapprodi.org
www.deriveapprodi.org

Progetto grafico di Andrea Wöhr
In copertina: Maurizio Cannavacciuolo

L’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto sull’immagine
di copertina
ISBN: 978-88-6548-086-1
Voglio ringraziare il mio editore John Thompson per avermi suggerito di iniziare
a scrivere questo libro. Sono fiera di essere da tempo un’autrice della casa
editrice Polity Press. Alla mia traduttrice Angela Balzano va tutta la mia
riconoscenza per il suo splendido lavoro. I miei sinceri ringraziamenti vanno
anche a Jennifer Jahn per i suoi consigli e il suo sostegno. Mi hanno giovato
parecchio le conversazioni con i miei colleghi del gruppo CHCI (Consorzio dei
centri e degli istituiti delle scienze umane) e del ECHIC (Consorzio Europeo dei
centri e degli istituiti delle scienze umane). Henrietta Moore e Claire Colebrook,
Peter Galison e Paul Gilroy si sono dimostrati formidabili lettori e li ringrazio
per i loro commenti critici. La mia assistente alla ricerca Goda Klumbyte mi ha
aiutata tanto soprattutto nel lavoro bibliografico. Tutta la mia gratitudine va a
Nori Spauvem e Bollette Blaagard per le loro intuizioni. I miei ringraziamenti
anche a Stephanie Paalvast per l’assistenza critica ed editoriale. Ad Anneke, che
e stata al mio fianco, mi ha aiutata nella revisione e supportata come sempre
durante tutto il processo di scrittura, va tutto il mio amore.
Introduzione

Non tutti noi possiamo sostenere, con un alto grado di sicurezza, che siamo
sempre stati umani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo. Alcuni di
noi non sono considerati completamente umani ora, figuriamoci nelle precedenti
epoche della storia occidentale sociale, politica e scientifica. Non se per
«umano» intendiamo quella creatura che ci è diventata tanto familiare a partire
dall’illuminismo e dalla sua eredità: il soggetto Cartesiano del cogito, la kantiana
comunità di esseri razionali o, in termini più sociologici, il soggetto-cittadino,
titolare di diritti, proprietario, ecc. (Wolfe, 2010a). E tuttavia questo termine
gode di ampio consenso e conserva la rassicurante familiarità del luogo comune.
Affermiamo il nostro attaccamento alla specie come se fosse un dato di fatto, un
presupposto. Fino al punto di costruire attorno all’umano la nozione
fondamentale di diritto. Ma stanno davvero così le cose?
Mentre, oggi sempre più spesso, le forze sociali conservatrici e religiose si
adoperano per re-inscrivere l’umano all’interno dei paradigmi della legge
naturale, il concetto stesso di umano è esploso sotto la doppia pressione degli
odierni progressi scientifici e degli interessi dell’economia globale. Dopo la
condizione postmoderna, post-coloniale, postindustriale, post-comunista, persino
dopo la contestata condizione post-femminista, ci troviamo oggi a vivere la
difficile situazione postumana. La condizione postumana, lungi dal costituire
l’ennesima variazione n in una sequenza di prefissi che può sembrare infinita e
arbitraria, apporta una significativa svolta al nostro modo di concettualizzare la
caratteristica fondamentale di riferimento comune per la nostra specie, la nostra
politica e la nostra relazione con gli altri abitanti del pianeta. Questa questione
solleva una serie di domande intorno alla struttura stessa delle nostre identità
condivise - in quanto umani - colta nel bel mezzo della complessità delle scienze
attuali, delle relazioni politiche e internazionali. Non umano, inumano,
antiumano sono oggi al centro di molti discorsi e molte rappresentazioni, mentre
disumano e postumano proliferano e si sovrappongono nel contesto delle società
globalizzate e tecnologicamente guidate.
I discorsi della cultura mainstream spaziano dalle ostinate discussioni
economiche sui robot, le protesi tecnologiche, le neuroscienze e i capitali
biogenetici, fino alle più confuse visioni new age del transumanismo e della
tecnotrascendenza. Il potenziamento umano è il punto centrale di queste
discussioni. Nella cultura accademica, d’altro canto, il postumano è,
alternativamente, celebrato come nuova frontiera per la teoria critica e culturale,
o respinto come l’ultima moda nella serie dei noiosi post. Il postumano suscita
entusiasmo e ansia allo stesso tempo (Habermas 2010) rispetto alla possibilità di
un serio decentramento dell’Uomo, misura prima di tutte le cose. Vi è una
diffusa preoccupazione circa la perdita di importanza e supremazia che sta
interessando la visione dominante del soggetto umano, e il campo di studi a esso
attiguo, ovvero le scienze umane.
Dal mio punto di vista, il comune denominatore della condizione postumana
è l’ipotesi secondo la quale la struttura della materia vivente è in sé vitale,
capace di autorganizzazione e al contempo non-naturalistica. Questo continuum
natura-cultura è il punto di partenza per il mio viaggio nella teoria postumana.
Rimane, tuttavia, da capire se questa ipotesi post-naturalistica, alla fine, si limiti
a concludersi nelle sperimentazioni ludiche intorno ai limiti della perfettibilità
del corpo, nel panico morale per la scomparsa di credenze vecchie di secoli circa
la «natura» umana o nella caccia orientata al profitto dei capitali neurogenetici.
In questo libro cercherò di esaminare tali approcci e di confrontarmici
criticamente, sostenendo al contempo le mie argomentazioni a favore della
soggettività postumana.
A che cosa si riferisce questo continuum natura-cultura? Esso evidenzia un
paradigma scientifico che prende le distanze dall’approccio socio-costruttivista,
che ha goduto di largo consenso. Un approccio che postula una distinzione
categorica tra il dato (la natura) e il costruito (la cultura). Questa distinzione
rende maggiormente pregnante l’analisi sociale e fornisce solide basi per lo
studio e la critica dei meccanismi sociali che supportano la costruzione delle
identità-chiave, delle istituzioni e delle pratiche. Nelle politiche progressiste, i
metodi del costruttivismo sociale sostengono i tentativi di denaturalizzare le
differenze sociali e di mostrare così la loro struttura contingente e storicamente
determinata dall’uomo. Basti pensare agli effetti rivoluzionari che, su scala
mondiale, ha avuto la frase di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, si
diventa». Tale comprensione delle ingiustizie sociali, colte all’interno di una
natura determinata socialmente e variabile storicamente, apre la strada al
progetto umano di risolverle tramite politiche sociali e attivismo.
La mia tesi è che questo approccio, che si attesta sull’opposizione binaria tra
il dato e il costruito, sia progressivamente sostituito dalla teoria non dualista
dell’interazione tra natura e cultura. Dal mio punto di vista quest’ultimo
approccio è legato e supportato dalla tradizione filosofica monista, che rifiuta i
dualismi, specialmente l’opposizione natura-cultura, e si concentra piuttosto
sulla forza autopoietica della materia vivente. I confini tra le categorie del
naturale e del culturale sono stati spostati e, in larga misura, sfumati dagli effetti
degli sviluppi scientifici e tecnologici. Questo libro prende le mosse dall’ipotesi
che la teoria sociale necessiti di fare il punto sulla trasformazione dei concetti,
dei metodi e delle pratiche politiche, causata da tale cambiamento di paradigma.
Di converso, la domanda circa che tipo di analisi politica, e che tipo di politica
progressista, sia sostenuta dall’approccio basato sul continuum natura-cultura,
risulta centrale nell’agenda della situazione postumana.
Gli interrogativi principali che voglio sollevare in questo libro sono: in primo
luogo, cos’è il postumano? E in modo più specifico, quali sono gli itinerari
intellettuali e storici che possono condurci al postumano? In secondo luogo:
dove la condizione postumana si separa da quella umana? E in modo più
specifico: quali nuove forme di soggettività si addicono al postumano? In terzo
luogo: in che modo il postumano produce le sue specifiche forme di inumano?
Ovvero: come possiamo resistere agli aspetti inumani della nostra era? Infine:
quali sono le conseguenze che il postumano ha sulle scienze umane oggigiorno?
Ovvero: qual è la funzione della teoria ai tempi del postumano?
Questo libro cavalca l’onda della simultanea fascinazione per la condizione
postumana come aspetto cruciale della nostra storicità, ma anche della
preoccupazione per le sue aberrazioni, per i suoi abusi di potere e per la
sostenibilità di alcune sue premesse fondamentali. In parte la fascinazione è
legata a quello che io credo sia il compito delle teorie critiche nel mondo attuale,
ossia quello di fornire adeguate rappresentazioni delle nostre collocazioni
storiche e situate. Questo in sé modesto intento cartografico, connesso all’ideale
della produzione di un sapere socialmente utile, si trasforma nella più ambiziosa
e astratta questione dello statuto e del valore della teoria stessa.
Numerosi critici culturali hanno commentato l’ambivalente natura del
malessere posteoretico che ha colpito le contemporanee scienze umane e sociali.
Ad esempio, Tom Cohen, Claire Colebrook e J. Hillis Miller (2012) hanno
evidenziato il lato positivo di questa fase posteoretica, soprattutto il fatto che
essa registra effettivamente sia le nuove opportunità che i pericoli provenienti
dalle scienze attuali. I lati negativi, sorprendentemente, consistono proprio nelle
carenze di schemi critici adatti ad analizzare il presente.
Io ritengo che la svolta antiteoretica sia legata agli eventi che hanno scosso il
contesto ideologico. Dopo la fine ufficiale della Guerra fredda, i movimenti
politici della seconda metà del XX secolo sono stati marginalizzati e i loro sforzi
teoretici sono stati banditi in quanto ritenuti esperimenti storici fallimentari. La
nuova ideologia dell’economia del libero mercato ha eliminato tutte le
opposizioni, nonostante le massicce proteste di diversi settori della società,
imponendo l’antintellettualismo come caratteristica saliente dei nostri tempi.
Questo è un duro colpo soprattutto per le scienze umane, in quanto penalizza la
sottigliezza dell’analisi, chiamata a prestare indebita fedeltà al senso comune - la
tirannia dell’opinione - e al profitto economico - la banalità dell’interesse
individuale. In questo contesto, la teoria ha perso valore ed è stata spesso
screditata come una sorta di fantasia o di narcisistico autocompiacimento. Di
conseguenza, la versione superficiale del neo-empirismo - spesso coincidente
con la mera raccolta di dati - è diventata la norma metodologica della ricerca
nelle scienze umane.
La questione del metodo merita una seria riflessione: dopo la caduta ufficiale
delle ideologie, alla luce dei progressi delle scienze neuronali, evoluzionistiche e
biogenetiche, possiamo interpretare le capacità dell’analisi teoretica allo stesso
modo che alla fine della Seconda guerra mondiale? La situazione postumana si
spiega solo con l’atteggiamento posteoretico?
Ad esempio, Bruno Latour (2004) - non esattamente un umanista classico,
come si evince dal suo lavoro sulla produzione di sapere attraverso reti di attori
umani e non umani, cose e oggetti - ha di recente commentato la tradizione di
teoria critica e i suoi legami con l’umanesimo europeo. Il pensiero critico si
fonda sul paradigma socio-costruttivista che dichiara implicitamente la sua fede
nella teoria come mezzo per interpretare e rappresentare la realtà, ma tale fede è
ancora oggi legittima? Latour ha sollevato seri dubbi rispetto alla funzione
attuale della teoria.
È innegabile che vi sia un lato oscuro nella condizione postumana,
specialmente a proposito delle genealogie del pensiero critico. È come se, dopo
la magnifica esplosione di creatività degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo,
fossimo entrati in un monotono orizzonte pietrificato, privo di differenze e
caratterizzato da un persistente senso di melanconia. Una dimensione spettrale si
è infiltrata nei nostri schemi di pensiero, amplificata dai concetti, tipici della
destra politica, della fine del tempo delle ideologie (Fukuyama 1989) e della
inevitabilità delle crociate civilizzatrici (Huntington 1996).
Sul versante della sinistra politica, invece, il rifiuto della teoria ha condotto
all’onda di risentimento e di pensiero negativo rispetto alle generazioni
intellettuali precedenti. In questo contesto di malessere teorico, intellettuali neo-
comunisti (Badiou e Žižek, 2009) hanno sostenuto l’impellenza di ritornare
all’azione politica concreta, persino all’antagonismo violento se necessario,
piuttosto che insistere con altre speculazioni teoretiche. E hanno così contribuito
a rendere obsolete le teorie filosofiche post-strutturaliste.
In risposta a questo generale clima sociale negativo, io vorrei rivolgermi alla
teoria postumana intendendola sia come strumento genealogico che come
bussola per la navigazione. Il postumano è un termine utile per indagare i nuovi
modi d’impegnarsi attivamente nel presente, ragionando su alcuni suoi aspetti in
modo empiricamente fondato ma non riduttivo, critico ma non nichilista. Mio
intento è quello di mappare alcune delle strade attraverso le quali il postumano
sta circolando come termine dominante nelle nostre società globalmente
connesse e tecnologicamente mediate. Più precisamente, la teoria postumana è
uno strumento produttivo capace di sostenere quel processo di ripensamento
dell’unità fondamentale, riferimento comune dell’umano, in quest’età
biogenetica nota come antropocene, momento storico in cui l’umano è diventato
una forza geologica in grado di influenzare la vita su tutto il pianeta. Per
estensione, esso può anche aiutarci a ripensare i principi fondamentali della
nostra interazione con altri agenti umani e non umani su scala planetaria.
Lasciatemi dare spazio a qualche esempio delle contraddizioni frutto della
nostra condizione storica postumana.

Vignetta 1
Nel novembre 2007 Pekka-Eric Auvinen, un ragazzo finlandese di diciotto anni,
spara ai suoi compagni di classe in una scuola superiore vicino Helsinki,
uccidendo otto persone prima di colpire se stesso. Prima del massacro, il giovane
omicida aveva postato un video su youtube, in cui si ritraeva mentre indossava
una t-shirt con la scritta «l’umanità è sopravvalutata».

Che l’umanità versi in condizioni critiche - qualcuno direbbe addirittura
prossime all’estinzione - è un affermazione ricorrente della filosofia Europea,
almeno da quando Friedrich Nietzsche ha dichiarato la morte di dio e dell’idea di
Uomo che a esso si articolava. Quest’altisonante affermazione serviva a
raggiungere un più modesto obiettivo. Quello che Nietzsche asseriva era la fine
dello statuto di autoevidenza attribuito alla natura umana, la fine del senso
comune e della fede nella stabilità metafisica e nella validità universale del
soggetto umanistico europeo. La genealogia nietzschiana mette in rilievo
l’importanza dell’interpretazione rispetto al dogmatico adempimento delle leggi
e dei valori naturali. Almeno da allora, dunque, i punti principali della agenda
filosofica sono stati: in primo luogo, come sviluppare un pensiero critico dopo la
sorprendente presa di consapevolezza dell’incertezza ontologica, e, in secondo
luogo, come ricostituire un senso di comunità tenuta insieme da affinità e
responsabilità etica, senza incorrere nelle passioni negative del dubbio e del
sospetto.
Come si evince dall’episodio finlandese, tuttavia, l’antiumanesimo filosofico
non dev’essere confuso con la misantropia cinica e nichilista. L’umanità
potrebbe essere stata sopravvalutata, ma da quando essa ha raggiunto la cifra di
otto miliardi, ogni discorso sull’estinzione sembra completamente fuori luogo.
Al contempo, la questione della sostenibilità ecologica e sociale è in cima ai
programmi governamentali di tutto il mondo, alla luce della crisi ambientale e
del cambiamento climatico. Ebbene, l’interrogativo formulato da Bertrand
Russell nel 1963, al culmine della Guerra fredda e del confronto nucleare, suona
oggi più appropriato che mai: l’uomo ha davvero un futuro? La scelta tra la
sostenibilità e l’estinzione è davvero l’unica che vediamo all’orizzonte del nostro
futuro comune, o vi sono per noi altre opzioni disponibili?
Il problema dei limiti dell’umanesimo e delle critiche antiumaniste è a ogni
modo centrale per il dibattito sulla situazione postumana, e per questo motivo vi
dedicherò il primo capitolo.

Vignetta 2
Il giornale «The Guardian» ha riportato la notizia che nei paesi attraversati da
guerre, come l’Afghanistan, la gente è stata costretta a nutrirsi di erba per
sopravvivere. Nello stesso momento storico, le mucche della Gran Bretagna e di
altri paesi dell’Unione Europea venivano alimentate con foraggi a base di carne.
Il settore dell’agricoltura biotecnologica dei paesi ipersviluppati è caratterizzato
da una inaspettata tendenza al cannibalismo, dal momento che fa ingrassare
mucche, pecore e polli con mangime a base animale. Questa scelta è stata poi
ritenuta la principale causa della malattia letale detta encefalopatia spongiforme
bovina (Bse), comunemente chiamata «mucca pazza», che consiste nella
degenerazione della struttura celebrale animale, ridotta in poltiglia. La follia va
qui, tuttavia, rintracciata decisamente nell’azione degli uomini e delle loro
industrie biotecnologiche.
Il capitalismo avanzato e le sue tecnologie biogenetiche generano una forma
perversa di postumano. Il nocciolo di tale capitalismo consiste nella radicale
recisione di ogni interazione umana e animale, dal momento che tutte le specie
viventi sono catturate negli ingranaggi dell’economia globale. Il codice genetico
della materia vivente - la vita in sé (Rose 2008) - è il capitale fondamentale. La
globalizzazione comporta la commercializzazione del pianeta terra in tutte le sue
forme, attraverso una serie di mezzi di appropriazione interconnessi. Secondo la
Haraway, essi consistono nella proliferazione degli apparati tecno-militari e dei
micro-conflitti su scala globale; nella accumulazione ipercapitalista della
ricchezza; nella conversione dell’ecosistema nell’apparato mondiale di
produzione, e nell’apparato di info-intrattenimento globale del nuovo contesto
multimediale.
Il fenomeno della pecora Dolly rappresenta al meglio le complicazioni
prodotte dalla struttura biogenetica delle attuali tecnologie e dai loro supporter
sul mercato azionario. Gli animali forniscono materiale vivente per gli
esperimenti scientifici. Essi sono manipolati, maltrattati, torturati, geneticamente
ricombinati, di modo tale da risultare produttivi per la nostra agricoltura
biotecnologica, per l’industria cosmetica, farmaceutica e chimica, per interi
settori economici. Gli animali sono addirittura svenduti come prodotti esotici e
costituiscono oggi il terzo più grande mercato illegale del mondo, dopo droga e
armi, prima delle donne.
Topi, pecore, capre, bovini, suini, uccelli, pollame, gatti sono allevati in
fattorie industriali, richiusi in gabbie e divisi in batterie per unità di produzione.
Come George Orwell aveva scritto profeticamente, tuttavia, tutti gli animali
potrebbero essere uguali, ma alcuni sono decisamente più uguali degli altri. Così,
essendo parte integrante del complesso industriale biotecnologico, il bestiame
dell’Unione Europea riceve un sussidio, pari alla somma di 803 dollari per
mucca. Cifra considerevolmente inferiore a quella garantita a ogni mucca
americana, pari a 1,057 dollari, o a ogni mucca giapponese, pari a 2,555 dollari.
Queste somme sembrano ancora più infelici se paragonate al reddito nazionale
lordo pro capite di paesi come l’Etiopia (120 dollari), il Bangladesh (360
dollari), l’Angola (660) o l’Honduras (920)1.
La controparte di questa mercificazione globale degli organismi viventi è che
gli animali stessi vivono un processo di umanizzazione. Nell’ambito della
bioetica, per esempio, la questione dei «diritti umani» degli animali è stata posta
proprio come mezzo per problematizzare questi eccessi. La difesa dei diritti
degli animali è una questione politica scottante in molte democrazie liberali.
Questa commistione di investimenti e abusi costituisce proprio la condizione
postumana paradossale generata dal capitalismo avanzato stesso, che innesca al
contempo molteplici forme di resistenza. Discuterò approfonditamente la nuova
prospettiva post-antropocentrica sugli animali nel capitolo secondo.

Vignetta 3
Il 10 ottobre 2013, Muammar Gaddafi, ex leader della Libia, viene catturato nel
suo paese di origine Sirte, percosso e ucciso dai membri del Consiglio nazionale
di transizione libico. Prima che gli fosse sparato dalle forze dei ribelli, il
convoglio del colonnello Gaddafi era comunque stato bombardato da jet francesi
e dal drone americano Predator, che aveva preso il volo dalla base americana
aerea in Sicilia ma che veniva controllato via satellite da una base situata a Las
Vegas2.
Dal momento che l’attenzione mediatica si è concentrata sulla brutalità
dell’effettiva sparatoria e sull’indignazione per l’immagine globale che espose il
corpo ferito e sanguinante di Gaddafi, minore spazio è stato dedicato all’aspetto
postumano del warfare contemporaneo: le macchine tele-tanatologiche prodotte
dalla nostre stesse tecnologie avanzate. L’atrocità della fine di Gaddafi,
nonostante il suo tirannico dispotismo, è sufficiente a farci avvertire la vergogna
di essere umani. La negazione del ruolo giocato dalle sofisticate tecnologie della
morte del mondo avanzato, tuttavia, aggiunge uno strato ulteriore di sconforto
morale e politico.
La situazione postumana è caratterizzata da una quota significativa di
momenti inumani. La brutalità delle nuove guerre, nel mondo globalizzato
guidato dalla gestione della paura, non rimanda solo al controllo della vita, ma
anche alle diverse pratiche della morte, soprattutto nei paesi in fase di
transizione. Biopolitica e tanatopolitica sono due facce della stessa medaglia,
come Mbembe (2003) ha brillantemente mostrato. Il mondo dopo la Guerra
fredda ha assistito non solo a una drammatica crescita del warfare, ma anche a
una profonda trasformazione delle stesse pratiche belliche in direzione di una più
complessa gestione di fenomeni quali la sopravvivenza e l’estinzione. Le attuali
tecnologie di morte sono postumane a causa della forte mediazione tecnologica
attraverso la quale operano. L’operatore digitale che guidava il drone americano
Predator da una sala computer di Las Vegas può essere considerato un pilota? In
che cosa è diverso dagli uomini delle Forze aeree che condussero l’aereo Enola
Gay su Hiroshima e Nagasaki? Le guerre contemporanee hanno intensificato il
potere della necropolitica fino a fargli comprendere un nuovo livello di
amministrazione «della distruzione materiale dei corpi umani e della
popolazione» (Mbembe 2003, 19). Non solo umana.
Le recenti necrotecnologie agiscono in un clima sociale dominato da un lato
dall’economia politica della nostalgia e della paranoia, dall’altro dall’euforia e
dall’entusiasmo. Questa condizione maniaco-depressiva presenta una serie di
variazioni: dalla paura del disastro imminente, la catastrofe che attende di
realizzarsi, all’uragano Katrina, fino al successivo disastro ambientale. Un aereo
che vola troppo raso terra, le mutazioni genetiche e la fine dell’immunità:
l’incidente è lì, sta per compiersi, è virtualmente una certezza; è solo una
questione di tempo (Massumi, 1992). Come risultato di questo stato di
insicurezza, l’obiettivo imposto socialmente non è il cambiamento, bensì la
conservazione o la sopravvivenza. Ritornerò su questi aspetti della necropolitica
nel capitolo 3.

Vignetta 4
Un paio di anni fa, durante un incontro scientifico promosso dalla olandese
Accademia regale delle scienze, circa il futuro dell’umanesimo accademico, un
professore di scienze cognitive attaccava frontalmente le scienze umane. Il suo
attacco si basava sulla sua convinzione rispetto ai due maggiori difetti delle
scienze umane: il loro intrinseco antropocentrismo e il loro nazionalismo
metodologico. L’illustre ricercatore dimostrò che tali difetti erano stati letali per
il loro stesso campo, che veniva ritenuto inadatto per la scienza contemporanea e
pertanto non eleggibile al supporto finanziario dei ministeri competenti o del
governo.
La crisi dell’umano, la sua successiva ricaduta nel postumano, ha avuto
effetti tragici per l’ambito accademico più intimamente legato a esso, ovvero per
le scienze umane. Nel clima sociale neoliberale della maggioranza delle
democrazie attuali, gli studi umanisti sono stati declassati al rango di scienze
soft, ritenuti materia da approfondire nel tempo libero alla fine della scuola.
Considerate più una passione personale che un campo di ricerca professionale, le
scienze umane stanno correndo il serio pericolo di scomparire dal curriculum
universitario europeo del Ventunesimo secolo.
Un’altra ragione del mio impegno nei confronti dell’argomento del
postumano può essere, quindi, rintracciata nella profonda funzione di
responsabilità civica che attribuisco al ruolo dell’intellettuale accademico dei
nostri giorni. Un pensatore delle scienze umane, figura nota come intellettuale,
oggi corre il rischio di non sapere che ruolo giocare negli scenari pubblici e
sociali. Mi si potrebbe criticare sostenendo che il mio interesse per il postumano
proviene da una preoccupazione troppo umana circa il tipo di saperi e di valori
intellettuali che stiamo attualmente producendo come società. Con maggior
precisione, mi preoccupa lo stato in cui versa oggi la ricerca universitaria,
all’interno di quanto ancora chiamiamo, in mancanza di un’espressione più
adatta, scienze umane. Svilupperò le mie idee sull’università attuale nel quarto
capitolo.
Questo senso di responsabilità esprime inoltre un’abitudine del pensiero che
è cara al mio cuore e alla mia mente, poiché appartengo a quella generazione che
aveva un sogno. Esso era ed è ancora il sogno di costituire reali comunità di
apprendimento: scuole, università, libri, riviste e giornali, curricula, dibattiti,
teatri, televisione, radio e programmi multimediali - e successivamente siti
internet e network online - che somigliano alla società che rappresentano, che
servono e che contribuiscono a sviluppare. È il sogno della creazione di un
sapere importante dal punto di vista sociale, in sintonia con i principi
fondamentali della giustizia sociale, del rispetto della dignità umana e della
diversità, del rifiuto del falso universalismo; il sogno dell’affermazione della
positività delle differenze; dei principi della libertà accademica,
dell’antirazzismo, dell’apertura all’altro da sé, della cooperazione. Nonostante io
sia propensa a un certo antiumanesimo, non ho alcuna difficoltà ad ammettere
che questi ideali sono perfettamente compatibili con la filosofia di valori
umanisti. Questo libro non vuole essere uno schieramento in una disputa
accademica, mira piuttosto a tentare di spiegare la complessità in cui siamo
immersi. Proporrò, perciò, nuovi modi di combinare critica e creatività, ponendo
l’accento sull’importanza dell’attivismo, muovendomi alla ricerca di una
rappresentazione dell’umanità postumana all’altezza dell’era globale.
Il sapere postumano - e i soggetti che ne sono i portatori - sono caratterizzati
da una aspirazione di fondo verso i principi che tengono unita la comunità, e
tentano pertanto di evitare le trappole della nostalgia conservatrice e dell’euforia
neoliberale. Questo libro prende le mosse dalla mia convinzione che le nuove
generazioni di soggetti conoscenti affermino un tipo costruttivo di panumanità,
impegnandosi a pieno per liberarci dal provincialismo della mente, dal
settarismo delle ideologie, dalla disonestà e dalla paura. Questa aspirazione,
inoltre, nutre la mia convinzione rispetto a cosa, oggi, un’università dovrebbe
essere - un universum, al servizio del mondo attuale, non solo luogo
epistemologico di produzione del sapere scientifico, ma anche luogo del
desiderio di apprendere ai fini del miglioramento che scaturisce dalla conoscenza
e che sostiene la nostra soggettività. Mi piace descrivere questo desiderio come
radicale aspirazione alla libertà, che passa per la comprensione delle specifiche
condizioni e delle relazioni di potere immanenti alle nostre collocazioni storiche.
Queste condizioni includono il potere che ognuno di noi esercita nella sua
quotidiana rete di relazioni sociali, sia al livello della micro che della macro-
politica.
In qualche modo, il mio interesse per il postumano è direttamente
proporzionale al senso di frustrazione che avverto nei confronti delle risorse e
dei limiti umani, tutti troppo umani, che caratterizzano il nostro livello personale
e collettivo di potenza e creatività. Ecco perché la questione della soggettività
assume tanto rilievo in questo libro: abbiamo bisogno di progettare nuovi schemi
sociali, etici e discorsivi della formazione del soggetto per affrontare i profondi
cambiamenti cui andiamo incontro. Questo implica che abbiamo bisogno di
imparare a pensare in modo diverso a noi stessi. La condizione postumana è
allora un’opportunità per incentivare la ricerca di schemi di pensiero, di sapere e
di autorappresentazione alternativi a quelli dominanti. La condizione postumana
ci chiama urgentemente a ripensare, in modo critico e creativo, chi e cosa stiamo
diventando in questo processo di metamorfosi.
Capitolo 1

Postumanesimo
La vita oltre l’individuo

All’inizio di tutto vi è Lui: l’ideale classico dell’Uomo, individuato dapprima
da Protagora come «la misura di tutte le cose», poi innalzato dal Rinascimento
italiano a livello di modello universale, rappresentato da Leonardo da Vinci
nell’Uomo Vitruviano (vedi figura). Un’ideale di perfezione corporea che, in
linea con il detto classico mens sana in corpore sano, evolve verso una serie di
valori intellettuali, discorsivi e spirituali. Insieme, fondano una precisa
concezione di cosa dell’umanità sia umano. Inoltre, asseriscono con incrollabile
sicurezza la pressoché sconfinata capacità umana di perseguire la perfezione
individuale e collettiva. Quell’immagine iconica è il simbolo della dottrina
dell’Umanesimo, che interpreta il potenziamento delle capacità umane
biologiche, razionali e morali alla luce del concetto di progresso razionale,
orientato teleologicamente. La fede nei poteri unici, autoregolatori e
intrinsecamente morali della ragione umana rappresenta parte integrante di
questa dottrina ultra-umanista, diffusasi soprattutto nel XVIII e XIX secolo
tramite le reinterpretazioni dell’antichità classica e degli ideali del Rinascimento
italiano.
Questo modello fissa gli standard non solo degli individui, ma anche delle
loro culture. L’umanesimo si è sviluppato storicamente come un modello di
civilizzazione che ha plasmato un’idea di Europa coincidente con i poteri
universalizzanti della ragione autoriflessiva. La trasformazione dell’ideale
umanistico nel modello culturale egemonico è stata poi canonizzata dalla
filosofia della storia di Hegel. Questa prospettiva autocompiacente sostiene che
l’Europa non è una collocazione geopolitica, bensì un attributo universale della
mente umana che può prestare le sue qualità a ogni oggetto appropriato.

Figura 1. L’Uomo Vitruviano, Leonardo Da Vinci, 1492.


Questa è la concezione espressa da Edmund Husserl (1970) nel suo famoso
saggio La crisi delle scienze europee, che costituisce un’appassionata difesa dei
poteri universali della ragione contro il declino morale e intellettuale
simbolizzato dall’ascesa del fascismo europeo del 1930. Secondo Husserl,
l’Europa presenta se stessa come il luogo di origine della ragione critica e
autoriflessiva, qualità che rimandano entrambe alla norma umanista. Uguale solo
a se stessa, l’Europa trascende la propria specificità in quanto coscienza
universale, o, piuttosto, presenta il potere della trascendenza come sua
caratteristica distintiva e l’universalismo umanistico come la sua peculiarità.
Questo fa dell’eurocentrismo qualcosa in più di una questione di atteggiamento
contingente: si tratta di un elemento strutturale della nostra pratica culturale,
radicato persino tanto nelle teorie che nelle pratiche istituzionali pedagogiche.
Come ideale di civilizzazione, l’umanesimo ha alimentato «i destini imperiali
della Germania del XIX secolo, della Francia, e soprattutto della Gran Bretagna»
(Davies 1997, 23).
Questo paradigma eurocentrico implica la dialettica tra il sé e l’altro, nonché
la logica binaria dell’identità e dell’alterità, in qualità di motori della logica
culturale dell’Umanesimo universale. Centrale per questo atteggiamento
universalista e per la sua logica binaria è la nozione di differenza, intesa in senso
peggiorativo. Il soggetto equivale alla coscienza, alla razionalità universale, al
comportamento etico autodisciplinante, mentre l’alterità è definita come la sua
controparte negativa e speculare. Eppure quando la parola differenza significa
inferiorità, essa assume connotazioni essenzialiste e letali dal punto di vista delle
persone marcate come «altre». Essi sono gli altri sessualizzati, razzializzati e
naturalizzati, ridotti allo stato non umano di corpi usa e getta. Siamo tutti umani,
solo che alcuni di noi sono più mortali di altri. Dal momento che la loro storia in
Europa e altrove è stata caratterizzata da nefaste emarginazioni e fatali
interdizioni, questi altri sollevano domande circa il potere e l’esclusione. Ci
occorre maggiore responsabilità etica per affrontare l’eredità dell’Umanesimo.
Tony Davies lo afferma lucidamente: «Tutti gli umanesimi fino a ora sono stati
imperialisti. Essi parlano dell’umano nei termini e negli interessi di una classe,
un sesso, una razza, un genoma. La loro stretta soffoca coloro che non ignora. È
quasi impossibile pensare a un crimine che non sia stato commesso nel nome
dell’umanità» (Davies 1997, 141). In verità, in molti casi, sfortunatamente,
diverse atrocità sono state commesse in nome dell’odio verso l’umanità, come
dimostra il caso di Pekka-Eric Auvinen illustrato nella prima vignetta
dell’introduzione.
La ridotta nozione umanista di ciò che definisce l’umano è una delle chiavi
per comprendere come siamo arrivati alla svolta postumana. L’itinerario non è
semplice né individuabile a priori. Edward Said, ad esempio, complica il quadro
introducendo una prospettiva postcoloniale:

L’umanesimo inteso come una forma di nazionalismo protettivo o anche difensivo è, credo, una miscela
pericolosa, anche se a volte inevitabile, per la ferocia ideologica e l’implicito trionfalismo. In contesto
coloniale, ad esempio, la rinascita delle lingue e delle culture soppresse, i tentativi di affermazione
nazionale e il richiamo ad antenati illustri […] sono aspetti spiegabili e comprensibili (Said 2007, 64).

Questa qualifica è cruciale per evidenziare l’importanza della collocazione
da cui ognuno di noi prende parola. Le differenze di collocazioni tra centri e
periferie sono di primaria rilevanza, specialmente in relazione all’eredità di un
fenomeno complesso e multisfaccettato quale l’umanesimo. Complice di
genocidi e crimini da un lato, foriero di enormi speranze e desideri di libertà
dall’altro, l’umanesimo segna la sconfitta della critica lineare. Questa
proteiforme qualità è in parte responsabile della sua longevità.
Antiumanesimo


Lasciatemi scoprire le carte in tavola pur essendo solo all’inizio di questo
mio ragionamento: non sono affatto affezionata all’Umanesimo e all’idea di
umano che implicitamente sottende. L’antiumanesimo è talmente parte della mia
genealogia intellettuale e personale, come di una tradizione di famiglia, che per
me la crisi dell’Umanesimo sembra un dato scontato. Perché?
La mia gioia nell’accogliere la nozione storica del declino dell’Umanesimo,
con il suo nucleo eurocentrico e le sue tendenze imperialiste, si spiega in primo
luogo grazie alla politica e alla filosofia. Certamente, il contesto storico conta
molto. Sono cresciuta intellettualmente e politicamente negli anni turbolenti che
seguirono la Seconda guerra mondiale, quando l’ideale umanista venne messo in
discussione radicalmente. Durante gli anni Sessanta e Settanta uno spiccato
attivismo antiumanista prese piede grazie ai nuovi movimenti sociali e alle
culture giovanili del periodo: femminismo, anticolonialismo e antirazzismo,
movimenti pacifisti e antinucleari. Cronologicamente legati alle politiche sociali
e culturali della generazione nota come baby-boomers, questi movimenti sociali
hanno dato vita a politiche radicali, teorie sociali e nuove epistemologie. Essi
hanno sfidato gli stereotipi della retorica della Guerra fredda, con la sua enfasi
per la democrazia occidentale e l’individualismo liberale.
Nulla più della crisi teoretica di mezza età ci impedisce di riconoscere la
nostra appartenenza alla generazione dei baby boomers3. In questo periodo
l’immagine pubblica di quella generazione non è esattamente positiva.
Nondimeno, per dire il vero, questa generazione è stata segnata dall’eredità
traumatica dei diversi e fallimentari esperimenti politici del XX secolo. Il
fascismo e l’Olocausto da un lato, il comunismo e i Gulag dall’altro, si
equiparano sulla bilancia insanguinata della storia degli orrori. Vi è un evidente
nesso generazionale tra questi momenti storici e il rifiuto dell’Umanesimo negli
anni Sessanta e Settanta. Concedetemi di spiegarlo.
Al livello dei loro propri contenuti ideologici, questi due fenomeni storici,
fascismo e comunismo, rifiutano esplicitamente e implicitamente i principi
fondamentali dell’Umanesimo europeo, tradendoli profondamente. Essi
rimangono, tuttavia, molto diversi per quanto riguarda struttura e scopi. Laddove
il fascismo propugnava una spietata cesura delle radici del concetto illuminista
di rispetto per l’autonomia della ragione e della morale, il socialismo perseguiva
una versione comunitaria della solidarietà umanista. Sin dagli esordi dei
movimenti socialisti utopisti del Settecento la sinistra europea ha provato
attrazione per il socialismo umanista. In verità, il marxismo-leninista rifiutava
alcuni aspetti dell’umanesimo socialista, in particolare il suo accanimento per la
realizzazione del potenziale umano come autenticità (opposta all’alienazione).
Esso ha proposto in alternativa l’umanesimo proletario, noto anche come
l’umanesimo rivoluzionario tipico dell’Unione Sovietica, famoso per la sua
strenua tendenza alla realizzazione della libertà umana, valore dato per
universale ma solo sotto e attraverso il comunismo.
Due fattori hanno contribuito alla relativa popolarità dell’umanesimo
comunista dopo le grandi guerre.
Il primo è rappresentato dai disastrosi effetti che il fascismo ebbe sulla storia
intellettuale e sociale europea. Fascismo e nazismo furono causa di enormi danni
anche alla storia della teoria critica continentale europea, poiché distrussero e
bandirono dall’Europa intere scuole di pensiero - in particolare marxismo,
psicoanalisi, scuola di Francoforte, la carica dirompente della genealogia
nietzschiana (per quanto il caso Nietzsche sia abbastanza complesso) che era
stata centrale nella filosofia degli inizi del XX secolo. Inoltre la Guerra fredda e
la divisione in due blocchi geopolitici, che seguì alla fine della Seconda guerra
mondiale, sgretolò e dicotomizzò l’Europa fino al 1989, non facilitando il ritorno
nel continente, che pure le aveva allontanate con violenza e ignoranza, di quelle
stesse teorie radicali. È significativo, ad esempio, che molti degli autori che
Michel Foucault considera precursori del pensiero critico della modernità
avanzata (Marx, Freud, Darwin) siano gli stessi pensatori che il nazismo
condannò al pubblico rogo nel 1930.
La seconda ragione per la popolarità del marxismo umanista è rappresentata
dal fatto che il comunismo, soprattutto grazie all’Urss, ha svolto un ruolo
centrale nella sconfitta del fascismo, e pertanto è risultato vincente alla fine della
Seconda guerra mondiale. In questi termini si spiega il fatto che la generazione
politica del ’68 ereditò una concezione positiva della prassi e dell’ideologia
marxiste, in quanto risultato dell’opposizione comunista-socialista al fascismo e
dell’impegno armato dell’Unione Sovietica contro il nazismo. Questo dato di
fatto si scontra con il quasi epidermico anticomunismo della cultura americana
ed è destinato a rimanere un punto di forte tensione intellettuale tra l’Europa e
gli Stati Uniti. È qualcosa di difficile da ricordare, all’alba del terzo millennio, il
fatto che i partiti comunisti furono gli unici veri emblemi della resistenza
antifascista in Europa. Ed essi hanno inoltre giocato un ruolo significativo nei
movimenti di liberazione nazionale in tutto il mondo, in particolare in Africa e in
Asia. Il testo fondamentale di André Malraux La condizione umana (1934) è
testimone sia della statura morale che della dimensione tragica del comunismo,
come lo è, in un diverso momento storico e contesto geopolitico, la vita e l’opera
di Nelson Mandela (2008).
Edward Said, prendendo parola come cittadino degli Stati Uniti, aggiunge
un’altra interessante notazione:

L’antiumanesimo ha preso piede sulla scena intellettuale statunitense in parte a causa della diffusa
repulsione suscitata dalla Guerra in Vietnam. Questa avversione ha implicato anche l’emergere di un
movimento di resistenza contro il razzismo e in generale l’imperialismo, nonché contro le pedanti discipline
umaniste che per anni avevano rappresentato un esempio di atteggiamento apolitico, alieno dal mondo,
volutamente ignaro del presente, e dagli effetti a volte manipolatori, sempre risoluto a celebrare le virtù del
passato (2007, 42).

Durante gli anni Sessanta e Settanta la nuova sinistra statunitense si
caratterizzò per le radicali istanze antiumaniste, che si diffusero non solo in
contrasto al liberalismo predominante, ma anche in contrasto al marxismo
umanista della sinistra tradizionale.
Sono perfettamente consapevole del fatto che una tale nozione di marxismo,
oggi a volte considerato un’ideologia violenta e inumana, accostata
all’umanesimo potrà lasciare sbalordite le generazioni più giovani e coloro che
non hanno familiarità con la filosofia continentale. È sufficiente, tuttavia,
ricordare l’enfasi con la quale pensatori del calibro di Sartre e della de Beauvoir
si servivano dell’umanesimo come di un metodo laico di analisi critica.
L’esistenzialismo accentua la coscienza umanista nel suo essere sia origine della
responsabilità morale che della libertà politica.
La Francia occupa una posizione molto speciale nella genealogia della teoria
critica antiumanista. Il prestigio degli intellettuali francesi è dovuto non solo al
formidabile sistema scolastico del paese, ma anche a ragioni legate al contesto.
Tra queste ragioni vi è l’alta levatura morale della Francia alla fine della
Seconda guerra mondiale, dovuta alla resistenza di Charles de Gaulle. Di
conseguenza gli intellettuali francesi hanno continuato a beneficiare di ottima
reputazione, soprattutto se paragonati ai pochi sopravvissuti in quel paesaggio
devastato che era la Germania del dopoguerra. Da qui l’illustre fama
internazionale di Sartre e della de Beauvoir, ma anche di Aron, Mauriac, Camus,
Malraux. Tony Judt lo riporta sinteticamente:

Nonostante la sconfitta sconvolgente della Francia nel 1940, nonostante la soggezione umiliante dovuta
all’occupazione tedesca durata quattro anni, nonostante l’ambiguità morale del Regime di Vichy del
maresciallo Pétain, nonostante l’imbarazzante subordinazione del paese agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna
negli anni del Dopoguerra per le politiche estere, la cultura francese divenne nuovamente centro di
attenzione internazionale: gli intellettuali francesi acquisivano una speciale rilevanza internazionale come
portavoci dell’epoca, e il tenore delle argomentazioni politiche francesi sintetizzava la rendita ideologica nel
mondo in generale. Ancora una volta - per l’ultima volta - Parigi era la capitale d’Europa (2005, 210).

Durante gli anni del dopoguerra, Parigi ha continuato a funzionare come un
magnete che attraeva e metteva in circolazione l’opera di ogni sorta di pensatore
critico. Per esempio, Arcipelago Gulag di Aleksandr Isaevič Solženicyn fu
dapprima pubblicato in Francia nel 1970, per poi essere contrabbandato in forma
clandestina nei paesi dell’Unione Sovietica. È stato dopo il suo ritiro parigino
che l’ayatollah Khomeyni condusse la rivoluzione in Iran del 1979, che instaurò
il primo governo islamico al mondo. In qualche modo il contesto francese di
quel periodo era aperto a ogni genere di movimento politico radicale. È ormai un
dato di fatto che in Francia in quel periodo fiorirono, sia a sinistra che a destra,
talmente tante scuole di pensiero critico che la filosofia francese divenne quasi il
sinonimo della teoria in sé, con conseguenze a lungo termine, come vedremo nel
quarto capitolo.
Fino agli anni Sessanta, la ragione filosofica era riuscita a evitare, rimanendo
quasi illesa, la questione delle proprie responsabilità nel perpetuarsi di modelli
storici di dominio ed esclusione. Sia Sartre che de Beauvoir, influenzati dalle
teorie marxiste su alienazione e ideologia, compresero che il trionfo della
ragione coincideva con l’ascesa di poteri prevaricatori, palesando così la
complicità della ragione filosofica nei confronti delle pratiche quotidiane di
ingiustizia sociale. Essi hanno continuato, tuttavia, a difendere l’idea di ragione
universale e a ricorrere al metodo dialettico per la risoluzione di tali
contraddizioni. Questo approccio metodologico, seppur critico riguardo ai
modelli egemonici di appropriazione violenta e sussunzione degli altri, ritiene al
contempo che la filosofia abbia la funzione di strumento privilegiato e
culturalmente egemonico per l’analisi politica. Con Sartre e de Beauvoir
l’immagine del filosofo-re si concretizza in un quadro preciso, sia pure in forma
critica. Il filosofo, in qualità di critico dell’ideologia e di coscienza
dell’oppresso, è un essere umano pensante che insiste nel ricercare sistemi
teoretici complessivi e nel raggiungere la verità. Sartre e de Beauvoir
considerano l’universalismo umanista un tratto distintivo della cultura
occidentale, cioè la sua specifica forma di particolarismo. Essi adoperano gli
utensili concettuali forniti dallo stesso umanesimo per accelerare il confronto
della filosofia con le proprie responsabilità storiche e il suo ruolo politico di
mediazione concettuale.

Figura 1.2. La nuova Donna Vitruviana, Friedrich Saurer/Science Photo


Library
Questo universalismo umanista, associato all’enfasi del costruttivismo sociale
sull’uomo-artefatto e sulla natura storicamente variabile delle ingiustizie sociali,
prepara il terreno per una solida ontologia politica. Ad esempio, il femminismo
emancipatorio della de Beauvoir si fonda sul principio umanista che «la donna è
la misura di tutte le cose femminili» e che, per essere responsabile per se stessa,
una filosofa femminista necessita di essere responsabile della situazione di ogni
donna. Questo comporta a un livello teoretico una sintesi produttiva di sé e altro
da sé. A livello politico, la Donna Vitruviana ha forgiato un legame di solidarietà
tra l’uno e i molti, legame che grazie alla seconda ondata femminista negli anni
Sessanta era destinato a trasformarsi nella pratica della sorellanza politica.
Questa pratica costituì una base comune per le donne, dal momento che l’essere
donne nel mondo rappresentò il punto di partenza di tutte le riflessioni critiche e
al contempo di ogni prassi politica elaborata. Il femminismo umanista ha
introdotto un nuovo stile di materialismo, uno stile incarnato e situato (Braidotti
1994). La pietra angolare di questa innovazione teoretica è un particolare tipo di
epistemologia situata (Haraway 1988), che prende le mosse dalla «politica della
collocazione» (Rich 1987) e lungo gli anni Novanta traspone il postmodernismo
nel punto di vista teorico femminista e nei relativi dibattiti (Harding 1991). La
premessa teoretica del femminismo umanista è la nozione materialista del corpo
incarnato, cosa che ci indica i presupposti di una nuova e più accurata analisi del
potere. Questi presupposti si sono articolati a partire da una critica radicale
all’universalismo maschilista, ma sono ancora dipendenti da una forma di
Umanesimo attivo e incline all’uguaglianza.
La teoria e la pratica femminista hanno lavorato più velocemente ed
efficacemente di molti movimenti sociali degli anni Settanta. Esse hanno
sviluppato strumenti originali e metodi di analisi che hanno permesso resoconti
più verosimili di come funziona il potere. Le femministe hanno inoltre
esplicitamente individuato nella sinistra, presumibilmente rivoluzionaria,
comportamenti maschilisti e abitudini sessiste e li hanno denunciati come
contraddittori rispetto alla loro ideologia, così come intrinsecamente offensivi.
Nella sinistra convenzionale del dopoguerra, tuttavia prende corpo una nuova
generazione di pensatori con altre priorità. I quali si ribellano contro l’egemonia
morale dei partiti comunisti dell’epoca, dell’Europa occidentale come
dell’impero sovietico.
Fatto che aveva portato a una stretta autoritaria sull’interpretazione dei testi
marxisti e dei loro concetti filosofici chiave. Le nuove versioni del radicalismo
filosofico sviluppatesi in Francia e nel resto d’Europa nei tardi anni Sessanta
formularono una critica esplicita della struttura dogmatica del pensiero e della
prassi comunista. Inoltre, portarono avanti la critica dell’alleanza politica sancita
tra filosofi come Sartre e de Beauvoir e la sinistra comunista4, durata almeno
fino all’insurrezione ungherese del 1956. In opposizione al dogma e alla
violenza del comunismo, la generazione del 1968 si rivolge direttamente al
potenziale sovversivo dei testi di Marx, in modo da recuperarne le radici
antistituzionali. Il loro radicalismo si esprimeva nei termini di una critica delle
implicazioni umaniste e del conservatorismo politico tipico delle istituzioni che
incarnavano il dogma marxista.
L’antiumanesimo emerse come il grido di battaglia di quella generazione di
pensatori radicali che più tardi sarebbe stata famosa in tutto il mondo come
«generazione post-strutturalista». Essi furono, infatti, post-comunisti ante
litteram. Essi abbandonarono il pensiero dicotomico dialettico e svilupparono un
terzo modo di accostarsi ai cambiamenti nella nozione di soggettività umana.
Dopo la pubblicazione de Le parole e le cose (1967) di Michel Foucault, opera
innovativa di critica dell’Umanesimo, la questione di cosa - semmai fosse
qualcosa - costituisse l’idea dell’umano circolava nei discorsi radicali del
periodo e andava articolando le agende antiumaniste di una serie di gruppi
politici. La morte dell’uomo annunciata da Foucault formalizza una crisi
epistemologica e morale che spinge molto avanti le opposizioni binarie,
tagliando in punti differenti lo spettro politico. A essere preso di mira è
l’implicito umanismo del marxismo, in particolar modo l’arrogante pretesa
umanista di continuare a porre l’Uomo al centro della storia mondiale.
Addirittura il marxismo, in veste di principale teoria del materialismo storico, ha
continuato a definire il soggetto del pensiero europeo come univoco ed
egemonico e ad assegnargli (il genere non è una coincidenza) il ruolo regale di
motore della storia umana. L’antiumanesimo consiste nel disconnettere l’agente
umano dalla sua posizione universalistica, richiamandolo a rendere conto, e a
spiegare, le azioni concrete che sta intraprendendo. Una volta che il soggetto, in
precedenza dominante, si è svincolato dalle sue delusioni di grandezza e non è
più il presunto responsabile del progresso storico, emergono differenti e più
nitide relazioni di potere.
I pensatori radicali della generazione post ’68 rifiutavano l’umanesimo sia
nella sua versione classica che in quella socialista. L’ideale dell’Uomo
Vitruviano come modello di perfezione e miglioramento fu letteralmente buttato
giù dal suo piedistallo e decostruito. Questo ideale umanista rappresenta, infatti,
il nucleo della concezione liberal-individualista del soggetto, che definisce la
perfettibilità in termini di autonomia e autodeterminazione. E queste sono
precisamente le peculiarità che i post-strutturalisti contestavano.
Si scoprì che quest’Uomo, lontano dall’essere il canone di proporzioni
perfette, sebbene enunciasse un ideale universalistico che aveva raggiunto lo
statuto di legge naturale, era di fatto un costrutto storico e come tale era
contingente e variabile rispetto ai valori e ai luoghi. L’individualismo non è una
componente innata della natura umana, come i pensatori liberali sono disposti a
credere, quanto piuttosto una formazione discorsiva specifica dal punto di vista
storico e culturale, una formazione che, per di più, sta divenendo sempre più
problematica. Il filone decostruttivista del costruttivismo sociale introdotto da
filosofi post-strutturalisti quali Jacques Derrida (2002) ha inoltre contribuito a
una revisione radicale dei principi umanisti. Un’intera generazione filosofica
chiamava all’insubordinazione rispetto alle tradizionali concezioni umaniste
della natura umana.
Femministe come Luce Irigaray (2010, 1990a) hanno evidenziato che il
presunto ideale astratto di Uomo, simbolo dell’umanesimo classico, è in realtà il
vero e proprio maschio della specie: egli è un lui. Inoltre, lui è bianco, europeo,
bello e normodotato; sulla sua sessualità non si può congetturare molto, sebbene
molte speculazioni riguardino quelle del suo pittore, Leonardo da Vinci. Cosa
questo modello ideale potesse avere in comune con la media dei molti membri
della specie e con la civilizzazione che si supponeva rappresentasse è una
questione ancora aperta. Le critiche femministe ai sistemi patriarcali operanti
attraverso la mascolinità astratta (Hartstock 1987) e la bianchezza trionfante
(hooks, 1981, Ware 1992) argomentavano che l’umanesimo universalista era un
plausibile bersaglio di obiezioni non solo epistemologiche, ma anche etiche e
politiche.
I pensatori anticoloniali adottarono un atteggiamento critico analogo,
problematizzando il primato della bianchezza come canone di bellezza estetica
nell’ideale vitruviano (vedi figura 1.2). Trovando le radici di tali nobili
affermazioni nella storia del colonialismo, i pensatori anticolonialisti e
antirazzisti hanno esplicitamente messo in questione la rilevanza dell’ideale
umanista, alla luce delle ovvie contraddizioni imposte dai suoi presupposti
eurocentrici, ma al contempo non lo hanno completamente accantonato. Essi
hanno preso in considerazione la responsabilità europea negli usi e negli abusi di
questo ideale guardando alla storia coloniale e all’assoggettamento violento delle
altre culture, pur continuando ad accettare le sue premesse fondamentali. Franz
Fanon ad esempio voleva salvare l’umanesimo dai suoi eredi europei,
sostenendo che avevamo mal interpretato e bistrattato l’ideale umanista. Come
Sartre scrive nella prefazione al libro di Fanon (1963, 7). Il pensiero
postcoloniale asserisce che se l’umanesimo ha dopotutto un futuro, questo
proviene dal di fuori del mondo occidentale e supera i limiti dell’eurocentrismo.
Per estensione, l’aspirazione all’universalità della razionalità scientifica viene
sfidata sia dal punto di vista epistemologico che politico (Spivak 1999, Said
1994).
I filosofi post-strutturalisti francesi perseguirono lo stesso obiettivo di quelli
postcoloniali attraverso strade e mezzi differenti5. Essi affermavano dopo il
colonialismo, dopo Auschwitz, dopo Hiroshima e i gulag - per citare solo alcuni
degli orrori della storia moderna - noi europei necessitiamo di elaborare una
critica dell’illusione di onnipotenza che consiste nel porre noi stessi come
guardiani morali del mondo e motori dell’evoluzione umana. Così la
generazione filosofica degli anni Settanta, fu antifascista, post-comunista,
postcoloniale e post-umanista, con una eterogeneità di combinazioni fra i
termini. Ha portato al rifiuto della definizione di un’identità classica umanista,
della razionalità e dell’universale. Le filosofie femministe della differenza
sessuale6, attraverso lo spettro della critica della mascolinità dominante, hanno
inoltre sottolineato la natura etnocentrica dell’aspirazione europea
all’universalismo. Hanno difeso la necessità di aprirsi all’alterità dentro di sé
(Kristeva 1991), così da ricollocare la diversità e le appartenenza multiple nella
posizione centrale di componente strutturale del soggetto europeo.
L’antiumanesimo è, di conseguenza, un’importante risorsa per il pensiero
postumano. Esso non è affatto la sola risorsa, né la connessione tra
antiumanesimo e postumanesimo è logicamente necessaria o storicamente
inevitabile. Ho scoperto, tuttavia, che è così per il mio stesso lavoro, anche se
questa storia non è finita e in qualche modo, come spiegherò nella prossima
sezione, la mia relazione con l’umanesimo rimane irrisolta.
La morte dell’Uomo, la Decostruzione del secondo sesso


Come indicato nell’itinerario genealogico che ho appena tracciato,
l’antiumanesimo è uno dei sentieri storici e teorici che può condurre al
postumano. Del mio antiumanesimo sono debitrice ai miei amati insegnanti post-
sessantottini, alcuni dei quali sono stati filosofi straordinari e la cui eredità
continuo ad ammirare e rispettare: in particolar modo Foucault, Irigaray e
Deleuze. L’umano dell’umanesimo non è un ideale, né una statica media
obiettiva o un mediatore necessario. Esso enuncia piuttosto un modello
sistematizzato di riconoscibilità - di Identità - grazie al quale tutti gli altri
possono essere valutati, normati e assegnati a una definita posizione sociale.
L’umano è una convenzione normativa, non intrinsecamente negativa, ma con un
elevato potere regolamentare e dunque strumentale alle pratiche di esclusione e
discriminazione. Lo standard umano rappresenta la normalità, la normazione, la
normatività. Esso funziona trasponendo un particolare modo di essere umano in
un modello generalizzato, che è categoricamente e qualitativamente distinto
dagli altri sessualizzati, razzializzati e naturalizzati e in opposizione agli artefatti
tecnologici. L’umano è il costrutto storico che ha saputo consolidare una
convenzione sociale intorno alla sua «natura umana».
Il mio antiumanesimo mi conduce ad avversare il soggetto unitario
dell’umanesimo, comprese le sue varianti socialiste, e a sostituirlo con un
soggetto più complesso e relazionale, caratterizzato principalmente
dall’incarnazione, dalla sessualità, dall’affettività, dall’empatia e dal desiderio.
Altrettanto centrale in questo approccio è l’intuizione appresa da Foucault circa
la doppia natura del potere, inteso sia come forza restrittiva (potestas) che
produttiva (potentia). Questo significa che le formazioni di potere non agiscono
solo al livello materiale ma trovano anche espressioni in sistemi di
rappresentazioni teoretiche e culturali, in narrative politico-normative, in modelli
sociali di riconoscimento. Queste narrative non sono né coerenti né razionali e la
loro natura improvvisata è funzionale alla loro forza egemonica. La
consapevolezza dell’instabilità e dell’incoerenza delle narrative dominanti che
compongono la struttura sociale e le sue relazioni, lungi dal rimanere in una
sorta di sospensione dall’azione politica e morale, diventa il punto di partenza
per elaborare nuove forme di resistenza adatte alla struttura policentrica e
dinamica del potere contemporaneo (Patton 2000). Questo genera una forma
pragmatica di micro-politica che riflette la natura complessa e nomadica dei
sistemi sociali contemporanei e dei soggetti che li abitano. Se il potere è
complesso, diffuso e produttivo, così deve essere la nostra resistenza a esso. E
una volta attivato questo movimento decostruttivo, tanto la nozione tradizionale
di Uomo quanto quella di secondo sesso, di donna, vengono messe in questione
proprio in nome della loro intrinseca complessità.
Questo influenza evidentemente il compito e lo stato attuale del metodo
teorico. Il discorso, come Michel Foucault afferma in Sorvegliare e punire
(1976), riguarda l’attualità politica che è attribuita a certi significati, o sistemi di
significazione, in modo tale da poterli dotare di legittimità scientifica; non vi è
nulla di neutrale o di già dato in esso. Pertanto tra la verità scientifica, l’attualità
discorsiva e le relazioni di potere si viene a creare un nesso critico e materialista.
Questo approccio all’analisi del discorso mira in primo luogo a rimuovere la
credenza nei fondamenti «naturali» delle differenze codificate e imposte
socialmente, così come nel sistema di validità scientifica, di valori etici e di
rappresentazioni che tale convinzione presuppone (Coward e Ellis, 1977)7.
Il femminismo antiumanista, noto anche come postmodernismo femminista,
rifiuta le identità unitarie modellate sull’ideale umanista, normativo ed
eurocentrico, di quest’Uomo ben definito (Braidotti 2003). Esso si è, tuttavia,
spinto oltre, sostenendo che risulta comunque impossibile parlare con una sola
voce in nome delle donne, dei nativi e degli altri soggetti emarginati. L’accento
viene qui posto sulle questioni delle differenze tra categorie diverse e all’interno
di ciascuna di esse. A questo proposito, l’antiumanesimo prende le distanze dallo
schema di pensiero dialettico, dove la differenza o l’alterità hanno svolto un
ruolo costitutivo, poiché avevano assolto al compito di tracciare i confini con
l’altro sessualizzato (le donne), l’altro razzializzato (i nativi), l’altro
naturalizzato (gli animali, l’ambiente, la terra). Questi altri erano costitutivi nella
misura in cui funzionavano come specchi in grado di confermare la posizione
suprema del Medesimo (Braidotti 2008a). Questa economia politica della
differenza ha portato alla svalutazione di intere categorie di esseri umani,
considerati inferiori e dunque alla stregua di corpi utilizzabili: essere differente
da significava essere meno di. La norma definitoria del soggetto veniva
posizionata al culmine della scala gerarchica il cui premio consisteva nella stessa
assenza di differenze. Questo è il trascorso modello di Uomo dell’umanesimo.
I processi dialettici negativi di sessualizzazione, razzializzazione,
naturalizzazione hanno un’altra importante conseguenza: essi provocano la
produzione attiva di mezze verità, o di forme di sapere parziale circa questi altri.
L’alterità dialettica e peggiorativa diffonde ignoranza strutturale circa coloro che,
proprio perché altri, sono collocati al di fuori delle maggiori divisioni categoriali
nell’attribuzione dell’Umanità. Paul Gilroy (2010) indica questo fenomeno con il
termine agnatology intendendo con questo l’ignoranza imposta e funzionale. È
uno degli effetti paradossali della presunta ratio universalista del sapere
umanista. Edward Said critica «la liquidazione bellicosa delle altre culture e
civiltà», in quanto «presuntuosa, non umanista, e indubbiamente frutto di una
coscienza non illuminata dal punto di vista critico» (2007, 54). La riduzione allo
stato subumano degli altri non occidentali è l’origine dell’ignoranza perdurante,
della falsità e della cattiva coscienza del soggetto dominante, il quale è
responsabile della loro disumanizzazione epistemica e sociale.
Queste critiche radicali all’arroganza umanista da parte del femminismo e
della teoria postcoloniale non sono meramente negative, dal momento che esse
propongono nuovi e alternativi modi di guardare all’umano, da un punto di vista
più inclusivo. Sguardi che offrono, inoltre, percezioni significative e innovative
dell’immagine del pensiero implicitamente trasmesso dalla visione umanista
dell’Uomo misura di tutte le cose, portatore dello standard umano. Pertanto, essi
hanno spinto l’analisi del potere fino a sviluppare strumenti e terminologia
grazie ai quali siamo in grado di confrontarci con fenomeni quali il maschilismo,
il razzismo, la superiorità bianca, il dogma della ragione scientifica e con altri
sistemi di valori dominanti diffusi socialmente.
Essendo praticamente cresciuta con le teorie della morte di dio (Nietzsche),
della fine dell’Uomo (Foucault) e del declino delle ideologie (Fukuyama), mi ci
vuole del tempo per capire come mai chi oggi chiami in causa l’umanesimo lo fa
a proprio rischio e pericolo. La posizione antiumanista non è di certo scevra da
contraddizioni. Come Badmington ci ricorda saggiamente: «I racconti
apocalittici sulla morte dell’uomo ignorano la capacità dell’umanesimo di
rigenerazione e, quasi letteralmente, di ricapitolazione» (2003, 11). L’Uomo
Vitruviano si innalza molto al di sopra delle sue ceneri, continua a detenere il
ruolo di modello universale e a esercitare un’attrazione fatale.
La soluzione mi è venuta in mente ascoltando Plague Mass di Diamanda
Galas (1991) per le vittime di AIDS: una cosa è proclamare ad alta voce una
presa di posizione antiumanista, altra cosa è agire conseguentemente, con un
minimo di coerenza. L’antiumanesimo è una posizione così carica di
contraddizioni che più si prova a superarle, più scivoloso diventa il terreno. Non
solo gli antiumanisti finiscono spesso per riproporre gli ideali umanisti - la
libertà è il mio preferito - ma, in qualche modo, la stessa attività di critica del
pensiero si regge su valori discorsivi implicitamente umanisti (Soper 1986). Né
l’umanesimo né l’antiumanesimo sono adeguati allo scopo.
L’esempio migliore di contraddizioni intrinseche generate dalla posizione
antiumanista è l’emancipazione, o la politica in senso progressista, che io ritengo
uno dei più valenti aspetti della tradizione umanista e una sua eredità ancora
viva. Lungo lo spettro politico, l’umanesimo ha sostenuto sul fronte liberale
l’individualismo, l’autonomia, la responsabilità, l’autodeterminazione (Todorov
2002). Sul fronte radicale, esso ha promosso la solidarietà, i legami comunitari,
la giustizia sociale e il principio di uguaglianza. Di orientamento segnatamente
laico, l’umanesimo ha diffuso il rispetto per la scienza e la cultura, contro
l’autorità dei testi sacri e del dogma religioso. Inoltre, esso è caratterizzato da un
elemento avventuroso, un anelito alla scoperta guidato dalla curiosità, un
approccio orientato alla progettualità molto apprezzabile per il suo pragmatismo.
Questi principi sono così profondamente radicati nelle nostre abitudini di
pensiero da risultare difficile abbandonarli del tutto.
E perché dovremmo? L’antiumanesimo critica la convinzione implicita circa
il soggetto umano racchiuso nell’immagine umanista dell’Uomo, ma questo non
comporta un suo rifiuto totale.
Per me è impossibile, sia intellettualmente che eticamente, separare gli
elementi positivi dell’umanesimo dalle loro controparti negative:
l’individualismo genera egoismo ed egocentrismo, l’autodeterminazione può
trasformarsi in arroganza e dominazione; e la scienza non è libera dalle sue
stesse tendenze dogmatiche. Le difficoltà inerenti al superamento
dell’umanesimo come tradizione intellettuale, contesto normativo e pratica
istituzionalizzata si trovano al centro dell’approccio decostruttivo al postumano.
Derrida (2002) ha aperto questa discussione evidenziando la violenza implicita
nell’assegnazione di un significato. I suoi allievi hanno spinto oltre la sua
argomentazione:

L’affermazione che l’umanesimo può essere decisamente lasciato alle spalle sottintende ironicamente
l’assunto di base umanista in materia di volontà e di azione, come se la fine dell’umanesimo potesse essere
soggetta al controllo umano, come se noi possedessimo le capacità per cancellare le tracce sia dal presente
che da un ipotetico futuro (Peterson, 2011, 128).

L’accento cade perciò sulla difficoltà di cancellare la traccia della violenza
epistemica, cosa che permetterebbe agli antiumanisti di ritagliarsi una posizione
esterna all’umanesimo. La presa di consapevolezza della violenza epistemica
viaggia di pari passo al riconoscimento della violenza nella vita reale, che era ed
è ancora praticata contro gli animali, i non umani, gli altri sociali e politici
deumanizzati dalla norma umanista. In questo filone decostruttivista Cary Wolfe
(2010b) è particolarmente interessante, poiché tenta di elaborare una nuova
prospettiva che combini la sensibilità per la violenza epistemica da un punto di
vista storico-mondiale con una distinta fede transumanista (Bostrom 2005) nelle
potenzialità aperte dalla condizione postumana.
Nutro una grande stima per il decostruttivismo, ma anche una certa
insoddisfazione per i limiti del suo sistema di riferimento linguistico. Da parte
mia, preferisco seguire un percorso più materialista per affrontare la complessità
del postumano in quanto tratto fondamentale della nostra storicità. Questo
percorso, come vedremo nella prossima sezione, è carico di insidie.
Oltre la laicità


In qualità di dottrina politica progressista, l’Umanesimo intrattiene una
relazione privilegiata con altre due idee interconnesse: l’emancipazione umana
nel perseguimento dell’uguaglianza, la laicità per mezzo della gestione razionale
della res publica. Queste due premesse emergono dal concetto di umanesimo
proprio come Atena fuoriesce dalla testa di Zeus, già vestita e armata per la
battaglia. Come John Gray (2002, XIII) ha affermato:

L’umanesimo è la trasformazione della dottrina cristiana della salvezza in un progetto di emancipazione
umana universale. L’idea di progresso era una versione laica della fede cristiana nella provvidenza. Si
spiega perciò il fatto che presso gli antichi pagani esso era sconosciuto.

Non sorprende, dunque, che uno degli effetti collaterali del declino
dell’umanesimo sia l’ascesa della condizione postlaica (Braidotti 2008a,
Habermas 2008).
Se quella della morte dell’Uomo è risultata essere una affermazione
precipitosa, quella sulla morte di dio si è rivelata essere positivamente delirante.
La prima crepa nell’edificio della laicità autosufficiente apparve alla fine degli
anni Settanta. Appena raffreddato lo zelo rivoluzionario e quando i movimenti
sociali cominciarono a scemare, a conformarsi o a mutare, i precedenti militanti
agnostici andarono a infoltire la schiera di conversioni verso una vasta gamma di
religioni monoteiste, convenzionali o importate da Oriente. Questa svolta nel
corso degli eventi ha sollevato seri dubbi circa il futuro della laicità. Il dubbio si
è insinuato nella mente collettiva e individuale: quanto e in che modo siamo
laiche - noi femministe, antirazziste, post-colonialiste, ambientaliste?
Il dubbio diventava ancora più acuto per gli intellettuali politicizzati. La
scienza è intrinsecamente laica, essendo la laicità un principio chiave
dell’umanesimo, insieme all’universalismo, al soggetto unitario e al primato
della razionalità. La scienza stessa, tuttavia, nonostante le sue fondamenta laiche,
è lontana dall’essere immune dalla sua medesima forma di dogmatismo. Freud è
stato uno dei primi pensatori ad allarmarci rispetto al fanatico ateismo dei
sostenitori della ragione scientifica. In L’avvenire di un’illusione (1990) Freud
paragona, appunto, forme diverse di rigido dogmatismo, classificando lo
scientismo razionalista insieme alla religione come origine di credenze
superstiziose, una posizione ben rappresentata oggi dall’estremismo con cui
Richard Dawkins difende la propria fede atea. Inoltre, la tanto osannata
oggettività della scienza ha ben mostrato di essere imperfetta. Gli usi e gli abusi
della sperimentazione scientifica sotto il fascismo dimostrano che la scienza non
è stata vaccinata contro il nazionalismo, i discorsi e le pratiche egemoniche
razziste. Ogni appello alla purezza scientifica, alla sua oggettività, alla sua
autonomia, necessita di essere fermamente contrastato. Cosa implica tutto ciò
per l’umanesimo e le sue critiche antiumaniste?
La laicità è uno dei pilastri dell’umanesimo occidentale, così come
l’avversione per religione e chiesa è un aspetto storico integrante delle politiche
di emancipazione. La tradizione umanista socialista, così centrale per la sinistra
europea e per i movimenti delle donne almeno dal Settecento, giustifica le
proprie dichiarazioni di laicità ricorrendo a una definizione assai stretta del
termine: essere agnostici se non atei significa riferirsi alla critica illuminista del
dogma religioso e dell’autorità ecclesiastica. Come altre filosofie e pratiche
politiche emancipazioniste, la lotta femminista per i diritti delle donne in Europa
è storicamente ancorata a delle fondamenta laiche. L’influenza perdurante
esercitata dal femminismo esistenzialista (de Beauvoir 2008), dal femminismo
marxista e socialista sulla seconda ondata del movimento delle donne è
responsabile anche del ripetersi di tali presupposti. In qualità di figlie laiche e
ribelli dell’Illuminismo, le femministe europee si sono formate alla scuola
dell’argomentazione razionale e della distaccata autoironia. Il sistema di valori
femminista è di conseguenza civico, non teista e visceralmente opposto ad
autoritarismi e ortodossie. La politica femminista è inoltre, e al contempo, una
visione a doppio taglio (Kelly 1979) che combina le argomentazioni razionali
con le passioni politiche e crea progetti sociali e sistemi di valori alternativi.
Per quanto il femminismo del XX secolo possa essere fiero delle sue radici
laiche, è nondimeno un fatto che abbia storicamente prodotto diverse pratiche
spirituali alternative, talvolta in consonanza, talvolta in contrasto con la
principale linea politica laica. Grandi scrittrici legate al filone femminista
radicale della seconda ondata americana, in particolare Audre Lorde (1984),
Alice Walker (1984), Adrienne Rich (1987), hanno riconosciuto l’importanza
della dimensione spirituale nella lotta delle donne per l’uguaglianza e la
ricognizione simbolica. Il lavoro di Mary Daly (1973), Schussler Fiorenza
(1983), Luce Irigaray (1990b), solo per nominarne alcune, mette in risalto una
specifica tradizione femminista di pratiche religiose e spirituali non centrate sul
maschio, o sui valori maschili. La teologia femminista ha prodotto comunità ben
impiantate, resistenza critica e affermazione di alternative creative nella
tradizione cristiana (Keller 1998 Wadud 1999), in quella musulmana (Tayabb
1998), in quella ebraica (Adler 1998). L’appello a nuovi riti e nuove cerimonie
ha costituito la fortuna del movimento delle streghe, attualmente rappresentato al
meglio da Starhawk (1999) e rivendicato tra le altre dall’epistemologa Stengers
(1997). Elementi neopagani sono inoltre emersi dalla cultura cibernetica
tecnologicamente mediata, contribuendo alla nascita di diversi stili di tecno-
ascetismo postumano (Halberstam e Livingston 1995, Braidotti 2003).
Le teorie postcoloniali non sono mai state apertamente laiche. Nell’alquanto
religioso contesto americano, la letteratura delle donne afro-americane è piena di
riferimenti alla Cristianità, come bell hooks (1990) e Cornell West (1994)
attestano. Inoltre, come vedremo più avanti in questo capitolo, le teorie
postcoloniali e le critiche antirazziste hanno oggi sviluppato filoni non teisti di
neoumanesimo situato, che spesso rimandano a tradizioni e origini non
occidentali.
La cultura popolare contemporanea ha intensificato la tendenza a
oltrepassare la laicità. Madonna, che nella sua (con)versione all’ebraismo ha
preso il nome di Esther, intrattiene un dialogo perenne, anche sul palcoscenico,
con Cristo e ha rivisitato la tradizione delle crocifissioni femminili. Evelyn Fox
Keller (1983), nel suo studio determinate sull’epistemologia femminista,
riconosce l’importanza del Buddismo nell’opera della grande microbiologa
Barbara McClintock, che vinse il premio Nobel nel 1983 con le sue scoperte e
dopo aver patito marginalizzazione e indifferenza da parte dei colleghi
universitari. La recente ricerca antropologica sulla sessualità in Kenya di
Henrietta Moore (2007) dimostra che, considerato l’impatto delle organizzazioni
religiose radicate, oggi essere bianco rappresenta un problema minore dell’essere
un mancato cristiano. Di recente Donna Haraway si è dichiarata una mancata
laica (2006); mentre Helene Cixous decise persino di scrivere un libro dal titolo
«Ritratto di Jacques Derrida come giovane santo ebraico». E ora, permettetemi
di chiedere di nuovo: cosa c’è di laico in tutto ciò?
La posizione che in modo piatto e avventato equipara laicismo,
secolarizzazione ed emancipazione delle donne si presenta, quindi, come
problematica. Come Joan Scott spiega in modo convincente (2007) questa
nozione può essere facilmente contraddetta tramite l’evidenza storica. Se
assumiamo, ad esempio, la rivoluzione francese come momento di origine della
laicità europea, non esiste alcuna prova circa il fatto che la preoccupazione per
l’uguaglianza femminile fosse una priorità per coloro che tanto lottarono per
separare la chiesa dallo Stato. La laicità è essenzialmente la dottrina politica
della divisione dei poteri, che oltre a essersi consolidata in Europa, è ancora oggi
un’importante teoria politica (British Humanist Association 2007). Questa
tradizione di laicità, tuttavia, genera una polarizzazione tra religione e
cittadinanza, rappresentata dalla nuova partizione tra il dominio delle credenze
private e la sfera pubblico-politica. Questa distinzione pubblico-privato è
completamente sessuata. Storicamente le donne in Europa sono state assegnate
sia al dominio privato che all’ambito della fede e della religione, essendo
l’Umanesimo il «fardello dell’Uomo bianco». Questa tradizionale assegnazione
delle donne alla fede religiosa si spiega con la necessità di concedere loro un
surrogato della piena cittadinanza politica. Le donne europee erano incoraggiate
a intraprendere attività religiose piuttosto che a partecipare agli affari pubblici.
Questa non è solo una causa dell’emarginazione sociale, ma anche un dubbio
privilegio, alla luce del trincerato sessismo delle religioni monoteiste e della loro
comune convinzione della necessità di escludere le donne dal sacerdozio e
dall’amministrazione dei sacramenti. La laicità incrementa, inoltre,
l’allontanamento tra emozioni e razionalità, compresa la fede e il raziocinio. In
questo schema polarizzato, le donne erano confinate al polo dell’irrazionalità,
delle passioni e delle emozioni, inclusa la religione, e questi fattori tutti insieme
hanno contribuito a relegarle nella sfera privata. Pertanto la laicità rincara, in
realtà, l’oppressione delle donne e la loro esclusione dalla sfera pubblica della
cittadinanza razionale e della politica. La consapevolezza che nella storia politica
europea l’ideale della laicità non ha impedito che le donne fossero politicamente
inferiori agli uomini, secondo Joan Scott, apre una serie di questioni critiche.
Come possono le femministe europee render conto del fatto che, sia logicamente
che storicamente, l’uguaglianza nello Stato laico non garantisce il rispetto delle
differenze, tantomeno dell’alterità?
Questioni provocatorie che si fanno ancora più acute dopo decenni di critiche
antiumaniste che sono sfociate teorie femministe, postcoloniali e ambientaliste.
Complessità diventa la parola chiave, poiché è evidente che un’unica narrativa
non basta a rendere conto della laicità come progetto ancora non del tutto
compiuto e delle sue relazioni con l’umanesimo e la battaglia per l’uguaglianza.
Un approccio che vada oltre la laicità, basato su salde fondamenta antiumaniste,
rimuove uno dei tabù della sinistra, proponendo l’idea scandalosa che l’azione
razionale e la soggettività politica possano svilupparsi anche attraverso la pietà
religiosa, e siano quindi capaci di comprendere un fondo di spiritualità. L’ambito
della fede e i suoi rituali vengono dichiarati compatibili con il pensiero critico e
le pratiche di cittadinanza. Simone de Beauvoir sarebbe afflitta dalle
implicazioni di tale possibilità.
Lasciatemi tentare un approccio ai limiti del femminismo laico da un’altra
angolazione. La mia filosofia monista dei divenire si fonda sull’idea che la
materia, compresa quella parte determinata della materia che è l’incarnazione
umana, è intelligente e capace di autorganizzazione. Questo implica che la
materia non è dialetticamente opposta alla cultura, né alla mediazione
tecnologica, ma è attigua a esse. Ciò ha come conseguenza un diverso progetto
di emancipazione e una politica non dialettica della liberazione umana. Questa
posizione ha un altro importante corollario: l’azione politica non deve
necessariamente avere l’accezione critica dell’opposizione, in senso negativo, e
pertanto non può essere unicamente e prioritariamente volta alla produzione di
contro-soggettività. La soggettività è piuttosto un processo di autopoiesi e
autocreazione del sé, che include complesse e continue negoziazioni con la
norma e i valori dominanti e dunque molteplici forme di responsabilità (Braidotti
2008a). Questa ontologia politica a carattere processuale può agevolare la svolta
oltre la laicità, posizione peraltro difesa da una varietà di pensatrici all’interno
del femminismo, come la Harding (2000) e la Mahmood (2005). La doppia sfida
rappresentata dal tentativo di connettere la soggettività politica all’azione
religiosa, separando entrambe dalla coscienza dialettica e dalla critica in senso
nichilista, è una delle principali problematiche emerse dalla condizione
postumana.
Le questioni che riguardano l’umanesimo, in ogni caso, sono sempre più
complesse di quanto ci si possa aspettare. Il ritorno della religione nella sfera
pubblica e il tono stridente toccato nel dibattito pubblico globale a proposito
dello scontro tra civiltà, per non parlare dello stato di guerra permanente al
terrore derivante da questo contesto, coglie molti antiumanisti di sorpresa.
Parlare di ritorno delle religioni è inappropriato, perché suggerisce l’idea di un
movimento regressivo. Quello che stiamo esperendo è però più complicato. La
crisi della laicità intesa come fede essenzialista in una serie di assiomi
sociopolitici è un fenomeno che prende avvio nella tarda postmodernità
globalizzata, non in tempi premoderni. Avviene qui e ora. Inoltre, tocca tutte le
religioni, si tratti della seconda e terza generazione di emigrati musulmani in
Europa, del rinato fondamentalismo cristiano, di quello indù, ebraico o altro
ancora.
Questo è il contesto globale paradossale e violento in cui l’atteggiamento
eccezionalista dell’Occidente sta prendendo le sembianze di un crescente
autocompiacimento dell’eredità dell’illuminismo umanista. Questa
rivendicazione - esplicita e prepotente - di uno statuto culturale eccezionale
dell’Europa pone in primo piano l’emancipazione di donne, gay e lesbiche come
tratto distintivo dell’Occidente, mentre viaggia di pari passo al crescente
intervento bellico geopolitico contro tutto il resto. L’umanesimo ha ancora una
volta intrapreso una crociata civilizzatrice. Al contempo sovrastimato per il suo
ruolo storico emancipatorio e manipolato dagli intenti razzisti dei politici
populisti di tutta Europa, l’umanesimo dovrebbe essere riscattato da queste
indebite semplificazioni e da ogni abuso. Mi domando, inoltre, se oggigiorno sia
ancora possibile difendere una mera posizione antiumanista. Da un punto di vista
intellettuale, politico e metodologico, una forma residuale di umanesimo non è,
dopotutto, inevitabile? Se i nuovi bellicosi discorsi sulla supposta supremazia
dell’Occidente si esprimono nella lingua ereditata dall’umanesimo laico, se la
più strenua opposizione a essi prende le sembianze di pratiche che vanno oltre la
laicità e di religioni politicizzate, su che cosa può fondarsi oggi una posizione
antiumanista? Dichiararsi semplicemente laici vuol dire essere complici della
supremazia neocoloniale dell’Occidente, mentre rifiutare l’eredità
dell’Illuminismo vuol dire essere del tutto in contraddizione con ogni progetto
critico. Il circolo vizioso è soffocante. La considerazione che l’apparentemente
infinita polemica tra umanesimo e antiumanesimo abbia raggiunto un punto
morto non può essere contradetta. Continuare questa polemica sarebbe non solo
improduttivo, ma al contempo non ci permetterebbe una lettura adeguata del
nostro contesto storico preciso. Lasciarci alle spalle le tensioni che
accompagnano l’umanesimo e il suo rifiuto contraddittorio ora è una priorità.
Un’altra possibilità diventa via via più desiderabile e urgente: il postumanesimo
come allontanamento da questi binari letali. Concedetemi di tornarci nei
prossimi paragrafi.
La sfida postumana


Il postumanesimo è la condizione storica che segna la fine dell’opposizione
tra umanesimo e antiumanesimo e che designa un con testo discorsivo differente,
guardando in modo più propositivo a nuove alternative. Il punto di partenza è per
me la morte dell’Uomo/Donna antiumanista che evidenzia il declino di alcuni
presupposti fondamentali dell’Illuminismo, precisamente del progresso
dell’umanità attraverso l’uso autoregolatorio e teleologicamente orientato della
ragione e della razionalità scientifica laica, che si supponevano volte alla
perfettibilità dell’Uomo. La prospettiva postumana si basa sull’assunzione
storica del declino dell’umanesimo, ma si spinge anche oltre per esplorare nuove
alternative, senza per questo ricadere nella retorica antiumanista della crisi
dell’Uomo. Essa si impegna, invece, a elaborare modi alternativi per la
concettualizzazione della soggettività postumana, tema centrale di questo libro.
La crisi dell’umanesimo ha come conseguenza, nella postmodernità, la
riemersione, con propositi di riscatto, degli altri strutturali rispetto al soggetto
moderno umanista (Braidotti 2003). È un fatto storico che i più grandi
movimenti emancipatori della postmodernità siano guidati e alimentati dagli altri
riemergenti: i movimenti per i diritti di donne, gay e lesbiche; i movimenti
antirazzisti e anticoloniali; i movimenti antinucleari e ambientalisti sono i
megafoni degli altri strutturali della modernità. Essi contrassegnano
inevitabilmente la crisi del precedente centro umanista o della posizione
dominante del soggetto, eppure non sono meramente antiumanisti, in quanto
superano l’antiumanesimo in direzione di una storia e di un progetto
completamente postumani. Questi movimenti sociali e politici sono al contempo
il sintomo della crisi del soggetto, per i conservatori ne sono addirittura la causa,
e l’espressione di alternative positive e propositive. Nel linguaggio della mia
teoria nomade (Braidotti 2011, 2012), essi esprimono sia la crisi della
maggioranza che i modelli di divenire delle minoranze. La sfida per la teoria
critica consiste nell’essere capace di spiegare la differenza tra questi distinti
flussi di cambiamento.
In altre parole, la posizione postumana che sto difendendo si articola a
partire dall’eredità antiumanista, più nello specifico a partire dalle basi
epistemologiche e politiche della generazione post-strutturalista, per andare
oltre. I punti di vista alternativi sull’umano e le nuove formazioni della
soggettività che caratterizzavano le epistemologie radicali della filosofia
continentale degli ultimi trent’anni non sono meramente contrari all’umanesimo,
dal momento che creano essi stessi altre visioni del sé. Le differenze
sessualizzate, razzializzate e naturalizzate, lungi dall’essere custodi dei confini
categorici del soggetto dell’umanesimo, si sono trasformate in modelli alternativi
del soggetto umano, compiuti sotto tutti gli effetti. Il modo in cui essi provocano
il decentramento dell’umano sarà ancora più chiaro nel prossimo capitolo, che
analizza la svolta post-antropocentrica. Per adesso mi preme spiegare questo
allontanamento dall’antiumanesimo verso una posizione postumana affermativa
ed esaminare criticamente alcuni dei suoi momenti.
Nel pensiero postumano attuale rintraccio tre filoni prevalenti: il primo viene
dalla filosofia morale e sfocia in una forma reattiva di postumano; il secondo
proviene dai science and technologies studies e abbraccia una forma analitica di
postumano; e il terzo, dalla mia stessa tradizione di filosofia antiumanista della
soggettività e propone un postumanesimo critico. Permettetemi di guardare con
ordine a ciascuno di essi.
L’approccio reattivo al postumano è difeso, concettualmente e politicamente,
da contemporanei pensatori liberali del calibro di Marta Nussbaum (2006, 2013).
La quale sviluppa un’accurata e attuale difesa dell’umanesimo, inteso come
garanzia della democrazia, della libertà e del rispetto della dignità umana, e
rifiuta l’idea stessa della crisi dell’umanesimo europeo, tantomeno la possibilità
del suo declino storico. Nussbaum riconosce le sfide poste dalle attuali economie
globali tecnologicamente guidate, ma risponde a esse riproponendo gli ideali
classici umanisti e la politica liberale progressista. Difende la necessità dei valori
universali umanisti, poiché li considera un rimedio contro la frammentazione e la
deriva relativista dei nostri tempi, che è risultato della globalizzazione stessa.
L’universalismo cosmopolita umanista è inoltre presentato come un antidoto
contro il nazionalismo e l’etnocentrismo, che affliggono il mondo
contemporaneo, e contro la prevalente attitudine americana all’indifferenza verso
il resto del mondo.
Centrale nell’umanesimo reattivo, o negativo, della Nussbaum è l’idea che
uno degli effetti della globalizzazione sia una sorta di ricontestualizzazione
indotta dall’economia di mercato. Cosa che induce un nuovo sentimento di
interconnessione, che a sua volta rimanda alla necessità di un’etica neoumanista.
Per la Nussbaum l’universalismo astratto è l’unica presa di posizione capace di
fornire solide basi a valori morali quali la compassione e il rispetto degli altri,
che lei attribuisce con forza alla tradizione dell’individualismo liberale
americano. Sono contenta che alla Nussbaum stia a cuore la questione della
soggettività, ma sono meno contenta del fatto che riconduca tale questione
all’individualismo, alle identità fisse, a luoghi immutabili e a legami morali
opprimenti.
In altri termini Nussbaum rifiuta il punto di vista delle filosofie antiumaniste
degli ultimi trent’anni. In particolare abbraccia l’universalismo al di sopra e
contro le prospettive femministe e postcoloniali circa l’importanza della politica
della collocazione e circa l’attenzione al radicamento in termini geopolitici.
Abbracciando l’universalismo disincarnato, la Nussbaum finisce per essere
paradossalmente provinciale nella sua visione di cosa conti come umano
(Bhabha 1996a). Non c’è alcuna stanza per sperimentare nuovi modelli di
soggetto; per Nussbaum la condizione postumana può risolversi nella
restaurazione del concetto umanista di soggetto. Come vedremo nella prossima
sezione, mentre Nussbaum riempe il vuoto etico del mondo globalizzato con le
norme classiche umaniste, i postumanisti critici scelgono la strada della
sperimentazione. Essi tentano di elaborare nuove rivendicazioni di comunità e di
appartenenze da parte di singolarità soggettive che hanno preso le distanze
dall’individualismo umanista.
Una seconda importante area di sviluppo del postumano è quella dei science
and technologies studies. Un’area interdisciplinare che si interroga su questioni
etiche e concettuali cruciali circa lo statuto dell’umano, eppure è generalmente
disinteressata a uno studio approfondito delle sue conseguenze per una teoria
della soggettività. L’influenza della antiepistemologia di Bruno Latour, avversa a
una teoria della soggettività, spiega in parte questo disinteresse. Concretamente,
si traduce in una serie di filoni di ricerca postumana paralleli e non comunicanti.
Una nuova segregazione del sapere ha luogo lungo le linee divisorie delle due
culture, l’umanesimo e le scienze, della quale discuterò a fondo nel quarto
capitolo.
Per adesso vorrei sottolineare che è una comune convinzione delle diverse
teorie postumane il fatto che la scienza attuale e le biotecnologie incidono sulla
stessa materia e sulla struttura del vivente e che hanno modificato drasticamente
il nostro concetto di cosa oggi costituisce il contesto base di riferimento
dell’umano. L’intervento tecnologico sulla materia vivente genera un’uniformità
negativa e una mutua dipendenza tra gli umani e le altre specie.
Il Progetto genoma umano, ad esempio, unifica tutte le specie umane sulla
base di una buona padronanza teorica della nostra struttura genetica. Questo
punto di consenso, tuttavia, è l’origine di divergenti traiettorie di ricerca. Le
scienze umane continuano a porre la questione delle conseguenze
epistemologiche e politiche della condizione postumana per la nostra
comprensione del soggetto umano. Esse provano inoltre profonda ansia per lo
statuto morale dell’umano, ed esprimono il desiderio politico di resistere agli
abusi delle nuove appropriazioni commerciali del sapere tecno-genetico orientate
al profitto.
I contemporanei Science and technologies studies, dall’altro lato, assumono
priorità differenti. Essi hanno sviluppato una forma analitica di teoria
postumana. Ad esempio, Franklin, Lury e Stacey, lavorando all’interno di un
quadro socioculturale di riferimento, indicano il mondo attuale tecnologicamente
mediato con il termine panumanità (2000, 26). Ciò denota un senso globale di
interconnessione tra tutti gli umani, ma anche tra gli umani e l’ambiente non
umano, inclusi ambiente urbano e sociopolitico, che disegnano una rete di
intricate interdipendenze. Questa nuova panumanità è paradossale sotto due
aspetti: in primo luogo, perché una gran quantità delle sue interconnessioni sono
negative e si fondano su un senso comune di vulnerabilità e di paura della
catastrofe imminente, in secondo luogo perché questa nuova prossimità globale
non sempre genera tolleranza e convivenza pacifica. Al contrario, le forme di
rifiuto xenofobico dell’alterità e la crescente violenza armata sono peculiarità
salienti dei nostri tempi, come mostrerò nel terzo capitolo.
Un altro esempio rilevante dello stesso pensiero analitico postumano,
all’interno dell’ambito disciplinare dei Science studies, è l’opera del sociologo
Nicholas Rose (2008). Ha trattato eloquentemente delle nuove forme di
biosocietà e biocittadinanza che stanno emergendo a partire dal diffuso
riconoscimento della natura biopolitica della soggettività contemporanea.
Basandosi sull’intuizione foucaultiana di come il governo biopolitico della vita
definisca le economie capitaliste avanzate del presente, Rose ha sviluppato
un’analisi efficace ed empiricamente fondata dei dilemmi della condizione
postumana. Questa struttura analitica postumana sostiene la causa del filone
foucaltiano della normatività neokantiana. Io trovo questa posizione abbastanza
utile, anche perché difende una visione del soggetto come processo relazionale,
in riferimento all’ultima fase del pensiero di Foucault (Foucault 1978, 1984,
1985). Come spiegherò più in dettaglio nel prossimo capitolo, tuttavia, il ritorno
alla nozione kantiana di responsabilità morale immette di nuovo l’individuo al
centro del dibattito. Ciò non è compatibile con l’ontologia processuale di
Foucault, produce contraddizioni teoretiche e pratiche e smentisce lo scopo
prefissato di elaborare un approccio postumano.
Un altro caso significativo di postumanesimo analitico è quello difeso da
Peter Paul Verbeek (2011). Partendo dal riconoscimento dell’intimo e produttivo
collegamento tra i soggetti umani e gli artefatti tecnologici, e della conseguente
impossibilità teoretica di tenerli separati, Verbeek accenna alla necessità di una
svolta post-antropologica che connetta l’umano al non umano, ma si mostra al
contempo molto attento a non oltrepassare certi limiti. La sua forma analitica di
postumanesimo è subito tenuta in scacco da un approccio alla stessa tecnologia
profondamente umanista e pertanto normativo. La tesi principale di Verbeek
sostiene che le «tecnologie contribuiscono attivamente al modo in cui gli umani
sviluppano un’etica» (2011, 5); una sorta di etica umanista rivisitata e aggiornata
che si sovrappone alle tecnologie postumaniste.
Al fine di difendere il principio umanista al centro delle tecnologie
contemporanee, Verbeek enfatizza la natura morale dei mezzi tecnologici come
agenti che possono guidare i processi decisionali umani su questioni normative.
Egli introduce inoltre forme multiple di intenzionalità macchinica, tutte orientate
verso forme non umane di coscienza morale. Soltanto prendendo in seria
considerazione la moralità degli oggetti, sostiene Verbeek, noi possiamo sperare
di integrare le nostre tecnologie in una più ampia comunità sociale e far
approdare il filone postumano dell’umanesimo al XXI secolo. Ciò si traduce in
uno spostamento della collocazione dell’intenzionalità morale tradizionale dalla
coscienza autonoma trascendentale agli stessi artefatti tecnologici.
Il postumanesimo analitico degli science and technologies studies è una delle
componenti più importanti dello scenario postumano contemporaneo. Nel senso
delle teorie critiche del soggetto, che sono il fulcro della mia attenzione, tuttavia,
essa si trova notevolmente fuori traccia, perché ripropone segmenti selezionati di
valori umanisti senza trattare le contraddizioni prodotte da un tale esercizio di
innesti teorici.
L’orgoglio per i successi tecnologici e per la ricchezza che li accompagna
non dovrebbe impedirci di guardare alle enormi contraddizioni e alle forme di
ingiustizia sociale e morale causate dalle stesse tecnologie avanzate. Non
prestare attenzione a ciò, in nome della neutralità scientifica e di un senso del
legame panumano frettolosamente rinvigorito dalla globalizzazione, è
semplicemente un modo per evitare la questione.
Ai miei occhi quello che è sorprendente riguardo all’approccio dei science
and technologies studies, nonostante esso si ancori teoreticamente alla filosofia
morale e alla teoria socioculturale, è l’alto livello di neutralità politica espresso
circa la condizione postumana. Sia Rose che Franklin e le altre, ad esempio,
affermano chiaramente che il fulcro delle loro ricerche è analitico e che mira a
raggiungere una migliore e più accurata, in qualche modo più interna,
comprensione etnografica di come queste nuove tecnologie funzionano
realmente. I science and technologies studies tendono a non curarsi delle
conseguenze delle loro posizioni circa la rivisitata concezione di soggetto. La
soggettività rimane al di fuori del quadro, e con essa rimane fuori una
comprovata analisi politica della condizione postumana.
Dal mio punto di vista concentrarsi sulla soggettività è necessario perché
questa nozione ci permette di tenere insieme problematiche che al momento
sono sparpagliate in una quantità di ambiti diversi. Ad esempio, le questioni
circa le norme e i valori, le forme dei legami comunitari e delle appartenenze
sociali, così come quelle relative alla governance politica presuppongono e
richiedono la nozione di soggetto. Il pensiero critico postumano desidera
riassemblare una comunità discorsiva oltre i filoni attuali, divergenti e
frammentati, del postumanesimo.
Non posso fare a meno di notare, inoltre, una alquanto bizzarra e molto
problematica divisione del lavoro sulla questione della soggettività tra i science
and technologies studies da un lato e l’analisi politica del capitalismo avanzato
dall’altro. Per esempio, Hardt e Negri (2002, 2004) o la scuola italiana di
Lazzarato (2004) o Virno (2002) tentano di evitare le problematiche connesse a
scienza e tecnologia e non le trattano con la stessa profondità e accuratezza che
riservano all’analisi della soggettività. Io credo che dovremmo rivedere questa
segregazione dei campi discorsivi e impegnarci a favore di una reintegrata teoria
postumana che comprenda sia la complessità scientifica e tecnologica e le sue
conseguenze per la soggettività politica, sia l’economia politica e le forme di
governance. Svilupperò questo progetto in modo graduale nei capitoli che
seguono.
Vi è un altro problema fondamentale a proposito dell’umanesimo residuo
della posizione analiticamente postumana e dei suoi tentativi di moralizzare la
tecnologia, marginalizzando gli esperimenti collaterali con nuove forme di
soggettività, esso consiste in un’espressione di fiducia eccessiva
nell’intenzionalità morale della tecnologia in sé. Più nello specifico questa
posizione nega il presente stato di autonomia raggiunto dalle macchine. La
complessità delle nostre tecnologie intelligenti si trova al centro del
cambiamento postantropologico, che sarà argomento del prossimo capitolo. Per
adesso vorrei considerare solo un aspetto della nostra intelligenza tecnologica.
Un recente numero del settimanale «The Economist» (2 giugno 2012) su
«Morali e macchine» solleva alcune domande pertinenti circa il grado di
autonomia raggiunto dai robot e si appella alla società per elaborare nuove
regole per governarli. Lanalisi è significativa: in opposizione all’idea modernista
del robot come servo dell’uomo, come esemplificato dalle «tre leggi della
robotica» di Isaac Asimov8 formulate nel 1942, oggi ci confrontiamo con
un’altra situazione, in cui l’intervento umano è piuttosto marginale se non del
tutto irrilevante. «The Economist» scrive:

Non appena i robot sono diventati autonomi, la nozione di macchine guidate da computer capaci di
affrontare decisioni etiche è fuoriuscita dal dominio della fantascienza per entrare nel mondo reale (2012:
11).

Molti di questi robot sono stati costruiti per fini militari, e ritornerò sulla
questione nel terzo capitolo, ma molti altri sono usati per rispettabili fini civili.
Tutti condividono una caratteristica cruciale: hanno reso tecnologicamente
fattibile il superamento dei processi decisionali umani sia a livello operazionale
che morale. Secondo questo resoconto, gli umani agiranno sempre meno «nel
circuito» e sempre più «sul circuito», monitorando robot da guerra e da lavoro
piuttosto che controllandoli alacremente. Rimangono da sciogliere solo i nodi
etici e legali per garantire responsabilità ai processi decisionali autonomi delle
macchine, dal momento che esse dispongono già di capacità cognitive.
Via via che esse diventano più intelligenti e diffuse, le macchine autonome
sono tenute a prendere decisioni sulla vita e la morte e pertanto ad assumere
comportamenti di responsabilità attiva. Nonostante questo alto grado di
autonomia, tuttavia, i risultati nel processo decisionale morale rappresentano, al
massimo, una questione aperta. Contro le pretese di una intenzionalità morale
incorporata alla tecnologia, io affermerei piuttosto che la tecnologia è
normativamente neutrale. Si prenda una qualunque domanda scottante, come:
può un veicolo volante senza equipaggio, come un drone, dar fuoco alla casa
dove si sa nascondersi il bersaglio, se essa è anche rifugio dei civili? Dovrebbero
i robot che riparano ai disastri dire la verità alla gente rispetto alla loro
condizione, diffondendo così panico e dolore? Questi interrogativi ci conducono
all’ambito dell’«etica delle macchine», che mira a rendere le macchine adatte a
compiere tali scelte in modo appropriato, in altre parole a distinguere il bene dal
male. Ma chi è che decide davvero?
Secondo «The Economist» (2012) un nuovo approccio etico necessita di
essere elaborato tramite esperimenti attivi. Essi dovrebbero interessare
soprattutto tre aree: in primo luogo il ruolo del diritto, nel decidere se sarà
l’ingegnere, il programmatore, l’industriale o l’operatore il colpevole degli errori
della macchina. Occorre un dettagliato registro di sistema per assegnare la
responsabilità, che possa spiegare il ragionamento che sottende il processo
decisionale. Questo ha implicazioni per la progettazione, con agevolazioni per i
sistemi che obbediscono a regole predeterminate piuttosto che per i sistemi di
decision making. In secondo luogo, quando i sistemi etici sono integrati nei
robot, il giudizio che esprimono dovrà sembrare buono per la maggioranza. Le
tecniche della filosofia sperimentale, che studia il modo in cui le persone
rispondono ai dilemmi etici, dovrebbero essere d’aiuto. In terzo luogo, una
nuova collaborazione interdisciplinare è richiesta tra ingegneri, eticisti, giuristi e
politici, i quali elaborerebbero regole molto divergenti se lasciati al loro proprio
arbitrio. Tutti avrebbero da guadagnare da un lavoro di tipo cooperativo.
L’elemento postumano della situazione descritta dall’«Economist» è
rappresentato dal fatto che in essa non si assume l’umano, il sé individualizzato,
come fattore decisivo del soggetto principale. In essa piuttosto si immagina
quella che io definirei un’interconnessione trasversale tra attori umani e non
umani, in modo non dissimile dall’Actor Network Theory di Latour (Law e
Hassard 1999). È significativo che un giornale cauto e conservatore come «The
Economist», confrontandosi con la sfida rappresentata dalle tecnologie di potere
postumane che abbiamo sviluppato, non faccia appello a un ritorno dei valori
umanisti, ma alla sperimentazione pragmatica. Ciò sollecita tre miei appunti: in
primo luogo, che non potrei essere più d’accordo sul fatto che questo non è il
momento dei lamenti nostalgici per il trascorso umanista, bensì degli esperimenti
lungimiranti per nuove forme di soggettività. In secondo luogo vorrei ribadire la
struttura normativamente neutrale delle attuali tecnologie: esse non sono dotate
di una responsabilità intrinsecamente umanista. In terzo luogo: noto che i
difensori del capitalismo avanzato, nel cogliere il potenziale creativo del
postumano, sembrano più veloci di molti oppositori progressisti e neoumanisti,
animati dalle migliori intenzioni. Nel prossimo capitolo ritornerò sulla tendenza
opportunista del postumano sviluppata nella contemporanea economia di
mercato.
Postumanesimo critico


Il terzo filone del pensiero postumanista, la mia stessa variante, non presenta
alcuna ambivalenza concettuale o normativa verso il postumanesimo. Io vorrei
spingermi oltre il postumanesimo analitico e sviluppare prospettive affermative a
partire dal soggetto postumano. La mia ispirazione ad addentrarmi nel
postumanesimo critico proviene certamente dalle mie radici antiumaniste. Più
nello specifico, la corrente di pensiero che si è spinta più in là nell’apertura del
potenziale produttivo della condizione postumana può essere genealogicamente
rinvenuta nel poststrutturalismo, nell’antiuniversalismo femminista e nella
fenomenologia anti-coloniale di Fanon (1996) e del suo maestro Aimé Césaire
(1995). Essi sono accomunati da un solido impegno per risolvere le conseguenze
del postumanesimo sulla nostra comprensione del soggetto umano e
dell’umanità nella sua interezza.
L’opera dei teorici della razza e di quelli postcoloniali presenta un
postumanesimo cosmopolita situato che è sostenuto sia dalla tradizione europea,
così come da morali e culture non occidentali. Vi sono svariati esempi che
meriterebbero maggiore profondità d’analisi di quella che posso offrire qui; per
adesso vorrei scegliere il più pregnante tra essi9.
Edward Said (1999) è stato tra i primi ad allertare i teorici critici in
Occidente rispetto alla necessità di elaborare un resoconto motivato e non
superficiale dell’Illuminismo fondato sull’Umanesimo laico, che prenda in
considerazione le esperienze coloniali, la sua violenza e la sua ingiustizia
strutturale, e al contempo il vissuto postcoloniale. La teoria postcoloniale ha
sviluppato questa visione nel concetto che gli ideali della ragione, della
tolleranza laica, dell’uguaglianza davanti alla legge e alla norma democratica,
non hanno bisogno di essere, e quindi storicamente non lo sono stati, esclusivo
appannaggio delle pratiche europee di dominazione violenta, di esclusione e di
uso sistematico e strumentale del terrore. La comprensione del fatto che ragione
e barbarie non si escludono a vicenda, così come Illuminismo e orrore, non deve
comportare relativismo culturale o nichilismo morale, quanto piuttosto una
critica radicale alla nozione di umanesimo e dei suoi legami con il criticismo
democratico e la laicità. Edward Said difende l’idea che

sia possibile criticare l’umanesimo in nome dell’umanesimo, e che, resi consapevoli dei suoi abusi
dall’esperienza dell’eurocentrismo e dell’imperialismo, si possa dar forma a un diverso approccio umanista,
cosmopolita e radicato nel testo e nel linguaggio, capace di far proprie le grandi lezioni del passato […]
senza per questo perdere di vista le voci emergenti e le correnti più attuali (2007, 40).

Lottare per questi spazi laici è una priorità per la ricerca postumana di quella
che in alcune zone è oggi nota come etica globale per una politica e
un’economia globali (Kung 1998).
Anche il cosmopolitismo planetario di Paul Gilroy (2000) propone una forma
produttiva contemporanea di postumanesimo critico. Gilroy ritiene l’Europa e gli
europei responsabili del fallimento collettivo dell’applicazione degli ideali
umanisti dell’Illuminismo. Come le femministe, i teorici della razza sono scettici
rispetto alla decostruzione della posizione del soggetto di cui non hanno mai
potuto storicamente godere. Gilroy considera il colonialismo e il fascismo
traditori dell’ideale europeo dell’illuminismo, che è pronto a difendere, pur
sempre ritenendo gli europei responsabili dei propri fallimenti etici e politici. Il
razzismo divide un’umanità uguale e disimpegna i bianchi da ogni sensibilità
etica, riducendoli al mero stato della moralità infraumana. Esso riduce inoltre
coloro che non sono bianchi a uno stato ontologico subumano che li espone ad
atroci violenze. Assumendo una posizione decisa contro gli appelli
fondamentalisti alle differenze etniche avanzati da un’orda di nazionalisti
bianchi, neri, serbi, ruandesi, rexani ecc., Gilroy denuncia ciò che Deleuze
chiama micro-fascismi come un’epidemia dell’era globalizzata (Deleuze e
Guattari, 2006). Egli ascrive il luogo della trasformazione etica alla critica di
ogni categoria nazionalista, non alla sua riproposizione in un’ennesima variante.
Egli oppone la mobilità diasporica e le interconnessioni transculturali alle forze
del nazionalismo. La sua è una teoria della mescolanza, dell’ibridismo, e del
cosmopolitismo decisamente antirazzista. Contro il potere permanente dello
Stato nazione, Gilroy rivaluta le politiche affermative dei movimenti trasversali,
come quelli contro la schiavitù, il femminismo, quelli di Medici senza Frontiere
e simili.
Ecologia e ambientalismo rappresentano potenti e al contempo differenti
risorse di ispirazione per le attuali riconfigurazioni del postumanesimo critico.
Essi si basano su un profondo sentimento di interconnessione tra il sé e gli altri,
inclusi gli altri non umani e gli altri della «terra». Questa pratica di relazione con
gli altri è nutrita e potenziata dal rifiuto dell’individualismo autocentrato. Essa
apporta un nuovo modo di combinare gli interessi personali con il benessere di
un’intera comunità, a partire dalle interconnessioni ambientali.
La teoria ambientalista sottolinea il legame tra l’enfasi umanista per l’Uomo
come misura di tutte le cose e l’assoggettamento e lo sfruttamento della natura e
condanna gli abusi della scienza e della tecnologia. Entrambe recano con sé
violenza epistemica e fisica sugli altri strutturali e sono riconducibili all’ideale
della ragione dell’Illuminismo europeo. La visione del mondo in cui potere e
controllo scientifico razionale coincidono milita inoltre contro il rispetto della
diversità della materia vivente e delle culture (Mies e Shiva 1993). L’alternativa
ambientalista consiste in un nuovo approccio olistico che combina cosmologia,
antropologia e spiritualità femminista postlaica al fine di ribadire la necessità di
forme di rispetto benevolo nei confronti delle differenze, sia di fattezza umana
che non umana. In modo significativo, Mies e Shiva sottolineano l’importanza di
una spiritualità a favore della sostenibilità della vita in questa battaglia per nuove
e concrete forme di universalità: una reverenza nei confronti della sacralità della
vita, un rispetto profondamente radicato verso tutto il vivente. Questa attitudine
è contraria all’umanesimo occidentale e all’investimento dell’Occidente nella
razionalità e nel laicismo come precondizioni per lo sviluppo attraverso la
scienza e la tecnologia. In una prospettiva olistica, esse invocano un re-
incantamento del mondo (1993, 18), o una guarigione della terra e di tutto ciò
che è stato bistrattato crudelmente. Invece dell’enfasi per l’emancipazione
dall’ambito della necessità naturale, Shiva perora la causa di un’emancipazione
che abbia luogo proprio in quest’ambito e in armonia con esso. Da questo
cambio di prospettiva deriva la critica all’ideale di eguaglianza come emulazione
dei modi di comportamento maschili e anche il rifiuto del modello di sviluppo
articolato intorno a questo ideale e che risulta compatibile con le forme globali
di supremazia del mercato.
Nonostante le postumaniste ambientaliste abbiano molto cura nel
differenziarsi da quanto sia anche solo lontanamente connesso al
postmodernismo, al postcolonialismo o al postfemminismo, paradossalmente ne
condividono le premesse epistemiche della critica postumana. Ad esempio,
concordano con la generazione poststrutturalista a proposito della critica alla
omogeneizzazione delle culture a causa degli effetti del capitalismo avanzato
globale. Esse propongono in alternativa un tipo di ambientalismo deciso, basato
su un neoumanesimo non occidentale. Quello che importa per Mies e Shiva è la
riproposizione della necessità di nuovi valori universali che vadano in direzione
dell’interconnessione tra gli umani su scala globale. In questo modo i bisogni
universali sono equiparati ai diritti universali e riguardano tanto le necessità
basilari e concrete, come il cibo, la casa, la salute, la sicurezza, quanto le più
elevate necessità culturali, come l’educazione, l’identità, la dignità, il sapere, gli
affetti, la passione e la cura. Tutto ciò costituisce le fondamenta materiali della
rivendicazione situata di nuovi valori etici.
Un nuovo postumanesimo ambientalista solleva così questioni sul potere e
sui diritti nell’età della globalizzazione e fa appello all’autoriflessività del
soggetto che occupa l’ex centro umanista, ma anche di coloro che dimorano in
uno dei disseminati centri di potere della postmodernità avanzata (Grewal e
Kaplan, 1994).
Nel mio lavoro, definisco il soggetto critico postumano attraverso un’eco-
filosofia delle appartenenze multiple, come soggetto relazionale determinato
nella e dalla molteplicità, che vuol dire un soggetto in grado di operare sulle
differenze ma anche internamente differenziato, eppure ancora radicato e
responsabile. La soggettività postumana esprime quindi una forma parziale di
responsabilità incarnata e integrata, basata su un forte sentimento della
collettività, articolata grazie alla relazione e alla comunità.
La mia posizione è a favore della complessità e promuove la soggettività
radicale postumana, fondandosi sull’idea di divenire, come vedremo nel
prossimo capitolo. Di conseguenza l’attenzione si sposta dalla soggettività
unitaria a quella nomade, in controtendenza rispetto all’umanesimo e alle sue
attuali varianti. Questo punto di vista rifiuta l’individualismo, distanziandosi
ugualmente dal disfattismo relativista e nichilista. Esso promuove un legame
etico di una forma del tutto differente da quella del soggetto individuale e dei
suoi interessi, come definito dalle categorie canoniche dell’umanesimo classico.
L’etica postumana per un soggetto non unitario propone un profondo sentimento
di interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi i non umani e gli «altri della terra»,
attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato dall’individualismo
autocentrato. Come abbiamo visto in precedenza, il capitalismo biogenetico
attuale produce una sorta di mutua interconnessione in senso reattivo di tutti gli
organismi viventi, compresi gli umani. Questa specie di unità tende a essere di
tipo negativo, una forma di comune vulnerabilità, vale a dire un sentimento
globale di interconnessione tra umani e ambiente non umano al cospetto di
pericoli comuni. La ricomposizione postumana dell’interazione umana che
avanzo non coincide con il vincolo reattivo della vulnerabilità, essa è piuttosto
un legame affermativo che colloca il soggetto nel flusso delle relazioni con i
molteplici altri.
Come vedremo nel prossimo capitolo, sono convinta che vi sia un nesso
necessario tra postumanesimo critico e presa di distanza dall’antropocentrismo.
Mi riferisco a questo allontanamento a proposito dell’estensione del concetto di
vita al non umano o alla zoe. Nel postumanesimo radicale ciò si traduce in una
posizione che traspone l’ibridismo, il nomadismo, le diaspore e i processi di
creolizzazione in strumenti per la rivendicazione del riposizionamento della
soggettività, in connessioni e comunità di soggetti umani e non. Questo è il
prossimo passaggio argomentativo che delineerò nel capitolo secondo.
Conclusioni


Questo capitolo ha tracciato il mio itinerario personale tra le molteplici
possibili genealogie del postumano, compreso l’avvento delle forme alternative
di postumanesimo critico. Nuove forme motivate dalla scomparsa dell’Uomo,
misura precedente di tutte le cose. Eurocentrismo, maschilismo e
antropocentrismo sono spiegati di conseguenza come fenomeni complessi e
interrelati. Questo già basterebbe a descrivere il carattere altamente complesso
del concetto di umanesimo stesso. Vi sono infatti molti tipi di umanesimo e il
mio itinerario personale, dal punto di vista generazionale e geopolitico,
evidenzia soprattutto una specifica linea genealogica:

Gli umanesimi romantico e positivista grazie ai quali le borghesie europee hanno esercitato le loro
egemonie sulla modernità, l’umanesimo rivoluzionario che ha scosso il mondo e l’umanesimo liberale che
ha cercato di domarlo, l’umanesimo dei nazisti e gli umanesimi delle loro vittime e dei loro oppositori,
l’umanesimo antiumanista di Heidegger e l’antiumanesimo umanista di Foucault e Althusser, l’umanesimo
laico di Huxley e Dawkins o il postumanesimo di Gibson e Haraway (Davies 1997, 141).

Il fatto che questi diversi tipi di umanesimo non possano essere ridotti a una
sola linea narrativa è alla radice del problema e dei paradossi implicati nei
tentativi di superare l’umanesimo stesso. Quello che mi pare assolutamente
evidente è la necessità storica, etica e politica di superare tale concezione, alla
luce della sua storia di promesse non mantenute e di brutalità senza paragoni.
Una misura metodologica e tattica fondamentale è la pratica della politica della
collocazione, o delle pratiche di sapere situate e responsabili.
Vorrei concludere con tre osservazioni di fondo: in primo luogo, che
necessitiamo di una nuova teoria del soggetto che tenga conto della svolta
postumana e che prenda consapevolezza del declino dell’umanesimo. In secondo
luogo, come mostrato dalla proliferazione di posizioni postumane sia dentro che
fuori dalla tradizione filosofica occidentale, la fine dell’umanesimo classico non
è una crisi, bensì un’apertura che comporta conseguenze positive. In terzo luogo,
il capitalismo avanzato è stato veloce nel rilevamento e nello sfruttamento delle
opportunità aperte dal declino dell’umanesimo classico e dai processi di
ibridazione culturale indotti dalla globalizzazione. Analizzerò quest’ultimo
punto nel prossimo capitolo, perciò vorrei brevemente dire qualcosa sulle altre
due osservazioni.

Per prima cosa, noi abbiamo bisogno di assumere le conseguenze della
condizione postumana nel senso del tramonto dell’umanesimo al fine di
sviluppare salde fondamenta per la soggettività etica e politica. L’era postumana
è carica di contraddizioni, come vedremo nei prossimi due capitoli. Queste
contraddizioni richiedono una valutazione etica, un intervento politico e
un’azione normativa. Ne segue quindi che il soggetto postumano non è
postmoderno, vale a dire non è antifondazionalista. E neppure è decostruttivista,
poiché non è strutturato linguisticamente. La soggettività postumana che difendo
è piuttosto materialista e vitalista, incarnata e integrata, saldamente collocata in
luoghi precisi, secondo la politica femminista della collocazione, a cui ho
accennato nel corso di questo capitolo. Perché sottolineo tanto la questione del
soggetto? Poiché una teoria della soggettività che sia al contempo materialista e
relazionale, natural-culturale e capace di autorganizzazione è cruciale al fine di
elaborare strumenti critici adatti alla complessità e alle contraddizioni dei nostri
tempi. Una forma meramente analitica di pensiero postumano non si spinge
abbastanza lontano. Soprattutto, un serio interesse per il soggetto ci permette di
prendere in considerazione elementi quali la creatività e l’immaginazione, il
desiderio, le speranze e le aspirazioni (Moore 2011), senza i quali semplicemente
non potremmo comprendere la cultura globale contemporanea e le sue
connotazioni postumane. Ci occorre una visione del soggetto che sia «degna del
presente». Questo ci conduce alla mia seconda e conclusiva osservazione: il
problema dell’eurocentrismo nel senso di «nazionalismo metodologico» (Beck
2007)e il suo perdurante vincolo all’umanesimo. Gli attuali soggetti europei del
sapere devono soddisfare l’obbligo etico della responsabilità verso la loro storia
trascorsa e verso la lunga ombra che essa getta sul loro presente politico10.
La nuova missione che l’Europa deve intraprendere implica la critica del
gretto interesse personale, dell’intolleranza e del rifiuto xenofobico degli altri.
Emblematico della chiusura mentale degli europei è il destino dei migranti, dei
rifugiati e dei richiedenti asilo che subiscono il peso del razzismo nell’Europa
contemporanea.
Occorre farsi promotrici di un nuovo ordine del discorso, che non sia più
quello dell’ universale eurocentrico ed europeo, ovvero del soggetto razionale,
bensì della trasformazione radicale di esso, in rottura con le tendenze
imperialiste, fasciste e antidemocratiche europee. Come ho già sostenuto in
questo capitolo, dalla seconda metà del XX secolo, la crisi dell’umanesimo
filosofico - noto anche come morte dell’Uomo - ha al contempo riflesso e
amplificato ampie preoccupazioni nei confronti del declassamento dell’ Europa e
il tramonto del suo statuto geopolitico di stampo imperiale e mondiale. La teoria
e i fenomeni storici reali lavorano di concerto quando si arriva alle
problematiche dell’Umanesimo europeo. A causa della sua risonanza nelle due
dimensioni, la teoria critica può apportare notevoli contributi al dibattito sulla
questione europea.
Credo che la condizione postumana possa facilitare il compito di ridefinire
un nuovo ruolo per l’Europa in un periodo in cui il capitalismo globale attraversa
una fase di trionfo ma anche evidentemente di difetto in termini di sostenibilità e
giustizia sociale (Holland 2011). Questa convinzione piena di speranza si fonda
su un approccio postnazionalista (Habermas 2002, Braidotti 2008a), che esprime
il declino dell’eurocentrismo come evento storico e invoca un cambiamento
qualitativo di prospettiva nel nostro senso collettivo di identità. Seyla Benhabib,
nella sua brillante opera sul cosmopolitismo alternativo (2007), indaga la
questione dell’Europa come sito di metamorfosi. La sua enfasi per una pratica
cosmopolita pluralista e il suo impegno per i diritti dei rifugiati e degli apolidi,
come dei migranti, innova la concezione universalista classica di
cosmopolitismo e propone pratiche situate e legate a contesti specifici. Tutto
questo è in armonia con la mia etica postumana situata. Fine precipuo della
teoria critica postumana è quindi l’elaborazione accurata di precise cartografie
per le differenti posizioni dei soggetti come trampolino di lancio verso la
ricomposizione postumana di un legame cosmopolita panumano.
Più nello specifico, mi piacerebbe spingermi oltre l’aspirazione
socialdemocratica di Habermas e promuovere un progetto postumano di
«divenire molecolare» o di «divenire nomade» dell’Europa (Deleuze e Guattari
2006; Braidotti 2008). Questa è una strada che permette di evitare i trabocchetti
dialettici, ad esempio quello che oppone un’Europa culturalmente e globalmente
differenziata a un’Europa definita in modo gretto e xenofobico dall’identità. Il
divenire nomade dell’Europa implica la resistenza al nazionalismo, alla
xenofobia e al razzismo, cattive abitudini della vecchia Europa imperialista.
Pertanto la prospettiva situata e responsabile deve rimpiazzare lo spropositato e
aggressivo universalismo del passato. Questa prospettiva sposa un progetto
etico-politico, prendendo una posizione decisa anche contro la sindrome della
«Fortezza Europa» e riscoprendo la tolleranza come strumento di giustizia
sociale (Brown 2006).
La svolta postumana può sostenere e intensificare questo progetto nella
misura in cui essa sostituisce l’esclusiva concentrazione sull’idea di Europa
come culla dell’umanesimo, guidata da una sorta di universalismo che la dota di
un senso di finalismo storico unico. Il processo del divenire molecolare, o del
divenire nomade, dell’ Europa comprende il rifiuto del ruolo autoassegnatosi di
supposto centro del mondo. Se davvero una mutazione socioculturale sta
avvenendo in direzione di una società multietnica e multimediale, allora la
trasformazione non può riguardare solo il polo degli «altri». Essa deve
egualmente smuovere la posizione e le prerogative del «medesimo», del centro
precedente. Il progetto di sviluppare un nuovo tipo di identità nomade
postnazionalista europea è sicuramente impegnativo in quanto comporta una
disidentificazione dalle identità prestabilite, fondate sulla nazione. Questo
progetto è soprattutto politico, ma ha anche un forte nucleo affettivo fatto di
convinzioni, visioni e desiderio attivo di cambiamento. Noi possiamo
collettivamente potenziare questi divenire alternativi.
La mia sensibilità postumana potrà apparire visionaria e persino impaziente,
ma è davvero propositiva, o per usare il mio termine preferito, essa è
affermativa. Una politica affermativa combina critica e creatività alla ricerca di
immagini e progetti alternativi. Per quanto mi riguarda, la sfida della condizione
postumana consiste nell’afferrare le opportunità offerte dal tramonto della
posizione di soggetto unitario sostenuta dall’umanesimo, che si è divisa in una
serie di direzioni diverse. Ad esempio: il miscuglio culturale già rintracciabile
negli scenari postindustriali, la frizzante ricomposizione dei generi e delle
sessualità che avviene nonostante l’immagine di apparente calma offerta dalle
pari opportunità, lontane dall’essere sintomi della crisi, sono eventi produttivi.
Essi rappresentano i nuovi punti di partenza che mettono in gioco ancora non
sfruttate possibilità di legami, di costituzioni di comunità, di potenziamento del
soggetto. Allo stesso modo l’attuale rivoluzione scientifica, guidata dalla
biogenetica e dalle altre scienze ambientali e neuronali, crea potenti alternative
per inventare pratiche e definizioni della soggettività. Invece di ricadere nelle
abitudini di pensiero sedimentate che il passato umanista ha istituzionalizzato, la
condizione postumana ci esorta a cimentarci in un salto verso la complessità e i
paradossi dei nostri giorni. Per adempiere a questo compito, una nuova creatività
intellettuale ci è necessaria.
Capitolo 2

Postantropocentrismo
La vita oltre le specie


Ero già una fervente ammiratrice della prosa di George Eliot ancor prima di
apprendere che ella era anche la traduttrice inglese di Spinoza, il mio filosofo
preferito. Mary Evans fu una donna dai molti talenti e non è detto che tutti
coloro che si sono almeno una volta immedesimati con Dorothea in
Middelemarch (2012) o Maggie in II mulino sulla floss (1993) siano
effettivamente consapevoli di essersi catapultati - in modo surrettizio e fatale -
nell’universo monista delle relazioni affettive reticolari, quelle relazioni che
semplicemente fanno girare il mondo. George Eliot è l’autrice della mia frase
preferita in lingua inglese:

se vedessimo e sentissimo in modo intenso tutta la normale vita umana, sarebbe come udire l’erba crescere
e il pulsare del cuore dello scoiattolo, e moriremmo per il frastuono che è al di là del silenzio. Così come
stanno le cose, i più svegli di noi si muovono ben imbottiti di stupidità (2012, 207).

Il frastuono che si ode al di sotto della patina urbana, civilizzata, che
permette identità certe e efficiente interazione sociale è l’indicatore spinozista
della pura energia cosmica che rimarca i processi di civilizzazione, le società e i
loro soggetti. Il vitalismo materialista è un concetto che ci aiuta a dare senso alla
dimensione esterna che di fatto coinvolge l’interno del soggetto come segno
interiorizzato delle vibrazioni cosmiche (Deleuze 2004, Deleuze e Guattari
1996). Esso costituisce inoltre il nocciolo della sensibilità postumana che mira al
superamento dell’umanesimo.
Vorrei spiegare al meglio alcune di queste idee alquanto dense di significato.
L’«universo monista» si riferisce al concetto centrale di Spinoza, secondo cui la
materia, il mondo e gli umani non sono entità strutturatesi dialetticamente
secondo i principi dell’opposizione interna ed esterna. Bersaglio ovvio della
critica è qui la nota distinzione di Cartesio tra mente e corpo, eppure per Spinoza
questo concetto si estende anche oltre: la materia è una, guidata dal desiderio di
autoespressione e ontologicamente libera. L’assenza di ogni riferimento al
momento negativo e alle violente opposizioni dialettiche ha portato a una forte
critica al pensiero di Spinoza da parte di Hegel e del marxismo hegeliano. Il
punto di vista monista di Spinoza è stato interpretato come politicamente
inefficace e sin troppo olistico. Questa interpretazione resse fino al 1970, quando
in Francia una nuova ondata di studiosi riabilitò il monismo spinozista proprio
perché considerato un antidoto alle contraddizioni del marxismo, e perché
metodo per chiarire la relazione che vi è tra Hegel e Marx11. L’idea
fondamentale è il superamento delle opposizioni dialettiche, producendo varianti
non dialettiche dello stesso materialismo (Braidotti 1994, Cleah 2008), come
alternativa al sistema hegeliano. L’eredità spinozista pertanto consiste in un
concetto molto attivo di monismo, che permette ai filosofi francesi di definire la
materia come vitale e capace di autorganizzazione, e portando così a quella
sconcertante combinazione che è il «materialismo vitalista». Dal momento che
quest’approccio rifiuta ogni sorta di trascendentalismo, è noto anche come
«immanenza radicale». Il monismo si traduce nella ricollocazione della
differenza al di fuori dello schema dialettico, come processo complesso di
diversificazione dovuto sia alle forze interne che esterne e basato sulla centralità
della relazione con i molteplici altri.
Queste premesse moniste sono per me i mattoni con cui edificare la teoria
postumana della soggettività che non si fonda sull’umanesimo classico e che si
allontana con cautela dall’antropocentrismo. La classica enfasi sull’unità della
materia, che è centrale in Spinoza, è rinforzata dalla attuale consapevolezza
scientifica circa la struttura autonoma e intelligente di tutto il vivente. Questi
concetti sono sostenuti dai nuovi sviluppi delle attuali bioscienze, delle scienze
cognitive, neuronali e informatiche. I soggetti postumani sono tecnologicamente
modificati a un livello senza precedenti. Ad esempio, un approccio neo-
spinozista è sostenuto e rinvigorito oggi dalle nuove scoperte delle neuroscienze
circa l’interrelazione tra mente e corpo (Damasio 2003). Dal mio punto di vista,
vi è una connessione diretta tra monismo, unità di tutta la materia vivente e
postantropocentrismo come contesto generale di riferimento per la soggettività
contemporanea.
Avvertimenti globali


L’opera di George Eliot è una buona introduzione ad alcuni aspetti di questa
visione del mondo materialista (o, come sosterrò più avanti in questo capitolo,
per il «realismo della materia»). Il sostegno è benaccetto, dal momento che
molte delle asserzioni e delle premesse dell’universo postantropocentrico sono
abbastanza controintuitive, sebbene il termine sia oggi ampiamente diffuso. Nei
dibattiti pubblici mainstream, ad esempio, il postumano è di solito caricato
d’ansia per gli eccessi di intervento tecnologico e per la minaccia del
cambiamento climatico, o circondato dall’euforia per il potenziale di
miglioramento umano. Nella cultura accademica, d’altro canto, la critica
all’antropocentrismo ha persino conseguenze più traumatiche di quelle della
politica transformativa del postumanesimo che ho analizzato nel capitolo
precedente. La svolta postantropocentrica, connessa ai concomitanti impatti della
globalizzazione e delle forme di mediazione guidate dalla tecnologia colpisce
l’umano al cuore e cambia i parametri con i quali si usava definire l’anthropos.
In questo capitolo voglio sostenere che la questione del postumano in
relazione al postantropocentrismo è di un ordine del tutto diverso da quello del
postumanesimo. Per prima cosa, mentre il secondo ha mobilitato prima di tutto
l’ambito disciplinare della filosofia, della storia, dei cultural studies e delle
scienze umane classiche in generale, la prospettiva del postantropocentrismo
considera anche i science and technology studies, i nuovi media e la cultura
digitale, l’ambientalismo e le scienze della terra, la biogenetica, le neuroscienze
e la robotica, le teorie evoluzioniste, la critica del diritto o critical legal theory, la
primatologia, i diritti degli animali e la fantascienza. Questo alto livello di
transdisciplinarietà, da solo, aggiunge un ulteriore strato di complessità alla
questione. La domanda chiave per me è: quale concezione della soggettività e
dei processi di soggettivazione reca con sé l’approccio postantropocentrico?
Cosa c’è oltre il soggetto antropocentrico?
Come ciascuno reagisce a questo cambiamento di prospettiva dipende in
larga misura dalla propria relazione alla tecnologia. Da tecnofila, sono
abbastanza ottimista. Sarò sempre, decisamente, dalla parte del potenziale
liberatorio per non dire trasgressivo di queste tecnologie, contro coloro che
tentano di ridurle a un profilo predeterminato e conservatore, o a un sistema
orientato al profitto che favorisce e accresce l’individualismo. Io credo che uno
dei più acuti paradossi dei nostri giorni consista proprio nella tensione tra
l’urgenza di trovare nuovi modelli alternativi di responsabilità etica e politica per
il nostro mondo tecnologicamente modificato e l’inerzia delle abitudini mentali
consolidate. Donna Haraway lo afferma con il solito acume: le macchine sono
così vive, mentre gli umani sono così inerti! (Haraway, 1995) Quasi a
rispecchiare questo, i Science and technology studies oggi sono un ambito
fiorente nelle istituzioni accademiche, mentre le scienze umane attraversano una
fase seriamente problematica.
Potrebbe essere utile cominciare dallo spiegare alcuni aspetti del contesto
globale in cui sta avvenendo il decentramento dell’antropocentrismo. Come ho
dimostrato altrove il capitalismo avanzato è una forza centrifuga (Braidotti 2003,
20o8a) che produce attivamente differenze a vantaggio della mercificazione.
Esso è un moltiplicatore di differenze deterritorializzate, che vengono
confezionate e commercializzate sotto l’etichetta di «nuove identità negoziabili»
e grazie all’infinita scelta di generi di consumo. Questa logica innesca una
proliferazione e un vampiresco consumo di opzioni quantitative. Molti di esse
riguardano gli altri dal punto di vista culturale, si pensi alla cucina fusion e alla
world music. Jackie Stacey nella sua analisi sulla nuova industria
dell’alimentazione biologica (Franklin et al., 2000) sostiene che stiamo
letteralmente mangiando l’economia globale. Paul Gilroy (2000) e Celia Lury
(1998) ci ricordano inoltre che la indossiamo ogni giorno, la ascoltiamo e la
guardiamo sui nostri schermi.
La circolazione globale di beni, dati, capitali, bytes e bit di informazioni
influenza quotidianamente l’interazione dei soggetti contemporanei. A ogni
passaggio i consumatori si confrontano con molteplici scelte, ma a diversi livelli
di libertà e scelta effettive. Prendiamo ad esempio le trasformazioni occorse nel
compito una volta elementare di telefonare alla propria banca. Quello che
abbiamo imparato ad aspettarci oggi è un sistema postumano di risposta
automatica che fornisce un elenco di numeri i quali ci rimandano a una altra
serie di messaggi preregistrati. Oppure accogliamo con favore la sorpresa di
ascoltare una voce umana in tempo reale, anche se sappiamo con esattezza che
proviene da un call center lontano migliaia di chilometri, da uno dei centri
emergenti dell’economia mondiale. Il risultato finale è che le telefonate sono più
economiche che mai, ma che la loro durata è decisamente aumentata, poiché chi
chiama deve attraversare svariati ostacoli. Di certo la comunicazione via internet
sta sostituendo tutto ciò, ma il mio punto è che la forza centrifuga differenziale
del nostro sistema economico è tale da imporci di correre più velocemente,
lungo segreterie telefoniche e linee transcontinentali, per ritrovarci alla fine allo
stesso posto.
Il tratto più saliente dell’economia globale contemporanea è, quindi, la sua
struttura tecno-scientifica. Esso si sviluppa a partire dalla convergenza tra
diverse, e in passato differenziate, branche della tecnologia, soprattutto tra quelle
che sono considerate i quattro cavalieri dell’apocalisse contemporanea:
nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive.
La struttura biogenetica del capitalismo contemporaneo è un aspetto rilevante del
dibattito sul postumano. Questa struttura comprende il Progetto genoma umano,
la ricerca sulle cellule staminali, l’intervento biotecnologico su animali, semi,
cellule e piante. In sostanza, il capitalismo avanzato al contempo investe e trae
profitto dal controllo scientifico ed economico sulla mercificazione di tutto il
vivente. Questo contesto genera una forma paradossale e piuttosto opportunista
di postantropocentrismo a vantaggio delle forze di mercato che impunemente
privatizzano la vita stessa.
La mercificazione della vita operata dal capitalismo biogenetico avanzato è,
tuttavia, una questione complessa. Prendete in considerazione la mia tesi: i
grandi progressi scientifici della biologia molecolare ci hanno insegnato che la
materia si autorganizza (è autopoietica), mentre la filosofia monista aggiunge
che essa è anche strutturalmente relazionale e dunque connessa a una serie di
ambienti. Queste intuizioni si combinano nella definizione di vitalità intelligente
o di capacità autorganizzativa come forza non confinata all’interno
dell’individuo umano, ma estesa a tutta la materia vivente. Perché la materia è
così intelligente? Perché è diretta da codici informativi, che utilizzano le proprie
barre di informazioni, e che al contempo interagiscono in svariati modi con
l’ambiente sociale, psichico ed ecologico (Guattari 1991). Cosa accade alla
soggettività in questo complesso contesto di forze e in questo flusso di dati? La
mia tesi è che essa diventa un sé relazionale ed esteso, generato dagli effetti
combinati di tutti questi fattori (Braidotti 1994, 2011a).
La capacità relazionale del soggetto postumano non è confinata all’interno
della nostra specie, bensì riguarda elementi non antropomorfi. La materia
vivente - inclusa la carne - è intelligente e autogestita, e lo è precisamente perché
non è separata dal resto della vita organica. Io quindi non mi muovo
completamente all’interno del metodo costruttivista, piuttosto sottolineo il non
umano, la potenza generatrice della Vita, che ho definito come zoe.
Il postantropocentrismo è segnato dall’emergere della politica della vita
(Rose 2008). La vita, invece di essere definita come proprietà esclusiva e diritto
inalienabile di una sola specie, quella umana, su tutte le altre, invece di essere
santificata come un assunto predeterminato, viene intesa come processo
interattivo e senza conclusioni. Questo approccio vitalista alla materia destituisce
i confini binari tra quella parte di vita, sia organica che discorsiva,
tradizionalmente riservata all’anthropos, vale a dire il bios, e la parte più ampia
della vita animale e non umana, anche nota come zoe. Zoe come forza dinamica
della vita in sé, capace di autorganizzazione, consente la vitalità generativa
(Braidotti 2008, 2011). Zoe è la forza traversale che taglia e ricuce specie,
domini e categorie precedentemente separate. L’egalitarismo zoe-centrato è per
me il nucleo della svolta postantropocentrica: è una risposta materialista, laica,
fondata e concreta all’opportunistica mercificazione transpecie che è la logica
del capitalismo avanzato. Essa è inoltre la reazione positiva delle teorie sociali e
culturali al cospetto dei grandi sviluppi fatti dalle scienze. La relazione tra questi
due ambiti sarà trattata nel quarto capitolo. Una teoria postumana del soggetto
emerge dunque come progetto empirico che mira a sperimentare cosa sono
capaci di fare gli attuali corpi modificati biotecnologicamente. Questi
esperimenti no-profit con la soggettività contemporanea concretizzano le
possibilità virtuali del sé relazionale ed espanso che opera nel continuum natura-
cultura ed è mediato tecnologicamente.
Non sorprende che questo approccio sperimentale no-profit alle diverse
pratiche di soggettivazione non costituisca esattamente lo spirito del capitalismo
contemporaneo. Sotto la copertura dell’individualismo, alimentato dall’insieme
quantitativo delle scelte dei consumatori, il sistema promuove efficacemente
l’uniformità e il conformismo all’ideologia dominante. La perversione del
capitalismo avanzato, e il suo innegabile successo, consiste nel ridurre
nuovamente il potenziale per la sperimentazione all’ultrainflazionato discorso
dell’individualismo possessivo (MacPherson, 1962), legato al principio del
profitto. E questo è esattamente il senso opposto a quello delle sperimentazioni
intensive gratuite, che difendo nella mia teoria sulla soggettività politica
postumana. L’economia politica opportunista del capitalismo biogenetico
trasforma la vita/zoe - vale a dire la materia intelligente umana e non - in un bene
di consumo per il commercio e il profitto.
Quello su cui si basano le forze di mercato neoliberiste, e quello in cui
investono finanziariamente, è la potenza informativa della materia vivente in sé.
La capitalizzazione della materia vivente crea una nuova economia politica, che
Melinda Cooper (2013) chiama «la Vita come plusvalore». Essa introduce
tecniche politiche discorsivo-materiali di controllo della popolazione di un
ordine molto diverso da quello della demografia, che occupa ampio spazio
nell’opera di Foucault sulla governamentalità biopolitica. Gli avvertimenti sono
ora globali. Oggi noi stiamo conducendo le «analisi dei rischi» non solo su interi
sistemi sociali e nazionali, ma anche su interi settori della popolazione nella
società del rischio mondializzato (Beck, 1999). Oggi il vero capitale sono le
banche dati di informazioni biogenetiche, neuronali e mediatiche sugli individui,
come il successo di Facebook dimostra a un livello più banale. Il data-mining
comprende profili pratici che identificano diverse tipologie e caratteristiche e li
mette in evidenza come obiettivi strategici specifici per gli investimenti di
capitale. Questo tipo di analisi predittiva si applica anche alle tecniche di life-
mining12, i cui criteri di selezione fondamentali sono visibilità, prevedibilità e
esportabilità.
La Cooper sintetizza in modo eccellente le contraddizioni di questa nuova
economia politica (2013, 26):

dove termina la riproduzione e dove inizia l’invenzione tecnologica, quando la vita è messa a lavoro a
livello microbiologico e cellulare? Qual è la posta in palio, vista l’espansione delle leggi sulla proprietà
privata, che ormai coprono qualsiasi cosa, dagli elementi molecolari (brevetti biologici) agli accidenti della
biosfera (crediti da catastrofi)? Che rapporto c’è tra le nuove teorie biologiche sulla crescita, sulla
complessità e sull’evoluzione e le recenti teorie neoliberali sull’accumulazione? E in che modo è possibile
lottare contro questi dogmatismi senza cadere nella trappola della politica neo-fondamentalista della vita
(un esempio ne sono il movimento per la vita e il catastrofismo vitalista)?

Importante è notare l’enfasi che la Cooper pone nel sottolineare i pericoli
delle posizioni neo-fondamentaliste, come quelle dei difensori del determinismo
biologico e della legge naturale, o dell’olismo ecologico. Il rischio
dell’essenzialissimo è elevato negli attuali contesti sociopolitici e richiede una
costante attitudine critica da parte di quegli studiosi che si schierano invece dalla
parte dell’idea postumana di continuum natural-culturale.
Patricia Clough (2008) persegue una linea simile nella sua analisi sulla
«svolta affettiva». Dal momento che il capitalismo avanzato riduce i corpi alla
loro superficie informativa in termini di risorse energetiche, esso livella altre
differenze categoriche, in modo tale che «si possano rinvenire equivalenze in
grado di giudicare le forme di vita, e di mettere una capacità vitale contro
un’altra» (Clough 2008, 17). Nei nostri sistemi sociali il valore del capitale è
costituito dall’accumulazione di informazioni in sé, dalle sue qualità immanenti
e vitali così come dalla sua capacità di autorganizzazione. Clough ci fornisce una
lista impressionante di tecniche concrete impiegate dal capitalismo cognitivo
(Moulier Boutang 2012) per testare e monitorare le capacità dei corpi affettivi e
bio-mediati: test del DNA, impronte digitali del cervello, imaging neuronale,
rilevazione del calore corporeo e riconoscimento virtuale dell’iride o della mano.
Tutte queste tecnologie sono immediatamente operative come dispositivi di
sorveglianza, sia nella società civile che nella guerra contro il terrorismo: una
governamentalità necropolitica che convive felicemente con la gestione della
vita stessa. Questa governamentalità necropolitica è l’argomento del prossimo
capitolo.
Per adesso, vorrei tornare alla mia tesi principale: l’economia politica
biogenetica del capitalismo comporta, se non la completa scomparsa, almeno la
sfumatura della distinzione tra la specie umana e le altre, dal momento che
ricava profitti da loro stesse. Semi, piante, animali e batteri cadano in questa
logica di inesauribile consumo insieme a vari campioni di umanità. L’immagine
dell’Uomo Vitruviano di Da Vinci sulla tazza di Starbucks (vedi figura)
restituisce ironicamente il carattere vistoso delle connessioni postumane generate
dal capitale globale: «Compro dunque sono» potrebbe essere il suo motto.
L’economia globale è postantropocentrica poiché, infine, raggruppa tutte le
specie sotto l’imperativo del mercato, minacciando con i suoi eccessi la
sostenibilità dell’intero nostro pianeta. Una sorta di interconnessione
cosmopolita negativa è dunque instaurata a partire dal legame panumano della
vulnerabilità. La quantità di studi recenti sulla crisi ambientale e il cambiamento
climatico basterebbe da sola a testimoniare l’attuale emergenza, nonché
l’assunzione della terra a fattore di importanza politica. La retorica ammonitrice
del postantropocentrismo è oggi particolarmente fiorente nella cultura popolare.
Smelik e Lykke (2008) hanno criticato questa retorica, ritenendola una tendenza
negativa, dal momento che utilizza lo stile dell’orrore neo-gotico per
rappresentare le trasformazioni nelle relazioni tra gli esseri umani e gli
apparecchi tecnologici o le macchine. La letteratura e il cinema sull’estinzione
della nostra e di altre specie, tra cui i film catastrofici, costituiscono un genere di
largo successo, che gode di ampio richiamo popolare. Ho definito questo
immaginario sociale, riduttivo e negativo, come tecno-teratologico (Braidotti
2003), cioè come oggetto di ammirazione culturale e aberrazione. Il riflesso
distopico della struttura biogenetica del capitalismo contemporaneo è
fondamentale per spiegare la popolarità di questo genere.

Figura 2.1. L’Uomo Vitruviano sopra una tazza di caffè Starbucks. ©


Guardian News & Media Ltd 2011
La ricerca delle scienze sociali sull’ansia diffusa riguardo sia il futuro della
nostra specie sia l’eredità umanista è ricca e variegata. Importanti pensatori
liberali come Habermas (2010), o influenti come Fukuyama (2002), sono molto
attenti a questo tema, come si dimostrano essere anche i critici sociali Sloterdijk
(2009) e Borradori (2003). In modo diverso, esprimono profonda
preoccupazione per lo statuto della persona umana e sembrano particolarmente
attenti alla metamorfosi del postumano, per la quale indicano come responsabili
le nuove tecnologie avanzate. Da parte mia, condivido quest’interesse, ma come
filosofa postumana con una chiara sensibilità antiumanista, sono tanto poco
incline a farmi prendere dal panico di fronte alla prospettiva di uno slittamento
della centralità della persona umana, quanto capace di vedere i vantaggi di tale
evoluzione.
Ad esempio: una volta che tali pratiche sfumano i confini qualitativi non solo
tra le diverse categorie (uomo/donna, nero/bianco, umano/animale, morto/vivo,
centro/margine), ma anche all’interno di ciascuna di loro, l’umano è sussunto
nella rete globale di controllo e mercificazione che ha fatto della Vita il suo
obiettivo principale. Lo stesso concetto di umano ha di conseguenza gravi
problemi. Donna Haraway lo spiega così:

la nostra autenticità è garantita da un database del genoma umano. L’archivio molecolare è conservato, sotto
forma di proprietà intellettuale legale, nel database di un laboratorio nazionale che ha il mandato di renderlo
pubblicamene disponibile per il progresso della scienza e dello sviluppo industriale. Questo è l’uomo tipo
tassonomico trasformato nell’uomo marchio di fabbrica (2000, 113).

Sappiamo ormai che il modello di Uomo che è stato postulato come
universale è stato ampiamente criticato (Lloyd 1984) proprio a causa della sua
parzialità. Quest’Uomo universale, infatti, coincide implicitamente solo con il
maschio, bianco, urbanizzato, parlante un linguaggio standard, eterosessuale
inscritto nell’unità riproduttiva base, cittadino a pieno di una comunità politica
riconosciuta (Irigaray, 1990a; Deleuze e Guattari, 2006). Si può ottenere
qualcosa di meno rappresentativo? Come se questa linea argomentativa non
bastasse, quest’uomo è anche chiamato a compiti e riportato alla sua particolarità
di specie come anthropos (Rabinow, 2008; Esposito, 2004), vale a dire come
rappresentate di una specie generalmente gerarchica, egemonica e violenta, la
cui centralità è oggi messa in discussione dalla combinazione dei progressi
scientifici e degli interessi dell’economia globale. Massumi si riferisce a questo
fenomeno come a quello dell’ex-uomo: «una generica matrice integrata nella
materialità dell’umano» e come tale sottoposta a mutazioni significative:
«L’integrità della specie è stata sostituita dal modello biochimico di espressione
della mutabilità della materia umana» (1998, 60).
Queste analisi indicano che l’economia politica del capitalismo biogenetico è
postantropocentrica nella sua stessa struttura, ma non necessariamente e
automaticamente postumanista. Questo capitalismo tende inoltre a essere
profondamente inumano, come vedremo nel prossimo capitolo. La dimensione
postumana del postantropocentrismo può quindi essere letta come un movimento
decostruttivo. A essere decostruita è la supremazia della specie, ma a subire un
duro colpo è qualunque nozione invariante di natura umana, di un anthropos e di
un bios come categoricamente distinti dalla vita di animali e non umani, ovvero
dalla zoe. A venire in primo piano, invece, è il continuum natura-cultura nella
struttura incarnata della soggettività estesa. Si tratta di un cambiamento che può
essere interpretato come una sorta di esodo antropologico, una fuga dalla
concezione dominante dell’Uomo come signore incontrastato del creato (Hardt e
Negri 2002, 206) - una colossale ibridazione della specie.
Una volta sfidata la centralità dell’anthropos, un certo numero di confini tra
l’uomo e gli altri da sé cominciano a cadere, con un effetto a cascata che apre
prospettive inaspettate. Così se il declino dell’umanesimo inaugura il postumano
esortando gli umani sessualizzati e razzializzati a emanciparsi dalla relazione
dialettica schiavo-padrone, la crisi dell’anthropos spiana la strada all’irruzione
delle forze demoniache degli altri naturalizzati. Animali, insetti, piante e
ambiente, addirittura pianeta e cosmo nel suo insieme, vengono ora chiamati in
gioco. Questo pone un diverso carico di responsabilità sulla nostra specie,
principale causa del disastro ecologico. Il fatto che la nostra era geologica è
conosciuta come antropocene13evidenzia allo stesso tempo la potenza
tecnologicamente mediata acquisita dall’ anthropos e le sue conseguenze
potenzialmente letali per tutti gli altri.
Inoltre, la trasposizione degli altri naturalizzati pone una serie di
complicazioni concettuali e metodologiche legate alla critica
dell’antropocentrismo. Ciò è dovuto al fatto pratico che, in qualità di entità
incarnate, siamo tutti parte della natura, anche se la filosofia accademica
continua a cercare fondamenti trascendentali per la coscienza umana. Come
conciliare questa consapevolezza materialistica, questo naturalismo strategico
con le esigenze del pensiero critico? Materialismo vitalista, la teoria nomade
postumana contesta l’arroganza dell’antropocentrismo e l’eccezionalismo
dell’umano in quanto categoria trascendentale. Esso sancisce piuttosto
un’alleanza con la forza generativa e immanente di zoe, ovvero la vita nei suoi
aspetti non umani. Cosa che richiede un cambiamento del nostro comune
concetto di pensiero in sé, figuriamoci del pensiero critico.
Nel resto di questo capitolo svilupperò quest’intuizione in una serie di ambiti
interrelati di ricerca postantropocentrica. La mia attenzione si concentra sugli
aspetti produttivi della condizione postumana, nella misura in cui essa apre
prospettive per la trasformazione affermativa sia della struttura della soggettività
che della produzione di teoria e conoscenza. Ho definito questi processi come
«divenire animale, divenire terra e divenire macchina», rifacendomi alla filosofia
di Deleuze e Guattari, nonostante la mia autonomia rispetto al loro pensiero.
L’asse di trasformazione del divenire animale, quindi, comporta uno
spiazzamento dell’antropocentrismo e il riconoscimento della solidarietà
transpecie sulla scorta del nostro essere radicati all’ambiente, vale a dire
incarnati, integrati, in simbiosi con altre specie (Margulis e Sangan, 1995). La
dimensione planetaria o del divenire terra porta alla ribalta le problematiche
dell’ambiente e della sostenibilità sociale, con un’enfasi particolare sull’ecologia
e la questione del cambiamento climatico. L’asse del divenire macchina incrina
la distinzione tra umani e circuiti tecnologici, introducendo relazioni mediate
tecnologicamente e intendendole come fondamentali per la costituzione del
soggetto. Concluderò proponendo un concetto che sarà centrale nel quarto
capitolo, ovvero che ci occorre applicare il concetto vitalista di realismo della
materia come punto di partenza di un sistema etico di valori in cui la Vita abbia
un ruolo centrale non solo nelle scienze dette giustappunto della vita, ma anche
nelle scienze umane del XXI secolo. Cominciamo con il prendere in
considerazione questi casi uno alla volta.
Postumano e divenire animale


Il postantropocentrismo destituisce il concetto di gerarchia tra le specie e il
modello singolare e generale di Uomo come misura di tutte le cose. Il vuoto
ontologico così aperto viene riempito velocemente dall’arrivo di nuove specie.
Ma tra il dire e il fare qui c’è di mezzo la gigantesca barriera di ancestrali
abitudini e pratiche di linguaggio e di convenzioni metodologiche inerenti alla
filosofia critica. Non è, in fin dei conti, il linguaggio lo strumento antropologico
per eccellenza? Nel precedente capitolo abbiamo visto come la tradizione di
pensiero umanista determini anche il contesto per una autocompiacente relazione
dell’Uomo con se stesso. Questo narcisismo ontologico caratterizza il soggetto
dominante sia in relazione alle qualità che include e si vanta di esemplificare, sia
in relazione a quelle che esclude, attribuendole agli altri declassati.
Il soggetto dell’Umanesimo avanza una pretesa internamente contraddittoria
al fine di sostenere la propria posizione sovrana. Egli è al contempo un concetto
astratto e universale tanto quanto portavoce di una specie specifica ed elitaria:
egli è sia Uomo che anthropos. Questa pretesa logicamente impossibile si fonda
sull’assunzione di un’anatomia politica, secondo la quale la controparte del
potere della ragione è la nozione dell’Uomo animale razionale. Come abbiamo
visto nel primo capitolo, ci si aspetta che il secondo possieda un corpo fisico
perfettamente funzionale, implicitamente modellato sugli ideali di mascolinità
bianca, normalità, giovinezza e salute. La dialettica dell’alterità è il motore
interno del potere umanista dell’Uomo, il quale distribuisce le differenze su una
scala gerarchica come metodo per governarle. Tutti gli altri modelli di tipi
corporei sono allontanati dalla posizione del soggetto, pur includendo essi alcuni
altri antropomorfi: non bianchi, non maschi, non normali, non giovani, non in
salute, disabili, malformati o in età avanzata. L’esclusione riguarda anche
categorie ontologiche divisorie tra l’uomo e lo zoomorfo, l’organico e le altre
specie. Tutti questi altri sono descritti in termini di peggioramento, sono
patologizzati ed espulsi dalla normalità, sono spostati sul versante dell’anomalia,
della devianza, della mostruosità e della bestialità. Questo processo è
completamente antropocentrico, secondo linee di sesso e razza, in quanto
sostiene ideali estetici e morali basati sulla civilizzazione europea bianca,
maschilista ed eterosessuale.
Vorrei guardare più da vicino ai meccanismi coinvolti nella dialettica della
differenza negativa, dall’angolazione degli animali. L’animale è il più
necessario, familiare e prezioso altro dell’anthropos. Questa familiarità, tuttavia,
è carica di insidie. In una brillante e parodica tassonomia, Louis Borges
classificava gli animali in tre gruppi: quelli con cui guardiamo la televisione,
quelli che mangiamo, quelli di cui abbiamo paura. Questo intenso livello di
familiarità vissuta confina l’interazione umano-animale nei parametri classici,
soprattutto in quelli della relazione edipica (io e te seduti sullo stesso divano); in
quelli della relazione strumentale (tu che sarai eventualmente consumato); in
quelli della relazione fantasmatica (oggetti esotici ed estinti di info-
intrattenimento e di trastullo).
Lasciatemi analizzare sommariamente ognuno di questi casi. La relazione
edipica tra umani e animali è ineguale e anch’essa dominata dall’Uomo e dalla
consuetudine strutturalmente maschile a dare per scontato l’accesso diretto e il
consumo del corpo dell’altra, animali inclusi. Come modello di relazione, è
inoltre nevrotica, essendo satura di proiezioni, tabù e fantasie. Simbolizza anche
la suprema arroganza ontologica di un soggetto umano che considera che tutto
gli sia dovuto. Derrida si riferisce al potere della specie umana sugli animali con
il termine di carno-fallologocentrismo (Derrida, 2006) e ne ha fatto oggetto di
critica in quanto esempio di violenza epistemica e materiale. Nei loro commenti
Berger e Segarra (2011) sostengono che il lavoro di Derrida sull’animalità non è
marginale ma centrale per la sua analisi sui limiti del progetto illuminista.
L’attacco di Derrida all’antropocentrismo è di conseguenza presentato come
correlato necessario della sua critica all’umanesimo. La forte connessione logica
e storica tra essi determina una critica politica dei danni che la ragione
occidentale ha inflitto ai molteplici altri. Il riconoscimento di vincoli comuni di
vulnerabilità può generare nuove forme di comunità e compassione postumana
(Pick, 2011). Questa relazione familiare, edipica, quindi ambivalente e
manipolatrice, tra umani e animali si è espressa in svariati modi che si sono poi
intrecciati alle nostre abitudini mentali e culturali. Il primo di questi modi è la
metaforizzazione.
Gli animali hanno a lungo scandito la grammatica sociale delle virtù e delle
categorie morali a vantaggio degli umani. Questa funzione normativa è stata
canonizzata dai glossari morali e dai bestiari pedagogici che trasformavano gli
animali in referenti metaforici per norme e valori. Pensiamo semplicemente ai
prestigiosi precedenti letterari delle nobili aquile, delle ingannevoli volpi, degli
umili agnelli, dei grilli e delle api che Tito Livio e Molière hanno immortalato.
Queste metafore consuetudinarie alimentano il carattere fantasmatico
dell’interazione umano-animali, che nella cultura contemporanea è espressa al
meglio dal valore di intrattenimento dei caratteri non antropomorfi, spaziando da
King Kong alle creature blu di Avatar, senza dimenticare i famosi dinosauri di
Spielberg in Jurrasic Park.
A livello sociale, la necessità di nuove interazioni tra umano e animale è
molto sentita, e porta spesso alla critica della rappresentazione. Le «specie
amiche», come Haraway le ha definite (2003), sono state storicamente relegate
in narrative infantilizzanti che stabilivano relazioni di parentela affettive tra le
specie. Il principale effetto di questa narrativa è il discorso circa la devozione e
l’incondizionata fedeltà dei cani, che Haraway tenta di arginare con tutta la sua
passione. Come composto natural-culturale, un cane - non dissimile da altri
prodotti delle tecno scienze - è un altro radicale, sia pure un altro significativo.
Esso è costruito socialmente come molti umani, non solo attraverso lo screening
genetico, ma anche attraverso regole di igiene e salute e attraverso varie pratiche
di toelettatura. Chi non si è sforzato di trattenere una risatina all’apprendere la
notizia del successo delle cliniche per la dieta degli animali domestici nei ricchi
quartieri di Los Angeles? In questi giorni postumani vengono riscoperte
sorprendenti forme di equivalenza tra differenti organismi. Ci occorre escogitare,
pertanto, un sistema di rappresentazione che sia in armonia con l’attuale
complessità degli animali non umani e con la loro prossimità agli umani stessi. Il
punto è adesso approssimarsi a nuovi modelli di relazione; gli animali non sono
più parte di quel sistema di significati che sorregge le proiezioni e le aspirazioni
morali degli umani. Bisogna accostarsi a essi con un nuovo metodo neo-letterale,
come a un codice di significato autonomo, una zoontologia (Wolfe 2003).
La seconda manifestazione significativa della familiarità problematica e
contraddittoria tra umani e animali è legata all’economia di mercato e alla forza
lavoro. Sin dall’antichità gli animali hanno costituito una sorta di zoo-
proletariato, nella gerarchia delle specie decisa dagli umani. Essi sono stati
sfruttati per i lavori faticosi, come schiavi naturali e supporto logistico dagli
albori dell’umanità fino all’età meccanica. Essi rappresentano, inoltre, una
risorsa industriale, dal momento che i corpi animali costituiscono prima di tutto
un prodotto materiale, partendo dal latte fino alla carne commestibile, passando
per le zanne di elefante, il pellame di molte creature, la lana delle pecore, l’olio e
il grasso delle balene, la seta del bruco.
Come indicato dalle figure che ho introdotto nella seconda vignetta
dell’introduzione generale, quest’economia politica di sfruttamento discorsivo e
materiale su larga scala perdura oggigiorno, dal momento che gli animali
rappresentano la materia vivente degli esperimenti scientifici, dell’agricoltura
biotecnologica, dell’industria cosmetica, farmacologica e di molti altri settori.
Animali come i maiali e i topi vengono geneticamente modificati per produrre
organi negli esperimenti per gli xeno-trapianti. L’uso degli animali come cavie e
la clonazione sono oggi pratiche scientifiche convalidate: gli Oncotopi e la
pecora Dolly fanno già parte della storia (Haraway, 2000; Franklin, 2007). Nel
capitalismo avanzato animali di ogni specie e categoria vengono trasformati in
corpi disponibili e commerciabili, inscritti nel mercato globale dello
sfruttamento postantropocentrico. Come ho già detto, il traffico di animali
rappresenta oggi il terzo più ampio mercato illegale al mondo, dopo le droghe e
le armi ma prima delle donne. Ciò sfocia in un legame al negativo tra animali e
umani.
Al culmine della Guerra fredda, quando cani e scimmie venivano lanciati in
orbita nell’ambito dei nascenti programmi di esplorazione dello spazio e della
crescente competizione tra USA e URSS, George Orwell ironicamente affermò:
«Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri» (Orwell
1998). All’inizio del terzo millennio, in un mondo caratterizzato da un warfare
perenne e mediato tecnologicamente, tale imponenza metaforica risuona
piuttosto falsa. Il postantropocentrismo suggerisce piuttosto il contrario: nessun
animale è più uguale di ogni altro, dal momento che essi risultano tutti inscritti
in un’economia di mercato di scambi globali che mercifica tutti con lo stesso
grado di intensità e rende tutti disponibili allo stesso modo. Tutte le altre
distinzioni vanno sfumando.
Al contempo, si va riarticolando il passato modello di relazione. Una svolta
zoe-egalitaria sta avanzando, la quale ci esorta a impegnarci in relazioni più eque
con gli animali. L’attuale pensiero postantropocentrico ha come effetto una
nuova animalità anti-edipica all’interno di una tecno-cultura che cambia
velocemente e che innesca mutazioni a tutti i livelli. Nella mia prospettiva la
sfida oggi è capire come deterritorializzare, come rendere nomade l’interazione
umano-animale, in modo tale da superare la metafisica della sostanza e i suoi
corollari, la dialettica dell’alterità. Ciò comporta anche, conseguentemente, la
desacralizzazione del concetto di natura umana e della vita che la anima. Donna
Haraway, pioniera del pensiero postantropocentrico e accorta studiosa
dell’interazione umano-animale, rintraccia questa svolta fondamentale nelle
vignette ironiche che ritraggono le specie amiche nella posa dell’Uomo
Vitruviano (vedi figura). Possono gatti e cani essere misura almeno di qualcosa,
sia pur non di tutte le cose? Può questo sostituire la gerarchia genetica che
tacitamente sottende all’autorappresentazione umanista? Qui vediamo all’opera
gli effetti contraddittori della politica postantropocentrica della vita in sé, che ho
già commentato in questo capitolo.
Il postumano nella sua variante postantropocentrica soppianta lo schema
dialettico di opposizione, sostituendo ai dualismi predeterminati il
riconoscimento di un profondo zoe-egalitarismo tra umani e animali. La vitalità
dei loro legami si basa sulla condivisione del pianeta, dei territori, dell’ambiente
in termini che non sono più chiaramente gerarchici e autoevidenti.
Questa interconnessione vitale dà luogo a un cambiamento qualitativo della
relazione, allontanandola dallo specismo e avvicinandola alla rivalutazione etica
di cosa i corpi (umani, animali, altri) siano capaci di fare. Un’etologia delle forze
basata sull’etica spinozista emerge come principale punto di riferimento per
cambiare la relazione umano-animale. Essa traccia un nuovo contesto politico,
che io leggo come un progetto affermativo in risposta alla mercificazione della
vita in tutte le sue forme, che rappresenta la logica opportunista del capitalismo
avanzato.

Figura 2.2. S. Harris, Leonardo Da Vinci’s Dog, www.cartoonstock.com.


Figura 2.3. Maggie Stiefvater, Vitruvian Cat.
Questo approccio postantropocentrico richiede maggiori sforzi della nostra
immaginazione, al fine di radicare le nostre rappresentazioni nella vita reale e di
farlo in modo affermativo. A questo proposito, abbiamo bisogno di ripensare
cani, gatti e altri animali da divano come al di sopra delle partizioni tra le specie,
non solo affettivamente, ma anche organicamente. In qualità di composti natural-
culturali, questi animali si presentano come cyborg, vale a dire come creature
ibride, vettori di una relazionalità postumana. Sotto diversi aspetti, la pecora
Dolly è la figurazione ideale della nuova relazione postantropocentrica umano-
animale, per via della complessa temporalità biomediata e delle forme d’intimità
che prefigura. Essa è al contempo l’ultimo esemplare della sua specie -
discendente da un lignaggio di pecore concepite e riprodotte come tali - e il
primo esemplare di una nuova specie: la pecora elettronica che Philip K. Dick ha
sognato, precursore della società di androidi di Blade Runner (1982). Clonata,
non concepita tramite attività sessuale, miscuglio eterogeneo di organismo e
macchina, Dolly è stata disconnessa dalla riproduzione e separata dalla sua
genia. Dolly non è la figlia di nessuno dei membri della sua vecchia specie - al
contempo orfana e madre di se stessa. Prima di un nuovo genere, ella/essa si
situa oltre le dicotomie del sesso del sistema binario e patriarcale di parentela.
Copia fatta in assenza di un singolo originale, Dolly spinge la logica del
simulacro postmoderno alla sua perversione finale. Essa attualizza l’immacolata
concezione in versione biogenetica da terzo millennio. L’ironia raggiunge un
picco patetico quando ci ricordiamo che Dolly è morta di una malattia banale e
molto familiare: reumatismi. Dopodiché, per aggiungere insulto all’ingiuria, essa
ha subito un ultimo attacco alla sua dignità, la tassidermia, ed è stata
imbalsamata ed esposta come rarità scientifica in un museo. Essa proviene dal
XIX secolo ma come celebrità mediatica è perfettamente in accordo con il XX
secolo. Sia arcaica che iper-moderna, Dolly è un composto di molteplici
anacronismi, situati su diversi assi cronologici. Essa occupa momenti temporali
complessi e autocontraddittori. Come altri animali ed entità tecno-teratologiche
(viene in mente l’oncotopo), Dolly infrange la linearità del tempo ed esiste in un
continuo presente. Questa temporalità tecno-elettronica senza tempo è satura di
asincronie, vale a dire è strutturalmente scardinata. Pensare a Dolly riesce a far
sfumare le categorie di pensiero che abbiamo ereditato dal passato - essa forza
latitudine e longitudine del pensiero medesimo, apportando profondità, intensità
e contraddizioni. Dal momento che essa incarna la complessità, tale entità che
non è più un animale ma neppure una macchina compiuta, è l’icona della
condizione postumana.
Haraway sottolinea inoltre la necessità di nuove figurazioni, visioni e
rappresentazioni del continuum umano-animale, proponendo di cominciare col
ripensare l’interazione umano-animale dalla figurazione ibrida dell’oncotopo.
Come primo animale brevettato al mondo, organismo transgenico creato a scopo
di ricerca, l’oncotopo è postumano in ogni senso possibile del termine. Esso è
stato creato per le finalità di profitto e commercio tra laboratori e mercato, e così
viaggia tra gli uffici per i brevetti e quelli della ricerca. Haraway desidera
stabilire un senso di parentela con questi animali transgenici. Enfatizza il fatto
che l’oncotopo è al contempo vittima e capro espiatorio, una figura simile a
Cristo che sacrifica se stesso per trovare una cura per il cancro al seno e salvare
così la vita di molte donne: un mammifero che salva altri mammiferi. Dal
momento che l’oncotopo infrange la purezza del linguaggio, è anche una figura
spettrale. Come Dolly, l’oncotopo è un semprevivo che inquina l’ordine naturale
semplicemente perché non nasce, ma si fabbrica. Esso è un apparato tecno-
teratologico che interferisce con i codici prestabiliti e pertanto destabilizza e
ricostruisce al contempo il soggetto postumano. Figurazioni come Dolly e
l’oncotopo non sono metafore, bensì veicoli dell’immaginazione per radicare il
nostro potere di comprensione degli orizzonti mutevoli del presente.
Sono consapevole che la mia gioiosa approvazione della svolta
postantropocentrica possa apparire troppo entusiasta o persino trionfalista ad
alcuni (Moore 2011). Come ho sostenuto nel capitolo precedente, la relazione di
ciascuno al postumano è determinata in primo luogo dalla valutazione critica
dell’umano. La mia radicata propensione antiumanista si rivela nell’allegria con
cui accolgo il declino dell’anthropos. Il mio entusiasmo per il postumano,
tuttavia, non mi rende cieca di fronte alle cruente contraddizioni e alle nuove
forme di potere delle differenziazioni negative nelle attuali interazioni umano-
animale. I vecchi modelli di comportamento strumentale sono ancora operativi,
di certo, sugli animali usati per procacciare cibo, lana e prodotti per la pelle, nel
lavoro del settore agricolo, industriale e scientifico. Se non altro, l’economia
necropolitica è aggravata dai conflitti globali e dalla crisi finanziaria. Nel suo
essere un capitalismo avanzato con mercati e profitti estratti dalla struttura
biogenetica, tale economia contribuisce al declino dell’antropocentrismo. Gli
animali sono stretti in una doppia morsa: da un lato, sono oggi più che mai
oggetto di un sfruttamento inumano; dall’altro beneficiano di forme di
umanizzazione riparatrice. Questa situazione conflittuale mi porta a concludere
che il postantropocentrismo ha sia per gli uomini che per gli animali i suoi
risvolti negativi. Consentitemi di spiegare.
Umanesimo compensatorio


Durante la seconda metà del XX secolo, la questione dei diritti degli animali,
ha acquistato slancio in molte democrazie liberali avanzate. I partiti politici, di
diversi parlamenti del Nord-Europa, si sono dedicati interamente al benessere
degli altri non antropomorfi - i partiti Verdi o Animalisti. Si attestano sulla
critica allo specismo, ovvero all’arroganza dell’Uomo come specie dominante la
cui prepotenza dà per scontato l’accesso al corpo degli altri. Gli attivisti per i
diritti degli animali difendono la fine dell’antropolatria, l’assunzione della
superiorità umana e lottano per un maggiore rispetto e una maggiore priorità
degli interessi delle altre specie e organismi.
Nella teoria dei diritti degli animali, tali premesse analitiche
postantropocentriche si combinano a elementi del neoumanesimo per riproporre
una serie di valori umanisti. Questo riguarda i soggetti antropomorfi, che si
presume posseggano identità univoca, coscienza auto-riflessiva, razionalità
morale e capacità di condividere emozioni come l’empatia e la solidarietà.
Queste stesse virtù e capacità sono attribuite inoltre agli altri non antropomorfi.
Le ipotesi epistemologiche e morali che sorreggono questa posizione sono state
adottate sin dall’Illuminismo, ma precedentemente erano riservate ai soli umani,
a scapito di tutti gli agenti non umani come gli animali e le piante. I sostenitori
dei diritti degli animali, che definisco come neoumanisti postantropocentrici,
convergono sulla necessità di difendere ed espandere questi valori ad altre
specie.
Il più noto portavoce dei diritti degli animali, Peter Singer, sostiene una
posizione utilitaria a favore del razionalismo morale degli animali. Un’umanista
liberale come Nussbaum (2006) concorda nel perseguire l’equità delle specie.
Muovendosi all’interno della tradizione liberale, Mary Midgley (1996) arriva
persino a non servirsi del termine antropocentrismo, e si riferisce a esso con
l’espressione «sciovinismo umano, senza empatia, equiparabile allo sciovinismo
nazionalista, razzista e sessista. Esso potrebbe anche essere chiamato umanesimo
esclusivo, come opposto al tipo ospitale, amichevole e inclusivo» (1996, 105).
Midgley sostiene questo in modo alternativo, ammettendo che «noi non
terminiamo in noi stessi e non siamo auto-sufficienti, sia come specie che come
individui, ma viviamo naturalmente in una reciproca dipendenza» (1996, 9-10).
Nella sua potente analisi sulla crisi ambientale della ragione, Val Plumwood
(2003) richiede una nuova etica dialogica interspecie basata sul decentramento
del privilegio umano.
Per le eco-femministe radicali qui si rintracciano, volendo, sia l’utilitarsimo
che il liberalismo: il primo nell’approccio condiscendente verso gli altri non
umani, il secondo nella negazione ipocrita del dominio manipolatore dell’uomo
sugli animali. Questa critica viene estesa anche alla componente distruttiva
dell’individualismo umano che comporta egoismo e un senso di superiorità fuori
luogo, che per le femministe è connesso (Donavon e Adams 1996, 2007) al
privilegio maschile e all’oppressione delle donne e sostiene la teoria generale
dello stesso dominio maschile. Mangiare carne è ritenuta una forma legalizzata
di cannibalismo dalle vecchie e dalle nuove femministe vegetariane e vegane
(Adams 1990; MacCormack 2012). Lo specismo è pertanto ritenuto responsabile
di un privilegio indebito, così come il razzismo e il sessismo. La pervasività del
sistema gerarchico sesso-specie tende a rimanere ignorata e non criticata persino
nel contesto dell’attivismo per i diritti animali. L’influenza correttiva del
femminismo è rivalutata, in quanto sottolinea l’importanza politica sia della
collettività che dei legami affettivi.
Nuovi dati analitici sullo statuto degli animali sono oggi presi in
considerazione grazie agli strumenti interdisciplinari di antropologia,
primatologia, paleontologia, agli Science and technology studies. Uno dei più
promettenti neo-umanisti postantropocentrici in quest’ambito è Frans de Waal
(1996), che estende i classici valori umanisti, come l’empatia e la responsabilità
morale, ai primati superiori. Sulla base di rigorose osservazioni empiriche delle
grandi scimmie, de Waal trasforma i nostri concetti di evoluzione e psicologia
evolutiva mettendo in discussione l’accordo sull’enfasi data all’aggressione
come motore dello sviluppo delle specie. L’opera innovativa di de Waal sulla
nostra scimmia interiore, sulla comunicazione tra i bonobi, sullo scambio
sessuale come nucleo della formazione della comunità, suona anche come una
nota in sostegno del ruolo delle femmine della specie nell’evoluzione. Nel suo
studio più recente (2009) de Waal sottolinea l’importanza dell’empatia come
forma di comunicazione emozionale o come forma di comunicazione
emozionalmente mediata tra primati non umani.
L’enfasi sull’empatia aiuta a realizzare diversi obiettivi significativi in vista
della teoria postumana della soggettività. Prima di tutto, essa permette la
riappropriazione della comunicazione come strumento dell’evoluzione. In
secondo luogo essa identifica nelle emozioni, piuttosto che nella ragione, la
chiave di volta della coscienza. In terzo luogo, essa sviluppa quella che Harry
Kunnemann ha definito una forma di naturalismo ermeneutico che si allontana
criticamente dalla tradizione del costruttivismo sociale, e che considera i valori
morali alla stregua di qualità innate. Questo è un apporto significativo per la
teoria del continuum natura-cultura. La nostra specie, sostiene de Waal, è
obbligatoriamente gregaria (2006, 4). Inoltre, la concezione del soggetto di de
Waal è materialista, poiché contraria alla trascendenza della ragione, e attratta
dall’approccio di David Hume alle emozioni e alle passioni quali chiavi della
formazione dell’identità. Ultimo ma per questo non meno importante, è il fatto
che de Waal è un socialdemocratico postantropocentrico molto impegnato nella
creazione di infrastrutture sociali di generosità e reciproco altruismo e
solidarietà. La sua idea che il bene morale sia contagioso è sostenuta dalla teoria
dell’empatia basata sui Neuroni specchio. L’attenzione ricade sulla continuità
etica tra umani e primati superiori, anche se si ricorda che è troppo facile
proiettare le nostre tendenze aggressive negli animali e riservare la qualità del
buono come prerogativa alla nostra specie. De Waal (1996) asserisce che
l’evoluzione ha inoltre fornito i requisiti per la moralità e attacca
l’antroponegazione degli umani presunti superiori (2006, 16). L’empatia come
tendenza morale innata e geneticamente trasmessa, o la naturalizzazione della
morale, è molto in voga, mentre i geni egoisti e l’avidità sono decisamente fuori
moda. Tutti questi aspetti sono molto rilevanti dal punto di vista di una teoria
postumana del soggetto.
La ragione per cui sono in qualche modo scettica nei confronti del
neoumanesimo postantropocentrico, tuttavia, consiste nel fatto che esso non è
critico rispetto all’Umanesimo in sé. I tentativi di compensazione per conto degli
animali generano quella che io considero una sorta di tardiva solidarietà tra gli
abitanti umani del pianeta, oggi traumatizzati dalla globalizzazione, dalla
tecnologia e dalle nuove guerre, e i corrispettivi altri animali. Si tratta, nel
migliore dei casi, di un fenomeno ambivalente, dal momento che combina un
sentimento negativo di legame tra le specie con un classico e piuttosto
magnanimo accento morale umanista. In questo abbraccio transpecie
l’umanesimo viene oggi reimposto acriticamente sotto l’egida dell’egalitarismo
delle specie.
Nel mio lavoro sul soggetto postumano, ho scelto di non accantonare il
riconoscimento critico dei limiti dell’umanesimo, come delineato nel capitolo
precedente. Sono inoltre dolorosamente consapevole del fatto che viviamo
nell’era dell’antropocene, ovvero un’era in cui la bilancia ecologica della terra è
regolata direttamente dall’umanità. Credo, inoltre, che in un momento di
profonda crisi epistemologica, etica e politica, l’estensione dei privilegi dei
valori umanisti alle altre categorie difficilmente può essere considerata una
mossa generosa e disinteressata, più facilmente come il tentativo di rendere
produttiva tale inclusione. Sostenere il legame vitale tra gli esseri umani e le
altre specie è non solo necessario ma anche utile. Ritengo questo legame
negativo in quanto effetto della vulnerabilità condivisa, che è essa stessa una
conseguenza delle azioni umane sull’ambiente. È forse questo il momento in cui
gli umani estendono ai non umani la loro continua ansia per il futuro? Il prezzo
da pagare è l’umanizzazione degli animali non umani, soprattutto nel momento
storico in cui la stessa categoria dell’umano è esposta a critiche.
Antropomorfizzare così da estendere agli animali il principio di uguaglianza
morale e giuridica può essere un gesto nobile, ma è intrinsecamente difettoso,
almeno per due motivi. In primo luogo, conferma il sistema binario di
distinzione tra uomo e animale, imponendo, anche se per un buon fine, la
categoria egemonica dell’umano agli altri. In secondo luogo, nega del tutto le
specificità degli animali, perché li tratta in modo uniforme come simboli del
valore transpecie, con uno stesso e universale sentimento di empatia. A mio
avviso, il punto sulle relazioni postumane, tuttavia, è quello di comprendere
l’interrelazione tra umano e animale come costitutiva dell’identità di ciascuno. È
un rapporto di trasformazione o di simbiosi che si ibrida e altera la «natura» di
ciascuno per porre in primo piano i motivi centrali della loro interazione. Questo
è il milieu del continuum umano/non umano, e ha bisogno di essere esplorato
come fosse un esperimento aperto, non come una deduzione morale scontata di
valori presunti universali. I termini di quella particolare interazione devono
rimanere normativamente neutrali, al fine di consentire ai nuovi parametri di
emergere per il divenire-animale dell’anthropos, un argomento di cui troppo a
lungo si è taciuto in virtù del pregiudizio della supremazia della specie. Occorre
aprire nuovi spazi intensivi di divenire e, cosa ancora più importante, occorre
vigilare affinché tali spazi rimangano aperti.
In un’epoca in cui la filiazione naturale è sostituita dai marchi aziendali e dai
bioprodotti brevettati, gli imperativi etici di creare legami transpecie e di essere
responsabili per il benessere degli «altri» rimangono forti come sempre. Ma ora
abbiamo bisogno di nuove genealogie, rappresentazioni alternative, teoriche e
giuridiche, di un nuovo sistema di parentela, di narrazioni che siano all’altezza di
questa sfida epocale. L’universo che mi trovo a vivere come soggetto
postindustriale del cosiddetto capitalismo avanzato è caratterizzato da molta
familiarità e fin troppi punti in comune tra il posizionamento materiale e
simbolico di diversi esseri umani sessuati femminili, la pecora clonata Dolly e
gli oncotopi usati come cavie. Mi sento altrettanto in debito verso i membri
geneticamente modificati dell’ex regno animale che verso gli ideali umanistici
che proclamano l’unicità della mia specie. Allo stesso modo, la mia posizione
situata di femmina della specie mi rende strutturalmente più vicina agli
organismi viventi da cui preleviamo organi e cellule senza il loro consenso che a
qualunque nozione astratta di inviolabilità e di integrità della specie umana.
So che questo può sembrare incosciente e avventato, ma io rimango da
questa parte: dalla parte di ciò che non si identifica più con le categorie
dominanti del soggetto, ma che non è ancora del tutto libero dalle gabbie
dell’identità, ovvero dalla parte di ciò che è differente e continua a differenziarsi
da sé, e quindi si approssima alla zoe, al soggetto postantropocentrico. Questi
elementi ribelli sono per me connessi alla consapevolezza femminista di cosa
significa incarnare un corpo di donna. In quanto tale, io sono una lupa,
un’allevatrice di molteplici cellule in tutte le direzioni; io sono un’incubatrice e
un veicolo di virus vitali e letali. Io sono la madre terra, generatrice di futuro.
Nell’economia politica del fallologocentrismo e dell’umanesimo
antropocentrico, che predica la sovranità del Medesimo in un falso modo
universalista, il mio sesso ricade sul versante dell’alterità, considerato come
differenza peggiorativa, come essere meno degno. Il divenire postumano si
rivolge alla mia coscienza femminista, perché il mio sesso, storicamente
parlando, non ha mai del tutto preso parte all’umanità, ecco perché la mia fedeltà
a tale categoria resta negoziabile e mai data per scontata.
Postumano e divenire terra


Il declino dell’antropocentrismo si traduce in una vigorosa ristrutturazione
della relazione umano-animale, ma la teoria critica dovrebbe essere in grado di
adattarsi alla sfida, considerando la lunga storia letteraria e discorsiva di tale
relazione e dei molteplici immaginari e legami affettivi che l’hanno consolidata.
La svolta postantropocentrica verso una prospettiva planetaria e geocentrata,
tuttavia, è un terremoto concettuale su una scala del tutto diversa rispetto a
quella del divenire animale dell’uomo. Questo evento sta propagando onde
sismiche nell’ambito delle scienze umane e del pensiero critico. Claire
Colebrook, con il suo consueto acume, si riferisce a esso come a un
«cambiamento del clima critico»14.
Nell’era dell’antropocene, il fenomeno noto come geomorfismo è di solito
espresso in termini negativi, come quelli della crisi ambientale, del cambiamento
climatico e della sostenibilità ecologica. Tuttavia, vi è anche una sua dimensione
positiva nel senso della riconfigurazione della relazione con il nostro complesso
habitat, che usiamo chiamare natura. La terra, o la dimensione planetaria della
questione ambientale, non rappresenta un’area di interesse simile alle altre. Essa
è piuttosto la questione immanente a tutte le altre, dal momento che la terra
costituisce la nostra base generale e comune. Questo è il milieu per ognuno di
noi, abitanti umani e non umani di questo particolare pianeta, in questa
particolare era. La dimensione planetaria apre a quella cosmica in una
prospettiva immanente e materialista. La mia tesi è che, di nuovo, questo
cambiamento di prospettiva è foriero di alternative per il rinnovo della
soggettività. A cosa somiglierà il soggetto geocentrato?
Il punto di partenza rimane per me il continuum natura-cultura, anche se
adesso mi preme aggiungere a tale contesto la convinzione della filosofia
monista che, come ha affermato la Lloyd, «noi siamo tutti parte della natura»
(1994). Questa frase, che lei contestualizza in un’ontologia monista basata sulla
filosofia di Spinoza, invita alla riflessione e al contempo è fonte di ispirazione.
Essa è ulteriormente complicata dal fatto che noi cittadini del terzo millennio
stiamo attualmente vivendo un continuum natura-cultura che è tecnologicamente
modificato e globalmente diffuso. Questo comporta il fatto che non possiamo
appoggiare una teoria della soggettività che dia per scontate le fondamenta
naturalistiche, né possiamo rifarci al costruttivismo sociale o alla teoria dualista
del soggetto che disconosce la dimensione ecologica. Al contrario la teoria
critica deve soddisfare richieste potenzialmente contraddittorie.
La prima consiste nell’elaborare un concetto, dinamico e sostenibile, di
materia vitalista e capace di autorganizzazione; la seconda nell’ampliare il
contesto e la portata della soggettività lungo le linee trasversali delle relazioni
postantropocentriche che ho descritto nel paragrafo precedente. L’idea di una
soggettività come composto che ingloba agenti non umani ha una serie di
conseguenze. In primo luogo, implica che la soggettività non è prerogativa
esclusiva dell’anthropos; in secondo luogo, che non è legata alla ragione
trascendentale; in terzo luogo, che è indipendente dalla dialettica del
riconoscimento; e, infine, che è basata sull’immanenza delle relazioni. La sfida
per la teoria critica è epocale: ci occorre visualizzare il soggetto come entità
trasversale che comprende l’umano, i nostri vicini genetici animali e la terra nel
suo insieme, e ci occorre farlo in un linguaggio comprensibile.
Vorrei soffermarmi su quest’ultimo per un attimo, in quanto solleva la
questione della rappresentazione, cruciale per le scienze umane e per la teoria
critica. Trovare un linguaggio adeguato al postantropocentrismo significa che le
risorse dell’immaginazione, come gli strumenti dell’intelligenza critica, devono
essere impiegate a questo fine. Il tramonto della divisione tra natura e cultura ci
obbliga a escogitare un nuovo vocabolario, con nuove figurazioni per riferirci
agli elementi della nostra soggettività postumana integrata e incarnata. Qui i
limiti del metodo social-costruttivista si palesano e necessitano di essere
compensati da una maggiore creatività concettuale. Tuttavia, molti di noi,
cresciuti con i metodi delle scienze sociali, hanno fatto esperienza, almeno a
certi livelli, del disagio provato al pensiero che ci siano elementi della nostra
soggettività non costruiti socialmente. Parte dell’eredità della sinistra marxista
consiste infatti in un sospetto profondamente radicato verso l’ordine naturale e
l’ecologia.
Come se la diffidenza nei confronti della natura non bastasse, ci occorre
riconcettualizzare la relazione con gli artefatti tecnologici, che andrebbero
ripensanti come intimi e prossimi almeno quanto lo è stata la natura. L’apparato
tecnologico è il nostro nuovo milieu e tale intimità è molto più complessa e
produttiva dell’estensione protesica e meccanica che ne ha fatto la modernità.
Nel corso di questo stravolgimento dei parametri, desidero non scordarmi
dell’importanza della politica femminista della collocazione e continuare a
indagare chi sia esattamente quel noi che in primo luogo avanza tutti questi
dubbi. Questo nuovo progetto per ripensare la soggettività postumana è tanto
ricco quanto complesso, eppure è radicato nella vita reale, nelle condizioni
mondiali storiche che si pongono alla nostra attenzione con pressante urgenza.
Diphes Chakrabarty (2009) affronta alcuni di questi problemi analizzando le
conseguenze del dibattito sulla crisi ecologica per la pratica della storia. Egli
sostiene che la dottrina sul cambiamento climatico causa difficoltà sia spaziali
che temporali. Cambiamento che comporta una variazione di scala nel nostro
pensiero, il quale ha oggi bisogno di includere una dimensione planetaria
geocentrata, riconoscendo che gli umani sono qualcosa in più di un’entità
biologica e che ormai detengono una forza d’impatto geologica. Esso sposta
inoltre i parametri della temporalità dall’aspettativa di continuità a fondamento
della disciplina storica, per contemplare l’idea di estinzione, vale a dire di un
futuro senza noi. Inoltre questi cambiamenti dei parametri basilari hanno effetti
sul contenuto della ricerca storica, tramite la «distruzione dell’artificiale, anche
se onorata dal tempo, distinzione tra storia naturale e storia umana»
(Chakrabarty, 2009, 206). Nonostante Chakrabarty non scelga la via
postantropocentrica, giunge alla mia stessa conclusione: le questioni della
prospettiva geocentrata e del cambiamento della posizione degli umani, da meri
agenti biologici ad agenti geologici, richiede la ricomposizione di soggettività e
comunità.
La svolta geocentrica reca con sé altre serie implicazioni politiche. La prima
riguarda i limiti dell’umanesimo classico all’interno del modello illuminista.
Affidandosi alle teorie postcoloniali, Chakrabarty fa notare che «i filosofi della
libertà sono principalmente, e comprensibilmente, interessati a come gli umani
vogliano fuggire dall’ingiustizia, dall’oppressione, dall’ineguaglianza e persino
dall’uniformità imposte da altri umani o da sistemi progettati dagli umani stessi»
(Chakrabarty, 2009, 208). Il loro antropocentrismo, insieme a uno specifico
concetto culturale di umanesimo, limita la loro specifica rilevanza. Ma l’ala
radicale non se la cava molto meglio. La questione del cambiamento climatico e
il fantasma dell’estinzione umana altera anche «le strategie analitiche che gli
storici postcoloniali e postimperiali hanno sviluppato negli ultimi due decenni in
risposta allo scenario postbellico della colonizzazione e della globalizzazione»
(Chakrabarty, 2009, 198). Io vorrei aggiungere che l’approccio socio
costruttivista delle analisi marxiste, femministe e postcoloniali non li prepara
completamente ad affrontare il cambiamento di scala spaziale e temporale
prodotto dalla svolta postantropocentrica e geocentrata. Questa intuizione è il
nucleo della posizione postantropocentrica che difendo, poiché la ritengo un
modo per aggiornare la teoria critica in vista del terzo millennio.
Molti studiosi stanno giungendo alla stessa conclusione, attraverso strade
diverse. Ad esempio, i filoni postantropocentrici neoumanisti delle teorie
socialiste o del punto di vista femminista (Harding 1986) e delle teorie
postcoloniali (Shiva 1999) hanno affrontato i problemi dell’ambientalismo in
modo postantropocentrico, o almeno non androcentrico, non maschilista, come
abbiamo visto nel capitolo precedente. Questa critica dell’antropocentrismo si
esprime nel nome della coscienza ecologica, con un forte accento sulle
esperienze delle minoranze sociali, come le donne e le popolazioni non
occidentali. Il riconoscimento della prospettiva multiculturale e la critica
all’imperialismo e all’etnocentrismo aggiungono un aspetto cruciale alla
discussione sul divenire terra, eppure oggi esse cadono nelle loro stesse
contraddizioni interne.
Vorrei considerare, ad esempio, il caso dell’ecologia profonda. Le analisi di
Ame Naess (1997a, 1997b) e l’ipotesi Gaia di James Lovelock (1996) sono
teorie geocentrate che propongono un ritorno all’olismo e al concetto di terra
come organismo unitario e sacro. Questo approccio olistico è ricco di
suggestioni, ma è anche abbastanza problematico per una pensatrice materialista-
vitalista. A essere problematica non è tanto la componente olistica quanto il
metodo dualista socio costruttivista. Questo metodo implica l’opposizione della
terra all’industrializzazione, della natura alla cultura, dell’ambiente alla società,
e inoltre si schiera decisamente dalla parte dell’ordine naturale. Ciò si evince in
modo rilevante dall’agenda politica che critica consumismo e individualismo
possessivo, e che include pesanti accuse alla ragione tecnocratica e alla cultura
tecnologica. Quest’approccio presenta però due inconvenienti. In primo luogo, il
suo lato tecnofobico non ci è particolarmente di aiuto, considerato il mondo in
cui viviamo. In secondo luogo, paradossalmente reinstaura la divisione tra
naturale e manufatto che stiamo cercando di superare.
Perché sono in disaccordo con questa posizione? A causa di due concetti
interrelati: in primo luogo il concetto di continuum natura-cultura e il
conseguente rifiuto del metodo dualista del socio-costruttivismo i neoumanisti
postantropocentrici finiscono per restaurare tale distinzione, sebbene con le
migliori intenzioni circa l’ordine naturale; in secondo luogo perché diffido del
legame, tra umani e non umani, di tipo negativo che avanza nell’era
dell’antropocene. L’abbraccio transpecie si fonda sulla nozione di catastrofe
imminente: la questione della crisi ambientale e del riscaldamento globale, per
non parlare della militarizzazione dello spazio, che riducono tutte le specie allo
stesso grado di vulnerabilità. Il problema di questa posizione è che, in flagrante
contraddizione con gli scopi esplicitamente predeterminati, essa promuove la
piena umanizzazione dell’ambiente. Mi colpisce questo movimento regressivo,
quasi una reminiscenza del sentimentalismo della fase romantica della cultura
europea. Concordo con la valutazione di Val Plumwood (1993, 2003), la quale
sostiene che l’ecologia profonda fraintende il nesso terra-cosmo e si limita ad
ampliare i confini dell’egoismo possessivo e dell’interesse personale per
includervi agenti non umani.
In modo significativo, laddove l’approccio olistico si serve del monismo di
Spinoza, esso si stacca chiaramente dalle riletture materialiste e laiche di
Spinoza proposte da intellettuali del calibro di Deleuze e Guattari, Foucault, o
altri filoni radicali della filosofia continentale. Il concetto spinozista di unità tra
mente e corpo è impiegato invece al fine di sostenere la convinzione che tutta la
vita sia sacra e che le sia dovuto il più grande rispetto. Questa idolatria
dell’ordine naturale è connessa alla visione di Dio e al concetto di unità di uomo
e natura di Spinoza. Essa sottolinea l’armonia tra habitat umano e habitat
naturale al fine di proporre una sorta di sintesi dei due. L’ecologia profonda è un
movimento caratterizzato da una forte carica spirituale con accenti essenzialisti.
Dal momento che non vi sono confini e che tutte le cose sono connesse, arrecare
danno alla natura vuol dire, alla fine, arrecare danno a se stessi. Dunque,
l’ambiente terra nel suo insieme merita la stessa considerazione etica e politica
degli umani. Questa posizione decisamente oltre la laicità può anche esserci
utile, ma mi colpisce come essa diventi un’altra maniera per umanizzare
l’ambiente, ovvero una sorta di residuo di magnanima normatività
antropomorfica, applicata agli agenti planetari non umani. L’umanesimo
compensatorio è un’arma a doppio taglio.
In contrasto con questa posizione, partendo però da alcune delle sue
premesse, preferisco proporre una lettura aggiornata dello spinozismo critico
(Citton e Lordon, 2008). Io interpreto il monismo spinozista, e le forme
immanenti di critica radicale che su di esso si basano, come un movimento
democratico che promuove una sorta di pacifismo ontologico. L’uguaglianza
delle specie nel mondo postantropocentrico ci sollecita a dubitare della violenza
e del pensiero gerarchico che derivano dall’arroganza umana e dall’ipotesi
dell’eccezionalismo trascendentale umano. Un approccio spinozista,
reinterpretato grazie a Deleuze e Guattari, ci permette di superare gli ostacoli del
pensiero binario e di centrare la problematica ambientale in tutta la sua
complessità. Il monismo contemporaneo implica una nozione di materia vitale e
capace di autorganizzazione, come abbiamo visto nel precedente capitolo, così
come una definizione non umana della vita come zoe, cioè come forza dinamica
e generatrice. Esso comporta «l’incarnazione della mente e la mentalizzazione
del corpo» (Marks 1998). Deleuze si riferisce a questa energia vitale come al
grande animale, alla macchina cosmica, non in senso meccanicista o utilitarista,
ma al fine di evitare ogni riferimento al determinismo biologico da un lato, e allo
stravalutato e psicologizzato individualismo dall’altro. Deleuze e Guattari usano
inoltre il termine Caos per indicare il frastuono dell’energia cosmica che molti di
noi preferirebbero ignorare. Essi sono molto attenti, tuttavia, a segnalare che il
Caos non è caotico, piuttosto esso contiene le infinite possibilità di tutte le forze
virtuali. Queste potenzialità sono reali nella misura in cui esigono di
concretizzarsi in pratiche sostenibili. Per sottolineare questa stretta connessione
tra il virtuale e il reale, Deleuze e Guattari si rivolgono alla letteratura e
prendono in prestito da James Joyce il neologismo caosmosi. Caosmosi significa
condensazione di caos e cosmos, e rappresenta la risorsa dell’energia perenne.
Ancora, la questione del linguaggio e della rappresentazione si manifesta in
una apparentemente astrusa scelta di termini. Quello che ritengo meritevole di
lode, tra i miei maestri del pensiero critico, è il fatto che sono disposti a correre il
rischio del ridicolo sperimentando un linguaggio che infrange le abitudini
prestabilite e provoca deliberatamente reazioni immaginarie ed emozionali. Fine
delle teoria critica è sconvolgere le opinioni comuni (doxa), non confermarle.
Nonostante questo approccio sia stato accolto in modo ostile dalle accademie
(come vedremo nel quarto capitolo), io lo interpreto come un gesto generoso e
spontaneo di sperimentazione, anche rischiosa, e dunque come una dichiarazione
a favore della libertà accademica.
Per questo sperimento le mie stesse figurazioni alternative, spaziando dal
soggetto nomade agli altri personaggi concettuali, che mi aiutano a navigare le
tempestose acque della condizione postantropocentrica. Rigorosamente
materialista, il mio stesso pensiero nomade difende la nozione postindividualista
di un soggetto caratterizzato da una struttura monista e relazionale, il quale non è
indifferenziato sotto il profilo delle coordinate sociali della classe, del sesso, del
genere, dell’etnia e della razza. La soggettività nomade rappresenta l’ambito
sociale della teoria della complessità.
Cosa lega tutto questo al divenire terra? In realtà, siamo proprio al centro
della questione. Riprendiamo l’argomentazione dall’idea del soggetto
postumano. Ricordiamo allora i molti e tra loro diversi neoumanisti
postantropocentrici - dagli attivisti per i diritti degli animali alle eco-femministe
- che oggi si affannano a celebrare la ricomposizione di un nuovo concetto di
«umanità» intesa negativamente come specie in via di estinzione, accanto ad
altre specie e categorie non umane. In molti considerano la crisi ambientale
come una manifestazione della necessità di restaurare i valori umanisti
universali. Non ho veri e propri motivi di dissentire rispetto all’aspirazione
morale che guida questo processo e condivido lo stesso slancio etico. Sono, però,
seriamente preoccupata da questa riaffermazione acritica dell’Umanesimo, in
quanto esso può rappresentare un fattore vincolante alla nozione reattiva
implicita in un legame panumano declinato al negativo. È importante
sottolineare che la consapevolezza di quel qualcosa che noi chiamiamo umanità
non dovrebbe condurre di nuovo all’appiattimento o alla rimozione di tutti i
differenziali di potere, che ancora sono emanati e resi efficaci dagli assi di
sessualizzazione/razzializzazione/naturalizzazione, sebbene rimescolati dalla
forza centrifuga delle tecnologie avanzate, del capitalismo biogenetico. La teoria
critica oggi ha bisogno di pensare simultaneamente lo spostamento delle
frontiere tra le differenze categoriche e la loro riaffermazione dentro nuove
forme di economia politica biomediata e di biopolitica con modelli ormai
tradizionali di esclusione e di dominazione. Per esempio, nella sua analisi dei
doppi limiti dell’Umanesimo classico e della teoria postmarxista, Dipesh
Chakrabarty solleva una questione molto pertinente a riguardo: se si considera la
differenza della produzione di anidride carbonica tra le nazioni più ricche e
quelle più povere, è davvero giusto parlare della crisi del cambiamento climatico
come di una comune preoccupazione umana? Mi spingo ancora oltre e chiedo:
non è forse azzardato accettare la costituzione in senso negativo di una nuova
formazione dell’umanità, in qualità di categoria che si estende a tutti gli esseri
umani, in deroga a tutte le altre differenze? E se queste differenze esistono e
continuano a contare, cosa ce ne facciamo di loro? Il processo del divenire terra
deve mirare invece a una relazione planetaria qualitativamente differente.
La questione delle differenze ci riporta al potere e alla politica della
collocazione (Ridi, 1984). La necessità di una teoria etica-politica della
soggettività, risponde all’esigenza di capire chi sia esattamente il «noi» di questa
panumanità riunificata dalla paura della minaccia comune. Chakrabarty scrive
lucidamente (2009: 222): «Le altre specie potrebbero costituire una chiave di
ingresso, per gli esseri umani, in una nuova storia universale, necessità che è
evidenziata dal pericolo del cambiamento climatico»15. Infine, direi che i teorici
critici avrebbero bisogno di trovare un argomento rigoroso e coerente per
resistere alla neutralizzazione delle differenze, fenomeno indotto dalla
materialità perversa e dalla mobilità tendenziosa del capitalismo avanzato.
Una via più egalitaria, zoe-centrata, richiede un briciolo di buona volontà da
parte del soggetto dominante, in questo caso l’anthropos medesimo, verso gli
altri non umani. Sono consapevole, di certo, che questo è chiedere molto.
L’allontanamento postantropocentrico dalle relazioni gerarchiche che
privilegiavano l’Uomo richiede al soggetto una sorta di estraniazione e di
riposizionamento radicali. Il modo migliore di assolvere a tale compito è la
strategia della defamiliarizzazione o della presa di distanza critica dalla visione
dominante del soggetto. La disidentificazione comprende la perdita delle
abitudini familiari del pensiero e della rappresentazione al fine di aprire la strada
alle alternative creative. Deleuze avrebbe chiamato tutto ciò
deterritorializzazione attiva. Le teorie femministe, postcoloniali e quelle della
razza hanno inoltre apportato notevoli contributi al metodo e alla strategia
politica della defamiliarizzazione (Gilroy 2005). Io ho difeso tale metodo in
quanto disidentificazione dai valori familiari e normativi, come le istituzioni
dominanti della mascolinità e della femminilità, in modo tale da spostare la
differenza sessuale verso i processi del divenire molecolare (Braidotti 1995,
2011). In modo simile, Moira Gatens e Genevieve Lloyd (1999) affermano che i
cambiamenti sociali storicamente fondati esigono una svolta qualitativa, o un
desiderio condiviso di trasformazione, per «la nostra immaginazione collettiva».
Il contesto concettuale di riferimento che ho adottato per il metodo della
defamiliarizzazione è il monismo. Esso implica flussi di divenire aperti,
interrelazionali, multisessuati e transpecie tramite l’interazione con i molteplici
altri. Un soggetto postumano così costituito eccede sia i confini
dell’antropocentrismo che dell’umanesimo compensatorio, per acquisire una
dimensione planetaria.
Postumano e divenire macchina


La questione della tecnologia è centrale per la condizione
postantropocentrica ed essa è già stata citata diverse volte nei paragrafi
precedenti. La relazione tra l’umano e l’altro tecnologico è cambiata nel contesto
contemporaneo, per toccare livelli senza precedenti di prossimità e
interconnessione. La condizione postumana è tale da costringere allo slittamento
delle linee di demarcazione tra le differenze strutturali, o tra le categorie
ontologiche, ad esempio tra l’organico e l’inorganico, l’originale e il manufatto,
la carne e il metallo, i circuiti elettronici e i sistemi nervosi organici.
Come nel caso della relazione umano-animale, l’esigenza critica è andare
oltre la metamorfizzazione. La funzione di metafora o analogia che i macchinari
hanno assolto nella modernità, in qualità di dispositivi antropocentrici che
imitano le capacità incarnate umane, è oggi sostituita da un’economia politica
più complessa che connette corpi e macchine in modo più intimo, tramite
simulazione e modificazioni reciproche. Come Andrew Huyssen (1986) ha
sostenuto, nell’era elettronica, cavi e circuiti esercitano un altro tipo di seduzione
rispetto a quella dei pistoni e dei motori dell’industria meccanica. Le macchine
elettroniche sono, da quest’angolazione, abbastanza immateriali: scatole di
plastica e cavi di metallo che trasmettono informazioni. Esse non rappresentano
nulla, piuttosto trasportano istruzioni chiare e sono in grado di riprodurre schemi
di informazioni. La pressione principale della seduzione microelettronica è, in
realtà, neurale in quanto mette in primo piano la compenetrazione della
coscienza umana con la complessiva rete elettronica. Le attuali tecnologie
dell’informazione e della comunicazione esteriorizzano e duplicano
elettronicamente il sistema nervoso umano. Questo ha provocato un
cambiamento nel campo delle percezioni: i modelli visuali di rappresentazione
sono stati sostituiti da modelli sensoriali-neuronali di simulazione. Come
afferma Patricia Clough noi siamo diventati corpi biomediati (2008, 3).
Possiamo pertanto tranquillamente partire dall’ipotesi che i cyborg sono le
formazioni sociali e culturali dominanti, i quali hanno ruoli attivi nella fabbrica
sociale, con diverse implicazioni economiche e politiche (vedi figura).
Consentitemi di chiarire quest’affermazione aggiungendo che tutte le tecnologie
possono dirsi dotate di un forte effetto biopolitico sui soggetti incarnati con cui si
intersecano. Così, i cyborg comprendono non solo gli affascinanti corpi high
tech dei piloti militari, degli atleti e delle celebrità, ma anche le masse anonime
del proletariato digitale sottopagato, che nutre l’economia globale
tecnologicamente guidata senza mai potervi accedere (Braidotti 2oo8a).
Ritornerò su questa economia politica crudele nel prossimo capitolo.
Quello che voglio dimostrare adesso è che la mediazione tecnologica è
centrale per la nuova visione della soggettività postumana e che essa costituisce
il terreno per nuove rivendicazioni etiche. Il concetto postumano di sé
relazionale, incarnato ed esteso, tiene sotto controllo la tecno-euforia tramite
un’etica sostenibile delle trasformazioni. Questa posizione equilibrata invita a
resistere sia all’attrazione fatale rappresentata dalla nostalgia, sia alle fantasie
transumaniste e alle altre tecno-utopie. Essa inoltre tiene insieme la retorica del
«desiderio di essere cablati» con il senso più radicale del materialismo che si
dice «orgoglioso di essere carne» (Sobchack, 2004). L’enfasi sull’immanenza ci
permette di rispettare il legame di mutua dipendenza tra i corpi e gli altri
tecnologici, evitando al contempo il disprezzo per la carne e la fantasia
transumanista di abbandonare la materialità finita del sé incarnato. Come
vedremo nel prossimo capitolo, le questioni circa la morte e la mortalità saranno
sollevate per necessità.
Voglio discutere la visione vitalista degli altri tecnologicamente biomediati.
Questa vitalità macchinica non ha molto a che fare con il determinismo, con la
teleologia e la finalità intrinseca, quanto con il divenire e il cambiamento.
Questo ci conduce al concetto che Deleuze e Guattari esprimono come divenire
macchina, ispirati dalle macchine celibi dei Surrealisti, una relazione con la
tecnologia ludica e incline al piacere che non si basa sul funzionalismo. Per
Deleuze questo è connesso al progetto di liberare la personificazione umana dal
suo riferimento alla produttività socializzata, al fine di divenire corpo senza
organi, ovvero corpo privo di efficienza organizzativa. Questo non c’entra molto
con l’insurrezione hippy dei sensi, quanto piuttosto con un attento e riflettuto
programma che persegue due scopi. In primo luogo, esso tenta di ripensare i
nostri corpi in profondità come parte del continuum natura-cultura. In secondo
luogo, esso apporta una dimensione politica, stabilendo il contesto per la
ricomposizione della materialità corporea in direzione diametralmente opposta
alla simulata efficienza e allo spietato opportunismo del capitalismo avanzato.
Le macchine attuali non sono metafore, sono motori, dispositivi che al contempo
catturano e sviluppano forze ed energie, promuovendo le interazioni, le
connessioni multiple e gli assemblaggi. Esse si distinguono per la relazionalità
radicale e la gioia così come per la produttività.
Figura 2.4. Victor Habbick (Maninblack), Robot in the style of Leonardo Da
Vinci’s Vitruvian Man, Clivia - Pixmac.

Il divenire macchina interpretato in questo modo indica e attualizza le
relazioni di potere di un soggetto che non è più rinchiuso nel contesto dialettico,
ma che gode di un legame privilegiato con i molteplici altri e che si fonde con
l’ambiente planetario tecnologicamente modificato. La fusione di umano e
tecnologico si concretizza in un nuovo composto trasversale, un nuovo tipo di
unità eco-filosofica, non dissimile dalla relazione simbiotica tra animale e habitat
planetario. Questa non è la fusione olistica che Hegel aveva rimproverato a
Spinoza, quanto piuttosto una relazione radicalmente trasversale che genera
nuove tipologie di soggettività, prese in considerazione dall’etologia delle forze.
Queste nuove relazioni sostengono l’etica vitalista della mutua interdipendenza
transpecie. L’ecologia si generalizza, diviene eco-sofia, mira a investire
trasversalmente gli strati molteplici del soggetto, dall’interiorità all’esteriorità
passando per tutto ciò che vi sta in mezzo.
Questo processo è ciò che io chiamo «postantropocentrismo postumanista»,
ed è ciò che difendo in questo libro. Esso implica una presa di distanza radicale
dalle nozioni di razionalità morale, identità unitaria, coscienza trascendentale e
valori morali innati e universali. L’attenzione è interamente rivolta alle strutture
relazionali normativamente neutrali sia della soggettivazione che delle possibili
relazioni etiche. L’elaborazione di nuovi contesti normativi per il soggetto
postumano è al centro degli sforzi collettivi delle sperimentazioni no profit di cui
parlavo nel capitolo precedente, rappresenta perciò quello che noi siamo
attualmente capaci di divenire. Questi esperimenti sono praxis (un progetto
condiviso e radicato) non doxa (opinione del senso comune). Il mio stesso
concetto di soggetto nomade incarna questo approccio, il quale combina la
soggettività non unitaria ed etica della responsabilità, mettendo in primo piano il
ruolo ontologico rivestito dalla relazionalità.
Secondo Félix Guattari, la condizione postumana evoca una nuova ecologia
sociale virtuale che include elementi etici, politici, sociali ed estetici, nonché le
connessioni trasversali tra loro. Per spiegare questa visione Guattari propone tre
ecologie fondamentali: quella dell’ambiente, della connessione sociale, e della
psiche. In modo più significativo, egli evidenzia la necessità di creare linee
trasversali che attraversino tutte e tre. Questa spiegazione è importante e vorrei
collegarla al promemoria teoretico che ho fatto prima, precisamente al fatto che
abbiamo bisogno della pratica della defamiliarizzazione come metodo cruciale
della teoria critica postumana per imparare a pensare differentemente.
È importante, ad esempio, cogliere le interconnessioni tra effetto serra,
condizione delle donne, razzismo, xenofobia e consumismo frenetico. Non
dovremmo limitarci a nessuna porzione di queste realtà, bensì dovremmo
rintracciare i collegamenti trasversali che vi sono tra loro. Il soggetto è
ontologicamente polivocale. Esso poggia su un piano di consistenza che
comprende sia il reale già avvenuto, le regioni esistenziali territorializzate, che il
reale ancora virtuale, gli universi immateriali deterritorializzati (Guattari 2007).
Guattari invita alla riappropriazione collettiva della produzione di soggettività,
attraverso una caosmotica disgregazione delle categorie differenziali. Dovreste
ricordare che Caosmosi è l’universo di riferimento del divenire, nel suo
significato di apertura di valori virtuali e trasformativi. Se vogliamo che la
soggettività rifugga il regime di mercificazione peculiare alla nostra epoca
storica, è necessario un salto qualitativo in avanti, una sperimentazione di
possibilità virtuali. Noi abbiamo bisogno di divenire quel tipo di soggetti che
desiderano attivamente reinventare la soggettività come insieme di valori
mutevoli e che traggono il loro piacere da questa attività, non dalla perpetua
riproposizione di regimi familiari.
L’opera di Humberto Marturana e Francisco Varela (1972) è una grande
fonte di ispirazione al fine di ridefinire questo tipo di etica della
codeterminazione tra il sé e gli altri, etica vincolata ambientalmente, non
kantiana e postantropocentrica. Il concetto di codipendenza sostituisce qui quello
di riconoscimento, come l’etica della sostenibilità sostituisce la filosofia morale
dei diritti. Questo lavoro conferma l’importanza di una prospettiva radicata,
situata, molto specifica e responsabile, all’interno del movimento che definisco
egalitarismo zoe-centrato.
Nella sua analisi delle metamorfosi esistenziali collettive che stanno
avvenendo oggigiorno (2007), Felix Guattari si riferisce alla distinzione di
Varela tra sistemi autopoietici (capaci di autorganizzazione) e allopoietici.
Guattari si spinge oltre la distinzione proposta da Varela, dal momento che
estende il principio di autopoiesi (che in Varela è riservato al solo organismo
biologico) all’ambito delle macchine e degli altri tecnologici. La soggettivazione
autopoietica, l’autosoggettivazione, è un altro modo di chiamare la soggettività
secondo Guattari, ed essa può essere impiegata sia per gli organismi viventi, gli
umani come insieme che si autorganizza, che per la materia inorganica, ovvero le
macchine.
L’autopoiesi macchinica di Guattari stabilisce un collegamento qualitativo tra
la materia organica e gli artefatti tecnologici e macchinici. Essa si traduce in una
radicale ridefinizione delle macchine, ora considerate sia intelligenti che
generatrici. Le quali possiedono una propria temporalità e si sviluppano
attraverso generazioni: contengono la loro stessa virtualità e forma futura. Di
conseguenza, hanno proprie forme di alterità non solo rispetto agli umani, ma
anche tra loro stesse, mirano a raggiungere una sorta di meta-stabilità,
presupposto dell’individuazione. La rilevanza dell’autorganizzazione e della
metastabilità influenzano il progetto di divenire macchina del soggetto
postumano. Ciò ci aiuta a ripensare la soggettività mediata trasversalmente e
tecnologicamente, evitando al contempo il riduzionismo scientifico. Nella sua
critica alla retorica del vitalismo biotecnologico Ansell Pearson (1997) ci mette
in guardia circa le pericolose fantasie legate alla nozione rinaturalizzata di
evoluzione, modificata dal capitalismo avanzato biotecnologico. Io credo che il
fine della posizione postumana sia ripensare l’evoluzione in modo non
determinista e al contempo postantropocentrico. In contrasto con le idee
classiche, lineari e teleologiche di evoluzione (Chardin de Teillard 1959), mi
piace evidenziare il progetto collettivo di trovare una più appropriata
interpretazione della complessità di fattori che strutturano il soggetto postumano:
la nuova prossimità agli animali, alla dimensione planetaria, agli alti livelli di
mediazione tecnologica. L’autopoiesi macchinica indica che la tecnologia è un
luogo del divenire postantropocentrico, una soglia per altri possibili mondi.
La nozione chiave è la trasversalità delle relazioni, per un soggetto
postantropocentrico e postumano che traccia connessioni trasversali lungo le
linee materiali e simboliche, concrete e discorsive delle relazioni e delle forze.
La trasversalità concretizza l’egalitarismo zoe-centrato come etica e metodo per
rendere conto delle forme alternative della soggettività postumana. Un’etica
basata sul primato della relazione, dell’interdipendenza, è un’etica che valorizza
zoe in sé.
Con le espressioni «neomaterialismo radicale» (Braidotti 1994) o «realismo
della materia» (Fraser et. al 2006) mi riferisco, inoltre, a queste pratiche del
divenire macchina. Queste concezioni sono supportate e attraversate dalle
interpretazioni rivoluzionarie della struttura concettuale della materia stessa
(Delanda 2002; Bennet 2010) nell’era delle tecnologie della biogenetica e
dell’informazione. L’ottica spinozista dell’ontologia politica monista appoggia le
politiche dell’affermazione e sostiene una visione non determinista
dell’evoluzione. Da un’angolazione politica, l’accento ricade di conseguenza
sulla micro-politica delle relazioni, in qualità di etica postumana che traccia
collegamenti trasversali tra linee e forze materiali e simboliche, concrete e
discorsive. L’attenzione è rivolta alla potenza e all’autonomia dell’affetto e alla
logistica della sua concretizzazione (Massumi 2002). La trasversalità incarna
l’etica fondata sulla supremazia della relazione, dell’interdipendenza, che
valorizza i non umani e la vita apersonale. Questo è quello che mi piace definire
politica postumana (Braidotti 2008a).
La differenza come principio del Non-uno


Permettetemi di fare un bilancio di quanto siamo arrivati lontano nel
complesso dibattito aperto dalla scomparsa dell’anthropos. In primo luogo, ho
sostenuto che il capitalismo contemporaneo è biopolitico poiché mira a
controllore tutte le forme di vita. Esso si è già evoluto in una sorta di biopirateria
(Shiva 1999), dal momento che sfrutta la potenza generativa delle donne, degli
animali, delle piante, dei geni e delle cellule. In secondo luogo, questo significa
che umani e altri antropomorfi sono ricollocati in uno spazio attiguo e continuo a
quello degli altri non antropomorfi, della terra e degli animali. La distinzione
categorica che separava l’umano dagli altri naturalizzati è saltata, una volta
rovesciata la convinzione umanista riguardo alla costituzione dell’unità di
riferimento basilare dell’umano. In terzo luogo, questo processo antropocentrico
sfocia in una categoria negativa di umano, intesa come una specie in via di
estinzione vincolata alla paura della fine. Esso esorta inoltre a una rinnovata
unità tra l’uomo e le altre specie, nella forma dell’estensione compensatoria dei
valori e dei diritti umani agli altri non umani. In quarto luogo, lo stesso sistema
perpetua modelli tradizionali di esclusione, sfruttamento e oppressione. Al fine
di gettare le fondamenta per la mia tesi circa i vantaggi della posizione del
soggetto postumano basata sulla relazionalità e le connessioni attraverso gli assi
classici della differenziazione, occorre che il prossimo passo
dell’argomentazione sia compiuto in direzione della questione della differenza.
Osserverò quindi criticamente lo statuto e la funzione della differenza in questo
nuovo orizzonte postantropocentrico.
Come ho affermato nel capitolo precedente, la caratteristica più evidente
dell’attuale ridefinizione scientifica della materia è lo slittamento della
differenza dagli schemi binari ai processi rizomatici; dalle opposizioni
sesso/genere o natura/cultura ai processi di sessualizzazione/razzializzazione e
naturalizzazione che fanno della vita in sé, o della vitalità della materia, il loro
obiettivo principale. Questo sistema provoca deliberatamente l’indebolimento
delle differenze dicotomiche, il che non risolve né migliora il potere delle
differenze, anzi lo intensifica in modi diversi. In altre parole gli effetti
dell’opportunismo postantropocentrico dell’economia globale generano un
cosmopolitismo negativo o un sentimento reattivo di panumanità attraverso
l’introduzione della nozione di plusvalore della vita e un grado più elevato di
condivisione della vulnerabilità umana.
La linea di ricerca politica deve partire da queste prime considerazioni per
sollevare alcune domande chiave riguardo alla soggettività. Ad esempio,
Katherine Hayles si chiede: «Cosa hanno a che fare i corpi sessuati con la
cancellazione del corpo e con la conseguente fusione dell’intelligenza
macchinica e umana nella figura del cyborg?» (Hayles 1999, XII). Con accento
simile, Balsamo, che ritiene i corpi già e sempre segnati da sesso e razza,
domanda: «Quando il corpo umano è frammentato in organi, fluidi, codici
genetici, cosa accade all’identità sessuale? Quando il corpo è diviso in parti
funzionali e codici molecolari, dove si colloca il genere?» (1996, 6). Proviamo
ad affidarci alle donne, ai gay, alle lesbiche e alle altre esperienze alternative,
con i loro corpi storicamente porosi (Grosz 1994) e il loro accesso marginale ai
diritti civili, sia per riaffermare la potenza che per migliorare la potenzialità
dell’organismo postumano come wetware16 generativo.
L’ingegneria genetica e le biotecnologie hanno determinato uno
sconvolgimento qualitativo concettuale nella classificazione attuale dei soggetti
incarnati. Come ho affermato in precedenza, i corpi sono ridotti alla loro
superficie informazionale in termini di materialità e capacità vitali. Di
conseguenza, ciò comporta che i segnali di organizzazione e distribuzione delle
differenze sono ricollocati nei micro-elementi della materialità vitale, quali le
cellule degli organismi viventi e il codice genetico di intere specie. Siamo ben
lungi dal sistema grossolano che evidenziava la differenza sulla base di
caratteristiche anatomiche, verificabili a occhio nudo, tra i sessi, le razze e le
specie. Siamo passati dal biopotere, che Foucault esemplificava tramite
l’anatomia comparata, a una società fondata sul controllo del potere molecolare
della zoe. Allo stesso modo siamo passati dalla società disciplinare a quella del
controllo, dall’economia politica del Panopoticon all’informatica del dominio
(Haraway 1990, 1992, 2003). Le questioni della differenza e della dissimmetria
del potere, tuttavia, rimangono centrali come sempre.
Tale panorama politico postumano non è necessariamente più egualitario o
meno razzista ed eterosessista, visto il suo impegno a sostenere ruoli di genere
conservatori e valori familiari, anche a costo di proiettarli su speci intergalattiche
e aliene, - come nel caso del successo hollywoodiano del film Avatar (2009). Il
potere della tecno-cultura contemporanea di destabilizzare gli assi categoriali
della differenza inasprisce le relazioni di potere e le conduce a nuovi picchi
necropolitici, come vedremo nel prossimo capitolo. Esso si traduce anche in
alcune tendenze ingannevoli, quali la tecno-trascendenza, che unita al carattere
orientato al profitto dell’individualismo liberale, emerge come uno dei segni
distintivi dell’immaginario sociale del capitalismo avanzato.
Quali sono le conseguenze del fatto che l’apparato tecnologico non è più
sessualizzato, naturalizzato e razzializzato, ma piuttosto neutralizzato come cifra
della commistione, dell’ibridismo e dell’interconnessione, nel momento in cui la
transessualità diviene topos postumano per eccellenza? Se la macchina è capace
di autogestione ed è al contempo transessuale, il vecchio, organico corpo umano
necessita di essere collocato altrove. Sempre memore del monito di Lyotard circa
l’economia politica del capitalismo avanzato, ritengo che non dovremmo fidarci
dello svuotamento di concetti e posizioni né degli stati di indeterminatezza che
esso genera. Sebbene allettante, sarebbe fuorviante dare per scontato che i
soggetti postumani incarnati siano già oltre le differenze sessuali e razziali. La
politica della rappresentazione e, quindi, la posizione delle differenze, sono
ancora ferme al loro posto, anche se hanno vacillato significativamente
(Bukatman 1993). Lungo la frontiera elettronica, come abbiamo visto prima, il
punto di riferimento per il soggetto tecnologicamente mediato non si basa
sull’opposizione organico/inorganico, maschio/femmina, e soprattutto non è di
colore bianco. Il capitalismo avanzato è un sistema postgenere capace di
accogliere un alto livello di androginia e un indebolimento notevole della
divisione categorica tra i sessi. Esso è inoltre un sistema postrazziale che non
classifica più i popoli e le loro culture in base alla pigmentazione della pelle
(Gilroy, 2000), nondimeno rimane profondamente razzista. Una solida teoria
della soggettività postumana può aiutarci nella riappropriazione di questi
processi, sia teoreticamente che politicamente, non solo come strumento
analitico, ma anche come base alternativa della soggettivazione.
Le differenze sessualizzate, naturalizzate e razzializzate vengono scardinate
dal ruolo di indicatori di confine delle categorie che avevano durante
l’umanesimo per funzionare come motori per l’elaborazione di modelli
alternativi di soggettività trasversale, che si estendono non solo oltre sesso e
razza, ma anche oltre l’umano. L’eco-filosofia postumana si applica alla rilettura
in termini materialisti dell’intricata trama di interrelazioni che collegano i
soggetti attuali alle loro molteplici ecologie, quella sociale, naturale e psichica,
come Guattari ci ha mostrato. Più importante al fine della tesi qui adottata, tali
differenze non eliminano i processi di sessualizzazione, naturalizzazione e
razzializzazione che costituiscono i pilastri della governamentalità biopolitica,
piuttosto li ristrutturano profondamente.
In termini di politica femminista, ciò significa che ci occorre ripensare la
sessualità senza i generi, cominciando proprio con la ripresa vitalista della
struttura polimorfa e, secondo Freud perversa (nel senso di ludica e priva di fini
riproduttivi), della sessualità umana. Abbiamo inoltre bisogno di rivalutare la
potenza generativa del corpo delle donne. In questa prospettiva, il genere è solo
un meccanismo storico e contingente di cattura delle molteplici potenzialità del
corpo, incluse le sue capacità generative e riproduttive. Trasformare il genere in
matrice transtorica del potere, come suggerisce la teoria queer della tradizione
linguista socio-costruttivista (Butler 1991), costituisce semplicemente un errore
concettuale e politico. Nella prospettiva monista dell’economia politica
postumana, il potere non è un dato statico, ma un flusso complesso e strategico
di effetti che invita a una politica pragmatica di intervento e alla ricerca di
alternative sostenibili (Braidotti, 2008a). In altre parole, abbiamo bisogno di
sperimentare con resistenza e intensità al fine di comprendere che cosa possono i
nostri corpi postumani. Dal momento che il sistema cattura la complessità della
sessualità umana in una macchina binaria che privilegia la formazione di
famiglie eterosessuali e sottrae letteralmente ogni altra possibilità ai nostri corpi,
non sappiamo più cosa sono in grado di fare i corpi sessuati. Abbiamo dunque
bisogno di riscoprire la nozione di complessità sessuale che delimita la sessualità
nelle sue forme umane e postumane. Un approccio postantropocentrico mostra
con chiarezza che la materia corporea umana, come delle altre specie, è sempre
già sessuata e quindi differenziata sessualmente lungo gli assi della molteplicità
e dell’eterogeneità.
Ho affermato che il femminismo vitalista, materialista o postumano,
poggiando su un’ontologia politica monista e dinamica, sposta l’attenzione
lontano dalla distinzione sesso/genere, mettendo in rilievo la sessualità come
processo. Questo significa, per estensione, che la sessualità è una forza, un
elemento costituente, capace di deterritorializzare l’identità di genere e le sue
istituzioni (Braidotti, 1994). Unito all’idea del corpo come di un complesso
assemblaggio di possibilità virtuali, questo approccio postula la priorità
ontologica della differenza e la sua forza autotrasformatrice. Claire Colebrook
(2000), ad esempio, sostiene che la differenza sessuale non è un problema da
risolvere, bensì una posizione utile da cui partire. Patricia MacCormack (2008)
pone la stessa attenzione alla necessità di ritornare alla sessualità come forza
viscerale, polimorfa e complessa e di liberarla sia dal problema dell’identità che
dalle opposizione dualiste. Le femministe postumane praticano la sovversione
non nel senso dello sviluppo delle contro-identità, bensì nel senso della
dislocazione delle identità attraverso la perversione dei modelli standardizzati di
interazione sessuale, razziale e naturale.
Questo mettere alla prova cosa i nostri corpi sessuati possono fare, tuttavia,
non equivale a dire che nella sfera sociale le differenze non contano più o che le
relazioni tradizionali di potere sono in realtà migliorate. Al contrario su scala
mondiale forme estreme di differenza sessuale polarizzata sono più diffuse che
mai. Esse vengono proiettate in relazioni geopolitiche, in modo da creare
immagini sessuate belligeranti dello scontro di civiltà, che, come ho sostenuto
nel capitolo precedente, è invocato nel presunto nome delle donne e delle
persone LGBT. Queste manifestazioni reazionarie delle dicotomie di genere
costituiscono però solo una parte del quadro generale.
Il quadro più ampio mostra che lo spostamento del precedente sistema di
indicatori di differenze ha reso ancora più urgente la riproposizione del concetto
di differenza come determinante ma non essenzialista. Ho sottolineato la
differenza in quanto principio di Non-uno, ovvero come una differenza da sé che
è costitutiva del soggetto postumano, e la necessità di elaborare forme di
responsabilità etica per accompagnarlo. L’etica postumana ci spinge ad adottare
il principio del Non-uno come struttura profonda della nostra soggettività,
tramite il riconoscimento dei legami che ci uniscono ai molteplici altri in una
trama vitale di interrelazioni complesse. Questo principio etico infrange la
fantasia dell unita, della totalità e dell’univocità, così come le narrative
psicanalitiche dominanti della perdita primordiale, della mancanza incolmabile e
della separazione irreparabile. Quello che vorrei evidenziare, invece, con un
accento maggiormente affermativo, è la priorità della relazione, la
consapevolezza che il soggetto Non-uno non è all’origine di se stesso, ma
l’effetto del perenne flusso di incontri, interazioni, affettività e desideri che
provengono dagli altri e da altrove.
Questa umile esperienza di non-unicità, costitutiva del soggetto non unitario,
àncora il soggetto a un legame etico con l’alterità, con gli altri molteplici ed
esterni che vanno a formare quell’entità che, per pigrizia ed abitudine, siamo
soliti chiamare sé. La teoria politica vitalista, nomadica e postuma, sottolinea gli
aspetti produttivi della condizione del Non-uno, ovvero la nozione generativa di
complessità. All’inizio vi è sempre già una relazione con un’entità affettiva e
interattiva dotata di carne intelligente e mente incarnata: la relazionalità
ontologica. Una politica materialista delle differenze postumane si serve di
divenire potenziali che esigono la loro attualizzazione. Essi sono concretizzati da
prassi collettive basate sulle comunità, e divengono fondamentali per reggere il
processo vitalista della ricomposizione non unitaria ma responsabile di un
popolo mancante. Questo è il noi che è evocato e attualizzato per esempio dalla
creazione postantropocentrica di una nuova panumanità. Esso esprime la
dimensione affettiva ed etica del divenire postumano come evento di
autogestione collettiva. Esso concretizza una comunità che non è tenuta insieme
dal nesso negativo della vulnerabilità, dalla colpa di una comune violenza
ancestrale, dalla malinconia per il debito ontologico insolubile, quanto piuttosto
dal riconoscimento empatico della propria interdipendenza con i molteplici altri,
molti dei quali, nell’era dell’antropocene, semplicemente non sono
antropomorfi.
Conclusione


In questo capitolo ho perseguito un obiettivo duplice: in primis ho tentato di
rispondere all’interrogativo su che cosa può significare il postumano all’interno
della prospettiva postantropocentrica e poi ho sostenuto la causa della teoria
postumana che si fa carico della soggettività.
I problemi politici maggiori della politica postantropocentrica provengono
dall’alleanza strumentale tra capitalismo biogenetico e individualismo, inteso
come definizione umanista residuale. La mia versione del pensiero postumano è
invece profondamente anti-individualista e consiste nel lavorare all’interno del
sistema, non cedendo al mito dell’organicismo e dell’armonia olistica, così come
all’opportunismo capitalista. Katherine Hayles (1999, 286) è autrice di un
intervento molto potente sugli attuali corpi postumani:

Il postumano non implica davvero la fine dell’umanità. Esso indica piuttosto la fine di una certa concezione
dell’umano. […] A essere letale non è il postumano come tale bensì il suo innesto nella visione liberale
umanista del soggetto. Posizionato all’interno detta dialettica tra modello e casualità, radicato nell’attualità
materiale piuttosto che nell’informazione immateriale, il postumano si presenta come una nuova risorsa,
una possibilità per ripensare il rapporto articolato tra umani e macchine intelligenti.

Hayles attacca la nozione classica umanista secondo la quale la soggettività
coincide con la coscienza responsabile, in modo tale da evitare alcuni degli
errori del passato umanista, soprattutto la visione liberale del soggetto autonomo
il cui «destino esplicito è quello di dominare e controllare la natura» (Hayles,
1999, 288).
Uno dei rischi dell’euforia che circonda i corpi-macchina postantropocentrici
è quindi quello di riasserire una forte visione unitaria del soggetto, sotto la
copertura della frammentazione pluralista. Corriamo il rischio di riconfermare la
trascendenza attraverso la mediazione tecnologica e di proporre una neo-
universale etica macchinica. Nel linguaggio della teoria critica postumana ciò dà
vita all’inganno della molteplicità quantitativa che non comporta alcuna
trasformazione qualitativa. Per evitare questo tranello, in cui incorre l’euforia
neoliberale, al fine di innescare trasformazioni qualitative, abbiamo bisogno di
prendere egualmente le distanze dalla troppo elogiata immaterialità e dalle
fantasie di fuga transumanista, così come dalle concezioni essenzialiste e
centraliste dell’individualismo liberale. Avanzo la proposta di reinscrivere i corpi
postumani in una relazionalità radicale che comprende varie relazioni di potere
al livello sociale, psichico, ecologico, micro-biologico e cellulare. Il
postantropocentrismo della scienza e dei nostri tempi globalizzati e
tecnologicamente modificati rende più urgenti i lavori in direzione di una «nuova
democrazia tecno-scientifica» (Haraway, 2000).
Lo statuto e la posizione dell’Umanesimo, argomento del capitolo
precedente, sono centrali nel dibattito sul postantropocentrismo. Io cerco di
resistere alla neutralità politica dei filosofi e sociologi critici della scienza che
sostiene una sorta di postantropocentrismo analitico ed evita o trascura la
questione di come rinnovare la soggettività. Sostengo invece che il soggetto
postantropocentrico si riferisce anche a un progetto antiumanista, cosa che
implica la mia presa di distanza sia dalle convizioni umaniste circa i valori
universali e il soggetto unitario, sia dalle forme estremiste di postumanesimo
scientificamente orientato che congedano del tutto la necessità del soggetto.
Un minimo di soggettività è indispensabile: non necessariamente univoca o
esclusivamente antropocentrica, ma presente come terreno di fondo per garantire
la responsabilità etica e politica, oltre che gli immaginari collettivi e le
aspirazioni comuni. Ho detto e ripetuto che le ricerche filosofiche di modelli
alternativi di responsabilità per la natura incarnata e integrata del soggetto sono
di notevole importanza al fine di elaborare un approccio alla soggettività
adeguato alla complessità della nostra epoca. Come spiegherò meglio nel quarto
capitolo, questa discussione riapre la problematica della relazione tra le due
culture, quella umanista e quella scientifica. La mia tesi è che gli studi sociali
della scienza (Latour 2009) non sono né gli unici né i più utili strumenti di
analisi dei fenomeni complessi che circondano i tecnocorpi postantropocentrici
del capitalismo avanzato.
Vorrei arrivare a questa conclusione da un’altra angolazione. Ho sostenuto
che lo zoe-egalitarismo esprime la forza, al contempo vitalista e materialista,
della vita in sé, di una zoe intesa come potenza generatrice che fluisce attraverso
tutte le specie. La nuova alleanza trasversale tra le specie e i soggetti postumani
apre a inattese possibilità per la ricomposizione di comunità, per l’idea stessa di
umanità e per le forme etiche dell’appartenenza. Tali possibilità non possono
essere ridotte al legame negativo inteso come condivisione dei pericoli del
pianeta: cambiamento climatico, crisi ambientale e persino minaccia
d’estinzione. Quello che avanzo è un approccio più affermativo al fine di
ridefinire la soggettività postumana, ne sono esempio i modelli alternativi di
assemblaggio trasversale, relazionale e nomadico, che abbiamo visto nel corso di
questo capitolo, o il sé natural-culturale esteso, alternativo rispetto al soggetto
classico umanista che abbiamo visto nel precedente capitolo. Molti altri modelli
sarebbero concettualizzabili e realizzabili, se solo scegliessimo di sperimentare
in modo sistematico che cosa noi, soggetti differentemente collocati nell’era
dell’antropocene, siamo capaci di divenire.
Abbiamo tutti da guadagnare dal riconoscimento del legame strutturale,
trasversale e postantropocentrico insito nella posizione di questi soggetti
incarnati non umani, in precedenza noti come altri rispetto all’Uomo
antropocentrico e umanista. La dimensione etica di tale progetto riguarda la
creazione di un nuovo nesso sociale e di nuove forme di connessione con questi
tecnoaltri. Che tipo di legami possiamo instaurare nel continuum natura-cultura
in cui sono immersi gli organismi tecnologicamente modificati, e come possiamo
sostenerli? Sia la parentela che la responsabilità etica devono essere ridefinite in
modo tale da ripensare i vincoli affettivi non solo verso gli altri organici non
antropomorfi, ma anche verso le creature tecnologicamente modificate, appena
brevettate, con cui condividiamo il pianeta.
In opposizione alla tendenza nostalgica che domina nella politica attuale, ma
anche in contrasto con la nostalgia della sinistra progressista (Derrida, 2001;
Butler, 2004a; Gilroy, 2005), vorrei sostenere che l’enfasi postumana per la
vita/zoe è in grado di generare da sola politiche propositive. Il
postantropocentrismo critico genera nuove prospettive che si spingono oltre il
panico e il rimpianto per approdare a una piattaforma più proficua. Da un alto,
esso produce una cartografia più adeguata delle nostre condizioni di vita reale,
dal momento che si concentra con maggiore accuratezza sui corpi contemporanei
tecnologicamente modificati e sulle pratiche sociali della soggettivazione umana.
Inoltre, questo tipo di materialismo vitalista, non vincolato alle nette distinzioni
tra le specie, intende il concetto di zoe come potenza di vita generativa e non
umana. Questo approccio postumano spazia dai meritevoli studi sui cyborg
(Haraway 1995, Hayles 1999) al materialismo postcyborg (Braidotti 2003) e alla
teoria postumana (Braidotti 2008a). Un approccio nomadico e zoe-centrato
connette vita umana e non umana in modo da sviluppare un’eco-filosofia dei
divenire inclusivi.
Tale sensibilità postumana e postantropocentrica, che si fonda su risorse
affettive e intellettuali profonde, esprime inoltre il mio rifiuto di adeguarmi alla
doxa o a una concezione normativa di pensiero comunemente accettata. La
condizione postumana, sia nel significato postumanista che in quello
postantropocentrico del termine, ci spinge ad affermare che bisogna
sperimentare altre forme di attività di pensiero, che bisogna essere persino
trasgressivi nel combinare critica e creatività.
Come ci insegnano Deleuze e Guattari, il pensiero riguarda l’invenzione di
nuovi concetti e di nuove e produttive relazioni etiche. Pertanto, la filosofia è
una forma di presa di distanza dai valori dominanti. Più clinica che critica, la
teoria postumana ci deve disintossicare dalle tossine concettuali del passato.
Deve infrangere la visione classica della soggettività, e muoversi verso una
visione del soggetto più estesa, vitalista, trasversale e relazionale. Filosofia vuol
dire oggi confronto con concetti che hanno attraversato cambiamenti senza
precedenti, analisi della trasformazione dell’unità di riferimento basilare per
decidere cosa conti in quanto umano. Questa mutazione propositiva e inattesa
può aiutare a creare nuovi concetti, affetti e soggettivazioni planetarie. Proprio
perché ignoriamo cosa possono fare i nostri corpi postumani, non possiamo
neppure immaginare cosa le nostre menti postantropocentriche e incarnate
saranno davvero in grado di pensare.
Capitolo 3

L’inumano
La vita oltre la morte


Uno dei miei film preferiti è L’inhumaine di Marcel L’Herbier17. Con le
scenografie progettate da Fernand Léger e Robert Mallet-Stevens, è un
manifesto di eleganza espressionista, esuberanza costruttivista e fiducia futurista.
L’elemento inumano in quest’opera magistrale è sintomatico del suo stesso
momento storico. Il film tratta della capacità sovrannaturale delle femmine della
nostra specie di manipolare e controllare il corso della storia umana e
dell’evoluzione. Un’alleanza molto affascinante è sancita tra il corpo delle donne
e i poteri acceleratori della tecnologia. L’oscillazione tra paura e desiderio viene
riformulata nei termini patriarcali di una sfiducia ancestrale nei confronti delle
donne potenti o che occupano posizioni di rilievo. La promessa del progresso
storico e il potenziale distruttivo del corpo-macchina femminile si mantengono
in un preciso e calcolato equilibrio.
L’artefatto tecnologico e l’altro macchinico nel modernismo vengono sia
sessuati che erotizzati, diventando emblema di un futuro tecnologicamente
informato (Huyssen, 1986). In un altro capolavoro espressionista, Metropolis di
Fritz Lang (1927), l’eroina Maria rappresenta il robot demoniaco che sovverte il
corso della storia. Esso si basa sul racconto futurista L’Ève future18 (1977), che
ritrae il corpo dell’altra macchinica della rivoluzione industriale come oggetto di
un intenso desiderio: la carne si trasforma in metallo per nutrire la crescita del
capitale. Il progresso è rappresentato come un orizzonte fantasmatico in cui le
locomotive trainano con successo, attraverso gallerie infinite, la storia
occidentale. Sia macchine seducenti che mantidi religiose, sia vergini-madri che
gravide attentatrici-suicide, il personaggio di Claire nell’Inhumaine e la Maria di
Lang esprimono la relazione altamente sessualizzata e sessuata del XX secolo
con le sue tecnologie industriali e le sue macchine. Questa visione è colta non
solo all’interno del contesto antropomorfico, che posiziona l’umano al centro
dell’evoluzione mondiale; essa sostiene anche la distinzione tra umano e
tecnologico, anche al solo fine di ridefinire i termini di una nuova alleanza. Ciò
produce un mondo inumano multisfaccettato.
Nell’epoca moderna il potere della tecnologia si caratterizza non solo come
evento isolato, ma anche come componente rilevante dell’articolazione
dell’industrializzazione, che include gli oggetti della manifattura, i soldi, il
potere, il progresso sociale, l’immaginazione ma anche la costruzione della
soggettività.
Come analisi critica di questo momento storico, il marxismo e il socialismo
umanista ci insegnano che la reificazione è in realtà un’esperienza umiliante e
avvilente per gli uomini, poiché rinnega la loro piena umanità e può davvero
essere ritenuta inumana al livello sociale basilare. Il processo di mercificazione
in sé riduce gli umani a livello di manufatti e dunque di oggetti modificati dalla
tecnologia votata al profitto. Quest’intuizione costituisce il nucleo della tendenza
umanista del marxismo, che ho analizzato nel primo capitolo. Per il marxismo la
sussunzione della relazione umana nel nesso denaro-potere rappresenta una
forma di inumanità, nonché la principale ingiustizia sociale del modello
capitalista di produzione. Questa presa di posizione normativa è tanto più
suggestiva se si pensa che il marxismo è stato, da un’angolazione metodologica,
un movimento di teoria antiumanista che ha criticato l’essenza naturalista
dell’Uomo e che ha smascherato la naturalizzazione delle differenze come
strategia di potere. Come ho mostrato nel primo capitolo, il marxismo socio-
costruttivista è stato un’efficace metodologia antiessenzialista, che poggiava
sulla filosofia hegeliana della storia, a sua volta fermamente ancorata al
progresso sociale guidato dalla tecnologia. Persino Lenin definì il socialismo
forza motrice del progresso storico «soviet (consigli locali di lavoratori) più
elettricità».
Il delirio modernista, e i suoi derivati marxisti, non sono andati del tutto in
fumo, anche se molti dei loro binari ferroviari conducevano al disastro. Tornando
al film di Marcel L’Herbier, l’analogia tra la crudeltà della seduttrice, da un lato,
e la spietata locomotiva meccanica, dall’altro, equipara la nozione di inumano a
quella di superuomo, interpretando la tecnologia come un altro trascendente.
Essa, inoltre, intende la crudeltà come elemento saliente della narrazione sulla
crescita e il progresso, già consapevole che queste nuove tecnologie altro non
potevano che alterare il corpo umano organico attraverso forme, volute o meno,
di contaminazione.
Vi è, di conseguenza, un altro aspetto del concetto di inumano implicito nel
canone modernista, ovvero la sua funzione di struttura dell’immaginazione
espressa nell’arte. Il modernismo ha collocato il problema della pratica artistica
al cuore della modernità industrializzata. Sia l’oggetto tecnologico che l’artefatto
sono frutto della manifattura e pertanto appartengono all’ambito dell’innaturale.
La loro struttura antinaturalista è proprio il comune denominatore tra la
macchina e la sessualità perversa, slegata dalla procreazione, della femme-fatale,
in capolavori quali L’inhumaine e Metropolis. La sessualità femminile è iscritta
in una sceneggiatura inumana, intesa come pericolo e al contempo come
irresistibile attrazione: tecno-Eve dalle tentazioni molteplici, che indicano la via
di inquietanti futuri.
La natura inumana dell’oggetto artistico consiste in una combinazione di
elementi seduttivi non funzionali e ludici. Questo è precisamente ciò che i
surrealisti intendevano per macchine celibi - un’idea che Deleuze e Guattari
hanno adottato e trasformato nella teoria del corpo senza organi, un flusso di
divenire afunzionale e inorganico. L’arte, in modo non dissimile dalla teoria
critica, è per Deleuze una pratica intensiva che mira alla creazione di nuovi stili
di pensiero, di percezione e di sensazione delle infinite possibilità della vita
(Deleuze e Guattari 1996). Trasportandoci oltre i confini delle identità obbligate,
l’arte diviene necessariamente inumana, nel senso di non umana, poiché si
connette con le forze animali, vegetali, materiali e planetarie che ci circondano.
L’arte è, inoltre, cosmica per la sua risonanza e quindi postumana di struttura, dal
momento che ci conduce ai limiti di quello che i nostri sé incarnati possono fare
e sostenere. Nella misura in cui l’arte estende al massimo i confini della
rappresentazione, essa raggiunge i limiti della vita stessa e si confronta così con
gli orizzonti della morte. Sotto questo profilo, l’arte è legata alla morte intesa
come esperienza del limite (Blanchot 2000). Ritornerò su quest’argomento più
avanti nel corso di questo capitolo, quando discuterò della filosofia postumana
della morte.
Continuando a trattare dell’inumanità della cultura tecno-industriale,
andrebbe aggiunto che ragione scientifica e pratiche razionali della ricerca
scientifica non sono del tutto estranee all’evoluzione del modernismo e ai suoi
tratti inumani. La scienza condivide l’eredità ibrida di questo periodo storico, è
fondamentale per il progetto della modernità industrializzata. Gli altri
macchinici, dai sofisticati macchinari industriali ai banali apparecchi domestici,
sono gli oggetti ambiti delle pratiche scientifiche sostenute e diffuse
collettivamente e socialmente. Al contempo sono un’altra espressione di quella
sintesi di paura e desiderio nei confronti della tecnologia che l’arte e il cinema
hanno saputo rendere esplicita. Gli aspetti inumani, compresi la crudeltà e la
violenza, sono componenti cruciali della ratio scientifica dell’epoca moderna.
Come ha scritto Paul Rabinow:

Il XX secolo è stato testimone dell’instaurazione di un potente e maligno legame tra il sapere e il militare (o
le forze di distruzione più in generale), a partire dagli orrendi effetti dei gas venefici (od altri regali delle
industrie chimiche), passando per la bomba atomica (e altri regali della fisica e dell’ingegneria), per
l’incubo nazista della purificazione razziale (e altri regali dell’antropologia e delle bioscienze), fino
all’indigeribile fatto che quasi i tre quarti della spesa per la ricerca scientifica durante la Guerra fredda
erano riservati a scopi militari. Le industrie e le scienze di thanatos hanno avuto il loro secolo di gloria
(2008, 114-115).

Qui sono sollevate le problematiche della morte e dell’omicidio, questa volta
in relazione agli scopi e alla struttura della scienza in sé. L’opera di Jean-
Francois Lyotard L’inhumain (2001) apporta un contributo notevole a questa
discussione. Seguendo ancora l’istanza critica che aveva espresso nel suo testo
classico La condizione postmoderna (2002), definisce l’inumano causa di
alienazione e mercificazione dell’umano, ovvero effetto del capitalismo
avanzato. L’invasione tecnologica e la manipolazione provocano la
deumanizzazione del soggetto in nome di una spietata efficienza. Lyotard non si
limita a questa intuizione tecnofobica, bensì si spinge fino a definire un tipo più
accentuato di inumanità, specifica dell’anthropos in sé. Il punto cruciale di
questo estraniamento strutturale, o di quest’estraniazione produttiva, è per
Lyotard il nucleo non razionale e non volontaristico dell’inumano, che ci rende
umani alla quintessenza19. Questo non solo conferma la struttura non unitaria del
soggetto, ma costituisce anche il punto dell’ultima resistenza dell’umanità stessa
contro gli effetti disumanizzanti del capitalismo tecno-telecomandato. Sotto
questo profilo, per Lyotard l’inumano possiede un’energia produttiva etica e
politica, che è in grado di aprire la strada alle relazioni etiche postumane.
In questo capitolo difendo la tesi secondo cui nel contesto storico attuale la
nozione modernista di inumano si è trasformata in un insieme di pratiche
postumane e postantropocentriche. L’inumano non è più ciò che era solito essere.
La relazione tra l’umano e l’altro tecnologico, così come gli affetti coinvolti in
essa, come il desiderio, la crudeltà e la sofferenza, cambiano radicalmente con le
attuali tecnologie del capitalismo avanzato. Da un certo punto di vista, l’oggetto
tecnologico oggi si confonde con la carne in virtù di livelli di pervasività senza
precedenti, come abbiamo visto nel secondo capitolo. Inoltre, la natura
dell’interazione umano-tecnologica si è spostata verso l’indeterminatezza dei
confini tra i generi, le razze e le specie, seguendo una tendenza trans che Lyotard
giudica peculiarità saliente dell’attuale condizione inumana della postmodernità.
L’altro tecnologico - un mero assemblaggio di circuiti e anelli di retroazione -
oggi si muove nel dominio sociale delle differenze sfocate, se non rasenta
addirittura l’indeterminazione. La più eloquente espressione cinematografica del
nuovo carattere androgino del capitalismo avanzato è Avatar (2009), che sta a
L’Inhumaine così come l’Iphone sta alle vecchie icone. Non vi è alcun dubbio su
quale dei due modelli sia più di moda oggi, ma non è questo il punto. Il punto è
la straordinaria evoluzione della tecnologia, i suoi inaspettati effetti collaterali.
Dalla fantasia modernista circa l’erotizzazione della relazione umano-
macchina al distacco postmodernista, o perlomeno la distanza ironica
dall’oggetto tecnologico nell’era postmodernista, qualcosa di fondamentale sta
cambiando. Una nuova economia politica degli affetti comincia a esprimersi nel
sociale; una più fredda sensibilità penetra nel nostro sistema, spianando la strada
al postumano. Zygmunt Bauman (1996-2003) è stato tra i primi a commentare
quest’approccio cinico, più distaccato. In risposta ai disastri storici e alla
sofferenza che hanno attraversato quello che Eric Hobsbawm ha definito il
«secolo breve» (2007), più nello specifico in risposta all’Olocausto, Bauman
sottolinea il pedaggio che tali eventi hanno fatto pagare in termini di fibra
morale e sensibilità etica agli autori, nonché alle vittime, della violenza. Un
pedaggio che si è tradotto concretamente nell’abbrutimento dei nostri sé morali,
in un aumento del cinismo morale tra gli umani. Pensatori anticolonialisti e
antirazzisti come Aimé Césaire e Franz Fanon hanno esteso quest’intuizione
all’analisi della dissociazione della sensibilità morale che ha luogo nell’intimo
dei misogini, dei razzisti e dei fascisti. In confronto a quest’abbassamento dello
standard etico, le vittime della violenza si mostrano in verità dotate di un’elevata
statura morale. Questa convinzione costituisce d’altronde il nucleo del
neoumanesimo non occidentale e postcoloniale che ho analizzato nel primo
capitolo.
La domanda diventa, adesso: che fattezze assume la crisi morale della
modernità nel contesto di riferimento postumano? Può la condizione postumana
essere foriera di innovazione anche sul piano degli aspetti inumani
dell’interazione planetaria? Reintroduce la disumanizzazione su scala globale?
Se consideriamo l’entità dei problemi principali del mondo contemporaneo, dalle
crisi finanziarie alle loro conseguenze in termini di occupazione e
disuguaglianza economica, al cambiamento climatico e alla risultante crisi
ambientale, per non menzionare i conflitti geopolitici, il terrorismo e gli
interventi umanitari armati, è chiaro che la condizione postumana ha già
mostrato la sua propria dimensione inumana.
Questo capitolo tratta del problema poliedrico dell’inumano, esaminando
svariati modi di relazionarsi alla morte e al processo del morire. In questa
trattazione sulla vita, intesa come ciò che costituisce la controparte dell’idea di
zoe come continuum postumano, ho scelto di guardare più da vicino a thanatos,
alla necropolitica, intesa come strumento per articolare anche una teoria
postumana positiva della morte. Credo che la svolta concettuale verso il
vitalismo materialista, radicato nel monismo ontologico, possa giovare al
progetto di ripensare la morte e la mortalità negli attuali contesti biomediati. In
termini politici, abbiamo bisogno di valutare i vantaggi di una politica vitalista di
sinistra, quindi non determinista e collegata alla vita postumana in maniera
materialista e laica. In termini etici, abbiamo bisogno di ridefinire, in questo
nuovo contesto, l’empatia e la cura verso gli altri umani e non umani, cioè una
nuova democrazia eco-egalitaria.
Modi di morire


Abbiamo visto nel precedente capitolo che la condizione postumana intesa
come governo biopolitico della materia vivente ha condotto alla necessità di un
approccio zoe-centrato. Ora vorrei spingermi ancora oltre per sostenere che la
politica della vita postumana oltrepassa i confini tra la vita e la morte e di
conseguenza riguarda non solo il governo del vivente, ma anche le pratiche del
morire. Molte di esse sono connesse ai fenomeni sociali e politici dell’inumano,
quali la povertà, le carestie e il fenomeno dei senza fissa dimora, che Zillah
Eisenstein ha giustamente etichettato come «oscenità globali» (1998). Vandana
Shiva (1999) evidenzia che il biopotere si è già trasformato in biosaccheggio,
che rende urgenti analisi politiche concrete e ben fondate. Pertanto, i corpi dei
soggetti empirici che denotano differenza (donne/nativi/terra e altri naturali)
sono diventati corpi usa e getta nell’economia globale. Il capitalismo
contemporaneo è quindi biopolitico nella misura in cui punta a controllare tutto
ciò che vive, come suggerisce Foucault, ma poiché la vita non è la prerogativa
dell’umano, essa si apre alla dimensione zoe-politica o postantropocentrica. Se il
timore dell’estinzione era diffuso nel periodo nucleare, la condizione postumana,
quella dell’antropocene, include nell’orizzonte della morte anche altre specie. In
ogni caso vi è una differenza notevole tra le due situazioni storiche, come
afferma Chakrabarty: «Una guerra nucleare sarebbe una decisione consapevole
da parte del potere dominante. Il cambiamento climatico è invece una
conseguenza non intenzionale dell’azione totale della specie umana» (2009,
221). Ciò non solo introduce una forma negativa o reattiva di legame panumano
planetario, che ricompone l’umanità intorno al collante comunemente esperito
della vulnerabilità, ma inoltre riconnette l’umano al destino delle altre specie,
come ho mostrato nel precedente capitolo. Morte e distruzione sono i comuni
denominatori di quest’alleanza trasversale che fonda una nuova panumanità
reattiva.
Lasciatemi dare qualche esempio dei contemporanei modi di morire per
spiegare quest’economia politica. Gli aspetti postumani della globalizzazione
comprendono molti fenomeni che, pur non essendo inumani a priori, innescano
comunque notevoli reazioni distruttive. Il contesto storico del dopo laicità
comporta l’ascesa dell’estremismo religioso nelle sue varie forme, incluso il
fondamentalismo cristiano, provoca una regressione politica dei diritti delle
donne, degli omosessuali e gli altri sessuati. Segni significativi di questa
regressione sono il declino dei diritti riproduttivi e l’ascesa della violenza contro
le donne e i soggetti LGBT. L’effetto della rete finanziaria globale, e di fondi
finanziari fuori controllo, è quello di un aumento della povertà, soprattutto tra i
giovani e le donne, colpiti da una disparità di accesso alle nuove tecnologie. La
condizione dei bambini rappresenta un capitolo a parte; dal lavoro forzato al
fenomeno dei bambini-soldato, l’infanzia è stata violentemente immessa nei cicli
infernali dello sfruttamento. Il controllo dei corpi è cambiato, dall’avvento dei
cyborg alle rinnovate forme di vulnerabilità. Così, accanto al proliferare di
pandemie quali Sars, Ebola, HIV, influenza aviaria, fanno ritorno epidemie più
familiari, in particolare malaria e tubercolosi, a tal punto che la salute è diventata
un problema di ordine pubblico-politico e oggetto di un rinnovato impegno
perché venga rispettata come un diritto umano fondamentale.
Il punto è che zoe può divenire una forza distruttiva, così come una potenza
generativa. Una gran parte dei problemi collettivi d’oggi, quali la salute,
l’ambiente e la geopolitica, di fatto, sfuma la distinzione tra vita e morte.
Nell’era del capitalismo biogenetico e del continuum natura-cultura, zoe è
diventata una forza infraumana e tutta l’attenzione è oggi concentrata
sull’emergenza dettata dalla scomparsa della natura. Prendiamo, ad esempio, il
discorso pubblico sulle catastrofi ambientali o sui disastri naturali - rimpianto
nucleare di Fukushima e lo tsunami giapponese, l’incendio boschivo australiano,
l’uragano Katrina a New Orleans - che si risolve in un doppio nodo
contraddittorio: da una parte esprime una nuova consapevolezza ecologica, cioè
il continuum natura-cultura, ma dall’altra reintroduce la distinzione tra natura e
cultura. Come afferma Protevi (2009) ciò si traduce nella paradossale
rinaturalizzazione del nostro ambiente tecnologicamente mediato. Le forze
geopolitiche sono al contempo rinaturalizzate e sottomesse alle vecchie relazioni
gerarchiche di potere determinate dalla volontà dominante del soggetto
antropomorfo. Il discorso pubblico è diventato al contempo moralista, riguardo
le forze inumane dell’ambiente, e altrettanto ipocrita nel perpetuare l’arroganza
antropocentrica. Questa posizione contraddittoria si traduce nella negazione
della responsabilità umana per le catastrofi che continuiamo ad attribuire a forze
collocate oltre il nostro controllo, come la terra, il cosmo e la «natura». La nostra
moralità pubblica non è semplicemente all’altezza della sfida e della complessità
dei danni causati dal nostro progresso tecnologico. Ai miei occhi, questo dà vita
a una doppia necessità etica: in primo luogo come fare per trasformare la paura e
la tendenza a rimpiangere la perdita dell’ordine naturale in un’effettiva azione
sociale e politica, in secondo luogo come ancorare tale azione alla responsabilità
per le generazioni future, nello spirito della sostenibilità sociale che ho trattato
anche altrove (Braidotti 2008a).
Un altro esempio significativo è l’universo umano digitale che ho analizzato
nel precedente capitolo e che produce specifiche variabili inumane. Esse sono
rappresentate al meglio dal proliferare di virus, sia informatici che organici,
alcuni dei quali transitano dagli animali agli umani e viceversa. La malattia non
è chiaramente solo una prerogativa delle entità organiche, poiché include
un’ampia gamma di contaminazioni tra materia organica - antropomorfa o meno
- e circuiti elettronici. Una relazione simbiotica piuttosto complessa si fa spazio
nel nostro universo cyborg: una sorta di mutua dipendenza tra la carne e la
macchina. Questo determina alcuni paradossi non piccoli, nello specifico che il
sito corporale della soggettività è negato, nelle pratiche di miglioramento del
corpo umano e nelle fantasie della tecno-trascendenza, e al contempo è
rinvigorito come crescente vulnerabilità. Balsamo (1996) sostiene che la
tecnologia digitale diffonde sogni di immortalità e di controllo sulla vita e la
morte:

Di nuovo, queste convinzioni sul futuro della vita tecnologica del corpo sono accompagnati da una paura
palpabile per la morte e l’annichilimento provocato da minacce fisiche incontrollabili e spettacolari: virus
resistenti agli antibiotici, contaminazione spontanea, batteri mangia-carne (Balsamo 1996, 1-2).

I poteri inumani della tecnologia si sono spostati nel corpo, acuendo gli
spettrali promemoria del cadavere a venire. Il nostro immaginario sociale si
avvia a una svolta forense.
La cultura popolare e l’industria dell’info-intrattenimento sono pronte a
raccogliere la tendenza contraddittoria che riflette le trasformazioni del rapporto
tra corpo umano e cadavere, in fenomeni quali la malattia, la morte e
l’estinzione. Il cadavere non è solo una presenza quotidiana nei media globali e
nei telegiornali, ma anche un oggetto di intrattenimento della cultura popolare,
come dimostra soprattutto il successo del genere poliziesco-investigativo. La
cultura e le arti sono state molto attente a registrare il successo delle donne-
assassine, come dimostra la popolarità di recenti reinterpretazioni di classici
quali Ecuba e Medea. Per non parlare, ovviamente, del fascino globale esercitato
da Lara Croft e altre eroine guerriere del mondo dei videogiochi.
Il fatto che oggi le donne siano ritenute, in modo più paritario di prima, in
grado di uccidere tanto quanto gli uomini, è uno dei principali problemi delle
politiche di genere e delle pari opportunità. Tali problemi possono essere
sintetizzati nel passaggio dai diritti umani universali richiesti dalle Madri di
Plaza de Mayo al brutale interventismo della vedove di guerra cecene, dalle
attentatrici-suicide gravide al ruolo crescente delle donne nell’umanesimo
militare e negli interventi armati umanitari.
Anche la morte spirituale fa parte di questo quadro, se consideriamo certe
pratiche sociali assai diffuse ai giorni nostri, quali la dipendenza, i disordini
alimentari e la malinconia, il burn-out, gli stati di apatia e disinteresse. Esse
vengono spesso patologizzate ma mai abbastanza analizzate. Propongo di non
limitarci semplicemente a classificare tali pratiche come autodistruttive, bensì di
trattarle come fenomeni, normativamente neutrali, di interazione e resistenza da
parte di soggetti specifici dell’economia politica della mercificazione di tutto il
vivente. Esse danno la misura dello slittamento delle frontiere tra ciò che vive e
ciò che muore nell’era della capitalizzazione della vita in sé. Il volume di
consumi di droghe legali (Prozac, Ritalin) così come quello di droghe illegali
nella nostra cultura ricolloca la distinzione tra autodistruzione e comportamenti
alla moda, il che ci induce a ripensare seriamente a cosa abbia valore come vita
in sé. In ultimo, ma non meno importante, le pratiche del suicidio assistito e
dell’eutanasia mettono in discussione direttamente il Diritto dal momento che
esso rimane ancorato all’assunzione del valore implicito ed evidente della vita in
sé. Come spesso accade, il capitalismo avanzato agisce tramite movimenti
schizofrenici e internamente contraddittori. Così, l’ideologia, socialmente
imposta, del fitness, della salute e dell’eterna giovinezza viaggia di pari passo
all’aumento delle disparità sociali, ad esempio l’accesso all’assistenza medica da
parte di larghe fasce di popolazione e le notevoli differenze dei tassi di mortalità
tra bambini e giovani di classi sociali ed etnie diverse. L’ossessione dell’eterna
giovinezza rappresenta la controparte delle pratiche sociali dell’eutanasia e del
suicidio assistito.
Più ci si pensa, più diventa chiaro che siamo circondati da molteplici modi di
morire e di infliggere morte e sofferenza. Eppure davanti a tali fenomeni, la
teoria sociale continua a indicare questa logica con il termine biopolitica. Ma
cosa c’entra la vita (bios) con questo? Le analisi biopolitiche, sin da Foucault,
hanno apportato molte innovazioni e hanno introdotto spiegazioni più incisive di
cosa implica esattamente la gestione del vivente. Perché non riserviamo lo stesso
grado di precisione analitica allo studio dell’amministrazione necropolitica della
morte?

Sia la mole e la scala dei cambiamenti che hanno avuto luogo nelle pratiche,
personali e collettive, del morire, nelle forme di assassinio e di estinzione, sia la
creatività dimostrata da nuove generazioni nell’affrontare i riti e le modalità del
lutto, sono tali da giustificare l’ampliamento dell’agenda socioculturale. In altri
termini, stiamo assistendo all’emergere di un nuovo campo discorsivo. I death
studies stanno diventando una materia nuova e molto richiesta nel mondo
accademico. Scaturiscono dalle contropolitiche degli anni Settanta, e oggi si
stanno trasformando in un serio e interdisciplinare ambito di studi, che
comprende i dibattiti morali e religiosi sulla moralità, così come la ricerca in
aree socio-politiche, mediche e professionali20. Ritornerò su quest’apertura ai
nuovi studi nel quarto capitolo.
Figura 3.1. Vauro, Il (o la) kamikaze, un genere in via di sviluppo.
Oltre la biopolitica


Lasciatemi riprendere il filo del discorso dall’idea fondamentale che le nuove
pratiche biopolitiche di governo della vita chiamano in causa non solo le energie
generatrici, ma anche le nuove e più sottili declinazioni della morte e
dell’estinzione. La mia tesi è che l’attenzione per i poteri vitali e autonomi della
vita/zoe disfa ogni netta distinzione tra il vivere e il morire. E intendo la nozione
di zoe come potenza della vita postumana ma affermativa. Questo materialismo
vitalista poggia, in modo deciso, sull’ontologia politica neospinozista del
monismo e dell’immanenza radicale, producendo un’etica relazionale trasversale
per contrastare gli aspetti inumani e anche disumani della condizione postumana.
Ho sostenuto finora che la condizione postumana, nella misura in cui
modifica la concezione tradizionale dell’umano, determina notevoli cambiamenti
nello statuto e nella struttura dell’inumano e anche delle pratiche disumane. La
prossima domanda sarà allora: che tipo di impatto hanno queste nuove
espressioni di carattere disumano sulla teoria del soggetto e sulle pratiche sociali
e culturali? L’analisi biopolitica è centrale in questa discussione, ma nel contesto
presente si è spostata oltre le premesse elaborate dalla visione profetica di
Foucault. Nelle nuove concettualizzazioni del governo biopolitico della vita e
della morte, colgo diverse tendenze. Ad esempio, stanno emergendo studi sulla
cittadinanza biopolitica che prestano molta attenzione alle implicazioni del
biopotere come istanza di una governamentalità, sia in chiave potenziale che
repressiva (Rose 2008, Esposito 2004). Questa scuola di pensiero situa il
momento politico nella responsabilità relazionale, capace di autogestione, del
soggetto bioetico che assume il pieno controllo della propria esistenza genetica,
la quale include in maniera virtuale anche la malattia e altre forme di
responsabilità del soggetto incarnato per il proprio corpo in quanto cadavere
potenziale. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, questa posizione
permette a un tipo residuale di kantismo di riemergere a partire dall’ultima fase
del pensiero di Foucault, caratterizzata dall’enfasi sulla responsabilità
individuale per l’autogestione della salute e del proprio stile di vita. Il vantaggio
di tale posizione è che essa esorta a pensare con un alto grado di lucidità
all’esistenza postumana biorganica, che comporta l’abbandono definitivo del
paradigma naturalista. Lo svantaggio di tale posizione, tuttavia, è che essa
trasforma la nozione di responsabilità in quella di individualismo, nel contesto
politico dello smantellamento neoliberale del sistema sanitario pubblico, un
pilastro dello stato sociale, e dell’aumento delle privatizzazioni. La cittadinanza
bioetica chiede di poter accedere ai costi dei servizi sociali fondamentali come la
sanità, e al contempo di poterli sostenere, tramite l’evidente capacità
dell’individuo di agire responsabilmente riducendo i rischi e i pericoli connessi
allo stile di vita errato. In altre parole, responsabilità bioetica significa prendersi
cura in modo adeguato del proprio capitale genetico. Le recenti campagne
governative contro il fumo, l’alcolismo e l’obesità eccessive, rappresentano con
chiarezza la tendenza normativa neoliberale che sostiene l’iperindividualismo.
L’interpretazione neokantiana di Foucault solleva inoltre seri dubbi teoretici
circa la nozione di biopotere. Alla luce del ritmo frenetico del progresso e del
cambiamento determinato dalle attuali biotecnologie, nonché delle sfide da esse
lanciate allo statuto dell’umano, l’opera di Foucault è stata criticata, soprattutto
dalla Haraway (2000), in quanto fondata su una visione datata delle tecnologie
contemporanee. Haraway ci suggerisce che il biopotere di Foucault rappresenta
la cartografia di un mondo che non esiste più, essendo noi oggi entrati nell’era
dell’informatica del dominio. Altre teorie etiche si avvicinano molto a
quest’obiettivo, in particolar modo quelle femministe, ambientaliste, il pensiero
postcoloniale e antirazzista, dal momento che hanno saputo affrontare i temi
della soggettività incarnata e della differenza, nel capitalismo avanzato, in modo
da riflettere la complessità delle relazioni di potere globali.
La discrepanza fondamentale tra la nozione di biopotere di Foucault e le
strutture postumane contemporanee ha a che fare proprio con il declino
dell’antropocentrismo. Nel secondo capitolo ho sostenuto che la struttura
biogenetica del capitalismo avanzato riduceva i corpi allo stato di trasportatori
d’informazioni vitali, mettendoli al servizio del valore finanziario e
capitalizzandoli. Questi corpi costituiscono il materiale per la nuova
classificazione d’intere popolazioni sulla base della predisposizione genetica e
delle capacità vitali di autorganizzazione. Vi è una sorta di isomorfismo
strutturale tra la crescita economica e quella biologica, che rende le relazioni di
potere del capitalismo neoliberista contemporaneo più crude e ciniche rispetto al
periodo fordista (Cooper 2013). Ciò ha importanti ripercussioni per la
dimensione zoe-centrica delle politiche della morte.
Questo sistema si rivela non solo discriminatorio ma anche razzista nel
significato elementare del termine, dal momento che l’informazione genetica,
come i tratti psicologici e quelli neuronali, sono distribuiti in modo non
uniforme. Patricia Clough indaga quest’aspetto dell’economia politica
contemporanea analizzando il dibattito pubblico sulla disponibilità di farmaci
contro l’Aids, o dei vaccini su larga scala contro la malaria, per limitarsi solo ad
alcuni tra gli esempi attuali di governo postumano della vita. Sia nel mondo
occidentale che nelle economie globali emergenti stiamo assistendo alla
costituzione di un’intera sottoclasse di corpi usa e getta, che sono al contempo
geneticamente sovraesposti e socialmente sottoassicurati. Questo tipo di
controllo della popolazione si spinge oltre le analisi di Foucault sulla biopolitica,
dal momento che esso non funziona tramite le tecniche della disciplina e del
controllo, piuttosto tramite la coltura biogenetica dei dati, e tramite il
biosaccheggio (Shiva 1999). Come ha affermato Mark Halsey: «Se una volta
l’obiettivo principale era quello di controllare i folli, i giovani, le donne, i
nomadi e i devianti, in tempi recenti esso, invece, consiste nel catturare
l’inumano, l’inorganico, l’inerte, in breve i cosiddetti elementi naturali» (2006
15). Qui si tratta di zoe-politica postumana, e non più di governamentalità
biopolitica.
Ancora, la filosofia postumana monista è di grande aiuto nel tentativo di
concettualizzare questi cambiamenti storici epocali. Leggendo Deleuze
attraverso le lenti di Massumi, Clough analizza i nuovi meccanismi di cattura
non degli individui liberali, bensì dei dividui biogenetici:

meccanismi che riconfigurano statisticamente le popolazioni che vengono classificate in termini di capacità
corporee, poiché indicano ciò che un corpo può fare al presente e quali caratteristiche potrebbe sviluppare in
futuro. Le capacità affettive dei corpi, calcolate in statistica come fattori di rischio, possono essere catturate
in quanto tali indipendentemente dal soggetto, addirittura indipendentemente dal corpo del soggetto. Questo
si traduce nella diffusione di procedure burocratiche competitive, di controllo e di comando politico, in
termini di protezione della vita della popolazione (2008, 18).

Il metodo che collega il controllo politico all’analisi dei fattori di previsione
del rischio coincide con la tecnica che Foucault aveva tacciato di razzismo, nella
misura in cui configura - producendo una razzializzazione - l’organizzazione di
intere popolazioni su una scala gerarchica, questa volta non più basata sulla
pigmentazione o il sesso, ma su altre caratteristiche o propensioni genetiche.
Poiché lo scopo di tale tecnica politica è di valutare la possibilità di
sopravvivenza o di estinzione di una data popolazione, il controllo biopolitico
della vita non è solo trasversale rispetto alle specie e zoe-centrato, ma è anche
intimamente legato alla morte. Questo è il vincolo della morte o la faccia
necropolitica del postantropocentrismo e il nucleo del suo lato inumano e
disumano: «Esso concede una vita sana e di benessere ad alcune popolazioni
mentre riserva solo morte alle altre, che vengono definite in termini di
degenerazione naturale e malattia» (Clough, 2008, 18).
La dimensione necropolitica ha un’altra implicazione importante, cioè che la
loro rappresentazione politica non può più essere compresa all’interno
dell’economia visiva biopolitica, nel senso foucaultiano del termine (1978). La
rappresentazione dei soggetti incarnati non è più di tipo visivo nel senso ottico
del termine, ovvero nell’accezione postplatonica del simulacro. E neppure essa è
speculare, come nel modo psicoanalitico di ridefinire l’immagine attraverso lo
schema dialettico del riconoscimento dicotomico del sé e dell’altro. La
rappresentazione dei soggetti incarnati è stata sostituita dalla simulazione ed è
diventata schizoide, o internamente incoerente. Nella prospettiva necropolitica,
la rappresentazione del soggetto è inoltre spettrale: il corpo diventa il potenziale
cadavere che è sempre stato, e viene rappresentato come un sistema biogenetico
autoreplicante catturato nell’economia visiva della circolazione infinita
(Braidotti 2003). L’immaginario sociale contemporaneo è immerso in questa
logica della circolazione senza limiti, rimane così sospeso al di là della vita e
oltre il ciclo della morte del singolo soggetto rappresentato. L’immaginazione
biogenetica è di conseguenza diventata forense nella sua relazione al corpo,
inteso come cadavere, e nella sua ricerca delle tracce di una vita impersonale che
è ormai fuori dal suo controllo. Le soggettività incarnate contemporanee operano
sotto un doppio imperativo: devono essere responsabili del loro plusvalore, da un
lato in qualità di contenitori biogenetici, dall’altro in qualità di beni visibili che
circolano nel circuito mediatico mondiale e nel flusso finanziario globale. I corpi
di oggi soffrono quindi una doppia mediazione: biogenetica e informatica.
Inoltre, siccome molta dell’informazione che circola non è basata sul sapere,
bensì è mediaticamente inflazionata essa diventa indistinguibile dal mero
intrattenimento. Vedremo in seguito come l’attuale biopolitica incroci la
dimensione ecofilosofica che ho analizzato nel precedente capitolo, e come
illumini il lato oscuro delle relazioni socio-politiche di potere contemporanee. La
sfida consiste nel trasformare questi fenomeni sociali ibridi e abbastanza
schizoidi in momenti di resistenza ai tratti inumani e disumani della condizione
postumana. L’intuizione centrale dell’anatomia politica di Foucault rimane
valida: il biopotere comprende anche il controllo della morte. In altre parole, la
questione del governo della vita contempla al contempo il governo
dell’estinzione. Al fine di dispiegare il pieno potenziale etico e politico di
quest’intuizione brillante, dobbiamo ritornare però al primo Foucault e non
lasciarci ingannare dall’interpretazione neokantiana della sua seconda fase.
Nella sua prima opera (1976) Foucault si concentra esclusivamente
sull’analisi critica dei meccanismi di potere al lavoro nella produzione di
soggettività. Quest’ultima è definita come un processo di circolazione di effetti
sia discorsivi che materiali, che sono anche produttivi oltre che repressivi.
Questa attenzione per il potere è cruciale per comprendere la condizione
postumana.
Teoria sociale giuridica


La teoria sociale politica dopo Foucault è stata investita dalle trasformazioni
correnti nello statuto e nella teoria dell’umano, come si evince, ad esempio, dalla
significativa risposta di Giorgio Agamben all’ampia diffusione delle teorie
sociali del diritto (2005). Egli definisce la vita/zoe come risultato dell’intervento
letale del potere sovrano sul soggetto incarnato, che è ridotto a nuda vita, vale a
dire uno stato non umano di estrema vulnerabilità al limite dell’estinzione.
Biopotere significa in questo quadro tanatopolitica e si traduce, in Agamben,
nell’imputazione del progetto della modernità industrializzata, a causa dei suoi
effetti disumanizzati. La piantagione coloniale è il prototipo di quest’economia
politica e dell’uomo asservito, quasi epitome dell’homo sacer (2005). Questa
prospettiva si concentra sull’accentuare i punti di contatto tra la modernizzazione
e la violenza, la modernità e il terrore, la sovranità e il delitto.
L’inumano per Agamben, in modo non dissimile da Lyotard, è conseguenza
della modernizzazione, eppure egli ha anche imparato da Hannah Arendt (2004)
a interpretare il fenomeno del totalitarismo come ultimo rifiuto dell’umanità
dell’altro. La Arendt, tuttavia, ha elaborato una potente alternativa rispetto agli
estremismi politici che analizzava, puntualizzando sulla necessità dei diritti
umani per tutti, persino e soprattutto per gli altri disumanizzati. La Arendt è,
nella brillante interpretazione di Seyla Benhabib, una «modernista riluttante»
(1996). Agamben è, dall’altro lato, meno innovativo, dal momento che riproduce
la stessa convenzione filosofica che consiste nell’assumere la mortalità, o la
finitezza, come orizzonte transtorico nelle discussioni sulla vita. Dal suo punto
di vista, la nuda vita non è vitalità generatrice, bensì vulnerabilità costitutiva del
soggetto umano, che il potere sovrano può uccidere; trasforma il corpo in
materia a disposizione della forza dispotica di un potere senza freni. Questa
posizione è connessa alla teoria di Heidegger sull’essere che prende le sue forze
dall’annichilimento della vita animale. La finitezza è presentata come elemento
costitutivo anche e specialmente nel contesto della soggettività, che produce
inoltre l’economia politica affettiva della perdita e della malinconia installate
nell’intimo del soggetto.
Mi preoccupa quest’eccessiva enfasi su thanatos, che Nietzsche ha criticato
più di un secolo fa e che purtroppo è ancora troppo presente nei dibattiti critici
attuali. Essa produce spesso una visione cupa e pessimista non solo del potere,
ma anche dei progressi tecnologici di cui sono forieri i regimi di biopotere. La
mia interpretazione della vita come di una zoe-etica delle trasformazioni
sostenibili differisce in modo considerevole da quella che Agamben chiama nuda
vita o zoe negativa. Io cerco di differenziarmi dalla tradizionale declinazione del
concetto di zoe dentro l’orizzonte della morte, o in quello degli stadi liminali
della non-vita. Quest’enfasi eccessiva per gli orizzonti della mortalità e della
deperibilità è caratteristica della svolta forense nelle attuali teorie sociali e
culturali perseguitate dallo spettro dell’estinzione e dai limiti del progetto della
modernità occidentale. Ritengo che quest’enfasi eccessiva sulla morte come
termine basilare di riferimento sia inadeguato alla politica vitalista della nostra
era. Preferisco rivolgermi a un’altra importante comunità di studiosi che si sono
mossi nell’ambito concettuale spinozista21, in modo da poter sottolineare la
politica della vita in sé come forza generatrice che include e supera la morte. Ciò
implica una problematizzazione delle relazioni, in continua trasformazione, tra le
forze - attuali e virtuali - umane e non umane.
Prendendo parola in qualità di soggetto femminile incarnato e integrato,
capace di riprodurre il futuro e la specie, ritengo questa metafisica della
finitudine un modo miope di porre la questione dei confini di ciò che chiamiamo
vita. Ci occorre ripensare la morte, la sottrazione finale, come un’altra fase del
processo generativo, secondo quanto argomenterò nella seconda metà di questo
capitolo. Peccato che gli implacabili poteri generativi della morte richiedano la
soppressione proprio di ciò che ci è più caro e vicino, ovvero di noi stessi, del
nostro stesso essere in vita. Per noi soggetti umani e narcisisti, come ci insegna
la psicanalisi, non è pensabile che la vita vada avanti senza il nostro esserci
(Laplanche 1976). Il processo che ci porta ad affrontare la pensabilità di una vita
che possa non avere «noi» o ogni altro essere umano al centro è, in verità, un
processo che può aiutare anche ad approfondire la riflessione su cosa sia
veramente la vitalità. Io intendo la svolta postantropocentrica come il punto di
partenza necessario per un’etica della sostenibilità che mira a reindirizzare
l’attenzione sulla positività postumana della zoe. Il cuore della mia ricerca
consiste in un’etica che include la vulnerabilità ma che al contempo crea
attivamente orizzonti sociali di speranza.
Necropolitica contemporanea


A questo punto del libro è importante sottolineare che la politica affermativa,
come processo che trasforma le passioni negative in prassi produttiva e
sostenibile, non rinnega la realtà degli orrori, della violenza e della distruzione.
Cerca solo di proporre un’altra tecnica per trasformarli. La politica
contemporanea è caratterizzata da un grado di crudeltà così elevato che sarebbe
irresponsabile non tenerne conto. Nuovi studi si sono concentrati sulla brutalità
delle guerre attuali e sulle rinnovate manifestazioni di violenza che riguardano
non solo il governo del vivente, ma anche nuove pratiche del morire. Biopotere e
necropolitica sono due facce della stessa medaglia, come Achille Mbembe
(2003) spiega brillantemente. L’aumento dell’interesse discorsivo per la politica
della vita in sé, in altre parole, impatta anche la dimensione geopolitica della
morte e dell’assassinio. Mbembe ampia l’intuizione di Foucault in direzione di
un’analisi più accurata della gestione biopolitica della sopravvivenza.
Ridefinendola giustamente necropolitica, caratterizza questo potere come
un’amministrazione della morte: «Generale strumentalizzazione dell’esistenza
umana e distruzione materiale dei corpi umani e della popolazione» (Mbembe
2003, 19). E io aggiungerei, distruzione di corpi non solo umani ma anche
planetari.
Il mondo dopo la Guerra fredda ha conosciuto un drastico aumento del
warfare, ma anche una profonda trasformazione della pratica della guerra in sé.
Le nuove forme del warfare implicano, simultaneamente, da un lato l’efficienza
mozzafiato di armi tecnologiche intelligenti e senza equipaggio, dall’altro la
crudezza di corpi umani smembrati e umiliati. Tutto ciò è rappresentato dalla
fine indegna di Gaddafi, cui ho accennato nella terza vignetta dell’introduzione.
La guerra postumana genera nuovi tipi di inumanità. Le conseguenze di
quest’approccio al necropotere sono radicali: non sono la razionalità della legge
o l’universalismo dei valori morali a strutturare l’esercizio del potere, bensì lo
scatenarsi del diritto sovrano e incontrollato di uccidere, mutilare, stuprare e
distruggere la vita degli altri. Quest’economia politica amministra l’attribuzione
dei diversi gradi di umanità secondo gerarchie che sono scollate dalla vecchia
dialettica e scardinate dalla logica biopolitica. Esse adempiono invece alla più
strumentale, ristretta e opportunistica logica dello sfruttamento della vita in sé,
che è generica e non solo individuale.
La necropolitica contemporanea applica la politica della morte su scala
regionale e globale. Le nuove forme del warfare industriale si reggono sulla
privatizzazione commerciale degli eserciti e della portata globale dei conflitti,
che deterritorializzano l’uso e la razionalità del servizio militare. Ridotta a
warfare infrastrutturale (Mbembe, 2003), e a operazioni logistiche di vasta scala
(Virilio, 2002), la guerra mira alla distruzione di tutti i servizi che permettono
alla società civile di funzionare: strade, linee elettriche, aeroporti, ospedali e altre
strutture necessarie. Il vecchio esercito fuori moda si è oggi trasformato in
«milizie urbane, truppe private di proprietà dei signori locali, imprese di
sicurezza private ed eserciti statali che rivendicano il diritto di esercitare
violenza e di uccidere» (Mbembe 2003, 32). Il risultato di tutto ciò è che la
popolazione, come categoria politica, si è frammentata in «ribelli, bambini-
soldato, vittime e rifugiati, civili resi invalidi da mutilazioni o massacrati
secondo il modello dell’antico sacrificio, mentre i sopravvissuti, dopo un esodo
drammatico, vengono confinati in campi o zone di eccezione» (Mbembe 2003,
34). Molte guerre attuali, condotte da coalizioni occidentali sotto copertura di
aiuti umanitari, sono in realtà esperimenti neocoloniali che mirano a garantire
l’estrazione mineraria e altre risorse geofisiche essenziali, necessarie a
quest’economia globale. Sotto questo profilo, le nuove guerre assomigliano più
ai conflitti privati e alla guerriglia o agli attacchi terroristici, che ai confronti
militari tradizionali tra eserciti organizzati e condotti dallo Stato.
Anche Arjun Appadurai (1998) ha fornito analisi incisive sulla nuova
violenza etnocida delle nuove forme di warfare che impattano su amici, parenti e
vicini. Inorridisce per la violenza di quei conflitti «che comportano brutalità e
umiliazione - come le pratiche della mutilazione, del cannibalismo, dello stupro
e degli abusi sessuali, della violenza contro i civili e le popolazioni. Insomma,
occorre prendere in considerazione il fatto che la brutalità fisica è praticata da
persone normali su altre persone, con le quali in precedenza hanno vissuto, o
potrebbero aver vissuto in relativa concordia» (Appadurai 1998, 907). Questo è,
appunto, il precipizio inumano e disumano della condizione postumana.
Chomsky ha descritto con perspicacia questa situazione, che ha etichettato
«nuovo umanesimo militare», il cui emblema sono gli interventi umanitari:

Armato di tecnologie di devastazione globale e di un gergo degno della pulp fiction, dei tabloid e dei
videogiochi: guerra al terrore, scontro di civiltà, Asse del Male, operazione Shock & Wave. Queste
avventure sono state intraprese per salvare il mondo civilizzato (homo humanus) dai suoi nemici (homo
barbarus), coperte dalle venerabili bandiere della libertà, del decoro e della democrazia (Chomsky citato da
Davies 1997, 134).

Non bastano più gli affermati criteri della disciplina del corpo, della lotta
contro il nemico o persino delle tecniche della società del controllo a discutere
adeguatamente questo sviluppo della violenza bellica tecnologicamente
orientata. Siamo entrati, piuttosto, nell’epoca dei massacri pianificati e
strumentali, caratterizzata da una nuova semiotica dell’omicidio (Mbembe 2003,
37). Questi modelli necropolitici di governance circolano anche nei circuiti
mediatici globali dell’info-intrattenimento, secondo la logica della doppia
mediazione cui ho accennato prima.
Il numero speciale del settimanale «The Economist» (2 giugno 2012, p. 13)
su «morale e macchine» che ho citato nel primo capitolo presenta un
impressionante aggiornamento sulla tecnologia militare contemporanea. Esso
sostiene che i recenti sviluppi stanno producendo un tecno-bestiario
straordinario. Ad esempio, la Sand Flea, letteralmente Pulce di Mare, creata
dalla Boston Dynamics22 (una spin-off del Mit) può saltare da una finestra o su
un tetto alto nove metri, grazie alla stabilizzazione del giroscopio che le permette
di filmare e fotografare senza problemi. Il robot, che pesa 5 kg, si muove su
ruote finché non ha bisogno di saltare di nuovo. Poi c’è Rise, un robot a sei
zampe con sembianze di scarafaggio che può scalare pareti; il kit robotico
TerraMax realizzato dalla Oshkosh Defense (Wisconsin) che permette di
trasformare camion militari o veicoli blindati in macchine a controllo remoto.
Ls3, invece, è un robot simile a un cane che si serve di immagini virtuali per
trotterellare dietro un umano su terreni accidentati, trasportando fino a 180 kg di
vettovaglie. SUGV, un robot delle dimensioni di una valigetta che si muove su
cingoli in grado di identificare un singolo uomo in mezzo a una folla, caricando
una foto segnaletica e seguendolo. First Look, un robot militare costruito
dall’iRobot, un’altra spin-off del Mit, è progettato per saltare attraverso finestre e
muri. ScoutXT Throw-bot realizzato dalla Recon Robotics in Minnesota, ha la
forma di un martello a due teste con ruote su ogni testa, nonché la pesantezza di
una granata e può essere gettato attraverso finestre di vetro. Pneumatici a
spuntone permettono la trazione su superfici ripide e rocciose. Le versioni
subacquee di tali robot sono in fase di sperimentazione. Questa è davvero
fantascienza che diventa realtà.
Come sottolinea «The Economist», le nuove armi più efficaci sono di gran
lunga le UGVs (veicoli di terra senza pilota), che sono state impiegate per la
prima volta in Afghanistan un decennio fa, e i UAVs (veicoli aerei senza pilota) -
conosciuti anche come droni o aeromobili telecomandate (RPA) - i quali fanno
parte del vasto esercito di robot che si muove sia sulla terra che per mare e aria.
Nel 2005 i droni della Cia colpirono tre volte il bersaglio in Pakistan; l’anno
scorso ci sono stati settantasei attacchi, uno dei quali fondamentale per
l’uccisione di Gaddafi in Libia. I droni sono disponibili in ogni sorta di
dimensione: DelFly, un drone di sorveglianza a forma di libellula, realizzato nel
polo tecnologico dell’Università di Delft, pesa meno di una fede d’oro,
telecamera compresa. Dall’altro lato della scala si trova il drone americano più
grande e veloce, Avenger, che costa quindici milioni di dollari, può trasportare
fino a due tonnellate e sette quintali di bombe, sensori e altri equipaggiamenti,
alla velocità di oltre 740 km all’ora.
Ma i droni rendono più semplice uccidere? Non necessariamente, risponde
«The Economist». Perché implicano una tale complessità di trasmissione dei dati
da richiedere lo scrutinio costante di specialisti: i legali del governo, e altri
personaggi simili, sono presenti e attivi nelle stanze dei bottoni e monitorano i
feed-video inviati dai robot. Il loro compito è cancellare gli attacchi illegali o
quelli che sembrerebbero troppo cruenti per la CNN. I piloti veri e propri
agiscono come osservatori umani remoti, e si trovano a lavorare in un ambiente
più umano e quindi non sono affetti dallo stress del combattimento. Fireshadow,
un missile robotico progettato da MEDA, una compagnia francese, una
munizione vagante capace di percorrere 100 km al doppio della velocità
massima della tradizionale artiglieria corazzata; può vagare nel cielo per ore,
servendosi di sensori per rintracciare i bersagli mobili. Un operatore umano,
osservando un feed-video può decidere quando e se aprire il fuoco, trovando una
localizzazione migliore o annullando del tutto la missione. Come «The
Economist» ha più volte sottolineato, tuttavia, il superamento della decisione
umana è già tecnologicamente fattibile. L’esercito israeliano ha munito i suoi
confini di marchingegni robotici e li monitora tramite controllo a distanza. La
Samson Remote Controlled Weapon Station realizzata da David Ishai della
Rafael, un’azienda israeliana, può funzionare senza l’intervento umano,
individuando il bersaglio tramite sensori.
Intervistati su queste problematiche dal «Guardian» (Caroli 2012) i piloti dei
droni hanno affermato che le loro mansioni implicano un diverso tipo di
coraggio da quello della guerra tradizionale, non solo perché devono farsi carico
delle conseguenze di possibili errori, ma anche perché uccidere a distanza
richiede un diverso grado di rigore e precisione. Questi soldati tele-tanatologici
necessitano di un’attrezzatura sofisticata, come «un sistema di targeting
polivalente che combina sensori a infrarossi con potenti videocamere e laser
designatori e illuminatori in un’unica dotazione» (Caroli, 2012, 2). Inoltre,
questa struttura polivalente complessa è tenuta sotto lo stretto controllo di una
serie di specialisti e supervisori: impiegati, analisti e avvocati militari inclusi. I
droni non uccidono con maggiore facilità nel vero senso dell’espressione.
I critici di queste tecnologie letali, tra cui l’ex presidente degli Stati Uniti
Jimmy Carter, pensano il contrario. Essi sostengono che gli attacchi dei droni
sono «esecuzioni extragiudiziarie che violano la sovranità delle nazioni,
macchiano la levatura morale degli Stati Uniti e fomentano l’estremismo»
(Caroli, 2012, 2).
Essi affermano che il modo migliore di prendere posizione rispetto a queste
complesse problematiche è di bandire le armi automatizzate dal campo di
battaglia e al contempo di esigere dai robot una costante cura degli umani. A
Berlino nel 2012 un gruppo d’ingegneri, filosofi e attivisti ha dato vita all’Icrac,
Comitato Internazionale per il Controllo dei Robot Armati, al fine di cercare di
tenere sotto controllo gli effetti dell’autonomia raggiunta dagli attuali sistemi di
armi robotiche, in particolare dei droni. Da quando l’amministrazione Obama ha
però promesso investimenti pari alla somma di 15 miliardi di dollari per i droni
Predator e Reaper, non si può negare la loro crescente importanza sia come armi
offensive che come strumenti di policy.
«The Economist» mette in rilievo anche altri vantaggi del warfare
postumano e sostiene che i robot-soldati autonomi possono apportare più
benefici che danni: non stuprano le donne, non incendiano le abitazioni dei civili
con rabbia e non prendono decisioni sbagliate a causa dello stress da
combattimento. Per analogia le automobili senza conducente sono più sicure di
quelle normali, così come i piloti automatici rendono più agevoli i viaggi.
Inoltre, i droni sono sempre più impiegati per scopi civili, in modo non dissimile
dai robot a lungo usati nelle centrali nucleari, sui ponti di volo per i passeggeri
degli aeroplani e nei treni senza conducenti. Un’inchiesta recente del giornale
«The Guardian» (Franklin 2012) descrive come un drone a batteria con un range
di 300 km e un costo inferiore agli 800 dollari venga impiegato dagli attivisti
ambientalisti per denunciare e, possibilmente, fermare la caccia alle balene dei
giapponesi nelle acque antartiche. Ciò che una volta era pertinenza esclusiva dei
servizi segreti israeliani e dell’aeronautica militare statunitense, oggi è impiegato
in missioni che variano dalla sopravvivenza dei mammiferi marini all’ispezione
delle colture. L’autorità aeronautica militare degli Usa ha appena redatto nuove
direttive per l’impiego di tali veicoli.
La raffinatezza di questi traguardi tecnologici potrebbe suscitare lo stupore
dei lettori, o invece indurli a interrogarsi sui rischi inumani implicati dalle armi
postantropocentriche. È inoltre sorprendente notare il ruolo giocato dalla ricerca
accademica nel coinvolgere le università nello sviluppo di questi robot omicidi.
Il legame sancito dal tempo tra l’accademia e l’esercito, nel nostro mondo
postumano, sta entrando in una nuova e più produttiva fase.
Le tecnologie postantropocentriche stanno, inoltre, riconfigurando le pratiche
di sorveglianza in ambito sociale. Il controllo dell’immigrazione ai confini e il
contrabbando delle persone sono alcuni fra gli aspetti più impressionanti
dell’attuale condizione inumana e fra i fattori centrali dello scenario
necropolitico. Diken (2004) sostiene che i rifugiati e i richiedenti asilo
divengono l’ennesimo emblema del necropotere contemporaneo, poiché essi
sono il perfetto esempio di quell’umanità usa e getta che Agamben definisce
anche homo sacer, e pertanto rappresentano l’ultimo soggetto necropolitico. La
proliferazione dei campi di detenzione ad alta sicurezza e delle carceri nelle città
europee, una volta spazi civili aperti, costituisce un esempio del volto inumano e
disumano della Fortezza Europa. I campi - «recinti sterilizzati e
monofunzionali» (Diken 2004) - rappresentano i monumenti poco dignitosi
dell’inumanità postumana.
Dufflied (2008) spinge ancora oltre l’analisi necro e sociopolitica e sottolinea
la distinzione tra umani sviluppati e muniti di polizze di assicurazione e gli
umani sottosviluppati e non assicurati: «La vita sviluppata è garantita prima di
tutto da regimi di assicurazione sociale e di protezione burocratica storicamente
associate al capitalismo industriale e alla crescita del welfare state» (Dufflied,
2008, 149). La distinzione e le tensioni tra queste due categorie costituiscono il
terreno della guerra civile globale, che è la definizione che Dufflied fornisce per
il capitalismo avanzato globalizzato. Il nesso con il colonialismo è evidente: la
decolonizzazione ha creato Stati nazione le cui popolazioni, un tempo
assoggettate, sono ora libere di circolare globalmente. Queste persone
rappresentano la massa dei migranti respinti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo
che vengono trattenuti e rinchiusi nel mondo sviluppato. In un effetto boomerang
non privo di forza ironica, la migrazione mondiale viene percepita dall’Europa
come una minaccia d’invasione proprio perché essa attacca la sua principale
infrastruttura: il welfare state. La crescente gamma di armi da guerra e le
tecniche omicide sollevano interrogativi circa lo statuto della morte come
oggetto dell’analisi politica contemporanea.
La portata e l’accuratezza della mediazione tecnologica nelle necropolitiche
contemporanee mostra che la morte come concetto rimane caratterizzato da
contraddizioni. Il concetto di messa a morte è fondamentale per la teoria politica
e la pratica, nelle nuove tecniche di uccisione in un contesto tecnologico in
veloce espansione, che illustrano anche un notevole aumento del livello di
vulnerabilità umana. La morte, tuttavia, rimane sottovalutata come materia di
studio, come concetto nella teoria critica e come pratica istituzionale nella
governance politica e nelle relazioni internazionali che trattano unicamente di
gestione biopolitica. La morte è un concetto che resta unico e indifferenziato,
mentre il panorama del pensiero politico sulla vita e il biopotere prolifera e si
differenzia.
Fortunatamente, la nuova teoria postumana sta riempendo tale vuoto e
apportando importanti contributi. Patrick Hanafin (2010), ad esempio,
suggerisce che il rinnovato interesse perla necropolitica, affiancato da una
visione trasversale della soggettività postumana, può aiutarci a elaborare una
contronarrazione etica e politica, alternativa al «soggetto imposto e limitato del
legalitarismo liberale» (2010, 133). Per Hanafin, questo implica uno
smottamento della collocazione tradizionale della moralità, concepita come
orizzonte dell’essere definito e quasi metafisico. Il predominante contratto socio-
legale maschile si articola intorno al desiderio di sopravvivere. Questa non è una
politica che mira al miglioramento, bensì all’intrappolamento in un supposto
ordine naturale, che nei nostri sistemi si traduce nei regimi biopolitici di
disciplina e controllo dei corpi. Questo significa che siamo riconosciuti come
cittadini a pieno diritto solo quando passiamo attraverso la posizione della
vittime, della perdita, dell’ingiustizia e della forma di risarcimento che ne deriva.
La necropolitica postumana e la teoria legale e politica si chiedono cosa la teoria
politica possa diventare nel momento in cui abbandona le istanze negative della
ferita e della perdita.
Hanafm propone di analizzare seriamente la dimensione necropolitica
smettendo di pensare al soggetto di diritto come strettamente collegato alla
morte, ma cominciando a considerare che le singolarità senza identità sono
intimamente connesse le une alle altre e integrate all’ambiente in cui sono
collocate. Tutto questo va nella direzione di una critica della filosofia del diritto.
A questo punto capiamo come un altro fondamentale binario della filosofia
occidentale venga scardinato: crolla la tradizionale distinzione tra una vita
politica qualificata dalla morte e una filosofia del diritto che valorizza la nostra
condizione mortale solo per giustificare una politica della sopravvivenza. Una
posizione postidentitaria che esorta, seguendo Virginia Woolf, a pensare come se
io già non ci fossi più, ovvero a pensare con e non contro la morte. L’enfasi sul
continuum vita-morte può secondo Hanafin rappresentare l’ultima sfida per un
sistema giuridico costruito sugli orizzonti confinanti della metafisica della
mortalità.
La politica del divenire di William Connoly (1999) assume una posizione
simile: contro la distruzione necropolitica occorre sviluppare un’etica
dell’impegno nei confronti degli elementi sociali e politici - compresi gli orrori
dei nostri giorni - per indurre dei contro-effetti, ovvero conseguenze inaspettate e
cambiamenti di rotta. La teoria critica deve confrontarsi con il presente,
elevandosi all’altezza dei tempi, pur resistendo alla violenza, agli orrori e alle
ingiustizie attuali (Braidotti 2008a). L’etica affermativa è basata sulla prassi della
costituzione di positività, poiché vuole diffondere nuove condizioni sociali e
nuove relazioni, fuori dall’ingiustizia e dalla sofferenza. Si applica attivamente a
costruire e a far circolare energia attraverso la trasformazione della carica
negativa delle esperienze, persino nell’intimità di quelle relazioni in cui è in
funzione la dialettica della dominazione (J. Benjamin 1988). Per Deleuze e
Guattari, la temporalità di quest’attività politica è quella di aion, la continua
tensione del divenire, molto diversa da quella di chronos, la linea dell’ordine
politico egemonico. Occorre impegnarci attivamente e collettivamente per il
rifiuto dell’orrore e della violenza - l’aspetto inumano e disumano del nostro
presente - e occorre trasformarli nella costruzione di alternative affermative. Un
pensiero necropolitico che intende sostenere, tramite l’affermazione, il processo
di disfacimento dei preesistenti accordi tra vita e morte, così come realizzare
alternative produttive.
Nel resto di questo capitolo cercherò di ripensare il continuum vita-morte nel
contesto del continuo confronto con una responsabilità politica degna della
soggettività postumana.
La teoria postumana della morte


Una delle conclusioni preliminari più immediate che possiamo trarre da
quanto detto finora è che ci occorre pensare con maggior rigore ai modi del
morire, in un contesto postumano necropolitico caratterizzato da una nuova
sensibilità sociale per la scienza forense. Ma come funziona la teoria vitalista e
materialista della morte? La morte non è una prerogativa umana, soprattutto
nell’era della scomparsa della natura. Posizionandosi agli antipodi dell’idea
razionalista dell’amministrazione umana della natura, l’interrogativo
ambientalista riguarda la prevenzione dell’estinzione delle specie. Questo è un
problema biopolitico: a quali specie è concesso sopravvivere e quali sono
destinate a morire? La teoria postumana sottolinea il fatto che per elaborare dei
criteri adeguati, ci occorre una visione alternativa della soggettività in grado di
sostenere questo progetto e di renderlo operativo.
Dovremmo partire dall’indagare come i differenti modelli di morte vengano
distribuiti e organizzati a livello sociale: violenze, malattie, povertà, incidenti,
guerre e catastrofi. La persistenza della violenza politica e della nozione di
guerra giusta sono materia di primaria importanza per quest’indagine, così come
lo è l’analisi dei modi in cui alcuni filosofi hanno affrontato la morte (Critcheley
2008). A questo punto dovremmo rivolgerci ai modi del morire generati
nell’intimo della soggettività: suicidio, burn-out, depressione e altre patologie
psicosomatiche. Che forma assume oggi la teoria postumana della morte? Essa ci
fornisce una sobria spiegazione di come oggi si articoli la biopolitica in un
contesto segnato dalle nuove guerre e dalle armi tecno-tanatologiche controllate
a distanza. L’approccio necropolitico permette una cartografia più accurata delle
modalità con cui le soggettività incarnate contemporanee si relazionano e si
uccidono tra loro. Ancora, questo approccio offre nuovi strumenti analitici per
un’etica che affronti sia l’orrore che la complessità dei nostri giorni e che tenti di
farsene carico in una prospettiva affermativa. Un problema all’ordine del giorno,
che a malincuore non posso esaurire in questo momento.
La nostra opinione sulla morte dipende dalle convinzioni che abbiamo sulla
vita. Nella mia prospettiva materialista e vitalista, la vita è un’energia cosmica,
al contempo caos vuoto e velocità o movimento senza limiti. Essa è impersonale
e inumana nel senso mostruoso e animale di una radicale alterità: zoe in tutta la
sua potenza. Questo non significa che zoe, o la vita nella sua illimitata vitalità,
non sia mai toccata dalla negatività. Zoe eccede sempre le soglie individuali
dell’esistenza incarnata che costituisce un singolo soggetto. L’essere umano è
sempre un gradino più in basso dell’intensità pura o della potenza del virtuale.
Rispondere alla sfida costante posta dall’etica affermativa dell’amor fati impone
una doppia esigenza: essere all’altezza dei nostri tempi, continuando a
contrastarli e a resistere.
È impegnativo cogliere e cavalcare l’onda dell’intensità della vita in modo
laico, svelandone i confini e i limiti tramite la loro stessa trasgressione. Nessuna
meraviglia che molti di noi, come George Eliot ha osservato con acume,
cerchino di ignorare il frastuono dell’energia cosmica. Spesso non ce la facciamo
proprio a confrontarci con la vita, e a volte ne abbiamo semplicemente
abbastanza. La morte è la trasposizione finale, anche se non è l’ultima, dal
momento che la zoe prosegue implacabile.
La morte è l’eccedenza concettuale inumana: l’irrappresentabile,
l’impensabile, l’improduttivo buco nero che tutti temiamo. Tuttavia, la morte è
anche sintesi creativa di flussi di energia e divenire perpetui. Gilles Deleuze
(2002, 1995, 1976) sostiene che per dare un senso alla morte ci occorre un
approccio non convenzionale, che si regga sulla distinzione preliminare e
fondamentale tra morte personale e impersonale. La prima è connessa alla
soppressione dell’ego individualizzato. L’ultima si trova oltre l’io: una morte che
è sempre davanti a me e che segna la soglia ultima dei miei poteri di divenire. In
altre parole, nella prospettiva postumana, l’enfasi sull’impersonalità della vita è
accompagnata da un’analoga riflessione sulla morte. Dal momento che gli umani
sono mortali, la morte, o la fugacità della vita, è inscritta nel nostro intimo: essa
è l’evento che struttura la nostra temporalità e rimarca i nostri spazi, non come
un limite, ma come una soglia porosa. Nella misura in cui essa è presente nel
nostro orizzonte psichico e somatico, come un qualcosa che è sempre già
avvenuto (Blanchot 2000), la morte ci precede come nostro evento costituente,
sempre alle nostre spalle; essa ha già avuto luogo come potenziale virtuale che
costituisce tutto ciò che saremo. La piena esplosione della consapevolezza della
natura transitoria di tutto ciò che vive è il momento significativo della nostra
esistenza. Esso struttura il nostro divenire soggetti, le nostre capacità, il nostro
potere di relazione, il processo di acquisizione della consapevolezza etica. Come
esseri mortali, siamo tutti dei sopravvissuti: lo spettacolo della nostra morte è da
sempre scritto in filigrana nel copione della nostra temporalità, non come un
limite, ma come una condizione di possibilità.
Questo significa che quello che noi temiamo di più, il nostro essere morti,
l’origine dell’angoscia, del terrore e della paura, non si trova avanti a noi,
piuttosto è già alle nostre spalle, è già un evento trascorso. Questa morte che
appartiene al passato ma è sempre presente non è individuale ma impersonale;
essa è la precondizione della nostra esistenza, del nostro futuro. Questa
prossimità alla morte costituisce un’amicizia stretta e intima che esorta alla
durata, nel suo doppio significato di durata temporale o di continuità, di empatia
spaziale o di sostenibilità. Familiarizzare con la necessità impersonale della
morte è un espediente etico per radicarsi alla vita come visitatori transitori e
leggermente feriti. Potremmo dire che abbiamo costruito la nostra casa su un
precipizio, che viviamo per riprenderci dalla scioccante consapevolezza del fatto
che questo gioco è finito ancora prima d’iniziare. La vicinanza alla morte
sospende la vita, non nella trascendenza, bensì nella radicale immanenza di solo
una vita qui ed ora, per tutto il tempo che possiamo goderne.
Questo non significa, tuttavia, che la vita si realizzi a pieno nell’orizzonte
della morte. Come ho sostenuto prima, questo concetto classico è centrale per la
metafisica della finitudine che, specialmente nella tradizione heideggeriana,
santifica la morte in quanto entità capace di definire la coscienza umana. Io
voglio invece sottolineare la natura differenziale e produttiva di zoe, vale a dire
gli aspetti positivi del continuum vita-morte. Il che non significa rinnegare gli
orrori della realtà, piuttosto rielaborarli allo scopo di confermare i poteri vitali di
passioni positive quali la guarigione e l’empatia. Questo è il nucleo dell’etica
affermativa postumana, declinata nella prospettiva spinozista contemporanea
(Braidotti 2011). Un esempio illuminante ci è fornito da Edourd Glissant (1997)
la cui opera sul colonialismo e la letteratura ricontestualizza gli orrori della
modernità in modo affermativo, partendo dall’esperienza storica mondiale della
schiavitù. Glissand applica il pensiero nomade alla critica della lingua madre
dominante, legata alla nazione, sin troppo eurocentrica. Esortare al polilinguismo
ibrido e alla creolizzazione su scala globale rappresenta una risposta affermativa
al monoculturalismo coercitivo imposto dai poteri coloniali e imperiali. L’etica
dell’affermazione produttiva è un modo diverso di affrontare la problematica di
come relazionarsi al dolore e ai traumi, di come agire in situazioni estreme,
cercando sempre di estrapolare la forza generativa della zoe - la vita oltre il
limitato ego umano.
In questa prospettiva, la morte non è la meta teleologica della vita, una sorta
di magnete ontologico che ci spinge avanti: lo ripeto, la morte è alle nostre
spalle. La morte è l’evento che ha sempre già avuto luogo a livello della
coscienza. Come circostanza individuale si realizzerà nella forma dell’estinzione
fisica del corpo, ma come evento, nel senso della consapevolezza della
finitudine, del flusso interrotto del mio essere qui, la morte è già avvenuta. Noi
siamo tutti sincronizzati con la morte - la morte ci accompagna lungo i giorni
della nostra vita, poiché noi viviamo un tempo preso in prestito. Il tempo della
morte come evento è il presente continuo e impersonale di aion, divenire
perpetuo, non il tempo lineare e individualizzato che chiamiamo chronos. La
temporalità della morte è il tempo stesso, nella sua totalità.
Ai laici alcuni di questi concetti potranno apparire controintuitivi. Voglio
insistere, tuttavia, sulla necessità di ripensare la vita postumana oltre i vecchi
limiti della morte. Potrebbe esserci utile ricordare a questo proposito la tattica
della defamiliarizzazione, che ho descritto nel capitolo precedente. Per accostarci
alla morte in modo differente, dovremmo forse partire dal prendere la giusta
distanza critica dal presunto valore autoevidente attribuito alla vita nella nostra
cultura. Vivo in un mondo in cui alcune persone uccidono in nome di un
sacralizzato diritto alla vita. In risposta vorrei riferirmi a una più lucida
tradizione di pensiero che non si fonda sulla convinzione che la vita sia
intrinsecamente ed evidentemente sacra, bensì vorrei rivalutare gli elementi
traumatici di questa stessa vita nella loro, spesso ignorata, familiarità. La vita, in
altre parole, è un gusto acquisito, una forma di dipendenza come un’altra, un
progetto dagli esiti non predeterminati. Bisogna impegnarsi. La vita trascorre
senza che noi la possediamo; noi la occupiamo, come si occupa uno spazio
condiviso.
Morte di un soggetto


Secondo la mia visione vitalista, la morte è l’inumano dentro e fra di noi, che
ci apre alla vita. Ognuno di noi è sempre già trascorso, dal momento che siamo
esseri mortali. Il desiderio come forza ontologica del divenire (potentia) ci esorta
a continuare a vivere. Se sostenuta abbastanza a lungo, la vita diventa
un’abitudine. Se l’abitudine diventa autosufficiente, la vita diventa una
dipendenza, ovvero il contrario della necessità e dell’autoevidenza. Vivere solo
una vita è quindi un progetto, non un presupposto, poiché non c’è nulla di
naturale o di automatico in tutto ciò. Bisogna tuffarsi nella vita tutti i giorni,
rinnovando la carica elettromagnetica del desiderio, non trascinarsi affidandosi
al pilota automatico. La vita è irresistibile, ma non compulsiva. Al di là del
piacere e del dolore, la vita è un processo di divenire, di torsione dei limiti della
sostenibilità. In che modo questo concetto vitalista di morte si distingue dalla
teoria critica?
L’esperimento postumano della defamiliarizzazione è una forma di
disintossicazione che consiste nel tentare di pensare l’infinito, oltre il terrore del
vuoto, in selvaggi panorami mentali non umani, con l’ombra della morte proprio
sotto i nostri occhi. Pensare diventa così un gesto di affermazione e di speranza
per la sostenibilità e la durata, ovvero un gesto di affermazione di relazioni
incarnate e immanenza spazio-temporale, al di là dell’ego umano. Situandosi
oltre gli effetti paralizzanti della sfiducia e della sofferenza, la chiave dell’etica
consiste nel muoversi trasversalmente rispetto a esse. Il pensiero critico
postumano non aspira alla supremazia, ma alla trasformazione delle passioni
negative in passioni positive.
La vita è desiderio che aspira essenzialmente a esprimere se stesso e di
conseguenza a produrre energia entropica: esso raggiunge i propri scopi e li
dissolve, come i salmoni che nuotano contro corrente per riprodursi e poi morire.
L’aspirazione alla morte può di conseguenza essere letta come la controparte e
come un’altra espressione del desiderio di vivere intensamente. Il corollario è
davvero ironico: non solo qui non vi è nessuna tensione dialettica tra eros e
thanatos, ma queste due entità sono in realtà una sola forza vitale che mira a
raggiungere il suo pieno compimento. Il materialismo vitalista postumano
infrange i confini tra ciò che vive e ciò che muore. La vita, zoe, mira
essenzialmente alla sua autoperpetuazione e poi, una volta raggiunto lo scopo,
alla sua dissoluzione. Si potrebbe sostenere, quindi, che la vita intesa come zoe
comprende ciò che noi chiamiamo morte. Di conseguenza, quello che noi umani
desideriamo più profondamente non è semplicemente scomparire, ma farlo nel
contesto della nostra vita e a modo nostro (Phillips 1999). Come se ognuno di
noi desiderasse morire secondo il proprio stile. Il nostro desiderio più intimo è
quello di una morte autoplasmata e autostilizzata. Così noi tendiamo a ciò che in
ultimo cerchiamo di evitare, diventando suicidi esistenziali virtuali, non per
nichilismo, ma perché morire è nella nostra natura e perché uno dei nostri più
profondi desideri consiste nell’autodeterminare la nostra morte.
Di certo questo è un paradosso, il paradosso dell’inumano analizzato da
Lyotard: qualcosa nella struttura dell’umano semplicemente resiste
all’appartenenza comune all’umanità e si estende al di là di essa. L’inumano
ontologico è stato spesso interpretato come sacro, ma per una materialista laica
come me ciò non è convincente. Quello a cui tendiamo è l’energia cosmica senza
fine, impetuosa quanto capace di autorganizzazione. La consapevolezza
dell’oltre riguarda la morte come esperienza che è sempre già avvenuta, non
come il trascendentale che ci attende. Mentre a livello della coscienza tutti noi
lottiamo per la sopravvivenza, a un livello più profondo del nostro inconscio tutti
aneliamo a riposare in silenzio, a far scorrere il tempo nell’immobilità della non-
vita. Autodeterminare la propria morte è un gesto di affermazione, poiché
implica l’elaborazione di un approccio, di uno stile di vita che progressivamente
e costantemente fissa modalità e passaggi dell’ultimo atto, non lasciando nulla di
impreparato. E poiché l’immortalità esercita una sorta di fascino, la vita etica è
vita intesa come suicidio virtuale. La vita come suicidio virtuale è vita in
perenne creazione. Vita vissuta in modo da rompere i cicli della ripetizione inerte
che corteggiano la banalità. Per non illuderci con pretese narcisiste dobbiamo
coltivare la continuità, l’immortalità all’interno del tempo, ossia la morte nella
vita.
Vale la pena ripetere che la capacità generativa del continuum vita-morte non
può essere limitata e confinata nel singolo individuo umano. Esso attraversa
piuttosto tutte le barriere per raggiungere il suo scopo, ovvero
l’autoperpetuazione come espressione della sua potenza. Ci correla
transindividualmente, transgenerazionalmente ed ecofilosoficamente. Come se la
vita in me non fosse mia, eccetto che in un senso molto limitato del termine. In
entrambi i casi tutto ciò che posso sperare è di plasmare la mia vita e la mia
morte secondo la modalità, la velocità e lo stile in grado di sostenere tutta
l’intensità di cui l’Io sia capace. Posso autodeterminare quest’azione
autopoieticamente, esprimendo così la mia propria essenza come desiderio
costituente di durare. Chiamo questo desiderio potentia.
Divenire impercettibile


Quello che noi umani bramiamo davvero è scomparire fondendoci al flusso
generativo del divenire, presupposto per la perdita, la scomparsa, la distruzione
del soggetto atomizzato e individuale.
L’ideale sarebbe portare con noi solo i ricordi, lasciarci alle spalle solo delle
tracce. Quello che desideriamo di più in verità è sciogliere il nodo del soggetto,
abbandonandoci preferibilmente all’agonia dell’estasi, scegliendo inoltre il
nostro modo di scomparire e di morire, di separarci da noi stessi. Ciò può essere
descritto anche come il momento della dissoluzione ascetica del soggetto; il
momento della fusione con il tessuto di forze non umane che costituiscono noi
stesse/i e l’intero cosmo. Possiamo chiamare tutto ciò morte, ma secondo
l’ontologia monista del materialismo vitalista, ha più a che fare con l’immanenza
radicale: la totalità radicata del momento in cui coincidiamo completamente con
il nostro corpo, il processo di divenire quello che, alla fine, siamo sempre stati,
ovvero cadaveri virtuali.
La morte, l’inumano tra noi, rende il divenire impercettibile del soggetto la
frontiera più lontana dei processi di trasformazione intensiva del divenire.
Questa non è trascendenza, bensì immanenza radicale empirica: trasformazione
di tutto il vivente nel frastuono del divenire caosmotico. La morte evidenzia la
potenza generatrice di zoe, la magnifica macchina-animale dell’universo, al di là
della morte individuale personale. Ricordiamo che questo è un discorso laico,
elaborato da una teoria critica che vuole pensare fino alla fine il continuum
natura-cultura all’interno dell’ontologia monista che considera tutta la materia
intelligente e capace di autorganizzazione. Riconoscere questo continuum ci
rende in grado di essere all’altezza di quanto ci accade: amor fati significa
comprendere pragmaticamente che il soggetto postumano è l’espressione di onde
successive di divenire, alimentate da quel motore ontologico che è zoe. L’amor
fati non è umano né divino, bensì del tutto materiale e votato alla relazionalità
multidirezionale e transpecie. La vita prosegue, implacabilemente non umana
nella forza vitale che la anima. Il divenire impercettibile evidenzia il momento
della scomparsa e dell’evanescenza dei soggetti isolati e la loro fusione con
l’ambiente, con il territorio, con l’immanenza radicale della terra stessa e con la
sua risonanza cosmica. Il divenire impercettibile è l’evento per cui non vi è
rappresentazione, poiché si fonda sulla scomparsa del sé individualizzato.
L’ultimo passaggio della disintossicazione dall’ ego umano, umanista e
antropocentrico, è il tentativo di riuscire a scrivere come se il soggetto unitario
fosse già trascorso, riuscire a pensare al di là di esso. Questo processo
concretizza nel presente possibilità virtuali, in una sequenza temporale che si
muove tra il non più e il non ancora, fondendo passato, presente e futuro nella
massa critica dell’evento. L’energia vitale che catalizza la trasmutazione dei
valori nell’affermazione è la potentia della vita intesa come divenire perpetuo
che si esprime attraverso il vuoto caotico e generativo della positività. L’evento
emana una seduzione alla vita che infrange l’economia spettrale della negatività,
innescando un processo di addestramento alla morte impersonale.
L’interpretazione postumana della morte intesa come continuum vitale non
potrebbe essere più lontana dalla nozione di morte come stato inanimato e
indifferente della materia, lo stato entropico al quale si suppone il corpo ritorni.
Essa piuttosto parla del desiderio di pienezza e di abbondanza di flussi, non di
mancanza. La morte è il divenire impercettibile del soggetto postumano e come
tale è parte dei cicli di divenire, anche se come diversa forma
d’interconnessione, come relazione vitale che unisce forze multiple.
L’impersonale è vita e morte, bios/zoe in noi - ultima frontiera esterna
dell’incorporeo: divenire impercettibile.
Il paradosso dell’affermazione della vita come potentia, energia, persino
dentro e attraverso la soppressione della specifica porzione di vita che io occupo,
è un modo per spingere il postumanesimo e il postantropocentrismo fino al punto
dell’implosione. Esso dissolve la morte nei cambiamenti processuali sempre
mutevoli, e così disintegra l’ego, banca centrale del narcisismo, della paranoia e
della negatività. La morte come processo dal punto di vista specifico e molto
limitato dell’ego non ha alcun significato. Il tipo di sé che è modellato in e
attraverso tale processo è il non-uno, anche se non coincide con la molteplicità
anonima. Il sé è differenziale e costituito attraverso linee d’intersezioni incarnate
e integrate. L’intima coerenza di tale soggetto postumano è tenuta salda
dall’immanenza delle proprie espressioni, dei propri atti e delle proprie
interazioni con gli altri, così come dai poteri della memoria e della continuità nel
tempo. Mi riferisco a questo processo in termini di sostenibilità, in modo da
sottolineare l’idea della durata che esso implica. La sostenibilità si fa carico della
fiducia verso il futuro, esorta al senso di responsabilità per la dignitosa consegna
di un mondo vivibile alle generazioni future. Un presente in grado di durare è il
modello sostenibile del futuro. Contro l’immagine auto-glorificante della
coscienza pretenziosa ed egoista, narcisista e paranoica, la teoria critica
postumana scatena le forze vitali di zoe che non coincidono con l’umano né con
la coscienza. Questi tratti non essenzialistici del vitalismo caratterizzano il
soggetto postumano.
La mia declinazione vitalista del materialismo non può essere più lontana
dall’affermazione cristiana della vita, dalla delega trascendentale del sistema dei
valori e dei significati a entità più elevate del sé incarnato. Al contrario, è
l’intelligenza radicale immanente alla carne ad affermare, a ogni singolo respiro,
che la vita in te non è il frutto di un sistema di significazione e che di certo non
porta il tuo nome. La consapevolezza dell’assoluta differenza tra gli affetti
intensivi o incorporei e gli specifici corpi affetti che sembriamo essere è cruciale
per l’etica affermativa postumana. La morte è l’insostenibile, ma è anche il
virtuale per il fatto che possiede la capacità generativa di concretizzare l’attuale.
Di conseguenza, la morte è un’ovvia manifestazione di principi attivi in ogni
aspetto della vita, soprattutto è il potere impersonale della potentia. Il soggetto
postumano si fonda sull’affermazione di questo tipo di molteplicità e sulla
connessione relazionale con il fuori cosmico e infinito.
Conclusione: etica postumana


La condizione postumana comporta forme specifiche di pratiche inumane e
disumane che evocano nuovi modelli contestuali di analisi e nuovi valori
normativi. In questo capitolo ho trattato gli spettrali scenari necropolitici della
condizione postumana attraverso una serie di problematiche interrelate. In primo
luogo ho discusso gli aspetti distruttivi delle nuove forme di panumanità reattiva
o negativa prodotte dalle società globali del rischio e dalla sottomissione di tutto
il vivente all’economia politica della capitalizzazione del valore della vita intesa
come informazione. In secondo luogo, mi sono concentrata sulle forme
pervasive della mediazione tecnologica, sull’estensione delle reti di
comunicazione globale e sull’intervento biogenetico, fattori che hanno
ristrutturato la relazione natura-cultura come un insieme continuo sia distruttivo
che generativo. I casi qui presi in considerazione sono rappresentati dalle nuove
guerre, dagli interventi umanitari e dalle armi automatiche capaci di fare a meno
della decisione umana. Ho sostenuto il bisogno di riconsiderare la distinzione
vita-morte nei termini del continuum vitale articolato su differenziazioni interne.
Ho presentato tale continuum come il doppio capovolgimento
dell’individualismo, a favore delle singolarità complesse, e
dell’antropocentrismo, a favore delle molteplicità dei flussi e degli assemblaggi
non umani. Attraverso tutti questi momenti ho sottolineato l’inumanità e la
violenza dei nostri tempi e ho rivendicato pratiche affermative di reazione
all’economia necropolitica in cui siamo costretti.
Vorrei riassumere una serie di caratteristiche di questa svolta postumana
necropolitica. Il primo punto è che il soggetto politico e legale di questo regime
di governamentalità della vita-morte è un’entità eco-filosofica
postantropocentrica. Questo soggetto guidato da zoe è caratterizzato
dall’interdipendenza con il suo ambiente tramite una struttura di flussi reciproci
e di trasferimento di dati che si configura al meglio come interconnessione
complessa e intensiva.
In secondo luogo, questo soggetto connesso all’ambiente è un’entità
collettiva finita, che si muove oltre i parametri dell’umanesimo e
dell’antropocentrismo classici. L’organismo umano è un’entità di mezzo
collegata e connessa a una varietà di possibili risorse e forze. In quanto tale è
utile definirlo come macchina, non un dispositivo con uno scopo utilitaristico
ben preciso, ma una macchina al contempo astratta e incarnata materialmente. La
definizione minimalista di corpo-macchina è quella di un’entità incarnata,
intelligente e affettiva che elabora processi e trasforma energie e forze. Essendo
legata all’ambiente e radicata a un territorio, un’entità incarnata si nutre di,
incorpora e trasforma il suo ambiente costantemente. Essere integrata in questo
contesto ecologico high-tech implica una piena immersione nei campi dei flussi
perenni e delle metamorfosi. Non tutti sono positivi, anzi, poiché gli aspetti
inumani e disumani comportano numerose forme di vulnerabilità, nonostante in
un tale sistema dinamico essi non possano essere conosciuti né giudicati a priori.
Dunque ci occorre sperimentare nuove pratiche che ci permettano di elaborare
una molteplicità di possibili istanze-attualizzazioni e controattualizzazioni - delle
differenti linee di divenire, come ho spiegato nel precedente capitolo.
In terzo luogo, tale soggetto del zoe-potere solleva questioni d’urgenza etica
e politica. Data l’accelerazione dei processi di cambiamento, come possiamo
rendere conto della differenza tra i diversi flussi delle trasformazioni e delle
metamorfosi? Occorre mappare e analizzare le linee di fuga e di divenire, poiché
esse indicano gli assemblaggi collettivi e le altre possibili vie di metamorfosi.
Nessun modello monolitico e statico può fornirci risposte adeguate: bisogna
sperimentare la diversificazione di strategie più pragmatiche e aperte. Il punto di
partenza è l’implacabile forza generatrice e distruttrice di zoe, l’egalitarismo
transpecie che fissa le basi dell’etica postumana: una questione di potenza e di
etologia.
In quarto luogo, la specifica temporalità del soggetto postumano necessita di
essere ripensata oltre la metafisica della mortalità. Il soggetto è un motore
evolutivo, dotato di una sua incarnata temporalità, sia nel senso del tempo
particolare del codice genetico, che nel senso del tempo più genealogico dei
ricordi individualizzati. Se il soggetto incarnato del biopotere è un organismo
molecolare complesso, una fabbrica di geni immutabili e mutabili, un’entità
evolutiva dotata di propri strumenti per la navigazione e di un’intima
temporalità, allora ci occorrono delle forme di valori etici e di azione politica che
riflettano quest’alto grado di complessità temporale. La mia tesi è che, adottando
una visione differente del soggetto e con essa una nuova nozione dell’interazione
natura-cultura, la teoria critica potrebbe essere in grado di superare il
modernismo e le concezioni piuttosto riduttive dell’inumano.
In quinto e ultimo luogo, questo approccio etico non può essere disgiunto
dall’analisi del potere. La visione zoe-centrata del soggetto tecnologicamente
modificato della postmodernità e del capitalismo avanzato è carica di
contraddizioni interne. Comprendere queste contraddizioni è l’obiettivo
cartografico della teoria critica, così la spiegazione delle conseguenze che esse
comportano per la visione storicamente collocata del soggetto è parte integrante
di questo progetto (Braidotti 2003). L’egalitarismo zoe-centrato che
potenzialmente accompagna le trasformazioni tecnologiche presenti ha
conseguenze terribili per la visione umanista del soggetto. La potenza di zoe, in
altre parole, disturba l’attrazione gravitazionale necropolotica del capitalismo
avanzato. Sia l’individualismo liberale che l’umanesimo classico vengono erosi
sin nell’intimo dalle trasformazioni indotte dalla nostra condizione storica.
Lontana dall’essere una mera crisi di valori, questa situazione ci mette al
cospetto di una formidabile gamma di opportunità. Esse convergono, attraverso
strade diverse, sulla riarticolazione del nostro concetto condiviso dell’umano
inteso come specie. Una di esse è il legame negativo della vulnerabilità
panumana che ho analizzato nel capitolo precedente: siamo in questa situazione
caotica tutti insieme, tutte le altre differenze non contano. Un altro approccio,
più vicino alla mia posizione, propone di partire dalle differenze di collocazione
e, analizzandole in termini di potere, sia repressivo che liberatorio (potestas-
potentia), di sperimentare diversi modelli di soggettività postumana. Ho
sostenuto che come possibile risposta a questa sfida dovremmo prendere in
considerazione il filone postantropocentrico del vitalismo e definire di
conseguenza la teoria postumana.
Questa convinzione è supportata dalla mia collocazione storica e geopolitica,
che mi rende consapevole della coincidenza schizofrenica di effetti sociali
diametralmente opposti: l’iperconsumismo e l’esaurimento delle riserve
mondiali di biodiversità e sementi, di cereali, piante e acqua sembrano poter
convivere dentro l’economia politica dello sfruttamento e della valorizzazione
della vita in sé. In modo simile, l’epidemia di anoressia/bulimia da un lato, e la
fame indotta dalla povertà dall’altro, rappresentano le ondate di espansione e
contrazione del peso corporeo della popolazione delle classi opulente del mondo
e la dispersione, nonché la premeditata distruzione, di molte altre popolazioni,
tramite intervento attivo o pura negligenza.
Biopolitica e necropolitica collaborano per ricollocare la soggettività
incarnata nel continuum postumano, fatto che ci esorta a elaborare un nuovo
codice etico. Pertanto, riconosco che la definizione di vittima di guerra della
Convenzione di Ginevra necessita di un aggiornamento per rendere conto dello
statuto specifico degli umani incarnati che subiscono i danni collaterali delle
guerre high-tech, e che vengono colpiti dal cielo con bombe intelligenti lanciate
da droni pilotati da computer, condizione che mi ricorda quella degli animali
dello zoo di Sarajevo forzatamente liberati dopo un bombardamento della Nato e
che erravano per le strade terrorizzati e terrorizzando gli umani fino a
soccombere sotto il fuoco amico. Voglio confrontarmi con la governamentalità
necropolitica del capitalismo biogenetico e pensare partendo dalla
consapevolezza che il prezzo di mercato di uccelli esotici e animali quasi estinti
è paragonabile, spesso a vantaggio della specie dei volatili, a quello dei corpi usa
e getta delle donne e dei bambini nel mercato e nell’industria mondiale del sesso.
La terrificante espressione di Conrad «sterminare i bruti» oggi non conosce
limiti tra le specie. Questo è il lato inumano e disumano della mia collocazione
storica, il postumano, qui e ora. Ed è in risposta a questa violenza che pongo la
teoria critica postumana come rivendicazione attiva di alternative affermative. È
anche il contesto in cui voglio proporre un’alternativa creativa, attraverso la
teoria positiva postumana, laica, non essenzialista, materialista e vitalista della
morte, intesa come l’elemento inumano generativo all’interno della soggettività,
che ci rende tutti fin troppo umani.
Capitolo 4

Scienze postumane
La vita oltre la teoria


È inevitabile che le scienze umane subiscano l’impatto della condizione
postumana. Lo slittamento dei confini discorsivi e delle differenze categoriali,
innescato rispettivamente dall’esplosione dell’umanesimo e dall’implosione
dell’antropocentrismo, causa una frattura all’interno delle scienze umane che
non può essere riparata dalla semplice buona volontà.
Cerchiamo di valutare i danni sulla base delle analisi che ho fornito nei tre
precedenti capitoli.
Nel primo capitolo ho discusso delle ricadute del postumanesimo. Il concetto
di umano implicito nell’umanesimo, che esprime una serie di convinzioni
assiomatiche intorno all’unità di riferimento comune per il soggetto della
conoscenza, è rappresentato dall’Uomo Vitruviano. Esso veicola l’immagine
dell’uomo inteso come animale razionale dotato di linguaggio. Nel corso degli
ultimi trent’anni gli antiumanisti hanno problematizzato sia l’auto-
rappresentazione che l’immagine del pensiero implicate dalla definizione
umanista di umano, specialmente l’idea di ragione trascendentale e la nozione di
soggetto coincidente con la coscienza razionale. Questa autocompiacente
immagine di Uomo è tanto problematica quanto parziale poiché promuove
comportamenti autocentrati. Inoltre, dal momento che distribuisce le differenze
su una scala gerarchica di decrescente dignità, nella storia occidentale questo
soggetto umanista definisce se stesso in base a ciò che esclude oltre che a ciò che
include nella sua stessa rappresentazione, un approccio che spesso giustifica una
relazione violenta e belligerante con gli altri sessualizzati, razzializzati e
naturalizzati, che vengono relegati al rango di svalutate differenze. Inoltre, gli
appelli all’universalismo sono stati criticati in quanto escludenti, androcentrici
ed eurocentrici. Tali appelli diffondono ideologie maschiliste, razziste e
prevaricatrici, che trasformano la specificità in falsa universalità e la normalità in
ingiunzione normativa. Questa immagine del pensiero mistifica la pratica delle
scienze umane e, in particolare, trasforma la teoria in un esercizio di esclusione
gerarchizzata e di egemonia culturale.
Negli ultimi trent’anni nuove epistemologie critiche hanno proposto
definizioni alternative del concetto di umano, attraverso la creazione di nuovi
campi interdisciplinari che si riferiscono a loro stessi con il termine «studi»:
studi di genere, femministi, etnici, culturali, di comunicazione, dei diritti umani
(Bart et al. 2003). In questo libro ho posto in primo piano la teoria femminista
come principale punto di riferimento teoretico e metodologico. Secondo James
Chandler (2004) questa proliferazione di controdiscorsi produce una situazione
di «disciplinarietà critica» che è sintomo della condizione postumana. Chandler
sostiene che a seguito della giusta diagnosi di Foucault sulla morte dell’Uomo, la
tradizionale organizzazione dell’università in dipartimenti è stata messa in
discussione dall’aumento di questi nuovi ambiti di discorso. Tale proliferazione
di studi è sia un pericolo quanto un’opportunità, dal momento che richiede
innovazioni metodologiche, così come un approccio genealogico critico che
superi la mera retorica della crisi.
Le conseguenze del postantropocentrismo, come ho mostrato nel secondo
capitolo, determinano un’agenda differente per le scienze umane, non solo per
quanto concerne le priorità della ricerca. L’immagine del pensiero implicata
dalla definizione postantropocentrica dell’umano si spinge molto avanti nel
processo di decostruzione del soggetto, poiché si concentra sulla relazionalità,
ovvero sulle identità non unitarie e sulle alleanze multiple. Poiché questo
cambiamento avviene in un mondo globalizzato e tormentato da conflitti, esso
prospetta nuove sfide negli ambiti postlaici e postnazionalisti, compresa la nuova
dimensione europea segnata da multiculturalismo e diversità culturale23.
Qual è il ruolo delle scienze umane, come impresa scientifica in una cultura
globalizzata che funziona in rete (Terranova 2006), che non trova più nell’unità
dello spazio e del tempo i suoi principi regolatori? Nell’era in cui scienza24 e
giornalismo vengono esercitati direttamente dai cittadini, quale può essere il
ruolo delle istituzioni di ricerca accademiche?
Il dislocamento dell’antropocentrismo e lo slittamento della gerarchia delle
specie lascia l’umano senza punti di ancoraggio e di supporto, cosa che priva
l’ambito delle scienze umane delle più che necessarie basi epistemologiche. La
questione del futuro delle scienze umane, il problema del loro rinnovamento e
del ricorrente rischio del tramonto di tali discipline, è aggravato da un fattore
centrale: «I nuovi collegamenti umano non umano, tra i quali le complesse
interfacce che includono assemblaggi macchinici di wetware biologici e di
hardware non biologici» (Bono et al. 2008, 3). Abbiamo visto nel secondo
capitolo che la distinzione dualista natura-cultura è crollata ed è stata sostituita
da un sistema complesso di feedback dei dati, di interazione e trasferimento di
comunicazione. Cosa che pone di nuovo il problema della relazione tra le due
culture al centro dell’agenda attuale. Contro i profeti di sventura, preferisco
sostenere che il postantropocentrismo tecnologicamente mediato può fare
proprie le risorse dei codici biogenetici, come quelle delle telecomunicazioni,
delle nuove tecnologiche mediatiche e dell’informazione, al fine di innovare le
scienze umane. La soggettività postumana rimodella l’identità delle pratiche
umaniste, mettendo in rilievo l’eteronomia e la relazionalità multisfaccettata,
anziché l’autonomia e la purezza autoreferenziale delle discipline accademiche.
Il nucleo profondamente antropocentrico delle scienze umane è sostituito da
questa complessa configurazione del sapere dominato dagli studi scientifici e
tecnologici sull’informazione, come ho mostrato nel secondo e nel terzo
capitolo. Lungi dall’essere una crisi terminale, tuttavia, questa sfida apre a nuove
dimensioni globali ed eco-filosofiche. Per quanto mi riguarda, quest’entusiasmo
per il postumano, non esattamente scevro da anticipazioni impazienti, trae
origine dal mio background antiumanista e femminista. Tale entusiasmo genera
un’energica, e nondimeno critica, relazione con l’ambito contemporaneo delle
scienze umane classiche. Può apparire paradossale, per non dire altro, il fatto che
le pensatrici critiche entrate nelle istituzioni accademiche a seguito della
rivoluzione culturale degli anni Settanta, con l’esplicito intento di cambiarle
dall’interno, si riducano oggi a restaurare le medesime discipline e a salvarle dal
declino istituzionale. Come ho fatto notare nel capitolo precedente, le cose non
sono mai chiare e distinte quando si tratta di elaborare una valida posizione
postumana, e il pensiero lineare non è di certo il metodo migliore per
raggiungerla, Sam Whimster analizza questo dilemma con lucidità (2006, 174):

Le scienze umane, le quali consistono nell’encomio e nell’esplicita delucidazione della condizione umana
come non riducibile a una base materiale, hanno cominciato a decadere dal tardo ottocento con l’emergere
del darwinismo come valida dottrina scientifica sull’origine delle specie viventi. Pertanto una scienza
dell’umano deve poter dimostrare di essere capace di pensare il non umano o, in alternativa, di restare
umanista ma carente sul piano scientifico.

Whimster ci ricorda inoltre che la filosofia francese ha affrontato il problema
delle scienze umane postantropocentriche e dello statuto dell’umano già nel
lavoro sorprendentemente originale del 1748 del filosofo Julien La Mettrie
(1996). Era un materialista umanista appartenente alla grande tradizione del
materialismo illuminista francese, e rappresenta uno dei precursori più moderni
degli antichi archivi delle scienze umane. La teoria di La Mettrie sulla struttura
dell’umano, intesa come intrinsecamente meccanica e capace di
autorganizzazione, costituisce un percorso di rottura molto importante per la
nostra attuale situazione.
Oggi nuovi fronti di discorsi transdiciplinari, ambientali, evoluzionisti,
cognitivi, biogenetici e digitali sorgono ai margini e attraverso le discipline
umaniste classiche. Traggono origine dalle premesse postantropocentriche e
dall’enfasi tecnologicamente mediata sulla vita come sistema zoe-centrato di
egalitarismo transpecie (Braidotti 2008a), e sono molto promettenti per le nuove
ricerche nel campo. Probabilmente l’esempio più significativo dell’ottima salute
di cui godono le scienze umane postantropocentriche è la recente esplosione di
ricerche negli ambiti degli animal studies e dell’ecocriticismo. La rapida
evoluzione del campo dei disability studies è anch’essa emblematica della
condizione postumana. Sempre memori del fatto che non sappiamo ancora di
cosa sia capace un corpo, i disability studies combinano la critica ai modelli
fisici normalizzati con la proposta di nuovi e creativi modelli d’incarnazione
(Braidotti e Groets 2012). Questi ambiti sono così ricchi e crescono così
rapidamente che è impossibile tentare di riassumerli25 qui. In che punto questi
filoni si separano dalla cultura delle scienze umane? O piuttosto: in che cosa il
concetto di umano riguarda questo mutevole orizzonte? E quali sono le
conseguenze per il futuro delle scienze umane? Una pensatrice neovitalista
contemporanea come Elisabeth Grosz spinge questa linea di ricerca ancora più
avanti, attraverso un’interpretazione decostruttivista di Charles Darwin. Grosz
(2011) sostiene che la teoria evoluzionista ridimensiona le pretese umaniste ed è
anticipatrice della crisi dell’eccezionalismo umano, che al giorno d’oggi è
diventata evidente. Grosz esorta quindi allo sviluppo delle scienze umane
inumane, sintetizzabile nell’uguaglianza delle specie, in un’attenzione
particolare per la differenza sessuale come regola iscritta nel codice genetico, per
il primato della selezione sessuata e per l’approccio non teleologico
all’evoluzione della specie umana accanto a tutte le altre. Nonostante ritenga
l’enfasi di Grosz per le fondamenta genetiche della differenza sessuale troppo
rigida per la mia visione fluida e nomadica della soggettività, concordo con lei
su un punto significativo. Quando viene in primo piano la nozione vitalista della
materia capace di autorganizzazione, le scienze umane devono cambiare e
diventare postumane, o in alternativa devono accettare la loro crescente e dolente
irrilevanza.
Come se queste sfide postantropocentriche non fossero già abbastanza,
ultima ma non meno importante è la ricaduta degli aspetti inumani e disumani
della nostra condizione storica che ho discusso nel terzo capitolo. Secondo i
principi dell’umanesimo classico, le scienze umane erano caratterizzate dalla
capacità di umanizzare in nostri comportamenti sociali, i nostri valori e la nostra
interazione civica. Ciò porta con sé una missione morale implicita e un interesse
per il benessere delle accademie, degli studenti e dei cittadini. Cosa ne è di
quest’affermazione in un’era di cambiamenti postumani e postantropocentrici, di
migrazioni di massa, guerre al terrore, armi robotizzate, droni e conflitti
tecnologicamente mediati?
Un’evidente risposta istituzionale alle strutture inumane dei nostri giorni è la
nascita e la proliferazione di aree di studio interdisciplinari che si occupano dei
disastri della storia moderna e contemporanea. Gli studi femministi, di genere e
postcoloniali, che hanno dato molto in termini di strumenti e concetti innovativi,
sono i prototipi di questi nuovi ambiti in via di sperimentazione. Nello specifico
si sono dovuti istituire nuovi ambiti di ricerca multidisciplinare per comprendere
a pieno gli orrori dei nostri tempi: dagli studi sull’Olocausto alle ricerche sulla
schiavitù e il colonialismo, grazie al lavoro sui ricordi traumatici dei genocidi
causati dalle più disparate ideologie. Il concetto di differend di Llyotard (1985) -
un crimine o un errore morale, per il quale non ci può essere alcuna adeguata
forma di giustizia, tantomeno retribuzione o compensazione - è importante per
confrontarci con la vasta portata delle catastrofi della nostra era. Il concetto di
differend rappresenta la risposta etica alla tragedia dell’intollerabile e
dell’inconciliabile, ma, dal momento che di molte tragedie non è possibile
parlare, quanto possono approfondire davvero le scienze umane? Ancora, le
epistemologie radicali rappresentate da un lato dagli studi delle donne, di genere,
queer e femministi, dall’altro dagli studi postcoloniali e razziali hanno giocato
un ruolo innovativo a questo proposito. Esse hanno proposto temi e metodi per
analizzare l’esplosione epistemica di tali orrori e per confrontarsi con le loro
conseguenze sul ruolo della teoria critica. Adempiendo anche alla funzione
compensatoria di cura del dolore e della sofferenza che tali orrori recavano con
sé.
La proliferazione di nuovi ambiti discorsivi continua dopo la Guerra fredda,
con la nascita dei centri studi sui conflitti e sulla pace, sulla gestione degli aiuti
umanitari, sulla medicina orientata ai diritti umani, sul trauma e la
riconciliazione, con i death studies. E la lista continua a crescere. Si tratta di
strutture istituzionali che combinano una «cura pastorale» con finalità
terapeutiche per affrontare i lati disumani e dolorosi degli orrori della storia.
Esse recuperano e aggiornano l’impatto trasformativo delle scienze umane in un
contesto inumano, varcando gli stessi confini delle classiche discipline umaniste.
Come risultato di questi molteplici effetti domino, la domanda su cosa
accade alle scienze umane, quando le loro implicite convinzioni circa l’umano e
il processo di umanizzazione non possono più essere date per scontate, occupa
un posto di rilievo nell’agenda accademica e sociale. Accanto alle critiche dei
pensatori postumani, svariati filoni di neoumanesimo lavorano all’interno delle
attuali scienze umane, come abbiamo visto nel precedente capitolo.
Considerando ad esempio il caso delle teorie femministe e della razza come
principale punto di riferimento, la viva eredità dell’umanesimo socialista di
Simone de Beauvoir gioca un ruolo centrale nel pilotare gradualmente
l’umanesimo verso il terzo millennio. Altre femministe umaniste hanno inoltre
proposto valide alternative alla crisi dei valori - come il modello neokantiano di
Sheila Benhabib (2002), ripreso dalla filosofia di Habermas e arricchito dalla sua
reinterpretazione di Hannah Arendt (2004). Le teorie postcoloniali, come
abbiamo visto nel primo capitolo (Hill Collins 1991; Said 2007) costituiscono
forme residuali di neoumanesimo, già influenzate da concetti, tradizioni culturali
e valori non occidentali. Gli attuali science studies si rivolgono all’umanesimo
compensatorio sia per lo studio delle altre specie (de Wall 1996, 2006, 2009) sia
per l’analisi politica delle problematiche ambientali (Shiva 1999).
La sostenitrice più strenua della visione liberale umanista delle attuali
scienze umane è Marta Nussbaum, la quale, come abbiamo visto nel primo
capitolo, rifiuta fermamente ogni critica o decostruzione di tale campo,
trasformando l’umanesimo classico in un progetto ancora da realizzare (2006,
2007, 2013). L’appassionata e disinteressata difesa della Nussbaum
dell’umanesimo classico, si distingue in questo contesto come un nobile appello
ma anche poco realistico per lo status quo ante. L’immagine della facoltà delle
scienze umane come un paradiso dell’educazione liberale, fondata sulla nozione
kantiana di autonomia del giudizio razionale e sugli specifici criteri estetici ed
etici che lo accompagnano, è quantomeno obsoleta. Inoltre poiché tale struttura è
finanziata da privati, essa non può neppure essere applicata al modello di
educazione pubblica dell’Unione Europea. A livello pratico, quest’analisi non
riesce a comprendere fino a che punto le facoltà delle scienze umane sono in
realtà orientate al profitto e in che misura esse facciano guadagnare molto alle
loro università, soprattutto grazie all’elevato numero di studenti che si iscrivono
a esse e grazie all’insegnamento intensivo.
Inoltre, l’università ha smesso di modellarsi a questa visione filosofica, in
primo luogo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo, dopo la Guerra
fredda. Le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, per i conflitti geopolitici e
l’interesse per il prestigio internazionale hanno ricondotto le università sotto il
controllo governamentale in stretta relazione al settore militare, come abbiamo
capito nel terzo capitolo. Dopo gli sconvolgimenti culturali degli anni Sessanta,
l’università ha perso la sua funzione egemonica sia come punto di riferimento
della cultura nazionale sia come proprietaria del monopolio sulla ricerca
fondamentale, che si è spostata invece verso il settore privato e le imprese a
partecipazione mista. Mentre la Nussbaum scriveva il suo pamphlet a favore
dell’educazione liberale, le università erano già state annesse all’economia di
mercato in qualità di importante, benché non unica, struttura aziendale (Readings
1996).
Dunque, invece di tornare all’obsoleta e nostalgica interpretazione delle
scienze umane intese come custodi ed esecutrici testamentarie della ragione
trascendentale e dell’intrinseco bene morale, propongo di spingerci verso i
molteplici futuri postumani. Ci occorre un vero sforzo per reinventare l’ambito
accademico delle scienze umane nel nuovo contesto globale e per elaborare un
quadro etico all’altezza dei nostri tempi postumani. La positività, non la
nostalgia, è la strada da percorrere: non l’idealizzazione di metadiscorsi
filosofici, ma il più pragmatico compito dell’autometamorfosi attraverso umili
esperimenti.
Lasciate che vi spieghi questo progetto nel prossimo paragrafo.
Modelli istituzionali di dissonanza


Le crisi dell’autodefinizione e dell’immagine pubblica delle scienze umane
si sono articolate a partire dalla fine degli anni Settanta all’interno di un dibattito
istituzionale caratterizzato da espliciti fattori politici. Un recente studio
americano analizza con lucidità questa situazione:

In aggiunta al declino dei fondi federali, al mercato del lavoro in calo, alle nuove pressioni della
globalizzazione, la sfida più significativa per le scienze umane è rappresentata dall’egemonia delle tecno-
scienze, dall’impatto della rivoluzione dei nuovi media, dall’ascesa della cultura degli esperti da un lato,
dalla proliferazione democratica senza precedenti di nuovi ambiti interdisciplinari dall’altro, come gli studi
di genere, etnici, sulla disabilità, afro-americani, così come gli studi di culture non europee, che tutti
insieme mettono in discussione il canone tradizionale e la comune missione delle scienze umane (Bono et
al. 2008, 2).

La crisi istituzionale si estende quindi oltre le questioni
dell’autorappresentazione, per problematizzare il paradigma dominante circa la
costituzione del sapere scientifico degli umanisti contemporanei, all’interno di
una struttura universitaria che è, a dir poco, immersa nel flusso.
Lungo i conflittuali anni Novanta, la guerra delle teorie, detta anche guerra
delle scienze o delle due culture, si diffuse nei campus americani (Arthur e
Shapiro 1995). Il fulcro della disputa consisteva proprio nella questione delle
differenze di paradigma tra le scienze umane e le scienze naturali. La filosofia
continentale francese, e soprattutto il poststrutturalismo, sono stati presi di mira
con particolare ostilità, con l’accusa generale di «correttezza politica» (Bérubé e
Nelson 1995). Scienziati che militavano contro i poststrutturalisti, come Socal e
Bricmont (1998), hanno accusato le scienze umane di inadeguatezza scientifica e
di assoluta ignoranza, con effetti disastrosi per la morale del campo di studi.
Hanno incoraggiato la reazione di rigetto, oggi familiare, delle scienze umane
attraverso l’accusa, banale dal punto di vista concettuale, di relativismo morale e
cognitivo. Si tratta sicuramente del punto più basso della relazione
contemporanea tra le due culture.
Nuovamente, contro queste volgari semplificazioni, io continuo a sostenere
quanto sia importante riconoscere il contributo proficuo che poststrutturalismo e
altre teorie critiche hanno apportato al rinnovamento del campo delle scienze
umane. Negli anni Settanta, Foucault aveva mostrato che le scienze umane,
come le abbiamo conosciute, sono articolate intorno all’implicita serie di
convinzioni umaniste sull’Uomo, il quale, nonostante le loro pretese
universaliste, è storicamente definito e contestualmente influenzato. Come
doppio empirico-trascendentale l’Uomo è determinato dalle strutture della vita,
del lavoro e del linguaggio, in costante work in progress. Questo non costituisce
il manifesto del relativismo, piuttosto, come Rabinow (2008, 127) afferma, è un
invito a una rinnovata problematizzazione dell’anthropos.
Le condizioni in mutamento della nostra storicità sono responsabili del
declino dell’Uomo umanista. Incolpare il poststrutturalismo di aver diffuso la
cattiva notizia significa confondere messaggero e messaggio. Nei termini ironici
di Foucault (1967) questa morte non rappresenta una sorta di estinzione, bensì
un contingente modello storico di sopravvivenza dell’ex-Uomo, in seguito
all’esodo antropologico esaminato nel secondo capitolo. Con le sua consueta
intuizione e la sua arguzia, Gayatri Spivak (1987), identifica questa morte con
l’indebolito, ma nondimeno egemonico, modus vivendi dell’ex-Uomo
eurocentrico. Il fatto che, da allora, la teoria critica sia venuta a patti con le
infinite forme della morte, che vanno dalla morte dell’Uomo a quella
dell’universale, dello Stato nazione, dalla fine della storia e dell’ideologia fino
alla scomparsa del libro stampato, attesta la sagacia dell’osservazione della
Spivak.
Ciò che è emerso come potenziale difetto fatale nel nucleo delle scienze
umane è il loro antropomorfismo strutturale e il loro profondo nazionalismo
metodologico (Beck 2007), come sottolineava il mio collega scienziato ostile
alle scienze umane, che ho descritto nella quarta vignetta dell’introduzione.
L’antropomorfismo strutturale si traduce in una sostenuta ostilità verso - o una
sincera incompatibilità con - la cultura, la pratica e l’esistenza istituzionale della
scienza e della tecnologia. Il nazionalismo metodologico mina la capacità delle
scienze umane di confrontarsi con due dei tratti distintivi dei nostri giorni: in
primo luogo l’ascesa scientifica delle discipline della vita e della comunicazione
e del sapere tecnologicamente mediati; in secondo luogo, la necessità di prendere
in considerazione la diversità culturale, soprattutto tra aree geopolitiche
differenti ma anche all’interno di ciascuna di esse.
Questa critica pone seri problemi, soprattutto in considerazione del contesto
politico. L’Unione Europea, allo stato attuale, è dominata da un lato da un
programma di economia neoliberale di destra, dall’altro da un programma
sociale xenofobico e populista. L’università come istituzione, e soprattutto le
scienze umane, si trovano di conseguenza sotto attacco. Le accuse si
accumulano: sarebbero poco produttive, narcisiste ed obsolete nel loro approccio
e inoltre sarebbero incapaci di stabilire punti di contatto con la scienza e la
tecnologia attuali. Le scienze umane, dunque, stanno sperimentando di persona
la crisi dell’Uomo che è stata teorizzata da filosofie molto radicali quali il
poststrutturalismo e gli studi interdisciplinari femministi e postcoloniali, che
pure sono stati marginalizzati nel contesto istituzionale universitario. E sono
spesso costrette ad assumere una posizione difensiva.
Il problema del nazionalismo metodologico è cruciale dal momento che si
articola proprio grazie all’autorappresentazione delle scienze umane europee.
Edward Said ci ha ricordato che l’umanesimo deve abbandonare il proprio
compiaciuto eurocentrismo per sperimentare nuove e differenti tradizioni
culturali. Questo cambiamento di prospettiva richiede prima di tutto una presa di
coscienza da parte degli studiosi delle scienze umane: «Gli studiosi devono
riconoscere con una certa preoccupazione che la politica identitaria e un sistema
educativo radicato nel nazionalismo sono ancora alla base del lavoro di molti di
noi, nonostante i cambiamenti che hanno investito i confini disciplinari e i temi
della ricerca universitaria» (Said, 2007, 81-82). Vedremo in seguito sia come la
mutata struttura istituzionale dell’università contemporanea poggi sul declino
dello Stato nazione come orizzonte per la ricerca, sia come possieda il potenziale
per contribuire alla prospettiva postnazionalista.
Per tornare alla tesi principale della mia argomentazione: condivido
pienamente l’invito a una metamorfosi epistemologica nelle scienze umane, in
modo da renderle capaci di dispiegare i loro processi di produzione di sapere e,
conseguentemente, di divenire maggiormente adatte a spiegare i processi delle
altre discipline. Vi sono, tuttavia, alcuni seri ostacoli per la degna realizzazione
di tale progetto. Il primo è l’assenza di una tradizione di epistemologia
autoriflessiva nelle scienze umane. Connessa a quest’assenza, vi è la persistenza
deplorevole di una cultura introversa d’insularità disciplinare, si pensi
all’eurocentrismo e all’antropocentrismo. Queste abitudini istituzionali delle
scienze umane sono davvero poco propense all’autocritica epistemologica.
Questo campo disciplinare tende a non saper resistere all’attrazione fatale della
forza gravitazionale dell’umanesimo. Soltanto un deciso cambiamento di
direzione può dunque aiutare le scienze umane a liberarsi da alcune delle loro
radicate cattive abitudini. Cosa che richiede una serie di nuove prospettive, ma,
al di là di questi criteri formali, credo che le scienze umane debbano trovare
l’ispirazione e il coraggio per superare l’esclusivo interesse per l’umano, sia esso
l’Uomo umanista o l’uomo antropocentrico, per dedicarsi alle sfide intellettuali
che coinvolgono l’intero pianeta.
Le scienze umane nel XXI secolo


Nel paragrafo precedente ho sostenuto che la crisi d’identità delle scienze
umane contemporanee è dovuta agli alti livelli di mediazione tecnologica e alla
struttura multiculturale del mondo globalizzato. Ciò pone il problema della
relazione tra le due culture al centro del dibattito.
In una valutazione critica della situazione contemporanea Roberts e
Mackenzie (2006) si dicono a favore della varietà delle solide e costruttive
alternative istituzionali rispetto all’irrisolta e conflittuale relazione tra le scienze
umane e quelle scientifiche del terzo millennio. Una strategia utile mira a
identificare i punti di compatibilità tra le due culture ed evidenzia il ruolo
giocato dalla rappresentazione culturale, dalle immagini e dagli strumenti
letterari - tutti provenienti dalle scienze «sottili» (un’espressione che trovo di
gran lunga preferibile a quella dispregiativa di scienze soft) - nel processo di
creazione di una scienza apprezzata dal pubblico. Ad esempio, lo studio di
Gillian Beer (1983) sulle narrative evoluzioniste è stato foriero di novità a questo
proposito, venendo brillantemente ripreso dagli studi letterari sul darwinismo
(Caroli 2004). Muovendosi all’interno della cultura scientifica, Evelyn Fox
Keller (1996, 2002) è una pioniera di un genere diverso, che ha scritto una serie
di testi-chiave per mostrare la natura complementare del sapere umanista e della
cultura scientifica empirista. Lo studio dell’opera e della vita di Barbara
McClintocks (Keller, 1983) è importante soprattutto perché dimostra la
continuità tra prospettive culturali, risorse spirituali e scienza sperimentale.
Un’altra angolazione da cui accostarsi alla problematica delle due culture
consiste oggi nel concentrarsi sulla funzione della visualizzazione nella scienza.
Stephen Jay Gould e Rosamond Purcell (2000) hanno inaugurato il dialogo tra
l’arte e la scienza grazie alla sofisticata interazione tra immagini e informazione
scientifica. Questa tradizione è stata innovata brillantemente dal lavoro di
collaborazione tra Carrie Jones e Peter Galison sulle arti e sulla scienza
figurativa (1998). Il campo è vasto e gremito di talenti che spaziano dall’analisi
politica dello sguardo scientifico (Keller, 1985; Jordanova, 1989; Braidotti,
1994) fino alla storia culturale della fotografia e dei nuovi media (Lury, 1998;
Zylinska, 2009, Parikka 2010). Gli studi trasversali sulle arti visive in relazione
alle scienze fisiche e biologiche sono inoltre cruciali, come Barbara Staffort ha
mostrato con acume (1999, 2007).
L’antropologia ha svolto il ruolo di ispiratrice dello studio della scienza,
partendo da pionieri dell’impostazione del programma quali Marylin Stathern
(1992) fino alla lettura foucaultiana di Paul Rabinow delle scienze della vita
(2008) e alla commistione di elementi politici ed epistemici nell’analisi delle
biotecnologie di Rayna Rapp. Le analisi sulla soggettivazione di Henrietta
Moore si muovono lungo i decenni del postrutturalismo e rappresentano la
principale interpretazione dell’attuale e complicato intreccio di corpi, orizzonti
psichici, culture e tecnologie (1994, 2007, 2011).
L’epistemologia femminista e gli studi sociali delle scienze ritengono che la
teoria femminista costituisca il nesso indispensabile tra gli studi scientifici e
l’epistemologia politica della soggettività, con intellettuali anticipatrici come
Donna Haraway (1988), Sandra Harding (1991, 1993), Isabelle Stengers (1987,
2000), Lisa Cartwringht (2001), Mette Bryld e Nina Lykke (1999) e Annemarie
Mol (2002). Gli studi sociali sulla scienza si sono, inoltre, dimostrati molto
innovativi, come si evince dall’opera di Fraser et al. (2006), dalle acute analisi
politiche sulla tecnologia di Maureen McNeil (2007) e dall’opera apripista di
Sarah Franklin sulla pecora Dolly (2007). Gli studi culturali sulla scienza sono
stati inoltre significativi, come nel caso della brillante analisi di Jackie Stacey sul
cancro (1997) e sulla vita cinematografica della genetica (2010).
L’ambito degli studi sui media ha prodotto una quantità impressionante di
ricerche di elevata qualità sulla scienza e la tecnologia, come testimoniano
l’opera di Jonathan Crary (2001) e la serie dei Zone Book, che ha reso nota la
filosofia e la teoria francese al pubblico americano. Le analisi di Jose van Dijck
sulla cultura digitale sono altrettanto innovative (2007); Smelik e Lykke (2008)
hanno aperto il campo a svariati interventi originali sulle strutture
interdisciplinari della scienza contemporanea e sui suoi aspetti interrelati
culturali e sociali.
Abbiamo, dunque, l’imbarazzo della scelta di fronte ai nuovi discorsi sulla
relazione corrente tra le scienze e le discipline umaniste, e mi duole molto non
poter fornire qui una più accurata analisi dell’ambito che ho appena abbozzato.
Per il momento, oltre che lodare la portata e la qualità di questi nuovi ambiti
tematici, vorrei trarre alcune conclusioni. In primo luogo, il fatto che una tale
ricchezza di studi interdisciplinari innovativi, interni e trasversali rispetto alle
scienze umane è espressione della vitalità di quest’ ambito, non della sua crisi. In
secondo luogo, il fatto che la quasi totalità di queste nuove ricerche è condotta in
quelle aree di studi interdisciplinari che ho messo in evidenza in questo libro
come fonte principale di ispirazione. In terzo luogo il fatto che esse sono
epistemologicamente fondate e che di conseguenza permettono alle attuali
scienze umane di spiegare i propri metodi e meccanismi di produzione del
sapere. Tuttavia, la natura interdisciplinare di questi nuovi ambiti di ricerca non
agevola il compito di fornire una nuova sintesi del campo. Questa ricchezza di
approcci dunque riapre la vecchia questione dell’identità generica delle scienze
umane come disciplina.
Commentando quest’assenza di unità nella pratica discorsiva delle scienze
umane, Rabinow afferma:

Nessun consenso è stato raggiunto sui principi, sui metodi e sui modi della specificazione del problema,
[…] o sui principi di verifica, o sulle forme di narrazione nelle scienze umane (2008, 16).

È importante sottolineare però che questa disomogeneità si spiega con la
sovrabbondanza, non con la mancanza, di conseguenza: «L’anthropos è
quell’essere che soffre di troppi logoi» (2008, 18).
Questo vale soprattutto per il contesto scientifico contemporaneo e per i
progressi tecnologici che hanno contribuito a discorsi anche più eterogenei.
Quest’eterogeneità ha determinato l’incapacità delle scienze umane di fornire
una teoria generale per la rappresentazione tecnologica. Esse pertanto si
spingono ancora oltre nella disaggregazione dell’anthropos, che si è dimostrato
molto creativo nell’adattarsi a tale esuberanza scientifica. Probabilmente le
scienze umane intrattengono un rapporto differente con la complessità rispetto
alle scienze naturali e della vita.
Lorraine Daston (2004) riconosce la vastità e la qualità di queste nuove
risorse e di questi precursori disciplinari. Sottolinea inoltre l’importanza della
cultura e dell’interpretazione nello sviluppo scientifico. Daston mostra che i
contesti ermeneutici sono non solo parte integrante di tutte le discipline attigue
alle scienze umane - soprattutto le scienze sociali, il diritto e le scienze della vita
- ma svolgono anche un ruolo chiave nella società in generale e sono necessari a
ogni processo decisionale. Daston esorta pertanto gli umanisti a compiere uno
sforzo maggiore per spiegare al mondo esterno come apprendiamo quello che
sappiamo. Sostenendo che lo studio su epistemologia e filosofia della scienza è
incline alle scienze naturali, evoca un’epistemologia del sapere pratico umanista.
Questo si tradurrà nella spiegazione di ciò che rappresenta un’invenzione
scientifica o semplicemente una scoperta per le discipline umanistiche, con
attenzione per il processo e la prassi, al contrario della mera concentrazione sugli
oggetti della conoscenza.
Nonostante sia molto importante e necessaria io credo che la reale natura
della raccolta dei dati nelle scienze umane si scontri con i metodi delle scienze
naturali o della vita, nella misura in cui essa si fonda sull’esperienza vissuta e
tende alla complessità, non alla quantificazione. Nel contesto europeo, inoltre,
altri fattori devono essere presi in considerazione, ad esempio la struttura
plurilingue della ricerca e della riflessione nelle discipline umanistiche. Questo
implica che la ricerca pratica si differenzi non solo in base ai fattori geografici,
ma anche in base alle diverse collocazioni temporali in Europa e oltre. È giusto
richiedere a questo campo ricco e internamente differenziato di conformarsi a un
paradigma di ricerca diversa?
Mentre gli inviti delle discipline umaniste a sviluppare competenze
biologiche e cibernetiche acquistano forza, la resistenza rimane notevole, sia
all’interno delle medesime che della più larga comunità scientifica. Nel
frattempo i vecchi indici per le citazioni stanno vengono rapidamente sostituiti
dalle ricerche su Google, e i continui tentativi di elaborare un sistema metrico
adatto alla cultura della ricerca delle discipline umaniste sono più urgenti, ma
anche più problematici, di sempre. Sotto i nostri occhi si sta sviluppando una
nuova relazione tra scienze e lettere, ma c’è da chiedersi se le discipline
umaniste - che molto hanno da offrire - siano titolate a emanare le regole di
questo nuovo esperimento istituzionale, o se siano semplicemente chiamate ad
attenersi a norme che non sono state elaborate secondo i loro stessi parametri.
Gli anelli mancanti di questo dialogo sono molteplici e si scontrano sulla
vera definizione del postumano. Se noi postantropocentrici postumanisti
(soggetti non unitari né statici) vogliamo trovare una cassa di risonanza in
entrambe le comunità scientifiche, ci occorre insistere sulla cultura del rispetto
reciproco. Gli studi culturali e sociali della scienza devono affrontare la loro
resistenza alle teorie del soggetto, mentre le filosofie del soggetto, d’altra parte,
dovrebbero essere invitate a rivedere la loro sfiducia e il loro disconoscimento
delle bioscienze. I tempi postumani richiedono discipline umaniste postumane.
La questione dello statuto della teoria è sottintesa in questa discussione. In
risposta al dibattito in corso sulle due culture, Peter Galison (2004) si compiace
della fine degli ingombranti e sistematici discorsi teoretici e, ricorrendo alla tesi
di Lyotard sul declino delle narrazioni egemoniche, invita alla teoria parziale.
Quest’espressione indica una posizione intermedia tra le pretese universaliste di
trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo, da un lato, e lo stretto empirismo,
dall’altro. Una teoria parziale è radicata, responsabile ma anche condivisibile e
pertanto aperta a svariate applicazioni. Quest’approccio offre vantaggi sia
epistemici che etici che possono essere impiegati immediatamente per un buon
uso. Io credo, ad esempio, che una delle strategie più efficaci sviluppata dagli
studiosi contemporanei delle discipline umaniste sia quella del produrre teoria
realmente tramite e grazie alla scienza stessa. Una scelta metodologica e
strategica è basata sull’intuizione poststrutturalista sul parallelismo tra discorsi e
pratiche testuali. L’egalitarismo testuale introdotto dalla svolta linguistica e
semiotica degli anni Settanta - che da allora ha allarmato e infastidito gli studiosi
conservatori - ha aperto la strada a nuovi dialoghi tra le scienze sottili e quelle
esatte. È stata dunque perfezionata una nuova teoria della scienza, alla quale mi
sono riferita con la definizione di realismo della materia (capitolo secondo). I
realisti della materia combinano l’eredità dell’antiumanismo poststrutturalista
con il rifiuto dell’opposizione classica materialismo/idealismo per guardare alla
vita come a un sistema complesso, non in modo essenzialista bensì vitalista. Io
ritengo che le scienze umane debbano adattarsi alla struttura mutevole del
materialismo stesso, soprattutto per il fatto che si basa su un nuovo concetto di
materia, capace di affetti, autopoiesi e autogestione.
La teoria di Karen Barad (2003, 2007) sull’agential realism è l’esempio
eminente di questa tendenza. Grazie alla scelta di superare il binarismo tra
materiale e culturale, la teoria dell’agential realism si concentra sulla loro
interazione. Questo si traduce nella valorizzazione di un’etica del sapere che
riflette e rispetta la complessità, rinnovando la pratica della riflessione critica.
Luciana Parisi (2004) ha apportato altri contributi innovativi alla teoria della
complessità, a partire dall’opera di Félix Guattari. Sottolinea il fatto che il
contributo più proficuo del monismo vitalista consiste nella definizione del
binomio natura-cultura come continuum che evolve tramite l’ecologia della
differenziazione. I codici non semiotici (il DNA di tutta la materia genetica)
interagiscono con assemblaggi complessi di affetti, pratiche corporee e altre
performance che comprendono l’ambito linguistico ma che non si riducono a
esso. Parisi rinsalda questa tesi con un riferimento trasversale alla nuova
epistemologia di Margulis e Sangan (1995), attraverso il concetto di
embiosimbiosi che, come l’autopoiesi, indica una sorta di evoluzione creativa.
Questo implica che il materiale genetico è esposto ai processi di divenire liberi
da ogni fondazione ontologica della differenza, ma non che esso non è limitato al
costruttivismo sociale.
Nella ricerca delle discipline umaniste realiste della materia, il primato è dato
alla relazione sui termini, la quale pone in primo piano le connessioni trasversali
tra materiale e simbolico, entità o forze concrete e discorsive, inclusa la vita non
umana. Questo è ciò che io chiamo zoe (Braidotti 2008a, capitoli 203), che ci
permette di trattare la scienza come oggetto di studi umanistici e viceversa, di
trascendere entrambi i campi nella ridefinizione trasversale di cosa costituisca il
soggetto della pratica scientifica postumana.
Il contributo teoretico dell’approccio vitalista e monista del materialismo è
costituito dalla capacità di spiegare i meccanismi fluidi del potere nel
capitalismo avanzato o cognitivo, conosciuto anche come società
dell’informazione e della rete, riconducendoli a collocazioni specifiche e
relazioni immanenti. Questo ci permette di resistere ai meccanismi di potere con
i loro stessi mezzi. Gli intellettuali postumani affrontano in modo creativo la
sfida rappresentata dalla nostra storicità senza cadere nel panico cognitivo.
L’argomento è tutto d’un pezzo: se il corretto studio del genere umano aveva
come oggetto classico l’Uomo, e se il modello giusto di umanità era l’umano, si
potrebbe concludere che l’oggetto di studio della condizione postumana sia il
postumano in sé. Questo nuovo soggetto del sapere è un assemblaggio
complesso di umano e non umano, planetario e cosmico, naturale e manufatto,
che comporta imponenti cambiamenti del nostro modo di pensare. Questo non è
astratto come potrebbe sembrare a una prima lettura. Vorrei darvene degli
esempi concreti.
Il primo esempio è costituito dalla rapida crescita del campo delle scienze
umane ambientaliste, ispirato dal riconoscimento che l’attività umana esercita
un’influenza geologica. Conosciuto anche come «scienze umane sostenibili»
(Braidotti, 2006) e «scienze umane dell’antropocene»27, questo ambito
interdisciplinare di studi apporta imponenti innovazioni metodologiche e
teoretiche. In primo luogo, rende conto della fine dell’idea di un ordine sociale
denaturalizzato, separato dall’ambiente e dalle fondamenta organiche, e invita a
più complesse griglie interpretative della multipla interdipendenza in cui tutti
viviamo. In secondo luogo, evidenzia il contributo specifico delle discipline
umaniste al dibattito pubblico sul cambiamento climatico, grazie all’analisi dei
fattori sociali e culturali che sottendono la rappresentazione pubblica di queste
problematiche. Sia la portata che le conseguenze del cambiamento climatico
sono così epocali da resistere a ogni rappresentazione. Le discipline umaniste e,
soprattutto, la ricerca culturale sono più adatte a riempire i vuoti
dell’immaginario sociale, ad aiutarci a pensare l’impensabile.
L’impatto delle scienze umane ambientaliste si sta ulteriormente facendo
sentire. Nella sua analisi sulle conseguenze della ricerca sul cambiamento
climatico per la disciplina storica, Dipesh Chakrabarty (2009) sostiene la
necessità di una svolta più concettuale verso la Storia profonda. Essa rappresenta
una combinazione interdisciplinare di storia geologica e socio-economica che si
concentra sia sui fattori planetari e terrestri che sui cambiamenti culturali che
congiuntamente hanno plasmato l’umanità per centinaia di migliaia di anni.
Affianca le teorie storiche della soggettività al pensiero delle specie. Questo
appare, ai miei occhi, come una configurazione postantropocentrica del sapere
che garantisce alla terra lo stesso ruolo e la stessa potenza di agire del soggetto
umano che la abita. Come ho mostrato nel secondo capitolo, comporta dei
cambiamenti nella nostra comprensione della temporalità della storia, dal
momento che stiamo riflettendo sulle possibilità di estinzione della specie umana
e delle altre, e dunque sulla fine del tempo storico e umano registrato, sulla fine
del futuro. Il tramonto della divisione tra storia umana e naturale è un fenomeno
molto recente: prima di questa svolta fondamentale, il tempo cronologico degli
umani e quello geologico non erano correlati, almeno non all’interno della
disciplina della storia. Infatti, le ricerche storiche e quelle sul cambiamento
climatico hanno a lungo intrattenuto discussioni parallele prive di scambi
interdisciplinari. Tutto ciò sta mutando sotto i nostri occhi.
La portata di questi cambiamenti concettuali è tale da impedirne spesso la
rappresentazione, come ho indicato prima. Chakrabarty suggerisce ulteriori
riflessioni sulla «differenza tra l’odierna storiografia della globalizzazione e la
storiografia richiesta dalle teorie antropogeniche del cambiamento climatico»
(2009, 216). Ciò ci spinge a tenere insieme categorie di pensiero che finora
venivano separate non solo dai confini delle discipline - tra le scienze della terra
e la letteratura e la storia, ad esempio - ma anche dal vizio antropocentrico che
ha sostenuto le scienze umane. Lungi dal costituire motivo di crisi, questo nuovo
sviluppo ha un’ingente forza ispiratrice per questo campo. Ed esso chiama in
causa alcune delle attuali idee sulla costituzione negativa di un nuovo senso
dell’umano, tenuto insieme dalla vulnerabilità comune in rapporto alle
possibilità di estinzione. L’intuizione di Chakrabarty sul cambiamento climatico
critico, analizzato alla luce del concetto di Storia profonda, ci spinge anche a
sfidare alcune delle ipotesi indicate dalle critiche postcoloniali dell’universale
occidentale. Un bel programma.
Un altro esempio illuminante dei contributi della posizione scientifica
postumana è rappresentato dalla One Health Initiative, la quale definisce il
proprio scopo nei confronti della salute pubblica come segue28:

Ammettendo che la salute umana (incluse la salute mentale attraverso i fenomeni di legame umano-
animale), la salute animale, la salute dell’ecosistema siano inestricabilmente connesse, One Health cerca di
promuovere, migliorare e difendere la salute e il benessere di tutte le specie, intensificando la cooperazione
e la collaborazione tra medici, veterinari, altri professionisti scientifici della natura e dell’ambiente,
aumentando la forza della leadership e dell’organizzazione per raggiungere questi obiettivi.

Il movimento si ispira a Rudolf Virchow (1821-1902), che ha coniato il
termine zoonosis, per affermare che non vi dovrebbe essere alcuna linea
divisoria tra la medicina umana e animale. La One Health Initiative è una
coraggiosa alleanza interdisciplinare che unisce medici, osteopati, veterinari,
dentisti, infermieri, e altri operatori scientifici dell’ambiente e della salute delle
discipline attigue, sulla base di un’ipotesi semplice: l’isomorfismo delle strutture
umane e animali per l’immunologia, per la batteriologia e per gli sviluppi dei
vaccini.
Questo significa che gli umani sono vulnerabili ed esposti a nuove malattie,
come l’influenza aviaria e altre epidemie, che condividono con le specie animali.
Ovviamente in risposta alle nuove pandemie emerse nell’era globale, come
l’encefalopatia spongiforme bovina (Bse), meglio conosciuta come sindrome
della mucca pazza, la One Health Initiative sottolinea la varietà delle comuni
malattie che colpiscono uomini e animali. Ad esempio, gli animali sono afflitti
da svariate malattie croniche, quali malattie cardiache, cancro, diabete, asma e
artrite, come gli umani. Ne deriva, pertanto, che dovremmo elaborare una
medicina comparativa come studio, trasversale alle specie, dei processi delle
malattie e che dovremmo mettere in relazione medici e veterinari nelle loro
pratiche quotidiane, sia quelle terapeutiche che quelle di ricerca. Molto radicata
all’ambiente la One Health Initiative persegue la sostenibilità sia ecologica che
sociale e ha svariate e notevoli ripercussioni nella società.
Le preoccupazioni comuni circa la salute pubblica tra umani e animali
aumentano proporzionalmente all’urbanizzazione, alla globalizzazione, al
cambiamento climatico, alle guerre e al terrorismo, all’inquinamento
microbiologico e chimico della terra e dell’acqua, che hanno generato nuove
minacce per la salute sia degli animali che degli umani. I medici e i veterinari
devono unire le loro forze con gli scienziati e gli operatori della salute
ambientale per affrontare l’epidemia delle malattie, per prevenire le malattie
croniche provenienti dall’esposizione ad agenti chimici, per creare ambienti di
vita più salutari. Quello di One Health è un’idea perfettamente
postantropocentrica, in quanto tiene insieme gli operatori della salute e della cura
umane con i veterinari e i medici per il bene dell’ambiente, della sostenibilità
sociale e individuale.
Un altro significativo esempio è il campo in rapida espansione
dell’informatica umanista - anticipato da Kathrine Hayles - che tratta una vasta
gamma di temi e problematiche metodologiche. Una di esse è rappresentata dalla
rilevanza che ancora rivestono le scienze testuali e il ruolo della stampa - da
Gutenberg alle stampanti 3D - nel plasmare il sapere umano. Così come le
scienze umane hanno presieduto a queste discussioni nel XVI secolo, quando il
torchio da stampa fu introdotto nel mondo occidentale, esse occupano oggi la
prima linea delle frontiere contemporanee del pensiero. E non sono sole.
Le scienze umane postumane possono creare e sviluppare una nuova serie di
narrative sulla dimensione planetaria dell’umanità globalizzata; l’origine
evoluzionista della moralità; il nostro futuro e quello delle altre specie; il sistema
semiotico dell’apparato tecnologico; i processi di transazione che sostengono le
scienze umane digitali; il ruolo del genere e dell’etnicità come fattori che
indicano l’accesso alla condizione postumana; le conseguenze istituzionali di
tutto ciò. Si tratta di un programma innovativo e non scontato, costruito a partire
dalla critica dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, ma non limitato a essi, di
un nuovo e genuino programma per le discipline umaniste del XXI secolo.
A livello sperimentale, sono stati istituiti, dalle più importanti università,
svariati nuovi studi interdisciplinari e diverse piattaforme di ricerca e sono in
corso esperimenti apripista nello stesso momento in cui questo libro è dato alle
stampe29. Come conseguenza di quest’ imbarazzante ricchezza di teorie e di
ricerche, la domanda che adesso viene posta è: come possono le discipline
umaniste ispirarsi a queste sperimentazioni del pensiero postumano e della
nuova ricerca postantropocentrica? Come possono adattare questo approccio al
loro proprio oggetto di studio?

Le scienze umane si possono ispirare a questi nuovi modelli di pensiero. La
chiave di tutto risiede per me nella metodologia e pertanto voglio precisare i
criteri principali della teoria postumana, come modo per spiegare le nuove regole
del gioco, per tentare d applicarle alle discipline umaniste. Le mie regole d’oro
sono: accuratezza cartografica, con il corollario della responsabilità etica
transdisciplinare; l’importante combinazione di critica e figurazioni creative; il
principio della non linearità; i poteri della memoria e dell’immaginazione e la
strategia della defamiliarizzazione. Tali linee guida metodologiche sono preziose
non solo come punti fermi capaci di edificare la teoria critica postumana, ma
anche per ché possono aiutarci a ridefinire la relazione tra discipline umaniste e
scienze sulla base di un rispetto reciproco.
Vorrei cominciare dall’accuratezza cartografica. Una cartografia è una lettura
teoreticamente fondata e politicamente radicata del presente. Le cartografie
mirano alla responsabilità epistemica ed etica disvelando le collocazioni del
potere che strutturano la nostra posizione di soggetti. Come tali, esse rendono
conto della collocazioni di ciascuno sia in termini di spazio (dimensione
geopolitica o ecologica) che di tempo (dimensione storica e genealogica). Ciò
evidenzia la struttura situata della teoria critica e comporta la natura parziale e
limitata di tutte le pretese al sapere. Queste qualifiche sono cruciali per sostenere
la critica sia dell’universalismo che dell’individualismo liberale.
Le critiche delle posizioni del potere non sono, tuttavia, sufficienti. Esse
funzionano se accompagnate dalla ricerca di figurazioni alternative o di
personaggi concettuali che esprimono queste posizioni, tanto del potere che
reprime (potestas) che del potere che potenzia e afferma (potentia). Ad esempio
figurazioni come la femminista, il queer, il cyborg, il migrante e il nativo, i
soggetti nomadi, come l’oncotopo e la pecora Dolly non sono metafore, ma
indicatori di specifiche collocazioni geopolitiche e storiche. In quanto tali, queste
figurazioni esprimono singolarità complesse, non pretese universali (Braidotti
2011).
Una figurazione è espressione di rappresentazioni alternative del soggetto come
entità dinamica e non unitaria; essa è la drammatizzazione dei processi di
divenire. Questi processi comportano il fatto che la formazione dei soggetti
abbia luogo negli spazi intermedi tra natura e tecnologia; tra uomo e donna;
bianco e nero; locale e globale; presente e passato - negli spazi mediani che
fluiscono e ricongiungono le opposizioni binarie. Tali spazi intermedi sfidano i
modelli precostituiti di rappresentazione teoretica poiché sono trasversali, non
lineari, immersi nel processo e non predeterminati da alcun concetto. La critica e
la creatività trovano un nuovo accordo nella concretizzazione della pratica dei
personaggi concettuali o delle figurazioni come ricerca attiva di alternative
affermative alla visone dominante del soggetto.
Procedere a zigzag è quindi l’espressione operativa per il prossimo passaggio
nella costituzione della teoria postumana critica, che indica precisamente la non
linearità. Sarebbe controproducente per le scienze umane attenersi alla regola
tradizionale della visualizzazione adottando automaticamente il pensiero lineare,
considerando la complessità della scienza contemporanea e il fatto che
l’economia globale non funziona in maniera lineare, anzi è piuttosto simile a una
rete, diffusa e policentrica. L’eteroglossia dei dati con cui ci confrontiamo
richiede topologie complesse del sapere per un soggetto costituito dalla
relazionalità multidirezionale. Di conseguenza, dovremmo assumere la non
linearità per elaborare cartografie del potere che rendano conto dei paradossi
dell’era postumana.
Questa problematica diventa ancora più complessa in rapporto al tempo. La
linearità è il tempo dominante di Chronos, opposto al tempo più dinamico e
ciclico del divenire di Aion, come abbiamo visto nel secondo capitolo. Il primo è
il custode del tempo e delle pratiche istituzionali - la Royal Science; il secondo è
prerogativa di gruppi marginali - la scienza minore. La Royal Science guidata da
Chronos si oppone al processo di divenire molecolare della scienza, basato su di
una temporalità differente. Il primo è diretto da protocolli; il secondo è spinto
dalla curiosità e definisce l’impresa scientifica in termini di creazione di nuovi
concetti. La teoria nomade propone una critica dei poteri che i sistemi di sapere
dominanti e lineari esercitano sulle scienze umane e sociali. Creatività e critica
viaggiano di pari passo alla ricerca di alternative positive che si fondino su una
visione non lineare della memoria intesa come immaginazione, della creazione
intesa come divenire. Al posto della reverenza verso l’autorità del passato,
troviamo la compresenza transitoria di molteplici zone temporali, in un
continuum che attiva e deterittorializza le identità statiche e infrange la linearità
temporale (Deleuze 2001). Questa visione dinamica del tempo si serve delle
risorse dell’immaginazione al fine di riconnettersi con il passato.
La non linearità influenza inoltre la pratica accademica delle scienze umane -
metodo che sostituisce la linearità con un più rizomatico stile di pensiero, il
quale agevola le connessioni multiple e le linee di interazione che per necessità
collegano il testo alla molteplice realtà esterna. Questo metodo esprime la
convinzione che la verità di un testo non si trovi mai davvero scritta da qualche
parte, figuriamoci all’interno dello spazio significante del libro. E tale verità non
riguarda neppure l’autorevolezza di un nome proprio, di una firma, di una
tradizione, di un canone o del prestigio di una disciplina accademica. La verità di
un testo esige una forma del tutto nuova di responsabilità e di accuratezza che
consiste nella natura trasversale degli affetti che esso mette in circolo, ovvero
delle interconnessioni e delle relazioni con l’esterno che permette e sostiene.
George Eliot ha indicato la strada, scrivendo con le orecchie e la mente protese
verso il frastuono dell’energia che nutre la vita. Virgina Woolf fece lo stesso
rivolgendo il suo sguardo di scrittrice alla perfetta tranquillità della vita intesa
come flusso perenne. La scrittura è un espediente, un modo per trasporre
l’intensità cosmica in porzioni sostenibili di essere.
Questo ha conseguenze rilevanti per il compito del criticismo. Come ci ha
insegnato il poststrutturalismo (Barthes 1975) il metodo della fedeltà al testo e
della citazione non è altro che una piatta ripetizione senza differenza.
Fondamentale è, invece, mettere in primo piano proprio l’abilità creativa, che
consiste nell’essere capaci di richiamare alla memoria e di far durare le cariche
affettive dei testi e degli eventi. A questo fine, non è richiesta alcuna fedeltà alla
spuria profondità del testo, né alla volontà, latente o manifesta, dell’autore,
neppure alla fallocentrica sovranità del significato dominante. Un testo, teoretico
e scientifico o letterario, è un punto di contatto tra momenti differenti nello
spazio e nel tempo, tra livelli diversi, tra gradi, forme e configurazioni dei
processi del pensiero. Un testo è un’entità mobile, velocità assoluta. Il pensiero e
la scrittura, come il respiro, non possono essere costretti nel modello della
linearità o nei confini della carta stampata, ma si spostano verso l’esterno, al di
là delle restrizioni, in una rete di incontri con le idee, gli altri, i testi. Il
significante linguistico è solo uno dei punti nella catena degli effetti, non il suo
centro o la sua fine. L’origine dell’ispirazione intellettuale risiede nel flusso
senza fine delle connessioni tra i testi e i loro molteplici fuori. La creatività si
ricollega costantemente alla totalità virtuale di un blocco composto da esperienze
passate, memorie e affetti, i quali, per la filosofia monista del divenire, si
ricompongono come azione o prassi nel presente. Quest’approccio al pensiero
critico è simile a un esercizio di sincronizzazione, che permette all’azione di
prendere corpo qui e ora, rendendo concreta e presente l’intensità virtuale.
Quest’intensità si trova al contempo dopo e prima di noi, è sia passata che futura,
in un flusso o in un processo di metamorfosi, di differenziazione e di divenire.
Essa costituisce il nucleo materialista del pensiero critico.
Il pensiero nomade esorta all’apertura affettiva verso la dimensione
geopolitica o planetaria della caosmosi (Guattari, 2007). Esso consiste nel
trasformare il soggetto pensante nella soglia di atti gratuiti (principio del no-
profit), senza scopi (principio della mobilità o del flusso) che esprimono
l’energia vitale del divenire trasformativo (principio della non linearità). La
fedeltà, invece, è necessaria per l’intensità delle spinte affettive che compongono
un testo o un concetto, al fine di spiegare che cosa un testo - un concetto o una
teoria - può fare, che effetti ha avuto in passato, che tipi di influenza ha
esercitato sui diversi soggetti. Il tentativo di spiegare l’impatto affettivo dei vari
oggetti e dei dati su un determinato soggetto consiste nel processo di richiamare
alla memoria. In Bergson come in Deleuze, questo processo ha molto a che fare
con l’immaginazione, ovvero con il rimaneggiamento creativo, così come con la
passiva ripetizione di esperienze precedenti dal punto di vista cronologico,
registrate e recuperabili.
Implicito in questo processo è il prossimo criterio-chiave della teoria critica
postumana, ovvero il ruolo della memoria. Considerando che il tempo
postumano è un sistema complesso e non lineare, fratturato internamente e
moltiplicato su diverse sequenze di tempo, l’affetto e la memoria diventano
elementi essenziali. Svincolata dalla linearità cronologica e dalla forza
gravitazionale logocentrica, la memoria, nella modalità nomade postumana, è la
reinvenzione attiva di un soggetto felicemente discontinuo, inteso come opposto
all’essere tristemente autosufficiente. I ricordi hanno bisogno
dell’immaginazione per potenziare la concretizzazione delle possibilità virtuali
nel soggetto, che viene riconfigurato come entità trasversale relazionale che
ospita una memoria vitalista e multidirezionale (Rothberg 2009). La memoria
opera nei termini delle trasposizioni nomadi, vale a dire tramite interconnessioni
creative e altamente produttive che mescolano e abbinano, combinano e
moltiplicano le possibilità di espansione e relazioni tra diverse unità ed entità
(Braidotti 2oo8a).
Il prossimo indicatore metodologico è rappresentato dalla pratica della
defamiliarizzazione che ho spiegato nel secondo e terzo capitolo. Questo è un
processo che invita alla riflessione, attraverso il quale il soggetto conoscente si
libera dalla visione normativa dominante del sé, al quale si è abituato, per
evolvere verso un contesto di riferimento postumano. Abbandonando il quadro
vitruviano una volta e per tutte, il soggetto diventa relazionale, in una maniera
complessa che lo riconnette con i molteplici altri. Un soggetto così formato
infrange già a livello superficiale i limiti dell’umanesimo e
dell’antropocentrismo. Abbiamo visto, nei precedenti capitoli, una serie di
esempi concreti di come la disidentificazione dai modelli egemonici di
soggettivazione possa essere produttiva e creativa, a partire dalla teoria
femminista - che implica un radicale allontanamento dalle istituzioni dominanti e
dalle rappresentazioni della femminilità e della mascolinità (Braidotti 1994;
Butler 2013). I dibattiti postcoloniali e quelli sulla razza erodono il privilegio dei
bianchi e le altre convinzioni razziste circa l’opinione diffusa di cosa costituisca
un soggetto umano30.
Tale disidentificazione si verifica lungo gli assi del divenire donna
(sessualizzazione) e del divenire altro (razzializzazione) e avviene perciò
all’interno dei parametri dell’antropomorfismo. Ancora, una svolta più radicale è
necessaria per rompere con quest’ultimo e per sviluppare forme postumane di
identificazione. L’insostenibile leggerezza dell’essere penetra dentro di noi
appena cominciamo ad attivare l’energia di zoe; il non umano stesso. Il
geocentrismo vitalista della teoria nomade - l’amore di zoe - è un tentativo
parallelo nella stessa direzione. Il divenire terra e il divenire impercettibile
rappresentano rotture più radicali con i modelli prestabiliti del pensiero
(naturalizzazione) e introducono la dimensione planetaria radicalmente
imminente. Tale esodo antropologico è molto difficile dal punto di vista emotivo
e metodologico, dal momento che può implicare un senso di perdita e di
sofferenza. La disidentificazione comporta la perdita delle abitudini care del
pensiero e della rappresentazione, un passaggio che può anche causare paura,
senso di insicurezza e nostalgia.
Dal punto di vista metodologico, la defamiliarizzazione modifica la relazione
con gli altri non umani ed esige la disidentificazione dalle abitudini vecchie di
secoli del pensiero antropocentrico e dell’arroganza umanista, il che equivale
quasi a testare l’abilità e la volontà delle discipline umaniste. Le scienze naturali
e sperimentali, di certo, stanno portando a compimento questo allontanamento
dall’antropocentrismo con relativa facilità, come abbiamo visto a proposito della
Storia profonda e della ricerca dei movimenti di One Health. Può valere la pena
prendere sul serio la critica che lo sviluppo delle scienze umane verso la
complessità possa essere ostacolato dall’antropocentrismo che sottende la loro
opera. La teoria critica sarà capace di collegarsi alle complesse discipline
postumaniste a venire?
La mia definizione operativa di metodo scientifico postumano, nelle scienze
umane come in quelle della vita, non può essere dissociata da un’etica della
ricerca che esiga rispetto per la complessità della vita reale del mondo in cui
viviamo. La teoria critica postumana deve applicare una nuova visione della
soggettività alla pratica e alla percezione pubblica dello scienziato, che è ancora
costretto nel modello umanista classico e retrodatato dell’Uomo di ragione
(Lloyd 1984) inteso come quintessenza del cittadino europeo. Abbiamo bisogno
di superare questo modello e di dirigerci verso un’intensa forma
d’interdisciplinarità, trasversalità, di andirivieni continui tra differenti discorsi.
Tale approccio transdisciplinare influenza la struttura profonda del pensiero e
genera una compresenza rizomatica di differenze concettuali nella cultura. Il
metodo postumano equivale ai più alti livelli di ibridazione disciplinare e si
poggia su un’accurata disintossicazione dalle abitudini del pensiero grazie a
incontri che interrompono la piatta ripetizione dei protocolli della ragione
istituzionale.
Il vero soggetto delle scienze umane non è più l’Uomo


In questo libro ho sostenuto che la teoria postumana si fonda su un’ontologia
processuale che mette in discussione l’equazione tradizionale tra soggettività e
coscienza razionale, resistendo alla riduzione di entrambe all’oggettività e alla
linearità31. Il concetto nomade del soggetto postumano, inteso come temporalità
continua e assemblaggio collettivo, comporta un doppio impegno, da un lato
verso i processi del cambiamento, dall’altro verso una forte etica eco-filosofica.
Nei confronti di molteplici comunità la compresenza, ovvero la simultaneità
degli esseri nel mondo, definisce l’etica dell’interazione con agli altri umani e
non umani. Una coscienza diffusa e allacciata collettivamente emerge, e sprona
una riflessione trasversale e non sintetica del legame relazionale che la distingue.
Ciò situa la relazione e la nozione di complessità sia al centro dell’etica e delle
strutture epistemiche che delle strategie del soggetto postumano (Braidotti
2008a).
Questa prospettiva ha risvolti importanti per la produzione del sapere
scientifico. La visione dominante dell’impresa scientifica si basa
sull’implementazione istituzionale di una serie di regole o leggi che disciplinano
la pratica della ricerca scientifica e controllano i confini tematici e metodologici
che indicano quale scienza possa dirsi rispettabile, accettabile e degna di ricevere
fondi e investimenti. Così facendo le leggi della pratica scientifica decidono
praticamente cosa a una mente è permesso pensare, pertanto controllano le
strutture del nostro pensiero. Il pensiero postumano propone una visione
alternativa sia del soggetto pensante, della sua evoluzione a livello planetario,
che delle strutture reali del pensiero.
L’idea di Deleuze e Guattari che il compito del pensiero sia quello di creare
nuovi concetti è una meravigliosa fonte d’ispirazione per le scienze umane, in
quanto si fonda sul parallelismo di scienza, arte e filosofia. Questo concetto non
deve essere confuso con quello del livellamento delle differenze tra questi ambiti
intellettuali, dal momento che con esso s’intende sottolineare l’unità d’intenti tra
queste tre branche del sapere. Deleuze e Guattari intendono evidenziare le
differenze dei diversi stili di comprensione che la filosofia, la scienza e le arti
rispettivamente incarnano. Mostrano inoltre che questi stili rimangono ancorati
al piano comune dell’energia vitale intensiva autotrasformatrice. Questo
continuum sostiene l’ontologia del divenire che rappresenta il motore
concettuale del pensiero nomade postumano.
Nella misura in cui la scienza deve fare i conti con i processi fisici reali del
mondo contingente e particolare, essa risulta meno propensa ai processi di
divenire e di differenziazione che caratterizzano l’ontologia monista di Deleuze.
La filosofia è in vantaggio, in quanto sottile espediente dell’intelligenza curiosa,
più in sintonia con il piano virtuale di immanenza, con la forza generatrice
dell’universo, caosmosi non umana immersa in un flusso costante. Il pensiero è
la controparte concettuale dell’abilità di entrare in modalità relazionale, di
affettare ed essere affetti, dal momento che sostiene i cambiamenti qualitativi e
di conseguenza le tensioni creative, cosa che è anche prerogativa dell’arte. La
teoria critica ha pertanto un importantissimo ruolo da ricoprire.
Manuel De Landa (2002) analizza brillantemente il modello intensivo della
scienza deleuziana e sottolinea l’importanza cruciale dei processi di
attualizzazione delle possibilità virtuali, oltre l’essenza universale e le
realizzazioni lineari. Delanda afferma che, eccetto l’antiessenzialismo, la scienza
nomade intensiva punta a evitare ogni pensiero tipologico. Il principio
dominante della somiglianza, dell’identità, dell’analogia e dell’opposizione
dev’essere evitato nel pensiero del virtuale e del divenire intensivo. Deleuze ci
invita a «elaborare un resoconto di ciò che ci permette di esprimere certi giudizi
e che stabilisce determinate relazioni» (De Landa 2002, 42).
Il tratto saliente del vitalismo nomade è il suo non essere organicista né
essenzialista, bensì pragmatico e immanente. In altri termini, il materialismo
vitalista non assume un onnicomprensivo concetto di vita, solo pratiche e flussi
di divenire, assemblaggi complessi e relazioni eterogenee. Come ho sostenuto
nel secondo capitolo, non c’è alcuna idealizzazione trascendentale, solo
molteplicità virtuali. L’ontologia monista che fonda la visione della vita come
materia vitalista e capace di autorganizzazione permette inoltre agli intellettuali
critici di riunire branche differenti della filosofia, delle scienze e delle arti, in una
nuova alleanza. Per me questa è la formula dinamica contemporanea per
ridefinire la relazione tra le due culture delle scienze umane e naturali. Esse
rappresentano differenti strategie di approccio alla materia vivente che
costituisce il nucleo sia della soggettività che delle sue relazioni planetarie e
cosmiche.
Bonta e Protevi (2004) mostrano che la geofilosofia di Deleuze esorta le
scienze umane ad accostarsi in modi davvero creativi alla biologia e alla fisica.
L’accento cade sulla complessità nella distinzione tra stati attuali e divenire
virtuali - sulla base di un concetto di materia capace di autopoiesi. La prima
costituisce l’oggetto della Royal Science, la seconda il contesto della scienza
minore; entrambe sono necessarie in diversi momenti del tempo, ma soltanto la
scienza minore è eticamente trasformativa e non sottomessa agli imperativi
economici del capitalismo avanzato e delle sue escursioni cognitive nella materia
vivente. Di conseguenza potremmo azzardare la conclusione che l’implicazione
principale della teoria critica postumana per la pratica della scienza è che le leggi
scientifiche devono essere riarticolate intorno alla nozione del soggetto della
conoscenza come singolarità complessa, assemblaggio affettivo ed entità
vitalista relazionale.
Da quanto detto segue che le scienze umane nell’era postumana dell’
antropocene non dovrebbero consacrarsi all’umano - soprattutto all’Uomo -
come proprio oggetto di studio. Al contrario, il campo beneficerebbe dell’essere
liberato dall’impero umanista dell’Uomo, così da riuscire ad affrontare, con stile
postantropocentrico, le problematiche d’importanza planetaria, come i progressi
scientifici e tecnologici, la sostenibilità ecologica e sociale e le sfide della
globalizzazione. Un tale cambiamento di paradigma richiede l’intervento anche
di altri attori scientifici e sociali.
La questione è se le scienze umane siano autorizzate a organizzare la propria
agenda in rapporto alla scienza contemporanea e alla tecnologia, o se esse siano
confinate in luoghi che non hanno scelto. Vi è, infatti, un’evidente tendenza, ad
esempio nei dibattiti pubblici sul cambiamento climatico o sulle biotecnologie,
ad attribuire, in questi complessi discorsi, all’ambito poco finanziato delle
scienze umane tutti i temi caratterizzati da un qualche elemento umano. Questa
tendenza ha contribuito alla fortuna istituzionale dell’etica che si presume - e
spesso si arroga tale prerogativa - sia capace di produrre nuovi metadiscorsi e
ingiunzioni normative adatte ai dilemmi della nostra epoca. Questa pretesa
metadiscorsiva è, tuttavia, infondata. Inoltre essa perpetua l’abitudine
istituzionale del pensiero - che Deleuze descriverebbe come reattivo e sedentario
- di innalzare la filosofia a regina della teoria. L’immagine del filosofo come
legislatore del sapere e giudice della verità, modello fissato dalla scuola
kantiana, è l’esatto contrario di quello che la teoria critica postumana sta
affermando: una soggettività postidentitaria, non-unitaria, trasversale, basata
sulle relazioni con gli altri umani e non.
Un altro campo discorsivo che viene regolarmente evocato come
responsabilità esclusiva degli studi umanistici è rappresentato dalla controversa
problematica degli aspetti sociali e culturali di complesse questioni quali il
cambiamento climatico e l’impatto delle biotecnologie. In altre parole le scienze
umane vengono attivamente ridotte alla prospettiva antropocentrica, e
simultaneamente vengono biasimate per questo limite, come si evince dal
paradosso illustrato da Whimster (2006, 174): «Una scienza dell’umano deve
poter dimostrare di essere capace di pensare il non umano o in alternativa, di
restare umanista ma carente sul piano scientifico». Non c’è via d’uscita.
La mia tesi è che le discipline umaniste hanno bisogno di cogliere le
molteplici opportunità offerte dalla condizione postumana. Le scienze umane
possono scegliere i propri oggetti d’indagine, svincolate dai compiti tradizionali
o istituzionali dell’umano e dei suoi derivati umanisti. Sappiamo ormai che il
campo è provvisto di un archivio ricco di molteplici possibilità che lo dotano
delle risorse metodologiche e teoretiche per impostare dibattiti con le scienze e
le tecnologie e le altre grandi sfide di oggi. La domanda da porre è: cosa possono
diventare le discipline umaniste nell’era postumana, dopo il tramonto della
supremazia dell’Uomo e dell’anthropos?
Multiversità globale


La questione è adesso quale sia la pratica istituzionale più adatta alla teoria
critica postumana e alle scienze umane del XXI secolo. Le discussioni circa la
capacità degli studi umanisti di far fronte alle sfide del terzo millennio portano
con sé l’interrogativo circa la crisi dell’università come concetto e come
rappresentazione.
Una breve rassegna storica del dibattito sul concetto di università può
restituire l’idea della misura della sua crisi. Il modello rinascimentale di
accademia umanista che ha definito a lungo il paziente lavoro di ricerca dello
studioso, inteso come artista e artigiano, è semplicemente defunto. Esso è stato
sostituito dal moderno modello fordista dell’università intesa come catena di
produzione di beni accademici di massa. La pretesa della Nussbaum (2006) che
questo modello sia ancora adottato dal College americano delle Arti Liberali è al
contempo elitaria e nostalgica, come ho accennato nel secondo capitolo. Il
classico testo di Immanuel Kant intitolato II conflitto delle facoltà (Kant 2004),
pubblicato per la prima volta nel 1789, mostra il progetto della moderna
università, fondato sul modello della produzione industriale. Kant distingue
l’università in facoltà più elevate - Legge, Medicina e Teologia - che sono volte
alla pratica e facoltà più basse - Arti, discipline umaniste e scienze - volte alla
teoria critica e pertanto esenti dagli affari di mercato e dagli impegni pratici32.
Questo impianto è ancora abbastanza valido, nonostante i diversi mutamenti
storici. Il più significativo è probabilmente il modello ottocentesco di von
Humboldt, secondo cui l’università è il luogo riservato all’educazione dell’elite
sociale per formarla alla direzione dello Stato e la produzione di cittadini
intelligenti altamente selezionati, a lungo tempo esclusivamente uomini. Tale
modello è ancora prevalente in Europa.
Nella sua stimolante e al contempo dissacrante anatomia dell’università
contemporanea, Bill Readings (1996), sostiene, tuttavia, che l’istituzione è
diventata poststorica, nella misura in cui «sopravvissuta a se stessa, è adesso una
superstite dell’era in cui si definiva nei termini del progetto dello sviluppo
storico, dell’affermazione e della diffusione forzata della cultura nazionale»
(1996, 6). Tutti i modelli precedenti di università che ho citato sinora, kantiana,
von humboltiana, colonialista inglese - difesa dal cardinale Newman (1907) -
sono stati scossi dall’economia globale. A questo proposito, il declino dello Stato
nazione ha avuto effetti negativi per l’università nel suo insieme e in particolar
modo per le scienze umane che a lungo hanno usufruito dei vantaggi del
nazionalismo metodologico, come dicevo nel primo capitolo. La figura centrale
nella vita accademica odierna non è il professore, afferma Readings, ma
l’amministratore, e l’università non è più il pilastro dell’identità nazionale, né lo
strumento ideologico dello Stato nazione e dei suoi apparati:

L’università è ormai un parassita che sta provocando l’esaurimento delle risorse, allo stesso modo in cui la
borsa o le compagnie di assicurazione sono un salasso per la produzione industriale. Come la borsa,
l’università è uno strumento del sapere del capitale, della capacità del capitale di gestire la diversità e il
rischio e al contempo di estrarre plusvalore da questa stessa gestione. Nel caso dell’università,
quest’estrazione si verifica come speculazione sui differenziali dei dati informativi (1996, 40).

In questo contesto la tanto ostentata nozione di eccellenza non indica nulla di
sostanziale, eppure è un fattore fondamentale dello scambio transnazionale di
capitale accademico. Essa rappresenta un mero ideale tecnoburocratico
(Readings 1996, 14), senza alcun contenuto di riferimento. Questo svuotamento
di contenuti degli standard accademici ha conseguenze sia negative che positive.
Dal punto di vista negativo, l’assenza di riferimenti specifici significa che
l’eccellenza viene articolata intorno al denaro, alle esigenze del mercato e alla
soddisfazione dei consumatori. Da un punto di vista più positivo tale
svuotamento di contenuti apre possibilità di nuovi spazi dentro i quali «possiamo
pensare le nozioni di paese e di comunità in modo differente» (1996, 124). Cosa
possiamo farcene di questi passati modelli di università oggi?
Cominciamo con il guardare al modello conservatore classico, esemplificato
da John Searle nella sua difesa delle idee chiave della tradizione occidentale
razionalista (1995) e dei valori centrali della ricerca umanista. Fermamente
ancorata alla pratica realista della verità, la tradizione razionalista si riferisce
costantemente al testo e declina la teoria in modo autocritico. Si fonda sul
pensiero lineare, dal momento che ritiene che la funzione del linguaggio sia
quella di comunicare efficacemente. Di conseguenza, la verità è una questione di
accuratezza della rappresentazione - secondo la corrispettiva teoria della verità
che radica le affermazioni alla realtà fattuale osservabile. Ne segue che il sapere
si presume oggettivo - poiché poggia su rappresentazioni di una realtà esistente
in modo indipendente e non su interpretazioni soggettive. La razionalità regna
sovrana e la ragione formale - come opposta alla ragione pratica - ha la sua
logica interna che fornisce modelli di verifica e validità. Di conseguenza gli
standard intellettuali non sono negoziabili e risultano fondati su criteri oggettivi
di eccellenza.
Si suppone che il concetto tradizionale di università incarni e difenda questi
criteri. A questi Searle oppone l’università postmoderna, influenzata da
importate teorie antirealiste sulla verità che minano la scientificità della pratica
accademica. La rappresentatività del curriculum in termini di genere, razza ed
etnicità - purtroppo per Searle - diviene più importante del suo obiettivo reale,
dal momento che introduce un egalitarismo elitario superficiale con il pretesto
del multiculturalismo. Questo crea confusione tra l’ambito che deve essere
studiato e la causa che deve essere difesa, cosa che ha interrotto lo sviluppo dei
metodi e delle pratiche tradizionali delle scienze umane ed erode la fiducia nelle
medesime.
In un’eloquente risposta a Searle, Richard Rorty (1996) critica l’eccessiva
enfasi sul razionalismo inteso come «versione laicizzata della tradizione
occidentale monoteista» (1996, 33). Il realismo e la corrispondenza alla realtà
sono concetti piuttosto privi di significato, termini senza contenuti (1996, 26). La
tanto elogiata oggettività della scienza, sostiene Rorty, poggia su di un’attiva
intersoggettività e sull’interazione sociale. Rivalutando l’importanza dei fattori
sociopolitici nella formazione dei significati e della verità, Rorty sceglie una
nota più pragmatica:

Una sana e libera università agevola più che può il cambiamento generazionale, le radicali proteste religiose
e politiche e le nuove responsabilità sociali. Essa deve sapersela cavare in tutti questi casi (1996, 28).

La questione della teoria all’indomani degli ignobili conflitti delle teorie
torna a tormentare questa discussione. Le osservazioni conservatrici di Searle
sono acute espressioni del suo coinvolgimento emotivo nell’autodifesa delle
scienze umane. Egli è comunque spietato nell’incolpare i teorici postmoderni di
questa situazione. Contrariamente al facile antimodernismo di questo approccio,
io vorrei sottolineare le serie sfide metodologiche che esso ha lanciato alle
discipline umaniste. Accusare, infatti, gli studiosi postmoderni di aver provocato
la crisi che essi cercano di riparare attraverso un appello accorato alla riflessione,
visto che le narrative umaniste dominanti sono in difficoltà, è un maldestro colpo
di mano che non aiuta affatto la causa delle scienze umane odierne. È un vero
peccato che il grande dibattito sul futuro dell’educazione accademica umanista
resti impigliato nei residui aggressivi e poco intelligenti dei conflitti teorici ma in
realtà politici degli anni Novanta e delle bellicose polemiche contro il
femminismo, il postmodernismo, il multiculturalismo e la filosofia francese.
Joan Scott lo spiega brillantemente:

Come se i teorici del postmodernismo fossero la causa di tutti i problemi relativi all’indeterminatezza
disciplinare con la quale gli studiosi devono oggi confrontarsi, come se la loro marginalizzazione potesse
porre fine alla questione della differenza, sollevata dai cambiamenti demografici della popolazione
universitaria, dall’emergere delle critiche postcoloniali nei confronti delle posizioni colonialiste, dagli
sviluppi della storia della filosofia che risalgono al XIX secolo, dalla più recente fine della Guerra fredda e
dagli straordinari vincoli economici degli ultimi anni (1996, 171).

Riprendendo la nozione di John Dewey di un’università come comunità
disciplinare, Scott deplora il contesto politicizzato del postmodernismo e del
sapere, che sopravvaluta «le presunte implicazioni politiche delle idee degli
studiosi, non le idee in loro stesse». Louis Menand (1996) si spinge oltre sino ad
affermare che le forze politiche conservatrici negli Usa si sono accostate alla
guerra delle teorie con il fine di interferire negli affari interni dell’accademia,
come si evince dagli attacchi particolarmente mirati al femminismo, al
multiculturalismo e al postcolonialismo. Questa intuizione critica viene raccolta
da Edward Said, il quale collega la crisi di identità delle scienze umane al
declassamento dei curricula eurocentrici nelle università degli Stati Uniti, e
aggiunge:

Alcuni studiosi hanno reagito come se la natura stessa della libertà universitaria e accademica fosse
minacciata da un’eccessiva politicizzazione. Altri ancora peggio: per costoro la critica del canone
occidentale, con la panoplia di quello che il suo avversario definisce maschio bianco europeo, segnala
l’improbabile inizio di un nuovo fascismo, la fine della civiltà occidentale stessa, e il ritorno della schiavitù,
del matrimonio precoce, della bigamia e degli harem (Said 1996, 214-15).

Ironia a parte, è abbastanza chiaro che l’obiettivo reale delle ire dei
conservatori è il pericolo che questi nuovi ambiti di studio rappresentano per il
potere delle discipline corporativiste in due modi principali: tramite le loro
epistemologie radicali e la loro interdisciplinarità metodologica. Il crollo dei
confini tra le discipline e la conseguente perdita del potere corporativista delle
vecchie discipline è una crisi più amministrativa che teorica. Come Menand
osserva con acume, dal momento che le discipline non sono entità eterne, ma
formazioni discorsive storicamente contingenti, la loro disgregazione non
rappresenta di per sé un motivo di ansia per gli studiosi, alcuni dei quali stanno
addirittura accelerando questo processo. È invece fonte di maggiore malessere
per gli amministratori in carica della gestione delle facoltà umaniste, i quali
tendono ad «avvantaggiarsi dello stato del flusso per ridurre la spesa e condurre
un ridimensionamento forzato» (1996, 19). Ma cosa c’entra il postumano con
tutto ciò?
Il postumano ci aiuta a superare questa polemica, esortandoci a cominciare
dall’imperativo empirico del pensare globalmente, ma agire localmente, per
elaborare un contesto istituzionale che concretizzi una pratica postumana che sia
degna dei nostri tempi (Braidotti 2011) e che resista alla violenza, all’ingiustizia
e alla volgarità di oggi. Confrontarsi con la storicità della nostra condizione
significa spostare il fulcro della riflessione verso l’esterno, nel mondo reale, in
modo da assumersi la responsabilità delle condizioni e relazioni di potere che
definiscono la nostra collocazione. L’epistemologico e l’etico avanzano in
tandem nei complicati orizzonti del terzo millennio. Ci occorrono creatività
concettuale e coraggio intellettuale per afferrare quest’occasione, e non si può
tornare indietro.
Nonostante le questioni della cura pastorale e della giustizia
intergenerazionale siano più attuali che mai nelle aule universitarie, questo è
anche il momento in cui, a partire dalla Guerra fredda, la funzione delle
università è stata per lo più di ricerca e sviluppo al fine del progresso sociale,
della crescita industriale e dell’avanzamento tecnologico, incluso, ma non solo,
il settore militare, come abbiamo visto nel precedente capitolo. Questo è vero
specialmente per gli Stati Uniti, ma l’Europa e gran parte dell’Asia rientrano
comunque in questo modello. Secondo Wernick, a partire dagli anni Sessanta
l’università si è trasformata nella multiversità, che adempie a una vasta gamma
di compiti economici e sociali, spesso connessi alla militarizzazione dello spazio
sociale e dei conflitti geopolitici perseguita durante la Guerra fredda. Il termine
«multiversità» fu coniato nel 1963 dall’allora rettore dell’università della
California Clark Kerr (2001) per indicare l’aumento spropositato dei compiti e
delle richieste imposte alle maggiori università. Negli ultimi vent’anni le
università hanno continuato a cambiare, così da diventare «corporazioni,
orientate alla performance e svincolate dalla tradizione. Sotto l’egida di
amministratori professionisti sono diventate istituzioni poststoriche senza
memoria» (Wernivk 2006, 561). Nel momento in cui gli organi rappresentativi
dei docenti e degli studenti hanno perso il loro potere decisionale nelle strutture
amministrative degli atenei, a favore dell’economia politica neoliberale, le
scienze umane hanno smarrito i loro valori fondamentali per divenire una sorta
di bene di consumo intellettuale di lusso.
Questa tendenza può essere invertita? Qual è il modello appropriato di
università nell’era globalizzata? Desidero mostrare che la condizione postumana
risolleva anche una questione cruciale come quella della responsabilità civica
dell’università attuale. Come possono interagire, nel nostro mondo tecnologico e
globalizzato, lo spazio accademico e quello civico? La rivoluzione digitale apre
almeno la strada per una risposta parziale: le nuove università saranno virtuali e
pertanto globali per necessità. Questo comporta il tramonto dell’ideale
universale e dei valori trascendentali difeso da Searle. Si sta imponendo una
visione infrastrutturale dell’università intesa sia come centro della produzione di
saperi locali che della trasmissione globale di dati cognitivi. Questo non implica
direttamente e per necessità la deumanizzazione o lo scardinamento
dell’università, bensì una nuova forma di rifondazione e di responsabilità per
questa venerabile istituzione. Pertanto, in un articolo opportunamente intitolato
The Twenty-kilometer University (Philipps et al 2011), un gruppo
interdisciplinare analizza la trasformazione delle relazioni tra università e città
globali contemporanee in Cina. Le loro osservazioni sono fonte d’ispirazione per
la missione dell’istituzione accademica oggi.
Lo spazio della città globale esige, e dipende da, spazi intelligenti di
interattività altamente tecnologica e viene perciò definito come spazio cittadino
smart, caratterizzato da infrastrutture tecnologiche pervasive. La tecnologia
ambientale dipende dalla rete di infrastrutture, che non è gerarchica ma
orizzontale rispetto all’utenza, la quale disfa i tradizionali meccanismi di
produzione e trasferimento del sapere. In qualche modo, l’ambiente urbano
intelligente disloca e ricolloca l’università, iscrivendo il sapere e la sua
circolazione nel cuore dell’ordine sociale e urbano. Cosa accade dunque allo
spazio accademico in passato segregato e, almeno in Europa, sacralizzato? Gli
autori dell’articolo ritengono che l’ambito accademico debba contaminarsi con
quello civile e che esso debba integrarsi all’ambiente urbano in modo
radicalmente innovativo. La città nel suo insieme è il parco scientifico del futuro.
L’università di conseguenza necessita di trasformarsi in multiversità (Wernick
2006, 561), capace di interagire con lo spazio della città in modo da creare un
«ethos collettivo di intelligenza comune con il fine condiviso del progresso
economico attraverso i mezzi che sostengono e agevolano la vita cittadina»
(Philipps et al 2011, 299). La valorizzazione economica delle città e delle loro
università - iniziata all’epoca della Guerra fredda - sta entrando in una fase di
promozione commerciale intensiva che comporta sforzi pubblicitari notevoli e
una nuova cultura finanziaria di investimenti privati e pubblici. Tutto ciò resta
estraneo e indifferente ai contenuti effettivi del lavoro universitario in sé. Il
neoliberalismo si vanta quasi di spronare procedimenti e processi trasformativi
privi di contenuti.
La multiversità globale è lo spazio in cui la tecnologia e la metafisica si
incontrano, con effetti esplosivi ma anche esilaranti, poiché tale multiversità
globale e mediata tecnologicamente costituisce una nuova entità: «Con il suo
ruolo in rapporto alla formazione dei cittadini e all’educazione sempre più sullo
sfondo, se non del tutto nell’oscurità» (Philipps et al 2011, 300). Stefan Collini
(2012, 13) riporta la stessa tesi sostenendo che dobbiamo smetterla di pensare
nei termini degli ideali dell’Ottocento e che dovremmo invece «concentrarci su
come il modello europeo nella sua versione americana stia prendendo piede in
Asia, soprattutto con scuole di tecnologia, medicina e management, le quali
rappresentano più potentemente l’ideale di università del XXI secolo».
In altre parole, l’università contemporanea deve ridefinire il suo compito
postumano a livello planetario nei termini di una rinnovata relazione con le città
globali dove è situata. Questo comporta sia una revisione dello spazio urbano
che una ridefinizione della responsabilità civile. Tanto più che, secondo le
Nazioni Unite, ci saranno 22 megalopoli nel mondo entro il 2015 e per il 2050
due terzi della popolazione mondiale abiterà nei centri urbani. Nel 2012 abbiamo
ufficialmente registrato il fatto che il 50% della popolazione mondiale vive oggi
in città. Una maggiore interattività sostenuta da Internet permetterà ai cittadini di
partecipare alla pianificazione, gestione e amministrazione del loro ambiente
urbano in rapida espansione. Le parole chiave sono: open source, governo
partecipato, informazioni trasparenti e scienza democratica, al fine di garantire al
pubblico libero accesso ai dati scientifici e amministrativi. Le città attuali del
XXI secolo, come nel caso dello studio cinese citato prima, non sono solo città
cresciute disordinatamente e spazi urbani a rischio di esplosione. Esse sono
anche - nel migliore dei casi - superfici urbane intelligenti, modificate
tecnologicamente. Proprio come in passato, in Europa, le università e le loro
città crescono insieme, tessendo una rete complessa di vincoli urbani, sociali,
economici, politici, civili, e dunque oggi si sta articolando un nuovo network di
rapporti. A causa dell’altro grado di mediazione tecnologica in rete nelle società
contemporanee, questo nuovo spazio urbano può essere considerato
postantropocentrico e si estende ben oltre la cornice vitruviana di riferimento di
matrice umanista. Confrontandosi con preoccupazioni locali e sfide globali,
l’attuale multiversità affronta sia le esigenze del competitivo mercato del lavoro
che la cultura globale e il mondo dell’impresa, pur continuando a perseguire i
suoi ideali ancestrali di eccellenza scientifica e di cittadinanza illuminata. Le
città di domani saranno centri viventi di apprendimento, di intermediazione delle
informazioni e di pratiche cognitive condivise, basate su un’intensa reticolarità
sociale. Dopo i porti marittimi e gli aeroporti, i portali internet saranno i nuovi
punti d’ingresso per le città del terzo millennio.
Questo mi porta a un secondo aspetto della nuova alleanza tra università e
città nel terzo millennio: la dimensione civica. Oggi più che mai, l’università ha
bisogno di realizzare il suo scopo principale di garantire una ricerca
indipendente, una pratica pedagogica costruttiva e pensiero critico. Visto inoltre
il ruolo di traino che le università attuali possono giocare come centri tecnologici
nevralgici e fulcri del trasferimento globale del sapere, c’è da sperare che la
compresenza di innovazione e tradizione riuscirà a perpetuare l’importanza che
ancora riveste l’istituzione universitaria nel mondo contemporaneo. La
combinazione di competenze tecniche e responsabilità civica, l’attenzione per
una sostenibilità sociale e ambientale, una relazione critica con il consumismo,
rappresentano i valori centrali della contemporanea multiversità. Bill Readings
(1996) intendeva questo riferendosi alla possibilità che l’attuale università possa
aiutare a ridefinire la comunità e l’appartenenza, senza ricorrere al nazionalismo
classico né al consumismo sfrenato. Rivolgendosi all’opera di Maurice Blanchot,
Readings esorta a un nuovo modello di università intesa come comunità di
soggetti postidentitari e postumani. Tale modello avrà la forma di una comunità
senza identità statiche e unità fisse, un popolo e una multiversità a venire. Tutto
ciò ha effetti notevoli sulla riflessione teorica.
Mi ricordo il giorno in cui questo pensiero stupendo mi è venuto in mente.
Ero al concerto di Laurie Anderson a Parigi nei tardi anni Ottanta. Lei è una di
quelle artiste concettuali che riesce a sdoppiarsi senza difficoltà in
un’intellettuale pubblica, capace di creare sempre nuove espressioni acustiche ed
estetiche che riflettono e spesso anticipano le metamorfosi tecnologiche del
presente. O Superman è stata la prima canzone cyborg a diventare un successo
mondiale - una premonizione dei giorni postumani a venire - mentre Strange
angels è una reinterpretazione della tesi di Walter Benjamin sulla filosofia della
storia, che esprime la continuità tra la ricerca del tempo perduto e la sostenibilità
del futuro. In questo concerto particolare, Laurie Anderson, che stava per
intraprendere la carriera di artista in residenza alla NASA, definì il compito
odierno delle persone che un tempo si definivano intellettuali come quello di
fornitori di contenuti. Questo avveniva nei tardi anni Ottanta. La settimana
scorsa ho ricevuto l’annuncio di una conferenza internazionale sul futuro
dell’educazione in Europa, di cui un’intera parte era dedicata a saggi sulla
funzione dei ricercatori in quanto: intermediari di idee. Il termine stesso è
incentrato sul marketing e la pubblicità, piuttosto che sulla ricerca fondamentale
e la sperimentazione; cosa che non richiede neppure particolare creatività o
immaginazione. Agli accademici è riservata la mediazione delle idee, laddove i
network delle informazioni forniscono i contenuti e diventano progressivamente
autonomi nei processi decisionali. Tutt’intorno, lo spazio urbano intelligente
espanso a dismisura distribuisce i prodotti della conoscenza tra studenti-utenti
che sono letteralmente immersi nella produzione infrastrutturale del sapere.
Benvenuti nel futuro!
Questo futuro si sta già mostrando nella riarticolazione continua e nelle
restrizioni finanziarie che affliggono il mondo accademico contemporaneo, e in
particolar modo le scienze umane. Louis Menand sostiene che la moderna
ricerca universitaria non è più né la materializzazione di verità eterna e di
concetti universali, né l’applicazione di criteri di perfezione e virtù. La ricerca
universitaria si è rivelata, invece, un’alquanto ingombrante e costosa burocrazia:

È debole filosoficamente e produce risultati banali, una mentalità professionale ristretta e scarsa rilevanza
sociale. Merita di essere sostituita. Ma se viene sostituita, deve essere nell’interesse di coloro che
continuano a valorizzare l’integrità dell’insegnamento e della ricerca, al fine di progettare una nuova
struttura istituzionale che svolga la stessa funzione. Altrimenti la libertà accademica verrà eliminata da ciò
che, in America, uccide le iniziative con maggiore efficacia, cioè la mancanza di fondi (Menand 1996, 19).

Un simile contesto sociale negativo e segnato a vivo dalla crisi finanziaria,
ha causato un notevole peggioramento delle condizioni di lavoro di tutti i
dipendenti delle università a livello mondiale. Stefan Collini commenta questo
problema con particolare acume: «I dipartimenti accademici contemporanei sono
sopraffatti, sommersi da cifre e statistiche, perseguitati dalle valutazioni, a caccia
perenne di fondi, e rappresentano quanto di più lontano ci sia dagli ideali classici
della vita contemplativa» (Collini 2012, 19). In effetti gli universitari di oggi
assomigliano di più a dei commessi viaggiatori di piccole o medie imprese
gestite da ragionieri e amministratori finanziari che a studiosi indipendenti in
una comunità professionista autogestita. I più capaci di successo stanno
diventando molto abili nell’ottenere fondi e finanziamenti esterni. Sono meglio
conosciuti come imprenditori da concorso. Rosalin Gill (2010), d’altra parte, non
solo deplora le condizioni di lavoro del mondo accademico contemporaneo, ma
cerca anche di valutare i danni causati sia agli individui che alle istituzioni dove
regnano stress e competitività. La precarietà dei giovani ricercatori è fonte di
preoccupazione notevole. Collini aggiunge: «Le condizioni dei lavoratori
cognitivi precari e a tempo determinato nelle istituzioni meno privilegiate si
avvicina in alcuni casi a quelle degli operatori dei cali center» (2012, 19).
Potrebbe, tuttavia, apparire incoerente il fatto che io rifletta su tutto ciò dalla
mia collocazione specifica, nell’antica cittadina di Utrecht, al centro del vecchio
mondo. Nell’arco dei secoli, la città e l’università sono diventate qui così
intrecciate che è molto difficile separare la struttura urbana e civica da quella
accademica. Civitas e universitas sono due lati della stessa medaglia e non sarà
certo facile cambiare le radici della loro interazione nel nome del futuro
postumano. A cosa potrà assomigliare il modello del futuro? Io voglio resistere
alla visione apocalittica che vedrebbe gli ultimi professori come specie in via di
estinzione (Donoghue 2008). Perché non indirizzarsi invece verso le scienze
postumane? Caratterizzate da una nuova alleanza tra le lettere e le scienze,
arricchite dall’antica tradizione europea di cooperazione tra la sfera accademica
e quella civica, sono in grado di diffondere molteplici reti di conoscenze e nuove
ecologie dell’appartenenza transdisciplinare. Possono aiutarci a riconfigurare il
cosmopolitismo, elaborando una definizione postumana di Europa come luogo
storicamente e moralmente obbligato alla revisione critica del suo proprio
passato. Per estensione, ci occorre un’università che assomigli alla società che in
essa si riflette e a cui essa serve, ovvero una società globalizzata e
tecnologicamente modificata, differenziata eticamente e linguisticamente, ma
che si vuole ancora in sintonia con i principi della giustizia sociale, del rispetto
delle differenze, dell’ospitalità e della convivialità. Sono consapevole che queste
aspirazioni hanno una spiccata tendenza umanista, ma tale contraddizione può
solo essere produttiva. Contro la costruzione sociale dell’oblio consapevole e
della volgare ignoranza, difendo invece uno slancio fondamentale verso la
relazionalità postumana. Un’università che sia seriamente impegnata nel mondo
attuale deve affrontare questa sfida attraverso l’istituzione di ambiti
transdisciplinari che indaghino la produzione del sapere nel mondo
tecnologicamente mediato, con attenzione particolare verso le nuove relazioni tra
lettere e scienze, e la diversità culturale e le realtà polilingue generate dalla
globalizzazione. In una nuova effusione di creatività intellettuale, le scienze
postumane della multiversità globale, includeranno: l’informatica umanistica o
digitale, le scienze umane neuronali e cognitive, le scienze umaniste ambientali
ed ecologiche e le scienze umane biogenetiche e quelle globali. Inoltre,
adempiranno anche al compito di studiare quali metodi di ricerca e quali
prospettive sono sviluppate dalla pratica letteraria e da quella artistica. In ogni
modo esse continueranno a sostenere «l’irrequieta ricerca della mente umana di
una maggiore comprensione del mondo» (Collini 2012, 27), che è l’intima
essenza delle scienze umane.
In altri termini, io credo che le discipline umaniste potranno sopravvivere
nella misura in cui mostreranno capacità e volontà di seguire un processo
sostanziale di trasformazione in direzione postumana. Per essere degni dei nostri
tempi, dobbiamo essere pragmatici: ci occorrono schemi di pensiero e
figurazioni capaci di rendere conto in termini positivi dei cambiamenti e delle
metamorfosi attualmente in corso. Viviamo già in stati permanenti di transizione,
di ibridazione e di mobilità nomade, in società emancipate (postfemministe), con
alti gradi d’intervento tecnologico. Questi non sono eventi semplici né lineari,
bensì fenomeni multisfaccettati e internamente contraddittori. Facendo prova di
una sfacciata indifferenza verso la logica del terzo escluso, essi combinano
elementi di ultramodernità con tratti di neoarcaismo: progressi tecnologici
stupefacenti e manifestazioni di flagrante neoprimitivismo.
La cultura accademica contemporanea e l’istituzione universitaria si trovano
spesso nell’incapacità di rappresentare queste realtà in maniera adeguata.
Favoriscono invece gli inevitabili ritornelli nostalgici sulla fine delle ideologie,
che concorrono con le apologie del nuovo. Nostalgia e iperconsumismo
viaggiano mano nella mano, sotto l’egida della restaurazione neoliberale
dell’individualismo possessivo. Questa visione unitaria del soggetto umanista,
tuttavia, non è in grado di fornire un antidoto efficace contro i processi di
frammentazione, i flussi e i cambiamenti che caratterizzano la nostra era. Il
nostro punto di partenza dev’essere la posizione non unitaria, relazionale del
soggetto in modo da imparare a pensare diversamente a noi stessi e al nostro
sistema di valori, partendo dalle cartografie appropriate delle nostre collocazioni
postumane incarnate e radicate.
Un’università che somigli al mondo attuale può essere solo una multiversità,
un’istituzione, in crescita ed espansione, che affermerà una postumanità
costruttiva. Come tale, non può sostenere la formazione universitaria per il solo
scopo dell’integrazione nel mercato del lavoro, ma come un fine in se stessa. Noi
dobbiamo intendere il no-profit come valore centrale della produzione del sapere
contemporaneo, e la sua gratuità dev’essere collegata alla costruzione di
orizzonti sociali di speranza, quindi si tratta di un voto di fiducia nella
sostenibilità pura del futuro (Braidotti 2008a). Il futuro non è nient’ altro che
solidarietà intergenerazionale, responsabilità verso i posteri, eppure è anche il
nostro sogno comune, la nostra allucinazione condivisa. Collin lo afferma
felicemente: «Noi siamo semplicemente la generazione attuale di custodi di
un’eredità intellettuale complessa che non abbiamo creato e che quindi non
abbiamo il diritto di distruggere».
Le scienze postumane sono già all’opera nella multiversità globale, non solo
per contrastare l’estinzione ma anche per realizzare futuri sostenibili postumani.
Conclusione

Non tutti possiamo sostenere, con un benché minimo senso di certezza, che
siamo già diventati postumani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo.
Alcuni di noi continuano a sentirsi molto legati all’umano, quella creatura che ci
è tanto familiare da tempo immemore, la quale in quanto specie, presenza
planetaria e formazione culturale, ha saputo sviluppare un particolare tipo di
comunità. Neppure possiamo spiegare con alcun grado di precisione, grazie a
quale contingenza storica, attraverso quali vicissitudini intellettuali o quali svolte
del destino, siamo entrati nell’universo postumano. Ciononostante, l’idea di
postumano gode oggi, nell’era nota come antropocene, di ampio consenso.
Suscita esaltazione e ansia al contempo, e provoca rappresentazioni culturali
assai polemiche. Cosa molto importante ai fini di questo libro, la situazione
postumana impone la necessità di pensare nuovamente, e più a fondo, allo
statuto dell’umano, di riformulare di conseguenza la questione della soggettività,
così come impone il bisogno di inventare forme di relazione etiche, norme e
valori adeguati alla complessità di questi tempi. Questo richiede anche la
ridefinizione delle finalità e delle strutture del pensiero critico, trattandosi, in
ultima analisi, di sostenere il prestigio istituzionale del campo accademico delle
scienze umane nell’università contemporanea.
Questo libro si è aperto con quattro vignette che illustravano sia le note
positive che gli orrori dei nostri giorni: il disfacimento della dicotomia tra
natura-cultura e l’alto livello di mediazione tecnologica che genera una serie di
paradossi, quali una panumanità connessa elettronicamente che reca con sé
anche intolleranza e violenza xenofobica. Piante, animali e vegetali
geneticamente modificati proliferano insieme ai virus dei computer mentre
veicoli volanti e altri mezzi militari senza equipaggio ci pongono al cospetto di
nuovi modi di morire. L’umanità viene ricreata come categoria reattiva, legata
dalla comune vulnerabilità e dallo spettro dell’estinzione, ma anche colpita da
vecchie e nuove epidemie, coinvolta in nuove guerre senza fine, afflitta dai
campi di detenzione e dall’esodo dei rifugiati. Gli appelli a nuove forme di
relazione cosmopolite o per un ethos globale sono spesso controbilanciati da atti
omicidi come quello di Pekka Eric Auvinen o di Anders Behring Breivik33.
In questo libro ho cercato di analizzare, in fasi diverse, l’alternanza tra
l’entusiasmo per la condizione postumana e la preoccupazione per i suoi lati
inumani e disumani. Per tutto il libro ho sottolineato l’importanza della teoria
critica, con la quale intendo quella commistione tra critica e creatività che rende
imperativo rinnovare positivamente il nostro confronto con il presente. Le mie
preoccupazioni principali sono: come trovare rappresentazioni teoretiche e
immaginarie adatte alle nostre condizioni di vita e come sperimentare insieme
forme alternative di soggettività postumana? Le quattro domande-chiave che ho
posto all’inizio hanno strutturato questo libro come un viaggio attraverso gli
scenari multidimensionali del postumano: come possiamo elaborare resoconti
degli itinerari storici che ci hanno condotto al postumano? In secondo luogo,
cosa comporta là condizione postumana per le scienze umane e, nello specifico,
quali nuove forme di soggettività genera questa condizione? In terzo luogo,
come possiamo interrompere il processo che rende disumano il postumano?
Infine, qual è la funzione delle scienze umane nell’era postumana? Questi
interrogativi non sono lineari bensì intrecciati, delineano una strada a zigzag
attraverso paesaggi complessi. Come scrittrice e pensatrice ho scelto la posizione
dell’apripista e della cartografa, per rendere conto non solo delle difficili
transizioni ma anche di alcune contraddizioni inerenti alla nostra situazione
attuale. Vediamo, a questo punto del viaggio, quanto siamo arrivati lontano.
Soggettività postumana


Il soggetto postumano non coincide con quello postmoderno, perché non
poggia su alcuna premessa antifodazionalista. Non coincide neppure con quello
poststrutturalista, poiché non si spiega con la svolta linguistica o con altri metodi
decostruttivisti. Non essendo delimitato dai poteri ineluttabili della
significazione, non è di conseguenza condannato a cercare rappresentazioni
adeguate della sua esistenza all’interno di un sistema che è costitutivamente
incapace di garantirgli un riconoscimento all’altezza delle aspettative. Il
significante linguistico, fondato sulla mancanza e sulla legge, rappresenta
semplicemente una trappola e un ostacolo per il potenziamento della soggettività
postumana. Il suo potere sovrano si fonda sulle stesse passioni negative che
mette in circolazione diffondendo sistematicamente un senso di mancanza,
istigando desideri al solo scopo di frustrarli attraverso l’invidia, la castrazione, e
incoraggiando in ogni modo l’assuefazione al consumo di beni materiali,
discorsivi e culturali.
Il soggetto postumano nomade è materialista e vitalista, incarnato e
interrelato - esso è sempre situato in qualche luogo - in sintonia con
l’immanenza radicale della politica della collocazione, che ho messo in primo
piano in questo libro. Tale soggetto è polimorfo e relazionale e perfettamente
comprensibile all’interno dell’ontologia monista, attraverso le lenti di Spinoza,
Deleuze e Guattari, delle teorie femministe postcoloniali. Tale soggettività è
plasmata dalla vitalità relazionale e dalla complessità degli elementi che
caratterizzano lo stesso pensiero postumano.
La politica vitalista rompe chiaramente con la nozione, canonizzata dal
poststrutturalismo e dalla psicoanalisi, della supremazia della cultura e della
significazione sui processi di soggettivazione. Non vi è alcuna cattura originaria
e fatale del presunto soggetto neutrale da parte di una matrice del potere, si tratti
del fallo, del logos, della ragione trascendentale eurocentrica o della normatività
eterosessuale. Il potere non coincide con alcuna collocazione statica gestita da un
singolo proprietario incontrastato. La politica monista posiziona meccanismi
differenziali di distribuzione degli effetti del potere nel cuore della soggettività.
Tuttavia, questi molteplici meccanismi di potere generano forme multiple di
resistenza. Le formazioni di potere sono legate alla temporalità e di conseguenza
sono momentanee e contingenti rispetto all’interazione sociale. Movimento e
velocità, linee di sedimentazione e linee di fuga rappresentano i fattori principali
che influenzano la formazione del soggetto postumano non unitario.
La concezione nomade della soggettività è un buon punto di partenza, ma
occorre spingersi oltre, collegandola ad altri due concetti cruciali: il desiderio
inteso come pienezza e l’etica postumana. Il concetto del desiderio inteso come
pienezza e non come mancanza genera un approccio più trasformativo e meno
negativo al soggetto nomade e relazionale cui prima accennavo, ad esempio il
soggetto scisso della psicanalisi. Il soggetto nomade è un ramo della teoria della
complessità ed esso promuove una continua enfasi sull’etica radicale della
trasformazione. Questo non significa negare il ruolo che la contingenza storica e
i codici culturali giocano nei processi di soggettivazione, piuttosto significa
sottoporre questi fattori a un aggiornamento molto serio, alla luce delle loro
stesse strutture mutevoli e della loro composizione complessa. Come Deleuze e
Guattari hanno sostenuto nella loro disamina della psicoanalisi, il concetto di
simbolico di Lacan è fuori tempo, come una foto polaroid di un mondo passato
ormai del tutto mutato. Catturava un fotogramma congelato delle relazioni
familiari e intersoggettive nel momento storico in cui il capitalismo avanzato le
investiva con la sua forza centripeta. La natura biopolitica di questo sistema è
cresciuta in modo esponenziale dagli anni Settanta, plasmando nuove e radicali
forme di relazionalità intersoggettiva. Affermare il contrario significherebbe
accettare l’essenzialismo psicologico e condannare la nostra vita psichica
all’esclusione dalla storia e dalle trasformazioni sociali. La nostra psiche - con le
sue fantasie e i suoi affetti, le sue complicazioni dovute al desiderio - sarebbe per
sempre ferma in un limbo astorico, plasmata dai poteri autoreplicanti del
significato dispotico dominante. Per ogni materialista vitalista, questa triste
concezione del soggetto come disperatamente attaccato alle condizioni della sua
impotenza è semplicemente una rappresentazione inadeguata dei nostri processi
di divenire. Dobbiamo innalzarci all’altezza del presente e pertanto sentirci parte
della cultura contemporanea, essendo noi stessi soggettività incarnate e integrate
in questo mondo particolare. Lungi dal costituire una fuga dalla realtà, il
pensiero postumano inscrive il soggetto contemporaneo alle condizioni della sua
storicità.
La vita, per lo stesso motivo, non è una nozione metafisica, né un sistema
semiotico di significato; essa esprime se stessa in una molteplicità di atti
empirici: non vi è molto da dire, ma tutto da fare. La vita, semplicemente in
quanto vita, si esprime concretizzandosi in flussi di energia, attraverso codici di
informazioni vitali, sistemi e reti somatiche, culturali e tecnologiche. Per questo
motivo difendo l’idea dell’amor fati come modo per abbracciare i processi vitali
e l’intensità espressiva della vita che condividiamo con molteplici altri, qui e ora.
Etica postumana


Stiamo divenendo soggetti etici postumani grazie alle nostre plurime
capacità di intessere, relazioni di ogni sorta e modalità di comunicazione,
attraverso codici che trascendono il segno linguistico eccedendolo in ogni
direzione. In questo momento particolare della nostra storia collettiva, ignoriamo
semplicemente che cosa i nostri sé incarnati, le nostre menti e i nostri corpi
insieme siano realmente in grado di fare. Per capirlo abbiamo bisogno di
abbracciare un’etica fatta di sperimentazioni con le intensità. L’immaginazione
etica sopravvive e prospera grazie alle soggettività postumane, nella forma della
relazionalità ontologica. Un’etica sostenibile per soggetti non unitari poggia su
un senso allargato d’interconnessione tra sé e gli altri, compresi gli altri non
umani o della terra, da un lato attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato
dall’individualismo autocentrato, dall’altro attraverso la rimozione delle barriere
della negatività.
In altre parole, essere postumani non significa essere indifferenti agli umani
o essere disumanizzati. Al contrario, ciò implica piuttosto un nuovo modo di
combinare i valori etici con il benessere di una comunità allargata, che includa le
interconnessioni territoriali e ambientali di ciascuno. Questo è un legame etico di
un genere del tutto differente da quello dell’interesse personale del soggetto
individuale, come definito lungo le linee canoniche dell’umanesimo classico, o
dall’universalismo morale dei kantiani e dalla loro fiducia verso l’estensione dei
diritti umani a tutte le specie, a tutte le entità virtuali e tutte le composizioni
cellulari (Nussbaum, 2007). La teoria postumana inoltre sceglie per la relazione
etica radici positive, quali i progetti e le attività condivise, non radici negative o
reattive postulate, per esempio, sulla comune vulnerabilità.
Questa visione processuale del soggetto ha portata universalistica,
nonostante rifiuti l’universalismo morale e cognitivo. Essa esprime una forma di
responsabilità radicata e parziale, basata su di un forte senso della collettività e
della relazionalità, che si traduce in una rinnovata richiesta di comunità e di
appartenenza da parte delle singolarità soggettive. Lloyd si riferisce a tali
rivendicazioni situate localmente e microuniversaliste con l’espressione moralità
cooperativa (Lloyd 1996, 74). I criteri indicati per questa nuova etica includono:
il principio del no-profit; l’enfasi sul collettivo; l’accettazione della relazionalità
e delle contaminazioni virali; i tentativi concertati per sperimentare e
concretizzare opzioni virtuali e potenziali; la nuova connessione tra teoria e
pratica; il ruolo centrale della creatività. Tali criteri non rappresentano giudizi
morali, bensì cornici dinamiche per esperimenti continui con le energie
intensive. Vanno praticati dalla collettività al fine di produrre efficaci cartografie
di quanto i corpi possono sostenere, ecco perché le chiamo anche soglie di
sostenibilità (Braidotti 2008a), le quali mirano a creare legami collettivi e una
nuova comunità politica affettiva.
La nozione chiave dell’etica nomade postumana è la trascendenza della
negatività. Concretamente, ciò significa che le condizioni per un rinnovamento
etico e politico non possono essere ricavate dal contesto prossimo o dallo stato
attuale delle cose, neppure attraverso l’opposizione dialettica. Devono invece
essere generate affermativamente e creativamente attraverso progetti orientati
alla costituzione di futuri possibili, alla mobilitazione delle risorse e delle visioni
non ancora sfruttate, attraverso la loro concretizzazione in pratiche quotidiane
d’interconnessione con l’alterità. Questo progetto esige un’elevata potenza
visionaria o un’energia profetica, qualità che non sono particolarmente in voga
nel circuito accademico, né molto apprezzate dalla scienza in questi tempi di
perseguimento forzato dell’eccellenza globalizzata e quantificata. Eppure,
l’invito all’elaborazione di nuove prospettive emerge da più settori della teoria
critica. Fin dall’inizio, Joan Kelly (1979) ha definito la teoria femminista come
una visione a doppio taglio con uri accentuata finalità critica e uri altrettanto
accentuata funzione creativa. Questa dimensione creativa è rimasta cruciale
(Haraway 2000, 2003; Rich 2001), perciò essa costituisce il nucleo affermativo e
innovativo delle epistemologie radicali del femminismo, degli studi postcoloniali
sulla razza e il genere. La fiducia nei poteri creativi dell’immaginazione è parte
integrante della fede che il femminismo colloca nell’esperienza vissuta e nelle
radici corporee della soggettività, le quali esprimono le singolarità complesse
che i soggetti femministi sono diventati. La creatività concettuale sarebbe
semplicemente inimmaginabile senza la spinta visionaria.
Coloro che sono in grado di pensare il futuro hanno cervelli profetici e
visionari. Il futuro come oggetto attivo del desiderio non solo ci spinge in avanti,
ma ci esorta anche a impegnarci qui e ora, nel presente continuo che esige sia
resistenza che contro-attualizzazione delle alternative. L’aspirazione a futuri
sostenibili può spingerci a costruire un presente vivibile in modo dignitoso.
Questo non è un atto di fede, ma una trasposizione attiva, una metamorfosi che
avviene molto in profondità (Braidotti 2008a). Una dimensione profetica e
visionaria è necessaria per garantire un approccio positivo al presente, quale un
trampolino di lancio per divenire sostenibili e trasformazioni qualitative della
negatività e dell’ingiustizia del presente. Il futuro è l’apertura virtuale della
positività del presente, merita i nostri sforzi e il nostro obbligo nei confronti
delle generazioni a venire.
Politica affermativa


I progetti collettivi diretti all’affermazione sociale del possibile e quindi della
speranza, sono radicati nelle micro-pratiche ordinarie della vita quotidiana, in
quanto strategie per organizzare, sostenere e documentare le trasformazioni
sostenibili. La ragione della costruzione sociale della speranza si trova nel senso
di responsabilità intergenerazionale. L’elementare gratuità e il senso di speranza
sono parte di questa strategia. La speranza è un modo per sognare possibili
futuri: una virtù anticipatrice che permea e attiva le nostre vite. Si tratta di una
potente forza motivatrice basata non solo sui progetti che mirano a ricostruire
l’immaginario sociale, ma anche sull’economia politica dei desideri, degli affetti
e della creatività che la sottendono.
Le pratiche attuali della soggettività postumana operano per un approccio più
affermativo alla teoria critica. Oltre le concezioni unitarie del soggetto e le
interpretazioni teleologiche dei processi di soggettivazione, il pensiero
postumano può sostenere i soggetti contemporanei nei loro sforzi di
sincronizzazione con il mondo in metamorfosi nel quale tentano di intervenire in
modo positivo. Ad esempio, contro la tradizione istituita del nazionalismo
metodologico, si può ricorrere a un differente stile di pensiero che rifiuti l’euro-
universalismo e che creda invece nei poteri della diversità planetaria. Dobbiamo
ricorrere all’affettività, alla memoria e all’immaginazione per adempiere al
compito cruciale d’inventare nuove figurazioni e nuove rappresentazioni dei
soggetti complessi che siamo diventati. La scienza medesima è socialmente
informata ed ecologicamente integrata, dal momento che non si sviluppa lungo
assi nazionalistici, bensì nella rete nomade di connessioni postumane con la terra
tutta.
Il divenire postumano è di conseguenza un processo di ridefinizione del
senso di connessione verso il mondo condiviso e l’ambiente: urbano, sociale,
psichico, ecologico o planetario che sia. Esso esprime multiple ecologie
dell’appartenenza, mentre innesca la trasformazione delle coordinate sensoriali e
percettive, al fine di riconoscere la natura collettiva e l’apertura verso l’esterno
di ciò che ancora chiamiamo soggetto. Tale soggetto è infatti un assemblaggio
mobile in uno spazio di vita condiviso che non controlla né possiede, ma che
semplicemente occupa, attraversa, sempre in comunità, in gruppo, in rete. Per la
teoria postumana il soggetto è un’entità trasversale, pienamente immersa in e
immanente a una rete di relazioni non umane (animali, vegetali, virali). Il
soggetto incarnato zoe-centrato è preso in collegamenti relazionali di tipo virale
e contagioso che lo interconnettono a una vasta gamma di altri, partendo dagli
eco-altri fino a includere l’apparato tecnologico.
Questo filone non essenzialista del vitalismo riduce la hybris della coscienza
razionale, cosa che lungi dal rappresentare un atto di trascendenza verticale
promuove piuttosto un ritorno all’esercizio fondamentale dell’immanenza
radicale. Tale atto ricolloca il soggetto nel mondo, mentre riavvolge il mondo
all’interno dello stesso. E se la coscienza fosse, infatti, solo un altro modello
cognitivo di rapportarsi al proprio ambiente e agli altri? E se, a confronto con
l’abilità immanente degli animali, l’autorappresentazione cosciente fosse
contaminata dal delirio della trascendenza e di conseguenza accecata dalla sua
stessa aspirazione all’autotrasparenza? E se la coscienza fosse, in ultima istanza,
incapace di trovare un rimedio al suo male oscuro, questa vita, zoe, una forza
impersonale che ci muove senza chiedere il nostro permesso di farlo? Zoe è una
forza inumana che si estende oltre la vita, verso nuovi approcci vitalisti alla
morte intesa come evento impersonale. Quest’ontologia processuale centrata
sulla vita conduce il soggetto postumano a confrontarsi lucidamente con i suoi
limiti, senza cedere al panico o alla malinconia. Si afferma una spinta etica laica
verso modalità di relazione che migliorano e conservano la propria capacità di
rinnovare e ampliare i confini di cosa i soggetti nomadi e trasversali possono
diventare. L’ideale etico è quello di attualizzare gli strumenti cognitivi, affettivi e
sensoriali per coltivare un maggior grado di responsabilizzazione e di
affermazione delle interconnessioni di ciascuno nella loro molteplicità. La
selezione delle forze affermative che catalizzano il processo del divenire
postumano è regolata da un’etica della gioia e della positività che opera tramite
la trasformazione delle passioni negative in passioni positive.
Filosofia del fuori in senso stretto, di spazi aperti e di affermazioni incarnate,
il pensiero postumano nomade anela a un salto di qualità fuori dal familiare,
confida nelle possibilità, ancora inesplorate, aperte dalla nostra posizione storica
nel mondo tecnologicamente mediato di oggi. È un modo per essere all’altezza
dei nostri tempi, per accrescere la nostra libertà e la nostra comprensione delle
complessità che viviamo, in questo mondo non più antropocentrico né
antropomorfo, bensì geopolitico, eco-filosofico e fieramente zoe-centrato.
Postumano, troppo umano


Nell’introduzione ho affermato che la nostra relazione al postumano dipende
in larga misura da come ciascuno si relazioni all’umano in primo luogo. Ho
mostrato senza riserve la mia propensione all’antiumanesimo lungo tutto il libro;
il mio interesse per il postumano è direttamente proporzionale al senso di
frustrazione che suscitano in me l’umano, le risorse e i limiti troppo umani che
delimitano le nostra intensità personali e collettive. Ciò che ho provato a
descrivere in questo libro rivela un senso di anticipazione ma anche un tocco
d’impazienza. Innegabilmente, l’egualitarismo vitalista di zoe esercita la sua
forza attrattiva in modo più acuto su coloro che hanno perso interesse e si sono
allontanati dall’antropocentrismo che è implicito nel pensiero umanista, ma
anche dai residui umanisti della sinistra politica, del femminismo e delle teorie
postcoloniali. Io vivo il tempo delle battute finali del biopotere, ovvero vivo nel
mezzo dell’implacabile necropolitica che consuma tutti gli esseri viventi. Mi
impegno a iniziare da qui, non dalla restaurazione nostalgica di un modello
onnicomprensivo trascendentale, non dall’elogio dei margini né da un ideale
olistico. Desidero pensare a partire dal qui e ora, da mia sorella Dolly la pecora e
dall’oncotopo, mia divinità totemica; dai semi dispersi alle specie in estinzione.
E anche, simultaneamente e senza contraddizioni, dagli sconcertanti mezzi
generativi, inaspettati e implacabili grazie ai quali la vita - bios e zoe compresi -
riprende continuamente a lottare. Questo è il tipo di materialismo che fa di me
una pensatrice postumana fino al midollo e, in pratica, una felice membra delle
svariate specie da compagnia (Haraway, 2003). Non ho nessuna nostalgia per
l’Uomo, misura presunta di tutte le cose, o per le forme del sapere e
dell’autorappresentazione che lo accompagnano. Accolgo ben volentieri gli
orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e
androcentrico. Interpreto la svolta postumana come una felice opportunità di
decidere insieme cosa e chi possiamo divenire, una possibilità unica per
l’umanità di reinventarsi in senso affermativo, attraverso la creatività e il
miglioramento delle relazioni etiche, e non solo in senso negativo, attraverso la
vulnerabilità e la paura. Tale svolta postumana rappresenta il momento
opportuno per riconoscere le possibilità di resistenza e potenziamento su scala
mondiale.
Ho dato gli ultimi ritocchi a questo manoscritto proprio mentre le Olimpiadi
di Londra 2012 erano in pieno svolgimento. Sensazionale in questi giochi è stata
la performance dell’atleta giamaicano Usain Bolt, che ha corso i 100 metri
maschili in 9.63 secondi, a una velocità media di 38 km orari; inoltre ha corso i
200 metri in 19.32 secondi; e con la sua squadra, ha corso la staffetta di 400
metri in 36.84 secondi, segnando un record mondiale. La sua velocità, tale da
sfidare le nostre capacità di comprensione, ha infiammato la fantasia del mondo
globalmente connesso. Anche se si è previsto che questo straordinario corridore
batta il suo miglior record personale almeno di un paio di secondi, è
comunemente riconosciuto che la prestazione sovrumana di Usain Bolt ha
ampliato i confini di ciò che il corpo umano è in grado di raggiungere in questo
momento presente della nostra storia. Rimane da capire se questi confini
finiranno per rappresentare un ostacolo fisiologico insormontabile, un limite
autoimposto dalla collettività o piuttosto la soglia di cambiamenti potenziali dei
nuovi corpi a venire.
Durante gli stessi giochi olimpici, l’atleta sudafricano Oscar Pistorius è
entrato nella storia come il primo doppio amputato della competizione. Benché
la lotta per qualificarsi sia stata lunga e controversa, e l’atleta non abbia vinto
alcuna medaglia, Pistorius è stato il primo essere umano potenziato a correre su
fibre transtibiali e arti artificiali di carbonio34, e a tenere valorosamente il campo
contro i fastidiosi bipedi naturali. Opinione comune è il fatto che la performance
di Pistorius sia stata diversamente umana, e questo ci dà conferma di come
quella postumana sia oggi una questione aperta. Rimane da capire che tipo di
futuro e che tipo di scenari caratterizzeranno i tempi postumani35.
Al confronto con trasformazioni di tale portata, è urgente organizzare una
nuova agenda postumana. I confini e i limiti dei corpi devono divenire oggetto di
discussione collettiva e di decisione da parte delle istituzioni plurime della
politica e della società civile, in modo tale da non assumere, per inerzia o per
paura, la centralità, tantomeno l’universalità, dei principi umanisti
antropocentrici. Abbiamo bisogno, adesso, di imparare a pensare differentemente
a noi stessi e di sperimentare nuovi modelli di pensiero per rendere conto di cosa
costituisca l’unità di riferimento comune dell’umano. Per questo motivo ho
insistito tanto in questo libro sulla questione della soggettività: ci servono nuove
griglie per mettere a fuoco punti di riferimento comuni e nuovi valori, per venire
a patti con le trasformazioni sconcertanti cui stiamo assistendo. Questo libro
nasce dalla convinzione che i soggetti postumani all’inizio del terzo millennio,
nelle loro molteplici e diverse collocazioni, siano perfettamente in grado di far
fronte alla sfida rappresentata dal presente, a condizione che lo facciano in uno
sforzo collettivo e nell’orizzonte di un progetto comune. La prassi concreta e
attualizzata è il modo migliore per affrontare le nuove possibilità che si
dispiegano sotto i nostri occhi, come risultato dei nostri progressi scientifici,
sostenuti collettivamente.
La corporalità umana e la soggettività stanno oggi vivendo una profonda
trasformazione. Come chiunque viva in un’epoca di cambiamenti, non siamo
sempre lucidi e attenti rispetto a dove ci stiamo dirigendo, o capaci di spiegare
cosa sta esattamente avvenendo intorno a noi. Alcuni di questi eventi provocano
in noi soggezione e paura, mentre altri ci fanno sussultare per la gioia: come se il
nostro contesto attuale continuasse a spalancare le porte della percezione
collettiva, costringendoci a udire il frastuono dell’energia cosmica che si trova
dall’altro lato del silenzio e ad ampliare la portata di ciò che è diventato
possibile. È inquietante, ma anche esilarante confrontarsi quotidianamente con
cambiamenti vertiginosi, con l’immensità dei nuovi orizzonti che ci ricordano,
volente o nolente, che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Non c’è da
stupirsi che molti di noi girino le spalle a tutto questo, preferendo riparare nei
luoghi comodi e rassicuranti della stupidità, come George Eliot aveva
profeticamente intuito.
Eppure la pecora Dolly è reale, non è un personaggio della fantascienza ma
il risultato della ricerca scientifica, dell’immaginario sociale attivo e di solidi
investimenti finanziari. Nonostante sia noto come Blade Runner, Oscar Pistorius
non sogna pecore elettroniche. Le reti di trasporti globali nei maggiori centri
metropolitani ci hanno abituato a treni senza conducenti e i dispositivi elettronici
portatili sono così potenti che stentiamo a tenere il passo con loro. Umane,
troppo postumane, tutte queste estensioni e queste protesi che i nostri corpi sono
in grado di sostenere sono già qui e qui resteranno. Stiamo andando al passo con
i nostri sé postumani, o vogliamo continuare a indugiare in una cornice teorica e
immaginativa sospesa e confusa rispetto all’ ambiente reale in cui viviamo?
Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire una versione disutopica del
peggiore degli incubi modernisti. Non è neppure il delirio transumanista della
trascendenza dai corpi umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo
immersi: l’immanente hic et nunc del pianeta postumano; uno dei possibili
mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato dei nostri
sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei
mondi postumani possibili.
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Note

1. «The Guardian Weekly», 11-17 settembre 2003, p. 5.

2. «The Daily Telegraph», 21 ottobre 2011.

3. R. Braidotti et al, Baby boomers. Vite Parallele dagli anni cinquanta ai


Cinquant’anni, Giunti, Firenze 2003.

4. Nonostante Sartre e de Beauvoir non fossero membri del Partito comunista


francese.

5. Il rifiuto di Deleuze della visione trascendentale del soggetto; il


decentramento del fallologocentrismo di Irigaray; la critica dell’umanesimo di
Foucault; la decostruzione dell’eurocentrismo di Derrida.

6. Si vedano ad esempio Irigaray (1990b), Cixous (1997), Braidotti (1994).

7. Questo approccio è stato inoltre adottato dall’analisi intersezionale, che


sostiene il parallelismo metodologico di genere, razza, classe e fattori sessuali,
senza appiattire le differenza piuttosto questionando politicamente il problema
della loro complessa interazione (Crenshaw 1995).

8. Le tre leggi sono: (1°) Un robot non può recar danno a un essere umano, né
permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno.
(2°) Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che
contrastino con la Prima Legge. (3°) Un robot deve proteggere la propria
esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge. Queste
leggi furono approntate da Isaac Asimov per un breve racconto del 1942 e poi
riproposte per il best-seller mondiale: I Robot, del 1950. Sono divenute nozioni
fondamentali dei cyborg-studies. Più tardi Asimov vi aggiunse una quarta legge,
presupposto di tutte le altre: (0) Un robot non può recar danno all’umanita, o a
causa della propria negligenza, permettere che l’umanità patisca danno.

9. Esempi significativi sono: letica diasporica di Avtar Brah (1996), gli echi del
neoumanesimo antiglobalizzazione di Vandana Shiva (1999). L’umanesimo
africano, detto anche Ubuntu, sta ricevendo crescente attenzione da Patricia
Collins (1991) a Drucilla Cornell (2002). Con un accento più nomade, la politica
della relazione di Edward Glissant (1997) inscrive nel cuore della condizione
postumana l’ibridismo multilinguista. Il «secolarismo subalterno» di Homi
Bahaba (1994) si articola intorno all’enorme eredità di Edward Said.

10. Come Morin (1988), Passerini (1998), Balibar (2004) hanno inoltre mostrato.

11. Il gruppo di Althusser cominciò la discussione nel 1960, lo studio apripista di


Deleuze su Spinoza risale al 1968 (in inglese al 1990); l’analisi di Hegel e
Spinoza condotta da Machery fu pubblicata nel 1979 (in inglese nel 2011),
l’opera di Negri sull’immaginazione in Spinoza risale al 1981 (in italiano al
1980, in inglese al 1991).

12. Si ringrazia Jose van Dijck per questa espressione.

13. Il termine fu coniato dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel 2002.
Il suo uso è ampiamente diffuso e condiviso.

14. Questo è il titolo della serie di libri on-line che Colebrook pubblica per la
Open Humanities Press.

15. D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, «Critical Inquiry»,


35,2009, pp. 197-222.

16. Il termine wetware è utilizzato per descrivere l’interazione tra il cervello


umano e il software. Nel linguaggio comune indica il cervello inteso come
insieme di capacità logiche e computazionali dell’essere umano.

17. Film del 1924, circolato in Italia con il titolo Futurismo.

18. Future Ève è un racconto di Villier de l’lsle-Adam, pubblicato per la prima


volta nel 1886.

19. Entità che ricorda il perturbante di Freud, il reale di Lacan, l’abiezione di


Kristeva (1982).

20. Si veda, ad esempio il Centre for Death and Society all’Università di Bath
nel Regno Unito. Diverse riviste testimoniano la vitalità di questo campo. Si
vedano tra gli altri: Death Studies (Routledge 1970, riedito nel 1985 ), Journal of
Death and Dying (Baywood Publishing 1970), Journal of Near-Death Studies
(1978).

21. Tra i quali: Deleuze e Guattari (1975; 2006), Guattari (2007), Glissant
(1997), Balibar (2004), Hardt e Negri (2002).

22. La Boston Dynamics è una società di ingegneria e robotica meglio


conosciuta per lo sviluppo di BigDog, un robot quadrupede progettato per
l’esercito statunitense, con il finanziamento del DARPA, e per il DI-Guy, un
software molto realistico per la simulazione umana. Marc Raibert è il presidente
della società e il responsabile del progetto. Egli separò la società dal
Massachusetts Institute of Technology nel 1992.

23. Questo aspetto della diversità globale è anche detto cosmopolitismo locale
(Bhaba 1996b; Nava 2002; Gunew 2004; Werbner 2006).

24. www.citizensciencealliance.org.

25. Un compendio degli Animal studies è stato pubblicato da poco (Gross e


Valley 2012), mentre un’antologia completa sull’ecocriticismo è già disponbile
da tempo (Glotfley e Fromm 1996). Il «Journal of Eco-criticism» è abbastanza
diffuso, mentre un recente numero dei prestigiosi quaderni «PMLA» (2009) è
dedicato al tema degli animali. Per un ottimo resoconto storico si veda Joanna
Burke (2011). Per la più giovane generazione di studiosi (Rossini e Tyler 2009)
l’animale simboleggia la condizione postumana per eccellenza. Ancora, l’ambito
dei disability studies è troppo vasto per essere riassunto adeguatamente, con la
sua istituzionalizzata Società dei disability studies che pubblica un
quadrimestrale e un’antologia (Lenard, 1997).

27. Sono debitrice per questa felice espressione a Debjani Ganguly e Paul Holm.

28. www.onehealthinitiative.com/mission.php; un ringraziamento al mio collega


Anton Pijpers.

29. Si pensi, ad esempio, al Posthumanities Hub dell’università di Linkoping,


fondato dal governo svedese; alle ricerche condotte dall’Institue of Advanced
Study in Humanities and Social Sciences dell’Università di Berna in Svizzera;
alle sperimentazioni dell’Università East London della Gran Bretagna; al mio
lavoro presso il Centre for the Humanities all’università di Utrecht in Olanda.

30. Si vedano Gilroy (2000), Hill Collins (1991), Ware (1992), Griffin e
Braidotti (2003).

31. Per un eccellente resoconto critico della nozione di oggettività si veda


Daston e Galison (2007).

32. Per un aggiornamento critico della visione di Kant dell’università, si veda


Lambert (2001).

33. Anders Behring Breivik è il pluriomicida norvegese, reo confesso degli


attacchi del 2011 a Oslo e sull’isola di Utoya, che ha ucciso prima otto e poi
sessantanove persone, in maggioranza giovani socialisti.

34. Si tratta di Cheetah Flex-Foot disegnati dalla ditta Ossur.

35. Un anno dopo questa storica prestazione, Pistorius tornerà alla ribalta
mondiale in negativo, accusato dell’assassinio della fidanzata.
Appendice
Oltre la nostalgia.
Per un’etica postumana affermativa

Intervista a Rosi Braidotti

di Libera Pisano

Lo Sguardo - rivista di filosofia


N. 15, 2014 (II) - La “differenza italiana”

***
Introduzione

Rosi Braidotti è una filosofa e teorica femminista. Docente all’università di


Utrecht dove insegna Women’s Studies e ha fondato e dirige il Centre for the
Humanities, è una delle voci più originali e provocatorie nel panorama filosofico
contemporaneo. Allieva di Foucault, Irigaray e Deleuze, è autrice di numerosi
saggi ampiamente discussi in tutto il mondo: da Dissonanze a Trasposizioni, da
In metamorfosi a Madri, Mostri e Macchine, da Nuovi soggetti nomadi a Baby
Boomers. Braidotti ha unito ad un’ontologia politica spinoziana il
posizionamento femminista, una riflessione sul soggetto nomade e sul
postumano. La sfida che lancia nel suo ultimo libro (Il postumano. La vita oltre
l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, trad. it. di A. Balzano, DeriveApprodi
2014) è filosofica, etica e politica: il postumano è un momento storico a cui non
possiamo sottrarci, ma anche uno strumento ermeneutico per tener conto della
complessità, ripensare lo statuto dell’umano e progettare nuovi schemi sociali,
etici e discorsivi per la formazione del soggetto. Dalle macerie dell’umanesimo
Braidotti cerca un’etica affermativa, radicata e responsabile. Questo è un libro
che si congeda dalla nostalgia e parla di speranza, dalla paura all’entusiasmo,
dalla tecnofobia a una tecnofilia, dalla chiusura all’apertura, dalla morte alla vita.
Intervista

Nelle pagine del suo ultimo lavoro, Il postumano. La vita oltre l’individuo, Lei
elabora una teoria postumana della soggettività incarnata, materialistica,
vitalista, polimorfa e relazionale. Coerentemente con una tradizione
antiumanista e antiantropocentrica che disconnette l’agente umano
dall’universalismo, la sua proposta filosofica si fonda sull’estensione del
concetto di vita e sullo spostamento radicale dalla negatività alla positività della
zoe, intesa come ciò che eccede l’umano, energia e spazio di resistenza, quasi un
motore ontologico. Lei sostiene che «l’egalitarismo zoe-centrato è il nucleo
della svolta postantropocentrica». Potrebbe spiegarci allora come si definisce il
suo postumano critico in relazione a questa estensione del concetto di zoé?

Braidotti: Il fronte della ricerca sul postumano è abbastanza vasto. Si tratta


di un contenitore che presenta tantissimi aspetti anche molto discordanti e
contraddittori fra di loro. C’è un postumano generato dal capitalismo avanzato
puramente opportunistico, che è una specie di appiattimento delle differenze con
lo scopo di commercializzare tutto ciò che vive. C’è un postumano analitico che
si limita ad osservare lo spiazzamento dell’antropocentrismo senza dedurne nulla
né sul piano etico, né sul piano politico, né su quello delle teorie della
soggettività, anzi soprattutto nel lavoro di Bruno Latour questo postumano
analitico evita accuratamente di parlare di soggettività, facendone quasi un
lavoro di cancellazione. C’è poi un postumano molto banale a lavoro nelle nuove
scienze, nella biologia sintetica, nelle nuove teorie dell’evoluzione. Quindi ci
sono tantissimi aspetti in questa galassia postumana, ma io ho voluto fare una
geneaologia molto precisa del postumano che è quella delle ontologie monistiche
più o meno derivate da Spinoza, riletto e filtrato attraverso il lavoro dei filosofi
francesi degli anni Sessanta in poi: Macherey, Balibar, tutti gli studenti
essenzialmente di Althusser, Deleuze, il primo Negri etc. Questo postumano per
me si poggia su un’ontologia monistica, quindi su una visione della materia
come continua, vitale, autopoietica e capace di organizzarsi. A partire da questo
cerco di rileggere sia gli spiazzamenti dell’antropocentrismo che derivano da
questo approccio, sia le novità specifiche della nostra epoca ovvero il fatto che
questa materia vitale e intelligente si è fatta sottomettere alla legge del mercato
ed è diventata il capitale odierno. Questo legame tra zoe, vita non umana,
materia, «materia-realismo» e il postumano mi serve per dare alla mia teoria una
base ontologica che mi permetta di fare tuttora un discorso sul soggetto e sulla
soggettività.

Nel terzo capitolo c’è una bellissima fenomenologia della morte, della
guerra e del warfare. Lei sostiene che «biopolitica e tanatologia sono le due
facce della stessa medaglia». La riflessione su thanatos conduce ad una teoria
postumana della morte come continuum, ricompresa nella concezione
spinoziana della vita e dell’immanenza radicale. Ripensare la zoe significa
anche ripensare la morte. In che termini questa è anche una presa di distanza
dalla biopolitica contemporanea?

Braidotti: La questione del biopolitico è molto complicata sia sul piano della
ricerca vera e propria, sia sul piano propriamente politico. Nel senso che se
prendiamo il lavoro del mio maestro Foucault, la biopolitica è essenzialmente un
discorso di stampo genealogico analitico. È una sua lettura delle grandi
trasformazioni del capitalismo avanzato: come siamo passati da un sistema di
dominio selvaggio di sovranità assoluta ad un sistema che esercita il potere
prendendosi cura della vita in noi che non ci appartiene perché è la vita della
specie, della razza, della nazione, della comunità. Questa è l’operazione
foucaultiana ed è in un certo senso molto limitata, anche dallo stesso rigore
scientifico di Foucault, che appoggia le sue analisi su letture e lavori d’archivio
molto specifici. Ne fa d’altronde uno strumento analitico che gli permetta di
analizzare le mutazioni in corso del capitalismo, mutazioni che i francesi captano
molto presto: negli anni Sessanta e Settanta già capiscono che stiamo entrando in
una società dell’informazione. Pensa che Guy Debord scrive la Società dello
spettacolo nei primi anni Sessanta ed è la prima analisi della cultura mediatica;
Roland Barthes fa la prima critica delle immagini, la famosa analisi di Paris
Match nel ’57.
I francesi capiscono molto presto che il capitalismo sta diventando una
società dell’informazione e quindi si staccano dalla teoria marxista classica, che
invece continua ad analizzare il sistema di produzione diciamo ‘classico’ della
cultura industriale e ci metterà dei decenni ad arrivare al ‘lavoro immateriale’ del
post-fordismo, di cui parlano oggi Hardt e Negri e tutta la scuola italiana. Inoltre,
l’importanza dei poststrutturalisti francesi è stata di averla fatta finita con la solfa
del crollo del capitalismo, basato sulla teoria hegeliana della storia in cui è
inevitabile che esso incontri le proprie contraddizioni. Mentre tutto il fronte neo-
spinoziano-spinozista francese sostiene che il capitalismo non si spacca, il
capitalismo si piega e si adatta.
Quello di Foucault sul biopolitico è quindi un intervento molto limitato, ma
fortissimo sul piano concettuale. Il dopo Foucault è quello che va analizzato
perché c’è tutta un’esplosione di studi, di lavori, di ricerche politiche che si
riferiscono a lui, ma in maniera molto contraddittoria e spesso indiretta.
Da una parte c’è Paul Rabinow, Nick Rose, tutta la scuola californiana e
inglese che fa di questa teoria del biopolitico una critica di un certo tipo di
politica neoliberale-neoliberista. Appoggiandosi all’ultima fase del pensiero di
Foucault – quella dell’etica e delle tecnologie del sé – questa scuola da una parte
critica le condizioni attuali, ma dall’altra offre una reinterpretazione kantiana di
Foucault. Rabinow parte da bios per sviluppare una linea di pensiero critico e
una forma di resistenza politica al capitalismo avanzato.
Mentre Nick Rose, soprattutto, ci incoraggia a trasformare il biopolitico in
schema normativo e sprona un nuovo senso di responsabilità morale per la vita
che è in noi e non ci appartiene, la vita della specie, della razza e del nostro
capitale genetico. Un discorso analogo in Italia lo sta facendo Esposito, però qui
si va ben oltre le premesse originali di Foucault. Per restare sempre in campo
italiano, Agamben lancia tutta la riflessione che, parte dall’intuizione di Foucault
sugli elementi necro-politici all’interno della bio-politica, ma ne fa uno strano
cocktail, aggiungendovi un discorso schmittiano sulla politica come pratica
fondata sulla dicotomia amico-nemico. Questa posizione è davvero molto
diversa dal discorso di Foucault e ci porta inevitabilmente al confronto con la
morte. La mortalità intesa come l’orizzonte del nostro divenire è un’idea di
stampo molto heideggeriano, che non ha nulla a che vedere né con Foucault, né
con tutti gli spinozisti francesi. C’è poi invece uno spiegamento delle premesse
del biopolitico che si scontra con i limiti di questa teoria e questo ci esorta a
guardar oltre il maschilismo implicito, il razzismo intrinseco e
l’antropocentrismo manifesto di questa premessa.
Deleuze e Guattari offrono una critica ai limiti di bios, sostenendo che la vita
non è solo umana, ma anche non umana.

Ecco, ma nel ripensare in questi termini la zoe, non si corre forse il rischio
di cadere in una concezione teologica e sacrale della vita?

Braidotti: Guarda, questo slittamento dal bios a zoe, dalla vita come
fenomeno antropocentrico alla vita come privilegio di tutto ciò che esiste, umano
e non umano, spiazza non solo le frontiere tra uomo e animale, uomo e piante,
vegetale e le varie classificazioni, ma anche le visioni temporali.
Il tempo è infatti estremamente importante. Io penso che la grandezza di
Deleuze sia quella di aver incrociato Spinoza con Bergson, di aver fatto un
discorso sulla continuità della materia con un discorso sulla continuità del
tempo. È fondamentale perché questo presente continuo che cristallizza il
passato in atti, avvenimenti che possono solo essere presenti ma aprono le
frontiere dell’avvenire, questo spostamento temporale cambia tutta la
discussione sia sulle origini, sull’eredità e su tutto il discorso della genetica e
della nostra appartenenza a scale temporali che ci precedono – il nostro codice
genetico è la memoria cumulata nella nostra specie che si svolge e si dispiega
dentro di noi, ma non è controllata da noi –, sia sull’avvenire che ci porta
inevitabilmente alla questione della morte cioè della cancellazione
dell’individuo. Questo è uno dei punti più forti secondo me dell’ontologia
spinoziana-spinozista, che per Deleuze diventa la differenza tra la morte
personale e la morte impersonale: ciò che viene cancellato è la presenza di sé,
dell’io individuale, ma la vita ovviamente va allegramente avanti come
insegnano tutti i pensatori vitalistici dell’antichità. I processi vitali di
trasformazioni e di metamorfosi continuano. Questa spaccatura fra morte
individuale e morte impersonale è anche un modo per rispondere a tutto il
romanticismo della morte degli heideggeriani e neo-heideggeriani e di restare
profondamente attaccati a ciò che io chiamerei la laicità della materia, perché
qui non c’è assolutamente teologia trascendentale di qualsiasi tipo. Non esiste
alcun riferimento ad una verticalità, per parlare come Irigaray, del divino che ci
porta a riflettere su orizzonti possibili e immaginabili altrove. C’è invece uno
sprofondare nella materia: quando il corpo diventa cadavere, diventa materia
pura che si dissolve, che si brucia, che si decompone, che diventa altro. Qui
siamo molto più vicini a Lucrezio, che non ai deliri di eternità della teologia
cristiana. C’è una specie di lucidità quasi crudele in questo rapporto con la morte
che io trovo molto salutare in un’epoca come la nostra che è assolutamente
sprofondata dentro la morte, ma continua a mettere l’accento sulla vita, la
giovinezza, il benessere fisico e psichico, facendone quasi degli imperativi
morali. Invece il discorso sulla morte impersonale, quindi della continuità dei
processi vitali al di là dell’individuo o dell’organismo costituito, mi sembra un
approccio molto sobrio e crudele allo stesso tempo, che ci permette di non stare
a compiangere troppo il nostro triste destino individuale mortale. Blanchot è
molto importante a questo riguardo: la morte come evento che è sempre già
impresso in noi, la morte come avvenimento che, a livello di presa di coscienza,
è già accaduto, sta alle nostre spalle, non davanti a noi. La mia posizione è
veramente all’opposto del campo heideggeriano.

La vita che va oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte. Va anche oltre
il genere. Lei scrive che «occorre ripensare la sessualità senza generi». Come si
concilia tutto questo con il posizionamento femminista? Come si può parlare di
un genere postumano?

Braidotti: Secondo me è fondamentale questo spostamento che si sta


mettendo in campo ormai da decenni. Sono ormai vent’anni che avvengono
queste discussioni fra il fronte queer di derivazione psicoanalitica lacaniana e
derridiana, un po’ monumentalizzato nella figura di Judith Butler, e il fronte
delle perversità complessa materialista spinozista-deleuziano. Per una politica
economica deleuziana, per chi legge il capitalismo avanzato come un
meccanismo di cattura delle forze-intensità che sono incorporate e attualizzate in
soggettività – che noi chiamiamo individuali, ma che invece in termini
deleuziani sono sempre trasversali o collettive –, per questo tipo di
impostazione, il genere è uno dei molti meccanismi di cattura che sono attivi nel
campo di questo sistema di mercato nel quale noi viviamo. Uno dei meccanismi
di cattura, non IL meccanismo assoluto, primordiale, principale.
Questo è fondamentale ed è la spaccatura reale tra Lacan da un lato e
Deleuze e Guattari dall’altro. Se si leggono i primi capitolo dell’Antiedipo, la
questione è più che mai chiara. Per Lacan, così come in un altro modo per
Derrida – ma sono molto vicini – esiste davvero una matrice originale del potere:
c’è IL momento in cui uno è catturato, IL momento in cui uno cade sotto la scure
del significante principale, del fallologocentrismo, del significante maestro e
magistrale, che è il fallo per Lacan. IL momento, LA matrice del potere, tutto
coniugato al singolare. Non è altro che la matrice hegelo-marxiana sia della
psicoanalisi, che i filosofi francesi apprendono tramite Kojève, sia della
decostruzione derridiana. Questo schema di pensiero porta, come nel lavoro
della mia grande amica Judith Butler – che amo molto, ma con la quale non sono
mai d’accordo –, inevitabilmente alla malinconia, alla perdita, al lavoro del lutto,
che è una perdita primordiale e definitiva dalla quale non si torna indietro. Per
Deleuze, e questo lui lo dice chiarissimamente in Logica del senso, nell’
Antiedipo e in tutti i lavori successivi, non esiste LA matrice del potere. Siamo
nel dopo Foucault e Deleuze e Guattari scrivono il più bel libro su Foucault: il
potere è una situazione strategica continua, non è il peccato originale, non è
l’istante della caduta dell’uomo che nel momento in cui entra nel campo del
simbolico poi ne esce mutilato per sempre.
Il potere è nei meccanismi costanti di cattura e di resistenza da parte di una
materia corporea, situata, affettiva, relazionale e trasversale che riesce in ogni
modo a battersi e a dimenarsi per resistere e rinegoziare un lavoro di stacco e di
rielaborazione delle forze con le quali ci confrontiamo. Non significa che la
resistenza poi vinca per necessità, ma comunque esiste, e si auto-organizza,
come il sistema immunitario di cui parla Esposito. Quindi il fattore essenziale di
questa economia politica nomadica non è il genere, come la razza, come la
classe – tutti meccanismi sociologici di grande importanza –, ma il punto di
partenza è la materia vivente che è sempre già sessuata.
Penso che la differenza fondamentale fra gli hegeliani e gli spinozisti sia
proprio questa. Se su questo punto basterebbe leggere il capitolo quinto, se non
mi sbaglio, dell’etica di Spinoza che parlava già della libidine animale, figurati
cosa possono dire Deleuze e Guattari sul divenire animale della nostra carne,
della nostra corporalità! A partire da qui si apre un nuovo campo di riflessione e
si scatena tutta un’altra discussione sulla struttura sessuata della carne che noi
incorporiamo. La sessualità è dappertutto, non è solo appannaggio degli umani,
ma è una forza non umana. Qui non ci serve Lacan, ma George Bataille, che
considera la sessualità una forza primordiale non umana che ci fa appartenere a
questo universo e a questo mondo. È carne sessuata, multi-sessuata, polimorfica,
perversa – bravissimo Freud ad averlo capito –, con un rifiuto netto, da parte di
Deleuze e Guattari, della matrice linguistica di rappresentazione e quindi di
confusione tra sessualità e genere, inteso come meccanismo di cattura. Si parla
pertanto di forze, di espressioni, di negoziazioni e di capacità di sostenere questa
forza vitale e perversa che non ci appartiene, ma che noi condividiamo con tutto
ciò che vive, che esiste e che è sessuato.

A proposito di Lacan e della matrice linguistica, Lei sottolinea in più luoghi


della sua opera la presa di distanza radicale dalla svolta linguistica
postmodernista. Nel Soggetto nomade dice di narrare la genealogia che
incarna. A me pare che l’elemento autobiografico sia un fondo che emerge con
chiarezza in tutti i suoi lavori, forse perché è centrale per il posizionamento
femminista. Proprio a partire da questo, mi chiedo come sia possibile
prescindere dalla narrazione e dal linguaggio.
Braidotti: Non si può mai prescindere dal linguaggio, ma si può sicuramente
prescindere da Saussure, sono due dimensioni diverse. C’è un capitolo intero in
Millepiani di Deleuze sulla linguistica, ma non è la linguistica semiotica di
Saussure. Il problema è il finalismo della semiotica classica, in cui i segni si
autodefiniscono l’uno in rapporto all’altro in un’autoreferenzialità che diventa
soffocante. E questa stessa autoreferenzialità permette a Lacan di impostare il
discorso sul simbolico come significante sovrano dal quale non si esce mai.
Spiega anche perché il meglio che ci può offrire Derrida è una specie di
glorificazione del momento aporetico in cui il soggetto constata la presa di
questo sistema socio-simbolico sul proprio essere e si aggrappa alla sua
coscienza del negativo come unica via d’uscita. Un filo di riflessione che arriva
fino alla mia eterna discussione con Butler. In sostanza: «Che cosa dobbiamo
fare? Sederci nel buio a piangere? È questa forse la soluzione?».
Gli ultimi lavori che stanno uscendo specialmente sul fronte più guattariano
si soffermano su altri sistemi linguistici più espressivi e meno mediati dalla
semiotica europea, anche codici primitivi, come i tatuaggi, i messaggi, i gesti, la
bio-semiotica. Un sms è come un uccello che canta all’alba o al tramonto, non è
linguaggio, che comunque è uno dei nostri codici dominanti. Certo, non quello
che si riferisce esclusivamente alla teoria semiotica di Saussure.
Ci occorre una semiosi molto più radicale che tenga conto dei sistemi di
significazione non umani: dagli animali alle tecnologie, sistemi che si auto-
riproducono e che producono senso e significato, ma assolutamente non in un
sistema semiotico classico. Io non ho mai detto che si debba prescindere dal
linguaggio, ma non resto presa dentro questa teoria del linguaggio fallocentrico.
Io sono con Glissant sulla creolizzazione dei linguaggi e quindi sulla grande
libertà del rapporto con il significante maestro, tramite processi d’ibridazione
che mettono in gioco attori non umani, siano essi animali, terresti o tecnologici.

Una politica del posizionamento non può prescindere quindi dal linguaggio,
ma neanche dal corpo, inteso come un’intersezione tra biologico, simbolico e
sociale. Quello femminile è sempre stato il teatro del cannibalismo capitalista
neoliberale, che ormai ha catturato tutte le specie negli ingranaggi
dell’economia globale e sotto l’imperativo del mercato.
Per offrire forme di resistenza e smantellare linee di demarcazione antiquate,
Lei ripensa una politica del corpo attraverso l’ibridazione e la mediazione
tecnologica. Se in Madri, mostri e macchine veniva messa in luce una affinità
elettiva tra il femminile, il mostruoso e la tecnica, considerati ‘poli negativi’ e
alterità assolute, ora mi sembra che la fusione tra umano e tecnologico sia un
punto centrale per la nuova visione della soggettività. Ci può spiegare come la
tecnologia possa essere lo spazio per rivendicazioni etiche, «il luogo del
divenire postantropocentrico, una soglia per altri mondi possibili»?

Braidotti: Certo, forse la differenza con Madri, mostri e macchine è che è un


libro di quasi vent’anni fa e nel frattempo o la scienza è andata avanti o
l’abbiamo capita meglio noi. Ma c’è tutta una tradizione nel femminismo che si
interroga su come la scienza e la tecnologia manipolano, sfruttano e in un certo
senso distruggono e danneggiano i corpi, la materia, il femminile, il materno.
Questa tradizione fa parte dell’ecofemminismo da sempre. Secondo me il grande
cambiamento è che con le scienze e le tecnologie contemporanee non siamo più
nello sfruttamento, ma nella ri-produzione e ri-creazione della materia. Noi la
materia oggi la fabbrichiamo con le nanotecnologie, con le cellule staminali, con
i codici del digitale, con gli algoritmi e con i codici genetici. Quindi siamo
davvero nella produzione del vivente. Esiste ormai un’intimità tra noi e le
diverse tecnologie che è una cosa nuova rispetto al passato e cambia
completamente il dibattito.
Quando Melinda Cooper scrive La vita come plusvalore afferma proprio
questo cambiamento. Dirci oggi contro la tecnologia è molto complicato.
Se una volta essere critici significava opporsi ad un certo sistema di
sfruttamento della natura, oggi i dati non sono più di questo tipo. Si parla di
invenzioni di mondi e di forme di vita possibili. È di pochi mesi fa la notizia del
primo hamburger sintetico, la biologia sintetica sta creando ad una velocità
straordinaria la materia, organismi auto-organizzati e presto auto-sufficienti. Le
possibilità che questo offre sono infinite. Tutti i vegetariani e vegani sono felici
della creazione della carne sintetica perché finalmente non sarà necessario
uccidere gli animali per mangiare un hamburger. Basti immaginare le
conseguenze di ciò in un paese come la Cina o, in generale, quanto questo possa
influire sull’ecologia globale anche in termini di risparmio. Io penso che ora sia
importante avere un rapporto normativamente neutro con le nuove tecnologie per
riuscire a mettere a fuoco anche le loro grandi possibilità. Una prova della
validità di quello che sto dicendo è la ferma opposizione di tutte le religioni
monoteistiche alle nuove tecnologie. In Italia non si può fare ricerca sulle cellule
staminali perché il Vaticano non è d’accordo. Anche nell’America di Bush la
ricerca era stata proibita perché i fondamentalisti cristiani erano contrari e quindi
gli studi si sono spostati in Inghilterra da un lato e in Cina dall’altro, facendo la
forza di quelle comunità scientifiche. Il cristianesimo ha paura di questa nuova
forza vitale perché sa perfettamente che non la può controllare, che non c’è
assolutamente nulla che ci impedisca di ridisegnare i limiti, le frontiere e le
nuove forme di vita intesa come zoe, tecnologicamente mediata. Io sono
diventata più entusiasta e forse un po’ meno paranoica, pur vedendo i rischi e i
pericoli che essi comportano, specialmente nell’invenzione di nuove forme
d’inumanità. Dedico un capitolo intero del mio libro all’inumano
contemporaneo.

In una strategia dello smantellamento dell’umano come si può definire il


rapporto tra uomo e macchina, se non è più pensabile nei termini di progettante-
progettato? Lei non ritiene che la tecnica sia il prodotto e il risultato estremo di
un umanesimo antropocentrico, l’esito di una volontà di potenza metafisica?

Braidotti: Penso che il rapporto tra umano e tecnologia sia di scambio e di


invidia, una sorta di desiderio reciproco: come diceva Canguilhem, che fu
l’insegnante di Foucault, l’uomo imita la macchina e viceversa. Nella filosofia
della scienza francese – penso anche alla posizione di Bachelard che fu
l’insegnante di Deleuze – non esiste questo dominio assoluto della tecnologia,
non ci credo né fa parte della mia impostazione. Ma soprattutto io non sono
sicura che oggi si possa ancora dire che la tecnologia che abbiamo prodotto sia
essenzialmente un’estensione dell’umano, anzi credo che questo sia puro delirio
di onnipotenza. Oggi c’è una tecnologia molto auto-organizzata e trasversale nei
confronti delle specie e delle categorie. Sto pensando in modo particolare ai
sistemi numerici di calcolo e di computation, che forniscono per esempio tutti i
calcoli per l’economia globale. Basta ricordarsi l’episodio recente di quando
all’improvviso si sono interrotti tutti i computer che reggono gli scambi delle
borse nel mondo.
Per un attimo è saltata l’economia globale, dopo una ventina di minuti sono
riapparsi sugli schermi i numerini e i dati ai quali noi siamo abituati. Cosa sia
successo lo sanno soltanto i sistemi di algoritmi e di calcolo, perché la mente
umana non può in assoluto arrivare a calcolare a quel tipo di velocità.
Ormai la tecnologia si auto-corregge, si auto-organizza con sistemi di calcolo
velocissimi o con computer che fanno cose che il nostro cervello non riesce a
leggere – qui rientra anche la questione dei droni preferibili ai militari di cui
discuto nel libro. È proprio questa velocità e questa supercapacità dei sistemi di
calcolo e di computation che fa della tecnologia qualcosa di diverso: un
superumano in un certo senso, ma che regola la nostra vita quotidiana con grandi
livelli d’intimità. Faremmo meglio a cercare di negoziare con questi sistemi,
invece di viverli come nemici esterni o, all’inverso, come proiezioni megalomani
di noi stessi. Guattari c’insegna che l’ auto-poiesis tecnologica costituisce
l’orizzonte del nostro divenire e forse anche di una nuova fase evolutiva per la
nostra specie – basta guardare la velocità con la quale i nostri figli si sono
adattati ai nuovi media e tecnologie, per capire che qualcosa di grosso si è messo
in moto nelle strutture cerebrali, neuronali e cognitive che ci compongono. La
questione è che cosa siamo nel processo del divenire, ma questa domanda per
noi neo-spinozisti si poneva anche prima, prima che l’orizzonte fosse
tecnologicamente mediato, quando ancora si parlava di ‘natura’. Quindi sul
piano concettuale qui non c’è crisi, ma progresso. C’è un’intimità ma anche
un’autonomia dei sistemi di calcolo ed è per quello che i lavori interessanti in
questo momento nella teoria dei media sono proprio sui sistemi di
programmazione, sugli algoritmi, sui sistemi di calcolo che portano alla
creazione di certi tipi di rete, di scambio di informazioni che poi sono capaci di
auto-organizzarsi.

Nel libro emerge un’interconnessione tra l’uomo e l’altro uomo, le


macchine, gli animali. C’è una relazionalità ontologica positiva che non tiene in
considerazione il negativo, il precipizio su cui è sospeso il mio faccia a faccia
con l’altro. Nella sua proposta filosofica l’azione politica non deve
necessariamente essere opposizione e il monismo spinozista viene alla luce come
una sorta di pacifismo ontologico. Come devono essere pensate le differenze e il
negativo all’interno di questo olismo vitalistico in cui il soggetto è mosso da un
desiderio che non è mancanza, ma è pienezza?

Braidotti: Questa è la famosa questione di Hegel contro Spinoza, del sistema


dialettico contro il monismo, della negatività contro l’affermazione.
Ma non è un sistema olistico: il monismo spinozista riletto con Deleuze, con
Bergson e con una buona dose di critica nietzschiana, è un sistema
differenzialistico, che a partire da un blocco di materia vivente organizza sistemi
differenziati. C’è una sostanziale differenza tra batteri, microbi e organismo
umano, ma sono tutte variazioni all’interno di una stessa materia. Siamo nel
vitalismo materialista, incorporato, situato, affettivo e relazionale; siamo nel
«materia-lismo» monistico. Questo è importante proprio per la questione del
pacifismo ontologico, ma anche perché mette al centro di tutto il dibattito la
questione dell’etica, un’etica che non è morale, né un sistema normativo che
attribuisce valori più o meno positivi ad un certo tipo di comportamento o di
pensiero. È un sistema di codificazione delle forze, forze che sono relazioni
molteplici con altri, umani e non umani, tecnologici, fabbricati, indotti, etc.
L’etica spinozista consiste nel privilegiare una relazione affermativa che ci apre
alle infinite possibilità del divenire, una relazione di recezione che può essere
tanto una recezione passiva, ma anche apertura alle infinite forze e flussi di
divenire, come ciò che nel libro descrivo come questo «boato di energia
cosmica» che struttura tutta la nostra relazionalità. Il rapporto etico è qui ciò che
ci apre alle possibilità, una relazione non etica invece è quella che ci chiude nel
buco nero di narcisismo e paranoia dell’individuo moderno. C’è all’interno della
nostra corporalità, della nostra stessa immanenza radicale un sistema di
controllo: sono i limiti di ciò che un corpo è capace di fare, un corpo che è
sempre materia intelligente, cervello incorporato. Il monismo è infatti un
rapporto di intima connessione tra il cervello e il resto del corpo. Questa materia
conosce i suoi limiti e sono i limiti della nostra pelle, i limiti del nostro
posizionamento, io direi i limiti del nostro antropomorfismo, che è una grande
ricchezza a differenza dell’antropocentrismo. L’antropomorfismo è la nostra
casa, è dove noi viviamo, mentre l’antropocentrismo è un delirio di onnipotenza.
Essere questo tipo di materia, essere questo corpo implica tutta una serie di
limiti che ci permettono di funzionare, di andare avanti e di contenere le forze
all’interno di ciò che un corpo è capace di fare e di divenire. È un sistema molto
energetico, molto semplice, a me sembra di una semplicità quasi infantile.
Ovviamente c’è tutta una grossa scuola di psicoterapia di stampo spinozista che
parte proprio da questo: i limiti sono quelli di ciò che sei capace di fare e sono
generativi, non negativi. Non sono capace di correre i 100 metri come sanno fare
i grandi atleti, non sono capace di attraversare la Manica a nuoto, non sono
capace di guidare una macchina di Formula 1 a 350 km all’ora. Ci sono dei limiti
che sono quelli di una corporalità pensante, il che fonda proprio le condizioni
della nostra soggettività relazionale.
L’etica che ho in mente è un’etica vissuta, pragmatica, situata, che ci
permette di evitare da una parte i deliri di onnipotenza e dall’altra di rinchiuderci
in un discorso di pura opposizione negativa. Il punto che tengo a sottolineare è
che si tratta di un’etica, non di una morale. E la grande scommessa di Spinoza è
che l’essere umano, l’organismo che noi siamo, è un organismo – come
segnalava Freud – che tende e si orienta verso il piacere, l’affermazione, la gioia
e non verso la tristezza, la negazione e la paranoia.
C’è un conatus, un desiderio di esprimere questa forza affermativa che ci
porta avanti. Questa è la grande scommessa che segna inevitabilmente
una differenza dal pessimismo di altre scuole filosofiche che partono da altre
premesse. Hegel e i neo-hegeliani contemporanei accusano ingiustamente
Spinoza e gli spinozisti di essere dei poveri ingenui. Io risponderei loro citando il
furore di Nietzsche contro i prelati della ragione trascendentale, fonte di violenza
e di soprusi e, specialmente, contro gli sciacalli concettuali che si nutrono – ed in
segreto godono – del negativo e dello spettacolo sconsolato della miseria umana.
Aver il coraggio di desiderare l’affermazione è la scommessa etica di Spinoza,
grande, grandissima fonte d’ispirazione filosofica per la nostra epoca.

L’ontologia processuale in cui è inscritto il concetto nomade di soggetto


postumano è al contempo una forte etica ecofilosofica. Nei suoi lavori
precedenti Lei parlava della «contro-memoria attiva» del nomade che resiste
alla soggettività dominante, questo era il discrimine tra il futuro passato
dell’esule e il passato prossimo dell’immigrato. Come si colloca questa presa di
coscienza del presente come «il migliore dei mondi postumani possibili» che si
accompagna a un esito gioioso e a una speranza visionaria nel futuro, inteso
come «oggetto attivo del desiderio», in cui convergono cura, empatia e
responsabilità – «tutte aspirazioni dalla spiccata tendenza umanista»? C’è nel
suo ultimo lavoro una concezione diversa di temporalità, un diverso rapporto
con il tempo?

Braidotti: Certo, è vero quello che tu dici per me il soggetto nomade e il


postumano si appoggiano a vicenda, ma fanno parte di due momenti del tempo,
due temporalità diverse. Piccola parentesi: ti segnalo che ci ho impiegato una
ventina d’anni per far accettare questi minimi elementi di pensiero deleuziano
del pensiero nomade. Io ho aspettato dieci anni per poter pubblicare Dissonanze,
il mio primo libro, perché è stato scritto in un momento in cui erano tutti
lacaniani e derridiani. La mia tesi risale all’81 e il libro è uscito nel ‘91 in
inglese, non in Francia dove tuttora domina il versante derridiano e non c’era
all’epoca la possibilità di pubblicarlo. Poi, come ben sai gli Americani si sono
profondamente innamorati della decostruzione, quindi non hanno fatto altro per
vent’anni che Lacan e Derrida. È stata per noi neo-materialisti una battaglia
durissima. La solitudine del pensiero nomade è una cosa che deve essere
segnalata. Adesso è diventato scontato, ma agli inizi è stato molto difficile. Per
questo il mio editore americano mi ha fatto riscrivere il libro – Soggetti Nomadi
– nel 2011. Non è una nuova edizione, ma un libro nuovo, completamente
riscritto perché il mio editore si è reso conto che questo libro, uscito nel 1994,
non è stato capito da molti proprio perché non c’erano le premesse per poterlo
capire.
Quindi la Columbia University Press mi ha chiesto di riscriverlo proprio
adesso che tutti parlano di Deleuze, di immanenze, di nomadismi. Grande
intuizione del mio editore, grossa fatica da parte mia nel dover riadattare il libro
alla situazione attuale in cui si parla molto di più di materialismo, di vitalismo
etc. La cosa divertente sarebbe quella di fare un confronto tra le due versioni.
Nella riscrittura del 2011 aggiungo tutto un capitolo per la tua generazione che si
chiama Contesti e generazioni, un capitolo che contestualizza semplicemente le
posizioni che ci hanno permesso di portare avanti il nomadismo del pensiero. Te
lo segnalo, perché abbiamo fatto una battaglia ineguale, eravamo davvero in
pochissimi a fare questo tipo di discorso e soprattutto ad associarlo ad una critica
della politica identitaria nel femminismo. Una delle prime è stata anche
Elizabeth Grosz, ma abbiamo passato dei momenti molto duri anche sul piano
professionale.
Questo te lo premetto perché il nomadismo è sì un discorso d’opposizione,
una cartografia delle condizioni di potere che da una parte ci restringono e
dall’altra ci abilitano, ci valorizzano e ci permettono di portare avanti un certo
tipo di discorso.
Però c’è anche un’altra questione, io lo dico sempre: il pensiero nomade è
critica, ma è anche creatività. E con il Postumano sono riuscita a fare un discorso
sull’etica affermativa, che già si trovava in Trasposizioni per esempio. In questo
modo sono riuscita a negoziare il passaggio su un altro livello che è quello della
temporalità pura e diffusa del divenire. Mi stacco un po’ dal discorso di
opposizione basata sul presente – o piuttosto sulla sua negazione – e faccio un
discorso più propositivo per portare avanti un nuovo livello della discussione. A
cosa serve il soggetto nomade? Serve ad attualizzare forme di divenire che si
scontrano con condizioni reali, materiali, semiotiche e simboliche e a dover
negoziare con esse. Ma ciò che conta è che il momento politico non deve essere
inteso solo come negativo e opposizione – e rientrerebbe in questo tutto il
discorso sulla violenza – ma il politico o la politica è un’attività in un certo senso
ascetica e modesta di far avvenire possibilità, progettualità, relazioni, azioni,
pensiero, valori, aprire degli orizzonti del possibile che implicano un grande
distacco dalla negatività che ci circonda. Il politico è la costruzione di avvenire e
di divenire sostenibili.
Ecco, questo a me interessava nella condizione postumana che non vuol dire
rimettersi ad una politica dello struzzo e non vedere i problemi – ripeto che c’è
nel mio libro un capitolo intero sull’inumano, sugli orrori del presente.
Appunto la scommessa è questa: come confrontarsi con questi orrori che
sono ogni giorno sempre più atroci? Come confrontarsi con tutto questo e
continuare ad avere una forza politica ed etica propositiva, affermativa? Ci sono
momenti in cui faccio come molti della mia generazione che reputano immorale
avere ancora un’istanza propositiva, visto ciò che succede nel mondo. Ma al
tempo stesso se continuo a fare il lavoro del pensiero e a portare avanti questa
battaglia, per esempio, per la dignità femminile contro le disuguaglianze, per la
giustizia inter-generazionale, per affermare mondi possibili, ontologicamente
pacifici, creativi e pieni di possibilità, insomma se continuo a fare questo lavoro
di pensiero critico e creativo devo assolutamente difendere un’etica affermativa,
fare un lavoro di proposizione e portare avanti un discorso di speranza. Qui
c’entra molto una mia personale visione del lavoro intellettuale e dell’etica della
prestazione pubblica. Questo ci riporta di nuovo al grande dibattito tra me e le
mie coetanee su lutto, malinconia o affermazione e proposizione. Ti segnalo il
filmato del progetto che ho eseguito recentemente con Judith Butler e le Pussy
Riot1. La politica comporta entrambi questi aspetti e secondo me non si tratta di
scegliere tra l’uno e l’altro, non si sceglie tra prigione e morte o affermazione e
gioia. Sono due aspetti che si completano a vicenda.
Tutto dipende da come uno interpreta il proprio ruolo, ed è anche una
questione di personalità, di temperature esistenziali, di senso della propria
presenza nel mondo, di fattori di intensità, sia di pensiero che di progettualità.
Insomma contano anche i fattori aleatori e molto personali. Per me non si tratta
di scegliere, ma di attivarsi per agire nel mondo.

***

1. Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=BXbx_P7UVtE

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