Nuovo Prisma

Collana diretta da Antonino Buttitta

88
 Thea Rimini

Album Tabucchi
L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi

Traduzione di
Rosalia Coci

Elaborazioni grafiche di
Pino Aiello

Sellerio editore
Palermo
2011 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo Indice
2000 © e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it

Album Tabucchi
Introduzione 13

1. La cineteca di Tabucchi 19
1.1 Il montaggio di Piazza d’Italia 21
1.2 Fili di celluloide all’orizzonte 36
1.3 Racconti di cinema barato 51
1.4 Parla con lui: il Verbo cinematografico di Tristano muore 73

2. Intermezzo fotografico 87
2.1 La fotografia, questa maliarda falsaria 89

3. La pinacoteca di Tabucchi 105

3.1 Giochi di specchi e tele rovesciate: Tabucchi barocco? 107
3.2 Effetto Bosch 119
3.3 Tra sogno e realtà: il Goya di Tabucchi 139

Bibliografia 161

Elenco delle illustrazioni 177

Cirese, Alberto Mario <1921> Ringraziamenti 179
Altri sé : per una antropologia delle invarianze / Alberto Mario Cirese. – Pa-
lermo : Sellerio, 2010. Indice dei nomi 181
(Nuovo Prisma / collana diretta da Antonino Buttitta ; 83)
EAN 978-88-389-2348-7.
1. Antropologia culturale.
301 CDD-22 SBN Pal0228037

CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana «Alberto Bombace»

Volume pubblicato con il contributo del Ministero dell’Università e della Ricerca

e della Scuola Normale Superiore

7
Album Tabucchi
Ai miei genitori
 Introduzione

Le case degli scrittori, si sa, devono sempre affrontare il problema

dei libri. C’è chi dispone i volumi in modo meticoloso negli scaffali
di una stanza adibita a biblioteca, e chi preferisce ammonticchiarli
sul pavimento. O, ancora, c’è persino qualcuno che costringe i tomi
a contendere lo spazio, in cucina, a fornelli e lavandini.
In casa Tabucchi (in una casa ideale, s’intende), la situazione è
un po’ più complicata. Accanto all’immancabile e poliglotta biblioteca,
tre ambienti si delineano l’uno dietro l’altro: la cineteca, la camera
oscura, e la pinacoteca. Tutti e tre collegati da porte comunicanti.
Dalle mensole della cineteca occhieggiano vecchie videocassette
anziché moderni dvd. Tra le pagine di Tabucchi, scorrono pellicole
degli anni Cinquanta capaci di offrire una fugace (quanto effimera)
evasione a personaggi solitari e infelici. Rifrangersi nelle sagome di
pellicola non è però sempre un vantaggio per lo spettatore tabuc-
chiano, perché acuisce lo stato di smarrimento identitario. Ad alcuni
personaggi, poi, non è nemmeno concessa l’incursione nei paradisi
di celluloide. Novelli paladini ariosteschi alla ricerca del loro oggetto
del desiderio, molti di loro fanno del cinema l’oggetto di una quête
interminabile. I protagonisti di Piazza d’Italia vedranno bruciare il
cinema del loro paese senza che abbia mai proiettato un film.
Nei diversi reparti della teca cinematografica, trionfa il cinema
di «genere»: dal noir al melò al western. E le custodie delle video-
cassette di Casablanca (1942) o del Cavaliere della valle solitaria
(1953) sono le più usurate, a riprova di una visione ripetuta. Tabucchi
ama confrontarsi con gli archetipi del «genere», salvo poi sovvertirli
nelle sue storie. La struttura piena della Hollywood classica si
scontra con tessiture narrative cicatricose, tramate da buchi e non
detti. E i topoi cinematografici più inflazionati diventano altro.
Tabucchi, insomma, è un cinefilo dispettoso. Che arriva persino
a sfidare la Settima Arte, improvvisandosi regista o vestendo i
panni dello sceneggiatore. Riscrive sequenze di Blow-up (1966) o
della Donna che visse due volte (1958); predispone il sequel – virato
in direzione soprannaturale – di Casablanca; e organizza un racconto
(Cinema) come se fosse una sceneggiatura. L’esperienza cinemato-
grafica tentata sui suoi libri non gli deve essere poi troppo dispiaciuta,

13
se nel 1986 Tabucchi accetta di partecipare, con Massimo Guglielmi
e Sergio Vecchio, alla sceneggiatura di un film tratto dal suo racconto
Rebus. Vincitrice del Premio Solinas ’86, la sceneggiatura di Rebus,
inedita, è un testo letterario, che rivendica una certa autonomia
dal racconto originario come dal film girato.
Qualche scaffale, nella cineteca, è tuttavia occupato da film di
registi contemporanei. E due titoli svettano sugli altri: La recita
(1975) di Anghelopulos e Parla con lei (2001) di Almodóvar. Nel-
l’epopea greca, Tabucchi ritrova la sua idea di Storia ciclica e im-
placabile; mentre nel film “parlato” spagnolo rintraccia il motivo
della “voce”, cardine della sua poetica.
Tra film e documentari sull’opera tabucchiana, un libro reclama
il suo spazio nella cineteca. Sono Le lezioni di regia di Ejzenštejn.
Il montaggio è la lezione più importante, che lo scrittore apprende
dal cinema. Perché il meccanismo cinematografico gli offre nuove
possibilità di accogliere il rovello del Tempo (e Piazza d’Italia viene
addirittura costruita seguendo i precetti di Ejzenštejn). Sulla pagina,
il passaggio tra passato e presente (o tra realtà e sogno) può così
essere affidato a dissolvenze incrociate (Piccoli equivoci senza im-
portanza) o a stacchi bruschi e improvvisi (Any where out of the
world), che liquefanno i confini tra il ricordo e l’immaginazione.
Al cospetto dell’immagine, la parola talvolta soccombe; più spesso
resiste. Eppure, la miscela di parola e fotogramma infittisce sempre
l’enigma delle storie.
In fondo alla sala-cineteca, c’è la televisione, ma è spenta. Sem-
mai, l’apparecchio può servire da supporto al videoregistratore. La
«scatola di vetro», come la definisce sprezzante il Tristano di
Tristano muore, manipola (e annienta) le coscienze degli spettatori.
Con l’avvento del piccolo schermo il potere dell’immagine è dege-
nerato. Davanti al bombardamento catodico, meglio rifugiarsi nella
camera oscura.
Alle prese con reagenti e ingranditori, Tabucchi spesso “sbaglia”
i dosaggi luministici e fa muovere i suoi personaggi in fotografie
sottoesposte. A fatica, si arriva alla luce nei libri di Tabucchi. E
l’ombra (o meglio: la penombra) ha spesso la meglio.
Sulle pareti della camera oscura campeggiano ritratti e scene di
vita famigliare appassiti nel corso degli anni. Il passato, gravido di
rimpianti e nostalgie, è tra i soggetti prediletti dalla penna/obiettivo
di Tabucchi. Tuttavia nemmeno la foto offre un approdo sicuro
alla memoria. Che ritraggano viaggi di nozze o piccioni veneziani,
le istantanee sono spesso “sfocate”. La dissipatio del ricordo è sempre
in agguato.
14
Accanto alle precarie foto-ricordo, altre istantanee affollano la
camera oscura. Sono scattate a Durban, in Sudafrica. Ritraggono
un ragazzino, che è stato adottato dalla famiglia Tabucchi. L’ado-
lescente in seppia è Fernando Pessoa. Al suo album Tabucchi attinge
nel Filo dell’orizzonte. E costruisce, per via fotografica, una storia
parallela alla vicenda principale.
Varcata la soglia dell’ultima sala, il bianco e nero della camera
oscura è scalzato dal tripudio di colori della pinacoteca. Tre celebri
quadri fanno bella mostra di sé sulla parete della galleria: Las Meninas
di Velázquez, Le Tentazioni di Sant’Antonio di Bosch, e Il cane delle
Pitture nere di Goya.
Se prima, nella cineteca, la sfida era rivolta alla Settima Arte,
ora è diretta alla pittura. E l’ardita costruzione prospettica del
quadro barocco si tramuta nella pluralità dei punti di vista del rac-
conto Il gioco del rovescio.
Nella casa di Tabucchi, la galleria di quadri è vittima di uno
strano sortilegio. Alcune opere invadono lo spazio quotidiano dei
personaggi. Accade alla cernia cavalcata da un uomo e da una donna
del trittico di Bosch, e al cane di Goya immerso nella sabbia fino
al collo. Affrancatasi dalla cornice, la cernia ripugnante di Bosch
diventa concrezione ittica del rimorso, e inquieta numerose pagine.
Ma il mostro fiammingo, complice l’esempio di molti intellettuali
portoghesi, diventa un modo per rappresentare l’inferno del sala-
zarismo. Investita di un alto valore simbolico, la cernia potrebbe
quasi figurare in un novecentesco Emblematum libellus. Tra copertine,
libri d’arte, racconti e romanzi, il pesce di Bosch traccia una storia
di secondo grado all’interno dell’opera di Tabucchi. D’altronde,
l’incontro tra lo scrittore e il santo di Bosch è, per così dire, un
appuntamento obbligato: “Antonio” è l’eremita alle prese con i
miasmi infernali; “Antonio” è Antonio Tabucchi costretto a de-
streggiarsi nell’inferno moderno.
A differenza della cernia delle Tentazioni di Sant’Antonio, che
nel viaggiare da un racconto a un romanzo fissa il suo significato
sul rimorso, il cane di Goya acquista diverse accezioni nel corso
degli anni. E arriva a tingersi di metafisica in Tristano muore. La
povera bestia incarna il destino sciagurato di ogni creatura.
Di diversa fattura, ma sempre realizzati da Goya, sono i cicli
grafici che fiancheggiano Il cane sulla parete della pinacoteca di Ta-
bucchi. La serie dei Capricci si accompagna ai Disastri della guerra.
Nel mondo contemporaneo, violentato da guerre assurde e da governi
stolti, Tabucchi adotta l’idea di satira, feroce e grottesca, dei
Capricci. E si scaglia contro la civiltà occidentale.
15
 Il Goya di Tabucchi è allora un Giano bifronte: artista visionario della fotografia o della pittura. Dal remake di un vecchio film nel
e pittore del reale. Di fatto, è la scrittura tabucchiana a essere racconto Cinema, all’ingrandimento di una foto già esistente nel
doppia: la penna di Tabucchi sa descrivere sogni e allucinazioni, Filo dell’orizzonte, al personaggio del Copista del trittico di Bosch
ma riesce anche a infiammare le pagine dei quotidiani internazionali. in Requiem. Nell’universo di Tabucchi, il film, la foto, il quadro
Prima con Bosch, ora con Goya, Tabucchi disegna la propria ge- appartengono tutti alla folta schiera dei falsari. Benché falsi, i limiti
nealogia ideale. dell’inquadratura, dello scatto, o della cornice sono avvertiti con
L’incantesimo che coinvolge la pinacoteca ha un effetto sor- disagio dai personaggi. Il filtro della pellicola o della foto ostacola
prendente: il dipinto balza fuori dalla cornice, ma poi il libro si fa una percezione viva delle cose. E le figure aspirano spesso al “fuo-
quadro. E per il personaggio non sarà facile fuggire dalle pennellate. ricampo” o al “senza cornice”. Tanto più che a volte le storie ta-
Tra parola e immagine la liaison si fa dangereuse. Il salotto barocco, bucchiane non concludono, e rimandano la soluzione al di là del
in cui si svolge la conversazione tra due personaggi del Gioco del libro.
rovescio, sembra pronto per essere ritratto da Velázquez, mentre Il modello epistemologico adottato da Tabucchi nei confronti
Requiem diventa un allucinato tableau vivant costruito sulle due dei tre linguaggi è omogeneo. Come Morelli, sul finire dell’Ottocento,
Tentazioni di Sant’Antonio (il quadro conservato al Museo di Lisbona stabilisce l’attribuzione di un quadro a partire da un particolare,
e quello esposto al Prado di Madrid). Persino Malafrasca, la casa così Tabucchi si concentra sul dettaglio. Che si tratti dell’abito di
di campagna toscana in cui Tristano agonizzante racconta la sua un’attrice, del punctum di una foto, o del lacerto di una tela, poco
vita, diventa, tra buio e allucinazioni sensoriali, una declinazione importa. Eppure, nel XX secolo, il dettaglio è avvertito come fram-
della Quinta del Sordo. Anche se stavolta l’impasto dei colori cede mento, e si carica di un senso di perdita (e di colpa) prima sconosciuto.
il passo all’impasto delle parole. L’idea di una comprensione assoluta del mondo è ormai svanita.
Per Velázquez, Bosch, e Goya è di certo piacevole condividere
il medesimo spazio espositivo nella pinacoteca dello scrittore. L’an-
timondo di Bosch si ritrova infatti nella commistione di umano e
animale dei Capricci di Goya. E Goya, a sua volta, considera Veláz-
quez tra i suoi maestri in nome di un falso realismo comune.
La galleria privata non ospita solo Antichi Maestri, ma si apre
al contemporaneo. Molti sono gli artisti che a Tabucchi chiedono
di scrivere un testo per i loro cataloghi d’arte. E gli fanno omaggio
dei loro lavori. Le forme fluide di Pomar e i tratti netti della Rego
fanno capolino tra i pittori del passato. Un posto privilegiato è ri-
servato ai disegni di Tullio Pericoli, con i quali Tabucchi dialoga
sovente nel corso degli anni. E da una parte, sulla parete, c’è persino
un azulejo realizzato da Paula Rego per una delle sequenze più
dolenti di Tristano muore. Perché gli scambi, nell’arte, non sono
mai a senso unico.
Arrivati in fondo al trittico di stanze, il percorso si potrebbe
ripetere al contrario. O, in omaggio al proprietario della casa, a
“rovescio”. La poetica di Tabucchi si allarga in ondosità concentriche:
e lo scrittore impiega l’immagine statica e l’immagine dinamica allo
stesso modo. Nessuna di loro offre un documento impersonale e
oggettivo del mondo. Anzi, ne propone un’interpretazione che
spesso si rivela menzognera. Non a caso, il rapporto spinoso tra
copia e originale coinvolge, sulla pagina, l’uso del cinema, come

16 17
 1
La cineteca di Tabucchi

Mais venons au fait: ce caractère d’universalité,

nous le retrouvons dans les thèmes que le cinéma
américain se plaît à développer. Bien sûr, dira-t-
on, ce ne sont en général que lieux communs. Mais
mieux me plaisent des idées vieilles comme le mon-
de, et qui ont leur blason, que l’écho affadi de
cette littérature de début de siècle où l’Europe
puise le plus souvent son ispiration.

E. ROHMER
 1.1
Il montaggio di Piazza d’Italia1

Primo piano: un uomo viene colpito alla fronte. Zoom sul volto,
a riprendere il «forellino» causato dalla pallottola. Travelling di
profondità in allontanamento: la scena progressivamente ingigantisce
a tutto campo per mostrarci il luogo dell’esecuzione (una «piazza»)
e gli artefici dello sparo («caschi in fila»).
A dispetto delle apparenze, quanto appena descritto non è la
sequenza di un film, ma l’incipit (seppur denominato «epilogo») di
Piazza d’Italia, opera d’esordio di Antonio Tabucchi. Che il linguaggio
cinematografico incorpora fra le righe.
Sin dal sottotitolo, Favola popolare in tre tempi, l’autore stabilisce
un patto di lettura all’insegna della contaminazione di linguaggi
differenti. Perché Piazza d’Italia sarà un testo dal carattere esemplare –
«favola» – articolato in maniera cinematografica – «tre tempi».2
Nell’ampio arco cronologico di quasi un secolo, la saga della fa-
miglia di anarchici toscani, raccontata in Piazza d’Italia, diventa
exemplum per la Storia di tutta l’Italia.
Capostipite della famiglia del toscano Borgo, Plinio prende parte
con fervore alle spedizioni dei Mille e alla Breccia di Porta Pia.
Pure, l’ardimento battagliero non gli vale una fine gloriosa: Plinio
muore per mano di un guardiacaccia regio. Benché sia già deposto
nella bara, riesce a parlare con il figlio, Garibaldo, e lo inizia all’u-
guaglianza, valore supremo della vita. Dal padre, oltre al nome, il
piccolo Garibaldo eredita il carattere indomito e il mestiere di brac-
coniere. Dopo aver ferito un guardiacaccia, decide di fuggire. Prima
a Parigi, poi in America. Di ritorno a Borgo, è ucciso da una guardia
regia, mentre organizza l’assalto al granaio municipale. Lascia la
moglie Esperia e un figlio, chiamato ancora Garibaldo. Al racconto

1
Una prima versione di questo saggio, qui modificato e rielaborato, è comparsa con il
titolo La cine(biblio)teca di Tabucchi: il montaggio di «Piazza d’Italia» in Echi di Tabucchi/Échoes
de Tabucchi, a c. di P. Abbrugiati, Atti del Convegno Internazionale d’Aix-en-Provence 12-
13 Gennaio 2007, «Italies», N° S., 2007, pp. 321-348.
2
È significativo che il sottotitolo, «favola popolare in tre tempi», venga inserito nella
seconda edizione di Piazza d’Italia per i tipi di Feltrinelli. Nella prima edizione, presso
Bompiani, compariva invece la dicitura «romanzo». Cfr. A. Tabucchi, Piazza d’Italia,
Bompiani, Milano, 1975.

21
della vita di quest’ultimo, che attraversa la prima metà del Nove-
cento, sono dedicati il secondo e il terzo tempo. Sotto le armi, du-
rante la Prima Guerra Mondiale, Garibaldo abbraccia la causa della
Resistenza e decide di prendere la tessera del partito comunista.
Negli anni “caldi” del dopoguerra, partecipa alle manifestazioni in
piazza. Durante uno scontro con le forze dell’ordine, il suo amico
Guidone viene massacrato senza motivo dalla polizia. Cieco per
l’ingiustizia subita, Garibaldo denuncia apertamente l’accaduto e
inveisce contro il sistema. La reazione del governo è immediata: il
questore dà l’ordine di sparargli. Sulla sua morte, resa in modo ci-
nematografico, si apre il romanzo.
Attorno ai Garibaldo ruota una folta e pittoresca folla di per-
sonaggi. Dai gemelli Quarto e Volturno all’infelice coppia di Atina
e Ottorino; dal cugino gerarca Melchiorre ad Asmara, l’eterna fi-
danzata di Garibaldo. Chiudono il cerchio la Zelmira, fattucchiera
del paese (sdentata come la Zamira del Pasticciaccio di Gadda), e
Don Milvio, sacerdote sui generis seguace della lezione di don
Curci.
Per la storia di Borgo, anzi per «l’antistoria», come ama consi-
derarla il suo autore, Tabucchi sceglie di addestrare la penna sul
«montaggio delle attrazioni» di Ejzenštejn.3 In realtà, dapprima
Tabucchi scrive Piazza d’Italia in modo tradizionale, ma la scoperta
degli scritti di Ejzenštejn è di quelle epocali. Tabucchi legge «avec
avidité» le sue Lezioni di regia (che in un’intervista di tanti anni
dopo diventano «Leçons de montage», tradendo il vero assillo dello
scrittore); e ripensa al libro appena terminato. Dal maestro russo
Tabucchi decide di trarre «tous les enseignements possibles» per
«monter de manière cinématographique» la sua Piazza d’Italia.4 Bal-
danzoso, lo scrittore riprende in mano la prima stesura. E ne
allestisce la messa in scena.
Vittime de «Il Mal del Tempo»
Varcare le frontiere del linguaggio letterario non è una decisione
priva di rischi. Perché, davanti all’ingresso del cinema, il guardiano
3
Lo dichiara Tabucchi quando viene intervistato da Maria João Seixas per la televisione
portoghese. Il programma s’intitola Quem fala assim… O Olhar dos outros, ed è stato registrato
il 27/06/1994.
4 6
A. Tabucchi, «Écrire le cinéma». Entretien avec Antonio Tabucchi, in Le cinéma des écrivains,
a c. di A. de Baecque, Paris, Éditions de l’Étoile/Cahiers du Cinéma, 1995, pp. 17-18.
22
del confine s’insospettisce; e chiede ragguagli su come il montaggio
cinematografico potrà essere impiegato sulla pagina. Al cinema
infatti il tempo segue una speciale grammatica. Si articola in momenti
ora successivi ora simultanei, fino a registrare in modo ininterrotto
gli stadi della veglia e del sonno/sogno. Sul grande schermo, tutto
insegue «un immense sentiment de libérté», quasi «subversif et
anarchiste»: così Tabucchi compendia la lezione dei capolavori della
storia del cinema, assaporati in gioventù a Parigi.5 Rapito dall’anarchia
cinematografica, Tabucchi rifiuta in Piazza d’Italia l’ordine cronologico
degli eventi per costruire la storia su un continuo andirivieni di
passato, presente, futuro.
Il cinema permette dunque a Tabucchi di “giocare” con il “tem-
po”. Ma i giochi, in Tabucchi, sono sempre pericolosamente seri.
Così il “gioco con il tempo” trascolora nel «Mal del Tempo» di
Volturno. Fratello saturnino del primo Garibaldo, Volturno soffre
di una particolare disfunzione, che diventa un “piccolo equivoco
senza importanza” avant la lettre:
[Volturno] Rispondeva all’improvviso a una domanda che gli avevano
fatto il giorno prima, si ricordava fatti non ancora successi, soffriva due volte
la stessa delusione.6
E gli effetti della malattia si propagano al modo in cui Volturno
racconta le storie:
[…] del Mal del Tempo gli era rimasto [a Volturno] l’uso di invertire i
fatti e così raccontava partendo dalla fine e risalendo al principio o mescolando
caoticamente le storie più diverse.7
A ben guardare, il Mal del Tempo di Volturno è un virus dal
ceppo di celluloide. Perché la risposta data «all’improvviso a una
domanda che gli avevano fatto il giorno prima» è assimilabile al
flashback, mentre il ricordo di «fatti non ancora successi» al fla-
shforward. Infine, la sofferenza ripetuta per un medesimo episodio
si traduce nella tecnica – anche cinematografica – della «ripresa».
Ma flashback, flashforward, e «ripresa» sono le strategie messe
in atto in Piazza d’Italia. Attraverso la patologia del suo perso-
naggio, Tabucchi dissemina le tracce per un autoritratto.8 Il Mal
5
Ivi, p. 16.
A. Tabucchi, Piazza d’Italia [1975], Milano, Feltrinelli, 2003, p. 25.
7
Ivi, p. 27.
23
del Tempo – narrativo e cinematografico – assurge a principio
costruttivo della «favola».
Sin dall’esordio, Piazza d’Italia rivela il suo carattere “malato”
rispetto alla “sana” consuetudine della saga familiare. Il libro ha
inizio con una scena intitolata «epilogo»; e il lettore deve ripercorrere
le tappe della storia a ritroso, per sapere come tutto ha avuto inizio.
Nemmeno il «primo tempo» riserva una narrazione adamantina,
sconvolto com’è da continui salti cronologici. Tra morti dei personaggi
che precedono le loro nascite; tra imprese garibaldine e campagne
d’Africa.
All’euforia (isteria) compositiva della prima parte segue un «se-
condo tempo» più ortodosso, in cui solo la profezia di un paradossale
oroscopo o i ritardi nell’arrivo delle lettere increspano l’ordine cro-
nologico. Adesso intervengono degli espliciti «raccontami» per in-
trodurre la narrazione di quanto è avvenuto.9 Gli improvvisi e
bruschi stacchi del «primo tempo» cedono il passo a graduali dis-
solvenze incrociate.
Bisogna approdare alla conclusione del «terzo tempo» per si-
smografare nuove, e violente, scosse temporali. In un vorticoso rie-
mergere di passato, presente, veglia, incubo.10 Per l’ultimo capitolo
Tabucchi avanza nei territori di celluloide. E prescrive una lettura
cinematografica; con tanto di didascalia sotto il titolo della sezione:
«due quadri dati in uno, in ragione dell’essere contemporanei». Di-
versificati nel carattere tipografico, il comizio di Garibaldo in piazza
e il colloquio in casa di Asmara con Zelmira devono essere letti si-
multaneamente. Nell’ardito tentativo di trasferire sulla pagina il
montaggio alternato.11 Nemmeno l’appendice finale si sottrae al
trattamento cinematografico. Raccontando un episodio (la morte
della Zelmira) avvenuto «oltre la fine di questa storia», l’ultima
porzione di Piazza d’Italia assume le fattezze di una voice-off. Più
l’acme della storia si avvicina; più il lavoro sui tempi narrativi si fa
intenso. E nella scrittura Tabucchi esporta il détournement, che De-
8
Già Palmieri legge il «Mal del Tempo» di Volturno come «una implicita (ma trasparente)
autopresentazione letteraria». Perché «il gioco del rovescio riguarda non solo nomi; punti di
vista o situazioni interpretative della vita, ma anche il sentimento (narrativo) del tempo». Cfr.
G. Palmieri, Per una volatile leggerezza: il «lato manco» di Antonio Tabucchi, in Piccole finzioni
con importanza. Valori della narrativa italiana contemporanea, Atti del Convegno Internazionale
di Anversa, Maggio 1991, a c. di N. Roelens e I. Lanslots, Ravenna, Longo, 1993, p. 127.
9
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 110.
10
Ivi, p. 128; p. 141.
11
Per la lettura cinematografica di quest’ultimo quadro, cfr. F. Brizio-Skov, Antonio
Tabucchi. Navigazioni in un arcipelago narrativo, Cosenza, Pellegrini, 2002, p. 34.
24
bord in quegli stessi anni persegue ai danni del cinema classico di
narrazione.
La narrazione si frantuma: nascono i nodi di montaggio
Modellata su una temporalità cinematografica, Piazza d’Italia tradisce
l’influenza del cinema anche a livello tipografico. Il frantumarsi dell’opera
in capitoletti numerati mima la scansione filmica in «fotogrammi di
una sequenza».12 Nello spazio della pagina, Tabucchi visualizza il dé-
coupage del film in piani successivi.
Se sul grande schermo i movimenti sono ingabbiati dall’inqua-
dratura, sulla carta il dispiegarsi della narrazione è contenuto nella
succinta dimensione del capitoletto. Di nuovo, il modello è Ejzenštejn.
Perché al cinema «la messa in scena si frantuma in nodi di montaggio,
e il nodo di montaggio in inquadrature singole».13 Più che a singoli
fotogrammi, i capitoletti sono avvicinabili a dei veri e propri «nodi
di montaggio», costituiti da un’inquadratura principale («inquadratura
nodale») che determina tutte le altre. Nel «nodo» che rappresenta
la morte di Garibaldo, l’armeggiare calibrato con primo piano,
zoom, travelling è unificato dalla ripresa un po’ dall’alto dell’eroe.
E la scelta tecnica è investita di significati metaforici. La ripresa
dall’alto, nota Ejzenštejn, è «plasticamente adatta […] al tema do-
stoevskiano degli “umiliati e offesi”».14 Nella sciagurata schiera
russa ben figurerebbe l’italiano Garibaldo, tradito ad aeternum dai
rivolgimenti storici.
Persino nella costruzione delle scene di massa traspare la lezione
di Ejzenštejn. Che, nella Corazzata Potëmkin (1926), compone la
celebre sequenza sulla scalinata di Odessa alternando il «tutto» alla
singolarità delle «componenti del tutto».15 Così, in Piazza d’Italia,
12
Ibidem.
13
S. M. Ejzenštejn, Lezioni di regia, in Id., Forma e tecnica del film e lezioni di regia,
trad. it. di L. Longo, Torino, Einaudi, 1964, p. 382.
14
Ivi, p. 452.
15
Riporto il passo di Ejzenštejn sull’alternanza fra «la parte» e «il tutto»: «[…] La
scalinata di Odessa. La prima scarica di fucili: panico generale, tutta la folla corre come una
valanga, tutti fuggono contemporaneamente […]. Poi, dopo questo primo colpo, la scena si
frantuma in momenti singoli, nelle componenti del tutto; la madre col bambino, la madre
con la carrozzina […]. L’impostazione compositiva della messa in scena e del montaggio
consiste proprio nel far sì che, nonostante il dilagare della folla e la presentazione di singole
persone, si conservi la sensazione d’un grande flusso unitario». Cfr. S. M. Ejzenštejn, Lezioni
di regia, op. cit., pp. 403-404.
25
l’assalto al granaio municipale – dalle scoperte risonanze manzoniane
in falsetto – è costruito seguendo questo movimento binario. All’i-
niziale «folla taciturna e livida assiepata sulla piazza», seguono dei
«momenti singoli» che estraggono dall’indistinto della massa figure
isolate. Ora è la volta del padre di Guidone, costretto all’azione
dall’incontenibile fame del figlio; ora è la volta della «fiumana»,
che travolge «le porte». Fino a sorprendere Garibaldo, che in posi-
zione eminente e separata («in cima a un tino») fornisce le direttive
agli insorti.
Una volta individuati i «nodi di montaggio», occorre legarli
tra loro secondo diverse modalità. E trasformare la «semplice
somma d’inquadrature» in «una nuova creazione».16 Sulla falsariga
di Ejzenštejn, Tabucchi, per riunire le tessere del suo mosaico
narrativo, ben si destreggia tra raccordi quali la «dislocation
temporelle», la «succession visuelle», la «rime analogique», l’«ap-
pel métaphorique», e la «correspondance sensorielle».17 Della
“dislocazione temporale”, Piazza d’Italia, con il suo tessuto di
analessi e prolessi, offre preziose spie. Quale decisivo fulmen in
clausulam, talvolta l’anticipazione chiude in modo vertiginoso il
capitoletto:
[Atina] preferì non vedere nessuno per un momento che durò cinquantasei
anni, finché non morì prosciugata dal tempo, senza aver mai saputo che
c’erano state due guerre, la sera in cui gli americani entravano rumorosamente
in Borgo, accolti da un paese senza finestre.18
Soltanto dopo una settantina di pagine, verrà descritta la misera
fine di Atina. Al diffuso andamento accelerato si attagliano anche
i frequenti capitoletti lampo, che risolvono la narrazione nel giro
di un paio di proposizioni (appena tre nel capitoletto intitolato Gli
16
S. M. Ejzenštejn, Tecnica del cinema, in Id., Forma e tecnica del film e lezioni di regia,
op. cit., p. 228, corsivo nel testo.
17
Riporto il passo completo, in cui Tabucchi spiega a de Baecque il modo di procedere
adottato in Piazza d’Italia: «C’était à la fois très experimental et très pragmatique. J’ai
découpé chaque “séquence”, chaque “plan” écrits sur mes feuilles de papier, avec des ciseaux,
et j’ai disposé tout cela sur le sol carrelé, en le montant par “dislocation temporelle”,
“succession visuelle”, “rime analogique”, “appel métaphorique”, “correspondance sensorielle”,
autant de collages que j’avais découverts en lisant les leçons d’Eisenstein. C’était très
amusant, et ressemblait vraiment à un montage, avec des bouts de papier à la place des
morceaux de pellicule. Cela m’a pris tout un été». A. Tabucchi, in «Écrire le cinéma».
Entretien avec Antonio Tabucchi, op. cit., p. 81.
18
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 39.
26
occhi belli della fame).19 A detta dello stesso Tabucchi, la concisione,
insieme al montaggio, è una delle «due cose» che il cinema ha «in-
segnato» a lui e «a tutti i narratori della fine del secolo XX».20 Da
buon discepolo, Tabucchi si muove poi con disinvoltura tra il nesso
della «succession visuelle» e quello della «correspondance sensorielle»
fra particolari sonori e visivi.21 E non disdegna la liaison per «rima
analogica». A riprova, il capitoletto 8 si chiude con la sensazione
di «vuoto» per la morte di Plinio, che nel passo seguente si prolunga
nell’analoga atmosfera di «immobilità» e di «silenzio», in cui cresce
il figlio Volturno.22
Affine alla «rime analogique», l’«appel métaphorique» lega tre
paragrafi nell’accordo cromatico del “rosso” della rivolta. Dalle «ca-
micie rosse» dei garibaldini si passa, per via di metafora, al «pelo
rosso» dei gemelli Quarto e Volturno, e infine alla «stretta camicia
rossa» indossata da Plinio per partecipare alla Breccia di Porta Pia.
Trionfa l’armonia, ricercata da Ejzenštejn, tra la «struttura figurativa»
e «il tema e la tesi dell’opera stessa».23
Tuttavia, il procedimento che modula l’intera struttura di Piazza
d’Italia è quello ritmico. Se Ejzenštejn propugna una «linea di ri-
petizione» da portare «avanti attraverso una serie di momenti più
facili da ricordare»,24 Tabucchi si appella al potere dei ritornelli:
Nel caso di Piazza d’Italia non è che io abbia seguito pedissequamente
Ejzenštejn, però molte volte se c’è una frase oppure un aggettivo oppure
un sintagma, che può diventare una specie di ritornello, allora questo viene
ripreso nel capitolo successivo. Il funzionamento di Piazza d’Italia è avvi-
cinabile al cilindro dell’organo di Barberia, che ripete sempre la stessa
musica, come se la partitura fosse fissa. Si tratta di una forma fissa ripetuta
all’infinito.25
19
Riporto il capitoletto Gli occhi belli della fame: «“Mamma, oggi non c’è niente da
mangiare”. / “Fa bene agli occhi”, rispondeva l’Esterina / Per lo spesso niente crebbero con
gli occhi bellissimi, grandi d’acqua». Ivi, p. 25.
20
A. Tabucchi, in Dedica ad Antonio Tabucchi, a c. di C. Cattaruzza, Pordenone, As-
sociazione Provinciale per la Prosa, 2001, p. 53.
21
Nell’episodio dell’assalto al granaio municipale, il particolare visivo delle «sciabole e
i bastoni», con i quali arrivano le guardie regie, si alterna al particolare sonoro del «doppio
di campane», suonate invano da Don Milvio per avvisare i rivoltosi. Cfr. A. Tabucchi,
Piazza d’Italia, op. cit., p. 47.
22
Ivi, p. 22.
23
S. M. Ejzenštejn, Tecnica del cinema, op. cit., p. 320.
24
S. M. Ejzenštejn, Lezioni di regia, op. cit., p. 510, corsivo mio. Dell’affinità tra
Tabucchi e Ejzenštejn in nome della ripetizione ha già accennato, in nota, la Trentini. Cfr.
N. Trentini, Una scrittura in partita doppia, Roma, Bulzoni, 2003, p. 150.
25
A. Tabucchi, nell’intervista inedita a me rilasciata il 05/11/06.
27
 Emessi dall’organo di Barberia (ma con l’ausilio dei precetti ei-
zensteiniani), refrain ritmici puntellano la «favola». Così, alla fine
del capitolo 22, Melchiorre accetta di vegliare sull’Asmara «non
per paura di te, ma per rispetto all’Asmara». Sulla medesima nega-
zione è costruito il titolo della sezione successiva: «Non per paura
ma per parentela».26 Non solo: i nessi iterativi riuniscono anche
capitoletti non consecutivi. A distanza di anni, e di paragrafi, viene
ripetuto l’incontro tra Asmara e Garibaldo. Con la ripresa dei me-
desimi moduli linguistici.27
Talvolta, però, può accadere che la ripetizione dia vita a
climax ascendenti. Nel realismo magico di Piazza d’Italia, le
finestre delle case di Borgo abbandonano per ben due volte i
cardini, ma la seconda “fuga” architettonica è accompagnata da
battute incalzanti, e sgomente, dei personaggi.28 L’iterazione, Ej-
zenštejn docet, non è sempre indolore. Perché, oltre a «facilitare
la creazione di un tutto organico», riesce a «sviluppare un’intensità
in crescendo».29
Ora sedotto da un colore; ora rapito da un suono, Tabucchi
vive (e impiega) il cinema come “totalità” interartistica, non come
arte confinata alla sola immagine. Eppure, le strategie eterogenee
adottate cospirano verso un unico «movimento compositivo»: la
figura circolare. Il primo tempo si apre e si chiude con la morte di
Garibaldo (I), mentre il secondo principia e conclude sulla figura
di Don Milvio. Prima confessore di Melchiorre; poi a sua volta
confessatosi con la Zelmira. Infine, la terza parte s’inaugura e si
risolve nella piazza di Borgo di un’afosa giornata di luglio. Ma la
forma circolare allude anche alla piazza del titolo: la storia s’inserisce
in una risucchiante cornice.30 Topografica e narrativa. Di più: la
piazza di Borgo si fa cronotopo. Allo spazio circoscritto della piazza
corrisponde il tempo dilatato, e ritornante, dell’avvicendarsi della/e
Storia/e.
26
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., pp. 77-78.
27
Si tratta del capitoletto 15, Un baule pieno di lenzuola, a cui fa eco sempre nel
secondo tempo, il 31 intitolato (con raddoppio) Due bauli pieni di lenzuola. La prima volta
Garibaldo ritorna dall’amata Asmara dopo la Prima Guerra Mondiale, mentre la seconda
dopo il lungo viaggio in Argentina. Ma la prima battuta della donna è sempre la stessa:
«Ho il baule pieno di lenzuola». Con una semplice duplicazione nel secondo incontro: «Ho
due bauli di lenzuola». Cfr. A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 68; p. 87.
28
Ivi, p. 109; pp. 141-142.
29
S. M. Ejzenštejn, Tecnica del cinema, op. cit., p. 284.
30
La piazza di Piazza d’Italia è anche un rinvio alla piazza di Vecchiano, paese toscano
di cui è originario Tabucchi. Al centro della piazza, si trova una statua, piccola e buffa, di
Garibaldi.
28
Ma la struttura circolare di Piazza d’Italia vanta anche un mo-
dello matematico: l’«anello di Möbius». Nel quale il tempo gira
sempre su se stesso, pur dando l’idea di creare «una spirale». Tut-
tavia, la spirale è «immaginaria». «Virtuale».31 Dalle imprese ga-
ribaldine al secondo dopoguerra, la Storia persegue un falso mo-
vimento. Perché tradisce in modo spietato i suoi protagonisti.
L’avvicendarsi sulla piazza dei monumenti di diversa bandiera po-
litica (dal Granduca di Toscana al Re al Duce alla Democrazia)
non è che un avvicendarsi di diversi padroni. E le rivolte sono
sempre votate a un tragico scacco. Tutto rimane inviluppato in
un triste, ed eterno, ritorno.
Distanze siderali si frappongono allora tra l’amaro scetticismo
di Piazza d’Italia e l’assoluta fiducia riposta da Ejzenštejn nel mon-
taggio come veicolo del «progresso della società». Secondo l’ideologia
del regista, i «salti» tra una sequenza e l’altra si sarebbero dovuti
inserire nella trionfante «dialettica materialista».32 Al cospetto del-
l’euforico ottimismo russo, Tabucchi dissente risoluto. Si avvale sì
dei «salti» alla Ejzenštejn, ma li piega a significati di segno opposto.
Nella Storia, il balzo in avanti, sembra dirci lo scrittore, è sempre
neutralizzato da un balzo all’indietro. All’entusiasta «dialettica ma-
terialista» di Ejzenštejn Tabucchi sostituisce l’anti-hegeliana immu-
tabilità del cerchio. Benché l’inchiostro segua, nel suo solco, le in-
dicazioni tecniche di regia di Ejzenštejn, Tabucchi finisce quasi per
sovvertire il suo modello. E manda in cortocircuito l’ideologia mi-
litante di cui questo è portavoce.
Tra Pastrone e Fellini: Cabiria allo Splendor
Sulla piazza, in cui Garibaldo trova la morte nell’epilogo iniziale,
un edificio dal nome altisonante si staglia nella calura feroce di
luglio. È lo Splendor, il cine-teatro di Borgo:
Quando Garibaldo, quel giorno da chiodi, si beccò la pallottola in
fronte (un forellino capocchioso, nemmeno un foruncolo), mentre stramazzava
nel bacinìo della piazza, proprio davanti allo Splendor, volle avere l’ultima
parola.33
31
A. Tabucchi, nell’intervista inedita a me rilasciata il 05/11/06.
32
S. M. Ejzenštejn, La forma cinematografica, in Id., Forma e tecnica del film e lezioni
di regia, op. cit., p. 152.
33
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 11.
29
 Il cinema, con il suo linguaggio, non innerva solo la struttura
di Piazza d’Italia, ma entra nella narrazione. E si riserva un ingresso
trionfale, all’incipit della storia. Ma la topografia non è casuale.
Anzi, si fa metanarrativa. Collocare, all’inizio del libro, il protagonista
«proprio davanti» al cine-teatro è una sorta di avvertenza preventiva
per il lettore. Con Piazza d’Italia, egli assisterà a una “rappresenta-
zione”, a una “finzione” (benché di finzione “storica” si tratti),
non a una cronaca limpida e trasparente. Borgo s’impone come
«palcoscenico».34
Nella piazza di Borgo, il cine-teatro è segno concreto di mo-
dernità. Subito dopo aver registrato che «Borgo stava diventando
una città», il narratore si sofferma sui lavori in corso per il teatro.
Come se città e cine-teatro tracciassero il binomio del progresso:
Borgo stava diventando una città. Al teatro ci lavoravano speditamente;
aveva già la facciata completa, con un cornicione neoclassico e la Vittoria di
Samotracia che indicava il nome a lettere di gesso in rilievo: Splendore. Avrebbe
aperto, si diceva, per il prossimo carnevale, con Il paese dei campanelli e forse
un film: Cabiria.35
Dei due spettacoli che lo Splendore dovrebbe presentare per l’i-
naugurazione, Il paese dei campanelli e Cabiria (1914), il primo cade
nell’oblio; mentre l’altro, sceneggiato da D’Annunzio, disegna una
storia di secondo grado, che dilaga nella vicenda principale. Non a
caso, dunque, il paragrafo intitola «Forse Cabiria» e, tra le righe,
accoglie la locandina del film affissa al portone. Nel manifesto, una
«donna vestita di candido, con le mani intrecciate e gli occhi stra-
buzzati» s’innalza «sullo sfondo di una città in fiamme». L’immagine
è ammiccante; e la piazza è in fermento («La danno! Questa volta
la danno per davvero, Cabiria»).36 Ma il manifesto del film è «un
po’ ingiallito e gualcito agli angoli». Quasi una spia del logorarsi
anzitempo di una modernità non ancora raggiunta.
Per un nuovo tradimento della Storia, la piazza non assisterà a
nessuna proiezione. Dall’altoparlante dello Splendore risuona l’an-
nuncio dello scoppio del secondo conflitto mondiale: le fiamme in
celluloide della Cartagine di Cabiria sono scalzate da quelle reali, e
laceranti, della guerra. Le SS appiccheranno poi un rogo a Borgo,
che farà bruciare lo stesso Splendore. In modo tragico, e beffardo,
34
Anche Pezzin parla di Borgo come «palcoscenico», ma non coglie il rapporto col cine-
teatro Splendor. Cfr. C. Pezzin, Antonio Tabucchi, Sommacampagna, Cierre, 2000, p. 14.
35
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 85, corsivo nel testo.
36
Ivi, p. 97.
30
si schianta l’illusione di realtà offerta dal cinema: e da “illusione”
diventa “realtà”.
Assiepata nel racconto, la citazione di Cabiria lavora in modo
antifrastico rispetto alla vicenda degli anarchici di Borgo. Mal si
addice il primo kolossal italiano alla linea antidannunziana, che ser-
peggia in Piazza d’Italia. Quando l’Asmara è emozionata per la
proiezione, Garibaldo la rimbrotta deciso: «[Cabiria] È un filme
fascista […] Il filme di un fascista. Che ci vai a fare».37
Tuttavia Cabiria non è solo «il filme di un fascista». Il nome
ha fortuna; e il battesimo di una nuova «Cabiria», come ricorda
Tabucchi, si celebra nel film di Fellini, Le notti di Cabiria (1957).
Con aperto sbeffeggiamento dell’opera di Pastrone, la Cabiria di
Fellini è un’infelice prostituta romana. Citando Cabiria in Piazza
d’Italia, Tabucchi fornisce una dichiarazione di poetica. Per via di
negazione, però. Lo scrittore rifiuta il modello pompier di D’An-
nunzio, per accogliere l’anti-eroismo di Fellini.38
Tra Tabucchi e Fellini le sintonie non si arrestano alla fortuna
di un nome. Anzi, si arricchiscono di una singolare, e non voluta,
coincidenza. Nel ’73, anno in cui viene scritto Piazza d’Italia, esce
Amarcord. Che ripercorre in modo onirico e memoriale la storia
dell’Italia nella Rimini chiamata «Borgo». Nel tentativo di «de-
maiuscolarizzare» la Storia, Tabucchi e Fellini si riconoscono sodali.
Finita la guerra, il cine-teatro Splendor (che persa la «e» suona
«meglio», «più esotico») viene recuperato dalle macerie. E non
cessa di esercitare il potere d’incantamento sulla comunità («Questa
volta apre davvero», correva voce, «la pace è stabile»). Gli abitanti
di Borgo sperano di vedere «il film, forse per desiderio di vederne
uno a colori, di cui si raccontavano meraviglie». Ma il destino si
accanisce, e il popolo di Borgo dovrà accontentarsi di ascoltare i
37
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 97. L’ultimo accenno a Cabiria si trova nel
terzo tempo. Ormai la guerra è finita e il monumento in piazza rappresenta la Democrazia,
che riceve l’Italia dalle mani di Garibaldi («ci hanno dato un altro padrone», ammicca Ga-
ribaldo). Ora il portone dello Splendor accoglie sulla sinistra «il cartello di un film che
avrebbe dovuto inaugurare il cinema una decina di anni prima» e sulla destra «un manifesto
giallo, scritto a mano», che annunzia un comizio popolare nella sede del vecchio cine-teatro.
La contiguità (identità) spaziale del cinema e del comizio sembra riunire entrambi nel segno
del sogno, dell’utopia. Di sogni sono vessilliferi i film; di utopie i discorsi politici di Garibaldo.
Cfr. A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 122.
38
A. Tabucchi, nell’intervista inedita a me rilasciata il 05/11/06. La presenza di Fellini
continua ad animare la scrittura tabucchiana. E il regista si fa addirittura personaggio in Vivere
o ritrarre, racconto scritto per alcuni disegni di Tullio Pericoli. Cfr. A. Tabucchi, Vivere o ritrarre,
in T. Pericoli, Woody, Freud e gli altri, Milano, Garzanti, 1988, pp. 142-149; rist. in A. Tabucchi,
Racconti con figure, a. c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
31
racconti delle «meraviglie», non di farne esperienza diretta. Da
promettente sala cinematografica lo Splendor diventa Casa del Po-
polo, gestita in cooperativa dallo stesso Garibaldo. L’idea iniziale
di organizzare dei cicli di proiezioni soccombe davanti al sopravvento
della politica. E il cine-teatro ospiterà solo comizi.
La piazza di Borgo è condannata a subire continui cambiamenti
di facciata; che si avvicendino i monumenti, o gli usi ai quali è
adibito lo Spendor. E la parabola zigzagante tracciata dal cine-
teatro riflette la difficoltà di un’effettiva modernizzazione. Ogni
volta che viene procrastinata l’inaugurazione della sala cinemato-
grafica, il progresso rivela sempre meglio il suo carattere. Brutale,
ed effimero.
Recite brechtiane. Dall’Italia alla Grecia…
Accanto alla lezione di Ejzenštejn e all’estetica felliniana, il film
di Theo Anghelopulos, La recita (1975), lavora in Piazza d’Italia.
Ma in modo retroattivo. E a posteriori. Perché spesso «le cose
prima succedono e poi ci si riflette sopra».39 Parola di Antonio Ta-
bucchi.
Presentata a Cannes nel ’75, La recita non può certo aver esercitato
un’influenza su Piazza d’Italia, scritta nel ’73. Tuttavia, nell’epopea
greca della compagnia di teatranti Tabucchi rintraccia «une grande
fraternité d’inspiration». E, in un’intervista, si spinge ad affermare
che la saga familiare e storica degli italiani Garibaldo è stata «in-
fluencée» dalla visione del film di Anghelopulos.40 Che la parola
«influencée» sia da ascrivere alla responsabilità dell’intervistatore o
non piuttosto alla folta schiera dei piccoli equivoci senza importanza,
poco importa. C’è invece qualcosa di sorprendente nel modo simul-
taneo con cui Tabucchi e Anghelopulos, in paesi diversi, si accostano
alle medesime tematiche: «Al tempo di Ricostruzione di un delitto,
suo primo film, io cominciavo a scrivere i miei primi libri: una coin-
cidenza di tempi che è anche una coincidenza di vedute e che non è
casuale: le affinità esistono», commenta Tabucchi.41
Respirato in Italia o in Grecia, lo spirito del tempo negli anni
’70 sollecita gli artisti a concepire l’arte come memoria, e a interessarsi
39
A. Tabucchi, Nota alla seconda edizione, in Id., Piazza d’Italia, op. cit., p. 7.
40
A. Tabucchi, in «Écrire le cinéma». Entretien avec Antonio Tabucchi, op. cit., p. 18.
41
A. Tabucchi, in Tabucchi sostiene Anghelopulos: è un poeta della Storia, a c. di F.
Caprini, «l’Unità», 25/06/2004, primo corsivo nel testo, secondo mio.
32
alla «strana creatura chiamata Storia». O meglio: alle «storie», an-
ziché alla Storia ufficiale.42
Indossate le vesti dei microstorici non professionisti,43 Tabucchi
e Anghelopulos raccontano la gente comune. Da una parte i Gari-
baldo; dall’altra, la compagnia di teatranti. Pagina e schermo sono
affollati da anonimi Don Chisciotte, di cui «os arquivos históricos
não registam o seu nome». Così recita, proprio negli anni di Piazza
d’Italia, la poesia A bicicleta de dom Quixote. Unicum nella costel-
lazione narrativa di Tabucchi.44
Abbandonati gli eroi, Tabucchi e Anghelopulos rifiutano l’ordi-
namento cronologico degli eventi. Laddove lo scrittore italiano, sulla
scorta di Ejzenštejn, sovverte la frigida realtà delle cose, Anghelopulos
modula la rappresentazione con salti temporali, ellissi e piani sequenza,
che accolgono momenti storici differenti. Ne risulta una trattazione
allusiva, fluida, degli accadimenti. Quasi cifrata. Le pagine di Piazza
d’Italia sono prive di puntuali riscontri cronologici e topografici; le
panoramiche di Anghelopulos sono senza tempo. Le vicende rappre-
sentate assumono così un significato universale. E il mito, con le sue
movenze iterative e cicliche, acuisce il senso di assoluto. Nella Recita,
i teatranti della compagnia prendono in prestito i nomi dalla famiglia
degli Atridi: il partigiano Oreste o il fascista Egisto. Ora il mito mil-
lenario urta con la violenza tragica della contingenza storica. Il dramma
tradizionale di Golfo, la pastorella, recitato dalla compagnia, è infatti
continuamente interrotto dal precipitare degli eventi storici. E l’erranza
dei teatranti per la Grecia risillaba lo schema narrativo dell’Odissea.
È, il loro, un viaggio attraverso le cesure della Storia greca, che ha
inizio con il nòstos, il doloroso ritorno. «Autunno 1952: siamo ritornati
a Eghion»: questa è la prima battuta del fisarmonicista nella Recita.
L’archetipo omerico è adottato per essere capovolto. Nondimeno, le
due odissee, l’antica e la moderna, si danno appuntamento agli stessi
42
La poetica del “rovescio della Storia” si ritrova anche nel romanzo immediatamente
successivo, Il piccolo naviglio. Stavolta però è esplicitato il confronto fra la modalità scrittoria
ufficiale (gli Annali della città di *** redatti da un fantomatico Paolo Fonzio) e quella scelta dal
personaggio Sesto, alter ego di Tabucchi: «[Paolo Fonzio] faceva Storia e non storie come quella
di Capitano Sesto». Cfr. A. Tabucchi, Il piccolo naviglio, Milano, Mondadori, 1978, p. 48.
43
Per la lettura di Tabucchi come «microstorico», cfr. F. Brizio-Skov, Antonio Tabucchi.
Navigazioni in un arcipelago narrativo, op. cit., pp. 29-55.
44
La poesia è incentrata sulla figura dell’anarchico Plinio (il nome è quello del capofamiglia
di Piazza d’Italia), che con la bicicletta da lui inventata sfida gli squadristi. A bicicleta de
dom Quixote s’inserisce allora nel clima anarchico del romanzo d’esordio. La poesia è stata
pubblicata nel ’75 sulla rivista portoghese «Critério», nella traduzione dell’amico poeta
Alexandre O’Neill (che è anche il direttore del periodico). Cfr. A. Tabucchi, A bicicleta de
dom Quixote, «Critério» , N° 1, Novembre 1975, pp. 27-30.
33
crocicchi. Al pari di Ulisse al banchetto di Alcinoo, i teatranti di An- resto del testo recano iscrizioni beffarde, rinviano ai cartelli teatrali.
ghelopulos si fanno aedi. Puntato lo sguardo in macchina, raccontano Sulla lapide di Plinio echeggia un ghigno alla Brecht: «GARIBAL-
allo spettatore gli inganni orchestrati dagli inglesi e dagli americani ai DINO/COMBATTÉ A ROMA E A CALATAFIMI/MORÌ A
danni della popolazione greca. Cantastorie di professione è anche TRENT’ANNI/ PER UNA FOLAGA».49 Per Plinio, il sogno di
l’ultimo Garibaldo. Con «fisarmonica argentina» e «cartelloni illu- una morte da eroe, che il suo passato da combattente sembrava
strativi», si aggira nelle «piazze» delle maremme, per raccontare le promettergli, s’infrange nella prosaica «folaga» di montaliana me-
vicissitudini famigliari. E una piccola odissea attraversa il padre di moria.
Garibaldo, dopo esser fuggito da Borgo per scampare alle ritorsioni Quanto alla Recita, le canzoni, usate come «elementi narrativi»,
del guardiacaccia che ha ferito. Non a caso, le lettere inviategli si rivelano dei veri e propri song brechtiani.50 A suon di musica al-
dalla madre nella Ville Lumière mettono l’accento sul nòstos («[…] tercano il «vecchio» e il «nuovo»: tra canzoni della tradizione na-
ma ora bisogna che te lo dica, visto che non ti decidi a tornare»).45 zional popolare e motivi americani d’importazione. Nel tentativo
Persino quando l’incidente con il guardiacaccia viene dimenticato, di tradurre la Storia in una partitura musicale.
Garibaldo non fa ritorno a Borgo. Preferisce trasferirsi negli Stati Ancor prima di conoscersi, Tabucchi e Anghelopulos si fanno,
Uniti, per lavorare nelle Ferrovie dell’Ovest. Quasi obbedisse a un negli stessi anni, aedi brechtiani dell’Italia e della Grecia. Dal loro
ineluttabile e struggente richiamo dell’altrove. Da parte sua, Tabucchi canto nasce un dolente montaggio. Di carta, e di celluloide.
contamina allora l’Ulisse omerico, teso al nòstos, con l’Ulisse dantesco,
proiettato verso mondi inesplorati. E la figura archetipica di Penelope
alligna dietro le donne di Piazza d’Italia. In attesa che il suo Quarto
torni dall’Africa, Esperia «si portava gomitoli di refe e gli uncinetti
e tesseva reti di distrazione, larghe un palmo e lunghe decine di
metri, perfettamente inutili […]».46 Alla natura di “Penelope” non
si sottrae, anni dopo, nemmeno Asmara che passa «tante notti con
gli occhi sul ricamo e l’orecchio alla pendola, a contar gli anni».47
In una sofferente ciclicità.
Trasferito sulla pagina o sullo schermo, il mito innalza la vicenda
alla sommità dell’epopea. Di un’epopea «popolare», però; alla Brecht.48
In cui tutto è giocato sulla strategia della distanziazione. Non di rado
l’allontanamento si fa ironico, e smorza l’enfasi dell’atmosfera. Durante
la confessione di Melchiorre a Don Milvio, le tristi parole del ragazzo
sono intervallate da «silenzi gravidi d’aglio» dovuti all’insana abitudine
del sacerdote di curare con abbondanti spicchi d’aglio la sua dispepsia.
Con l’improvvisa zaffata, il dramma del giovane codardo perde la
sua consistenza tragica. Sulle pagine di Piazza d’Italia, la presenza
brechtiana scansa talvolta la retrovia, e acquista una più immediata
visibilità. I riquadri rettangolari, che separati tipograficamente dal

45
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 36, corsivo mio.
46
Ivi, p. 30.
47
Ivi, p. 124.
48
Esplicita è la filiazione brechtiana di Piazza d’Italia nell’intervista con de Baecque :
49
«J’ai voulu faire […] avec Piazza d’Italia, une réflexion sur l’histoire de l’Italie, comme un A. Tabucchi, Piazza d’Italia, op. cit., p. 23.
50
récit épique écrit à la manière brechtienne […]». Cfr. A. Tabucchi, in «Écrire le cinéma». T. Anghelopulos, in L. Miccichè, Anghelopoulos collezionista di sguardi, «Bianco e
Entretien avec Antonio Tabucchi, op. cit., p. 18. nero», N° 3, 2000, p. 51.

34 35
 1.2
Fili di celluloide all’orizzonte
«Dov’è il posto in cui potrò realizzare i miei sogni?». La do-
manda, ingenua e inconsolabile, è nel film di Capra Strettamente
confidenziale (1934). La rivolge l’insoddisfatto Warner Baxter alla
moglie ormai indifferente. Se l’attore interrogasse Spino e Sara,
protagonisti del Filo dell’orizzonte, riceverebbe una risposta immediata
e risoluta. «Al cinema», replicherebbero all’unisono, e senza indugio,
i personaggi cinefili del romanzo. Che nei capitoli apparsi su «Nuovi
Argomenti» s’intitolava addirittura Cineclub.1
In una città di mare, che tanto ricorda Genova, Spino è un
ombroso addetto all’obitorio. Una notte, alla morgue, viene portato
un cadavere dall’identità ignota («Nobodi»), ucciso in circostanze
misteriose. Da qui Spino intraprende un’indagine personale, ac-
compagnato nei primi tempi dalla compagna Sara e dall’amico gior-
nalista Corrado. Ma ben presto l’inchiesta impazzisce. Le logiche
di causa/effetto non sono più valide. Forse l’uomo che Spino cerca
non è altri che lui stesso da giovane. Ora Spino deve continuare
da solo verso un finale incerto, e sospeso. In un cosmo privo di
ordine (un po’ alla Gombrowicz), Il filo dell’orizzonte abbandona le
vesti del giallo tradizionale. E diventa investigazione metafisica.
Prima dell’arrivo del misterioso cadavere, la vita di Spino e
Sara avanza monotona e sonnecchiante. Solo le serate trascorse al
cineclub Lanterna magica scandiscono il loro tempo libero. In un
rito, però, sempre devoto e appassionato: estraneo a qualsiasi sno-
bismo intellettuale.
Il nome della sala, Lanterna magica, richiama la preistoria del
cinema; e il luogo in cui sorge contrae forti debiti con il passato. Si
trova «in cima a Vico dei Carbonari, in un piccolo cortile che […] ri-
corda case coloniche, lembi di campagna, altri tempi».2 Persino il muro,
che si deve costeggiare per arrivarvi, abbonda di scritte sbiadite su
1
Nei capitoli del Filo dell’orizzonte apparsi su rivista, nel 1986, con il titolo Cineclub
la compagna di Spino non si chiama ancora «Sara», ma «Lisabetta». Cfr. A. Tabucchi, Ci-
neclub, «Nuovi Argomenti», aprile-giugno 1986, pp. 21-24. In realtà, Cineclub non è nemmeno
il primo titolo del Filo dell’orizzonte: una prima versione del libro risale al 1981 e s’intitola
Perdute salme.
2 4
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte [1986], Milano, Feltrinelli, 2004, p. 13, corsivo mio.
36
argomenti ormai superati. Il cinema è un “a-parte”; le sue sono coor-
dinate spazio/temporali altre, “passate” rispetto a quelle contemporanee.
Il cineclub Lanterna magica è famoso per le sue retrospettive, non per
le sue anteprime. Con un palinsesto che predilige la mitologia cine-
matografica, spesso minore, degli anni ’30 e ’40 (da Transatlantic
(1931) a Strettamente confidenziale (1934) ad Acque del sud (1944)).
Scoria della memoria, la vecchia filmografia di cui si nutrono
Spino e Sara è allora una declinazione del «terzo genere» di Jankélé-
vitch, che Tabucchi cita nell’epigrafe iniziale del Filo dell’orizzonte:
«L’essere stato appartiene in qualche modo a un “terzo genere”,
radicalmente eterogeneo all’essere come al non-essere».
Proteso all’indietro, il cinema nel Filo dell’orizzonte finisce per
interessare anche il genere «radicalmente eterogeneo», il «non-es-
sere». E s’inscrive sotto l’egida della morte. In una città agonizzante
e malata, Spino e Sara fanno morire il Tempo. Perché si rifugiano
negli inerti mondi di celluloide, bloccando ogni possibilità di divenire
storico. O meglio: nel Filo dell’orizzonte il tempo storico è svilito a
tempo cinematografico.
Neppure gli attori, nei commenti di Spino e Sara, sfuggono alla
risucchiante atmosfera mortifera. Al di qua della finzione, si offrono
quali cadaveri. La luccicante vita dello spettacolo evapora nello
squallore del quotidiano. Ne paga lo scotto l’attrice Virginia Mayo,
che «morì distrutta dall’alcool nella stanza di un motel perché lui
[Bogart] l’aveva piantata».3
Il primo film a calcare la scena – o la pagina – è Transatlantic
con Edmund Lowe e Myrna Loy. Sulla falsariga di Transatlantic,
Sara, lo sguardo rivolto verso il mare, costruisce un’accurata sce-
neggiatura. Da soap-opera avant la lettre:
C’è un transatlantico, nelle sue fantasie […]. Ci vogliono venti giorni per
arrivare in Sudamerica, ma in quale città non è specificato: Mar del Plata,
Montevideo, Salvador de Bahia, è indifferente: il Sudamerica è piccolo nello
spazio di un sogno. È un film con Mirna Loy che a Sara è piaciuto molto: le
serate sono eleganti, si balla a bordo, il ponte è illuminato da ghirlande di
luci e l’orchestra suona What a night, what a moon, what a girl o qualche tango
degli anni trenta, come Por una cabeza.
Lei indossa un vestito da sera con sciarpa bianca, si lascia corteggiare dal
cavalleresco capitano e aspetta che il suo uomo lasci l’infermeria e venga a in-
vitarla a ballare. Perché naturalmente oltre che il suo uomo Spino è il medico
di bordo.4
3
Ivi, p. 17, corsivo mio.
Ivi, p. 15, corsivo nel testo.
37
 Se nel mondo reale l’evasione della coppia è una «impossibile
partenza», l’unica (ma effimera) scappatoia è offerta dai paradisi
artificiali dei film. O dai sogni, che condividono il medesimo terreno
delle pellicole.
Che sia realizzato al cinema o nei sogni, il desiderio di fuga
tanto serpeggia nei personaggi del Filo dell’orizzonte da tracciare
una linea ascendente fra le pagine. Dall’altura su cui sorgono il ci-
neclub, il caffè e la trattoria Ungheria, agli ascensori che s’inerpicano –
con memoria caproniana – su per le colline, fino al convento romito.
La retta ascensionale – e non più il cerchio come avveniva in Piazza
d’Italia – detta uno dei movimenti compositivi del Filo dell’orizzonte.
E i film richiamati fra le righe s’intonano a questo “movimento”:
tutti accolgono il motivo dell’evasione. In Acque del sud, la Bacall
e Bogart si lanciano nei mari tropicali alla volta di nuove avventure;
mentre in Strettamente confidenziale, Warner Baxter ha il coraggio
di ricominciare una nuova vita con la cognata Myrna Loy; infine
in Pic-nic (1955) Kim Novak decide di lasciare l’esistenza tranquilla
e agiata della provincia, pur di seguire verso l’ignoto il bello, e
audace, William Holden.
Tuttavia, il gioco di rifrazione nelle ombre cinematografiche
non incide sulla realtà: e cela uno stato di strangolante solitudine.
Di chi non è più (o non può più essere) protagonista della propria
vita.5 Di chi, smarrito fra le ombre cinematografiche, ambisce ad
essere centomila, non riuscendo ad essere uno. Spino e Sara soffrono
di una sorta di devianza cinematografica: preferiscono, di volta in
volta, assumere le identità di Humphrey Bogart o di Myrna Loy
piuttosto che affrontare il proprio riflesso. Tra lo status di individuo
e quello di immagine il primato arride al secondo. Il possesso precario
dell’identità, fulcro del Filo dell’orizzonte, trova una nuova decli-
nazione nella cinefilia dei personaggi.
Il ritorno al reale è sempre brusco e frustrante. L’identità prov-
visoria assunta nel breve intervallo del film si sgretola dolorosamente
con il riaccendersi delle luci in sala. La pellicola diventa «oggetto di
saudade».6 Dopo aver assistito, in Acque del sud, alla felice conclusione
5
Per queste idee, in generale, cfr. P. Taggi, Storie che guardano. Andare al cinema tra le
pagine dei romanzi, Roma, Editori Riuniti, 2000, p. 52.
6
Per una suggestiva analisi degli «oggetti della saudade» nella narrativa di Tabucchi,
cfr. A. Dolfi, La scrittura e gli oggetti della saudade, in Antonio Tabucchi narratore, a c. di S.
Contarini e P. Grossi, Atti della Giornata di Studi dell’Université Paris X – Nanterre, 17
Novembre 2006, Paris, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura, 2007, pp. 11-25; rist. in
A. Dolfi, Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi,
Firenze, Le Lettere, 2010, pp. 23-38.
38
delle traversie della Bacall e Bogart, Sara è «malinconica». Si appoggia
a Spino, e ritorna «sul vecchio discorso della laurea mancata». Al
felice finale cinematografico si oppone, nelle pagine, la dolorosa con-
sapevolezza di una vita grigia e ripetitiva, puntellata da occasioni
mancate e da fallimenti personali. Con gli «occhi lustri», dolente
sintagma delle donne-madri tabucchiane, Sara dice a Spino che si
sono incontrati troppo tardi per decidere di andare a vivere insieme.
Dal canto suo, Spino non è il capitano Bogart di una nave (benché
così gli si rivolga la proprietaria della trattoria Ungheria), ma un uomo
introverso che lavora alla morgue. Alla fine, però, Sara riesce a partire;
anche se l’avventura cinematografica nei Mari del Sud si risolve per
lei in una gita scolastica sul lago Maggiore. E si consuma in solitudine:
Spino rimane a Genova per continuare le indagini.
Davanti agli attori, i giudizi dei personaggi tabucchiani sono
viscerali, accalorati. Seppur intriso di morte, il cinema è sempre ri-
condotto alla sfera più intima, privata. E gli attori, più che i film,
diventano oggetto succulento per svariati pettegolezzi, come se
fossero amici o parenti. Nell’assenza di un nucleo famigliare ben
definito (Sara ha un figlio, ma Spino non ha il coraggio di fargli da
padre), Spino e Sara ricorrono ai film per costruirsi un passato co-
mune. Il “visto” diventa “vissuto”. E la coppia discute animatamente
sugli abiti di Myrna Loy e Warner Baxter (scambiato per Humphrey
Bogart) in Strettamente confidenziale. Divoratori dei personaggi in
bianco e nero, Spino e Sara trattengono soprattutto il sapore dei
dettagli (le sciarpe «vistose» di Myrna Loy, o i foulards a pois
«davvero insopportabili» di Warner Baxter). Di più: la fruizione
del film per particolari anticipa la sequenza libresca dell’ingrandi-
mento fotografico (anch’essa costruita sull’ingrandimento di un det-
taglio); e riflette en abyme il procedere dell’indagine (e della scrittura
di Tabucchi tout court). La comprensione del mondo non è più to-
talizzante, ma si frantuma in mille rivoli.
Oltre che frammentario, lo sguardo di Spino e Sara è indiretto.
Vedendo il mondo attraverso il filtro artificiale della bobina, i per-
sonaggi del Filo dell’orizzonte rivelano l’impossibilità – tutta nove-
centesca – di aderire al reale in modo immediato. Il cinema diventa
una forma vicaria della comunicazione. Un espediente per non
doversi confessare le malinconie e i dubbi. Perché le parole non
riescono più a restituire la complessa semantica del vivere, mentre
le immagini offrono un approdo sicuro. Anziché affrontare il difficile
rapporto tra il figlio e Spino, Sara parla «di pellicole»: «Non è
certo un argomento di cui abbia voglia di parlare. Ma anche Sara
non ha voglia di parlarne; avrebbe voglia che ne avesse voglia lui.
39
Così anche lei non ne parla; e invece parla di pellicole».7 S’innesca
un gioco tra i due fuochi dell’ellisse. Da una parte, quello esplicito
del cinema; dall’altra, quello alluso (e continuamente differito) del
reale.
Non pago di imbastire conversazioni cinematografiche con Sara,
Spino coltiva la curiosa abitudine di attribuire un nome cinemato-
grafico ai cadaveri dell’obitorio.8 C’è Marcelino, per esempio, un
ragazzino tredicenne «caduto da un’impalcatura», che gli ricorda il
personaggio omonimo interpretato sul grande schermo da Pablito
Calvo. Sul “filo” che separa, e compenetra, realtà e finzione, sfilano
corpi esanimi e sagome di pellicola.
Al battesimo cinematografico officiato da Spino non si sottrae
nemmeno il misterioso cadavere. È notte, Spino ripensa alla sera
precedente, in cui è arrivato in obitorio il corpo dello sconosciuto.
Una sequenza cinematografica gli ritorna in mente: tra immaginazione
e barbagli d’infanzia. Spino rivede «la diligenza di una vecchia pel-
licola che sbucava dalla parte destra dello schermo e si ingigantiva
in primo piano». La carrozza sembra «diretta su di lui bambino che
la guardava dalla prima fila del cinema Aurora»; come se fosse un
avatar della locomotiva dei fratelli Lumière, che avanza minacciosa
verso gli spettatori impauriti. Un «cavaliere mascherato» bracca la
diligenza al galoppo, finché il postiglione non imbraccia «il fucile e
nello schermo» esplode «uno sparo fragoroso».9
Diligenza, cavaliere mascherato, postiglione: la triade è da western
canonico. E Spino non ha più dubbi sul nome da assegnare al morto
dall’identità ignota: «Chiamalo il Kid», dice all’amico giornalista Cor-
rado. Forse Spino ha in mente il leggendario eroe western «Billy the
kid»; di certo, la sua epifania per immagini richiama un carattere pe-
culiare del medium cinematografico.10 Ovvero: la capacità di isolare
un oggetto in movimento, e ingrandirlo progressivamente. Ma “cosa”
o “chi” si muove: l’osservatore o il mezzo di trasporto? Trionfa,
nell’era della celluloide, il caos tra soggetto e oggetto della visione.11
7
8
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 17, corsivo mio.
Per una lettura della curiosa abitudine di Spino, cfr. W. Geerts, «Il filo dell’orizzonte»
di Antonio Tabucchi: una lettura della morte, in Piccole finzioni con importanza. Valori della
narrativa italiana contemporanea, a c. di N. Roelens e I. Lanslots, Atti del Convegno Inter-
nazionale di Anversa, maggio 1991, Ravenna, Longo, 1993, p. 120.
9
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 27, corsivo mio.
10
La Trentini ha avanzato l’ipotesi di un riferimento a The Kid (in italiano: Il monello)
di Charlie Chaplin. Cfr. N. Trentini, Una scrittura in partita doppia. Tabucchi fra romanzo e
racconto, Roma, Bulzoni, 2003, p. 167.
11
Per queste osservazioni, in generale, cfr. J. Clerc, Littérature et cinéma, Tours, Nathan,
1993, p. 168.
40
Persino l’ultimo scambio di Spino con l’amico Corrado è affi-
dato al cinema. Dopo avergli lasciato sulla segreteria telefonica
un primo messaggio di saluti, Spino si ricorda di qualcosa, e ri-
compone il numero:
Quando ha riabbassato gli è venuto in mente un giorno di tanti anni
prima, allora ha fatto ancora il numero e ha detto: «Corrado, sono di nuovo
io, ti ricordi quel giorno che andammo a vedere Pic-nic e ci innamorammo di
Kim Novak?».12
Di nuovo, la pellicola, stavolta Pic-nic, è proiettata sullo scher-
mo della memoria («un giorno di tanti anni prima»). Kim Novak,
in antitesi alla più sofisticata Marilyn, è l’avvenente ragazzotta
di campagna, che tanto ha fatto sognare la generazione di Spino
e dell’amico. Subito dopo aver riabbassato il telefono, Spino si
pente del gesto appena compiuto, perché «si è reso conto di aver
detto una cosa ridicola». Forse Corrado «non l’avrebbe trovata
ridicola».13 Di fatto, il messaggio «ridicolo» ha tutto l’aspetto di
un messaggio cifrato. La corazza di celluloide inizia a cedere, e
Spino se ne serve per annunziare all’amico il suo imminente ap-
puntamento con l’ignoto. Pic-nic è approssimato per empatia con
la vicenda libresca. Anzi, per così dire, la prefigura. Come Kim
Novak, nel finale di Pic-nic, salpa con un pullman verso una nuova
vita, così di lì a poco Spino – rimasto solo – avanzerà verso un
indefinito «buio».
Di tutti i film menzionati, Pic-nic è l’unico a colori; e l’ultimo
a comparire fra le pagine. Perché il colore è indice della svolta, che
ha avuto la vicenda negli ultimi due giorni. Dopo aver inseguito
false piste per settimane, ed essersi imbattuto in personaggi sinistri
e strampalati, di notte Spino fa un sogno. È un sogno infantile ri-
trovato, che gli provoca un senso di «liberazione» tanto intenso da
indurlo, la mattina, a far ordine in casa (e nella sua vita). Comprende
che il senso ultimo dell’esistenza non si può afferrare: adesso è
pronto per l’appuntamento finale. Poco si addice, in verità, la parola
«finale» a un’opera aperta come Il filo dell’orizzonte. Nell’ultima pa-
gina, Spino, dopo una fragorosa risata, avanza «nel buio». Si tratta
12
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 102, corsivo nel testo. In Pic-nic, per
la prima volta fra i film menzionati, c’è anche il tema del rimpianto della giovinezza. È svi-
luppato attraverso la storia, parallela a quella dei due protagonisti, della zitella in là con gli
anni e del suo compagno riottoso al matrimonio.
13
Ibidem.
41
di omicidio, suicidio, o nuova partenza? Le ipotesi sono molteplici
e disparate; e il testo gioca al rialzo: le accoglie tutte, per rigettarle
una a una.14 Non si chiude, ma si s-chiude. È «un indovinello che
per ora non trova soluzione», come recita una battuta cinematografica
di Acque del sud. D’altronde, in tutti i film citati tra le pagine, il
«the end» rilancia l’avventura. Con la penna in mano, e le pellicole
dinanzi agli occhi, Tabucchi lavora dentro il semplice dipanarsi
della storia. E scardina gli ingranaggi della vicenda.
Spino si sente osservato: comincia il film
Nel foscoliano cimitero monumentale di Genova, Spino, seduto
sulla scalinata di un goffo tempio neoclassico, riflette sulla «co-
reografia della morte». Ne ricorda un esempio cinematografico,
La corazzata Potëmkin (1926): «Gli è venuta in mente La corazzata
Potemkin, come ogni volta che vede una scalinata enorme e bian-
ca».15
Tra un gradino e l’altro, Ejzenštejn, dopo Piazza d’Italia, fa
ritorno sulle pagine. Stavolta in forma più esplicita; ma per via di
sineddoche. L’autore è richiamato attraverso la sua opera; anzi, at-
traverso la sequenza particolare di un suo film: la scena della scalinata
di Odessa. Di nuovo, la citazione diventa una traccia indiziaria.
Se non nella risoluzione dell’inchiesta, almeno nella lettura com-
plessiva del romanzo. Perché l’ammutinamento della corazzata russa
rimanda a un altro ammutinamento: più metafisico e astratto. Una
rivolta contro l’odiosa logica cartesiana che smascheri l’«errore di
14
Diverse sono state le interpretazioni del finale del Filo dell’orizzonte. Da quella del
«suicidio» avanzata da Fofi a quella di Geerts incentrata sulle letture tabucchiane di Rilke
e Blanchot. Più recente, e assai convincente, è l’ipotesi suggerita da Iovinelli, che legge
l’ultima pagina del romanzo come scoperta della «verità del buio». Cfr. G. Fofi, Il primato
del rebus, «l’Unità», 13/11/1986; W. Geerts, «Il filo dell’orizzonte» di Antonio Tabucchi:
una lettura della morte, op. cit., p. 124; A. Iovinelli, I dialoghi manca(n)ti di Antonio Tabucchi,
in Echi di Tabucchi/Échoes de Tabucchi, a c. di P. Abbrugiati, Atti del Convegno Internazionale
d’Aix-en-Provence, 12-13 Gennaio 2007, «Italies», N° S., 2007, p. 155.
L’ipotesi “suicidio” potrebbe essere avvalorata da un racconto di Tabucchi degli anni
Settanta. S’intitola Gobò e appare su «il Caffè» all’interno di una serie di storielle stravaganti
intitolate Le macchine probabili. La vicenda di Gobò infatti comincia (e si conclude) con un
suicidio in riva al fiume. Non solo. La tematica del doppio, cardine del Filo dell’orizzonte, è
al centro della storia: un figlio assomiglia talmente al padre da renderlo quasi indistinguibile
dal genitore e da costringerlo a ripetere la fine suicida del genitore stesso. Cfr. A. Tabucchi,
Gobò, «il Caffè», N° 3-4, 1971, pp. 97-100.
15
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., corsivo nel testo, p. 91.
42
Cartesio».16 E che faccia trionfare, come desidera Spino, l’«eccezione
per tutto ciò che è, come un differimento o una dimenticanza».17
La vittoria non tarda ad arrivare. L’indagine di Spino approda
proprio all’«eccezione» rispetto alla regola di un’identità unica e
indivisibile. Forse il cadavere, che Spino va cercando, non è altri
che il sé stesso di vent’anni prima.
Per una singolare proprietà transitiva, l’allusione a Ejzenštejn
non trasfigura soltanto il quotidiano in vesti cinematografiche, ma
l’immagine sostituisce alla realtà. Spino (e il lettore con lui) balza
dentro un vero film. Con tanto di scenografia monumentale:
Per un attimo gli è parso che anche lui stesse vivendo la scena di un film
e che un regista dal basso, dietro una macchina da presa invisibile, stesse fil-
mando il suo stare seduto lì a pensare.18
Forse non c’è nessuno appostato lì nel camposanto, ma Spino
non riesce a scrollarsi di dosso quella strana sensazione. E l’avverte
una seconda volta: «[…] e ora qualcuno che non poteva vedere
forse lo stava osservando […]».19 Nello spazio della pagina, la
scrittura di Tabucchi restituisce così la dialettica cinematografica
tra campo e fuoricampo. Con una patente predilezione per il secondo.
Sinuosi buchi infatti screziano sempre le sue trame, nientemeno a
livello di paratesto. Nel Filo dell’orizzonte gli strappi s’incarnano
nelle pagine bianche lasciate tra un capitolo e l’altro. Del resto,
ammette Tabucchi, il cinema gli ha insegnato ad adoperare la
gomma, a «jeter», a «faire de soustraction». In una parola: ad avere
dimestichezza con l’ellissi.20
Tra pagina e schermo gli scambi toccano il diapason nei due
momenti apicali di ogni storia; all’inizio e alla fine del libro. Con
le improvvise e successive condensazioni di dettagli («la maniglia a
leva», «i cuscinetti a sfera», «i cassetti»), il primo capitoletto ri-
propone l’estetica cinematografica del frammento. E sceglie una
16
L’espressione «errore di Cartesio» è usata da Tabucchi nella presentazione della sce-
neggiatura di Parla con lei, il film di Pedro Almodóvar. Cfr. A. Tabucchi, La logica della vita,
in P. Almodóvar, Parla con lei, Torino, Einaudi, 2003, pp. V-VI. Con l’espressione «errore di
Cartesio», Tabucchi rinvia all’opera omonima di Antonio Damasio. Cfr. A. Damasio, L’errore
di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi, 1995.
17
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 21, corsivo mio.
18
Ivi, p. 91.
19
Ivi, p. 93.
20
Così dichiara Tabucchi durante il dialogo con Bernard Comment tenutosi l’11/01/2007
presso l’Istituto Italiano di Cultura di Marsiglia. Il titolo dell’incontro è Deux écrivains
complices.
43
scrittura «abile e agile».21 La dittologia è d’autore. La impiega
Calvino in una lettera a Tabucchi, dopo aver letto la prima versione
del Filo dell’orizzonte, allora intitolato Perdute salme.
Ma è il finale a decretare il successo del cinema fra le righe. La
Settima Arte s’adopera per risolvere, seppure in via negativa, l’in-
chiesta. Per “montare” i particolari. Dopo aver compreso che c’è
un nesso che lega le cose, ma questo nesso è indecifrabile, Spino
immagina il momento dell’omicidio. In una serie ravvicinata di sog-
gettive cinematografiche:
E ha pensato di nuovo a quel giovane, e allora ha visto chiaramente la
scena; […]. Lo ha visto uscire dal suo nascondiglio e mettersi volutamente
nella traiettoria delle pallottole cercando l’esatta balistica che gli portava la
morte; lo ha visto avanzare lungo il corridoio con calcolata determinazione,
come chi segue la geometria di una traiettoria per compiere un’espiazione o
realizzare un semplice nesso fra gli avvenimenti.22
Forse Nobodi si è volutamente fatto uccidere, ma il movente
resta ignoto. Nonostante l’incrocio di sguardi, romanzeschi e cine-
matografici, lo gnommero del pasticciaccio genovese non riesce a
dipanarsi.
In un libro tramato di celluloide come Il filo dell’orizzonte, persino
la pagina conclusiva rinvia al cinema. Stavolta si rende complice il
sapiente dosaggio luministico, che ricorda i contrasti chiaroscurali
propri del genere noir. Le luci del porto diventano «lumi di una
nave ancorata», poi «semaforo», poi «luce di un fiammifero», poi
luce della sigaretta, luce dei «fanali gialli», fino ad assottigliarsi in
una «striscia di luce» gialla persa nel buio.23 Non più bagnata dal
21
L’espressione «abile e agile» è usata da Calvino in una lettera del 29 marzo 1982
indirizzata a Tabucchi. Lo scrittore gli aveva inviato il dattiloscritto di Perdute salme
(questo il titolo della prima versione del Filo dell’orizzonte), ma Calvino aveva rifiutato di
esserne il padrino editoriale. Pur apprezzando la scrittura di Tabucchi e la sua capacità di
dare concretezza a personaggi e ambienti, Calvino non aveva condiviso il «salto dal grigiore
del vissuto reale e dalle sue compensazioni cinematografiche, alla avventura tragica con le
sue suggestioni metafisiche». E aveva rimpianto che l’azione non si fosse tutta svolta al-
l’interno della morgue, luogo dalle molteplici e possibili risonanze. La lettera è stata pub-
blicata su «la Repubblica» il 6 agosto 2005. Lo stesso Tabucchi, in un’intervista rilasciata
a Borsari, accenna al parere di Calvino e dice di averne tenuto conto nella revisione del
suo libro. Cfr. Cos’è una vita se non viene raccontata?, a c. di A. Borsari, «Italienisch»,
1991, N° 26, p. 10.
22
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 99, corsivo mio.
23
Ivi, pp. 104-105. A proposito di questa riduzione della luce, Geerts ha scritto: «per il
solo effetto di progressiva riduzione della luce, potrebbe essere la fine di un film». Cfr. W.
Geerts, «Il filo dell’orizzonte» di Antonio Tabucchi: una lettura della morte, op. cit., p. 124.
44
sole, la Genova in penombra del Filo dell’orizzonte rimanda, nelle
parole di Fofi, «a qualche porto del film nero americano».24 O fran-
cese. Magari ricorda il porto del Porto delle nebbie (1938) di Carné.
Il filo dell’orizzonte svela allora il suo modello: il noir, con il con-
sueto corredo di toni cupi e drammatici; di piste possibili, e di in-
credibili epifanie. Ben presto, però, Tabucchi cambia registro; e in-
nesca un agone con il “genere”. Perché il rovescio ironico dei topoi
più svariati è pratica gustosa per lo smaliziato scrittore. L’incontro,
al night, tra Spino e il pianista (probabile informatore) è modulato
come la sequenza di un polar rivisitato in salsa ligure. L’evocativo
nome del suonatore di piano, «Peppe Harpo», non è che una ridicola
rielaborazione dell’originario e prosaico «Giuseppe Antonio Arpetti».
Su suggerimento del musicista, Spino si reca dalla farinataia Egle.
Spera di incontrare qualcuno che possa fornirgli preziose informazioni
sul caso. L’ipotetica delatrice è un’anonima cameriera, le cui mani
«sembrano due braciole impanate». Attraverso questo zoom improv-
viso, la tensione da hard-boiled precipita in un grossolano paragone
gastronomico. In un riverbero continuo di serio e faceto.
Con un occhio a Blow-up…
Dopo giorni di indagini, Spino riesce a impossessarsi di una
foto appartenuta a Nobodi. La porta a casa; predispone la camera
oscura; e si prepara a ingrandirla. La gestualità di Spino non è ori-
ginale. Richiama (e riscrive) altre operazioni. Libresche e cinemato-
grafiche. Dalle Bave del diavolo di Julio Cortázar a Blow-up di An-
tonioni.25 In un sinuoso periplo intertestuale.
Che sia effettuato dal Michel di Cortázar, dal Thomas di An-
tonioni, o dallo Spino di Tabucchi, l’ingrandimento fotografico
conduce all’epifania. Se un adescamento omosessuale turba il rac-
conto, e un omicidio sconvolge il film, l’origine argentina di Nobodi
(forse un omaggio alla patria di Cortázar?) scuote la ricerca di
Spino. Nella foto ingrandita della vittima, affiora un gruppo di fa-
miglia in un esterno. Seduto a un tavolino di marmo, il padre in
seppia legge la rivista «Sur» pubblicata a Buenos Aires.
24
G. Fofi, Il primato del rebus, op. cit.
25
Ceserani ha già letto la sequenza dell’ingrandimento come «the moment of the blow-
up à la Cortázar (or Antonioni)». Cfr. R. Ceserani, The art of fixing shadows and writing
with light. Tabucchi and Photography, in Antonio Tabucchi: a collection of essays, a c. di B.
Ferraro e N. Prunster, «Spunti e ricerche», N°. S., 12, 1997, p. 114.
45
 Riuniti dalla scelta dell’ingrandimento fotografico come momento
di svolta per le loro storie, Cortázar, Antonioni e Tabucchi rifiutano
la funzione mimetica del medium fotografico. E ne avallano una
euristica. I loro personaggi in bianco e nero soffrono i limiti circo-
scritti dell’istantanea. E guardano “oltre”. Il Nobodi della foto del
Filo dell’orizzonte ha gli occhi «persi oltre l’obbiettivo»; mentre il
personaggio delle Bave del diavolo guarda verso l’uomo dal cappello
grigio «accuratamente escluso dalla fotografia»;26 e infine la ragazza
fotografata dal Thomas di Antonioni «guarda qualcosa rimasto fuori
campo».27
Vagando su fili di invisibili orizzonti, gli sguardi chimici sfuggono
al controllo di chi li osserva. Come già avvenuto per il western, la
linea di demarcazione fra soggetto e oggetto della visione cede il
passo a un’ingarbugliata confusione dei punti di vista. In un libro
in cui tanto s’insiste sullo sguardo (il «filo dell’orizzonte» Spino
«lo aveva negli occhi»), i dispositivi della visione per antonomasia,
la fotografia e il cinema, sono piegati al senso novecentesco della
precarietà. Perché “vedere” non significa più “comprendere”. Non
solo: ora le foto arrivano ad animarsi. Tra le pareti della stanza
cortazariana, il protagonista nota nella foto la mano della donna
chiudersi lentamente, mentre in Blow-up, la cinepresa, muovendosi
dietro il fotografo, anima la narrazione in bianco e nero delle istan-
tanee. Dal canto suo, Spino registra (o immagina) i movimenti dei
personaggi fotografati. Il presunto padre di Nobodi alza gli occhi,
in seguito all’invito dell’improvvisato fotografo, mentre la madre
«sta sbucando sulla soglia» e soprattutto la persiana, fissata dal ra-
gazzo, «può socchiudersi lentamente». Adesso le fotografie, inerti
e immobili, si arricchiscono della dimensione temporale: e si fanno
cinema.
I personaggi di Cortázar, Antonioni e Tabucchi hanno passaporti
differenti, e biografie difformi. Ma un’indole comune: sono perse-
cutori. Loro malgrado, però. Nessuno è un detective di professione:
Michel è un fotografo d’occasione; Thomas fa scatti per lavoro,
mentre Spino è un addetto all’obitorio. È il Caso, complici alcune
foto scattate in un parco o un misterioso cadavere recapitato all’o-
bitorio, a iniziarli alla quête. A dispetto delle indagini intraprese,
nessuno dei tre persecutori riesce tuttavia a risolvere l’enigma. Lo
schema della detective story è adottato per essere condotto al collasso.
26
J. Cortázar, Le bave del diavolo, in Id., I racconti, a c. di E. Franco, Torino, Einaudi –
Gallimard, 1994, p. 284.
27
M. Antonioni, Blow-up (sceneggiatura), Torino, Einaudi, 1967, p. 47.
46
Il filo si sfilaccia.
Del resto, la passione di Antonioni per l’ouverture narrativa è
il tratto che più seduce Tabucchi:
Prenez certains films d’Antonioni. Ce sont des narrations ouvertes. [...]
Chez moi, Antonioni a été très important, surtout pour cette raison, pour
cette ouverture [...].28
Laddove il destino del fotografo londinese s’insabbia nel brumoso
parco, l’avventura di Spino, emulo inconsapevole del personaggio
di Antonioni, naufraga nell’indistinto buio. Per congedarsi dal
nostro sguardo, entrambi scelgono il meccanismo della disparition.
Non è allora solo la sequenza dell’ingrandimento fotografico a
interloquire, mediata da Cortázar, con l’opera di Tabucchi. Ma un
po’ tutto Blow-up. Persino la sequenza finale della partita a tennis,
giocata senza palline (ma di cui si sente distintamente il suono), si
annida sotto la scrittura del Filo dell’orizzonte. E finisce per assurgere
a principio costruttivo della storia tabucchiana. Perché, in quel mo-
mento, Antonioni «se confronte à l’improbable, au fantastique à
partir d’éléments très concrets».29 Il commento a Blow-up è di An-
tonio Tabucchi; ma le parole valgono anche come dichiarazione di
poetica personale. Confrontarsi con il fantastico a partire da elementi
concreti è principio caro allo scrittore del rovescio. Lo dimostra
proprio Il filo dell’orizzonte. Iniziata nella desolante realtà dell’obitorio
con l’arrivo di un cadavere “concreto”, l’indagine di Spino, nel suo
procedere, insinua nel lettore l’ipotesi neofantastica dell’identità
tra il detective e la vittima.30 Davanti alla fotografia del morto sco-
nosciuto, Sara per prima formula l’ipotesi perturbante: «Con la
barba e venti anni di meno potresti essere tu».31
Rappresentato sullo schermo o sulla pagina, il mondo mostra
una struttura a cipolla; con strati diversi, inabissati, e alternativi
alle falde razionali. In una staffetta ideale, Antonioni passa insomma
il testimone a Tabucchi. E l’interrogazione sul reale trasmigra sulla
pagina. L’antica concezione chirurgica della scrittura – alla quale
28
A. Tabucchi, in «Écrire le cinéma». Entretien avec Antonio Tabucchi, in Le cinéma
des écrivains, a c. di A. de Baecque, Paris, Éditions de l’Étoile/Cahiers du Cinéma, 1995, p.
15, corsivo mio.
29
Ivi, p. 17.
30
Assumo qui il termine «neofantastico» nell’accezione che ne dà Alazraki. Ovvero:
un’alternativa gnoseologica alla visione consueta della realtà, che è influenzata dalle scoperte
scientifiche del Novecento e soprattutto dalle geometrie non euclidee. Cfr. J. Alazraki, En
busca del unicorno: los cuentos de Julio Cortázar, Madrid, Gredos, 1983.
31
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 32.
47
rimanda la professione di Spino avvezzo alle autopsie – entra in
crisi. E la penna, usata come bisturi per “aprire” il mondo e sco-
perchiarne i vizi, finisce per incrinare la nozione stessa di realtà.
Dallo schermo alla pagina; e di nuovo allo schermo: O fio do horizonte,
il film
Una sera a Lisbona; primi anni ’90. Il regista Fernando Lopes,
protagonista del Cinema Nôvo lusitano, invita a cena l’amico Antonio
Tabucchi. Gli chiede i diritti di Donna di Porto Pim per poterne
girare un film. Purtroppo, essi sono stati già concessi a un regista ca-
talano. Tabucchi rilancia l’offerta: e propone a Lopes di utilizzare Il
filo dell’orizzonte. Nasce così il film O fio do horizonte/Le fil de l’horizon
(1993), frutto di una produzione franco-portoghese-spagnola.
Più fedele allo spirito che non alla lettera del testo tabucchiano,32
Lopes trasferisce le vicende di Spino e Sara (nel film «Francesca»)
da Genova a Lisbona. Le ragioni non sono solo pratiche; ma intac-
cano l’interpretazione. Lopes è convinto che la Genova del Filo
dell’orizzonte non sia Genova, bensì Lisbona; tanto più che Tabucchi
vive simultaneamente in entrambe le città negli anni di gestazione
del libro. Il gioco del rovescio si arricchisce così di una nuova
variante urbana.
Tuttavia, la Genova di Tabucchi e la Lisbona di Lopes sono
entrambe città inventate. Desolanti labirinti mentali. Non di rado,
nel film, l’inquadratura ritrae Spino costretto dalle travi di un ponte
o dalle assi di una cabina telefonica. Adoperando compassi archi-
tettonici, Lopes realizza quella «geometrizzazione» del romanzo,
che gli riconosce un misterioso spettatore in una fantomatica lettera.
L’epistola è contenuta in Autobiografie poetiche altrui; e l’inchiostro
tradisce una calligrafia sospetta. Tra le righe echeggia il timbro del
prestigiatore Tabucchi:
Sul Suo film, ricco di atmosfere e realizzato con molto talento, avrei
molte cose da dire […]. Mi limiterò a osservare che di quel romanzo di
Tabucchi Lei ha saputo fare quello che Mondrian riuscì a fare con i rami
intricati di un albero, trasformandoli in linee orizzontali e verticali.33
32
Una prima sceneggiatura, scritta da Sergio Vecchio, viene rifiutata perché considerata
troppo tabucchiana, troppo letterale. Dopo, il lavoro viene affidato allo sceneggiatore Chri-
stopher Frank.
33
A. Tabucchi, Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 62.
48
«Linee orizzontali e verticali» disegnano e ritagliano la ricerca
di Spino in una Lisbona onirica e in ombra. Tra De Chirico e Hop-
per. Lontana dalla ville blanche restituita nell’omonimo film di Tan-
ner, la Lisbona di Lopes è una città quasi in bianco e nero. La
luce, se c’è, è una luce sporca, che non rischiara le cose, ma le
confonde fino all’indistinto. Una «lumière obscure», sul modello
della luce che cresce a Lisbona nei versi di Cesário Verde, poeta
prediletto da Tabucchi.34 Se l’atmosfera allucinata è allora squisi-
tamente tabucchiana, lo svolgimento dell’azione risulta dissonante.
Tutto cospira a rendere esplicite le ellissi del testo. Davanti al libro
organizzato attorno a un centro vuoto (l’identità sconosciuta di No-
bodi), Lopes attende al riempimento. E inserisce una sequenza, in
cui il confronto tra le impronte digitali di Spino e quelle di Nobodi
prova che sono identiche. Il nodo si scioglie, ma la tensione rovina
per un eccesso di visibilità. All’affascinante metodo ipotetico e am-
biguo della scrittura tabucchiana, Lopes sostituisce la perentorietà
dell’indicativo. Anni dopo, Lopes riconoscerà le trappole, che la
narrazione di Tabucchi riserva ai cineasti. E definirà addirittura lo
scrittore «um autor ontologicamente cinematográfico que, todavia,
não escreve para cineastas».35 Apparentemente le storie di Tabucchi
sono molto appetibili per il cinema, finché improvvisi squarci nella
storia non ostacolano ogni trasposizione. Un po’ come la frutta di
marzapane: bella d’aspetto, ma ostica per i denti.
Attraversando l’accidentata vicenda del Filo dell’orizzonte, Lopes
s’imbatte anche in alcune orme ambigue disseminate sul terreno
della storia. Le ha impresse Fernando Pessoa, «le doppelganger de
Tabucchi».36 Lo sconosciuto Nobodi non assomiglia infatti solo a
Spino da giovane, ma è un suo eteronimo, una scheggia del suo io.
Con il retroterra pessoano del Filo dell’orizzonte, Lopes deve fare i
conti durante la lavorazione del film. Il regista vorrebbe cambiare
il titolo dell’opera, e passare da «O fio do horizonte» al più usato
«A linha do horizonte». Ma Tabucchi si oppone, perché sostituire
«linha» con «fio» cancellerebbe il passo di Pessoa da cui l’espressione
è tratta.37
34
F. Lopes, nell’intervista inedita a me rilasciata il 14/06/06. La splendida luce così
ottenuta non sarà accettata dalla televisione, tanto che Lopes sarà costretto a realizzare
delle copie speciali per Canal Plus e Channel Four.
35
F. Lopes, Um escritor ontologicamente cinematográfico, in Antonio Tabucchi: geografia de
um escritor inquieto, a c. di M. J. de Lancastre, Atti del Convegno Internazionale di Lisbona
13-17 Aprile 1999, Lisboa, Fundação Calouste Gulbenkian – ACARTE, 2001, p. 151.
36
F. Lopes, nell’intervista inedita a me rilasciata il 14/06/06.
37
Ibidem.
49
 Lopes mantiene allora il titolo originale, e per dare rilievo alla
presenza di Pessoa aggiunge nel film una sequenza didascalica. A
scuola, Francesca/Sara discute con un’alunna del Libro dell’inquie-
tudine di Bernardo Soares. Ancora una volta, la resa esplicita nuoce
alla riuscita della pellicola.
Eteronimo di Spino, Nobodi è anche l’uomo che “morì due
volte” («“Ma non si può lasciar morire la gente nel niente”, ha
detto Spino, “è come se uno morisse due volte”»).38 L’antifrasi con
il titolo hitchcockiano, La donna che visse due volte (1958), è consa-
pevole. Lopes la coglie; e la dimostra per via di immagini. Quando
Spino e Francesca, per le loro indagini, si recano a un convento
fuori città, ricordano James Stewart e Kim Novak in visita alla
missione spagnola: quella del famoso campanile. Identico il décor,
identici i movimenti di macchina (falso travelling con dolly), ma so-
prattutto identico il senso di vertigine. Sulla sommità della scogliera
dove sorge il convento a precipizio sul mare, lo Spino cinematografico
è colto da vertigine. Perché, come recita la quarta di copertina del
Filo dell’orizzonte, la ricerca di Spino si muove «in una sorta di
caduta libera, vertiginosa e obbligata al tempo stesso».
Accompagnato da un seducente bolero musicale ideato da Prei-
sner, compositore dei film di Kieślowski,39 O fio do horizonte deve
gran parte del suo fascino alla scelta dell’attore protagonista. Se
Andréa Ferréol – nota al pubblico italiano per il ruolo interpretato
nella Grande abbuffata (1973) di Ferreri – è troppo carnale per la
figura evanescente di Sara, Claude Brasseur è uno Spino tormentato
e autentico. Tra pagina e schermo, identità reali e fittizie si inse-
guono, si intrecciano. E aggrovigliano la matassa dell’arte.
38
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, op. cit., p. 51, corsivo mio. È lo stesso Lopes a
rivelare la presenza hitchcockiana nel libro e nel film, e a chiamare in causa anche Rapporto
confidenziale (1955) di Orson Welles: «[Tabucchi] faz-nos perder como num filme, que aliás
eu cito, de Hitchcock, Vertigo mas também como noutro filme de Orson Welles, que eu
também cito, Monsieur Arkadine [in italiano Rapporto confidenziale]». Cfr. F. Lopes, Um
escritor ontologicamente cinematográfico, in Antonio Tabucchi: geografia de um escritor inquieto,
op. cit., p. 153.
39
Nell’intervista inedita a me rilasciata il 14/06/06, Lopes ricorda come a Parigi il
montaggio del Filo dell’orizzonte sia avvenuto nella stessa sala di montaggio di Film blu
(1993) di Kieślowski. Montaggio, peraltro, realizzato dal medesimo montatore. Da questa
coincidenza, nascerà addirittura un sodalizio tra i due registi. E Kieślowski sarà invitato in
Portogallo, per tenere un ciclo di seminari a registi e montatori lusitani.
50
1.3
Racconti di cinema barato
Sul retro di una cartolina con La Torre dell’Orologio di Levanto,
svettante da una zona rupestre, Antonio Tabucchi scrive a Vittorio
Sereni:
Maria Laura Boselli mi ha comunicato questa settimana la scelta del Gioco
del rovescio e ora mi manderà il contratto. Ne sono davvero molto soddisfatto,
e te ne sono grato.1
Col risoluto supporto editoriale del «poeta e di poeti funziona-
rio», Il gioco del rovescio viene pubblicato nel 1981 nella collana
«Le Silerchie. Nuova serie».
Sin da questa prima raccolta di racconti, il cinema giganteggia
sulla pagina tabucchiana. Otto delle undici storie, che compongono
il libro,2 accolgono citazioni filmiche; e fra le righe si avvicendano
personaggi dall’onomastica cinematografica. È il racconto eponimo
ad aprire le danze di celluloide.3 Il narratore è in viaggio verso Lisbona
per partecipare alle esequie dell’amata Maria do Carmo, donna mi-
steriosa e sfuggente; e in treno discute di cinema. Lo fa in modo
fortuito; con un interlocutore di passaggio: un poliziotto, che gli
chiede i documenti per eseguire i consueti controlli. Dopo una boutade
dell’io narrante, i due imbastiscono una breve conversazione:
1
La cartolina è datata 7 febbraio 1981 e fa parte di una serie di tredici lettere, inedite,
indirizzate da Antonio Tabucchi a Vittorio Sereni dal 1977 al 1983. Tra rapidi resoconti di
viaggio e inviti a pranzo, Tabucchi segue le vicissitudini editoriali del suo romanzo Capitano
Nemo, che aveva presentato, tramite Sereni, alla collana «Le Silerchie» de «Il Saggiatore».
Sfiduciato dal protrarsi dell’attesa e insoddisfatto del risultato raggiunto con il romanzo,
Tabucchi ritira il dattiloscritto. La corrispondenza è conservata nell’Archivio Privato di
Vittorio Sereni presso la Biblioteca Comunale di Luino. Ringrazio la Dott.ssa Barbara Colli
per avermi fornito una copia della corrispondenza.
2
La prima edizione Il Saggiatore del Gioco del rovescio contiene i seguenti racconti: Il
gioco del rovescio, Lettera da Casablanca, Teatro, Paradiso celeste, I pomeriggi del sabato, Dolores
Ibarruri versa lacrime amare, Il piccolo Gatsby, Voci. Il racconto Il gioco del rovescio era già
stato pubblicato nel 1980 sul N° 360-362 di «Paragone», mentre Lettera da Casablanca è
comparsa nel 1981 sul N° 1 de «Il cavallo di Troia». Nel marzo 1988, esce una nuova edizione
della raccolta per i tipi di Feltrinelli, che aggiunge alla precedente tre racconti sotto la deno-
minazione di «altri racconti»: Il gatto dello Cheshire, Vagabondaggio, Una giornata a Olimpia.
3
Sul racconto Il gioco del rovescio ci si soffermerà anche nel capitolo intitolato Giochi
di specchi e tele rovesciate: Tabucchi barocco?
51
 Voi italiani amate sempre scherzare, disse, le piace Totò? Moltissimo,
dissi io, e a lei? Io ho visto tutti i suoi film, disse lui, mi piace più di Alberto
Sordi.4
Nel vagone di un treno diretto a Lisbona, Totò contende il
trofeo a Sordi. L’uno schiera il genio poliedrico partenopeo;
l’altro la capacità di simbiosi con l’italiano medio. La vittoria
non può che arridere a Totò, condannato a un interminabile
gioco del rovescio. Con smorfie e contorsioni facciali, il principe
De Curtis diventa, sul grande schermo, uno smaliziato guitto
napoletano.
Complice Totò, l’idea che Tabucchi ha del cinema affiora già
nel primo racconto. Non certo uno specchio cristallino del reale;
ma un duttile dispositivo del rovescio, che filma il mondo da un’an-
golazione di volta in volta differente.
Cortocircuiti di celluloide: Lettera da Casablanca
Confinato alla breve durata di una conversazione ferroviaria
nel Gioco del rovescio, Totò ricompare nel secondo racconto della
raccolta, Lettera da Casablanca. Stavolta, per una spinosa questione
di onomastica.
In una lettera impastata di ricordi di famiglia vividi e struggenti,
l’io narrante di Lettera da Casablanca prega la sorella di occuparsi
della sua sepoltura. Qualora l’operazione per cambiare sesso, alla
quale ha deciso di sottoporsi, non dovesse riuscire, le chiede di
essere seppellito vicino alla madre; e di far scrivere sulla lapide
non il suo nome anagrafico, «Ettore», troppo guerriero e virile,
ma il più leggiadro «Giosefine». L’appellativo sa di celluloide,
ma ha un retrogusto di infanzia. «Giosefine» è il nome che Ettore
e la sorella, figli di un casellante, hanno dato da bambini alla
palma davanti alla loro casa. I genitori li avevano portati al cinema
a vedere Totò in 47 morto che parla (1950), e i bambini erano ri-
masti irretiti da Joséphine Baker, la cantante afro-america che
compariva nel documentario Luce prima del film. Nel «film luce»,
la donna indossava proprio «un copricapo bellissimo fatto con
foglie di palma».
Una cantante Giosefine ha già calcato le pagine della letteratura.
Lo ha fatto, sub specie topesca, nel racconto Giuseppina la cantante,
4 6
A. Tabucchi, Il gioco del rovescio [1988], Milano, Feltrinelli, 1998, p. 13.
52
scritto da Kafka prima di morire.5 Lettera da Casablanca filtra il
racconto di Kafka, ma lo setaccia da un nuovo punto di vista. Chi
narra le mirabilie della cantante non è più uno spettatore, ma la
vocalist stessa. E mentre, alla fine del racconto di Kafka, la topolina
Giuseppina non vuole più cantare (metafora, nelle parole di Tabucchi,
della «paralisi narrativa e paralisi esistenziale sulla funzione della
scrittura»);6 la Giosefine di Tabucchi decide, per esprimere al meglio
il suo canto, di cambiare sesso. Tuttavia, l’operazione chirurgica,
alla quale si sottopone Ettore, è minacciata dal possibile insuccesso.
Il destino ultimo della scrittura, sembra suggerirci Tabucchi, è
tuttora incerto.
Il cinema non segna solo l’infanzia del narratore di Lettera da
Casablanca, ma s’impone, con le sue pose, nel momento culminante
della sua vita: il debutto artistico nel night di Mar della Plata.
Una sera, nel locale dove Ettore lavora come cameriere, la cantante
professionista è colta da un malore improvviso. Stanco di trascinare
la sua vita, Ettore non si lascia sfuggire l’occasione; e sale sul
palco al suo posto. Indossato un luccicante abito di scena e una
vistosa parrucca rossa, Ettore diventa «Giosefine». Fa ondeggiare
la testa affinché «i riccioli» gli accarezzino «le spalle», come ha
«visto fare a Rita Hayworth in Gilda». Poi si lancia in un «Que
será será alla maniera di Doris Day». L’apparato è da gran diva;
l’immaginario è hollywoodiano.
A dispetto dei gusti cinematografici del suo protagonista, Lettera
da Casablanca è costruita seguendo un montaggio ardito, lontano
da quello degli Studios. Tutto il racconto costeggia una voragine,
un imponente “non detto”. Nella minuziosità quasi tattile degli
eventi narrati, nulla sappiamo della sciagura che si è abbattuta sui
due fratelli, se non da rapidi accenni in bocca ai personaggi (forse
il padre in un raptus di follia ha ucciso la loro madre).
Dopo le traversie di Cabiria (1914) in Piazza d’Italia, la pagina
di Tabucchi registra un nuovo cortocircuito: tra le pellicole citate
e il modello cinematografico innestato nelle fibre della storia. Che
si tratti di film o canzoni (le canzonette allietano i pomeriggi di
Ettore in casa degli zii), Tabucchi preleva sempre dall’arte “bassa”.
O meglio: barata, a buon mercato, per rubare il titolo alla poesia A
5
In un’intervista del 1999, Tabucchi menziona il racconto di Kafka con il titolo La
topolina Josephine, anziché Giuseppina la cantante, come invece riporta la traduzione italiana
dei Racconti (F. Kafka, Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi, in Id., Racconti, trad. it.
di R. Paoli e E. Pocar, a c. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1970, pp. 578-597). Cfr. A. Ta-
bucchi, Sostiene Tabucchi, a c. di A. Scarponi, «Lettera internazionale», N° 62, 1999, p. 5.
A. Tabucchi, Sostiene Tabucchi, op. cit., p. 5.
53
música barata di Carlos Drummond de Andrade.7 Pure, lo schema
narrativo, che accoglie gli elementi barati, è tutt’altro che popolare.
L’operazione compiuta da Tabucchi è delle più sottili. Forse, un
tempo lo scrittore credeva alle avanguardie (o almeno ci credeva
un suo personaggio: «credevo nelle avanguardie [cinematografiche].
Era bello pensare che erano rivoluzionarie. Esteticamente, intendo»),8
ma gli anni lo educano al disincanto. Decide allora di avviare la ri-
voluzione estetica proprio da ciò che è meno rivoluzionario, da ciò
che è più soggetto alle regole del genere cinematografico. La vera
eversione consiste nell’inserire film dalla struttura “piena” (e dalle
strategie retoriche adamantine) in tessuti narrativi refrattari a ogni
consequenzialità. Disposti in audaci giochi di montaggio, persino i
topoi cinematografici più usurati diventano altro. Si tratta di un’im-
plosione, che delude l’orizzonte d’attesa dello spettatore; di un sa-
botaggio del cinematografico Dictionnaire des idées reçues, che lo
scrittore s’impegna a costruire per via di citazione.
L’equivoco importante: la filmografia della raccolta Piccoli equivoci
senza importanza
Giovani tormentati da dissolvenze incrociate; uomini irretiti da
John Ford e da Casablanca (1942); attori soffocati dall’inquadratura;
registi sconvolti dalla Nouvelle Vague. Sono, questi, alcuni personaggi
di Piccoli equivoci senza importanza: prismatica cartografia dell’im-
maginario cinematografico di Tabucchi.
La seconda raccolta di racconti s’inaugura, e si congeda, nel
segno del cinema. Dalla prima storia, Piccoli equivoci senza importanza,
all’ultima, Cinema. In un gran pastiche di generi (dal noir al melò);
e in un incessante ridefinirsi del legame tra parola e immagine: a
vantaggio dell’una o a scapito dell’altra.
Nonostante la suddivisione in undici storie, Piccoli equivoci
senza importanza è «una storia unica».9 La storia del rincorrersi
7
La poesia di Drummond de Andrade è tradotta da Tabucchi nel 1987 e, anni dopo, è
inserita nella Nota di Requiem. Per il rapporto tra Tabucchi e la cultura brasiliana, cfr. D.
Ferraris, «Si Shakespeare était brésilien…». Tabucchi, la littérature: un rêve fait au Portugal et au
Brésil, in Écriture et identités dans la nouvelle fiction romanesque, a c. di R. Olivieri-Godet,
Rennes, Presse Universitaires de Rennes, 2010, pp. 75-87.
8
A. Tabucchi, Forbidden Games, in Id., Si sta facendo sempre più tardi [2001], Milano,
Feltrinelli, 2003, p. 42.
9
A. Tabucchi, in Narratori anni ’80. Equivoci senza importanza, «Mondoperaio», N°
12, dicembre 1985, p. 111.
54
inesausto, nella vita dell’uomo, di realtà e finzione, di veglia e
sogno. Offrendo un riflesso, insieme veritiero e illusorio, del
mondo, il dispositivo cinematografico prende parte all’inseguimento;
e s’inserisce nel gioco barocco dichiarato in apertura di raccolta.
Il cinema si esibisce come uno degli equivoci di capitale importanza
del XX secolo.10
Equivoci in dissolvenza: Piccoli equivoci senza importanza
Un’aula di tribunale, e una toga indossata dall’amico Federico
ormai invecchiato: basta questo a Tonino, io narrante del racconto
Piccoli equivoci senza importanza, per iniziare un viaggio febbrile a
ritroso nel tempo; un naufragio nei terribili Anni di Piombo.
In una deposizione ufficiosa, Tonino, presente al processo, re-
stituisce la storia sua e del suo gruppo di amici, tutti innamorati
della stessa ragazza (Maddalena) e tutti illusi, in gioventù, di poter
cambiare il mondo. Dopo tanti anni, i compagni di un tempo si ri-
trovano su spalti opposti: Federico, che per un disguido burocratico
(l’equivoco con importanza) si è iscritto alla Facoltà di Giurispru-
denza, è il giudice incaricato di processare l’ex sodale Leo; Madda-
lena, assente dall’aula, è malata, e non si è sposata con nessuno di
loro; Tonino è testimone incredulo e sconvolto.
Nel regno dell’equivoco, la memoria di Tonino non può che
forzare i limiti del reale, così da confondere il vissuto con l’imma-
ginato. I suoi ricordi consegnano, del passato, un labirinto intricato,
non un ordinato giardino all’italiana; un arcipelago frastagliato, non
una geografia esatta. Anziché raccontare la sua giovinezza, Tonino
la mostra per immagini. O meglio: per cinematografiche dissolvenze
che sovrappongono spazi e tempi:
10
Nel 1999, Tabucchi, scrivendo una spassosa e acuta prefazione a un romanzo di
Pitol, sembra richiamare la sua idea di «equivoco» a proposito della «méprise», che caratte-
rizzerebbe la scrittura di Pitol. La «méprise», in Pitol (e in Tabucchi), non è un semplice
malentendu, privo di conseguenze sulla vita e facilmente rimuovibile, ma qualcosa di importante.
Scrive Tabucchi: «La méprise chez Pitol est “quelque chose” qui se charge de significations
imprévues au cours de son développement, ce “quelque chose” [...] qui fut cultivé par les
hommes du Baroque et touche à la nature des choses. Elle ne peut être qu’interprétée, de
même qu’on interprète les signes d’un oracle [...]». Tabucchi poi cita Jankélévitch come
modello per il nuovo significato da attribuire a «méprise». Continua lo scrittore: «Vladimir
Jankélévitch a dit que la méprise naît du commerce ambigu des consciences et, surtout, “de
notre incapacité à reconnaître la réalité effective d’un événement et son influence sur notre
destin”». Cfr. A. Tabucchi, Méfiance, mini-guide préalable au voyage dans le monde de Sergio
Pitol, in S. Pitol, Mater la divine garce, Paris, Gallimard, 2004, p.13.
55
 […] e l’immagine di quegli uomini gravi seduti dietro al bancone sovrastato
da un crocifisso si è dissolta sotto l’immagine di un passato che per me era il
presente, proprio come in un vecchio film, […].11
L’operazione cinematografica compiuta da Tonino è in sintonia
con lo spirito novecentesco. Perché, come si accorge Tabucchi, «il
romanzo del Novecento non è pensabile senza la dissolvenza cine-
matografica», che subentra alle «descrizioni insostenibili» del XIX
secolo.12 Al di là dell’appartenenza a un generico spirito del tempo,
le dissolvenze di Piccoli equivoci senza importanza sembrano uscire
da Quarto potere (1941). Nel capolavoro di Welles gli sfumati sono
infatti alfieri di flashback allucinati e onirici.13 Di tanto in tanto,
però, Tabucchi si stanca della graduale dissolvenza; e inserisce un
repentino stacco della cinepresa. Solo in virtù di un asindeto insistito
Leo abbandona il terribile hic et nunc del processo, per sconfinare
nella vecchia casa dei nonni: «E anche il Leo, seduto dentro quella
gabbia come un animale pericoloso, anche lui ha perduto quell’aria
malata che hanno le persone profondamente infelici, l’ho visto ap-
poggiarsi alla console stile impero di sua nonna […]».14
Il lessico della visione – con quell’«ho visto» – screzia talmente
le pagine di Piccoli equivoci senza importanza, che Tonino diventa
“occhio della cinepresa”. Con un primo piano d’inchiostro registra
il volto di Maddalena, suo primo amore. Il viso affiora dal passato,
«attorniato da bollicine e galleggiando in una pozza di anni». Ri-
suonano, tra le righe, le parole dell’eroina dell’Atalante (1934).
Nella semplicità di un secchio, aveva assicurato il personaggio di
Vigo, si può vedere il volto della persona amata. E Tonino ritrova
la sua Maddalena. Per una dinamica dispettosa, l’ovale prediletto
emerge per dissolversi tra i vapori del tempo: il cinema di Tabucchi
è un cinema di primi piani, ma di breve leggibilità.
11
A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, in Id., Piccoli equivoci senza importanza
[1985], Milano, Feltrinelli, 2006, p. 9, corsivo mio.
12
13
A. Tabucchi, Osservando il Novecento, «Micromega», N°1, 1999, p. 253.
Orson Welles fa la sua comparsa come personaggio (anche se per un attimo) nel racconto
La battaglia di San Romano mentre gira il Falstaff nel monastero spagnolo di Santa Maria de
Huerta. Più tardi, il regista sarà al centro di un’errata similitudine nella Testa perduta di Damasceno
Monteiro. Davanti a Firmino, l’avvocato Loton dirà: «Non pensi di trovarsi in una situazione
kafkiana, […] lei ha certo letto Kafka o ha visto Il Processo con Orson Welles, io non sono
Orson Welles, anche se questo antro è carico di cartacce, anche se sono obeso e fumo un sigaro
enorme, non sbagli personaggio cinematografico, a Oporto mi chiamano Loton». Cfr. A.
Tabucchi, La battaglia di San Romano, in Id., I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio,
1987, p. 54; A. Tabucchi, La testa perduta di Damasceno Monteiro [1997], Milano, Feltrinelli,
2006, p. 110.
14
A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, op. cit., p. 9, corsivo mio.
56
Dopo aver recuperato (e perduto) il volto dell’amata, Tonino
annaspa nell’impossibilità di tirare le fila della vicenda. La «giostra»
del tempo altalena tra flashforward (anni pronti a «svolazzare avanti»)
e flashback (anni capaci di muoversi «indietro»). Eppure, nella ver-
tigine del tempo, il film è sempre ascritto a un’unica epoca. Soltanto
di “vecchi film” si serve Tonino per le sue similitudini; soltanto
alla filmografia del passato si abbevera Tabucchi come se fosse la
più gustosa delle bevande.
In aula, lo “spettatore” Tonino non è un innocente voyeur: la
visione si macchia di colpevolezza. Perché chi guarda accetta supino
la parte che la vita gli ha assegnato: «anche il mio semplice guardare
loro che recitavano la loro parte, anche questa era una parte, e in
questo consisteva la mia colpa, nello stare al gioco […]».15
La pagina freme di rimorsi; Tonino si sente soffocare, ed esce
dal tribunale. Arrivato al canale vede una chiatta, che scivola sull’acqua
trasportando i suoi tre amici. Sullo scenario aleggiano i fantasmi di
Vigo e Fellini. Quando Tonino si avvicina, i ragazzi sono pietrificati
in gesti statuari, a mo’ di manichini in gesso alla George Segal:
Ragazzi, ho pensato di dirgli, vi ricordate la Strada anfosa? Ma tutti e tre
avevano una fissità immobile, e ho capito che erano immagini di gesso […].16
Nel loro aspetto fantasmatico, i compagni sono immagini im-
mobili, simili a foto. Ma la chiatta, avanzando sull’acqua, imprime
loro il movimento. E l’incrocio è fecondo: da foto in movimento
nasce il cinema.
Con il finale del suo racconto più cinematico, Tabucchi richiama
la genesi del cinema: la sua dimensione iconica, la sola e afona im-
magine in movimento. Finora Tabucchi ha forgiato il racconto come
un testo audiovisivo. Dapprima, è stata l’immagine a innescare
l’onda sonora («proprio in quel momento, quando Federico è sbucato
dalla porticina guidando il piccolo corteo, con la toga e i capelli già
quasi bianchi, mi è venuta in mente Strada anfosa»); più tardi, è
stato il suono ad attivare – e deformare – l’immagine («Federico
ha detto qualcosa in tono interrogativo, mi è parsa una voce lontana
e metallica come se l’ascoltassi in un telefono, il tempo ha barcollato
[…] e attorniato da bollicine […] è affiorato il viso di Maddalena»);
infine, con l’ultima avversativa, suono e immagine sono rimasti vit-
time di uno scollamento, di uno scarto assoluto fra l’uno e l’altra.
15
Ivi, p. 16, corsivo mio.
16
Ivi, p. 18, primo corsivo nel testo, secondo mio.
57
Tonino vorrebbe parlare agli amici e ricordare loro la canzonetta di
Modugno dei tempi andati, ma davanti alla «fissità immobile» dei
compagni è costretto al silenzio. La parola, nel primo racconto della
raccolta, tragicamente soccombe davanti all’immagine.
Dal racconto noir alla sceneggiatura d’autore: Rebus
Simile a Tonino, il protagonista del racconto Rebus abbandona
le zolle solide del reale, e barcolla sul terreno franoso dei sogni (e
dei ricordi). Si fregia di un nome fiabesco: Carabas, come il marchese
del Gatto con gli stivali.
Rivolto a un interlocutore fuoricampo, genericamente chiamato
«Monsieur», Carabas racconta la storia fulminea, e tormentata, vissuta
in gioventù con Miriam, una donna dal fascino misterioso di cui era
(ed è ancora) innamorato. Autista amante delle auto di lusso e di
Proust, Carabas era stato contattato da Miriam affinché l’accompa-
gnasse a Biarritz con una Bugatti Royale, della quale la donna era
proprietaria. Qualcuno (forse il marito?) voleva ucciderla, e lei doveva
necessariamente raggiungere la città francese, in cui si svolgeva un
rally di auto d’epoca. Nonostante i rischi, Carabas aveva accettato
l’incarico, vivendo con Miriam giorni indimenticabili all’insegna della
passione e dell’avventura. Loschi individui avevano cercato più volte
di ucciderli, e avevano tentato di sottrarre la statuetta a forma di
elefantino collocata sul cofano della Bugatti. Di certo, l’animaletto
custodiva qualcosa di prezioso, ma Carabas (e il lettore con lui) non
era riuscito a scoprirlo, perché Miriam era scomparsa nel nulla.
La preistoria di Rebus è cinematografica. O meglio, antonioniana:
La nouvelle dont je vous parlais, Rébus, a été par exemple influencée par
Antonioni. J’avais cette histoire racontée par le vieux monsieur du bistrot,
mais je suis parti d’Antonioni pour mon propre récit. Cela commence par un
rêve, «Cette nuit j’ai rêvé de Miriam...». Cela, je le dois à Antonioni, à
L’Eclipse ou à l’Avventura.17
A ben guardare, nessuno dei film di Antonioni menzionati da
Tabucchi accoglie l’incipit onirico, che sarebbe stato all’origine di
Rebus («Stanotte ho sognato Miriam»). Ma l’errore è produttivo.
17
A. Tabucchi, in «Écrire le cinéma». Entretien avec Antonio Tabucchi, in Le cinéma
des écrivains, a c. di A. de Baecque, Paris, Éditions de l’Étoile/Cahiers du Cinéma, 1995, p.
15, corsivo nel testo.
58
Perché attiva, nel racconto, risonanze cinematografiche. Più dal-
l’Avventura (1960), però, che dall’Eclissi (1962). L’avventura in-
compiuta di Rebus, come quella di Antonioni, è eversiva rispetto
al genere giallo; e i personaggi femminili – letterari o cinemato-
grafici – commerciano con l’immaginario. Mentre l’Anna dell’Av-
ventura, scomparsa durante una crociera alle isole Eolie, progressi-
vamente si fa spettro, la Miriam di Rebus esibisce subito caratteri
fantasmatici. Fin dalla sua prima comparsa sulla spiaggia; in opa-
lescente camicia da notte.
Sullo sfondo di Rebus non si aggira solo Antonioni, ma avanzano
anche i maestri del noir. Il loro bagaglio è carico di ambiguità,
perché trasportano un’idea effimera del tempo. Basculante tra cro-
nologie reali e oniriche, il tempo di Rebus, come avviene nel noir,
gira a vuoto. E tutto si risolve in un dramma del destino: la vita
riserva a ognuno un «appuntamento», e, una volta arrivati, è im-
possibile tornare indietro. Tra un bicchiere di vino e l’altro, il
vecchio Carabas continua a raccontare le vicissitudini del remoto e
fatidico incontro con Miriam. E ancora si strugge per quella donna,
che, ambigua come una dark lady anni Cinquanta, lo ha costretto a
ormeggiare la solitudine nei fondi di bicchiere.
Con quell’enigma gravitante attorno alla statuina, Rebus sembra
venir fuori dalle inquadrature del Mistero del falcone maltese (1941).
L’antica e preziosa statuetta a forma di falco, ricercata da Humphrey
Bogart (per conto sempre di una donna seducente quanto doppiogio-
chista), subisce una metamorfosi animale; e in Rebus diventa l’ele-
fantino della Bugatti.18 Tabucchi si diverte però a sviare i sospetti: e
invece di menzionare l’Humphrey Bogart del Mistero del falcone
maltese, cita Jean Gabin, idolo del polar francese. Nel tragitto in di-
rezione di Biarritz, Miriam e Carabas si fermano in albergo per la
notte; e compare il mattatore parigino svilito a notazione di tappezzeria:
Ci fermammo in un piccolo albergo vicino al fiume, […] una stanza con
una tappezzeria vecchia e mobili ordinari, in quegli anni molti alberghi erano
così, del resto basta vedere i film con Jean Gabin, […].19
Viene in mente la camera dell’hotel di provincia del Porto delle
nebbie (1938), tutta tendine ricamate e ingombranti soprammobili,
18
Non a caso, l’elefantino fa bella mostra di sé sulla copertina dell’edizione francese di
Piccoli equivoci senza importanza (Paris, Christian Bourgois, 1987). A quell’epoca il titolo
francese della raccolta era Petits malentendus sans importance, titolo che poi Tabucchi ha
voluto cambiare in Petits équivoques sans importance per l’edizione Gallimard 2006.
19
A. Tabucchi, Rebus, in Id., Piccoli equivoci senza importanza, op. cit., p. 40, corsivo mio.
59
in cui Jean Gabin e la compagna trascorrono la notte. D’altronde,
l’intreccio di realismo e melodramma di Rebus ricorda l’ordito dei
film di Gabin.20 Ma la topografia, nel noir, possiede anche un’alta
densità simbolica. Discontinui gli ambienti; provvisoria l’esistenza
di chi li abita.21
Prima con il rimando occulto al Mistero del falcone maltese, poi
con quello esplicito a Gabin, Tabucchi, in Rebus, rende omaggio
ai due «eroi della tragedia cinematografica moderna»: Bogart e Ga-
bin.22 Ma Carabas non è interamente assimilabile né al primo né al
secondo. Più tormentato e istruito di entrambi. Tabucchi è dunque
un esperto mugnaio. Macina motivi altrui – letterari e cinemato-
grafici – con ansie personali. Se ne accorge Sergio Vecchio, che
nel 1986 trae da Rebus una sceneggiatura per il grande schermo:
E però sapevo bene che Rebus, pur appartenendo a un libro che può
anche essere letto come uno straordinario regesto di variazioni d’autore, non
era The maltese falcon; […]. Insomma sapevo bene che questi echi, se anche
erano risuonati prima all’orecchio di Tabucchi (non gliel’ho mai chiesto), erano
stati poi depurati dalla sua scrittura, metabolizzati nell’essenzialità del racconto,
ridotti all’osso del significante [...].23
Pur mantenendo le seducenti faglie del racconto, Vecchio
decide di «dare corpo» a colui che ascolta la storia di Carabas. E
la narrazione si sdoppia: da un lato, la vicenda, ambientata nel-
l’estate del 1952, del Carabas trentenne, così com’è raccontata
sulla pagina; dall’altro, un viaggio successivo verso Biarritz compiuto
da Carabas nell’inverno del 1982 in compagnia di un ragazzo,
Raul. Il giovane ha proposto a Carabas una Bugatti del 1927, ri-
20
Il porto delle nebbie è citato da Tabucchi nell’intervista con Gumpert: «Une certaine
veine française du même genre n’est pas non plus pour me déplaire, les films des mêmes
années avec Jean Gabin, comme Quai des brumes, qui ajoute une touche de provincialisme
au film noir [...]». Cfr. L’atelier de l’écrivain. Conversations avec Antonio Tabucchi, a c. di C.
Gumpert, trad. fr. di M. J. Wagner, Genouilleux, Éditions la Passe du Vent, 2001, pp.112-
113, corsivo nel testo.
21
Per questo aspetto del noir, cfr. T. Rimini, Luoghi e tempi del (primo) noir: «La
fiamma del peccato», «Il grande sonno», «Ossessione», in I fantasmi del moderno. Temi e figure
del cinema noir, a c. di M. Pezzella e A. Tricomi, Ancona, Cattedrale, 2010, pp. 77-92.
22
A. Bazin, Morte di Humphrey Bogart, in Id., Che cosa è il cinema?: il film come
opera d’arte e come mito nella riflessione di un maestro della critica, a c. di e trad. di A.
Aprà, Milano, Garzanti, 1999, p. 215.
23
S. Vecchio, Racconto e teatro, cinema e racconto: passaggi, lontananze, in Antonio Ta-
bucchi: geografia de um escritor inquieto, a c. di M. J. de Lancastre, Atti del Convegno Inter-
nazionale di Lisbona 13-17 Aprile 1999, Lisboa, Fundação Calouste Gulbenkian – ACARTE,
2001, pp. 190-191, corsivo nel testo.
60
spondendo a un annuncio pubblicato dal vecchio sul giornale.
L’auto si trova però a Biarritz; e i due si mettono in viaggio.
Pure, l’itinerario si trasforma in un cammino a ritroso nel tempo,
perché i luoghi attraversati con Raul sono quelli della corsa giovanile
in automobile con Miriam.
Alla sceneggiatura, vincitrice del Premio Solinas ’86, partecipano
Massimo Guglielmi, che gira il film nel 1989, e lo stesso Tabucchi.
In epigrafe, lo script inedito accoglie dei versi: «Cercando di te/in
un vecchio caffè/ ho visto uno specchio/ che dentro si vede il mare».
Appartengono alla canzone Rebus di Paolo Conte. Che da uno spar-
tito musicale migra sulla pagina; e si assesta nel titolo.24 L’inesauribile
«giro» alla ricerca di qualcuno, cantato da Conte, prosegue nella
quête di Carabas destinata all’insuccesso.
Malgrado il racconto tratteggi un’atmosfera più letteraria che
reale, la sceneggiatura sceglie di ancorare storicamente la vicenda.
Miriam è probabilmente una militante anti-franchista; mentre Raul
(forse figlio di Miriam) fa parte di un’organizzazione terroristica
per l’indipendenza dei Paesi Baschi. Il ricorso alla contingenza
storica conferisce troppa concretezza ai personaggi; ed evapora il
loro fascino sfocato.
Nello script, tutto è affidato al contrasto luministico. Ora è la
volta delle lampade da tavolo; ora del fascio dei fari automobilistici;
ora dei lampioni sulla strada, che tremolano nella pioggia battente:
Carabas ha spento la luce al neon per riaccendere subito la lampada da
tavolo. Nel breve attimo d’oscurità, nel controluce dei lampioni di strada, il
rimbalzare lucente della pioggia sul selciato.25
Ritagliata in losanghe cangianti, la luce tenta di mimare le zone
di luce e di ombra, che proiettano le identità dei personaggi. Nel-
l’universo noir, la doppiezza regna incontrastata; e la bisettrice ma-
nichea è scalzata da confini mobili e sfrangiati fra bene e male.
Per via luministica l’estetica dei film di Bogart e Gabin è così as-
secondata.
Immerso in un perenne crepuscolo, lo script non rifugge da pre-
cisazioni esornative rispetto all’economia narrativa. E così Miriam,
24
Sul titolo “musicale” del racconto, ma senza aver considerato la sceneggiatura, si è
già soffermato Bertone. Cfr. G. Bertone, Su Antonio Tabucchi. Una lettura, in Studi di
filologia e letteratura offerti a Franco Croce, Roma, Bulzoni, 1997, p. 661.
25
M. Guglielmi, A. Tabucchi, S. Vecchio, Rebus, sceneggiatura inedita, conservata presso
la Biblioteca Luigi Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, p. 6. Ringrazio
la Dott.ssa Debora Demontis per aver autorizzato la consultazione della sceneggiatura.
61
attraversando la sala di un elegante ristorante francese, si sofferma
su quello che vede dalla finestra «oltre la quale le guglie sono così
vicine che sembra di poterle toccare».26 La sceneggiatura insomma
si ammutina; e rivendica una certa autonomia dal racconto originario,
come dal film successivo.
Per il finale, lo script rimane fedele al racconto. Carabas, in-
vecchiato, è seduto al tavolo di un bistrot; davanti a lui, un inter-
locutore di spalle affoga nel buio. Il corpo proteso verso il destina-
tario, Carabas gli rivolge un’ultima domanda. Con l’immancabile
notazione luministica:
Il profilo del suo interlocutore è illuminato di taglio. Una nuvola di fumo
compare nel cono di luce. Carabas: Ma poi, perché a lei interessano i rebus?27
Prima di congedarsi, la sceneggiatura ripropone il contrasto, co-
stitutivo della storia, fra la velocità del passato e la sedentarietà
del presente. Ma la postura dei due personaggi seduti immobili
l’uno di fronte all’altro ricorda un’altra posa: quella di Álvaro de
Campos, abbandonato sulla sedia tra i versi di Opiário. La sedia,
sulla quale l’eteronimo pessoano chiede di essere lasciato in pace,
non è un agglomerato di tavole, gambe, e schienali, ma si fa metafora.
E «signifie l’Immobilité eternelle qui s’oppose frontalement à la
“vitesse” futile du vingtième siècle».28 Da giovani, Carabas e Campos
hanno sperimentato la folle vitesse automobilistica. Il primo a bordo
di una Bugatti Royale; il secondo al volante di una Chevrolet sulla
strada per Sintra.29 Ma ora i due personaggi sono costretti all’inerzia
di una sedia: in casa o in un locale.
Del fascino tabucchiano, nel film, rimane ben poco. L’esordiente
veneziano Massimo Guglielmi confeziona un manieristico, e freddo,
esercizio di stile, ritmato da lenti carrelli e dai brani di John Coltrane
e Billie Holiday. Sin dalla dedica, sui titoli di testa, a Cortázar,
Escher, Coltrane, la pellicola pecca di pretenziosità. Se il gioco lu-
ministico appare un po’ insistito con la nebbia ricorrente, che
avvolge e dissolve le cose, la concentrazione narrativa del racconto
26
Ivi, p. 20.
27
Ibidem.
28
A. Tabucchi, La nostalgie du possibile: sur Pessoa, Paris, Seuil, 2003, p. 70.
29
La poesia di Álvaro de Campos si trova in F. Pessoa, Una sola moltitudine [1979], a
c. di A. Tabucchi, trad. di R. Desti, A. Tabucchi e M. J. de Lancastre, v. I, Milano, Adelphi
2002, pp. 388-391. Con Álvaro de Campos il giovane Carabas condivide anche l’anima
anarchica e impulsiva. Senza rifletterci a lungo, Carabas accetterà di accompagnare al rally
la misteriosa Miriam.
62
è annacquata nelle quasi due ore del film. Soltanto Miriam, inter-
pretata da un’ineffabile Charlotte Rampling, mantiene sullo schermo
l’alone di mistero. I suoi cappelli inclinati di sbieco sul viso, così
da lasciarne sempre in ombra una parte, rendono le risonanze occulte
del personaggio d’inchiostro. Nonostante il cast annoveri Massimo
Girotti (marito di Miriam), Christophe Malavoy (Carabas) e Fabrizio
Bentivoglio (Raul), il risultato finale non soddisfa. Forse, il vero
rebus è dettato dalla parola tabucchiana. Che si nutre sì di suggestioni
cinematografiche, ma quasi sempre mal sopporta il passaggio sullo
schermo.
Appunti per un sequel di Casablanca: Any where out of the world
Per le vie di Lisbona, un uomo si aggira tra la folla. Non è un
portoghese. Sale su un tram; si siede a un caffè; e legge un giornale.
Tra gli annunci, scorge il titolo di un poème en prose di Baudelaire:
Any where out of the world. Lo coglie un violento turbamento.
Perché la frase era il segno d’intesa, che l’avrebbe ricongiunto alla
donna amata, Isabelle. Ma la compagna non l’ha mai raggiunto.
Riaffiora così il fantasma di un amore passato, e l’annuncio assume
le sembianze di un messaggio sinistro. Forse Any where out of the
world, il racconto di Tabucchi che mutua il titolo dal componimento
di Baudelaire, è da ascrivere ai «racconti di fantasmi, nel senso più
vasto del termine».30
Tanto più declamata, la paternità baudelairiana del racconto fi-
nisce tuttavia per essere un suggerimento capzioso. La poetica di
Tabucchi è la poetica della méfiance; e una dichiarazione così esplicita
non può che insospettire. Certo, il richiamo a Baudelaire è evidente;
anche se rovesciato. Approdando a Lisbona, il narratore ha raggiunto
l’any where out of the world, che Baudelaire ha solo agognato.31
Se la letteratura increspa la pagina; il cinema, tra strategie tec-
niche e programmazioni locali, intorbida le acque. Sin dalla descri-
zione della città in apertura. Dopo l’incipit all’insegna del «nulla»
(«Come vanno le cose. E cosa le guida. Un niente»), la ricognizione
30
A. Tabucchi, Nota, in Id., Piccoli equivoci senza importanza, op. cit., p. 8.
31
Per il rapporto del racconto con l’intertesto baudelairiano (e non solo), cfr. P. Tucci,
Una metamorfosi di Baudelaire: Anywhere out of the world dai Petits poèmes en prose ai Piccoli
equivoci senza importanza, in Metamorfosi, mostri, labirinti, Atti del Seminario di Cagliari,
22-24 gennaio 1990, a c. di G. Cerina, M. Domenichelli, P. Tucci, M. Virdis, Roma,
Bulzoni, 1991, pp. 453-467.
63
di Lisbona sembra effettuata dall’alto, a volo d’uccello, con un’a-
pertura focale che si allarga progressivamente attraverso travelling
in avanti e indietro. Prima è la volta delle «piazze», poi della «me-
tropolitana», infine del fiume: e da qui alla foce «là dove la città
si allarga». Finché la macchina da presa non si sofferma sull’io nar-
rante («A volte mi aggiro da quelle parti»). La topografia puntuale
restituita finora è filtrata dallo sguardo “in soggettiva” del prota-
gonista. La sua però è un’identità incerta, sghemba, come segnalano
i passaggi repentini dall’«io», al «tu», al «noi». Sempre, nella
scrittura di Tabucchi, agiscono a un tempo due forze di segno op-
posto. L’una centripeta, attenta al formicolio delle cose, che procede
per ricostruzioni minuziose di tempi e luoghi; l’altra centrifuga,
che sovverte caparbia cronologie e topografie appena descritte.
Sedutosi a un caffè, il protagonista sfoglia distratto le pagine
di un giornale; fra notizie irrilevanti e inutili annunci commerciali.
In una sorta di montaggio parallelo, il tempo presente della lettura
del quotidiano s’intreccia a un domani ipotetico da trascorrere al
cinema. All’improvviso, l’uomo scorge la frase Any where out of
the world sul giornale. E il passato rispunta violento: la memoria
non «va ordinando chiaramente» i ricordi; ma li mastica voracemente.
Il narratore immagina (e/o ricorda) di congedarsi dall’Isabelle del
passato. Basta poi un repentino cambio di tempo verbale – da
«uscirò» a «esci» – e il personaggio tabucchiano torna al presente.
E si ritrova nella piazza di Lisbona:
[…] l’uomo che sta in quella camera non lo sa, e dice: è vero, è tardi, vai
pure, poi uscirò io. Esci e sei di nuovo nella piazza, [...].32
La penna, simile a una macchina da presa, ha scelto uno stacco
improvviso per cambiare l’inquadratura; e la logica dei raccordi che
presiede al film tradizionale è andata in frantumi. L’eccentrica cat-
tedrale di celluloide costruita sulla pagina esibisce però al suo interno
arredi classici. Per impiegare il tempo libero, il personaggio può ri-
vedere i classici del cinema: «i film degli anni Cinquanta, la tua
passione».
In un racconto dell’esilio com’è Any where out of the world, il
cinema diventa un somewhere fuori dal mondo, un asilo in celluloide
per chi aspira a fuggire dal contingente. Al personaggio di Any
where out of the world non resta che scegliere tra le offerte della
32
A. Tabucchi, Any where out of the world, in Id., Piccoli equivoci senza importanza,
op. cit., p. 78, corsivo mio.
64
programmazione lusitana: il festival John Ford, «una delizia», o la
retrospettiva francese: «scene lentissime e intellettuali con la sciarpa
[come sarà il regista di Cinema]». Con ogni probabilità la scelta ri-
cadrà sulla trilogia “rosa” di Ford. E a ragione. Se Any where out
of the world gravita attorno alla sgusciante figura di Isabelle, i film
di Ford dispiegano una galleria di donne indomite e cocciute. Dal
canto suo, il personaggio di Tabucchi condivide il destino dell’eroe
western, oscillante tra il richiamo della Civiltà e le lusinghe della
Frontiera selvaggia. Dopo aver letto la frase sul giornale, il prota-
gonista letterario è indeciso se cedere al buon senso, e ascrivere
l’episodio a una bizzarra coincidenza; oppure incamminarsi verso
una Frontiera ignota, popolata dalle presenze del passato.
Potrà pure accadere che il cinefilo tabucchiano non abbia voglia
di inoltrarsi nelle piste polverose del western, tra cavalli e diligenze,
e decida di rivedere Casablanca (1942). Film sentimentale per an-
tonomasia, la tormentata storia d’amore tra Ingrid Bergman e
Humphrey Bogart è proiettata al cinema «Alpha». Ma la sala è
inaccessibile: «dev’essere in capo al mondo», in una «strada sco-
nosciuta». Ancora una volta, la visione è bandita.
Tuttavia Casablanca funziona come esca narrativa. Con la sua
storia di esilio (Bogart è un ex-combattente per la libertà rifugiatosi
in Africa), il film riflette la vicenda letteraria. Simile la raggiera di
mistero; uguali i topoi: il triangolo amoroso, il binomio eros-thanatos,
e il rovello del tempo perduto. Ma Tabucchi non si accontenta di
un “riflesso”: e offre il racconto stesso come sequel cartaceo di Ca-
sablanca. Il suo proposito è messo in bocca al personaggio:
Però cosa avrà fatto Ingrid Bergman quando arriva a Lisbona e sullo
schermo appare The End? Bisognerebbe continuare la storia, ha scritto il
giornalista, lo conosco, è un uomo della mia età, baffi neri e occhi svegli,
scrive anche ottimi racconti.33
Con il ritratto di un giornalista che è un trasparente autoritratto,
lo scrittore cerca di «continuare» sulla pagina la storia lasciata in
sospeso sullo schermo. Any where out of the world prende avvio a
Lisbona, là dove si era (non)concluso Casablanca. Sacrificato il
proprio amore in nome della nobile causa politica, Bogart lascia
partire l’amata per Lisbona, affinché si metta in salvo e aiuti il
marito a organizzare la Resistenza contro i tedeschi. All’inizio di
Any where out of the world il protagonista si trova proprio a Lisbona;
33
A.Tabucchi, Any where out of the world, op. cit., pp. 73-74.
65
come se fosse una Bergman al maschile. Caduto il riferimento
politico, il sequel tabucchiano sceglie la dimensione psicologica; e
piega verso il soprannaturale.
Tuttavia la storia di Any where out of the world si scontra con
lo stesso impasse di Casablanca. Sospeso il finale del film; incerta
la chiusa del racconto.34 Cosa deciderà di fare il narratore seduto
sulla spalletta del lungo fiume? Si abbandonerà alla vertigine del
suicidio? O tornerà, nonostante tutto, a casa sperando di sentire
una presenza spettrale all’altro capo della cornetta del telefono?
Il coefficiente di mistero rimane alto: l’immagine non dà pienezza
alla scrittura, e non esaurisce il senso del racconto.
Nella gabbia del remake: Cinema35
Dopo aver cercato, con Any where out of the world, di dare un
sequel a Casablanca, Tabucchi tenta nuovamente, sulla pagina, di
manipolare la pellicola. E in Cinema, ultimo racconto di Piccoli
equivoci senza importanza, si confronta con il remake. Eddie e Elsa,
questi i loro nomi d’arte, sono due attori non più giovani chiamati
a interpretare il remake di un film sentimentale ambientato durante
la guerra, di cui sono stati i protagonisti in passato. Eddie spera di
conquistare la donna della quale è da sempre innamorato; e cambiare
il finale della propria vita. Ma Elsa si mostra restia; e il dispositivo
cinematografico, con il suo inviluppo di verità e finzione, non
agevola il corteggiamento. Se finora, nei racconti di Tabucchi, film
reali sono stati menzionati da personaggi immaginari; in Cinema,
la pellicola è ideata dalla scrittura.
A detta di Tabucchi, Cinema «deve molto a una sera di pioggia,
a una piccola stazione della riviera e al volto di un’attrice scompar-
sa».36 La spiegazione è sibillina, propria di colui che lancia il sasso,
e ritira la mano. Mentre la stazione della riviera è Santa Margherita,
il volto dell’attrice rimane nebuloso.37 Anche ricorrendo alla recente
34
In Casablanca, Bogart rivolge spesso alla Bergman interrogativi ritornanti (e insoddisfatti):
«Qual è il finale?» o ancora «A questa storia manca ancora il finale: cosa pensi di fare?».
35
Come avviene per il racconto Teatro del Gioco del rovescio, le espressioni artistiche sono
considerate da Tabucchi in senso assoluto, senza l’articolo iniziale. Nel 1988 Luigi Magni gira
un episodio per la televisione, intitolato Cinema, dall’omonimo racconto di Tabucchi.
36
A. Tabucchi, Nota, in Id., Piccoli equivoci senza importanza, op. cit. p. 8.
37
L’ambientazione del racconto Cinema a Santa Margherita è rivelata dallo stesso
Tabucchi in un’intervista. Cfr. A. Tabucchi, in Requiem lusitano di un esule genovese. Ricordi
liguri dell’autore di «Notturno indiano», a c. di S. Rissetto, «Gazzetta del Lunedì», 24/02/1992.
66
testimonianza di Surdich la detection non procede. Il racconto, so-
stiene Surdich, sarebbe stato ispirato da un episodio di Racconti
d’estate (1958), film ambientato proprio a Santa Margherita.38 Ma
nessuna delle attrici del cast è «scomparsa» all’epoca della stesura
del racconto. In ultima istanza, l’agnizione dell’identità dell’attrice
appare superflua. Ciò che preme a Tabucchi è l’icona eterna della
diva; l’idea platonica di “volto d’attrice”. L’intertesto di Cinema
non è quindi riconducibile a un’unica pellicola, ma a un discorso
generale sul cinema.39
Scandito in cinque capitoletti numerati, Cinema si presenta
come una sceneggiatura. In rapporto uno a uno: una sezione, una
sequenza. Persino la sintassi, costruita su periodi brevi e coordinati,
mima l’andamento di una sceneggiatura. E l’eterno presente, insieme
ai dialoghi introdotti da fulminei «disse lui» o «rispose lei», rafforza
l’impressione di trovarsi davanti a uno script. Com’è consuetudine,
il primo paragrafo fornisce rapide indicazioni sulla scenografia da
allestire. La scena è ambientata in una «piccola stazione di una lo-
calità della riviera», che dà un tocco felliniano alla vicenda. Poi
fanno il loro ingresso i personaggi. Dapprima Elsa, che fa l’attrice
e, nello spettacolo in allestimento, deve interpretare Francesca
Bertini, l’eroina tragica e passionale del muto. Ma Elsa confessa a
Eddie di «inciampare» nel vestito di scena che le è stato cucito in
modo approssimativo: e il registro comico irrompe inaspettato.
Una vera «grande tragica» ha invece percorso le pagine della
raccolta di Piccoli equivoci senza importanza: la Maddalena del rac-
conto eponimo. Il soprannome le era stato dato dagli amici per il
ruolo di Antigone interpretato nella recita scolastica. In esergo, e
in chiusura di silloge, Tabucchi rivisita così il genere – letterario e
cinematografico – del melò. All’inizio nel versante solenne e tragico
(Piccoli equivoci senza importanza); poi in quello farsesco (Cinema).
E tutta la raccolta risulta incorniciata dal rapporto equivoco tra
l’individuo e la maschera indossata nella recita della vita.
Nel film dell’esistenza, il simulacro è tenace, e il nome anagrafico
perde d’importanza: l’attore di Cinema è sempre menzionato con il
L’intervista è stata assunta da Surdich come filo conduttore dei suoi ricordi tabucchiani.
Cfr. L. Surdich, Tabucchi, io ricordo..., in I ‘Notturni’ di Antonio Tabucchi, a c. di A. Dolfi,
atti di seminario, Firenze, 12-13 maggio 2008, Roma, Bulzoni, 2008, p. 418.
38
Ivi, p. 418.
39
È quanto, a ragione, sostiene Freire: «la particularidad de Cine de Tabucchi radica
en que el intertexto no es otro texto sino el discurso mismo del cine». Cfr. H. J. Freire,
Todo es una película. La letra y la camera en «Cine», in Sostiene Tabucchi, a c. di R. Ferro,
Buenos Aires, Editorial Biblos, 1999, p. 59.
67
nome del personaggio interpretato sul grande schermo. L’identifi-
cazione è così assoluta, che quando Elsa invita l’uomo a non atteg-
giarsi a Eddie lontano dai riflettori, l’uomo le risponde categorico:
«Ma io sono Eddie». La frattura rispetto al Paradoxe du comédien
è insanabile.
Se l’universo cinematografico è onnivoro, l’evasione dall’inqua-
dratura è impossibile. Direttore del carcere in celluloide è il regista,
orbato anche lui del nome proprio. L’artista, lunga sciarpa al collo da
intellettuale, fa parte della folta schiera di cineasti boriosi e supponenti,
piaghe bubboniche del cinema europeo. Come ripete sempre (sembra
quasi che abbia adottato su di sé la grammatica del remake), è un in-
defesso fautore del cinema-verità. Scrittura gli attori, che hanno
recitato nel film originale, per interpretarne la copia; e idolatra la
presa diretta. Alla ricerca spasmodica del godardiano «splendore del
vero», il regista è un adepto entusiasta della Nouvelle Vague: «È mo-
derno […] sembra uscito dai Cahiers du Cinéma», lo canzona Eddie.
Nella figura del regista, Tabucchi parodizza le tecniche “mo-
derne” della “nuova onda”, i cui protagonisti si sono educati
proprio sulle pagine dei Cahiers. Tra i promotori della corrente
d’oltralpe, Tabucchi assesta una violenta staffilata a Truffaut; e
a un suo film in particolare: Effetto notte (1973).40 Lo cita in aper-
tura di racconto, quando fa credere al lettore di assistere a qualcosa
di reale, anche se sulla pagina si sta girando un film: solo le indi-
cazioni del ciak smaschereranno la finzione («“Stop!” gridò il
ciak. “Interruzione!”»). Allo stesso modo, nelle prime sequenze
di Effetto Notte, lo spettatore crede di vedere già il film, quando
invece si tratta di un film girato all’interno del film. Ma Tabucchi
lavora dentro la citazione; e all’entusiasmo del cast di Effetto notte
sostituisce il disincanto della coppia di attori del suo racconto.
Eddie ed Elsa sono ridotti a componente mesta del paesaggio ug-
gioso, e si muovono in uno scenario da fiera smessa. La felicità
di Truffaut nel creare immagini (per quanto menzognere queste
possano essere: l’«effetto notte» è una tecnica che permette di
girare una scena notturna in pieno giorno) cede il posto alla ma-
linconica consapevolezza della loro falsità. Convinto della forza
cannibale del cinema, Tabucchi fa del regista la figura più odiosa
del suo racconto. L’intento è manifesto: il ruolo del regista, in
Effetto notte, è interpretato dallo stesso Truffaut. Adotta, insomma,
40
È Antonio Costa a individuare in Effetto notte il modello a cui si è ispirato Tabucchi
per la costruzione del suo Cinema. Cfr. A. Costa, Nel corpo della parola, l’immagine: quando
la letteratura cita il cinema, «Contemporanea», N° 5, 2003, pp. 59-70.
68
Tabucchi la struttura del film francese per indirizzarla contro il
suo stesso creatore.
Refrattari alle novità Nouvelle Vague propugnate dal regista,
Eddie e Elsa vivono la modernità con amarezza, e vengono chiamati
«divi» solo dal regista. Lo scherno è innegabile. Se il Serafino
Gubbio di Pirandello si considerava «una mano che gira la mano-
vella», l’Eddie di Tabucchi, con sineddoche cinematografica, si raf-
figura come «cicca che tiene fra le labbra».
Il tentativo di riavvolgere la pellicola nella moviola è fatalmente
destinato allo scacco. Sullo schermo, come nella vita. Elsa rifiuta
di legarsi sentimentalmente a Eddie nel quotidiano dell’esistenza;
e il remake non può raggiungere i toni drammatici dell’originale. È
assurdo che il regista speri di girare un film alla Anghelopulos,
perché il contesto è mutato:
[…] «gli piacerebbe [al regista] fare un film come O Thiassos, la recita
dentro la recita, con noi che stiamo lì dentro a recitare noi stessi. Canzoni
d’epoca e piani-sequenza, d’accordo: però al posto del mito e della tragedia
che cosa ci mette?».41
Eccolo lì, O Thiassos (La recita, 1975) che torna sulla pagina,
dopo le affinità – involontarie – con Piazza d’Italia. E si riconferma
una delle poche pellicole d’essai nella cineteca barata di Tabucchi.
Stavolta, ciò che riunisce film e racconto attiene alle nervature del-
l’opera. Se Anghelopulos incastra una recita teatrale dentro una
recita cinematografica, Tabucchi infila un film dentro un racconto.
Non solo. La citazione sancisce parentele infauste tra schermo e
pagina: dall’implacabile ciclicità del mito non riusciranno a salvarsi
i teatranti greci; all’eterno ritorno imposto dal remake non si sot-
trarranno gli attori tabucchiani.
Neppure nel finale Eddie riesce a scalfire l’armatura di celluloide.
La battuta non prevista che aggiunge al copione («Ci rivedremo in
un altro film?») gli viene doppiata;42 e l’infarto alla «dottor Zivago»
che spera di ottenere dal regista gli viene negato. Le parti sono già
assegnate: Eddie non è «un patetico innamorato».
41
A. Tabucchi, Cinema, in Id., Piccoli equivoci senza importanza, op. cit., p. 140,
corsivo nel testo.
42
Per sua stessa ammissione, Tabucchi detesta a tal punto la pratica del doppiaggio da
non riuscire più a vedere in Italia i film stranieri perché orrendamente doppiati. Sul problema
del doppiaggio, Tabucchi è poi intervenuto durante un incontro alla Cinémathèque française
con Manoel de Oliveira. Cfr. Tabucchi e De Oliveira: «Basta ai doppiaggi», «l’Unità»,
05/07/2008.
69
 Al termine della raccolta più cinematografica di Tabucchi, la
finzione del cinema trionfa implacabile. Ma il prezzo da pagare è
troppo alto. Due vite, quelle di Elsa e Eddie; e il loro anelito di
felicità.
La donna che visse due volte sulla Torre Pendente: Voci portate da
qualcosa, impossibile dire cosa
Nonostante i danni arrecati ai personaggi di Piccoli equivoci
senza importanza, il cinema torna a esercitare la sua forza seduttrice
nella terza silloge di racconti tabucchiani: L’angelo nero.43 E interviene
nella prima storia, Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa.
Tra le migliori dichiarazioni di poetica offerte da Tabucchi ai suoi
lettori.44
Il protagonista di Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa
è uno scrittore che, alla ricerca di nuovi spunti per una sua prossima
storia, decide di affidarsi agli scampoli di frasi ascoltati dalla gente
per strada. Deciso a trovare l’ispirazione, percorre vie e piazze di
una città italiana (la cui toponomastica rivela essere Pisa). Stavolta
il fuoricampo è di natura sonora, descritto da frasi di passanti, che
rinviano a situazioni al di fuori della diegesi principale.
L’ingranaggio fonico sembra ben oleato finché dal brusio verbale
non emerge una frase, che risuona sinistra e familiare all’orecchio
del protagonista: «non sono mai riuscito a dirtelo prima, ma ora è
necessario che tu sappia». Il flatus vocis è quello, insolente e beffardo,
dell’amico Tadeus. Riaffiora repentino il passato rimosso di una
villa sulla scogliera, in cui la donna amata, Isabel, ha probabilmente
abortito clandestinamente con l’aiuto dell’amico Tadeus. È inutile
sperare in una rivelazione più dettagliata dell’avvenimento: l’amor
vacui ha sempre la meglio sulla pagina tabucchiana. Qualsiasi cosa
sia avvenuta in quella dimora, Tadeus non può comunque aver pro-
nunziato quella frase, perché ora si trova in un «luogo di maledetti».
Sperando di sapere qualcosa in più sulle parole oscure, il personaggio
43
Nell’Angelo nero, anche il racconto Notte, mare o distanza è un esempio di come Tabucchi
si diverta a manipolare la pellicola. Il protagonista della storia immagina infatti di portare
indietro il racconto, che sta per iniziare, come «un film proiettato a ritroso». Cfr. A. Tabucchi,
Notte, mare o distanza, in Id., L’angelo nero [1991], Milano, Feltrinelli, 1997, p. 32.
44
Per l’idea di Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa come manifesto di poetica
cfr. A. Dolfi, Il puzzle del rimorso. «Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa» di Antonio
Tabucchi, in «Leggiadre donne». Novella e racconto breve in Italia, a c. di F. Bruni, Venezia,
Marsilio, 2000, pp. 261-278.
70
tabucchiano arriva in una piazza, e si augura che la voce di Tadeus
s’incarni nella statua del Granduca, collocata in mezzo alla spianata.
Ma l’epoca del fantastico, in cui le statue si animavano, è ormai
tramontata da parecchi anni. Il duca di marmo non proferisce verbo,
e il personaggio si rimette in cammino. Passa davanti al luogo in
cui sorgeva un «vecchio cinema», che «poi andò bruciato»; e ricorda
quando ci andava «da bambino». Il consueto intreccio di cinema e
memoria si arricchisce di un nuovo termine: l’incendio. Tuttavia,
un altro esercizio è già bruciato sulle pagine tabucchiane: il cine-
teatro Splendor di Piazza d’Italia. E il cinema si riconferma un im-
possibile oggetto del desiderio.
Da piccolo, il personaggio di Voci portate da qualcosa, impossibile
dire cosa andava a vedere Charlot nella sala che poi fu distrutta. E
l’icona del muto ben si attaglia alla vicenda. In cerca di qualcuno che
gli chiarisca il senso delle voci enigmatiche, il personaggio s’imbatte
di continuo in figure “mute”. La statua del Granduca di Toscana e il
fotogramma di Chaplin.
Il protagonista continua il suo peregrinare finché la «voce», per
bocca di un ragazzino, gli dà appuntamento nel «luogo più alto
della città». In preda all’angoscia, il personaggio tabucchiano s’in-
cammina verso la Torre Pendente. E comincia a inerpicarsi per le
«scale a budello», simili a quelle di Piranesi o di Escher.
Per il finale del suo racconto, Tabucchi riscrive la sequenza
conclusiva della Donna che visse due volte (1958), già comparsa, in
sordina, nel Filo dell’orizzonte. Come James Stewart sale in cima al
campanile della missione fuori San Francisco, così il personaggio
di Tabucchi inizia l’ascesa alla torre pisana. E la pagina restituisce
persino le inquadrature dall’alto sulla città, stilema del film:
[…] e ad ogni giro vedi dai finestroni la città sempre più in basso, dapprima
i tetti di via Santa Maria, poi la cerchia delle mura, poi il fiume che attraversa
la città con due curve ampie […].45
In un’atmosfera a tratti onirica, James Stewart condivide con
il protagonista di Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa l’in-
fatuazione per un fantasma; e un lacerante senso di colpa: il primo
si strugge per non essere riuscito a salvare dalla morte il collega e
la donna amata, mentre il secondo non accetta la propria impotenza
davanti all’atto compiuto da Isabel.
45
A. Tabucchi, Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa, in Id., L’angelo nero, op.
cit., p. 27.
71
 Eppure, la scelta di Hitchcock attiene a questioni di poetica.
Nella Donna che visse due volte il regista del brivido passa in rassegna
i motivi peculiari del fantastico (il doppio, lo spettro, lo specchio,
l’oggetto mediatore del ciondolo) per renderli “altro”, e avvicinarli
al noir.46 Nello stesso solco si muove Tabucchi, che riscrive i topoi
del fantastico di tradizione in versione novecentesca. E si spinge
fino a descrivere una casa infestata con «vecchie finestre [che] ci-
golavano», ma non avalla mai in modo esplicito l’esistenza dei fan-
tasmi di Isabel o di Tadeus.
Arrivato in cima alla Torre di Pisa, il personaggio tabucchiano
si ritrova solo. Il monumento è di fattura babelica: la fine sembra
vicina. Su invito indiretto del diabolico Tadeus, le mani del perso-
naggio tabucchiano «si aprono e si chiudono» sul ferro del parapetto.
La «vertigine» – cinematografica vertigo – gli cattura lo sguardo; il
suicidio sembra imminente (anche se non sapremo se avverrà).
Ritmato da schegge visive e uditive, Voci portate da qualcosa,
impossibile dire cosa è, si è detto, un fulmineo trattatello di poetica.
E il finale alla Hitchcock acquista un chiaro valore programmatico.
Non sono solo il gioco, il triangolo impossibile o il rovello del
rimorso a connotare la pagina tabucchiana. Perché anche il cinema
s’impone come ganglio vitale della sua scrittura.47
46
Per una recente e interessante analisi di Vertigo, cfr. M. Pezzella, Il fascino discreto
dell’ambiguità: «Vertigo» di Alfred Hitchcock e A. Tricomi, Una delirante imbalsamazione del
cadavere di Dio, in I fantasmi del moderno, op. cit., pp. 137-153; pp. 154-173.
47
L’importanza del cinema nell’opera di Tabucchi è confermata dal racconto Festival
della sua ultima raccolta di racconti, Il tempo invecchia in fretta (Milano, Feltrinelli, 2009). Per
l’analisi di questo testo, incentrato sull’efficacia dell’illusione cinematografica, cfr. T. Rimini,
Tabucchi racconta «Il tempo invecchia in fretta», «Il Ponte», n. 12, 2009, pp. 141-144.
72
1.4
Parla con lui: il Verbo cinematografico
di Tristano muore
All’inizio del video Tristano e Tabucchi,1 lo scrittore, in voice-off,
si scusa di non poter rispondere alle domande che gli autori del film
gli rivolgono su Tristano muore, il libro che ha appena finito di scrivere.
Tabucchi si sente ancora troppo vicino al suo Tristano per sostenere
un’intervista. Preferisce inviare ai giovani registi un nastro con la
propria voce, quasi una «lettera orale», in cui motiva la scelta di non
farsi riprendere. Con le parole, registrate, di Tabucchi comincia Tristano
e Tabucchi, il documentario di Veronica Noseda e Marcello Togni.
L’idea del video nasce a Parigi nel ’90 come una sorta di scom-
messa. In quegli anni, Tabucchi stava scrivendo Tristano, e non
sapeva se sarebbe riuscito a finirlo. Il documentario testimonia la
fase in cui Tristano muore si trovava ancora allo stadio di «romanzo
ipotetico», costituito da singoli episodi dispersi su diversi taccuini.
Di questi brani, durante il video, Tabucchi dà una lettura ad alta
voce. E una “voce” si racconterà in presa diretta, quando Tristano
muore sarà un’opera conclusa e pubblicata. È Tristano, vecchio ago-
nizzante, che, una gamba in cancrena avanzata, è confinato in una
stanza di Malafrasca, la villa toscana di campagna in cui ha trascorso
l’infanzia. Lo assiste la Frau, una vecchia governante che ha ac-
compagnato tutta la sua vita.2
Durante le giornate gremite dal canto delle cicale dell’ultimo
agosto del Novecento (e le cicale, d’estate, friniscono anche nella
Cognizione del dolore), Tristano racconta la sua vita dolorosa a uno
scrittore. Il romanziere è chiamato al suo capezzale, affinché scriva
la sua biografia. Nel suo racconto, Tristano ricorre alla prima persona
e alla terza, quasi si sentisse già personaggio del libro futuro. Più
la fine è imminente; più si allunga il tempo della memoria.
In gioventù, durante la Seconda Guerra Mondiale, Tristano è
mandato in Grecia come militare dell’esercito fascista italiano. In
1
Tristano e Tabucchi è un mediometraggio di Veronica Noseda e Marcello Togni
presentato in concorso l’11/08/2003 al 56° Festival Internazionale del Film di Locarno nella
sezione Cineasti del Presente Video (CDPV).
2
Il ruolo del personaggio della Frau è accostato da Segre a quello di «Moira o Parca».
Cfr. C. Segre, I dolori di Tristano partigiano tradito, «Il Corriere della Sera», 07/03/2004.
73
una piazza di Plaka, il quartiere più antico di Atene, Tristano uccide
un ufficiale tedesco, che ha appena assassinato una vecchia e un
bambino.3 L’avvenimento è di quelli determinanti: Tristano decide
di partecipare alla Resistenza greca e, dopo l’8 Settembre, torna in
Italia per prendere parte alla lotta di liberazione. In patria, in mon-
tagna, stermina un manipolo di nazifascisti che hanno massacrato
il suo capo partigiano. Grazie a questa impresa, finita la guerra, a
Tristano è attribuita la decorazione di eroe della Patria. Ma sulla
sua prode azione incombe il dubbio: si è trattato davvero di un
atto eroico? O non è stato piuttosto il frutto di un tradimento?
Come faceva Tristano a sapere che nel rifugio avrebbe fatto irruzione
un manipolo di soldati tedeschi con il compito di uccidere il capo
partigiano, che lì aveva il suo nascondiglio? È stato Tristano a fare
la spia perché sapeva della tresca tra la sua donna, Marilyn, e il co-
mandante? O forse ha fatto la delazione, perché auspicava un futuro
postbellico diverso da quello desiderato dal suo capo? L’ambiguità
di Tristano, eroe e/o traditore, rimane un nodo inestricabile.
Apparentemente, come si deduce dalle sue confessioni sconnesse,
Tristano ha amato due donne: Daphne, la ragazza greca che gli ha
dato rifugio dopo l’omicidio del tedesco, e che egli ha inseguito
per tutta la vita; e Marilyn, l’ufficiale americana incontrata in mon-
tagna durante la Resistenza. È lei a tentare di coinvolgere Tristano
in oscure situazioni politiche condotte nel dopoguerra dagli americani
nella Spagna franchista. Ed è sempre Marilyn, ormai malata, ad
affidargli Ignacio, un ragazzo adottato in un orfanotrofio. Ancora
giovane, Ignacio muore in un’azione terroristica, forse di matrice
nera, degli anni Settanta. Dagli Anni di Piombo alle soglie del XXI
secolo, Tristano registra un susseguirsi di tradimenti perpetuati a
danno dei suoi ideali.
Sul Tristano “eroe della Resistenza”, lo scrittore, chiamato a
Malafrasca, ha già scritto una biografia romanzata, ma ora “l’uomo”
Tristano vuole lasciare ai posteri la “verità”. Eppure, la scrittura è
menzogna: e Tristano coltiva il paradosso. Per un verso, anela al-
l’immortalità attraverso il sepolcro della parola scritta; per l’altro,
manifesta a più riprese la sua diffidenza nei confronti degli scrittori:
«la scrittura falsa tutto, voi scrittori siete dei falsari». Per Tristano
ciò che conta è la «voce», quel «verbo» che non è altro che «fiato»,
3
Lo scenario, nota la Isotti Rosowsky, è da «film neorealista in bianco e nero (fa
pensare alla fine di Roma città aperta)». Cfr. G. Isotti Rosowsky, «Tristano muore». Un
romanzo al presente, del presente, in I ‘Notturni’ di Antonio Tabucchi, a c. di A. Dolfi, atti di
seminario, Firenze, 12-13 maggio 2008, Roma, Bulzoni, 2008, p. 340.
74
di cui gli parlava il nonno garibaldino commentando il disco di un
famoso trombettista:
«[…] in principio era il verbo, e i preti chissà cosa si sono creduti, ma il
verbo è fiato, ragazzino, nient’altro che respirazione…».4
Ma la voce è anche l’afflato vitale che anima il mito orfico.
Con la forza del canto Orfeo, scrive Tabucchi negli anni Novanta,
ammalia animali e piante; e «armato solo della sua voce» vince i
mostri dell’Ade, per riportare sulla terra la sua Euridice.5
Da sempre sedotto dal potere, magico e creatore, della voce, Ta-
bucchi non può che accettare la proposta di scrivere due testi su
Parla con lei (2001), film dolente e lirico di Pedro Almodóvar.6 Il
primo, La logica della vita, presenta la pubblicazione italiana della
sceneggiatura del film; il secondo, di qualche anno successivo, s’intitola
Vingt photogrammes pour Pedro Almodóvar, ed è scritto in occasione
della retrospettiva dedicata al regista dalla Cinémathèque Française.
Il protagonista di Parla con lei è un infermiere, Benigno, che attra-
verso l’esercizio della parola assiste in ospedale una donna in coma.
Le parla di continuo, come se lei potesse rispondergli; le racconta le
notizie del giorno o le storie del reparto. Nel film parlato di Almodóvar,
la voce di Benigno «assume vraiment une fonction orphique [...]: la
voix qui vainc les Enfers et la Nuit et qui rappelle le défunt à la vie».7
Se Benigno è un moderno Orfeo, la donna non condivide il de-
stino tragico di Euridice. Grazie al «parlare» dell’infermiere, esce
dagli Inferi del coma. E ritorna alla vita. Quello compiuto da Benigno,
è, a detta sempre di Tabucchi, «un acte d’amour effectué avec la
seule voix» (anche se poi l’infermiere si unisce alla paziente, venendo
così incriminato per stupro). Certo, Benigno ha un interlocutore
4
A. Tabucchi, Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 40-41.
5
Le riflessioni di Tabucchi sulla voce si trovano in Un universo in una sillaba. Vaga-
bondaggio intorno a un romanzo. Cfr. A. Tabucchi, Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori,
Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 15-39.
6
Anche l’apprezzamento di Eugenio Barba da parte di Tabucchi passa attraverso la
voce. Quando il fondatore dell’Odin Teatret porta in scena le ultime lettere di Si sta facendo
sempre più tardi, Tabucchi lo definisce uno di quei «sacerdoti» con «il compito di orchestrare
riti dove la voce si coniuga con il corpo, l’aria con la terra, i sensi con lo spirito». Cfr.
Tabucchi e Barba, le voci di dentro. Lo scrittore commenta lo spettacolo dell’Odin Teatret tratto
da un suo libro, «l’Unità», 02/10/2002.
7
A. Tabucchi, Vingt photogrammes pour Pedro Almodóvar, trad. dall’italiano di B. Com-
ment, in B. Benoliel, E. Charbit, M. Orléan, F. Strauss, ¡Almodóvar:exhibition!, Paris/Madrid,
Les Éditions du Panama/ La Cinémathèque Française/ El Deseo, 2006, corsivo nel testo.
Per il testo del 2003, cfr. A. Tabucchi, La logica della vita, in P. Almodóvar, Parla con lei,
Torino, Einaudi, 2003, pp. V-VII.
75
singolare: parla a una donna in coma, che della sua voce può forse
percepire solo il suono. Dal canto suo, Tristano si rivolge a uno
scrittore silente e immobile, sempre fuoricampo, della cui esistenza
il lettore talvolta arriverà a dubitare. Forse, la sua è una voce mo-
nologante, che si esprime nel silenzio. Parlano, insomma, Tristano e
Benigno, non dia-logano. La reciprocità è bandita; il linguaggio si
fa intransitivo.8 Nondimeno, nel libro e nel film, si dispiega un
piacere puro e spassionato: il gusto del raccontare una storia.
Nelle opere di Almodóvar, l’incanto della voce trionfa anche
nelle canzonette. In Parla con lei, sulle note di Cucurucucú Paloma,
un personaggio, Marco, è assalito dai ricordi: e si commuove fino
alle lacrime. Amante della musica barata, lo stesso Tabucchi ricorre
spesso a sinfonie semplici. E inaugura Tristano muore con la canzo-
netta Rosamunda. In un deciso contrappunto rispetto alla sofferenza
della vita che di lì a poco sarà raccontata.9
Nel sortilegio della parola – detta o cantata – Tabucchi e Al-
modóvar, seppure dotati di un inconfondibile e dissimile linguaggio,
trovano un momentaneo punto di contatto. Al crocevia degli im-
prevedibili sentieri tracciati dall’arte.
Il gioco del cinema sui monti della Resistenza
Scegliere un nome, si sa, non è compito semplice. Provoca intuizioni
improvvise, e continui ripensamenti. Se poi chi deve decidere è Tabucchi,
e i “neonati” sono i suoi personaggi, l’affare si complica. Sulle orme
di Pirandello e Pessoa, Tabucchi esecra la teoria dei nomina omina. Il
nome non identifica l’individuo; semmai ne confonde l’identità. In
Piazza d’Italia, i «Garibaldo» si accavallano di generazione in generazione:
per il lettore è arduo districarsi tra tutti quei nomi che ritornano uguali,
ma che indicano personaggi diversi. Con Tristano muore è invece il
cinema a complicare le identità precarie dei personaggi. Un po’ come
avveniva nel Filo dell’orizzonte, in cui Spino assegnava nomi cinema-
tografici ai cadaveri della morgue. In Tristano muore, sono i personaggi
stessi a vantare nomi di celluloide. A partire dalla voce narrante.
Durante la Resistenza, Marilyn chiama Tristano «Clark», perché
ravvisa una certa somiglianza fra lui e Clark Gable: «[…] ti chiamerò
8
Per il dialogo «mancato» di Parla con lei, cfr. U. Curi, Ombre delle idee. Filosofia del
cinema da American Beauty a Parla con lei, Bologna, Pendragon, 2002, p. 153.
9 13
La canzone Rosamunda viene anche fischiettata dai soldati italiani invasori in Grecia
nel film La recita (1975) di Anghelopulos. Richiamato da note musicali, Anghelopulos torna
a calcare la pagina tabucchiana.
76
Clark perché con il tuo ciuffo sulla fronte e il sorrisetto ironico as-
somigli a un attore del mio paese che a me piace tanto, ma tu mi
piaci di più […]».10 Benché a Marilyn Tristano «piaccia di più» di
Gable, la donna, a sua volta, intrattiene una relazione con un co-
mandante americano. Persino il nome di questo comandante è
attinto dallo scrigno di celluloide: si chiama «Cary», come Cary
Grant.
In Rebus sono comparsi Humphrey Bogart e Jean Gabin; in
Tristano muore appaiono Clark Gable e Cary Grant: un tempo gli
eroi del noir, adesso i campioni del film sentimentale. Il gioco con
i “generi”, tra le pagine, si arricchisce di nuove pedine.
Tuttavia, «Clark» è un nome di battaglia. Finita la Resistenza,
Tristano rifiuta il suo simulacro. Ormai è mutato il ruolo da im-
personare nella recita della vita; e Marilyn non può continuare a
chiamarlo Clark né pretendere che si faccia crescere i baffi alla
Gable («Così somiglierei di più a Clark Gable, disse lui, mi spiace,
ma non sono un attore di cinema, non sono più il compagno parti-
giano e non mi chiamo più Clark, lo vuoi capire?»).11
La confusione onomastica ha però una motivazione originaria:
Tristano, verso la fine del romanzo, confessa a Marilyn di non
essere mai stato battezzato.12
In Tristano muore, c’è anche un altro personaggio afflitto da
travagli identitari. Marilyn si ribella ai soprannomi («Rosamunda»,
«Guagliona», «Maria Maddalena»), che Tristano le assegna, e pre-
tende di essere chiamata con il suo vero nome. Per un inarrestabile
gioco di scatole cinesi, il vero nome della donna è in realtà il nome
di un’altra: Marilyn Monroe.13 Che da piccola sognava di avere pro-
prio Clark Gable come padre ideale. A dispetto dell’appellativo che
10
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 137.
11
Ivi, p. 63.
12
Prima di aver finito di scrivere Tristano muore, Tabucchi pubblica sulla «Rassegna
lucchese» il primo capitolo di un «romanzo possibile», in cui il protagonista si chiama
«Tabonio», pastiche di Tabucchi e Antonio: «Non so ancora come si chiama, questo
tizio. A volte mi viene in mente un nome un po’ strano […] non so se è proprio il suo.
Mi viene in mente Tabonio, e per questa sera va bene». Cfr. A. Tabucchi, L’ultimo
tram, «Rassegna lucchese», N° 1, 1999, pp. 7-13; rist. in «Il Corriere della Sera», 30
luglio 1999. Ma il nome «Tabonio» ha origini antiche, perché Tabonio è il protagonista
di uno spassoso raccontino di Tabucchi pubblicato nel ’79 sull’Almanacco Vallecchi. Cfr.
A. Tabucchi, Un biglietto per Tabonio Antucchi, in L’almanacco letterario 1979, a c. di F.
Giannessi, Firenze, Vallecchi, 1979, pp. 23-29. Ringrazio Domenico Scarpa per la se-
gnalazione.
Per una recente, e intensa, riflessione di Tabucchi sulla Monroe, cfr. A. Tabucchi,
La polvere della farfalla, in M. Monroe, Fragments. Poesie, appunti, lettere, a c. di S. Buchtal
e B. Comment, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 11-18.
77
porta, la Marilyn di Tristano muore ha capelli neri e occhi azzurri;
con un lieve strabismo. Della «bellissima bambina», come Truman
Capote definisce la Monroe, la Marilyn di Tabucchi mantiene la
disarmante sensualità. Quando ritrova Tristano dopo la guerra, e
lo prega di accompagnarla in Spagna, Marilyn dispiega le sue doti
di seduzione. Davanti al potere dei sensi, Tristano capitola.
Se il nome di Marilyn rimanda a quello della star di Hollywood,
il suo carattere ambiguo, generoso e incendiario, è cifra precipua
delle donne di Tabucchi. Come Maria do Carmo del Gioco del ro-
vescio o Miriam di Rebus, Marilyn è creatura ancipite. Forse la
donna non è, come vorrebbe far credere, un capitano addetto alle
relazioni con gli Alleati, ma una temibile spia. Nel delirante monologo
di Tristano, l’identità di Marilyn rimane caliginosa.
Tra immagini proiettate e vita vissuta
Più volte, durante la sua agonia, Tristano ripete la celebre
battuta del «domani è un altro giorno» recitata da Rossella O’Hara
nel finale di Via col vento (che, peraltro, annovera Clark Gable nel
ruolo di Rhett Butler).14 Ma il tono è sarcastico: amaro e disperato.
Dopo Casablanca (1942), Tabucchi si confronta con l’altra auc-
toritas del genere sentimentale: Via col vento (1939). Se Marilyn
chiama Tristano «Clark»; Daphne, la greca amata dal protagonista,
inizia un gioco d’intesa sulla battuta di Rossella. Tornati a Malafra-
sca,15 Daphne regala a Tristano una sedia da regista con la frase
«domani è un altro giorno» scritta sulla spalliera. È, quella della
donna, una scherzosa provocazione: Daphne non accetta che Tristano,
guardando dal porticato della casa la distesa di «ulivi sofferenti»,
diventi «il regista di un cinemascope amaro». Chissà, invece, che
14
Secondo Francese, la presenza di Via col vento in Tristano muore è una «metaphor
for the progressive tainting of the voice’s outlook». Il critico individua poi un momento del
libro, che richiama una sequenza del film. Quando Tristano rifiuta di farsi amputare la
gamba, le sue parole, secondo Francese, ripropongono, quasi una per una, le rivendicazioni
di un soldato ferito nell’ospedale di Atlanta di Via col vento. Cfr. J. Francese, Socially
Symbolic Acts. The Historicizing fictions of Umberto Eco, Vincenzo Consolo and Antonio
Tabucchi, NJ, Fairleigh Dickinson University Press, 2006, p. 286.
15
Forse, però, il ritorno di Tristano con Daphne a Malafrasca non è mai avvenuto.
Tristano racconta infatti allo scrittore di quando dopo dieci anni tornò in Grecia, ma l’amico
Marios gli disse che ormai era troppo tardi. Daphne aveva lasciato la Grecia e dava concerti
in giro per il mondo. Se poi questo ritorno ci fosse realmente stato, si tratterebbe del primo
ritorno a Malafrasca, perché il secondo è solo la proiezione di un desiderio di Tristano:
Daphne giace cadavere in una cappella di Plaka.
78
quelle parole così celebri non lo scuotano dal senso di torpore, dal
disincanto che lo coglie quando s’interroga se sia valsa la pena com-
battere per il suo paese. Ma la toscana Malafrasca non è la Tara di
Via col vento. Pur avendo subito le distruzioni della guerra, la
proprietà degli O’Hara torna a prosperare grazie alla fermezza di
Rossella, mentre tutto, nella proprietà di Tristano, è un irrefrenabile
proliferare di morbi e malattie. Non c’è altro che male nell’Italia
del XX secolo.
Lo sguardo di Tristano si ancora sugli ulivi, poi si rivolge pro-
strato alla vigna: gli alberi sono ingialliti, i tralci biblicamente
infetti.16 Il «domani» non porterà «un altro giorno», ma un giorno
tristemente uguale a questo. La cinepresa dell’occhio di Tristano si
fa malinconica. E la pianura, che «in cinemascope» sembrava «così
ubertosa», al suo occhio nudo appare «asciutta». Il cinema, con il
suo cinemascope, diventa allora un filtro deformante, una franca
grammatica della falsità.
Ma il percorso della citazione filmica non si arresta: e la battuta
del «domani è un altro giorno» ritorna sulla pagina. In pieno delirio,
Tristano rivede (o immagina) il giorno in cui il Presidente della Re-
pubblica gli ha conferito la croce di guerra al valore. Poi si pone fuori
dal quadro; e si scopre spettatore di un documentario in bianco e
nero della Settimana Incom, che verrà proiettato la domenica successiva
«in tutti i cinema d’Italia» prima del «film americano dove lei dice
che domani è un altro giorno». Tra luce e buio, in sala, prima il do-
cumentario della Settimana Incom sulla «solenne cerimonia dell’eroismo
patrio»; poi la fiction di Via col vento: prima il bianco e nero, poi il
tripudio del technicolor. Ma le due forme di spettacolo non sono in-
conciliabili. Se Via col vento è, per sua natura, fiction, nondimeno il
documentario è finzione: il suo eroe, Tristano, non è un eroe.
Il brandello del “domani” ricorre, ormai decontestualizzato, nel
finale di Tristano muore. Con un «comunque domani è un altro giorno»,
Tristano si congeda dai lettori.17 In bocca al disincantato Tristano, la
battuta sul “domani” risuona però inequivocabilmente beffarda. Pros-
simo alla fine, Tristano è privato di un “domani”. Al futuro, dovranno
pensare quelli che continueranno a vivere nello sfacelo del XX secolo.
E il tono sarcastico di Tristano non preannunzia niente di buono.
16
Il senso del morbo contamina tutto il libro, arrivando a infettare persino le citazioni:
le colline «come elefanti bianchi» di Hemingway diventano «un cimitero di elefanti con la
vitiligine». Cfr. A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 70.
17
Forse, nella battuta finale di Tristano, risuona l’eco delle ultime parole scritte da Pessoa
prima di morire, «I know not what thomorrow will bring», citate dall’io narrante di Notturno
indiano. Cfr. A. Tabucchi, Notturno indiano [1984], Palermo, Sellerio, 2006, p. 58.
79
Che il XX secolo se ne vada via col vento non induce insomma
Tristano a farne un’elegia. Semmai, un ritratto al vetriolo.
Accanto a Via col vento, un altro film abbandona le cineteche per
fare da scivoloso corrimano alla memoria di Tristano. È un western: Il
cavaliere della valle solitaria (1953). Forse, insinua Tristano, lo scrittore
ha deciso di raccontare la storia di Tristano, perché, guardando alla sua
vicenda, gli è venuto in mente il film Il cavaliere della valle solitaria:
[…] possibile che fra quella gente ti sia venuto in mente di scrivere di
Tristano, forse che avevi visto un film con Alan Ladd che si chiama Il cavaliere
della valle solitaria?18
Non ci sono i corsivi per indicare il titolo della pellicola; tutto
è risucchiato nel flusso dei pensieri. Dopo la trilogia di Ford nel
racconto Any where out of the world, ricompare il western. In sella
al cavallo, vestito di bianco, il pistolero Shane, protagonista del
Cavaliere della valle solitaria, è un cavaliere errante in cerca di un
Graal più laico. Intrecciando i motivi tipici del western ai toni della
chanson de geste, Shane è, nelle parole di Bazin, il «mito».19 Ma il
mythous poiein, la volontà di trasferire il mito sulla pagina, sembra
il criterio seguito da Tabucchi nella scelta dei film citati in Tristano
muore. Ora è il mito sentimentale di Via col vento; ora è il mito
americano delle origini rivisitato dal western.
Shane è un cavaliere solitario. Poco importa che, arrivato in una
vallata, si affezioni alla famiglia di coloni che lo ospita; e nutra un
affetto paterno per il loro figlio. Perché il destino gli prescrive l’erranza:
e dopo aver salvato la famiglia dai soprusi dei ranchers, Shane riprende
il cammino. Confinato a Malafrasca e privato degli affetti, nemmeno
Tristano riesce a rompere le maglie della solitudine. Non può neppure
confidare in Ignacio, il figlio adottivo di Marilyn, che egli adorava come
se ne fosse il padre. Il ragazzo muore anzitempo in un atto terroristico.
L’esilio è lo sconsolato orizzonte condiviso dal personaggio ci-
nematografico e dal personaggio letterario. Ma quello di Tristano
è un esilio anche dal proprio corpo: l’uso della morfina e le frequenti
allucinazioni sciolgono le briglie alle sue membra.20
18
19
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 105.
A. Bazin, Evoluzione del western, in Id., Che cosa è il cinema?: il film come opera d’arte
e come mito nella riflessione di un maestro della critica, a c. di e trad. di A. Aprà, Milano,
Garzanti 1999, p. 264.
20
Nella letteratura del Novecento, un altro cavaliere si è dovuto scontrare con la morte.
Il Vice della sotie di Sciascia Il cavaliere e la morte. Anche il personaggio sciasciano oppone
la sofferenza fisica del malato terminale alle speculazioni filosofiche. E fa uso di morfina.
80
L’episodio di Giuditta: tra Piero Chiara e François Truffaut
Finora i ricordi di una vita hanno portato il narratore sempre
altrove: nello spazio, nel tempo. Tra le pagine di un libro o tra i
fotogrammi di una pellicola. Nell’episodio di Giuditta egli si colloca
invece all’intersezione di entrambi: di testo e immagine. In una
giornata rinfrescata dal vento, l’uomo racconta allo scrittore di
quando Tristano si è ritrovato con Marilyn in un capanno sulla
spiaggia tra le «fresche frasche». Sono passati molti anni da quel-
l’incontro – o forse non è mai avvenuto – ma il desiderio, che Tri-
stano sente violento nell’inguine, è immutato. Il cupio dissolvi è là
da venire. Per dare inizio alla sua rievocazione, la “voce” preferisce
affidarsi a parole altrui anziché ricorrere alla proprie:
Pirimpipim pirimpipim, pirimpipim, elle avait des yeux des yeux d’opale
qui me fascinaient, qui me fascinaient, il y avait l’ovale de son visage pâle de
femme fatale qui me fut fatal… Senti gli uccellini come cinguettano? [...]21
Benché la fonte non sia dichiarata, l’allegria di questo incipit
è modulata sulla seconda strofa della canzone francese Tourbillon
de la vie. Dopo aver scelto una colonna sonora per il suo ricordo,
il narratore lavora l’episodio dell’incontro con Marilyn su un
secondo intertesto, stavolta letterario. Più che nell’episodio biblico,
il narratore incontra Giuditta nel racconto di Piero Chiara Ti sento,
Giuditta.22 In piedi sul molo, Amedeo Brovelli, il personaggio del
racconto di Chiara, sente gli odori nel vento fino a cogliere l’afrore
della sua donna, Giuditta. Sempre in riva all’acqua, Tristano, arso
dal desiderio, chiama disperato la sua amata, che stavolta non
porta il nome di Marilyn o di Daphne, ma, per la mediazione di
Chiara, diventa «Giuditta». Mentre il desiderio del personaggio
di Chiara si arresta nell’odore di donna portato dal vento; quello
di Tristano prende corpo: poco dopo, sulla sabbia, compare la sua
Giuditta. E si unisce a lui nel capanno: lo scorcio lacustre di Ti
sento, Giuditta ha un seguito.
Ma la storia di Tristano e Marilyn/Giuditta sarà un accavallarsi
inesausto di incontri e di abbandoni, proprio come recitano le
strofe della canzone Tourbillon de la vie. Il racconto di Chiara è
così riscritto e completato in chiave musicale. Tanto che le parole
21
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 34.
22
P. Chiara, Ti sento, Giuditta, in Id., L’uovo al cianuro e altre storie [1969], in Id.,
Racconti, a c. di M. Novelli, Milano, Mondadori, 2007, pp. 216-220.
81
francesi seguono quelle italiane, tratte da Chiara, in soluzione
di continuità:
La chiami, la pineta in fondo risponde, Giudittaaaa! Sono io, Giuditta!
Sono io Giudittaaa! Ti voglio, Giuditta! Ti voglio, Giudittaaaa!...on s’est
connu, on s’est reconnu, on s’est perdu de vue, on s’est reperdu de vue, on
s’est séparé puis on s’est réchauffé [...].23
Per un innalzamento tonale, il «ti sento, Giuditta» di Chiara
diventa «ti voglio, Giuditta». L’esplosione del desiderio è imminente.
Dopo l’intervento delle maestranze musicali e letterarie, il
mosaico intertestuale non è ancora completo. Mancano gli ultimi
tasselli. Di celluloide, naturalmente. La canzone Tourbillon de la
vie è resa celebre dall’interpretazione di Jeanne Moreau in una se-
quenza del film Jules e Jim (1962) di François Truffaut. In una
scrittura della voce, com’è quella di Tristano muore, la citazione ci-
nematografica non può che muovere da una canzone. E Tabucchi
reinterpreta Chiara alla luce di Truffaut. O meglio: “corregge”
l’uno alla luce dell’altro. In un vero e proprio tourbillon citazionistico.
La storia raccontata da Truffaut è quella del ménage à trois fra
due amici, Jules e Jim, e la donna amata da entrambi, Catherine
(Jeanne Moreau). Ma Tabucchi esalta a propria insegna il gioco del
rovescio. E inverte le parti: non saranno più, come nel film, due
uomini a essere travolti da un’unica donna; ma un solo uomo, Tri-
stano, dimidiato tra due donne (Marilyn e Daphne). Tristano muore
si colloca in una sorta di controcampo rispetto a Jules e Jim. Di
nuovo, dopo il caso di Effetto notte (1973) nel racconto Cinema, il
rapporto di Tabucchi con Truffaut si conferma turbolento.
Il tourbillon strutturale
Dall’episodio di Giuditta il tourbillon tracima fino a coinvolgere
l’intera architettura di Tristano muore.24 Più volte, la voce promette
allo scrittore una narrazione lineare, ma quando l’onda del ricordo
lo assale, il naufragio dell’ordine è incontenibile. Il tentativo di re-
23
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 35.
24
Ma il «tourbillon» è anche un’invenzione meccanica, opera dell’orologiaio Breguet:
«una sorta di bilanciere che fa in un minuto un giro esatto e recupera il ritardo: un ritardo
minuscolo ma che, cumulandosi, inciderebbe molto sulla misurazione del tempo». Cfr. A.
Tabucchi, in Le voci di Tristano raccontate da Tabucchi. Intervista all’autore di Tristano muore,
a c. di S. Teroni, «il Manifesto», 21/05/2004.
82
stituire il senso di un’esistenza attraverso una forma narrativa, or-
dinata dal principio della matassa, è votato allo scacco. E forse quel
refrain del «domani è un altro giorno» non è che il residuo di una
speranza – impossibile – di diacronia. Alla trama, negligente e in-
disciplinata, ben si accorda un effetto speciale di natura cinemato-
grafica. Al tempio di Apollo, Tristano, in attesa di interrogare la
Pizia sulla sua vita, comincia a fissare le stelle. Una bianca, diversa
dalle altre, gli si avvicina e lo trasporta, di colpo, in un’altra di-
mensione: «quella luce cominciò a venirgli incontro, si avvicinava
a una velocità incredibile finché lo investì come una meteora, e lui
si trovò in una piazza fredda e deserta, di fronte a un ufficiale
nazista steso per terra».25
D’altronde Tristano non ha un «buon rapporto» con «il tempo»:
«a volte indietreggi, a volte procedi a ballonzoli», gli fa notare Ma-
rilyn. Il tourbillon sembra allora solo l’ultima forma che ha assunto
l’idiosincrasia cronologica di molti personaggi tabucchiani. Alternando
flashback e flashforward, Tristano patisce il «Mal del Tempo» di
cui era vittima Volturno in Piazza d’Italia.26 Al contrario di Piazza
d’Italia, Tristano muore non accoglie però i raccordi di matrice ei-
zensteiniana per unire gli spezzoni narrativi. Adesso, il modello è
il frammento nietzschiano; e la sua forma, la scheggia di prosa.
Ciononostante l’architettura ondivaga di Tristano muore, altalenante
tra omissioni, riprese, e illusori lacerti di verità biografiche, si sposa
con la mobilità della macchina da presa, che di volta in volta adotta
una diversa angolazione e modifica la percezione delle cose. Non
solo: le diverse versioni sull’episodio dello sterminio dei nazifascisti
compiuto da Tristano fanno di Tristano muore una sorta di Rashomon
della Resistenza.
Se la vita si fa pellicola…
La famiglia di Tristano è affetta da una malattia ereditaria: nessuno
dei suoi membri riesce a instaurare un rapporto diretto con il reale.
Per guardare il mondo, il nonno impiega il cannocchiale; il padre il
microscopio; Tristano, non di rado, la lente cinematografica. Se ne
avvale quando incontra in sogno Marilyn travestita da uomo: e pensa
25
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 154.
26
Per le analogie fra Piazza d’Italia e Tristano muore, cfr. F. Brizio-Skov, Si sta facendo
sempre più tardi, Autobiografie altrui, e Tristano muore di Antonio Tabucchi: dove va il romanzo?
«Italica», N° 3-4, Fall and Winter 2006, pp. 666-690.
83
che incomincerà a ballare «perché ha letto dei libri e visto dei film».
Se i suoi pensieri sono mediati dall’immaginario letterario e cinema-
tografico, la sua vita si dipana come una bobina: «come se guardassi
un film su una parete, e chi proietta quel film sono i miei occhi».27
Ma Tristano non «proietta» solo il suo passato, ne è anche l’attore.
O meglio: lo è stato in montagna, durante la Resistenza. Quando,
dopo aver ucciso i nazisti, esce dalla roccia, viene colpito da un raggio
«come si addice alle scenografie dei film a colori per gli eroi». E nel
romanzo scritto su di lui, Tristano meriterebbe il ruolo di protagonista
di un film «edificante». Con un luminoso happy end sui due prota-
gonisti che, dopo essersi traditi a vicenda, si ritrovano, e «si baciano
appassionatamente sullo sfondo di un tramonto». Ma Tristano non
è l’eroe del romanzo, o almeno non è soltanto l’uomo, che da solo
ha ucciso un manipolo di tedeschi: è eroe e traditore a un tempo.
L’immagine, come la scrittura, è irrimediabilmente menzogna.
Accertata la falsità dell’immagine, ciò che interessa Tabucchi è
la possibilità di manipolare la pellicola. Dopo essersi cimentato, nei
Racconti, con sequel e remake, Tabucchi ora si confronta con acce-
lerati e ralenty. Alla prima tecnica ricorre il dottor Ziegler, incaricato
di curare le violente cefalee di Tristano. Deve spiegare al suo
paziente gli «effetti di distorsione o di ingigantimento dell’immagine»
causati dai mal di testa. E si avvale del paragone con «certi docu-
mentari sulla botanica», in cui si vede «un fiore in boccio» aprirsi
«a corolla in pochi secondi perché è stata aumentata la velocità
dell’immagine».28
La velocità dell’immagine si può però anche diminuire. Lo spe-
rimenta Tristano nel momento culminante della sua vita. Dopo aver
visto Marilyn uscire dal casolare con i tedeschi, Tristano brandisce
il pugnale come a volersi scagliare sulla donna. Il suo gesto «procede
al rallentatore, come nei film, perché in quel momento la pellicola
del sogno di Tristano sta passando al rallentatore».29
Il “cunto” di Tristano si dipana insomma per immagini. E Tabucchi
propone al regista Fernando Lopes di girare un film dal suo ultimo
27
28
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 117.
Anche il Minotauro nel suo labirinto soffre cefalee lancinanti, che arrivano a liquefare
gli angoli retti della sua dimora. Lo racconta Tabucchi in un breve testo intitolato Le cefalee
del Minotauro. Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami dedicato al lavoro del pittore
Valerio Adami. E in un labirinto, in una prigione frattale della Storia, è rinchiuso lo stesso
Tristano. Cfr. A. Tabucchi, Le cefalee del Minotauro. Diario cretese con le sinopie di Valerio
Adami, in Valerio Adami. Opere 1990-2000, a c. di P. Fabbri, Milano, Skira, 2000, pp. 21-28,
rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
29
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 124, corsivo mio.
84
(anti)romanzo. Eppure Lopes rifiuta. Ha già diretto O fio do horizonte
(1993) da Il filo dell’orizzonte, ma stavolta la materia rischia di bruciargli
tra le mani (o dietro la cinepresa). Tristano muore è un libro «genial
et troublant», intriso di roventi ricordi autobiografici: chi provasse a
girarlo, rischierebbe di reiterare la fine del protagonista.30
L’avvento della «scatola di vetro»
Tra le righe di Tristano muore il repertorio tabucchiano dei lin-
guaggi registra una scossa violenta. E la televisione fa la sua comparsa
sulla pagina. Ovvero: «quell’aggeggio», o la «scatola di vetro»,
come viene definita dai personaggi, quasi non meritasse di essere
chiamata per nome. Sua odiosa propaggine è la «purga catodica»,
la trasmissione televisiva, che tutte le sere invita in studio ospiti
del mondo della politica, della cultura o dello spettacolo (un’allusione
a Porta a porta?). Persino lo scrittore, che ora Tristano ha voluto al
suo capezzale, è stato chiamato a parteciparvi, ma ha declinato l’in-
vito. E si è così guadagnato la convocazione di Tristano a Malafrasca.
Nonostante Tristano sia «informatissimo» di ciò che succede
in «quell’aggeggio», non lo guarda mai. Preferisce affidarsi al «bol-
lettino», che gli riporta solerte la Frau.
In un salvifico isolamento, Tristano si ostina a vivere nelle pellicole,
quando ormai l’immaginario è monopolizzato dalle scatole di vetro.
È un irriducibile personaggio fin de siècle. La televisione è orfana del
potere fascinatorio della sala cinematografica, e ha ristretto la visione
del mondo alle dimensioni ridotte dello schermo. Subalterna rispetto
alla magia del cinema, la televisione arriverà al collasso quando una
nuova e sinistra divinità catodica, «pippopippi», epurerà le sue «scatole
di vetro» da «ogni immagine portatrice di pensiero». E la responsabilità
critica dello spettatore sarà così azzerata. Se finora il cinema ha du-
plicato il testo scritto, moltiplicando e insieme frantumando il conti-
nuum narrativo, ora la televisione rischia di annullarlo. E il potere
dell’immagine potrebbe degenerare nel potere sull’immagine.
Che si tratti del grande o del piccolo schermo, il delirio verbo-
centrico di Tristano educa la sua voce sull’esperienza visiva. Libro
di paradossi fin dalla relazione fra titolo e sottotitolo (Tristano muo-
re/Una vita), Tristano muore conferisce sì il primato alla parola, ma
sempre la corregge, e la arricchisce, con l’immagine.
30
F. Lopes, nell’intervista inedita a me rilasciata il 14/06/06.
85
 2
Intermezzo fotografico

E mentre la fotografia guarda e crede di vedere,

capita a lei come all’ubriaco, che crede portarsi la
bottiglia alla bocca, e invece se la poggia alla tempia.
A. SAVINIO
 2.1
La fotografia, questa maliarda falsaria

Una veduta di San Pietro. Un piede in volo per i giardini

vaticani. Una dedica sarcastica e insolente. Con questa bizzarra
triade s’inaugura, nei libri di Tabucchi, la storia delle fotografie.
O meglio, in questo caso, delle cartoline. Plinio, capostipite della
famiglia di Piazza d’Italia, rimane ferito a un piede durante la Breccia
di Porta Pia. L’arto gli viene amputato, ma Plinio decide di portarlo
con sé e lanciarlo nei giardini vaticani. Per sancire la sua rivolta,
invia una cartolina alla moglie con la vista della basilica. E la correda
di poche, icastiche, parole:
«Ho preso a calci Pio IX. Rispettosi saluti tuo Plinio».1

Sin dall’inizio, l’immagine fotografica è legata alla scrittura.

Come se un linguaggio richiamasse di necessità l’altro.
Alle cartoline postali si affiancano ben presto le fotografie. Per-
lopiù ritratti, e scene di vita familiare ingiallite tra le pieghe del
tempo. Venezie, piccioni, e giovani coppie d’altri tempi affollano
la galleria fotografica tabucchiana. E la inondano di una luce cre-
puscolare. Tra il nostalgico e l’oleografico.
A Tabucchi, le foto – come i film – interessano quando im-
pressionano la memoria. E rischiano di precipitare nell’oblio. Scattate
in studi di posa d’antan o con vecchie macchine fotografiche, le
istantanee di Tabucchi ritraggono spesso persone che non ci sono
più. E diventano una nuova declinazione dell’amor vacui dello scrit-
tore. Di fatto, la fotografia è sempre il presagio di un tempo fisso
e senza ritorno: un «memento mori», dice Susan Sontag.2 Perché
lo scatto congela l’attimo, ma quell’attimo, di lì a un istante, scom-
pare. E la fotografia trascolora in tanatografia.
Non solo compromesse con il Tempo, le foto di Tabucchi sono,
per così dire, compromesse con la Tecnica. I suoi personaggi s’im-

1
A. Tabucchi, Piazza d’Italia. Favola popolare in tre tempi, un epilogo e un’appendice
[1975], Milano, Feltrinelli, 2003, p. 21.
2
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società [1978], Torino,
Einaudi, 2004, p. 15. Alla memoria dell’«amica» Susan Sontag, Tabucchi nel 2006 dedica
L’oca al passo.

89
battono in istantanee sottoesposte o sovraesposte, frutto di un
errato dosaggio dei contrasti di luce e di ombra. A causa del buio
eccessivo o della luce accecante, non è facile identificare tutti i par-
ticolari dell’immagine. Inoltre, spesso la foto non è perfettamente
a fuoco, perché l’obiettivo è collocato troppo lontano o troppo
vicino all’oggetto da immortalare. Così sfocate, le immagini chimiche
sfumano in ectoplasmi. E, in una realtà fuori fuoco, lo sguardo del-
l’uomo non è più prensile.
In balia della messa a fuoco o delle variazioni di luce, la foto
non è un archivio della memoria, ma una custodia provvisoria. E
rifiuta lo statuto di documento trasparente del reale. Non esiste,
come si accorge Praz, «l’obiettività dell’obiettivo».3 L’istantanea
non certifica il mondo; semmai ne offre un’interpretazione. O,
peggio ancora, falsifica ciò che immortala: «Méfiez-vous des morceaux
choisis», avverte la didascalia del reportage fotografico della Christine
di Notturno indiano.4
Pur consapevole delle insidie fotografiche, Tabucchi rincara la
dose: e, attraverso i suoi personaggi, manipola la pellicola. Numerosi
protagonisti delle sue storie si confrontano con ingrandimenti fo-
tografici. Talvolta, poi, la foto è alterata dai media a fini propa-
gandistici: e Tabucchi denuncia l’uso malato dell’immagine.
Non bastasse, le foto si rivelano spesso anguste. Nella lettera Il
fiume, il mittente si accanisce contro le istantanee che imprigionano
la vita in «stupidi rettangoli di carta» e non le permettono di uscire
«dai loro stretti confini». La fotografia è «feroce»; e l’esistenza «è
prigioniera della sua rappresentazione».5 Mentre l’Eddie del racconto
Cinema è vittima dell’inquadratura cinematografica, i personaggi
fotografati sono schiavi dello scatto.
Talmente stretti sono i contorni dell’istantanea, che, tra le
pagine, fa irruzione l’idea del «senza cornice». Una cosa, insomma,
è lo sguardo diretto sul reale; un’altra è la percezione mediata da
una cornice (davanti alla sconcertante miseria del Quartiere delle
Gabbie il narratore di Notturno indiano asserisce che «il visibile
3
M. Praz, Pittura di ritratto e fotografia, in Id., Perseo e la medusa. Dal Romanticismo
all’avanguardia, Milano, Mondadori, 1979, p. 193.
4
Per il significato che la fotografia acquista in Notturno indiano si rimanda ai
lavori di Anna Dolfi e Nives Trentini. Cfr. A. Dolfi, Tabucchi, la specularità, il rimorso,
Roma, Bulzoni, 2006; N. Trentini, «Il visibile senza cornice è sempre un’altra cosa». La
fotografia nelle storie di Tabucchi, in Letteratura & fotografia, a c. di A. Dolfi, II, Roma,
Bulzoni, 2005.
5
A. Tabucchi, Il fiume, in Id., Si sta facendo sempre più tardi. Romanzo in forma di
lettere [2001], Milano, Feltrinelli, 2003, p. 24.
90
senza cornice è sempre un’altra cosa»).6 D’altronde, le storie di Ta-
bucchi, dal finale aperto, si rinchiuderebbero a fatica in un telaio
circoscritto. D’ebano o d’argento che sia.
Se molti personaggi avvertono l’istantanea come una gabbia,
altri sperano di “entrare” dentro le fotografie. Lo desidera il ragazzo
del racconto I pomeriggi del sabato. Nei giorni afosi di un’estate to-
scana, il giovane immagina di salire su un treno e di sfogliare, nello
scompartimento, il libro scolastico di geografia.7 Deve decidere
quale immagine “visitare”. Esita tra «La ville lumière vista dall’alto
di Nôtre-Dame», come recita la didascalia che accompagna la ripro-
duzione, e «Il Partenone di Atene visto al tramonto». La scelta invece
cade sul porto di Singapore «brulicante di biciclette e di gente col
cappello a cono». Dopo pranzo, con gli occhi chiusi, ma senza dor-
mire, il ragazzino fantastica sull’arrivo nel porto dell’Oriente:
[…] che curioso, era [il porto di Singapore immaginato] identico alla fo-
tografia del mio libro, diverso c’era solo che dentro quella fotografia c’ero an-
ch’io.8
Si “entra” allora nelle fotografie come, vedremo, si entrerà nei
quadri. C’è però chi segue il percorso inverso: dalla foto alla realtà.
Accade, sempre nel racconto I pomeriggi del sabato, alla madre del
narratore. Andando probabilmente incontro al fantasma del padre,
la mamma è «la mamma di quella fotografia». L’immagine, dalla
quale la madre sembra venir fuori, ritrae i genitori del narratore
davanti alla basilica di San Marco nell’aprile del ’42.9
La fotografia trascina sulla pagina di Tabucchi i suoi spazi e i
suoi tempi. E perturba la sintassi. Lo sperimenta Franklin, il pro-
6
A. Tabucchi, Notturno indiano, op. cit., p. 15.
7
Il racconto I pomeriggi del sabato trasfigura ricordi autobiografici. Nel ’97, sul «Corriere
della Sera», Tabucchi infatti ricorda come l’Atlante della De Agostini, insieme all’Isola del
tesoro, gli fece, in gioventù, scoprire il mondo. Cfr. A. Tabucchi, Il mio Novecento nato da
un atlante, «Il Corriere della Sera», 24/01/1997; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a
c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
8
A. Tabucchi, I pomeriggi del sabato, in Id., Il gioco del rovescio [1981], Milano,
Feltrinelli, 1998, p. 72, corsivo mio.
9
Nella data riportata sulla foto dei Pomeriggi del sabato si legge: «Venezia 14 aprile
1942». Un anno prima, nel 1941, sempre a Venezia e sempre in aprile, è stata scattata la
foto ai genitori del ragazzino protagonista del racconto Capodanno. Racchiusa da una cornice
d’argento, la foto troneggia sul marmo del canterale della camera della madre. L’istantanea
ritrae i coniugi in luna di miele, sorridenti e attorniati dai piccioni. Un piede della donna
«ha invaso la data scritta a inchiostro: Venezia, 12 aprile 1941». La gita a Venezia è il sogno
coronato da molti personaggi tabucchiani. Cfr. A. Tabucchi, Capodanno, in Id., L’angelo
nero [1991], Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 114-115, corsivo nel testo.
91
tagonista del racconto Cambio di mano. L’uomo gironzola a Battery
Park prima di recarsi all’appuntamento per incontrare il suo «con-
tatto» (Franklin è un terrorista). Ma la sua passeggiata nel parco è
interrotta da due signore, che gli chiedono di essere fotografate.
Franklin accetta. E il «clic» dello scatto fotografico irrompe tra le
righe:
Clic, grazie, di niente, buonasera, clic, un attimo, dieci anni passati in
un attimo, Dolores scomparsa, irripetibile, eppure era lì solo un attimo prima
e sorrideva contro i grattacieli, in quello stesso punto, clic: dieci anni.10

Il paradosso ontologico della foto, che assottiglia il tempo alla

dimensione effimera dell’istante e azzera le distanze tra gli anni,
trova così un perfetto pendant nella forma disarticolata, e franta,
della sintassi. Asindeti insistiti e continue giustapposizioni s’impa-
droniscono della pagina. Se l’atto fotografico è discontinuo, discon-
tinua è la narrazione, che quel gesto decide di descrivere.
Accortosi, per via fotografica, del fluire vertiginoso del tempo,
Franklin sceglie di infrangere le regole del suo lavoro. E passa la
notte con la donna, che è il suo contatto. Ma la foto gli gioca un
brutto scherzo: crudele e definitivo. Dopo aver ospitato la ragazza
nell’elegante camera dell’hotel Park Lane, Franklin va in bagno, e
nell’astuccio da trucco del suo contatto trova una foto «presa col
teleobiettivo, a corpo intero». È il suo ritratto: la donna è il sicario
mandato a ucciderlo. Per sua natura legata alla morte, la foto ora
ne diventa lo strumento.
Concrezione di ricordi nostalgici e veicolo di sinistri presagi, la
foto di Tabucchi gode di uno statuto ambiguo. All’istantanea, lo
scrittore eleva un inquieto odi et amo. Tra irrefrenabile attrazione
e aspro risentimento.

Il filo dell’orizzonte. Una fotobiografia parallela

Di solito Tabucchi introduce nella pagina foto partorite dalla

sua immaginazione, ma nel Filo dell’orizzonte cambia rotta: e inserisce
un’istantanea scattata per davvero. L’operazione è en travesti, na-
turalmente.
Spino è impegnato a ingrandire una foto di Nobodi, il cadavere

10
A. Tabucchi, Cambio di mano, in Id., Piccoli equivoci senza importanza [1985], Milano,
Feltrinelli, 2006, p. 122. 1. La famiglia di Fernando Pessoa sulle scale del cottage di Durban.

92 93
 dall’identità sconosciuta che tanto assomiglia a lui da giovane.11
Forse, la foto potrebbe inaugurare nuove piste investigative. Ma
l’istantanea mostra un graffio, che taglia diagonalmente i personaggi.
Spino interroga lo sfregio: potrebbe trattarsi dell’azione corrosiva
del tempo, oppure della volontà di qualcuno deciso a sfigurare quel
passato. L’origine della “ferita” rimane incerta. La foto avvia la
detection, ma l’investigazione subito s’inceppa.
Ingrandita e graffiata, la foto ritrae un gruppo di famiglia nella
«veranda di una modesta casa di sobborgo». C’è un uomo, presu-
mibilmente il padre, che siede a un tavolino di marmo, mentre la
madre entra nella foto senza accorgersene. Ci sono poi due bambini
«seduti su uno scalino». La bambina ha le trecce; il ragazzino ha
gli occhi «persi oltre l’obiettivo». Sulla destra, un cane acciambellato
entra anch’esso per caso nella foto. Alla posa calcolata Tabucchi
preferisce sempre la casualità della composizione. La foto, come si
deduce dal titolo della rivista (Sur) che sta leggendo il padre, è
scattata in Argentina. Tabucchi si diverte però a mescolare finzione
letteraria e realtà effettuale. Perché la foto della famiglia di Nobodi
appartiene all’album di famiglia di Fernando Pessoa, e risale all’a-
dolescenza del poeta trascorsa a Durban, in Sudafrica. Della foto
di Pessoa, Tabucchi, in un saggio critico sul poeta, offre una de-
scrizione tesa all’esattezza del dettaglio:
L’istantanea ha sorpreso il gruppo di famiglia sulle scalette del loro cottage
di Durban. A destra c’è il comandante Rosa, in borghese, già pingue e maturo,
con un faccione burbero eppure bonario, che sorregge il penultimo dei figli.
A sinistra la signora Madalena, invecchiata da una precoce canizie, con l’ultimo
nato sulle ginocchia; e seduto a metà scala, a fianco della sorellina, ma da lei
discosto, Fernando adolescente, un giovanottino esile con le spalle cadenti, le
mani intrecciate su un ginocchio, la bocca stretta da una impercettibile piega
malinconica e gli occhi persi oltre l’obiettivo.12

2. Gli alunni dell’High School di Durban.
11
L’episodio dell’ingrandimento fotografico è stato già preso in esame, per questioni
cinematografiche, nel capitolo Fili di celluloide all’orizzonte.
12
A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, in F. Pessoa, Una sola moltitudine [1979], a c. di
A. Tabucchi e M. J. de Lancastre, Milano, Adelphi, 2003, pp. 28-29. In Un baule pieno di
gente, Tabucchi, prima di soffermarsi sulla foto del cottage, accenna però a un’altra foto, che
ritrae Fernando decenne secondo «una posa da studio» con tanto di tronco d’albero come sce-
nografia. Viene in mente la foto del Guido dodicenne del racconto Stanze contenuto nella
raccolta Piccoli equivoci senza importanza. La ricorda Amelia, la sorella di Guido, quando ormai
entrambi sono diventati vecchi e il fratello è gravemente malato. L’istantanea immortala Guido
mentre posa in uno studio fotografico con i pantaloni a mezza gamba, e lo scarponcino appoggiato
su un tronco. Ma la scenografia trasuda falsità: il tronco su cui Guido dodicenne appoggia lo
scarponcino è posticcio, di cartapesta, collocato ad arte dal fotografo per dare un tocco «rustico»
alla composizione. Di nuovo, trionfa la falsa retorica delle immagini. Cfr. A. Tabucchi, Stanze,
in Id., Piccoli equivoci senza importanza [1985], Milano, Feltrinelli, 2006, p. 65.

94 95
 Di lì a qualche anno, il Tabucchi filologo presta il vocabolario
al Tabucchi scrittore. E la descrizione, che Tabucchi fa della foto
del giovane Pessoa, è risillabata per l’istantanea di Nobodi. Il tutto,
però, è abbassato di tono. O meglio: di grado sociale. A partire
dalla scenografia. Nel Filo dell’orizzonte, il cottage diventa una «mo-
desta casa di sobborgo». E l’aspetto distinto dell’adolescente Pessoa
cede il passo alle «ginocchia sporche» di Nobodi.13 Ma l’ordine con
cui Tabucchi descrive i personaggi fotografati è il medesimo. Prima
i padri (o patrigno nel caso di Pessoa), poi le madri. Entrambe le
donne sono accomunate da un’incipiente vecchiaia: la madre di No-
bodi è «ancora giovane, ma la sua gioventù sembra trascorsa»,
mentre quella di Fernando è «invecchiata da una precoce canizie».
Per finire, i due fratellini: seduti su uno scalino, i ragazzi sono «di-
scosti» l’uno dall’altra tanto nella foto reale quanto nella foto im-
maginaria.
Tuttavia, nel viaggio intercontinentale (dal Sudafrica all’Argen-
tina), il numero dei fotografati si assottiglia. Nella foto del Filo
dell’orizzonte non c’è traccia degli altri fratelli di Pessoa immortalati
nel cottage, ma Pessoa e Nobodi hanno ambedue «gli occhi persi
oltre l’obiettivo». Poco importa che lo sguardo di Pessoa tradisca
una struggente saudade per il tempo irripetibile dell’infanzia lisbonese,
mentre la meta dello sguardo di Nobodi sia una villa con le persiane
chiuse.14 Riluttanti alle cornici di ogni tipo, Pessoa e Nobodi puntano
il filo dell’orizzonte.
Dopo l’episodio dell’ingrandimento, la biografia sub specie fo-
tografica di Pessoa continua a fornire il modello per la giovinezza
nebulosa di Nobodi. Sperando di ottenere nuove informazioni
sull’identità del morto, Spino si reca dalla signorina Elvira. Un
tempo, la donna gestiva una modesta scuola privata frequentata
probabilmente dal piccolo Nobodi. La maestra mostra a Spino un
vecchio album di fotografie, tra le quali ce n’è una con un gruppo
di bambini. Il biondino in prima fila potrebbe essere il ragazzo
che Spino sta cercando, ma la foto non consente di stabilirlo con
certezza. Perché i bambini «sono stati collocati troppo lontano
dall’obiettivo», e non è possibile identificarli uno per uno. L’enigma
13
Nella foto del Filo dell’orizzonte, non viene fatto alcun cenno alle «spalle cadenti»
del giovane Pessoa. Una spalla destra «leggermente cadente» si ritrova di nuovo in una delle
foto di Guido descritte dalla sorella Amelia nel racconto Stanze. Le foto di Tabucchi allora
seguono spesso percorsi pessoani. D’altronde, pur non volendo esasperare le analogie tra
Pessoa e personaggi tabucchiani, si tenga presente che il Guido di Stanze è uno scrittore.
Cfr. A. Tabucchi, Stanze, op. cit., p. 67.
14
Cfr. A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, op. cit., p. 29.
96
del volto sfugge alle dogane dell’istantanea (come i primi piani
sul punto di scomparire dei racconti “cinematografici” di Tabuc-
chi).15 Anche a Durban, la foto di fine anno dell’High School,
frequentata da Pessoa, è presa da «troppo lontano». E l’identifi-
cazione degli allievi è ardua. Di nuovo, l’istantanea di Pessoa
subisce un declassamento sulla pagina di Tabucchi: il grande cortile
dell’High School di Durban è sminuito a «cortiletto» della scuola
della signorina Elvira.
Le foto di Pessoa, familiari e scolastiche, sono contenute in
Fernando Pessoa. Uma fotobiografia, raccolta fotografica curata da
Maria José de Lancastre.16 In nota al saggio introduttivo, la de Lan-
castre rimanda a un articolo di Antonio Tabucchi, Sopra una fotografia
di Fernando Pessoa. La foto presa in esame da Tabucchi è un ritratto
di Pessoa, solitamente restio a lasciarsi fotografare. Sul retro del-
l’istantanea, Pessoa definisce il suo ritratto una «provvisoria rap-
presentazione visibile di se stesso». Al Tabucchi saggista nasce così
l’idea di avvicinare Eteronimia e Fotografia. Entrambe, del resto,
riguardano «essenzialmente i fantasmi».17
L’articolo “fotografico” di Tabucchi risale al 1981. Sono gli
anni di gestazione del romanzo Perdute salme, prima versione del
Filo dell’orizzonte. Il dramma dell’identità, del ritratto provvisorio,
del contrasto tra «evidenza ingannatrice» e «verità nascosta», si
trasferisce dal poeta dell’eteronimia ai personaggi del libro che Ta-
bucchi sta scrivendo. Nobodi non è solo un eteronimo di Spino,
ma è Pessoa adolescente. E le sue foto, prese in prestito dall’album
del giovane Fernando, tracciano una storia color seppia, “altra” ri-
15
Sulla natura inafferrabile del ritratto Tabucchi si sofferma anche nel racconto Vivere
o ritrarre, scritto per alcuni disegni di Tullio Pericoli. La storia ruota attorno a un Maestro,
un regista dai tratti felliniani, che per il suo nuovo film sottopone a dei provini personalità
celebri. Tra queste, Fernando Pessoa. Arrivato nello studio per l’audizione, il Poeta dell’e-
teronimia disegna sulla tela un’«enorme impronta digitale composta di parole illeggibili».
L’impronta è il suo «ritratto», che Pessoa decide di regalare al Maestro. Che si tratti di un
romanzo o di un racconto, in Tabucchi il volto rifugge la (auto)rappresentazione. E scompare
nella nebbia di sempre. Cfr. A. Tabucchi, Vivere o ritrarre, in T. Pericoli, Woody, Freud e
gli altri, Milano, Garzanti, 1988, p. 148; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T.
Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
16
M. J. de Lancastre, Fernando Pessoa. Uma fotobiografia, Lisboa, Imprensa Nacional
Casa da Moeda – Centro de estudos pessoanos, 1981. La foto della famiglia nel cottage si
trova a p. 87, mentre quella degli alunni dell’High School si trova a p. 72. Della «fotobio-
grafia», la de Lancastre cura un’edizione ridotta per i tipi di Adelphi nel 1988, in cui ri-
compaiono le due foto esaminate. Cfr. M. J. de Lancastre, Fernando Pessoa. Immagini della
sua vita, Milano, Adelphi, 1988, p. 36; p. 41.
17
A. Tabucchi, Sopra una fotografia di Fernando Pessoa, «L’illustrazione italiana», N°
1, Ottobre-Novembre 1981, p. 77.
97
spetto alla diegesi principale. O meglio: disegnano una fotobiografia
parallela.18
Al potere risucchiante delle immagini non si sottrae nemmeno
il paesaggio del Filo dell’orizzonte.19 Le giornate terse genovesi si
fanno fotografia. Anche stavolta, la foto non è nitida; per un difetto
di illuminazione:
Allora [nelle giornate terse] le case e i campanili acquistano un nitore
troppo reale, dai contorni troppo netti, come una fotografia contrastata, la luce
e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere
nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette.20
«Come una fotografia contrastata»: la similitudine è allusiva,
perché in una «fotografia contrastata» si svolge l’indagine di Spino.
Tra il desiderio di far luce sull’identità misteriosa di Nobodi e il bi-
sogno di scendere a patti con l’ombra incalzante. Dei due poli, nel
finale, Spino sembra scegliere il negativo. E avanza «nel buio». Ma
la conclusione del Filo dell’orizzonte è tra le più enigmatiche delle
opere di Tabucchi. D’altronde, la foto di copertina della prima edi-
zione (ottobre 1986) mette in guardia il lettore sul tipo di storia,
che si racconta tra le pagine. Un fotogramma del film Parfait amour
di Jean Van de Velde campeggia sulla soglia del libro. Quel film Ta-
bucchi non l’ha mai visto, ma quell’immagine, scoperta su una rivista,
l’ha terribilmente sedotto.21 Raffigura la mano di un uomo, che tiene
un cappello davanti al volto di un bambino. E il copricapo nasconde
una parte del viso del piccolo. Se Landolfi ci consegna un autoritratto
con la mano davanti al volto, Tabucchi gioca a nascondino con un
18
All’orbita di Pessoa si può ascrivere persino il viaggio in transatlantico che vagheggia
Sara, la compagna di Spino. La nave sulla quale fantastica Sara non è solo l’imbarcazione
del film Transatlantic, ma rinvia anche alla biografia del giovane Pessoa che, nel 1902,
rientra a Durban con il vapore Herzog dopo aver trascorso un periodo di tempo a Lisbona.
Non a caso, negli Ultimi tre giorni di Fernando Pessoa, l’eteronimo Álvaro de Campos
racconta a Fernando Pessoa, suo creatore, del viaggio in transatlantico nei mari d’Oriente.
Ecco le parole di Campos: «Sai, Fernando, […] ho nostalgia di quando ero un poeta
decadente, dell’epoca in cui feci quel viaggio in transatlantico nei mari d’Oriente, ah, […]
la sera, sul ponte, quando c’erano i balli a bordo, la luna era talmente scenografica, era tal-
mente mia». Cfr. A. Tabucchi, Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa. Un delirio, Palermo,
Sellerio, 1994, p. 20, corsivo mio.
19
Dopo le fotografie (e le pellicole cinematografiche), la cartolina s’intromette nell’indagine
di Spino. Ed è al centro di un interessante lapsus su cui la critica si è già soffermata. Cfr.
R. Ceserani, Il filo dell’orizzonte: è Luino o Duino il posto dove andare?, in Dedica a Antonio
Tabucchi, a c. di C. Cattaruzza, Pordenone, Associazione Provinciale per la Prosa, 2001,
pp. 150-151.
20
A. Tabucchi, Il filo dell’orizzonte [1986], Milano, Feltrinelli, 2004, p. 73, corsivo mio.
21
Conversazione privata con lo scrittore.
98
cappello. Del ritratto, insomma, si ha sempre timore. Forse perché,
come teme Pessoa, potrebbe sottrarci l’anima.22
A colloquio con il ritratto
La teoria dei personaggi tabucchiani non è uniforme come le
processioni dei santi nell’iconografia bizantina. C’è chi ha paura
dei ritratti, e chi intavola con le immagini disinvolte conversazioni.
Il record di colloqui con ritratti fotografici lo stabilisce il corpulento
Pereira, protagonista del celebre romanzo Sostiene Pereira. All’ingresso
della sua casa in Rua da Saudade, il giornalista della pagina culturale
del «Lisboa» chiacchiera spesso con il ritratto della moglie morta di
tisi. Le parla ad alta voce, come se la donna potesse davvero sentirlo
e rispondergli. La vecchia foto visita la solitudine dell’uomo vedovo
e senza figli. E lo accompagnerà nell’ultimo viaggio.
Pereira decide di lasciare Lisbona quando la polizia salazarista uccide
ferocemente Monteiro Rossi, il giovane che Pereira ha assunto al «Lisboa»
come giornalista e che invece lo ha coinvolto in azioni sovversive contro
Salazar. Dopo aver scritto (e mandato in stampa) un articolo in cui de-
nuncia l’accaduto, Pereira prende un passaporto francese falso che ha
nascosto dietro il ritratto; ed esce di casa. Nel bagaglio, il giornalista
custodisce la foto della moglie: «Ti porto con me, gli disse, è meglio
che tu venga con me. Lo mise a testa in su, perché respirasse bene».23
Portarsi in viaggio il ritratto dell’amata è abitudine diffusa tra
i personaggi tabucchiani. Anni prima di Pereira, lo fa Taddeo in
Tanti saluti, racconto scritto per quell’«apparatore di scene narrative»
che è – nelle parole di Nigro – Tullio Pericoli.24 Alla vigilia del
grande viaggio agognato per tutta la vita, Taddeo è solo; la sua
compagna, Isabel, non c’è più. Per sopperire alla dolorosa mancanza,
Taddeo prende una vivace istantanea, che ritrae lui e Isabel felici,
tra i piccioni, in Piazza San Marco. Prima colloca la foto in oriz-
zontale, ma l’idea che la coppia guardi il soffitto gli dà «noia».
Allora la capovolge, e le parla. Da Pereira avant la lettre:
«Isabel, ti porto con me, questo viaggio lo fai anche tu […]».25
22
Cfr. M. J. de Lancastre, As provisórias representações visiveis de uma vida, in Id.,
Fernando Pessoa. Uma fotobiografia, op. cit., p. 7.
23
A. Tabucchi, Sostiene Pereira. Una testimonianza [1994], Milano, Feltrinelli, 2007, p. 207.
24
S. S. Nigro, I racconti di Tullio Pericoli, in T. Pericoli, L’anima del volto, Milano,
Bompiani, 2005, p. 16.
25
A. Tabucchi, Tanti saluti, in T. Pericoli, Tanti saluti, Milano, Archinto, 1988, p. 7;
rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, op. cit.
99
 Alla fine, Taddeo decide di non partire. E regala a un bambino
incontrato alla stazione le cartoline di luoghi italiani, che pensava
di spedire da mete esotiche con la firma sua e di Isabel. Destina
persino la foto di Venezia a quel ragazzino che porta il suo stesso
nome. A un impossibile nipote, Taddeo affida i detriti del suo pas-
sato.
Migliore fortuna, allora, arride alla foto della moglie di Pereira.
Quel viaggio, il giornalista, sembra farlo davvero. E il ritratto potrà
respirare aria francese.
Tra “orrore” e “spettacolo”: il caso Damasceno Monteiro
Dopo il vecchio Pereira, un altro giornalista, sulle pagine di Ta-
bucchi, si destreggia con la fotografia. La vicenda si trasferisce a
Oporto; e il cronista si chiama Firmino. Il titolo del libro è La testa
perduta di Damasceno Monteiro.26 Di nuovo un giallo, ma ben più
ortodosso del Filo dell’orizzonte. Il giovane Firmino (che con Spino
condivide la rima del nome in «ino») lavora a Lisbona per l’«Acon-
tecimento», un periodico portoghese di cronaca nera. Ma la sua
grande passione è la letteratura. Gli viene affidata un’inchiesta su
un brutale assassinio consumato a Oporto. Un gitano, Manolo, ha
ritrovato, nelle vicinanze del suo campo rom, il cadavere di un
uomo con la testa mozzata. L’identità del morto, i mandanti, i mo-
venti dell’omicidio sono ancora oscuri. Soltanto a metà del libro,
la vittima è identificata: si chiama Damasceno Monteiro come il
Monteiro Rossi di Sostiene Pereira. Nel nome «Monteiro» è inscritto
il destino di agnello sacrificale. Dall’indagine di Firmino emerge
una storia crudele, di abusi polizieschi e di corruzione.
Arrivato a Oporto, Firmino intervista il gitano che ha scoperto
il cadavere decapitato, e scrive un pezzo per il suo giornale. Al
caso, l’«Acontecimento» dedica la copertina. Si staglia, sulla prima
pagina del giornale, un disegno che ritrae la sagoma di un corpo
decapitato e un coltello «gocciolante di sangue». Ben presto, il di-
segno è sostituito dalla foto, che Firmino scatta alla testa mozzata.
Per la copertina del suo libro, Tabucchi, invece, si affida alla
verità della finzione artistica. E inserisce un particolare del Guernica
di Picasso: La cabeza de la estatua-guerrero. In bianco e nero, il ca-
polavoro di Picasso è però considerato una «grande icona fotografica
26
A. Tabucchi, La testa perduta di Damasceno Monteiro [1997], Milano, Feltrinelli,
2006.
100
del Novecento».27 Quadri e fotografie si danno la mano nelle storie
di Tabucchi.
Si diceva del capo di Damasceno Monteiro, prima restituito da
uno schizzo, poi da una fotografia. Per volere di Firmino, le foto
vengono pubblicate sul giornale senza alcun testo di accompagna-
mento, ma il direttore dell’«Acontecimento» decide l’ordine in cui
disporre le istantanee. In prima pagina, il primo piano del morto;
nelle altre due, le foto scattate di profilo. Per l’ultima pagina, il
direttore sceglie un gran finale: una foto «classica» di Oporto con
il fiume Douro e il ponte di ferro. A colori, «naturalmente». La
veduta da cartolina della città dovrebbe mitigare lo shock delle
altre foto e rassicurare i lettori. E chissà, sembra suggerire il direttore,
che la vista del placido Douro e del ponte di ferro non rilanci il tu-
rismo a Oporto.
Di nuovo, sulle pagine di Tabucchi, la fotografia, che dovrebbe
farsi testimonianza inconfutabile dell’accaduto, viene manipolata.
Non più attraverso ingrandimenti, ma con semplici giustapposizioni.
E Tabucchi sferra un attacco violento alla civiltà dell’immagine,
e alla pubblicità che «non fa nessuna distinzione del prodotto da
vendere».28 Nell’era odierna, una foto raccapricciante e una veduta
di città condividono indisturbate la stessa pagina di giornale. Per
fortuna, Firmino non è ancora del tutto “organico” al sistema. E
l’orrore della foto scattata alla testa del cadavere continua a tor-
mentarlo. In un caffè, il giornalista compra l’«Acontecimento»
da uno strillone, ma gli dà solo una «sbirciatina», perché si sente
«a disagio». La scoperta della testa è, per Firmino, la scoperta
dell’orrore.
Nella società dello spettacolo, nemmeno il secondo dispositivo
tecnologico del romanzo, il registratore, riproduce fedelmente il
reale. Nell’aula del tribunale, Firmino assiste al processo del caso
Monteiro, e porta con sé un registratore. Vuole trattenere, parola
per parola, l’arringa di Loton, l’avvocato filosofo e idealista che
difende la famiglia di Damasceno Monteiro. Solo dopo aver ab-
bandonato l’aula, sul treno di ritorno a Lisbona, Firmino si accorge
del cattivo funzionamento dello strumento. Dell’arringa di Loton,
il registratore ha conservato soltanto degli scampoli. Sonori morceaux
choisis.
27
G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, Milano, Mondadori, 2005,
p. 46, corsivo nel testo.
28
A. Tabucchi, Minima fotografalia, in B. Pinto de Almeida, Immagine della fotografia,
trad. di C. Pero, postf. di S. Cresci, Roma, Jouvence, 2005, p. 12.
101
Storie di copertine (toscane)
Stanca di lavorare nella retroguardia, la fotografia talvolta si
rivolta. E invade la copertina dei libri di Tabucchi, o dei libri altrui
curati dallo scrittore.29 Tabucchi sa bene che la copertina non è
un’innocente «soglia», bensì una «tromba delle scale nella quale si
precipita ignari».30
Nel ’97, Tabucchi scrive una prefazione, in forma di lettera,
per Vecchiano, un paese. Un libretto singolare, che raccoglie le
lettere inviate a Tabucchi dal compaesano Di Scalzo.
Quando Di Scalzo dà inizio a questa corrispondenza, le lettere
sono accompagnate da foto della zona di Vecchiano descritte
nelle epistole. In vista della pubblicazione, Tabucchi trattiene
per sé le foto con un sibillino «per la ragione che sai», e restituisce
a Di Scalzo le lettere. L’operazione è squisitamente tabucchiana
(viene in mente la Storia di una storia che non c’è o la lettera inti-
tolata Libri mai scritti, viaggi mai fatti). E ripropone l’idea che
Tabucchi ha della foto. L’istantanea non deve provare che i
luoghi e le persone descritte nelle lettere esistono realmente; la
fotografia non è il referente cui ancorare la parola: l’istantanea
guarda al reale da una zona limitrofa, fuoricampo. Semmai, è la
parola a farsi fotografia. La corrispondenza «a senso unico» di
Di Scalzo diventa «la fotografia di un paese italiano degli ultimi
decenni».31
Al momento di scrivere la sua Prefazione in forma di lettera per
il compaesano, Tabucchi finge che il libro non sia ancora pubblicato.
E, con fare borgesiano, suggerisce una foto per la copertina del
libro inesistente. Perché «come insegnano i temibili narratologi, le
copertine appartengono a quel peritesto e a quell’extratesto che è
parte costituente di un libro». Per il libretto, Tabucchi dapprima
propone l’immagine «semplice» e «un po’ dimessa» della piazza di
Vecchiano, già protagonista del suo Piazza d’Italia. O forse, continua
29
L’immagine di copertina di Si sta facendo sempre più tardi non sarà qui considerata,
perché già ampiamente esaminata dallo stesso Tabucchi nel racconto/saggio Storia di un’immagine.
Cfr. A. Tabucchi, Storia di un’immagine, in Id., Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Milano,
Feltrinelli, 2003, pp. 113-122. Per uno studio “fotografico” della raccolta Si sta facendo più
tardi, cfr. C. Millner, «Si sta facendo sempre più tardi». Camera oscura e interstizio della comparsa,
in I ‘Notturni’ di Antonio Tabucchi, a c. di A. Dolfi, atti di seminario, Firenze, 12-13 maggio
2008, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 297-311.
30
A. Tabucchi, Storia di un’immagine, op. cit., p. 122.
31
A. Tabucchi, Prefazione in forma di lettera, in C. Di Scalzo, Vecchiano, un paese.
Lettere a Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 9; p. 13.
102
Tabucchi, per la copertina sarebbe più appropriata una fotografia
del Serchio, che lambisce il paese. D’altronde, il fiume vanta una
celebre patente letteraria: è «uno dei quattro fiumi della poesia (e
della vita) di Ungaretti». La foto trascolora nella letteratura. E poi
entrambe si (con)fondono nella vita.
Una foto del Serchio verso la foce inaugura l’edizione Feltrinelli
di Vecchiano, un paese. La via d’accesso al libro è stata trovata: e il
gioco foto-letterario può avere inizio.
In una casa della campagna toscana, forse non molto lontana
da Vecchiano e dal suo Serchio, un personaggio di Tabucchi discetta
di foto di copertina. In Tristano muore, Tristano, ormai prossimo
alla fine, regala allo scrittore chiamato al suo capezzale una foto
per il libro che il romanziere scriverà su di lui. Nell’immancabile
bianco e nero delle teche tabucchiane, l’immagine prescelta da Tri-
stano ritrae un uomo di spalle che, con cappello e bastone, si
allontana sulla spiaggia. Quel signore così distinto, spiega Tristano,
è suo padre in viaggio verso il paese in fondo alla spiaggia. L’uomo
sta andando a sposarsi con la futura madre di Tristano, ma la foto
ha tutto il sapore di un addio:
Ci gira le spalle come se ci dicesse addio, che poi è quello che ho fatto in
tutti questi giorni con lei, e che ora sto facendo per l’ultima volta...32
Se volto e fotografia, tra le righe, si fronteggiano sempre guar-
dinghi, l’addio non può che compiersi di spalle.
Eppure la scelta della foto per il finale di Tristano muore ripropone
il paradosso fotografico caro a Tabucchi. La foto è sì l’immagine
per antonomasia dell’arresto del tempo, ma, al contempo, la foto è
capace di sopravvivere al fotografato. Come l’istantanea è soprav-
vissuta al padre di Tristano, così ora sopravvivrà a Tristano. In un
certo senso, la foto “allunga” la vita.
Lo scrittore segue sollecito il suggerimento di Tristano, e la
foto del padre campeggia sulla copertina di Tristano muore. Il libro
si chiude così su se stesso. Al di qua, e al di là, della soglia.
Prima della foto-congedo, Tristano morente si sofferma su
un’altra foto, che tiene in casa e che appartiene al suo passato. È
un nudo artistico, in cui il corpo di una donna, l’americana Marilyn
amata da Tristano in gioventù, imita L’origine del mondo di Courbet.
La finzione è elevata al cubo. Perché l’arte – il quadro di Courbet –
32
A. Tabucchi, Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 162.
103
è già altro rispetto al reale. Tanto più che non si tratta del quadro 3
in sé, ma di soggetti che imitano la tela. La foto di Tristano è, in-
somma, un’immagine di immagini. Ma Tristano insiste sulla “verità”
della carne fotografata: «però quel corpo fu vero anche se imita un
La pinacoteca di Tabucchi
quadro». Un tempo conturbante, ora la foto è ingiallita. Una macchia
gialla la sta divorando, come la cancrena rosica la gamba di Tristano.
La foto non raffigura solo la corporeità: è corpo essa stessa.33
Il nudo en artiste, ricorda Tristano, è stato immortalato nell’estate Senza contare poi che tutti questi cosiddetti Antichi
del ’48. Per l’occasione, Tristano ha utilizzato una Leika sottratta Maestri hanno sempre dipinto solo un dettaglio
a un ufficiale nazista. Benché al Tristano morente sfuggano molti dei loro quadri in modo davvero geniale […].
particolari di quel pomeriggio estivo, la «povera fotografia» testimonia T. BERNHARD
che Marilyn ha posato come L’origine del mondo di Courbet. E
«questo è innegabile»: nel pronome dimostrativo sembrerebbe trion-
fare il potere probante dell’istantanea. Tuttavia, Tristano e Marilyn,
insieme, non hanno generato alcun mondo. Figli non ne hanno
avuti, e Ignacio, il ragazzino che Marilyn ha adottato, è morto an-
zitempo. La fotografia non si smentisce: è la solita, e irriducibile,
falsaria.

33
L’immagine che si fa “corpo” si trova già nel racconto La Battaglia di San Romano.
Qui il narratore ingrandisce i particolari fotografati di un altro quadro: La Battaglia di San
Romano di Paolo Uccello. Dilatata dall’ingrandimento, la crosta della cornice è diventata
«un’epidermide piena di rughe e cicatrici». Cfr. A. Tabucchi, La Battaglia di San Romano
in Id., I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio, 1987, p. 56.

104
 3.1
Giochi di specchi e tele rovesciate:
Tabucchi barocco?

Maria do Carmo è una figura ineffabile, quasi astratta. I suoi

occhi sono malinconici, persi in meste lontananze; il suo fare è
«trasognato». Ha i capelli scuri, e alla libreria Bertrand di Lisbona
indossa un vestito giallo, come i tram gialli «sferraglianti» sulle
colline della città. Con la sua morte ha inizio il racconto Il gioco
del rovescio:
Quando Maria do Carmo Meneses de Sequeira morì, io stavo guardando Las
Meninas di Velázquez al museo del Prado. Era un mezzogiorno di luglio [...].1

Nel Gioco del rovescio, la tela di Velázquez irrompe subito sulla

pagina; e ritorna nel finale del racconto. Punto di partenza, e cir-
colarmente punto d’arrivo della storia, Las Meninas mettono in
cornice la narrazione. E lavorano nelle venature del testo.
La vicenda comincia al Prado, quando il narratore è intento a
guardare il quadro. Solo dopo aver lasciato il museo ed essere rien-
trato in albergo, riceve la notizia del decesso di Maria do Carmo.
È il marito della donna, Nuno Meneses de Sequeira, a comunicar-
glielo con una telefonata. Il narratore, che probabilmente ha avuto
una relazione sentimentale con Maria do Carmo, decide di partire
subito in treno per Lisbona e di renderle un ultimo omaggio. Durante
il viaggio, rievoca le giornate trascorse insieme a Maria do Carmo,
e soprattutto i loro «itinerari fernandini» compiuti attraverso i
luoghi prediletti dagli eteronimi di Fernando Pessoa.
Arrivato nella Lisbona di Salazar, il narratore viene ricevuto
dal marito di Maria do Carmo. Nuno Meneses de Sequeira intende
togliergli l’«illusione» di «aver conosciuto Maria do Carmo»; e gli
rivela che Maria do Carmo non è la pasionaria che professava di
essere, né tanto meno l’attivista che gestiva i contatti con i dissidenti
fuoriusciti, utilizzando come copertura le traduzioni di Pessoa pub-
blicate all’estero. Forse Maria do Carmo – così almeno sembra sug-

1
A. Tabucchi, Il gioco del rovescio, Milano, Il Saggiatore, 1981, p. 9, corsivo nel testo. In
questo capitolo, si utilizzerà l’edizione del Saggiatore per le citazioni dal Gioco del rovescio.

107
gerire il marito – era una spia del regime infiltrata nelle file degli
oppositori. Per tutta la vita Maria do Carmo avrebbe messo in
pratica il «gioco del rovescio», un gioco, che tanto amava da
bambina, e che consisteva nel dire le parole al contrario. Lo prove-
rebbe anche il biglietto con la scritta SEVER, che Maria do Carmo
lascia al marito affinché lo consegni al narratore. Ritornato in
albergo, il narratore inverte l’iscrizione, e ottiene la parola «reves»,
che in francese significa «sogni» e in spagnolo «rovescio». Sdraiatosi
sul letto, il protagonista rivede in sogno Maria do Carmo, che è
diventata un personaggio del quadro di Velázquez. La chiusa onirica
interrompe il racconto; la vera identità di Maria do Carmo rimane
impenetrabile.
Quanto a Las Meninas, custodiscono anch’esse un enigma nel-
l’apparente semplicità dello scenario. Il quadro raffigura un gruppo
di personaggi della corte di Filippo IV, tra i quali lo stesso Velázquez.
Al centro, l’Infanta Margarita María è vezzeggiata da due damigelle
(doña María Augustina Sarmiento de Sotomayor e doña Isabel de
Velasco), le «meninas». Cortigiani e nani di palazzo occupano il
resto della stanza, mentre sulla parete di fondo un uomo – identificato
nel maresciallo di palazzo José Nieto Velázquez – sembra stia per
entrare nella scena. A sinistra si trova Velázquez che, pennello in
mano, è in piedi di fronte a una grande tela. Forse intende stendere
l’ultima pennellata, oppure deve ancora iniziare il lavoro. Ma lo
spettatore non sa cosa racchiuda il dipinto, perché del quadro, a
cui lavora il pittore, può vedere solo il dorso (il rovescio). Alle
spalle di Velázquez, uno specchio sulla parete riflette il volto dei
due sovrani, Filippo IV e Marianna d’Austria, assenti dalla scena.
Lo spirito del racconto Il gioco del rovescio, come scrive Tabucchi,
«modella tutti gli altri in un’analoga visione delle cose». Che è la
visione del «rovescio»: «una certa cosa che era “così” era invece
anche in un altro modo».2 Dunque il quadro di Velázquez, che del
racconto eponimo è il fulcro, estende la sua grammatica architettonica
all’intero libro. Tutte le storie del Gioco del rovescio accolgono una
metaforica tela rovesciata: dal rovescio della sessualità in Lettera
da Casablanca; al ribaltamento della vita, dentro e fuori dal palco,
in Teatro; allo scarto tra vita vissuta e professione esercitata in
Voci.
Tuttavia, issare Las Meninas a stendardo della prima raccolta
di racconti è per Tabucchi una scelta di poetica. È come se l’autore
2 4
A. Tabucchi, Prefazione alla seconda edizione, in Id., Il gioco del rovescio [1988],
Milano, Feltrinelli, 1998, p. 5.
108
volesse riflettere sulla propria scrittura dopo l’esperienza di Piazza
d’Italia e del Piccolo naviglio. Tabucchi decide insomma di aprire
al lettore la sua officina, come fa Velázquez raffigurandosi nel suo
atelier. Non solo: se Velázquez inserisce nella tela il suo autoritratto
per distinguersi, come artista, dal semplice artigiano, Tabucchi ri-
vendica per sé lo status di scrittore.
Il gioco del rovescio diventa per Tabucchi il gioco del mondo. In
nome della coincidentia oppositorum, il modello epistemologico del
«rovescio» prevede uno sguardo laterale, obliquo, in tralice sulle
cose. E al lettore rivolge un invito a trafiggere la superficie del
testo, per snidare i rovesci, e le trappole, della scrittura.
Questioni di punti di vista
De Las Meninas, che il narratore contempla all’inizio del racconto,
non è offerta un’ekphrasis esaustiva. Nulla viene detto sulla com-
posizione della tela; nessun accenno è fatto al numero dei personaggi.
Lo sguardo dell’io narrante si appunta solo su un dettaglio, la «figura
di fondo»:
Restai a guardare il quadro fino alle dodici e un quarto, poi uscii len-
tamente cercando di trasportare nella memoria l’espressione della figura di
fondo, [...].3
La «figura di fondo», lo ripeteva spesso Maria do Carmo, rac-
chiude «la chiave del quadro». Nonostante la collocazione perife-
rica, l’uomo sul fondo, come nota Foucault, gode infatti di una
posizione privilegiata: può vedere cosa racchiude la tela.4 Non è
insomma l’infanta Margarita, autentico centro fisico de Las Meninas,
a calamitare l’attenzione di Maria do Carmo e del narratore, ma
una figura sullo sfondo, come sarà la cernia del trittico di Bosch
in Requiem. Già a quest’altezza cronologica, dei quadri Tabucchi
spilucca i dettagli, insignificanti e insieme essenziali, per risalire
al tutto.
Dopo aver ricordato l’interpretazione del quadro suggerita da
Maria do Carmo, il narratore abbandona il museo. Il momento de-
scrittivo non blocca il tempo della storia, il flusso testuale; lo
3
A. Tabucchi, Il gioco del rovescio, op. cit., p. 9.
M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [1967], trad. it. di
E. Pannaitescu, Milano, Rizzoli, 1970, p. 24.
109
sospende appena. Il cortocircuito tra il vedere e il leggere è di breve
durata. Eppure è sufficiente a diffondere un alone di mistero sulla
vicenda. D’altronde, il quadro è già di per sé denso di arcani, che
però Tabucchi infittisce, investendo la tela di un’ombra sinistra,
mortifera. Il narratore sta guardando Las Meninas a mezzogiorno,
esattamente quando, come apprende rientrando in albergo, muore
Maria Do Carmo. In una rivisitazione del demone meridiano, Il
gioco del rovescio s’inaugura nella riflessione sulla finis vitae, mar-
tellante angoscia barocca.
Tuttavia il quadro, enigmatico e fatale, viene presto riscattato
dalla gessosità del museo: e diventa modello per la costruzione
del racconto. Ciò che, del quadro, più interessa a Tabucchi è il
lavoro prospettico, la relazione fra gli sguardi dei personaggi ef-
figiati, che sulla pagina si traduce nella questione della prospettiva
narrativa.5
Dopo aver impiegato la terza persona nei due romanzi precedenti,
Piazza d’Italia e Il piccolo naviglio, per la sua prima raccolta di racconti
Tabucchi sceglie la narrazione in prima persona.6 Benché il racconto
si dipani attraverso un unico io narrante, la focalizzazione risulta
assai mobile da un paragrafo all’altro. Ora è incentrata sul narratore
(paragrafi 1, 3 ,9, 10); ora su Maria do Carmo (paragrafi 2, 4, 6);
ora sul compagno di viaggio (paragrafi 5, 7); ora sul gruppo politico
che convince il narratore a mettersi in contatto con Maria do Carmo
(paragrafo 8); ora, infine, su Nuno Meneses de Sequeira (paragrafo
11). All’interno del medesimo paragrafo, poi, il punto di vista scivola
di continuo tra il narratore e gli altri personaggi. E Tabucchi tempera
lo stile del suo racconto sulla molteplicità ottica de Las Meninas.
Se il quadro è una riflessione sullo sguardo; il racconto è una
rappresentazione drammatica del “vedere”. Finestre e finestrini
puntellano la storia, impedendo uno sguardo diretto sulle cose (la
copertina dell’edizione Feltrinelli riporta la fotografia di Irving
Penn Optician’s Window). E assurgono a metafore per indicare
l’opera d’arte.7 Ci sono, per esempio, il finestrino del treno, da cui
il narratore, diretto a Lisbona, osserva di notte il paesaggio, o la
5
A. Tabucchi, in L’atelier de l’écrivain. Conversations avec Antonio Tabucchi, a c. di
C. Gumpert, trad. fr. di M. J. Wagner, Genouilleux, Éditions la Passe du Vent, 2001,
p. 107.
6
Solo negli «altri racconti», Il gatto dello Cheshire, Vagabondaggio, Una giornata a
Olimpia, aggiunti nell’edizione del Gioco del rovescio del 1988, la narrazione si svolge in
terza persona.
7 10
La finestra accompagna Tabucchi sin dall’esordio di Piazza d’Italia. In uno dei tanti
episodi surreali, le finestre fuggono dalle case di Borgo, lasciando nello sconcerto gli abitanti.
110
«finestra» della «infanzia» alla quale si affaccia l’io lirico della
poesia Lisbon revisited evocata da Maria do Carmo.
Il quadro di Velázquez non accoglie finestre, ma uno specchio,
che riflette l’immagine dei due sovrani, altrimenti assenti dalla
scena, e che della finestra può essere una variante. Lo specchio è
oggetto del rovescio per antonomasia, perché inverte la destra con
la sinistra. A un tempo esso trasforma e deforma l’immagine; la
rivela e la riflette. Artefice di effetti illusionistici, lo specchio in-
torbida i confini tra arte e realtà. In effetti, tutto il dipinto eleva
al quadrato il gioco di specchi, e «nella sua totalità guarda una
scena per la quale esso a sua volta è una scena».8 Anche il racconto
del “rovescio”, scandito da finestre, è tramato da giochi di riflessione;
sin dalla breve ekphrasis de Las Meninas, che il narratore fornisce
all’inizio. Per suo statuto, l’ekphrasis commercia infatti con la spe-
cularità, perché è sempre una rappresentazione di una rappresenta-
zione. Caratteri riflessivi s’insinuano persino nel gioco praticato da
Maria do Carmo da bambina, il cosiddetto «gioco del rovescio».
Nel divertimento infantile dei vocaboli pronunziati al contrario, la
parola sembra proiettata in uno specchio convesso che ne capovolge
l’immagine. Divenuta adulta, Maria do Carmo pratica il gioco del
rovescio sulla sua vita. E inizia l’amante al carnevale dei ruoli:
[…] viviamo questa vita come se fosse un revés, per esempio stanotte, tu
devi pensare che sei me e che stai stringendo te fra le tue braccia, io penso di
essere te che sto stringendo me fra le mie braccia.9
Stavolta è la giostra di pronomi a creare effetti speculari. All’effetto
“specchio” possono essere ascritti anche segmenti di testo, che si ri-
petono come echi a distanza da una pagina all’altra. In tre momenti
diversi della narrazione, ricompare, lievemente variata, la sensazione
straniante di vedere se stessi come se si fosse “altri” («come se
dall’alto stessi a guardare un altro me stesso», commenta in treno il
narratore). E nel finale ritorna per ben tre volte un rumore di fondo,
il suono di una sirena, che probabilmente è emesso da una nave al-
l’ingresso del porto di Lisbona (il richiamo è all’Ode marittima di
Álvaro de Campos). Nel Gioco del rovescio riflessi visivi s’intrecciano
a rifrazioni sonore: Narciso si accompagna a Eco.10
8
M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 27.
9
A. Tabucchi, Il gioco del rovescio, op. cit., p. 15.
Per l’intreccio di suono e immagine a partire da una citazione iconica, cfr. L. Louvel,
Texte/Image. Images à lire, textes à voir, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2002, p. 245.
111
Dentro il quadro…
Prospettiva e specchio non esauriscono il colloquio di Tabucchi
con Velázquez. Lo scrittore dipinge il racconto con i colori de Las
Meninas; e deriva il chiaroscuro dal quadro, in cui la scena riceve
la luce dal vano della porta sull’estrema destra.
Quando il narratore e Maria do Carmo, durante le loro passeggiate
lisbonesi, sostano alla taverna del signor Tavares, il proprietario crea
un’atmosfera barocca dosando i contrasti di luce e ombra. All’arrivo
del fadista, l’oste spenge «le luci» e accende «le candele». Nell’am-
biente della taverna, che rinvia al genere pittorico del bodegón, il
volto di Maria do Carmo è colto attraverso i rivoli di luce, che sgor-
gano dalle candele (e il segmento «la luce delle candele» ritorna si-
gnificativamente due volte nel medesimo giro sintattico). Le lamelle
luminose la rendono pallida, e sembrano danzarle dentro i grandi
occhi. In un progressivo assottigliarsi luministico, la candela cede il
passo alla sigaretta, che Maria do Carmo accende in modo svagato.
Le dissonanze chiaroscurali alla Velázquez non sono per Tabucchi
un vezzo di ornato, perché proseguono nella natura dei personaggi
ritmata da luci e ombre. Sin dalla figura di Maria do Carmo, esperta
di dissimulazione. Il narratore la conosce – e la ama – come sovversiva,
mentre probabilmente lei è una sostenitrice della dittatura. Persino
le origini della donna sono avvolte da una nebbia fitta: all’amante
Maria do Carmo racconta di un’infanzia difficile vissuta a Buenos
Aires come figlia di esiliati, mentre il marito sa di una giovinezza
felice e agiata trascorsa a Lisbona. Forse Maria do Carmo, nella sua
vita, ha seguito il precetto di Castiglione; e, da impeccabile cortegiana,
ha saputo dosare tutte le virtù in modo da far rifulgere l’una a scapito
dell’altra al pari dei «boni pittori» che «con l’ombra fanno apparere
e mostrano i lumi de’ rilievi, e così col lume profundano l’ombre dei
piani e compagnano i colori diversi insieme».11 Dal Cinquecento al
Novecento il chiaroscuro è elevato a modus vivendi.
Nel Gioco del rovescio, la luce ambrata, volatile, di Lisbona non
è declinata solo nelle discrepanze chiaroscurali, ma si riversa sulla
pagina attraverso differenti gradazioni cromatiche. In prossimità della
foce del Tago, è «bianca», mentre sulle colline si fa «rosata».12
11
B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, II, VII, introd. di A. Quondam, note di N.
Longo, Milano, Garzanti, 1999, p. 128.
12
Benché il procedimento sembri richiamare la tecnica del word painting, Tabucchi
nega di averla impiegata nei suoi libri. Semmai egli rintraccia tale procedimento nel Libro
dell’inquietudine di Pessoa. Per la questione, cfr. A. Tabucchi, in «La Rivista dei Libri»,
112
Che si soffermi su un contrasto luce/ombra o su un colore del
paesaggio, la penna intinge ancor più in profondità il suo pennello
nel colloquio tra il narratore e il marito di Maria do Carmo. Nuno
Meneses de Sequeira vive in un «palazzotto assurdo», e riceve il
narratore in un salone «barocco», greve di stucchi e di arazzi. Sul
pavimento campeggia un tappeto di Arraiolos: è azzurro scuro con
disegni di pavoni grigi. Calvo e vestito di nero, Nuno Meneses de
Sequeira, severo sulla sua poltrona di velluto rosso, sembra in posa
per uno dei ritratti realizzati da Velázquez per la casata di Spagna.
L’atmosfera è sinistra, tombale; le imposte del salone barocco sono
chiuse. L’effetto è quello di un’antitesi con il Largo Camões «inon-
dato dal sole», che il narratore ha attraversato poco prima per rag-
giungere l’abitazione di Maria do Carmo. Poi Nuno dischiude «leg-
germente le imposte»: e il salotto si screma di luce.
Prima che il narratore se ne vada, Nuno gli consegna su un vas-
soio d’argento il biglietto con la scritta SEVER, per adempiere alle
ultime volontà della moglie. Adesso Tabucchi si dimostra fedele
agli oggetti del quadro, perché un grande piatto d’argento campeggia
pure ne Las Meninas: vi è adagiato il bucchero rosso che una delle
meninas offre all’Infanta.
Con l’episodio del salone di Nuno il quadro entra nella narra-
zione; l’ekphrasis cede il passo all’Erlebnis. E i personaggi si muovono
tra le pennellate. Nel palazzotto «assurdo» di Nuno, la natura
statica de Las Meninas si carica insomma della dimensione temporale.
La distinzione teorizzata da Lessing fra arti del tempo e arti dello
spazio perde di significato.
Solo nel finale il narratore sembra decifrare l’enigma del quadro.
E in sogno gli appare «Maria do Carmo col suo vestito giallo» come
«figura di fondo» del dipinto, e suo «punto di fuga». Ma quando
il narratore crede di afferrare la figura nel tappeto, ecco ripresentarsi
il dorso impenetrabile della tela:
[…] ho capito perché hai codesta espressione, perché tu vedi il rovescio
del quadro, che cosa si vede da codesta parte?, dimmelo, aspetta che vengo
anch’io, ora vengo a vedere. E mi incamminai verso quel punto. E in quel
momento mi trovai in un altro sogno.13
Il lettore non saprà mai «che cosa si vede da codesta parte»;
N° 12, dicembre 1994, p. 44; e B. Ferraro, Antonio Tabucchi e il fascino della pittura, in I
segni incrociati. Letteratura italiana del 900 e arte figurativa, a c. di M. Ciccuto e A. Zingone,
Viareggio, Baroni, 1998, pp. 829-848.
13
A. Tabucchi, Il gioco del rovescio, op. cit., p. 24, corsivo mio.
113
può darsi che lo scopra il narratore, sgusciando via nel sogno per
sfuggire alla vita. Tra parola e immagine, dicibile e visibile, la con-
ciliazione è durata poco; il mistero della tela persiste sulla pagina.
Il Seicento tra le righe
Sul Lusitania-Express diretto a Lisbona, il narratore, studioso
di letteratura iberica, disquisisce di autori barocchi con un compagno
di viaggio. Nel vagone risuonano i nomi di Violante do Céu e di
Góngora. In un succinto, e geograficamente connotato, catalogo
barocco.
Il «gioco del rovescio», del resto, ben figurerebbe in un repertorio
ludico seicentesco, tanto più che, come scrive Tabucchi nel ’73,
«il manierismo e il barocco significano, più di ogni altro stile, l’arte
intesa come gioco».14 Quello di Tabucchi, però, è un gioco meta-
narrativo che, intuisce Cardoso Pires, rimanda al gioco del racconto,
al piacere di raccontare una storia: «contar é um jogo e, francamente,
se eu gosto de jogos!».15
Amante dei giochi, Maria do Carmo non può tuttavia sottrarsi
al giogo della morte. E alle sue lusinghe corporee è fatta violenza,
perché il medico, alla clinica Cuf, apre il suo corpo. In modo simile,
Clemente Susini, modellatore in cera, ha aperto la sua Venere ana-
tomica, la Venere dei medici, mostrandone le orripilanti interiora a
fini didattici.16 Eppure, il corpo di Maria do Carmo è subito richiuso:
[…] il medico ha dato ordine di chiuderla, non era possibile lasciarla
aperta, date le condizioni.17
La Verità che sarebbe potuta emergere dallo squarcio è così di
nuovo occultata, sepolta. Il narratore non riuscirà a vedere la salma;
14
A. Tabucchi, Il castigliano come registro stilistico nell’opera poetica di António da Fonseca
Soares (a proposito di uno studio di Vítor de Aguiar), «Annali della Scuola Normale Superiore»,
Vol. III, 1, 1973, p. 210, corsivo mio.
15
J. Cardoso Pires, Prefácio, in A. Tabucchi, O jogo do reverso, Lisboa, Vega, 1984,
pp. 9-11. Nel Gioco del rovescio, attraverso i nomi dei personaggi, è presente un omaggio al
Delfino di Pires, costruito anch’esso tra sonno e insonnia. Il servo di Nuno Meneses de
Sequeira si chiama «Domingos», come il servo di Palma Bravo del Delfino, e Maria do
Carmo rinvia al nome della moglie di Palma Bravo, «Maria das Mercês».
16
Cfr. G. Didi – Huberman, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Torino, Einaudi,
2001, p. 87; p. 91.
17
A. Tabucchi, Il gioco del rovescio, op. cit., p. 20, corsivo mio.
114
forse anch’essa è scomparsa nella tela rovesciata: la pulsione scopica
è frustrata.
Al di là dei singoli tratti barocchi della vicenda del Gioco del
rovescio, è la vita tutta ad essere barocca. Lo ripete spesso Tabucchi,
citando le parole di Gadda: «Gadda non è barocco: è la vita che è
barocca». Tra le posizioni di D’Ors e Anceschi, Tabucchi sceglie
una terza via, gaddiana.18
Educatosi a un’idea barocca della vita, Tabucchi non perlustra
il «secolo calunniato» solo per scovare gli effetti di ombreggio, o
la filigrana figurativa; ma costruisce in modo artificioso, barocco,
la sua storia. Se il Barocco «non fa che porre in moto la massa del
Rinascimento»,19 Tabucchi imprime il movimento alla narrazione
ordinata prescritta dalla tradizione. Scandito in dodici paragrafi, Il
gioco del rovescio poggia su un “dinamismo” temporale: una sezione
è declinata al presente della narrazione (anche se il tempo è il
passato remoto o l’imperfetto), mentre la successiva al passato del
ricordo. In un ritmo binario, che rinvia alla dualità della figura di
Maria do Carmo, dissidente e/o conservatrice. Con l’ottavo paragrafo
il procedere alternato s’infrange, perché anche il successivo è svolto
al passato, mentre gli ultimi tre recuperano il presente. Il ritmo
della lettura s’incurva per seguire la linea ingarbugliata del tempo:
e deve adeguarsi alla disposizione mutevole dello sguardo (che si
concentra sull’io narrante o sugli altri personaggi), e dello spazio
(da Madrid a Lisbona a Roma, e di nuovo in Portogallo). Ne viene
fuori un movimento oscillante tra l’oggi e lo ieri, che traccia orbite
ellittiche. Eppure, la costruzione del racconto è circolare. Di più:
il numero dei paragrafi del racconto – dodici – rimanda all’ora me-
ridiana, in cui all’inizio il narratore contempla Las Meninas al Prado.
La storia sembra avvolgersi a spirale su stessa. Sulla pagina tabuc-
chiana, il cerchio, l’ellisse e la spirale allora non si escludono a vi-
cenda, ma coesistono. In una compresenza di stasi e movimento.
A livello di microprospettiva, Tabucchi invece rifugge dalla car-
nosità di un certo barocco, e adotta l’altra tendenza, più classi-
18
In una mite mattina d’aprile, sempre «sull’ora del mezzogiorno», un altro visitatore aveva
sostato al Prado davanti alle tele di Velázquez, «pittore da ora meridiana». Erano i lontani anni
Quaranta: l’uomo era Eugenio D’Ors, che faceva da guida all’amico che lo accompagnava. Ma
la lettura riduttiva, tutta in chiave realistica e oggettiva, che D’Ors fa di Velázquez non potrebbe
essere condivisa da Tabucchi, amante dell’ambiguità. Cfr. E. D’Ors, L’arte di Goya seguito da
Tre ore al museo del Prado e da Una nuova visita al museo del Prado, Milano, Bompiani, 1948, p.
120; p. 123. Per le parole di Gadda richiamate da Tabucchi, cfr. Dedica a Antonio Tabucchi, a c.
di C. Cattaruzza, Pordenone, Associazione Provinciale per la Prosa, 2001, p. 68.
19
R. Longhi, I pittori futuristi, in Id., Da Cimabue a Morandi [1973], pref. e c. di G.
Contini, Milano, Mondadori, 2004, p. 1052.
115
cheggiante, del Seicento. La sua prosa è estranea a brusche torsioni
sintattiche; il periodare è lineare; la paratassi prevale sull’ipotassi.
Ai discorsi diretti (talvolta ex abrupto come nell’ottavo paragrafo,
quando non si capisce subito chi stia parlando) si susseguono quelli
indiretti liberi: e la commistione realizza il gioco del rovescio sul
versante linguistico.20 Tra le figure del discorso primeggia l’asindeto,
anche se la virgola insistita verrà sostituita con il punto nell’edizione
Feltrinelli del 1988, e il ritmo si farà più sincopato.
Quanto alle strategie retoriche, l’iterazione spicca talmente tra
le righe che la pagina formicola di «forse». L’avverbio registra di-
ciassette occorrenze nel Gioco del rovescio, come se mimasse i confini
incerti di realtà e sogno in cui è inscritta la storia. Ma una così
alta frequenza del «forse» sembra riproporre l’estetica dell’indefinito
de Las Meninas. In piedi davanti alla tela, il pittore deve cominciare
a dipingere? O deve stendere l’ultima pennellata? Velázquez e Ta-
bucchi scelgono entrambi il modo ipotetico, e s’interessano alla vita
non come è, ma come potrebbe essere.
La biblioteca del rovescio
I vizi sono innumerevoli, difformi, e in continua crescita. Arduo
è catalogarli; impossibile espungerli. C’è persino il «vizio» di «spiare
le cose dall’altra parte». Della “perversione” ottica, nel tempo, si
sono macchiati scrittori, filosofi, pittori. Non ultimo, lo stesso Ta-
bucchi, come confessa nel prologo di Donna di Porto Pim a proposito
del racconto Una balena vede gli uomini. Oltre che dell’attitudine
personale, il brano, spiega l’autore, è però debitore di una poesia
di Carlos Drummond de Andrade, in cui «gli occhi penosi di un
lento animale» guardano gli uomini.21
Con il suo Las Meninas, Velázquez è uno dei primi trasgressori
dello sguardo tradizionale. Che Foucault abbia dedicato pagine me-
morabili al pittore “vizioso” dell’occhio è ben noto,22 ma non è
20
L. Greco, I giochi del rovescio di Antonio Tabucchi, «Forum Italicum», v. 33, N° 1,
Spring 1999, p. 231.
21
A. Tabucchi, Prologo, in Id., Donna di Porto Pim e altre storie [1983], Palermo,
Sellerio, 1993, pp. 11-12.
22
Sul rapporto Tabucchi/Foucault, già ampiamente studiato, cfr. F. Amigoni, Un buon viatico,
in Id., Fantasmi del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 134-139. Secondo Anna
Dolfi, non è solo il Foucault delle Parole e le cose ad aver influenzato il racconto di Tabucchi, ma
anche quello del Ceci n’est pas une pipe. Lo ha suggerito durante una conferenza tenuta a Villa la
Pietra il 01/04/2008, ora in I personaggi, la saudade, la morte, in I ‘Notturni’ di Antonio Tabucchi, a
c. di A. Dolfi, atti di seminario, Firenze, 12-13 maggio 2008, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 257-270.
116
stato l’unico; né tanto meno il primo. Tra il 1911 e il 1954, Ortega
y Gasset scrive sull’arte «velazquino del revés»;23 e probabilmente
Tabucchi ha spigolato quelle pagine.
Per i quadri di Velázquez, Ortega y Gasset rifiuta la consueta
etichetta di «realismo». Benché Las Meninas abbiano un sapore fo-
tografico avant la lettre, bloccate come sono su un eterno istante (il
gesto del pittore che si ritrae dalla tela), non sono un lacerto di
puro naturalismo. La superficie dello specchio appeso alla parete
non è del tutto riflettente, ma è anche opaca: diffonde fantasmi. I
personaggi effigiati trascolorano in «puros espectros visuales»; il
reale si rivela un «auténtico fantasma».24 Allo stesso modo, nel
Gioco del rovescio, la furia profusa dal narratore nel registrare date,
orari, luoghi e ricette gastronomiche, solo in apparenza ingabbia il
racconto in un’intelaiatura cronachistica. Perché lo statuto della
storia di Maria do Carmo stinge in un percorso onirico, in una
catena di sogni, che rilanciano sempre più in là il momento della
(s)veglia. Quando, per esempio, il narratore riceve la telefonata del
marito di Maria do Carmo, che lo informa della morte della donna,
si trova in uno «strano dormiveglia». Se la consistenza della vicenda
sembra liquefarsi, i personaggi si offrono come figure evanescenti,
impalpabili. Morendo all’inizio del racconto, e ritornando nei
ricordi/sogni del narratore, Maria do Carmo adotta movenze che
Ortega y Gasset definirebbe da «puro espectro visual». La sua fi-
sionomia è affidata a sparute indicazioni: un’età imprecisata (circa
quarant’anni), una capigliatura scura, un abito giallo. E la sua vita
non è scandita da un metronomo regolare, ma da un viluppo di di-
versi fusi orari. Entrambi, quadro e racconto, si fondano allora su
una nozione porosa di realtà e di finzione. In cui spesso la finzione
è più vera della realtà.
Non solo filosofi o critici, ma anche molti scrittori, nel corso dei
secoli, rimangono irretiti davanti al mistero di Velázquez. In Spagna,
i poeti modernisti saccheggiano spesso Las Meninas. Tra loro, Azorín
traccia un fulmineo e icastico ritratto della figura di fondo, Don José
Nieto. Nella raccolta del 1909, Hombres y Paisajes, Azorín immagina
che il pubblico, sentendo pronunziare il nome «Don José Nieto»,
inizialmente mostri grande perplessità. Nessuno crede di conoscerlo,
finché Azorín non rivela che si tratta del personaggio raffigurato ne
Las Meninas. Don José, nella visione che offre Azorín, vanta un
passato avventuroso, tra viaggi per le Fiandre e per l’Italia. Adesso,
23
J. Ortega y Gasset, Velázquez [1963], Madrid, Espasa Calpe, 1970, p. 33.
24
Ivi, p. 29.
117
però, vive in un presente più ordinario, consumato in una grande
casa di Madrid, con un giardino e una biblioteca polverosa. Il carattere
di Don José è iracondo, ma Velázquez lo dipinge come un uomo
«suave», placido, incapace degli atti collerici che, a detta di Azorín,
compie di continuo.25 Persino Azorín insiste sulla finzione, sulla
natura di artificio della rappresentazione pittorica.
Filologo di professione e specialista di letteratura iberica, il nar-
ratore del Gioco del rovescio forse non ignora il testo di Azorín.
D’altronde, il «destino», racconta faceto l’io narrante al portiere
dell’alberghetto di Lisbona, gli prescrive un’erranza per biblioteche.
E ora, nel suo peregrinare tra luoghi e tempi differenti, arriverà a
costruirne una. La biblioteca del rovescio. Tutto il racconto risulta
così modellato sul linguaggio della letteratura. E delinea quello che
è il rapporto di Tabucchi con l’immagine: mai un commercio diretto,
ma un avvicinamento obliquo, perché mediato dagli scrittori che
su quel quadro si sono già interrogati.
Tra i poeti, Pessoa è un deciso sostenitore del meccanismo –
velazqueno – del capovolgimento. La sua poesia, spiega Maria do
Carmo al suo amante, è un «juego del revés». Pessoa, insieme a
Velázquez, è il nume tutelare del racconto.
Ma il rovescio è implacabile. E ai suoi adepti può tuttavia
capitare di cadere nel rovescio di altri scrittori. Accade allo spagnolo
Enrique Vila-Matas, precipitato in quello di Tabucchi. Nei suoi
Recuerdos inventados, Vila-Matas s’inventa dei ricordi come se fosse
stato personaggio delle opere di Tabucchi (è la Giosefine del Gioco
del rovescio o il gabbiano del Filo dell’orizzonte). E l’identità di Vila
Matas diviene quella di «sombra», di ombra, di Tabucchi. Per spie-
gare l’eccentrica metamorfosi occorre sempre appellarsi allo sguardo,
a «una manera de ver»:
Yo fui la sombra de Tabucchi. En otro tiempo me atrajo la idea de con-
vertirme en una mirada fuera de mí: estar fuera de mí y mirar. Como hacía
Pessoa. Convertirme, pues, en un fantasma, en una manera de ver, en una
mirada ajena. Como Tabucchi, que fue la sombra de Pessoa.26
Pittorici o letterari che siano, i giochi del rovescio richiamano le
biblioteche borgesiane: «interminabili […] illimitate e periodiche».
25
Azorín, Don José Nieto, in España (hombres y paisajes), in Id., Obras Completas, a c.
di A. Cruz Rueda, Madrid, Aguilar, vol. II, 1947, pp. 463-465.
26
E. Vila-Matas, Recuerdos inventados. Primera antología personal, Barcelona, Anagrama,
1994, p. 10, corsivo mio.
118
3.2
Effetto Bosch
C’è una foto, tra i ritratti tabucchiani, che offre una fulminea
sintesi delle opere scritte a cavallo degli anni Novanta. Immortala
un Tabucchi serioso, baffi e occhiali ben in vista, davanti alle Ten-
tazioni di Sant’Antonio, il trittico di Hieronymus Bosch conservato
al Museu de Arte Antiga di Lisbona. È l’agosto del 1989: e la fo-
tografia viene scattata durante la presentazione del libro As Tentações:
um pintor Hieronymus Bosch, um escritor António Tabucchi, che si
svolge proprio al museo lisbonese.1 Vittima delle “tentazioni”,
sembra suggerire la foto, non è solo il santo eremita dipinto da
Bosch, ma anche lo scrittore Antonio Tabucchi. Tuttavia la posa
prescelta da Tabucchi per l’istantanea è ambigua: egli non si colloca
al centro della pala, ma di lato, davanti al pannello sinistro. È come
se lo scrittore giocasse con il suo modello pittorico: ora gli si
allontana, ora gli si avvicina. L’«Antonio» tentato è e non è Antonio
Tabucchi, quasi si trattasse di un autoritratto altrui. Grazie all’Antonio
di Bosch, l’uomo Tabucchi si sdoppia – e si deforma – in personaggio
romanzesco. In una sorta di intertestualità tra vita e letteratura.
Le circostanze in cui Tabucchi scopre il trittico di Bosch acui-
scono i rimandi autobiografici. Nell’estate del ’65, Tabucchi compie
il suo primo viaggio in Portogallo, e finalmente può osservare il
quadro da vicino. Gli anni sono quelli bui, torvi, del salazarismo:
molti intellettuali dissidenti finiscono in prigione; e la censura miete
vittime sempre più numerose.2 L’inferno descritto da Bosch nelle
Tentazioni di Sant’Antonio diventa il reagente per rappresentare l’o-
scurantismo salazarista. Le mostruosità del trittico rinviano alle
aberrazioni del regime dittatoriale; e spesso gli intellettuali fissano
il reale attraverso gli occhi di Bosch. Lo scrittore Cardoso Pires,
per esempio, sceglie Le Tentazioni di Sant’Antonio per la copertina
della prima edizione del suo romanzo Il delfino (1968). Nel libro,
1
A. Tabucchi, J. L. Porfírio, As Tentações: um pintor Hieronymus Bosch, um escritor
António Tabucchi/Com um estudo e legendas de José Luís Porfírio, Lisboa, Quetzal, 1989. La
foto a cui mi riferisco si trova invece in António Tabucchi o lento fascínio das «Tentações», a
c. di M. T. Horta, «Diário de notícias», 23/08/1989.
2
Della censura portoghese, in ambito teatrale, Tabucchi si occupa nel 1976. Cfr. A. Ta-
bucchi, Il teatro portoghese del dopoguerra (trent’anni di censura), Roma, Edizioni Abete, 1976.
119
la “tentazione” del trittico è incarnata dalla laguna di Gafeira
attorno a cui si svolge la vicenda, e diventa il “tentativo” di sapere
cosa è successo la notte in cui la moglie del notabile del luogo e il
suo servo hanno perso la vita.3 Ma il giallo anomalo di Pires è, dice
Tabucchi, una «esemplare autopsia» del salazarismo.4 Nel Portogallo
della dittatura Bosch aleggia nell’aria: è una sorta di Zeitgeist, di
spirito del tempo. L’attraversamento del trittico compiuto dagli in-
tellettuali lusitani nutre l’immaginario di Tabucchi, che si accosta
all’immagine dipinta utilizzando un filtro letterario. Non a caso,
come vedremo, i racconti o i romanzi alla Bosch accolgono personaggi
modellati su intellettuali portoghesi (così il Tadeus dell’Angelo nero
e di Requiem è una rivisitazione del poeta Alexandre O’Neill)5 o
citazioni di opere lusitane (L’angelo ancorato di Cardoso Pires affiora
in Notte, mare o distanza).
Benché s’inserisca in un preciso contesto culturale, il trittico di
Bosch si rivela poi in perfetta sintonia con la poetica originale di
Tabucchi. Il gusto per il mistero si trasmette dalla tavola alla pagina.
E viceversa.
Ogni polittico è qualcosa di «dinamico e in fieri» a fronte del
quadro «statico e concluso»;6 e il trittico di Bosch, non sciogliendo
sulla tela l’enigma del male, recalcitra davanti a una spiegazione
definitiva. Allo stesso modo, i libri di Tabucchi, ellittici e fluttuanti,
rifiutano un’interpretazione esaustiva. Persino la fattura del quadro
fiammingo è squisitamente tabucchiana. Le Tentazioni di Sant’Antonio
3
Riporto il passo del Delfino sulla «tentazione»: «Galoppano [i cavalli dell’insonnia],
svolazzano sopra gli abissi e ci lanciano infallibilmente nel fosso della tentazione (che è la
laguna, chiaro, la laguna, la laguna, questa rompiballe di laguna) […]». Cfr. J. Cardoso
Pires, Il delfino, trad. it. di R. Biscetti, introd. di A. Tabucchi, Roma, Editori Riuniti,
1979, p. 206, corsivo mio.
4
A. Tabucchi, Introduzione, in J. Cardoso Pires, Il delfino, op. cit., p. 14. Sull’importanza
epocale del Delfino, Tabucchi si sofferma anche nel ’98, quando ricorda sul «Corriere della
Sera» il Sessantotto in Portogallo. In Portogallo, dice Tabucchi, non c’è stato un Sessantotto,
ma un romanzo, Il delfino, che ha dimostrato che «un’epoca stava per finire perché era ago-
nizzante». Cfr. A. Tabucchi, E in Portogallo il rinnovamento si manifestò con un romanzo,
«Il Corriere della Sera», 26/04/1998.
5
Alexandre O’Neill trascorre circa quaranta giorni in carcere nel ’53 e affronta l’inter-
rogatorio della polizia politica (PIDE). Sarà lo stesso O’Neill ad avvertire Tabucchi della
caduta del regime telefonandogli il 25 aprile 1974 in piena notte e annunciando: «Bip, bip
questa è la voce del Portogallo libero». Lo racconta Tabucchi in un’intervista del ’94. Cfr.
«Quel 25 aprile a Lisbona». Intervista ad Antonio Tabucchi, a c. di M. Ferrari, «L’Unità»,
24/04/1994, p. 3.
6
Queste sono le parole impiegate da Tabucchi per caratterizzare lo stile di Camões,
simile al quadro, e lo stile di Góngora, simile invece al polittico. Cfr. A. Tabucchi, Da Ada-
mastor a Polifemo. L’antinomia acqua/pietra in Camões e Góngora, «Annali della Scuola
Normale Superiore», III, N° 2, 1973, p. 582.
120
sono un retablo, declinazione architettonica del gioco del rovescio.
Sobrie scene della Cattura e della Passione di Cristo occupano i
pannelli esterni, mentre colorate fantasie grottesche popolano le
tavole interne. Il colore non deve però trarre in inganno: il santo
deve contrastare creature mostruose e demoniache. In un’angoscia
di spirito e di forme.
Dai volatili ai pesci volanti: I volatili del Beato Angelico e As Tentações
È un “recto” ad accogliere, per la prima volta nell’opera di Ta-
bucchi, il trittico di Bosch. Nell’edizione portoghese dei Volatili
del Beato Angelico, uscita per i tipi di Quetzal nel 1989, la copertina
reca un particolare delle Tentazioni di Sant’Antonio.7 Ovvero: la
parte superiore del pannello sinistro, che ritrae l’eremita rapito in
cielo dai demoni e circondato dai pesci volanti. È il momento del-
l’ascensione diabolica. Con un dipinto così importante in copertina
la soglia del testo è già varcata: e il racconto eponimo dei Volatili
del Beato Angelico è legato al quadro incipitale.
Raccontata con un’efficace scrittura cromatica, la vicenda dei
Volatili del Beato Angelico narra di come fra’ Giovanni, passato alla
storia con il nome di Beato Angelico, venga un giorno visitato da
strane creature volanti, i «volatili». Il primo arriva all’ora del vespro,
mentre gli altri due – un libellulone dal viso di donna e una palla
verdeggiante – giungono all’alba del giorno successivo. Tutti sono
animati da un’unica volontà: farsi dipingere dal religioso. Il frate
si mette all’opera, e colloca gli esseri negli affreschi, che sta dipin-
gendo sulle pareti delle celle del convento. Conclusa la creazione
artistica, i volatili riprendono il volo; e fra’ Giovanni, malinconico,
torna a raccogliere le cipolle nell’orto del convento.
Seppur dotati di minore effetto orrifico, i volatili, con le loro
sproporzioni, richiamano i «grilli» di Bosch, ovvero le creature
senza tronco, solo testa e braccia, disperse sul trittico di Lisbona.8
Goffi e inquietanti, i volatili tentano il frate fiesolano, come nel
trittico i grilli tentano Sant’Antonio. Di notte, il libellulone si reca
nella cella di fra’ Giovanni e gli si mostra con le fattezze di Nerina,
7
L’edizione originale italiana del 1987 riporta invece in copertina una miniatura da un
Breviario manoscritto del XV secolo. Cfr. A. Tabucchi, I volatili del Beato Angelico, Palermo,
Sellerio, 1987.
8
Sul ruolo malefico svolto dai volatili, cfr. J. Spaccini, Sindrome di Stendhal e dintorni,
«Stilos», 7/11/2000, n° 3, p. 16; rist. in Id., Sotto la protezione di Artemide Diana. L’elemento
pittorico nella narrativa italiana contemporanea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008.
121
la ragazza amata dal religioso prima di indossare l’abito ecclesiastico.
La tentazione della carne è irresistibile: e il frate si unisce a lei.
Per il suo primo incontro con Bosch, Tabucchi sceglie allora di
costruire una visione smorzata del trittico. E fa muovere le creature
in uno scenario di rassicurante realismo – l’orto e i suoi prodotti –
lievemente incrinato da accenti perturbanti. Sulla pagina, le tonalità
cupe del Bosch di copertina subiscono un viraggio cromatico in di-
rezione dei colori pastello e smaltati dell’Angelico.
Sempre nel 1989, anno dell’edizione portoghese dei Volatili
del Beato Angelico, viene pubblicato, di nuovo a Lisbona, il libro
di cui si diceva prima: As Tentações: um pintor Hieronymus Bosch,
um escritor António Tabucchi.9 Un elegante volume d’arte, suddiviso
in due momenti: il commento di José Luís Porfírio al trittico di
Bosch (riprodotto in tutte le sue parti); e il racconto di Tabucchi
dal titolo Vozes trazidas por alguma coisa, impossível dizer que coisa.
Ovvero: una scrittura critica sull’arte; e una sua reinvenzione nar-
rativa.
La genesi del racconto Vozes trazidas por alguma coisa, impossível
dizer que coisa, scritto in italiano e poi tradotto in portoghese da
Maria da Piedade Ferreira, è ormai nota.10 E si inscrive in un in-
quietante binomio costituito da herpes zoster e rimorso. Cercando
un’ispirazione per un testo “parallelo” che accompagni Le Tentazioni
di Sant’Antonio, Tabucchi viene a conoscenza del potere taumaturgico
del trittico. Esposto anticamente nell’Ospedale degli Antoniani di
Lisbona, il trittico, secondo la tradizione, sarebbe stato in grado
di curare i malati di herpes zoster (o «fuoco di Sant’Antonio») ri-
coverati in quella struttura. Le Tentazioni di Sant’Antonio non sono
così un immobile oggetto di contemplazione, ma assurgono a para-
digma di pittura attiva.11
9
Di questo libro, per la prima volta ha parlato Anna Dolfi. Cfr. A. Dolfi, Il puzzle del
rimorso. «Voci portate da qualcosa impossibile dire cosa» di Antonio Tabucchi, in Leggiadre
donne, a c. di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 261-278, rist. in A. Dolfi, Tabucchi: la
specularità, il rimorso, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 239-242.
10
La genesi della storia è raccontata dallo stesso Tabucchi durante un convegno del
’91 sulla narrativa italiana contemporanea. Cfr. Dibattito con Antonio Tabucchi, in Piccole
finzioni con importanza. Valori della narrativa italiana contemporanea, Atti del Convegno In-
ternazionale di Anversa, Maggio 1991, a c. di N. Roelens e I. Lanslots, Ravenna, Longo,
1993, pp. 161-162.
11
Un quadro legato alla malattia compare anche nel racconto lungo di Del Giudice in-
titolato Nel museo di Reims. Barnaba, protagonista della storia, è un uomo che sta diventando
cieco. Si reca di frequente al museo di Reims perché ossessionato dal Marat assassiné di
David. Barnaba sa che quel quadro lo riguarda da vicino: prima di essere rivoluzionario,
Marat era medico, e curava la cecità. Barnaba lo scopre quando, sfogliando l’indice di una
vecchia storia della medicina, si accorge che il nome di Marat compare spesso. Dapprima,
122
L’herpes zoster, complici le parole di un medico amico di Ta-
bucchi, è poi avvicinata al rimorso.12 Come il virus non scompare
mai dal corpo, ma può solo assopirsi per tornare ad attaccare
quando le difese immunitarie sono più allentate; così il rimorso
si nasconde nell’anima per riemergere periodicamente e tormentare
l’uomo.
Il racconto Vozes trazidas por alguma coisa, impossível dizer que
coisa è, si ricorderà, ambientato a Pisa. Il suo protagonista è uno
scrittore costretto a fare i conti con voci perturbanti che all’im-
provviso affiorano dal suo passato.13 Anche il protagonista del
Delfino di Cardoso Pires, come nota Tabucchi, «viene ricostruendo
pezzo per pezzo un probabile omicidio» da una «frase rimasta
sepolta nella memoria»: ecco delinearsi i primi scambi tra Tabucchi
e la letteratura portoghese.14
Nel racconto tabucchiano, la vittima delle Tentazioni è un
Sant’Antonio pisano e flâneur insidiato dal desiderio di sapere come
si sono svolte le cose in quella villa sul mare, dove la sua amata
Isabel ha forse abortito clandestinamente con l’aiuto di Tadeus.
Egli è preda della concupiscentia irresistibilis. A tentarlo è Tadeus,
l’amico abile nel mot d’esprit, che ha trascorso tutta la vita «a
tentare e a tentarsi». La maschera, come la critica ha più volte ri-
badito, si fregia di un puntuale nome e cognome: è il poeta Alexandre
O’Neill, grande amico di Tabucchi morto nel 1986. Bosch e la
civiltà letteraria portoghese si avviluppano sempre di più.
Che si tratti di una tavola in legno o di una pagina, il reale e il
fantastico condividono il medesimo piano. Ciò che più preme a Bo-
sch, dice Porfírio, è appunto la dimensione prosaica e quotidiana
del male. Nei suoi quadri, dorsali minacciose agitano dolci paesaggi
rurali o marini, e un incendio divampa in un villaggio sul fiume ce-
pensa che il nome sia così frequente perché forse Marat era affetto da qualche malattia
«così particolare da portare magari il suo nome, l’herpes di Marat». Poco dopo, invece,
Barnaba scopre che Marat esercitava la professione medica. Da qui il suo attaccamento al
quadro di David, come se, attraverso la tela, egli potesse beneficiare delle cure del rivolu-
zionario. Cfr. D. Del Giudice, Nel museo di Reims, con sedici dipinti di M. Nereo Rotelli,
Milano, Mondadori, 1988, p. 38, corsivo mio.
12
Per l’aneddoto, cfr. di nuovo Dibattito con Antonio Tabucchi, op. cit., pp. 161-162.
13
Il racconto, dal titolo italiano Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa, è già
stato analizzato, per i suoi legami con il cinema, nel capitolo intitolato Racconti di cinema
barato.
14
Riporto il passo completo: «Scatta [il romanzo] da un sospetto, da una frase rimasta
sepolta nella memoria dello scrittore e che ora prende corpo e significato […]. E piano
piano, pagina per pagina, senza ordine temporale, a sprazzi, lo scrittore viene ricostruendo
pezzo per pezzo un probabile omicidio». Cfr. A. Tabucchi, Introduzione, in J. Cardoso Pires,
Il delfino, op. cit., p. 13.
123
sellato in modo realistico. Da pronipote di Bosch, Tabucchi colora
di inquietudine (e di maltempo) una città toscana, e fa sì che il
fuoco, attributo iconografico di Sant’Antonio, consumi un edificio
prosaico: un cinema, in cui il protagonista si recava da bambino e
che fu poi distrutto da un incendio. Abbandonata la piazza dove
un tempo sorgeva la sala cinematografica, il protagonista si reca al-
l’appuntamento che gli dà una delle voci. Arriva nel Campo dei
Miracoli e inizia l’ascesa – ascensione diabolica – alla Torre Pendente,
che forse rimanda anche alla torre semidistrutta della Vecchia Fede
del quadro di Bosch. Arrivato in cima, egli trova una coppia di
turisti francesi e sente l’uomo dire alla donna: «è una malattia che
oggi si può controllare […] è un virus simile all’herpes zoster». La
battuta è calcolata, perché l’herpes zoster richiama il trittico di Bosch.15
Comincia a piovere, e i turisti vanno via. Se il protagonista – come
si tende a immaginare – spiccherà il volo dal campanile, all’ascesa
farà seguito la caduta. Al contrario di quanto avviene nel trittico,
l’uomo non verrà soccorso da monaci solleciti, e potrà solo sfracellarsi
al suolo. Seppur diversamente arrangiato, il trittico di Bosch si rin-
nova nel Campo dei Miracoli. Che, a sua volta, diventa il Campo
delle Sciagure.
Quando i mostri di Bosch invadono il reale: Notte, mare o distanza
Ciò che non si riesce a spiegare, come le voci «trazidas por al-
guma coisa, impossível dizer que coisa», può inquietare di nuovo: e
da un libro d’arte può far ritorno in una raccolta di racconti. Av-
viene nell’Angelo nero in cui Vozes trazidas por alguma coisa, im-
possível dizer que coisa inaugura il libro. Stavolta la versione è
quella originale italiana; e il titolo recita: Voci portate da qualcosa,
impossibile dire cosa.
Affondando nella melma del male, L’angelo nero vanta celebri
Dioscuri: il Montale di Satura, richiamato esplicitamente dal titolo
e dalla nota introduttiva; e il Bosch delle Tentazioni di Sant’Antonio,
spesso alluso e mai menzionato.
In Notte, mare o distanza, secondo racconto dell’Angelo nero,
il trittico compare, sempre occultato, a metà del brano; e s’impone
in chiusura. La storia è raccontata da un personaggio che, affetto
15
Per il significato della battuta pronunciata dai turisti, cfr. A. Dolfi, Tabucchi. La
specularità, il rimorso, op. cit., pp. 201-202.
16
Ivi, p. 220.
124
da una sorta di «coazione a ripetere»,16 reitera all’infinito i fatti
accaduti – o che ha immaginato accadere – a Lisbona in una
tragica notte del novembre ’69. In quella fatidica data, quattro
amici, Michel, Tiago, Joana, Luisa, si recano a far visita al
famoso poeta Tadeus, ma, uscendo dalla casa, vengono fermati
da un poliziotto arrivato con una Mercedes nera. La canna di
una pistola sbuca dal finestrino dell’auto e, poco dopo, dalla
stessa apertura fa capolino il muso di una cernia boccheggiante.
Finalmente, in difesa dei ragazzi braccati dall’agente, scende in
strada Tadeus, che finora forse si è limitato a osservare la scena
dalla finestra. Avendo garantito per i suoi giovani amici, Tadeus
pensa di aver risolto la situazione e torna a casa. Per i ragazzi
l’inferno non è ancora finito: il poliziotto li trattiene con dei
resoconti efferati sulle nefandezze compiute durante la guerra
coloniale in Angola; poi li lascia andare. Joana è sconvolta,
sorride di un «sorriso incongruo e allarmante», quasi fosse pos-
seduta. Ritorna a casa di Tadeus, ma prima di entrare raccoglie
dal marciapiede la cernia. L’ultima immagine ritrae Tadeus e
Joana a cavallo della cernia agonizzante. E il singolare destriero,
attraversando gli anni, arriva al presente di chi sta raccontando
(o immaginando) la storia.
Sul trittico di Bosch, Tabucchi lavora di sottrazione. Ripulisce
la tela, e isola un particolare periferico: il pesce volante cavalcato
da un uomo e da una donna (una coppia di stregoni) nella parte su-
periore del pannello destro. A cavallo della cernia, i Tadeus e Joana
di Notte, mare o distanza diventano allora i nuovi amazzoni diabolici.
Quando la cernia esce dal quadro, e invade la pagina, non è
più solo una cernia, bensì assume valenza di emblema e di simbolo
culturale. Tra l’Emblematum libellus di Alciato e gli Studi di iconologia
di Panofsky.
Al pari degli emblemi, la cernia è una figura dall’alta densità
simbolica.17 Dello schema rinascimentale di Alciato, motto-imma-
gine-epigramma, sopravvive però in Tabucchi solo l’immagine.
Perché nel Novecento il senso non è più esplicito né univoco: la
figura si offre e, a un tempo, si nasconde.
17
L’emblematica rinascimentale di Alciato è citata dallo stesso Tabucchi quando
recensisce Sotto il sole giaguaro di Calvino. Secondo Tabucchi «per Calvino la luce dell’illu-
minazione sembra accendersi per emblemi […]». Ma, forse, anche l’«illuminazione» tabucchiana
segue il medesimo percorso. D’altronde capita spesso che uno scrittore dipinga il proprio
autoritratto in margine all’autore recensito. Cfr. A. Tabucchi, Calvino, in che senso?, «L’E-
spresso», 17/08/1986, rist. in Italo Calvino: enciclopedia, arte, scienza e letteratura, a c. di M.
Belpoliti, «Riga», N° 9, Milano, Marcos y Marcos, 1995, pp. 199-200.
125
 Forse, la cernia tabucchiana può essere però sottoposta ad au-
topsia con bisturi panofskiani. A livello iconografico il pesce rap-
presenta il Vizio, la Lussuria, la Follia, mentre nello stadio successivo,
iconologico, la cernia di Bosch diventa espressione del gruppo sur-
realista portoghese. E acquista un significato freudiano. Nella poesia
Sigamos o cherne di O’Neill (tradotta tempestivamente dal giovane
Tabucchi con il titolo Seguiamo la cernia),18 la cernia è il represso
che torna a galla.19
In Notte, mare o distanza, la cernia emersa dai fondali limacciosi
dell’io approda nelle strade della Lisbona salazarista. Ma l’epifania
ittica non suscita meraviglia:
E la cosa più strana era che sembrò naturale, in mezzo a quella cupa notte
quasi di coprifuoco, con una pioggerella che aveva preso a cadere e le foglie
portate via dal vento, sembrò naturale a tutti che dal finestrino di quella auto-
mobile minacciosa si affacciasse una cernia.20
18
Per la traduzione tabucchiana della poesia Sigamos o cherne, cfr. La parola interdetta.
Poeti surrealisti portoghesi, a c. di A. Tabucchi, Torino, Einaudi, 1971, p. 189. Della filiazione
surrealista e, in particolare, o’neilliana della cernia di Tabucchi ha già parlato Monica Jansen.
Cfr. M. Jansen, Requiem: una mediazione fra «vera finzione» e «verità pratica», in I tempi del
rinnovamento, a c. di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van de Bossche, Atti del Convegno In-
ternazionale di Leuven Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, 3-8
maggio 1993, vol. II, Roma/Leuven, Bulzoni/Leuven University Press, 1995, p. 426. Sull’a-
scendenza o’neilliana della cernia si è soffermata anche la Trentini. Cfr. N. Trentini, Dalle
«Tentazioni» di Bosch al «Cane» di Goya. La tonalità notturna di «Tristano muore», in I
‘Notturni’ di Antonio Tabucchi, a c. di A. Dolfi, atti di seminario, Firenze, 12-13 maggio
2008, Roma, Bulzoni, 2008, p. 319.
19
La cernia di Sigamos o cherne ritorna, nel ’93, in Sonhando com Dacosta, un testo
scritto da Tabucchi per il catalogo di una mostra dedicata ad António Dacosta, pittore
delle Azzorre. Al contrario di quanto avviene in Sogni di sogni, qui Tabucchi entra come
personaggio nel sogno di António Dacosta. Tabucchi sogna di visitare i quadri di Dacosta
accompagnato dallo stesso pittore, che gli fa da guida come se fosse un novello Virgilio.
Dopo aver esaminato il dipinto della Religieuse Portugaise, e in viaggio verso i quadri che
ritraggono il cuore della monaca, Dacosta recita la poesia Sigamos o cherne di O’Neill,
che Tabucchi finge di non ricordare. In un continuo gioco di rifrazioni tra il Tabucchi
scrittore e il Tabucchi personaggio. Cfr. A. Tabucchi, Sonhando com Dacosta, in António
Dacosta, a c. di M. Rewald Dacosta, Lisboa, Quetzal/Galeria111, 1995, p. 11. Il testo,
mutilato però dei versi sulla cernia, è ristampato in A. Tabucchi, Racconti con figure, a
c. di T. Rimini, Sellerio, Palermo, 2011. A dieci anni di distanza dall’uscita dell’Angelo
nero, nel 2001, ritorna il pesce volante di Bosch combinato con la cernia di Alexandre
O’Neill. Si tratta di un breve testo scritto da Tabucchi per il catalogo delle opere di
Giovanni Fanello. Le sculture metalliche a forma di pesce sono, per Tabucchi, assai evo-
cative: sono pesci volanti come quelli di Bosch e ricordano la cernia o’neilliana dell’inconscio.
Cfr. A. Tabucchi, Seguendo la cernia…, in G. Fanello, Pesci idraulici e altro…: scultura,
1995-2000, Siena, Università degli Studi, 2001; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure,
op. cit.
20
A. Tabucchi, Notte, mare o distanza, in Id., L’angelo nero [1991], Milano, Feltrinelli,
1997, p. 39, corsivo mio.
126
Di nuovo, irrompe la naturalità dell’innaturale dei quadri di
Bosch, il suo tentativo di ancorare il male alle contingenze quotidiane.
E Tabucchi costruisce la sua storia con gli occhi sprofondati nel
trittico. Tra le righe, anziché tra le pennellate, tornano a muoversi
i personaggi delle Tentazioni di Sant’Antonio. Il dipinto, abbandonata
la cornice, aggredisce la realtà.21 Sin dalla figura del Tentatore, che
s’incarna nell’insospettabile poeta Tadeus. Quando accoglie in casa
Joana sconvolta dall’aggressione del poliziotto, le sorride «come se
dicesse: ti aspettavo, lo sapevo che saresti venuta, che non avresti
resistito alla tentazione». Ma Tadeus non corteggia solo il fascino
perverso del male: il poeta è, per così dire, un Tentatore travagliato.
Il suo senso di colpa è di quelli laceranti: avverte con dolore l’impotenza
dell’intellettuale. Nella tragica annata del ’69, funestata dalla dittatura
di Caetano (successore di Salazar), Tadeus, invece di prendere parte
alla protesta, pubblica una raccolta di poesie. Per di più testi già
carichi di disincanto quando si spera invece di abbattere il regime
con le elezioni. Non gli riesce nemmeno difendere fino in fondo i
suoi ragazzi dal poliziotto che li aggredisce, cosicché torna a casa
prima che siano rilasciati. Orbato della possibilità di agire, Tadeus è
l’uomo che, impotente, può stare solo «con la spalla appoggiata allo
stipite». La postura è “d’autore”, perché traduce l’espressione «de
ombro na ombreira», che dà il titolo alla raccolta poetica pubblicata
da O’Neill proprio nel 1969.22 Di nuovo, l’amico Alexandre si fa
strada sotto le spoglie di Tadeus.
Incapace di influire sul presente, la poesia non può che essere
un’estrema unzione, «un buon viatico».23 A cosa? «Alla notte, al
mare, alla lontananza», ipotizza uno dei giovani. Ma Tadeus pron-
tamente corregge: «non lontananza, distanza, c’è una certa diffe-
renza». E il rimbrotto inaugura nuove piste esegetiche, perché il
verso è tratto dalla poesia Notturno alla finestra dell’appartamento
di Carlos Drummond de Andrade. Versi, quelli di Drummond de
Andrade, che ritraggono un uomo capace solo di guardare la notte
21
Per quanto avvenga in modo meno eplicito, l’ombra lunga della Tentazioni di Sant’An-
tonio continua ad agire in altri racconti dell’Angelo nero già indagati dalla Dolfi. Cfr. A.
Dolfi, Tabucchi, la specularità il rimorso, op. cit., e in particolare il capitolo intitolato L’«angelo
nero» e gli animali inquietanti, pp. 211-242.
22
A. O’Neill, La spalla contro lo stipite [1969], in Id., Made in Portugal, a c. di A.
Tabucchi, Milano, Guanda, 1978, p. 47.
23
In Tristano muore sarà la Frau, la vecchia governante di Tristano, a leggergli tutte le
domeniche una poesia. In un rituale che si avvicina, di nuovo, a un viatico. Ecco il passo:
«E leggeva quella che quel giorno pensava adatta a me, come un viatico, o un libro d’ore...».
Cfr. A. Tabucchi, Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 27.
127
dalla finestra, interrogandosi sul mistero della vita, che «è» nono-
stante la «sua somma» sia «nulla».24 Il racconto Notte, mare o
distanza si offre allora come sviluppo narrativo della poesia di de
Andrade. In chiave Bosch, però.
Mentre Tadeus è una figura ambigua, demoniaca e dimidiata a
un tempo, il poliziotto, che aggredisce i ragazzi, è un autentico
mostro di Bosch. L’agente squittisce come se fosse un topo; i suoi
occhi, capaci di leggere al buio, sono «occhi di gatto»: nel mondo
sconvolto dal salazarismo s’inverano le ripugnanti commistioni pit-
toriche fra diverse specie naturali (gli esseri deformi di Bosch sono
spesso per metà uomini e per metà animali). Persino il mezzo di
trasporto del poliziotto, una sinistra Mercedes nera, sembra un
avatar tecnologico dei mezzi di trasporto aerei e acquatici del trittico,
anch’essi contaminati dal male. Il linguaggio del poliziotto è incon-
gruo; le ingiunzioni minatorie che rivolge ai ragazzi sono infarcite
di melensi diminuitivi: «fermi così, signorini, ora restate per un po’
fermi così, ma girate le spalle e alzate le manine. Proprio così disse:
le manine; e in quel diminutivo incongruo c’era una violenza compatta
[…]».25 Nell’uso «incongruo» del diminutivo l’antiordine di Bosch
trova un aberrante riscontro linguistico.
Snidati sulla pagina il Tentatore e il mostro di Bosch, non resta
che individuare chi subisce la Tentazione. E i quattro amici sono
le vittime designate. A casa di Tadeus, tra letture di poesie e
bicchieri di vino, i ragazzi avvertono «un disagio come una tenue
malattia». Il fuoco di Sant’Antonio si trova ancora allo stato larvale
nei loro corpi. Nella notte increspata da «onde malefiche», i giovani
avvertono un imbarazzante disagio perché si sentono in esilio nella
loro stessa città. Un po’ come capita a Guida e João, protagonisti
dell’Angelo ancorato, parabola sul salazarismo scritta da Cardoso
Pires nel ’58 e accompagnata, nell’edizione del ’99, da una prefazione
dello stesso Tabucchi.26 Guida e João arrivano su una spiaggia por-
toghese a bordo di una decappottabile. Trascorrono un pomeriggio
vacanziero al mare, ma l’apparente banalità delle loro conversazioni
cela un’angoscia politica (siamo negli anni della dittatura) ed esi-
stenziale. Guida sente l’urgenza di riscattarsi, di agire contro una
realtà che la opprime, ma non sa come farlo: è un angelo ancorato,
24
C. Drummond de Andrade, Sentimento del mondo, a c. e trad. di A. Tabucchi,
Torino, Einaudi, 1987, p. 29.
25
A. Tabucchi, Notte, mare o distanza, op. cit., p. 38, corsivo mio.
26
A. Tabucchi, Prefazione, in J. Cardoso Pires, L’angelo ancorato, trad. e postf. di M.
Raggini, Roma, Fahrenheit 451, 1999, pp. 15-18.
128
appunto. Tanto i personaggi tabucchiani quanto quelli di Pires
vivono il dramma dell’essere tutti parole e niente azioni.
Nel libro di Pires, fortemente simbolico, c’è persino un pesce
«favoloso», un mero enorme e scuro, che viene catturato da João
sul fondo del mare e poi portato sulla spiaggia. Al cospetto del
mero, Guida rimane «affascinata dalla terribile bellezza dell’ani-
male», come accade a Joana davanti alla cernia. Di più: con
indosso ancora l’attrezzatura da palombaro, João è descritto «a
immagine dei mostri di Bosch, mezzo uomo – mezzo pesce».27
La storia di Cardoso Pires schiude così nuove feritoie intertestuali
in Notte, mare o distanza.
Che la visione della dittatura in Portogallo passi spesso attraverso
lenti fiamminghe lo dimostra pure un altro autore: dopo Pires; e
prima di Tabucchi. È Lobo Antunes con il suo monologo sulfureo,
céliniano, intitolato In culo al mondo. Il protagonista è un reduce
della guerra d’Angola, ben più umano (e tormentato) di come sarà
l’agente di Notte, mare o distanza. Tornato da quei paesi «in culo
al mondo», il reduce, in un bar di Lisbona, decide di raccontarsi a
una donna – sempre fuoricampo – conosciuta quella sera; e per de-
scriverle la nefandezza della guerra si appella ai quadri di Bosch:
Lei, per esempio, che ostenta quell’aspetto asettico, competente e privo
di forfora delle segretarie di azienda, sarebbe capace di respirare dentro un
quadro di Bosch, soffocata da demoni, da bruchi, da gnomi nati da gusci
d’uovo, da gelatinose orbite spaventate?28
Del libro di Lobo Antunes, uscito in Portogallo nel ’79, Maria
José de Lancastre presenterà anni dopo un’intensa traduzione italiana.
27
J. Cardoso Pires, L’angelo ancorato, op. cit., p. 77-78.
28
A. Lobo Antunes, In culo al mondo, trad. di M. J. de Lancastre con la collab. di A.
Tabucchi, Torino, Einaudi, 1996, p. 48, corsivo mio. Nel 2009, il libro è stato ripubblicato
per i tipi di Feltrinelli ed è stata eliminata la dicitura «con la collaborazione di Antonio Ta-
bucchi» che compariva sul frontespizio. Nel monologo di Antunes, il reduce ricorda anche
una Mercedes, che veniva usata negli spostamenti dei soldati in Angola, simile a quella del
poliziotto di Notte, mare o distanza. Senza voler forzare troppo i confronti Tabucchi/Lobo
Antunes, si noti infine, en passant, che in In culo al mondo appare una «Isabel», sfuggente e
legata alle musiche malinconiche di Chopin come è l’Isabel di Tabucchi: «[…] avrei voglia
di espellere i pianoforti verticali coperti da damaschi i cui Chopin mi prendono nella tela di
malinconie da narciso, avrei voglia di Isabel, della realtà di Isabel, della realtà indipendente
da me di Isabel, dei denti di Isabel, del riso di Isabel, dei seni di Isabel […]. E mi ricordo,
con commozione e rapimento, la casa dell’Algarve circondata da fichi e cicale, […] e la
violenta e non formulata passione delle mie carezze che sembravano arrestarsi senza soluzione
a qualche centimetro del suo viso, e si dissolvevano infine in una carezza indefinita». Cfr.
A. Lobo Antunes, In culo al mondo, op. cit., pp. 180-181.
129
Il repertorio di Bosch, ricco di mostri e di pesci, offre allora un
corredo iconografico ripugnante a chiunque voglia affrontare sulla
pagina i foschi anni del regime. Sulla terraferma, o nelle colonie
d’oltremare; in portoghese, o in italiano.
Il trittico recupera la cornice: Requiem
Lisbona, l’ultima domenica di un luglio afoso e torrido: un
italiano con un’ottima conoscenza del Portogallo è sul molo di
Alcântara. Poco prima invece si riposava in Azeitão, sotto un gelso
nella casa di campagna di amici, ma ora inspiegabilmente è arrivato
nel porto lisbonese. È in attesa di «um grande poeta», che però
non si presenta all’appuntamento. L’italiano decide allora di lasciare
il molo per dirigersi verso il giardino pubblico di Santos alla ricerca
di un po’ di frescura. Ha così inizio Requiem, unicum nella produ-
zione di Tabucchi, perché scritto in portoghese e poi tradotto in
italiano dall’amico Sergio Vecchio.
Nell’arco di una sola giornata – quasi un Ulisse lusitano – il
protagonista, e voce narrante, incontra diversi personaggi: reali o
letterari, vivi o morti. Molti sono additati attraverso la professione
esercitata («O Chauffeur de Táxi», «O Criado», «O Barman») o
in virtù del loro ruolo sociale («O Pai Jovem»). L’erranza del pro-
tagonista per Lisbona trascolora così in un viaggio allegorico. O
meglio: in un percorso nel sertão lusitano. Perché l’assenza di nomi
propri rimanda ai «non-nomi delle categorie» che puntellano il
Grande Sertão di Guimarães Rosa («o Pai, a Mãe, o Hômen»).29
Nel secondo capitolo – e Requiem è diviso in nove capitoli –
il protagonista si reca alla tomba dell’amico Tadeus, che nel giro
di una pagina converserà amabilmente con lui come se fosse ancora
29
La definizione di «non-nomi delle categorie» per alcuni personaggi del Grande Sertão
è formulata dalla Stegagno Picchio, professoressa di Antonio Tabucchi. Cfr. L. Stegagno
Picchio, Guimarães Rosa: le sponde dell’allegria, «Strumenti critici», N° 11, febbraio 1970,
p. 20. La Stegagno Picchio considera «il mito della Colpa verso il Padre, e quindi della vita
fallita, del non superamento della Prova» come cardine della poetica di Guimarães Rosa. E
a proposito del Grande Sertão osserva: «se il Merito non esiste, forse anche la Colpa (che
pur marca gli individui di una dolente piaga di rimorso) non è tale: e se non esiste la Colpa,
non esiste neppure il Diavolo, e il patto col diavolo (che l’uomo ha creduto di stipulare ac-
cettando implicitamente la dannazione) non ha mai avuto luogo». A esistere è solo «l’individuale
“travessia” umana». Ivi, pp. 21; 23. La nota, che Tabucchi colloca in apertura del volume
As Tentações, sulla fine del peccato nel nostro inferno moderno, perché sostituito dal rimorso,
sembra allora inserirsi in questa tradizione letteraria indagata dalla Stegagno Picchio. Cfr.
A. Tabucchi, Nota, in Id., As tentações, op. cit.
130
vivo. Si ripresenta il triangolo di Voci portate da qualcosa, impossibile
dire cosa, nel quale due amici, il narratore e Tadeus, erano inna-
morati della stessa donna, Isabel. E ricompare l’ombra dell’aborto
e del suicidio della donna, forse istigata dallo stesso Tadeus. Sta-
volta, però, l’italiano nella Casa do Alentejo incontra Isabel, an-
nunciata dal suono del campanello, come nel buzzatiano racconto
di fantasmi Eppure battono alla porta. Ma dell’abboccamento nulla
saprà il lettore: Requiem è costruito su una profonda, e risucchiante,
ellissi.
Spossato da questi (e da altri) colloqui ad alta temperatura emo-
tiva, l’io narrante ritorna al molo iniziale. Ora, però, l’uomo che
attendeva si presenta: è Fernando Pessoa (chiamato il «Convitato»).
Dopo una cena in uno stravagante ristorante postmoderno, il poeta
rientra nell’ombra. E l’io narrante riappare in Azeitão, sotto il gelso
dove si trovava quando era stato catapultato sul molo di Alcântara.
Tra le diverse peregrinazioni compiute dal protagonista, una
s’impone sulle altre: la visita al Museu de Arte Antiga di Lisbona,
con l’intento di osservare Le Tentazioni di Sant’Antonio di Bosch.
Giunto al museo, l’io narrante s’intrattiene con il barman logorroico
del caffè, che insiste per offrirgli un cocktail alcolico di sua inven-
zione. Già minacciata dalla luce abbacinante del luglio lisbonese,
l’imminente fruizione artistica è così ulteriormente compromessa
dai fumi dell’alcol.
Nonostante il museo stia per chiudere, l’italiano ottiene il la-
sciapassare del guardiano, ed entra nella sala espositiva. Spera di
essere solo, sennonché un Copista, armato di tela e cavalletto, è
già davanti al trittico. La delusione è bruciante. Ben presto, l’im-
barazzo si supera; e arriva il momento delle presentazioni. Il
Copista non è un pittore di professione, bensì un impiegato del
Municipio con la passione per la pittura. Viene in mente lo «stram-
bo» orologiaio di Buzzati che, quando è posseduto dal fantasma
di Bosch, dipinge in casa Il Giudizio universale, quasi fosse un
“copista” medium.30 Ma i due personaggi hanno approcci visivi
differenti: più che interessarsi alla totalità del quadro come l’oro-
logiaio di Buzzati, il Copista di Tabucchi va a caccia di dettagli
(ancora la lezione dei morceaux choisis). Sta riproducendo, ingran-
dito, il particolare dell’uomo grosso e della vecchia che viaggiano
nel cielo a cavallo di un pesce. La cernia di Notte, mare o distanza
riconquista la sua sede originaria: e dal reale fa ritorno nel quadro.
30
D. Buzzati, Il maestro del Giudizio universale, in L’opera completa di Hieronymus
Bosch, a c. di M. Cinotti, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 5-8.
131
 Il Copista sarà pure un dilettante, ma conosce la storiografia
artistica: ha letto Il Medioevo fantastico di Baltrušaitis.31 Lo cita a
proposito dei «grilli», che abbondano nelle tele di Bosch. Competente
in materia, il Copista probabilmente sa anche ciò che Baltrušaitis
dice dell’intero trittico. Secondo il critico, si tratterebbe di un
«muto colloquio» fra l’eremita e un particolare grillo: quello che
ha un viso d’uomo dalle fattezze realistiche innestato sulle gambe
in calzamaglie.32 O almeno, l’ipotesi di Baltrušaitis deve conoscerla
Tabucchi. Da moderno eremita, infatti, il protagonista di Requiem
instaura un «muto colloquio» con Pessoa, che avrebbe dovuto in-
contrare sul molo. Perché sin dall’abboccamento con lo Zoppo della
Lotteria – personaggio del Libro dell’inquietudine – Requiem s’inscrive
nell’orbita pessoana. E con la cena finale al ristorante postmoderno,
il colloquio da “muto” si farà parlante.
Le tracce evidenti, si sa, sono spesso le meno interessanti: e se
Baltrušaitis spicca a viso scoperto tra le pagine di Requiem; Chastel
si annida tra le pieghe del testo. Il critico francese legge Le Tentazioni
di Sant’Antonio come «le songe du mélancolique», il sogno dell’e-
remita dal temperamento malinconico e saturnino. Sotto il segno
di Saturno s’inscrivono infatti i folli, gli artisti, e gli eremiti.33 Al
temperamento inquieto non si sottrae l’io narrante di Requiem, che
vanta una nascita di interesse astrale: è nato il giorno dell’equinozio
d’autunno, quando la luna è «lunatica» («doida») e l’Oceano «si
gonfia» («incha»). E cos’altro è Requiem, se non un lusitano «songe
du mélancolique», in cui il «songe» diventa «allucinazione», come
recita il sottotitolo del libro («uma alucinação»)?
Si diceva del lavoro del Copista. Dal contatto diretto con il
trittico, egli formula un’ipotesi interpretativa sul dettaglio del pesce
cavalcato dalla coppia che sta dipingendo. In una moderna forma
di ekphrasis. A cavalcare la tinca – e non più la cernia – è una
coppia diretta a un sabba (ed è ancora Chastel a sottolineare come
il tema del sabba consenta di riunire tutti gli elementi della scena
centrale). Poco dopo, il Copista riesuma la coppia herpes/rimorso
delle precedenti storie tabucchiane: «[…] eu acho que o herpes é
um pouco como o remorso […]». Sentendo queste parole, il prota-
gonista si ritrova al centro di un cortocircuito tra emozioni e cono-
31
J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico: antichità ed esotismi nell’arte gotica, introd. di
M. Oldoni, trad. it. di F. Zuliani e F. Bovoli, Milano, Mondadori, 1977.
32
Ivi, p. 70.
33
A. Chastel, La Tentation de Saint Antoine ou Le songe du mélancolique, in Id., Fables,
formes, figures, v. I, Paris, Flammarion, 1978, pp. 137-148.
132
scenza. Ricorda la scritta del biglietto consegnatogli dall’amico
Tadeus prima di morire: «foi tudo culpa do herpes zoster». Come
il Bergotte proustiano davanti a un dettaglio di Vermeer, il prota-
gonista di Requiem per un istante rischiara il senso della sua vita:
la colpa a cui accenna Tadeus è il rimorso.
Il Copista non riesce solo a sbrogliare la matassa esistenziale
del protagonista, ma incarna, con il suo “mestiere”, il dilemma che
innerva tutto Requiem: qual è il rapporto tra copia e originale? E,
soprattutto, è la letteratura che copia l’originale della vita? O non
piuttosto il contrario?34
Una querelle tra copia e originale si disputa anche in un altro
museo, il Kunsthistorisches Museum; e in un altro libro: Antichi
maestri di Bernhard. Ci sono Reger, un visitatore abituale del museo,
e un inglese del Galles che si è piazzato sulla panca solitamente oc-
cupata da Reger, proprio davanti all’Uomo dalla barba bianca di Tin-
toretto. L’inglese non è un intenditore d’arte, ma gli è stato detto
che il museo ospita un quadro uguale a quello che lui tiene sopra il
camino in camera da letto: ed è venuto a verificare di persona. Nella
sala del museo, l’inglese inverte il rapporto tra copia e originale: e
pensa di custodire lui il dipinto autentico, lasciatogli in eredità da
una zia di Glasgow. O forse, finisce per credere l’inglese, Tintoretto
è un tale genio da averli dipinti entrambi in modo identico. Dal
canto suo, Reger è una sorta di Copista dell’errore. Come il personaggio
di Tabucchi, quello di Bernhard si sofferma sui dettagli, ma va alla
ricerca degli «errori palesi» all’interno dei capolavori, convinto che
«il piacere più grande ce lo danno i frammenti».35 Il libro di Bernhard
è del 1985; ma in Italia compare solo nel 1992, in concomitanza con
l’uscita italiana di Requiem: e la coincidenza è curiosa.
A colloquio con biblioteche di altri scrittori, l’episodio del
Museo de Arte Antiga è insomma il crocevia di Requiem. E rivela,
a mezze tinte, la struttura del romanzo. Il vagabondaggio per
Lisbona è costruito su due Tentazioni di Sant’Antonio di Bosch,
quelle custodite a Lisbona e quelle conservate al Prado. Il percorso
dell’io narrante di Requiem prende le mosse dal quadro di Madrid;
attraversa il trittico di Lisbona; e poi ritorna, in una composizione
34
Su quest’aspetto, cfr. G. Tessitore, In limine scripturae. Requiem di Antonio Tabucchi,
«Critica letteraria», N° 103, 1999, e, in particolare, pp. 388-391.
35
T. Bernhard, Antichi maestri. Commedia, trad. it. A. Ruchat, Milano, Adelphi, 1992,
p. 30. L’interesse di Tabucchi verso Bernhard è espresso in un articolo apparso sul «Corriere
della Sera» nel 1999. Nel pezzo, Tabucchi cita proprio Antichi maestri, uno dei «vagabondaggi
narrativi» di Bernhard. Cfr. A. Tabucchi, Treccani e Vitali istanti d’eternità, «Il Corriere
della Sera», 16/03/1999; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, op. cit.
133
ad anello, all’opera del Prado. All’inizio di Requiem, il protagonista
ripete la posa del Sant’Antonio di Madrid, che è accovacciato presso
un albero cavo nella frescura di un’estate mite. Il personaggio di Ta-
bucchi si trova infatti sotto un albero di gelso in Azeitão intento a
leggere Il libro dell’inquietudine quando, ex abrupto, balza sul molo di
Alcântara in una Lisbona arsa dalla canicola.36 Per far ritorno alla
quiete della sua pianta, il protagonista di Requiem deve attraversare
l’inferno del luglio lisbonese.
Poco importa che gli inferi gelati del Bosch di Lisbona subiscano
sulla pagina un innalzamento termico e vengano bagnati da una solarità
estiva, o che l’odore funebre si mescoli agli aromi mediterranei: il
percorso del personaggio letterario sarà lo stesso accidentato. Esaurito
il suo ultimo incontro, l’io di Requiem tornerà al suo gelso in Azeitão,
e in termini pittorici, alla visione pacificata del quadro di Madrid.
Ma la calma è apparente, perché nelle Tentazioni di Madrid – ed è
Breton a dirlo – «questa magia, lungi dall’essere stata “espurgata” da
una cura di sublimazione abortiva, è stata reintegrata nell’uomo, che
si è riconosciuto materia e sangue».37 Allo stesso modo, con la fine di
Requiem, i revenants, i rimorsi tabucchiani sono addomesticati, placati,
solo momentaneamente. E gemmeranno nei libri successivi.
Intriso di rimandi iconografici, Requiem accoglie i principali
attanti del trittico: il diabolico Tentatore, e il povero Sant’Antonio.
Il ruolo mefistofelico è nuovamente affidato a Tadeus, che tenta
l’io narrante con le parole pronunziate in punto di morte. Adesso
il protagonista vuole capire il senso di quella frase, e scovare le
motivazioni del suicidio di Isabel. Tuttavia la concupiscentia ocu-
lorum, il desiderio di “vedere” (per capire) è minacciato dalla
cecità. Spesso, durante l’allucinazione lisbonese, il protagonista
«fecha los olhos», chiude gli occhi. Lo fa quando deve ingoiare il
primo boccone del pesante sarrabulho o quando entra nella casa
del guardiano del cimitero per abituarsi all’oscurità. Più l’italiano
tenta di fare chiarezza su alcuni particolari della sua vita, più è
costretto a chiudere gli occhi (o forse la cecità è la vera visione).38
36
Tre anni dopo, il binomio di “gelso e Azeitão” ritorna negli Ultimi tre giorni di
Fernando Pessoa. In un delirante dialogo tra Pessoa e il suo eteronimo Ricardo Reis,
quest’ultimo gli confessa di non essere mai stato in Brasile, ma sempre sotto un gelso in
casa di amici in Azeitão. Cfr. A. Tabucchi, Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa. Un
delirio, Palermo, Sellerio, 1994, p. 30. In Requiem, allora, il gelso dell’Azeitão rinvia, con-
temporaneamente, a due maestri di Tabucchi: Bosch e Pessoa.
37
A. Breton, L’arte magica, trad. di R. Lucci, Milano, Adelphi, 1991, p. 180.
38
Anche il guardiano del cimitero ha problemi con gli occhi: ha una cateratta, che
ostacola la sua percezione visiva.
134
Persino la luce lattiginosa di Lisbona è così accecante da confondersi
con la tenebra: e l’io narrante vagola in uno scenario dai forti
contrasti chiaroscurali. Ritmato da dissidi di luci e ombre, Requiem
non mutua solo il ductus da un quadro, ma diventa in sé un allu-
cinato tableau vivant.
Per dare l’ultima pennellata al suo quadro/libro, il narratore at-
tinge alla tavolozza della malinconia. È notte; c’è la luna; una lieve
brezza solleva le foglie del gelso. Il protagonista è tornato nella
campagna dell’Azeitão, e ad alta voce dice «addio»:
Boa-noite, disse, ou melhor: adeus. A quem ou a quê estava a dizer adeus?
Não sabia bem, mas era o que me apetecia dizer em voz alta.39
Forse la domanda trova una risposta nel finale di A mão que
(me) acenava di O’Neill, testo tradotto da Tabucchi, in cui l’io
si ritrova «a dizer adeus ao tempo errático», che ha vissuto fino
a quel momento.40 Come l’«io» di O’Neill, il protagonista di Re-
quiem dice addio al tempo «errabondo» trascorso. Ma il suo è
anche un addio al Portogallo, che dall’isolamento secolare è
passato alla (falsa) postmodernità. E Requiem diventa per Tabucchi
una sofferta, e divertita, palinodia delle esperienze narrative pre-
cedenti.
La parola FIM, «fine», collocata in maiuscolo nell’ultima pagina,
segna la vittoria dell’io narrante che riesce a resistere alla tentazione.
Ma il sottotitolo di Requiem, «alucinação», divelle il congedo con-
solatorio: e invita il lettore a diffidare di ogni possibilità di catarsi
effettiva nel mondo reale. La «boa-noite» sarà un augurio illusorio,
perché la notte tornerà presto ad essere agitata da nuovi (o meglio,
vecchi) incubi. Di matrice fiamminga, naturalmente.
Un’apparente divagazione: la sindrome di Stendhal e Monsieur le Touriste
Nel museo di un paese straniero, stremato dal caldo, e davanti
al quadro prediletto, il protagonista di Requiem rischierebbe di
39
A. Tabucchi, Requiem, op. cit., p. 128, corsivo mio. Riporto il passo nella traduzione
di Vecchio: «Buonanotte, dissi, o meglio: addio. A chi, o a cosa stavo dicendo addio? Non
lo sapevo bene, ma era quel che mi andava di dire ad alta voce». A. Tabucchi, Requiem
[1992], Milano Feltrinelli, 2002, p. 129.
40
Riporto la traduzione di Tabucchi: «La mano sbucò dal finestrino e salutò. Era il
mio tempo che mi chiamava. Ero io che stavo dicendo addio al tempo errabondo che avevo
vissuto fino allora». Cfr. A. O’Neill, Made in Portugal, op. cit., p. 16.
135
essere facile preda della sindrome di Stendhal. Ovvero: di quel
«perturbamento, che acquista sintomatologie diverse a seconda
dei casi, e che colpisce il viaggiatore nelle città d’arte».41 La defi-
nizione ha un timbro familiare: la fornisce Antonio Tabucchi, re-
censendo La sindrome di Stendhal, il libro della psichiatra fiorentina
Graziella Magherini. È il maggio ’89, due anni prima dell’uscita
di Requiem; ma Tabucchi, del singolare malessere, si ricorderà
scrivendo il suo libro portoghese. E invertirà solo i termini: non
più un turista straniero a Firenze, ma un viaggiatore italiano a
Lisbona. Davanti al trittico di Bosch e sentendo le parole del Co-
pista, il personaggio tabucchiano accusa i sintomi riscontrati dalla
Magherini nella maggior parte di turisti colpiti dalla sindrome: i
battiti cardiaci accelerano («o meu coração começou a bater mais
rápido») e il sudore irrora le membra («senti que estava a suar»).
Tuttavia, l’io narrante di Requiem resiste, e si arresta ai primi
stadi del «conflitto estetico».
Alla sindrome di Stendhal Tabucchi rende omaggio, nel ’97,
con un raccontino curioso (e sconosciuto in Italia) dal titolo Succede
a Firenze, collocato a mo’ di introduzione in una guida francese
della città di Firenze.42 Il malcapitato turista è un generico «Monsieur
le Touriste», che dopo aver dedicato un’intera giornata all’arte
viene ricoverato all’ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze. Con
una diagnosi inconfutabile: sindrome di Stendhal.
All’uscita degli Uffizi («un des plus beaux musées du monde»),
il Monsieur aveva cominciato ad avvertire i primi sintomi: si sentiva
stordito; nella sua mente i cavalli della Battaglia di San Romano di
Paolo Uccello si sovrapponevano all’Ercole e Anteo del Pollaiolo e
all’Annunciazione di Filippino Lippi; e la fisionomia dolce e raffinata
della figura di Lippi diventava «menaçante». Per recuperare la
calma, il turista aveva letto il passo di Francastel sulla Battaglia di
San Romano, ma non era bastato; e nemmeno i panini al tartufo e
il bicchiere di Brunello gustati al caffè Rivoire avevano frenato l’a-
vanzata del morbo. Con la visita alla Deposizione di Pontormo nella
Chiesa di Santa Felicita, la situazione era precipitata: uscito dalla
chiesa ed entrato in un bar, il Monsieur era stato portato d’urgenza
all’ospedale.
41
A. Tabucchi, E il fragile turista ha perduto la testa, «Il Corriere della Sera»,
19/05/1989, p. 5; rist. in Id., Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli,
2010.
42
A. Tabucchi, Succede a Firenze, trad. fr. di N. Bauer, in M. Pierre, Florence, Paris,
Éditions Autrement, 1997, pp. 6-13.
136
Dopo l’esperienza fiorentina, il turista avrà seguito di certo il
consiglio elargitogli dall’uomo anziano che lo aveva soccorso:
Vous savez, cher ami, il faut savourer l’art à petites doses.43
«À petites doses», come a dire: per dettagli. Ritorna l’arte del
Copista di Requiem, che smembra il trittico di Bosch in particolari.
Prelevare singoli ritagli è allora un modo per mitridatizzare gli
effetti collaterali della fruizione artistica. Effetti collaterali, di cui
spesso sono vittime i personaggi tabucchiani travolti nella miscela
esplosiva di museo e calura infernale.
A volte ritornano: Bosch dopo Requiem
Che la «FIM» di Requiem sia una falsa fine lo prova un nuovo
corpo consumato dal fuoco di Sant’Antonio. Appartiene a Cecco
Angiolieri, protagonista di Sogno di Cecco Angiolieri, poeta e be-
stemmiatore.44 In preda ai tormenti dell’herpes zoster, Cecco sogna
di entrare nel duomo. Indispettita dalle sue bestemmie, la Vergine
dipinta lo trasforma in gatto fulminandolo con lo sguardo: da
“attiva” la pittura si fa animata.
All’uscita della chiesa, Cecco, in versione felina, diventa bersaglio
di una banda di ragazzacci, che gli appiccano fuoco con una torcia.
Poco dopo, Cecco si risveglia dall’incubo, ma il suo corpo continua
a bruciare a causa dell’herpes zoster. Per via patologica, Bosch oc-
chieggia così tra i sogni immaginari di artisti di Sogni di sogni. Del
resto, l’assenza del Fiammingo, che non compare in modo esplicito
nella raccolta consacrata da Tabucchi ai maestri prediletti, avrebbe
troppo insospettito.45
43
44
Ivi, p. 12.
A. Tabucchi, Sogno di Cecco Angiolieri, poeta e bestemmiatore, in Id., Sogni di sogni,
Palermo, Sellerio, 1992, pp. 26-28.
45
Seppure il successivo Sostiene Pereira (1994) sia ambientato a Lisbona negli anni
del regime di Salazar, le mostruosità di Bosch non compaiono fra le sue pagine. È come
se il registro realistico scelto per raccontare la storia del giornalista Pereira (e significati-
vamente il sottotitolo del libro è «una testimonianza») rifiutasse le immagini fortemente
simboliche del pittore. Il rimorso, però, divora sempre il protagonista. Dopo aver incontrato
i due giovani attivisti, Pereira avverte una sorta di pentimento per aver creduto che la
letteratura fosse la «cosa più importante» di tutte. Stavolta la rappresentazione del
rimorso è affidata al racconto Honorine di Balzac, definito un «racconto sul pentimento»,
che Pereira traduce per il suo giornale. Cfr. A. Tabucchi, Sostiene Pereira [1994], Milano,
Feltrinelli, 2007, p. 77.
137
 Un altro toscano, dopo Cecco, si confronta con Bosch. La sua
carne non è più divorata dal fuoco di Sant’Antonio, ma ha una
gamba rosicata dalla cancrena. È Tristano, il vecchio agonizzante
che racconta la sua vita nella villa di campagna di Malafrasca. Nel
suo monologo/delirio, le mescolanze di Bosch tornano sub specie
«gambusinen». Creature intermedie tra i crostacei e i pesci con
branchie e pinne, i gambusinen appartengono, come spiega Tristano,
alla «zoologia fantastica» di «disturbati» o di «poeti che non hanno
mai scritto poesie».46 Da giovane, Tristano assicura di averli mangiati,
mentre ora sembrano estinti, forse scomparsi tra le macerie della
Storia. Tuttavia, i gambusinen possiedono ancora un grande potere
evocativo. Ciò che richiamano è, ça va sans dire, il rimorso. Tristano
ricorda il gusto afrodisiaco dei gambusinen; e subito dopo menziona
il terribile agosto in cui ha perso Ignacio, il figlio adottivo che gli
aveva affidato la sua compagna Marilyn e che non è riuscito a
salvare. Per il vecchio Tristano il senso di colpa è tuttora soffocante.
Specie ittiche e senso di colpa: alla triade d’ascendenza fiam-
minga, che Tabucchi traccia di consueto sulla pagina, manca un
termine. O meglio, un nome: Tadeus. E Tabucchi ci accontenta.
In Tristano muore, l’amazzone diabolico di Notte, mare o distanza
ha preso la cittadinanza italiana; ed è diventato «Taddeo», l’amico
partigiano di Tristano. Adesso Taddeo gestisce una pensione, la
«Taddeo Zimmer», e prepara succulenti cacciucchi. La familiarità
con le creature acquatiche insomma non l’ha persa; i poteri tentatori,
invece sì.
Di fatto, Taddeo passa il testimone di Tentatore a una donna,
Marilyn, che convince Tristano (o almeno così lui racconta) ad ac-
compagnarla in Spagna. Cedendo alla tentazione femminile, Tristano
procrastina però il ritorno da Daphne, il grande amore inseguito
per tutta la vita. La lettera che Tristano ricorda (o, più probabil-
mente, immagina) di aver ricevuto da Daphne non può allora che
essere un «ectoplasma del rimorso», ed emergere dagli «abissi […]
come una cernia che inesorabile risale il tempo dai suoi fondali
finché un giorno sbuca a boccheggiare a fior d’acqua».47 Il Sigamos
o cherne di O’Neill torna a far vibrare la pagina. Lo scorrere del
tempo non acquieta i personaggi di Tabucchi; e nessuno di loro,
invecchiando, riesce ad affrancarsi dai rimorsi. Né tanto meno dalle
loro figurazioni pittoriche.
46
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 54.
47
Ivi, p. 144, corsivo mio.
138
3.3
Tra sogno e realtà: il Goya di Tabucchi
È il 1936. Alla Mostra Internazionale del Surrealismo, che si tiene
a New York, viene esposto, accanto alle opere dei surrealisti contem-
poranei, il ciclo grafico dei Capricci di Goya. Gli artisti che si riuniscono
attorno a Breton considerano il pittore dell’Ottocento un loro antenato
pittorico: Goya è riuscito a dipingere le turbe dell’inconscio.
Se il destino glielo avesse concesso, Tabucchi non si sarebbe certo
lasciato sfuggire l’occasione di visitare l’esposizione londinese. E non
solo per ammirare le opere di Ernst o di Dalí. Il Goya di Tabucchi è
simile al Goya di Breton: un visionario, un artista del sogno (o meglio,
dell’incubo che è lemma martellante fra le pagine più goyesche dello
scrittore). Insomma: uno straordinario surrealista ante litteram.
Con in mente Breton, Tabucchi definisce il Capriccio «un court-
circuit fondé sur un saut logique» attraverso il quale «la logique se
défait, l’univers connu devient “autre” et la réalité acquiert un sens
différent». E chiosa: «Voilà pourquoi Goya fascina Breton et les
surréalistes».1
Tuttavia, tra le pagine di Tabucchi ci s’imbatte anche – e sempre
più spesso con l’avanzare degli anni – in un Goya più “politico”.
O meglio, impiegato in funzione politica. Tabucchi non fa appello
solo all’ironia pungente dei Capricci, ma ricorre anche all’orrore
atroce dei Disastri della guerra, in cui Goya denuncia i crimini degli
invasori francesi nella Spagna del 1808. Con l’arrivo di Napoleone
e delle sue truppe, la fede illuminista di Goya s’incrina; le sue opere
si popolano di cadaveri e di scheletri: e l’artista diventa il pittore
della carne offesa. Del Goya che registra il deragliamento dei propri
ideali, e immortala lo shock del reale sul corpo delle vittime, Tabucchi
si serve per affrontare i disastri del mondo contemporaneo. D’altronde,
il sabba di Goya, come afferma Baudelaire, è «il sabba della nostra
civiltà».2
1
A. Tabucchi, Vingt photogrammes pour Pedro Almodóvar, trad. dall’italiano di B. Com-
ment, in B. Benoliel, E. Charbit, M. Orléan, F. Strauss, ¡Almodóvar:exhibition!, Paris/Madrid,
Éditions du Panama/ La Cinémathèque Française/ El Deseo, 2006.
2
C. Baudelaire, Alcuni caricaturisti stranieri, in Id., Opere, trad. it. di G. Guglielmi ed
E. Raimondi, a c. di G. Raboni e G. Montesano, introd. di G. Macchia, Milano, Mondadori,
1996, p. 1151.
139
 Artista visionario e pittore del reale è allora il Goya di Tabucchi.
Un po’ al modo in cui lo stesso scrittore è insieme narratore com-
promesso con sogni e allucinazioni, ma anche elzevirista lucido e
tagliente. Prima era accaduto con Bosch, ora è la volta di Goya: il
confronto di Tabucchi con i modelli pittorici del passato si risolve
spesso in un’identificazione con essi.
Due grandi visionari: Don Sebastiano de Aviz e Francisco Goya
Con un cortocircuito temporale – e di cortocircuiti, ha notato
Tabucchi, è ricca l’opera di Goya – s’inaugura la lettera, che il re
portoghese Don Sebastiano de Aviz indirizza a Francisco Goya.
Da una «dimensione di tenebra nella quale il futuro è già qui», il
re, vissuto nella seconda metà del Cinquecento, si rivolge a Goya,
pittore di due secoli successivi, per commissionargli un quadro. L’e-
pistola, intitolata Lettera di Don Sebastiano de Aviz, re di Portogallo,
a Francisco Goya, pittore, appartiene a Passato composto. Tre lettere,
un ciclo di lettere immaginarie inserite nella raccolta dei Volatili
del Beato Angelico.3
La fama di Goya sarà pure riuscita a viaggiare nel tempo, ma
non può, da sola, aver convinto il re a prendere carta e penna. Di
certo, il sovrano avrà avvertito altre affinità con il pittore. Sin dal
periodo di transizione, in cui vivono entrambi anche se in secoli
diversi. Sotto il regno di Don Sebastiano, il Portogallo raggiunge
l’apogeo espansionistico, ma s’intravedono già crepe allarmanti (e
alla morte del re, una terribile crisi dinastica causerà una lunga do-
minazione spagnola). Dal canto suo, Goya vive il drammatico pas-
saggio dal XVIII secolo al XIX, con rivolgimenti politici che asso-
migliano a violenti terremoti (dalla Rivoluzione Francese alle cam-
pagne di Napoleone). Eppure, ciò che più accomuna il sovrano e
l’artista è la natura visionaria. Quella del re è una visionarietà di
tipo politico: Don Sebastiano vagheggia di estendere l’autorità por-
toghese fino alla Palestina, dando vita a un Quinto Impero; mentre
la visionarietà di Goya è di carattere artistico: le sue opere restitui-
scono visioni allucinate e terrifiche. Abdicando alla lucida razionalità,
Don Sebastiano e Goya sono ambedue seguaci dei «capricci», intesi –
3
Le altre due lettere “impossibili” sono: Lettera di Mademoiselle Lenormand, cartomante,
a Dolores Ibarruri, rivoluzionaria e Lettera di Calipso, ninfa, a Odisseo, re di Itaca. Il titolo,
Passato composto, rinvia a un particolare tempo verbale portoghese, il Pretérito Perfeito
Composto. Ringrazio il Dott. Davide Conrieri per la segnalazione.
140
etimologicamente – come sinonimo di fantasia. Non a caso, il re si
rivolge a Goya menzionando questo ciclo grafico:
[…] ho sentito raccontare che le vostre mani sono insuperabili a dipingere
carneficine e capricci.4
«Carneficine e capricci»: il sovrano inverte l’ordine cronologico
con cui Goya realizza le opere, e richiama prima I disastri della
guerra e poi i Capricci. Se l’esordio epistolare è incentrato sulle
opere realizzate da Goya dopo il ’92, il prosieguo della lettera re-
cupera quelle precedenti. Non in modo esplicito, ma attraverso il
ricordo – velato di rimpianto – della terra di Aragona. Di questa
zona, che il re ha «cara», è originario Goya. Lavorata dalla «soli-
tudine» e immersa nel «silenzioso verde» dei cortili, la regione spa-
gnola offre a Goya l’ispirazione per la produzione idillico-campestre
dei bozzetti per arazzi o dei quadri sulle stagioni.
Conclusa la captatio benevolentiae, Don Sebastiano palesa il
motivo della sua lettera. Il sovrano vuole che Goya realizzi un
quadro per lui. Se nel caso di Velázquez e di Bosch, il lettore, tra
le pagine di Tabucchi, si è imbattuto in ekphrasis di quadri esistenti,
ora deve confrontarsi con un quadro ancora da dipingere.
Sulla parte destra della tela, il re ordina a Goya di rappresentare il
Sacro Cuore di Gesù avvolto di spine. E pretende che l’immagine
dipinta rispetti fedelmente l’anatomia del cuore umano, perché «per
patire in croce Nostro Signore si fece uomo e il suo cuore scoppiò uma-
namente». Forse, allora, il re non conosce solo l’abilità di Goya nel
creare «carneficine e capricci», ma condivide anche la lettura in chiave
umana che Goya fa del cattolicesimo: il Cristo dell’Orazione nell’orto
ha il volto sfigurato dal dolore. Con le disposizioni di Don Sebastiano,
compare sulla pagina il Goya “pittore del corpo martoriato”.
Per mettere in risalto la natura umana di «Nostro Signore», il re
si spinge oltre: e prescrive che una lancia sia ben conficcata nel cuore,
cosicché la sua lama possa creare «uno squarcio dal quale il sangue
scorra copioso». Ma lo «squarcio» nella carne richiama altre visioni:
barocche e caravaggesche. Quella del re, insomma, è una lettura barocca
di Goya. In anticipo, per così dire, sulle osservazioni, che Eugenio
D’Ors formula a proposito del barocchismo del maestro spagnolo.5
4
A. Tabucchi, Passato composto. Tre lettere, in Id., I volatili del Beato Angelico, Palermo,
Sellerio, 1987, p. 23.
5
Secondo D’Ors, il barocco di Goya si ritrova nel gusto per il dinamismo, il chiaroscuro,
il caotico, e l’informe (e deforme). Cfr. E. D’Ors, L’arte di Goya seguito da Tre ore al museo
del Prado e da Una nuova visita al museo del Prado, Milano, Bompiani, 1948, pp. 19-38.
141
 Se il cuore sanguinante di Cristo occuperà la parte destra del
quadro, un mostro nato dall’incrocio fra un piccolo toro e un cane
domestico inquieterà quella sinistra. La scena sarà velata da «un’om-
bra serale, pietosa e molle», e assiepati sul terreno giaceranno molti
cadaveri, che il pittore raffigurerà «incongrui e innocenti come
sono i morti». Vicino a loro, e fra le loro braccia, Goya dovrà col-
locare viole e chitarre, in una sorta di danza macabra. Prima il
cuore squarciato, poi il mostro diabolico, infine i cadaveri: il sovrano
intende rappresentare la triade di “carne, morte e diavolo”.
Come ultima immagine, in mezzo al quadro, il re chiede a Goya
di dipingere un vascello «fra nuvole e cielo». Non un’imbarcazione
che riproduca quelle reali, ma una nave che abbia la consistenza
del sogno. Una sorta di idea platonica di vascello, capace di incarnare
tutti i vascelli che hanno trasportato per gli oceani il popolo porto-
ghese e i suoi sogni. Con tanto di mostri e pesci partoriti dall’im-
maginazione della sua gente. Dopo aver dimostrato una sensibilità
barocca, adesso il re aderisce allo stile ornamentale manuelino, che
nelle architetture portoghesi dell’inizio del XVI secolo introduce
un repertorio marino di coralli, alghe, ancore, e funi.
Sulla prua del fantasmatico vascello, Goya dovrà dipingere una
polena, che raffiguri un volto simile a quello del sovrano. La figura
avrà un sorriso enigmatico, un po’ leonardesco, simile alla «nostalgia
irrimediabile» di chi è consapevole della vanità del tutto; e, soprat-
tutto, dei sogni.
In una nebbia irreale, il vascello commissionato da don Sebastiano
a Goya ha già solcato l’oceano dell’immaginazione. È accaduto nella
poesia L’ultima nave scritta da Pessoa per il poemetto esoterico Mes-
saggio. Nei versi di Pessoa, tradotti da Tabucchi, non c’è alcun cenno
a Goya, ma compare Don Sebastiano. L’ «ultima nave» è il vascello
che trasporta il re verso la sua ultima impresa, la disastrosa Crociata
contro i Mori. Nonostante il re perda la vita nella disfatta di Al-
Ksar el Kabir e la nave non possa più fare ritorno, l’io lirico immagina
di vederla arrivare su un mare senza tempo e senza spazio.6 Da una
«silenziosa follia» è afflitto anche il Don Sebastiano di Pessoa, che,
sempre in una sezione di Messaggio, rivendica il diritto alla pazzia
per conquistare la vera grandezza.7 Ma gli scambi tra i versi di Pessoa
e la prosa di Tabucchi non si arrestano. Se l’intero poemetto di
6
F. Pessoa, L’ultima nave, in Id., Una sola moltitudine [1979], a c. di A.Tabucchi e M.
J. de Lancastre, trad. di A. Tabucchi, Milano, Adelphi, 2003, vol. II, p. 167.
7
F. Pessoa, D. Sebastião. Re di Portogallo, in Id., Una sola moltitudine [1979], op. cit.,
vol. II, p. 153.
142
Pessoa è, scrive Tabucchi nella Nota introduttiva, «modellato sull’a-
raldica»,8 il quadro futuro sarà siglato, in margine, da alcune figure
«come segno araldico di un paese unico». Ispirata a L’ultima nave,
eppure miniata su precise suggestioni pittoriche, la Lettera di Don
Sebastiano de Aviz, re di Portogallo, a Francisco Goya, pittore diventa
una rilettura dell’opera di Pessoa in chiave goyesca.
Chissà se la lettera del re sarà mai arrivata a Goya e, in tal caso,
chissà se e quale sarà stata la risposta del folle pittore. Ma i dubbi di-
ventano pretestuosi. Da sempre, la pratica epistolare di Tabucchi
confina pericolosamente con l’assenza,9 e le lettere di Passato composto
non si sottraggono alla consuetudine. Semmai, la esasperano. «Provenienti
dal nulla, e al nulla dirette», le tre lettere, per ammissione dello stesso
scrittore, potrebbero persino essere tacciate di «non esistenza».10
Quadri come sogni, sogni come quadri: Sogno di Francisco Goya y
Lucientes, pittore e visionario
Di un unico sogno, a forma di vascello, racconta la lettera di
Don Sebastiano a Goya; di diversi sogni si compone il racconto
Sogno di Francisco Goya y Lucientes, pittore e visionario nella raccolta
Sogni di sogni. Il “sogno di sogno” non accenna alla lettera del re,
ormai dispersa nell’etere, ma Goya, dapprima destinatario dei sogni
di un altro, può finalmente sentir raccontare le sue personali visioni
oniriche. Per di più l’artista gode di una posizione privilegiata,
perché gli altri due pittori cari a Tabucchi, Velázquez e Bosch,
sono esclusi – almeno esplicitamente – dal libretto.
Sin dal binomio «pittore e visionario» del titolo, affiora l’im-
magine di Goya che Tabucchi sceglie per il suo “sogno di sogno”.
8
A. Tabucchi, Nota introduttiva, in F. Pessoa, Una sola moltitudine [1979], op. cit., vol.
II, p. 12.
9
Per una puntuale disamina della forma epistolare tabucchiana, cfr. P. Abbrugiati, Le déjà-
plus et l’à-jamais: la lettre tabucchienne, in Echi di Tabucchi/Échoes de Tabucchi, a c. di P.Abbrugiati,
Atti del Convegno Internazionale d’Aix-en-Provence, 12-13 Gennaio 2007, «Italies», N° S.,
2007, pp. 119-135; rist. in P. Abbrugiati, Vers l’envers du rêve. Pérégrination dans l’oeuvre d’Antonio
Tabucchi, Aix-en-Provence, Publication de l’Université de Provence, 2011.
10
A. Tabucchi, Nota a Tre lettere, «Il cavallo di Troia», N° 4, inverno/primavera 1982-
1983, p. 96. Le tre lettere di Passato composto sono comparse su rivista prima di essere
pubblicate all’interno de I volatili del Beato Angelico. In questa nota, poi scomparsa nell’edizione
in volume, Tabucchi spiega l’origine delle tre lettere. Negli uffici postali, si trova sempre
una bacheca in cui vengono esposte delle lettere, che non sono state mai recapitate e
nemmeno rispedite al mittente per inesattezze o lacune nei rispettivi indirizzi. Da qui l’idea
di scrivere tre epistole «impossibili».
143
Francisco Goya y Lucientes è, sì, un pittore, ma anche un «visio-
nario». Tormentato da allucinazioni, il pittore forza i limiti del
reale fino a farlo esplodere; e trasfigura la semantica quotidiana in
direzione fantastica.
Il “sogno di sogno” conferma l’origine onirica dei quadri di
Goya, secondo un’interpretazione avallata dal pittore stesso (nelle
Visioni di una notte Goya scrive di aver trasposto su carta, rielabo-
randoli, i sogni fatti durante una notte). Dal primo all’ultimo, i
sogni del Goya tabucchiano sono infatti i suoi quadri. Più che
sogni, sono però incubi mostruosi, simili a quelli che agitano Goya
nel Capriccio 43. Nell’acquaforte, Goya, accasciato sul tavolo da
lavoro, è assediato da uccelli notturni e da una civetta che gli offre
un bulino, affinché possa registrare su carta i suoi incubi. Per nulla
impaurito dalle creature sinistre, Tabucchi accetta l’invito della ci-
vetta. E, anziché il bulino, impugna la penna. Il suo Sogno di
Francisco Goya y Lucientes, pittore e visionario sviluppa in senso nar-
rativo il Capriccio 43, e la celebre didascalia che lo accompagna:
«Il sonno della ragione produce mostri».
A dispetto della libertà onirica, i sogni di Goya rispettano un
ordine cronologico. Che è l’ordine del suo iter artistico: dalle opere
delle giovinezza a quelle della maturità. Dopo aver sognato di spingere
il dondolo che culla l’amata con un «ombrellino di pizzo» (il rimando
è ai quadri Il parasole e L’altalena), il pittore si ritrova all’interno della
tela Fucilazioni del 3 maggio, insieme ai rivoltosi insorti che attendono
di essere giustiziati dalle truppe napoleoniche. La scena è illuminata
da una lanterna, che risulta «incongrua» perché il paesaggio è «assolato».
Nella lettera di Don Sebastiano, il re ha prescritto a Goya di ritrarre
i cadaveri «incongrui e innocenti»; nel sogno di Goya è la luce del-
l’incubo-quadro a essere «incongrua». L’aggettivo «incongruo», nella
scrittura di Tabucchi, qualifica lo stile di Goya: incongrue sono le sue
immagini, perché incongruo, assurdo, è il reale.11
La lanterna illumina «lividamente» la fucilazione. Si trova ai
piedi dei soldati che si sarebbero voluti garanti dell’ordine, e che
si rivelano carnefici: nei quadri di Goya è la luce, e non l’ombra,
ad acquistare significazioni negative.12 Allo stesso modo, nei libri
di Tabucchi sono demoni meridiani quelli che i personaggi spesso
devono affrontare in una luce infausta.
11
L’aggettivo «incongruo» è impiegato da Tabucchi anche per qualificare lo stile di
Bosch, come già evidenziato nel capitolo Effetto Bosch.
12
L’impiego sovversivo del chiaroscuro da parte di Goya è notato da John Berger,
citato in E. Fischer, L’artista e la realtà, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 218-219.
144
La ferocia del sogno/quadro della fucilazione sollecita Goya, ri-
masto solo, a brandire minaccioso il pennello. L’effetto è immediato:
i soldati, impauriti, scompaiono. Almeno nel sogno, la pittura sembra
incidere sul corso delle cose. Ma la fiducia assoluta nel mezzo ha
breve durata: i soldati cedono il posto a un «gigante orrendo», che
trangugia una gamba umana. Il suo ghigno è atroce, di ferocia e di
sarcasmo. L’arte, allora, può – e deve – rappresentare i mostri, ma
non riesce a esorcizzarli .
Il gigante della nuova, e terribile, visione è il Saturno di Goya.
Appartiene allo scandalo cromatico delle Pitture nere, che Goya di-
pinge sulle pareti della sua casa di campagna, la Quinta del Sordo.
La carta d’identità del mostro è inquietante – «sono il mostro del-
l’umanità, la Storia è mia madre» – e ben si accorda con la poetica
tabucchiana. Sin dai tempi di Piazza d’Italia, la Storia per Tabucchi
è uno scandalo interminabile: genera mostri, che dominano l’umanità
e la infettano di piaghe terribili.13 Di nuovo, il pennello impugnato
da Goya riesce a far sparire il gigante partorito dalla Storia, ma
subito compare una «megera sdentata», che sembra sottratta a una
scena stregonesca dei Capricci. È la disillusione, che troneggia nel
mondo perché i sogni degli uomini sono brevi. Della vanità del
sogno si è già accorto Don Sebastiano nella lettera a Goya, e del-
l’inconsistenza dei sogni, illuministi e rivoluzionari, si rende conto
Goya con l’arrivo di Napoleone in Spagna. Avanza, sulla pagina, il
Goya della crisi.
In un graduale crescendo di tensione drammatica, l’incubo di
Goya accoglie un «piccolo cane sepolto nella sabbia», del quale ri-
mane fuori solo la testa. «Sono la bestia della disperazione e mi
prendo gioco delle tue pene», si presenta al pittore.14 Di nuovo, la
prosopopea attinge al ciclo delle Pitture nere; e, in particolare, al
dipinto Il cane. Nei suoi colori desautorati, di ocra e seppia, la
bestia sepolta nella sabbia fino al collo è una delle immagine goyesche
ritornanti in Tabucchi.15
13
In Tristano muore, la Storia è additata come «dama priva di pietà che gli uomini cor-
teggiano invano». Cfr. A. Tabucchi, Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 108.
14
A. Tabucchi, Sogno di Francisco Goya y Lucientes, in Id. Sogni di sogni [1992], Palermo,
Sellerio, 2005, p. 40.
15
Il «cane» è già comparso nel racconto Esperidi, in cui il «piccolo cane giallo dall’aspetto
macilento» è il dio dell’Odio; mentre in uno scambio epistolare tra Antonio Tabucchi e
l’amico, e traduttore, Bernard Comment il cane diventa concrezione di rimorso: «Le remords
est un petit chien jaune couvert de plaies et qui se trouve dans une plaine désolée». Cfr. A.
Tabucchi, Esperidi. Sogno in forma di lettera, in Id., Donna di Porto Pim e altre storie [1983],
Palermo, Sellerio, 1993, p. 15; Tabucchi une écriture à l’écoute. Entretien sous forme des lettres
avec Bernard Comment, «Quai Voltaire», N° 8, Primavera 1993, p.93.
145
 Scomparso anche il cane, la summa onirica dell’arte di Goya Retrospettiva Goya, in mostra in questi giorni al Museo del Prado di
accoglie infine l’immagine del pittore stesso: un «vecchio grasso, Madrid. […] Particolare attenzione è dedicata alle opere più cupe e dissacratorie
con la faccia bolsa e infelice». Davanti al suo doppio (e il doppio è come I disastri della guerra e i quadri sui roghi dell’Inquisizione e sui sabba
che in quell’epoca popolavano la vita e l’immaginazione delle persone.17
un topos tabucchiano sin dalla coppia di gemelli di Piazza d’Italia),
il pittore non può più impugnare il suo pennello. «Contro di me
Modellato sulle opere «più cupe e dissacratorie» di Goya,
non potrai nulla», minaccia Francisco Goya y Lucientes a Francisco
l’incubo mostra il côté espressionista del pittore. Se Goya, suggerisce
Goya y Lucientes. Per tutta la vita il pittore «visionario» dovrà
Tabucchi, fosse vissuto nel XXI secolo, oppresso da conflitti e po-
venire a patti con le proprie turbe e visioni; e mai riuscirà a fuggire
polato da vittime di guerra, non gli sarebbe certo mancata la possi-
dal suo io travagliato. Non potrà nemmeno affidarsi al risveglio,
bilità di dimostrare la sua abilità nel «dipingere carneficine».18
perché questo non recherà alcun sollievo. Semmai, solo un senso
Lo scenario del sogno è un déjà vu tabucchiano: un molo di
di incolmabile solitudine.
una città mediterranea «illuminata da un sole meridiano». Vengono
in mente l’incipit di Requiem, e il suo protagonista che, a mezzo-
giorno di una domenica di luglio afosa e torrida, si trova sul molo
Il sabba della civiltà: Goya, il Medio Oriente… e lo Snark
lisbonese di Alcântara in attesa di un uomo. Al contrario di Re-
quiem, però, il narratore adesso è uno spettatore. Ciò che accade
Dapprima destinatario di una lettera impossibile, poi protagonista
sul molo, il sognatore lo vede attraverso uno «schermo»: lo schermo
di un incubo “artistico”: il Goya di Tabucchi predilige le plaghe
televisivo, come verrà chiarito alla fine. Attraverso questo dia-
irreali. Ma talvolta l’irrealtà riesce a cogliere l’essenza del reale con
framma, egli assiste a un aberrante spettacolo – il teatrino della
acume insospettato. È il caso dell’incubo in stile Goya, che nel
politica – «più vero del vero». Il tema, prediletto da Tabucchi,
2001 Tabucchi racconta in un articolo comparso su «l’Unità».
della finzione più vera del reale degenera nella subdola «verità
In versione minor, la storia sarà poi inserita nell’Oca al passo,
degli schermi televisivi».
raccolta di articoli costruita come il gioco dell’oca.16 Duplice è,
Sulle banchine del porto, la luce è «allarmante», come quella
insomma, l’incubo di Tabucchi: Ho paura di sognare intitola
di alcune «fotografie sovraesposte». Il dettaglio luministico rinvia
«l’Unità», mentre Il sonno della ragione produce mostri recita la
alle luci artificiali degli studi televisivi, ma luci allarmanti sono
casella dell’Oca al passo. Ovvero: la didascalia che accompagna
spesso anche quelle, incongrue, dei quadri di Goya. Ancora più al-
il Capriccio 43.
larmante sembra però l’odore di cadavere diffuso nell’aria. Al nar-
Su «l’Unità», il narratore racconta una sua angoscia onirica: il
ratore viene in mente una visita effettuata all’obitorio per riconoscere
sabba, lugubre e grottesco, della politica italiana. Al centro dell’in-
il cadavere di un amico (e il lettore tabucchiano ricorderà l’obitorio
cubo, un corteo di individui con arti artificiali. L’occasione, scrive
dove lavora Spino, protagonista del Filo dell’orizzonte, anch’esso
Tabucchi nella nota finale dell’articolo, è offerta dalla manifestazione
ambientato in una città portuale). Lo spettacolo, che di lì a poco
a favore dei bombardamenti in Afghanistan indetta da Giuliano
avrà inizio, si preannunzia mortifero.
Ferrara, e appoggiata dal governo Berlusconi. Anche per le fonti
Dal fondo del molo, avanza un corteo sinistro che, in modo scon-
pittoriche dell’incubo, Tabucchi è prodigo di indicazioni:
nesso, ripete parole, quali «guerra», «arti amputati», «corpi dilaniati»,
«teste maciullate», «sangue». È una sfilata di individui con protesi ar-
16
L’articolo compare su «l’Unità» l’08/12/2001 e, in versione spagnola, con il titolo
tificiali, anche se il sognatore se ne rende conto quasi alla fine. Il via
Cortejo de pesadillas, appare nell’edizione on-line del giornale argentino «Clarín», consultabile alla processione è dato da un uomo dai capelli «radi» e oleosi, che si
su www.clarin.com. Per la ristampa dell’articolo in volume, cfr. A. Tabucchi, L’oca al passo,
a c. di S. Verde, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 115-118. Di questo articolo ha parlato
17
Surdich, senza però affrontare l’influenza di Goya. L’obiettivo di Surdich era quello di con- A. Tabucchi, Ho paura di sognare, «l’Unità», 08/12/2001, consultabile su
siderare la «presenza della dimensione onirica in Tabucchi narratore». Cfr. L. Surdich, «Il http://www.unita.it.
18
principio della letteratura, raccontare il sogno di un altro». Forma e sostanza dei sogni nella Tra le altre fonti dell’incubo di cui lo scrittore dà notizia in nota, non mancano,
narrativa di Tabucchi, in I ‘Notturni’ di Antonio Tabucchi, a c. di A. Dolfi, atti di seminario, però, i Capricci, menzionati attraverso la «riproduzione anastatica de El libro de los Caprichos»
Firenze, 12-13 maggio 2008, Roma, Bulzoni, 2008, p. 27. pubblicata nel 1999.

146 147
presenta al pubblico come «dottor Melanoma» (allusione a Bruno Ve-
spa?). Il viscido individuo è l’officiante di una sinistra processione; il
suo dio è il dio Caprone. Ma il dio Caprone è Satana; così lo raffigura
anche Goya: la processione inizia a trascolorare in un sabba.
Alla guida del terrificante corteo c’è un uomo obeso, di cui
compare solo il tronco appoggiato su una tavola di legno con quattro
ruote. Il suo carro carnascialesco sbandiera due vessilli: «I combattenti
e i reduci delle guerre di civiltà» e «Gli amici di Adriano». L’obeso
è Giuliano Ferrara, promotore di una manifestazione militarista;
mentre Adriano è Adriano Sofri, amico-nemico di Ferrara, che Ta-
bucchi ha già chiamato come interlocutore nel suo «libriccino» La
gastrite di Platone. Infine, le «guerre di civiltà» sbandierate dal
vessillo richiamano la “civilizzazione”, che gli Stati Uniti esportano
in Medio Oriente con bombardamenti e mine. Da qui, l’ingente
numero di civili invalidi costretti a impiantare protesi artificiali.
Menade della processione, cupa e dionisiaca, è la moglie del «gras-
sone», che si vanta, urlando, di aver impartito l’educazione sessuale
agli italiani. Completano il corteo ministri della Repubblica e uomini
sinistri implicati in traffici loschi. Uno di loro, per un momento, sembra
rivolgersi direttamente al narratore, minacciandolo di farlo incriminare,
se oserà denunciarlo. E lo invita a scrivere «romanzi e basta».
A benedire la processione, con tanto di aspersorio, è un vecchietto
«bonario» vestito da «chierichetto». La metamorfosi in sabba è sul
punto di compiersi. Accompagnata da una musica dall’intensità cre-
scente, ha inizio una «danza carnevalesca» di un’insopprimibile vi-
talità. Seppure con arti artificiali, i reduci continuano a sentirsi
vivi, un po’ come chi partecipa alla danza, insieme euforica e
lugubre, del mercoledì delle ceneri nella Sepoltura della sardina o
come chi si unisce alla folla disforme e scomposta del Pellegrinaggio
a San Isidro. Opere, queste, entrambe partorite dal pennello di Goya
e ambedue alluse dall’incubo tabucchiano.
All’improvviso, il sognatore sente abbaiare un cane «nelle te-
nebre»; poi la voce «gracchiante» di una strega gli attraversa i tim-
pani. La megera vorrebbe abbracciarlo, ma il narratore si risveglia
all’improvviso: sullo schermo televisivo compare la polverina elettrica,
che indica la fine delle trasmissioni. Trionfa il più amaro sarcasmo:
Per fortuna mi ero svegliato alla realtà: intorno a me c’era solo l’Italia
di oggi.19
19
A. Tabucchi, Ho paura di sognare, op. cit.
148
Lo sfacelo italiano – e mondiale – si confonde con il peggiore
degli incubi.
Nell’angoscia onirica, accanto ai reduci, simili a marionette alla
Goya, sfilano le immagini goyesche più importanti per Tabucchi.
Dalle scene di sabba dei Capricci ai corpi martoriati dei Disastri
della guerra al cane sepolto nella sabbia della Pitture nere. Il clima
diffuso, di tradimenti e delazioni, richiama poi le opere consacrate
da Goya al Tribunale dell’Inquisizione. Nel terribile tribunale, i
volti indistinti degli imputati e dei testimoni mimano, tra luci e
ombre, il caos in cui è sprofondata l’amministrazione della giustizia.
Ma è l’idea di satira, feroce e grottesca, dei Capricci a divenire
modello del sogno di Tabucchi. Quella satira che abbonda di allusioni
a personaggi ed eventi del tempo di Goya, ma assume una valenza
assoluta. Così Tabucchi non fa nomi e cognomi (casomai, li relega
in nota), e si scaglia contro la civiltà occidentale tout court, del
passato e del presente. Con immagini o con parole, Goya e Tabucchi
si ergono a fustigatori delle società di tutti i tempi.
Di un incubo alla Goya, con riferimento alla bruciante attualità –
stavolta portoghese – ha raccontato anche lo scrittore Cardoso Pires.
In un testo scritto per il catalogo fotografico di Gageiro, Cardoso
Pires ritrova I Capricci e I Disparates del «magnífico visionário»
(ancora la qualifica di «visionario») nel Portogallo degli anni ’70.
La nazione è prostrata dalla dittatura e dalla miseria, e Cardoso
Pires si rivolge direttamente al «Senhor» Francisco Goya descri-
vendogli il Portogallo come un «mundo de estropiados em marcha».20
Un mondo di mutilati simile al corteo di invalidi, che sfila nel sabba
tabucchiano. Spagna, Portogallo, Italia: negli anni, i conflitti cambiano
scenari; identico rimane invece il modello pittorico – goyesco – scelto
per rappresentarli.
Il lettore che desiderasse saperne di più sull’incubo del sabba,
e magari volesse conoscere il destino del sognatore dopo il suo ri-
sveglio, dovrà aspettare un paio d’anni. E imparare il portoghese.
Nel 2004, Tabucchi infatti recupera il sogno comparso su «l’Unità».
E lo inserisce in un testo, scritto direttamente in portoghese, per
il catalogo delle opere del pittore Júlio Pomar. Stavolta il titolo
non accoglie nessun elemento onirico, e recita: Um curandeiro na
cidade à borda d’água.21
20
J. Cardoso Pires, Lá Vai o Português, in E. Gageiro, Gente, Ed. O Siculo, 1971, rist.
in J. Cardoso Pires, E agora, José?, Lisboa, Dom Quixote, 1999, pp. 24-25.
21
A. Tabucchi, Um curandeiro na cidade à borda d’água, in Júlio Pomar: a Comédia
humana, Lisboa, Fundação Centro Cultural de Belém, 2004, pp. 38-47; rist. in A. Tabucchi,
Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
149
 Il nuovo racconto ha inizio con il risveglio di un uomo dopo
una notte assai travagliata. Ancora sconvolto, egli telefona a un
amico, Ferruccio, per raccontargli il sogno che ha fatto.22 Anziché
sentire la voce familiare dell’amico, l’uomo s’imbatte in una voce
artificiale di donna che lo invita a lasciare un messaggio. Crede di
aver sbagliato numero, e riprova: stavolta la voce sembra spazientirsi,
e gli intima di decidersi a lasciare un messaggio perché anche gli
strumenti possono irritarsi. Sempre più turbato, l’uomo racconta
di aver ricevuto una strana lettera, che crede sia all’origine dell’incubo
avuto la notte passata. Si tratta del resoconto delle ultime ore di
vita di Papa Luciani, fatto dalla suora che lo ha assistito nel trapasso.
Prossimo alla fine, il Papa non ha avuto l’apparizione della Madonna,
ma di uno Snark. Ciò che ora turba il protagonista è il fatto di
aver sognato lui stesso lo Snark.23 Di fatto, il sogno che di lì a
poco il sognatore racconta alla voce artificiale non è altro che la
traduzione in portoghese dell’incubo pubblicato da Tabucchi su
«l’Unità».24 Ma cos’è questo Snark? Lo spiega la voce artificiale:
[lo Snark] é o que está a correr nas veias da História hoje em dia.25
Lo Snark è il «caos primordial», ma è anche l’assurdo che scorre
nelle vene della Storia. A questo informe crogiolo di Tutto e di
Niente, Lewis Carroll dedica un poemetto, Caccia allo Snark, trionfo
del nonsense. Del viaggio alla (vana) ricerca dell’ineffabile Snark,
Pomar offre un rilettura visiva in una serie di quattro trittici dalle
forme fluenti e indefinite.26 Inserendo lo Snark nel suo racconto,
Tabucchi tributa un omaggio doppio: a Carroll e a Pomar.
Il resoconto onirico, che il sognatore offre alla voce artificiale,
si conclude sempre con il suo risveglio davanti alla televisione, ma
22
Il nome «Ferruccio» compare anche in Tristano muore, ma è solo un nome. Più che
un personaggio, Ferruccio è il fantasma di un personaggio.
23
Il sognatore non può nemmeno chiedere spiegazioni alla suora, perché è morta. Forse,
addirittura, è stata assassinata perché, dopo la rivelazione del Papa, è divenuta un personaggio
scomodo.
24
La traduzione in portoghese del sogno è di Gaëtan Martins de Oliveira. Lievi sono
le differenze tra la versione originale italiana del sogno e quella portoghese. Per esempio,
l’amico che il sognatore deve identificare all’obitorio diventa un giornalista «que fora baleado
pela polícia»; o viene introdotto il grido «Viva o Snark!» nell’ovazione che dà inizio al
sabba; o, ancora, viene soppresso il richiamo al caso Sofri.
25
A. Tabucchi, Um curandeiro na cidade à borda d’água, op. cit., p. 41.
26
Le forme colorate di Pomar, che soltanto accennano alla figura umana, mimano il
basculare di Carroll tra sense e nonsense. Cfr. H. Wohl, Júlio Pomar: a Comédia humana, in
Júlio Pomar: a Comédia humana, op. cit., p. 12.
150
non accoglie più il riferimento sarcastico alla realtà italiana. Dopo
averlo ascoltato, la voce metallica – una sorta di Inconscio «con-
sciente» – gli offre una diagnosi precisa. L’uomo sognatore soffre
molto e, per lenire le sue pene, deve recarsi da un guaritore, che
vive in quella città «au bord de l’eau» alla quale accenna Baudelaire
in Any where out of the world.27 Ma il consiglio della voce innesca
un gioco di rimandi letterari. Il poème en prose ha dato il titolo a
un racconto di Piccoli equivoci senza importanza. Se, nella storia
scritta da Tabucchi negli anni Ottanta, l’«any where out of the
world» costituiva un segno d’intesa fra due amanti, adesso indica
un luogo paradisiaco, nato però dalla sofferenza di qualcuno che
«sofreu na sua própria carne». Nel finale di Um curandeiro na cidade
à borda d’água, ritorna il dramma della carne offesa.
Cosa il sognatore deciderà di fare (seguirà il consiglio della
voce?), il lettore non lo saprà mai. Nella migliore tradizione tabuc-
chiana, la storia non conclude. Per un verso, allora, con il racconto
dello Snark l’incubo di Tabucchi recupera la cornice, ma per l’altro
si complica di nuovi intertesti, pittorici (i quadri di Pomar) e letterari
(le opere di Carroll e di Baudelaire). Eppure, tutti questi artisti
hanno qualcosa in comune, come sottolinea Tabucchi nella consueta
nota informativa sulle fonti del racconto:
Mas na base deste conto está sobretudo a convicção de que só os grandes
artistas, que conseguem representar a loucura do mundo, podem ajudar o
mundo a defender-se da sua propria locura.28
Che si tratti di un articolo per un quotidiano o di un racconto
per un catalogo d’arte, emerge nitido il ruolo che Tabucchi assegna
all’artista. I grandi maestri non devono rifugiarsi nella torre d’a-
vorio, bensì mostrare la follia del mondo, e tentare di aiutarlo a
difendersene.
27
Anche Baudelaire è stato spesso immortalato da Pomar (si pensi all’opera Edgar Poe,
Charles Baudelaire et Le Corbeau del 1982). Una figura ancora più ricorrente nei suoi lavori
degli anni Ottanta e Novanta è Fernando Pessoa. Non a caso, nell’edizione francese de Gli
ultimi giorni di Fernando Pessoa. Un delirio viene inserita una serie di disegni di Pomar che
ritraggono Pessoa. Cfr. A. Tabucchi, Les trois derniers jours de Fernando Pessoa. Un delire,
con disegni di Júlio Pomar, Paris, Seuil, 1994. Conoscendo bene l’ammirazione di Pomar
per Pessoa, Tabucchi, in Um curandeiro na cidade à borda d’água, immagina che il suo
sognatore saluti dalla finestra Esteves, personaggio della Tabacaria di Pessoa.
28
A.Tabucchi, Um curandeiro na cidade à borda d’água, op. cit., p. 47. Fornisco la tra-
duzione italiana: «Ma alla base di questo racconto c’è soprattutto la convinzione che solo i
grandi artisti, che arrivano a rappresentare la follia del mondo, possono aiutare il mondo a
difendersi dalla sua stessa follia».
151
 L’abilità di Goya nel rappresentare la «follia del mondo» è pure
il nodo principale dell’Ultimo inquisitore (2006), il film di Milos
Forman che declina la vita e l’opera del pittore in chiave attualiz-
zante. Con allusioni, per via di metafora, alla politica di Bush e
alla democrazia, che il presidente si picca di esportare in Medio-
Oriente. Facendo dialogare le opere di Goya con la cronaca del
XXI secolo, Forman avrebbe certo apprezzato l’incubo tabucchiano
in stile Goya. E chissà, poi, che non lo abbia letto davvero.
Se Goya diventa chirurgo di guerra…
Per il giocatore/lettore arrivato alla casella trentaquattro del
gioco dell’Oca al passo, scenario del sabba onirico, il percorso
può proseguire nella casella attigua dal titolo Guerre vere e guerre
televisive. Tra i due riquadri, la contiguità non è solo di natura
spaziale, ma anche tematica. E goyesca, naturalmente. In una
sorta di dittico.
Ritorna – e si acuisce – la polemica contro la televisione, rea di
aver ribaltato il proverbio «lontano dagli occhi, lontano dal cuore».
Negli ultimi anni, la televisione ha moltiplicato le immagini dai ter-
ritori di guerra con l’unico effetto di anestetizzare le coscienze degli
spettatori. Per fortuna, c’è chi, come gli scrittori, racconta i conflitti
in modo diverso: attraverso la parola, che «non è imprigionata in
un tubo catodico». Nella querelle tra parola e immagine, Tabucchi
conferisce il primato alla prima.
Tuttavia, poco dopo Tabucchi rettifica: c’è stato anche qualcuno
che è riuscito a restituire le aberrazioni belliche con un’immagine
ben diversa da quella oppiacea televisiva. Ricompare il nome di
Goya, che, davanti agli orrori della guerra napoleonica, ha mutilato
la sua tavolozza delle gamme cromatiche più gioiose, facendo trionfare
le tonalità cupe e sinistre.
Come per l’incubo del sabba, il contenuto della casella Guerre
vere e guerre televisive è già apparso su «l’Unità».29 E il meccanismo
si ripete identico: editio minor per L’oca al passo, editio maior per
la pubblicazione sul quotidiano. Con il consueto cambio di titolo:
Elogio di Goya e del chirurgo di guerra intesta il giornale. Il chirurgo
di guerra è Gino Strada, medico impegnato nelle zone sconvolte
dai conflitti che Tabucchi accosta a Goya per la capacità di raccontare
29
L’articolo è pubblicato su «L’Unità» il 24/10/2002. Per la pubblicazione in volume,
cfr. A. Tabucchi, L’oca al passo, op. cit., pp. 119-121.
152
queste terribili esperienze. Entrambi – Goya con l’immagine, Strada
con la parola – rendono testimonianza della carne dilaniata dalla
guerra. Poco importa che il corpo offeso appartenga a uomini del
XIX o del XX secolo. Perché, come recita la poesia Torture della
Szymborska cara a Tabucchi, nei secoli «nulla è cambiato» nel
modo di provare il dolore fisico.30
Tuttavia, la testimonianza di Goya trascende sempre il piatto
e oggettivo valore testimoniale. Gli stessi Disastri della guerra nascono,
incisi su lastre, solo sei anni dopo i dolorosi avvenimenti ai quali
Goya ha assistito. Perduto ogni carattere aneddotico, le incisioni
rappresentano «la Guerra, tutte le guerre del mondo, di tutto il
passato, di sempre». È come, allora, se Goya, attribuendo lui stesso
un valore universale al ciclo grafico, ne autorizzasse l’impiego per i
posteri. Fra i quali, non ultimo, lo stesso Tabucchi.
Vanda, o l’impostura di Dio
Un garden-party, una donna che diventa un ufficiale tedesco,
un ufficiale tedesco con un arto artificiale che dice di essere ameri-
cano. È, questo, un incubo costruito sulla logica «strana» eppure
«così vera» dei sogni, che Tristano racconta nell’allucinato monologo
di Tristano muore. Ma uomini con arti artificiali hanno già popolato
le angosce oniriche di un altro personaggio tabucchiano: l’uomo
che sogna il sabba di invalidi nel racconto apparso sui quotidiani.
Non solo. In Tristano muore l’ufficiale disabile ripete, con voce
«metallica e gelida», la parola «freedom» che rimanda alla falsa
libertà promessa, sempre in quel racconto, dai promotori delle
«guerre di civiltà». Tra l’articolo e l’(anti)romanzo s’instaura allora
un fitto scambio. Eppure l’incubo della danza terribile, si è detto,
vanta come fonte anche le opere di Goya. Per una sorta di proprietà
transitiva, l’arte fosca e dissacratoria di Goya invade allora le pagine
di Tristano muore. Di nuovo, in un contesto irreale come quello
onirico.
Se nell’incubo del garden-party Goya è, per così dire, presente
in assenza, in altri momenti del monologo di Tristano il pittore ri-
torna in modo più manifesto. Sempre orbato del nome, e attraverso
un’unica opera: Il cane delle Pitture nere della Quinta del Sordo.
La povera bestia, sepolta nella sabbia fino al collo.
30
W. Szymborska, Torture, in Id., Vista con granello di sabbia. Poesie 1957-1993 [1998],
a c. di P. Marchesani, Adelphi, Milano 2007, p. 162.
153
 In Tristano muore, la prima comparsa del cane ricorda l’irruzione
della cernia agonizzante davanti al gruppo di ragazzi nel racconto
Notte, mare o distanza. Come la cernia delle Tentazioni di Sant’An-
tonio di Bosch, il cane moribondo di Goya esce dal dipinto e
invade il reale. «Sul tardi della loro vita» Tristano e Marilyn (la
donna americana amata da Tristano in gioventù che lui chiama
«Rosamunda») incontrano per strada una cagna vecchia, malandata.
O forse l’incontro non è mai avvenuto, ed è il frutto di una delle
frequenti allucinazioni di cui è vittima Tristano. D’altronde lo
scenario – luce «abbagliante» e caldo infernale – sembrerebbe
propizio al verificarsi di miraggi.31 O di visioni in stile Goya, per-
vase da una luce sinistra.
La cagna, vera o immaginaria che sia, è zoppa, emaciata. Subito,
Rosamunda la riconosce, e si rivolge a Tristano facendo appello ai
suoi ricordi:
Guarda, un cane, si chiama Vanda, te ne ricordi?32
Del cane, adesso, possono ricordarsi solo i personaggi. Per il
lettore, la scoperta dell’identità della bestia sarà più tardiva, e
arriverà una cinquantina di pagine dopo. Eppure, quel «te ne ri-
cordi?» ha tutto l’aspetto di un ammiccamento metaletterario. L’av-
vertito lettore tabucchiano dovrebbe infatti ricordarsi di un’altra
Wanda – stavolta con la «W» – incontrata tra le pagine dello scrit-
tore. Il travestito Eleutério Santos, detto Wanda, testimone oculare
dell’assassino di Damasceno Monteiro nel giallo La testa perduta di
Damasceno Monteiro. Lo va a intervistare il giornalista Firmino alla
fine del romanzo, pur sapendo che nessuno, data la natura del teste,
crederà alla sua deposizione:
Wanda è una povera creatura [...] una di quelle povere creature che si
aggirano sulla crosta del mondo e alle quali non è promesso il regno dei cieli.33
31
Nel mediometraggio Tristano e Tabucchi, Tabucchi dichiara che se il romanzo che
sta scrivendo (Tristano muore) arriverà a compimento, inizierà con l’episodio in cui Marilyn
e Tristano incontrano Vanda sull’asfalto. Ma poi Tabucchi avrà cambiato idea perché il
Tristano muore pubblicato non ha inizio con questo episodio, che è invece collocato una
decina di pagine dopo l’incipit. Tristano e Tabucchi è, come già detto nel capitolo Parla con
lui: il Verbo cinematografico di Tristano muore, un mediometraggio di Veronica Noseda e
Marcello Togni presentato in concorso al 56° Festival Internazionale del Film di Locarno
nella sezione Cineasti del Presente Video (CDPV).
32
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 18.
33
A. Tabucchi, La testa perduta di Damasceno Monteiro [1997], Milano, Feltrinelli,
2006, p. 235.
154
Non è poi così diversa la Vanda con la «V», che Tristano e
Rosamunda incontrano per strada. Solo di più goyesca fisionomia:
[…] Vanda è buona, una brava cagna, ha passato la vita sotterrata fino al
collo.34
Vanda è l’incarnazione del cane sepolto nella sabbia di Goya.
La sua è una carne offesa; la parte finale delle zampe è ridotta a
«carne viva». Anche il corpo di Tristano è martoriato, con quella
gamba rosicata dalla cancrena. Nel martirio fisico, la bestia e il
vecchio trovano un’intesa: ultima e disperata.
Con Vanda, Rosamunda spera – invano – di risarcire la mancanza
di figli. Rosamunda ha tanto desiderato essere madre, ma Tristano
non ha mai voluto, perché convinto che la donna gli mentisse. Ro-
samunda decide allora, su consiglio di Tristano, di tenere Vanda in
grembo e di darle il seno. Ma la cagna non vuole succhiare, e muore
all’alba (nella notte lisbonese del racconto Notte, mare o distanza, è
stata la giovane Joana a soccorrere la cernia moribonda).
Ancora senza un nome, la bestia è già apparsa a Tristano e Ro-
samunda in Spagna. È avvenuto in agosto; in una domenica di «ca-
nicola tremenda». Solitaria, la città sembrava sospesa in un’atmosfera
opalescente, rarefatta. Persino il museo, visitato da Tristano e Ro-
samunda per vedere Il cane di Goya, appariva irreale, quasi «fan-
tasmatico»; e i primi quadri simili ad «apparizioni». Benché taciuto
nel nome, il museo era Il Prado di Madrid. A più di vent’anni di
distanza dal Gioco del rovescio, il museo madrileno ritorna a calcare
la pagina. Con l’immancabile triade di museo, canicola e solitudine.
Di fatto, però, il Prado era comparso un’altra volta, in modo fugace,
nel racconto Il rancore e le nuvole. Ma il protagonista della storia,
abbietto e mediocre, aveva detestato «la vastità del Prado e quel
Goya paradossale e informe, tutto giocato sulla mostruosità barocca
e sulle fantasie romantiche».35 Ora, invece, Tristano si reca al Prado
proprio per far vedere alla sua Marilyn/Rosamunda l’opera di Goya.
Nell’atrio del museo, Tristano sembra addirittura avvertire il guaito
della bestia: la distinzione tra animato e inanimato si liquefà, e le
categorie tradizionali si fanno reversibili.
Per arrivare all’origine del guaito, Rosamunda deve seguire le
indicazioni di Tristano e tralasciare il resto dei quadri, «almeno
34
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 19.
35
A. Tabucchi, Il rancore e le nuvole, in Id., Piccoli equivoci senza importanza [1985],
Milano, Feltrinelli, 2006, p. 90.
155
per oggi» (come se un domani, per storie future, potessero servire).
Se Tristano fosse il direttore del museo, collocherebbe addirittura
una ciotola di acqua fresca davanti al quadro affinché la povera
creatura si possa dissetare. Ma i direttori dei musei sono sordi ai
«desideri dei loro quadri» e accettano che il cane «continui a soffrire
per sempre, come volle il pittore». Seppur indicato con la qualifica
generica di «pittore», Goya compare sulla pagina; e il cane ritorna
nella tela.36
Al Prado, il cane è «messo lì a soffrire affinché si sappia per
sæcula sæculorum qual è la sofferenza delle creature che non
hanno voce, che poi siamo tutti noi, o quasi».37 Anche in Tristano
muore la pittura di Goya assume un carattere testimoniale, ma
stavolta documenta l’infelice destino di tutte le creature, e il pa-
timento universale è sancito dalla formula liturgica cristiana («Sæ-
cula sæculorum»).38 Sofferente, la bestia contrasta con l’«aria
gioviale» del prelato raffigurato in un quadro vicino. Quasi che
la spiritualità creaturale dell’animale s’imponesse sulla falsa spi-
ritualità di chi è deputato per legge agli uffici religiosi. Quando
Tristano incontra (o meglio, a questo punto, rincontra) Vanda
sulla strada, la considera il parto di un «dio malato». E le assegna
una trinità degradata:
[…] una curva buia ti fa da padre, delle cicche masticate da figlio, e un
tempo che non è più quello da spirito santo […].39
36
In realtà, Goya non è il primo pittore a comparire nel monologo di Tristano. Nel
corso del suo racconto, il vecchio menziona la scandalosa Origine del mondo di Courbet, di
cui si è già parlato nel capitolo dedicato alla fotografia. Compare poi un quadro di Pontormo,
che con colori falsati e pop troneggia sull’etichetta di un’azienda agricola vicina a Malafrasca.
Il pittore che Tristano «amava sopra ogni altro» è così degradato a merce di consumo.
Courbet e Pontormo sono, però, come Goya, sempre orbati del nome. Cfr. A. Tabucchi,
Tristano muore, op. cit., pp. 33-34.
37
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 72. Per la “spiritualità” di Tristano muore,
cfr. T. Rimini, L’Évangile selon Judas: la spiritualité refusée de «Tristano meurt»/Il Vangelo
secondo Giuda: la spiritualità negata di «Tristano muore», in Pour Tabucchi. Les rencontres de
Fontevraud. Colloque littéraire, a c. di B. Comment e P. Deville, 8/9 maggio 2008, Saint-
Nazaire, MEET, 2009, pp. 249-266.
38
Già nella Genesi, Dio, come ricorda Tabucchi in una lezione tenuta presso il Centro
Didattico del Policlinico Le Scotte di Siena, avverte la donna dei dolori del parto e mette
in guardia l’uomo sulle sofferenze con cui trarrà il cibo dalla terra: «alla donna disse: molti-
plicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Con dolore partorirai i tuoi figli […]. All’uomo
disse: con dolore ne trarrai il cibo [dalla terra] per tutti i giorni della tua vita, spine e cardi
produrrà per te e mangerai l’erba campestre». Durante questa lezione, intitolata Il dolore e
la letteratura e svoltasi il 9 Maggio 2007, i versetti precedenti sono stati così commentati da
Tabucchi: «I primordi della nostra tradizione letteraria di dolore ne promettono molto».
39
A. Tabucchi, Tristano muore, op. cit., p. 19.
156
Il destino di Vanda è così irrimediabilmente segnato, che Tristano
arriva a chiedersi «a che pro, dio buono». E al Prado, si scaglia
contro Goya, il “creatore” che ha deciso il destino della sua “crea-
tura”. Nell’ultimo romanzo, la lettura tabucchiana di Goya si tinge
di metafisica, di un senso drammatico del sacro, e quasi coincide
con quella proposta da André Malraux. Per entrambi, Tristano e
Goya, la vita è «une imposture de Dieu».40
Prima di congedarsi, Tristano rende un ultimo omaggio alla
bestia. Ai piedi del quadro colloca una di quelle zucche vuote, che
un tempo erano utilizzate per mantenere l’acqua fresca. Ormai si è
fatto tardi; il guardiano «vuole chiudere questo cimitero». Dopo
aver acquistato un’ombra mortifera nel Gioco del rovescio, il Prado
si riconferma luogo di morte in Tristano muore.
Cimiteri e cani sepolti sono pure al centro della poesia Cemitérios
di Carlos Drummond de Andrade, contenuta nella raccolta Fazendeiro
do ar (1954).41 Il tema di Cemitérios è la sepoltura; il tono è l’amaro
sarcasmo. Protagonista della sezione intitolata Doméstico è un cane
sepolto nel cortile («o cão enterrado no quintal») insieme a tutti i
ricordi. Una ragazza, intravista nell’aria un’immagine del cane, chiede
alla madre che cosa rappresenti. Si tratta, le viene risposto, di un
animale di un altro tempo, di un tempo remoto («Era um bicho
daquele tempo»). Forse, aggiungerebbe Tristano, del tempo di Goya.
Dopo la strada d’asfalto e la sala del Prado, il cane giallo compare
nella vigna di Malafrasca, la casa di campagna di Tristano. In un’en-
nesima allucinazione, egli vede un rospo giallo trasformarsi in un
cane giallo sepolto nella sabbia. Scatta, immediato, il meccanismo
di identificazione. Tristano è stato «un bravo cagnetto da guardia».
Ha creduto di combattere per la libertà, ma ora questa è «sepolta
nella sabbia fino al collo».42
Il cane di Goya affonda così di frequente nell’inchiostro delle
pagine di Tristano muore che l’intero (anti)romanzo rivela un’ossatura
40
A. Malraux, in Dessins de Goya au Musée du Prado, Ginevra, Skira, 1947, p. XXII.
41
C. Drummond de Andrade, Cemitérios, in Id., Fazendeiro do ar, in Id., Obras de
Carlos Drummond de Andrade, Europa-América, v.3, pp. 149-151.
In un’altra raccolta di Drummond de Andrade, Claro enigma, compare una poesia dal titolo
Sonho de um sonho. Forse se ne sarà ricordato Tabucchi quando ha dato il nome alla sua raccolta
Sogni di sogni. D’altronde, com’è noto, è stato Tabucchi, nel 1987, a tradurre un’antologia di
versi di Drummond de Andrade. Cfr. C. Drummond de Andrade, Sentimento del mondo. Trentasette
poesie scelte e tradotte da Antonio Tabucchi, trad. di A. Tabucchi, Torino, Einaudi, 1987.
42
La Trentini ha proposto un’interessante interpretazione del Cane di Goya in Tristano
muore come «metafora della scrittura». Cfr. N. Trentini, Dalle «tentazioni» di Bosch al
«Cane» di Goya. La tonalità notturna di «Tristano muore», in I ‘Notturni’ di Antonio Tabucchi,
op. cit., p. 323.
157
alla Goya. Animati da un furioso sarcasmo, Tristano e Goya soffrono
entrambi di violente allucinazioni sensoriali.43 Tristano poi racconta
la sua vita nel buio della stanza di Malafrasca, in cui è confinato.
Ormai il vecchio abita la tenebra; e si vanta di conoscere talmente
bene le «gradazioni del buio» da riuscire a percepirle attraverso le
persiane della finestra. Anche Goya doveva conoscere bene le gra-
dazioni del buio, se le ha fatte trionfare, nel ciclo delle Pitture nere,
sulle pareti della casa di campagna acquistata fuori Madrid. La villa
di Malafrasca diventa allora una declinazione toscana della Quinta
del Sordo. Anche se stavolta l’impasto dei colori cede il passo al-
l’impasto delle parole.
Dalla pagina all’azulejo: Fogo
La vita delle storie è imprevedibile. Tortuosa e bizzarra. Mo-
dellata su un’immagine pittorica, una storia può essere poi inserita
in un diverso contesto artistico. O, addirittura, divenire lo spunto
per la creazione personale di un altro pittore. Succede all’episodio
di Tristano muore, in cui Tristano e Rosamunda incontrano la cagna
Vanda per strada. Tabucchi inserisce questo brano nel libro d’arte
Fogo, in cui sono riprodotti due pannelli di azulejos realizzati dal-
l’artista portoghese Paula Rego.44 È il 2002, e Tabucchi non ha an-
cora finito di scrivere Tristano muore: l’episodio s’intitola Una notte
indimenticabile.
La serie di azulejos, riprodotta in Fogo, è realizzata dalla Rego
per una panchina del giardino di Palacio Fronteira, residenza
lisbonese dei marchesi Fronteira. Il giardino accoglie azulejos del
Seicento, che rappresentano in modo allegorico i tre elementi: Aria,
Acqua e Terra. Nel corso degli anni, il decoro riservato al Fuoco si
è perduto, e Paula Rego viene chiamata per colmare l’assenza.45 Se
gli azulejos antichi sono spesso di una linearità quasi ingenua (e
uno di questi compare sulla copertina dell’edizione italiana di Re-
43
Dell’affinità tra Tristano e Goya in nome delle allucinazioni ha già accennato la
Trentini. Cfr. N. Trentini, Dalle «tentazioni» di Bosch al «Cane» di Goya. La tonalità notturna
di «Tristano muore», op. cit., p. 325n.
44
A. Tabucchi, Una notte indimenticabile, in P. Rego, A. Tabucchi, Fogo. Fuoco. Fire,
Lisboa, Galeria Ratton, 2003. Il testo di Tabucchi è presente nella versione originale italiana,
in versione portoghese (tradotto da Gaëtan Martins de Oliveira) e inglese (tradotto da
Richard Zenith).
45
Del Palacio Fronteira Tabucchi ha parlato nell’articolo Il maleficio degli azulejos nel
palazzo dei misteri, «Il Corriere della Sera», 13/08/1992; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri
viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
158
quiem), quelli della Rego esibiscono una costruzione più complessa.
Il suo Fuoco ha un corpo: e, a dispetto della consuetudine icono-
grafica, è il corpo di una donna. Le sue movenze sono leggiadre; il
suo salto lieve.
Le opere di Tabucchi e della Rego non sono illustrative l’una
dell’altra. Piuttosto, sembrano ricongiungersi nell’idea del “fuoco”.
Sin dai primi libri, i personaggi di Tabucchi commerciano con i
quattro elementi cosmici (l’Esperia di Piazza d’Italia è creatura
marina, mentre il Sesto del Piccolo naviglio è uomo acquatico); e
adesso Vanda è «o símbolo de uma paixão estinta, de uma chama
de que restaram apenas as cinzas».46 Ma i fuochi della Rego e di
Tabucchi hanno gradazioni differenti: la fiamma delle figure della
Rego è ancora ardente, come testimonia il salto vitale della sua
donna-fuoco; quella dei personaggi di Tabucchi è ormai estinta.47
Il rapporto tra le parole di Tabucchi e le immagini della Rego
si rinsalda in occasione dell’uscita del libro Fogo, perché l’artista
realizza un singolo azulejo appositamente per l’episodio di Tabucchi.
Lo intitola Rosamunda. La piastrella di ceramica raffigura una donna
anziana, Rosamunda, seduta su una valigia mentre offre malinconica
il seno al cane Vanda. Già la scelta del soggetto – Rosamunda da
sola, senza Tristano – è indice di una riscrittura visiva dell’episodio
narrativo. Perché di donne, e dei loro corpi spesso martoriati, rac-
contano le opere della Rego. Di più. Concentrandosi sul legame tra
Rosamunda e il cane Vanda, la Rego richiama anche un suo ciclo
di acrilici su carta risalenti agli anni Ottanta. La seria s’intitola
Ragazza e Cane, ed è pervasa da una dolente malinconia.
Viaggia, insomma, il cane di Goya, tra una pagina scritta e un
azulejo.48 Destino di sicuro inaspettato per una bestia spaurita, im-
mersa nella sabbia fino al collo.
46
A. Tabucchi, in A escrita como fotografia, Entrevista a Antonio Tabucchi, a c. di A.
Marques Gastão, «6a», 12/05/2006. Fornisco la traduzione italiana: «il simbolo di una
passione estinta, di una fiamma della quale restarono soltanto le ceneri».
47
Per queste idee, cfr. R. Rosengarten, Brief Encounter: Paula Rego and Antonio Tabucchi,
in P. Rego, A. Tabucchi, Fogo. Fuoco. Fire, op. cit., pp. 77-85.
48
Sul cane di Goya, Tabucchi si è soffermato anche in un intervento scritto per un
convegno sulla scrittrice catalana Mercè Rodoreda (Giornate Mercè Rodoreda tenutesi a Pisa
il 4-5 Aprile 2008). Tabucchi ha letto il «muto grido contro la notte» dell’infelice Colometa,
protagonista del romanzo Piazza del Diamante, come simbolo del «dolore umano che non
trova parole». Dolore, che ha trovato diverse declinazioni artistiche: «è l’Urlo di Munch, è
l’orecchio di Van Gogh, è la disperazione di Giobbe, è il piccolo cane sepolto nella sabbia
di Goya».
159
Bibliografia
Opere di Antonio Tabucchi
In volume
Piazza d’Italia, Milano, Bompiani, 1975; Milano, Feltrinelli, 1993.
Il piccolo naviglio, Milano, Mondadori, 1978.
Il gioco del rovescio, Milano, Il Saggiatore, 1981; Milano, Feltrinelli, 1988.
Donna di Porto Pim e altre storie, Palermo, Sellerio, 1983.
Notturno indiano, Palermo, Sellerio, 1984.
Piccoli equivoci senza importanza, Milano, Feltrinelli, 1985.
Il filo dell’orizzonte, Milano, Feltrinelli, 1986.
I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio, 1987.
I dialoghi mancati, Milano, Feltrinelli, 1988.
L’angelo nero, Milano, Feltrinelli, 1991.
Requiem. Uma alucinação, Lisboa, Quetzal, 1991; Milano, Feltrinelli, 1992
(trad. it. di S. Vecchio).
Sogni di sogni, Palermo, Sellerio, 1992.
Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa. Un delirio, Palermo, Sellerio, 1994.
Sostiene Pereira, Milano, Feltrinelli, 1994.
La testa perduta di Damasceno Monteiro, Milano, Feltrinelli, 1997.
Marconi, se ben mi ricordo: una pièce radiofonica, Roma, RAI-ERI, 1997.
La gastrite de Platon, a c. di B. Comment, Paris, Éditions Mille et Une Nuits,
1997; La gastrite di Platone, Palermo, Sellerio, 1998.
Gli zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze, Milano, Feltrinelli, 1999.
Si sta facendo sempre più tardi, Milano, Feltrinelli, 2001.
Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Milano, Feltrinelli, 2003.
Tristano muore, Milano, Feltrinelli, 2004.
Racconti, Milano, Feltrinelli, 2005.
L’oca al passo, a c. di S. Verde, Milano, Feltrinelli, 2006.
Il tempo invecchia in fretta, Milano, Feltrinelli, 2009.
Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.

In quotidiani e riviste
Le macchine probabili, «Il Caffè», N° 3/4, 1971, pp. 90-109.
Le macchine probabili, 2, «Il Caffè», N° 1, 1972, pp. 28-31. Le due sezioni
intitolate Le macchine probabili sono ristampate in «MicroMega», N° 3,
1995, pp. 69-93.

163
Cambio di velocità, «Il Caffè», N° 2, 1972, p. 12.
Scoperta di una vocazione. Un testo inedito di Giorgio Manganelli a cura di
Antonio Tabucchi, «Il Caffè», N° 3/4, 1972, pp. 88-89.
La ragazza di Asip, «Il Caffè», N° 5/6, 1972, pp. 100-102.
Cesariny, il Vascello di specchi, «quinta parete», N° 4, estate 1972, pp. 53-
54.
Lingua nostra. Poema, «Il Caffè», N° 2-3, 1974, pp. 43-44.
A bicicleta de dom Quixote, «Critério» , N° 1, Novembre 1975, pp. 27-30.
Lettere a Capitan Nemo, «Paragone», N° 342, 1978, pp. 14-25.
Tre lettere. Passato composto, «Il cavallo di Troia», N° 4, inverno/primavera
1982-1983, pp. 91-96; rist. in A. Tabucchi, I volatili del Beato Angelico,
Palermo, Sellerio, 1987.
Isole, «la Repubblica», 05/08/1983; rist. in A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza
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I treni che vanno a Madras, «la Repubblica», 19/08/1984, rist. in A. Tabucchi,
Piccoli equivoci senza importanza, Milano, Feltrinelli, 1985.
Mistero indiano, «la Repubblica», 11/11/1984; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e
altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Attenti a quell’altro, «la Repubblica», 02/12/1984.
È morto Vicente Aleixandre, «la Repubblica», 15/12/1984.
E noi paghiamo per essere ingannati, «la Repubblica», 26/01/1985.
Che succede a Marulanda?, «la Repubblica», 24/02/1985.
Delitti e lucertole, «la Repubblica», 21/04/1985.
Le ossa di Fernando, «la Repubblica», 12/06/1985.
Tutto cominciò con gli occhiali, «la Repubblica», 16/01/1986.
Arriva un personaggio che ha perso l’autore, «la Repubblica», 08/02/1986.
Il sangue dopo il bacio, «la Repubblica», 26/03/1986.
Il monolocale del racconto, «Alfabeta», N° 87, maggio 1986.
Cineclub, «Nuovi Argomenti», aprile-giugno 1986, pp. 21-24; rist, in A. Ta-
bucchi, Il filo dell’orizzonte, Milano, Feltrinelli, 1986.
Calvino, in che senso?, «L’Espresso», 17/08/1986; rist. in Italo Calvino: enci-
clopedia, arte, scienze e letteratura, a c. di M. Belpoliti, «Riga», N° 9,
Milano, Marcos y Marcos, 1995, pp. 199-200.
Caro Muro, ti scrivo…, «L’Espresso», 14/09/1986; rist. in A. Tabucchi, Racconti
con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Un mistero quieto e raccolto, «Casa Vogue», N° 178, ottobre 1986, pp. 142-
143.
Nella casa di Quarzo, «la Repubblica», 13/11/1986; rist. in A. Tabucchi, Viaggi
e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Addio Lisbona della nostalgia, «Il Corriere della Sera», 03/09/1988.
L’ultima menzogna davanti a Marat, «Il Corriere della Sera», 03/12/1988.
E il fragile turista ha perduto la testa. Firenze capitale della Sindrome di Stendhal,
«Il Corriere della Sera», 19/05/1989; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri
viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Un’Amazzonia di carta, «Il Corriere della Sera», 21/12/1989.
Io, scrittore come in uno specchio, «Il Corriere della Sera», 04/02/1990.
Italia bella, «Italienisch», 1991, N° 26, pp. 24-25; rist. in A. Tabucchi, Viaggi
e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
164
Trecentomila ore con Capitan Verne, «Tuttolibri», n. 760, luglio 1991.
Perché fare lo scrittore da noi è spesso un rischio, «Il Corriere della Sera»,
18/01/1992.
«Lasciatemi fare il portoghese», «Il Corriere della Sera», 09/04/1992.
Il maleficio degli azulejos nel palazzo dei misteri, «Il Corriere della Sera»,
13/08/1992; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo,
Milano, Feltrinelli, 2010.
E in una notte d’estate il poeta vide la propria fine, «Il Corriere della Sera»,
22/10/1992.
I meravigliosi stornelli del poeta lusitano, «Il Corriere della Sera», 27/12/1992.
C’è anche una favola (ma finisce in massacro), «Il Corriere della Sera», 20/01/1993.
L’importanza di chiamarsi Sellerio (a Melbourne), «Il Corriere della Sera»,
25/01/1993.
Ma l’intellettuale organico ha fatto il suo tempo, «Il Corriere della Sera»,
15/02/1993.
Borges: sulle strade di Buenos Aires, «Il Corriere della Sera», 17/04/1993; rist.
in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli,
2010.
Quelle perle nere dall’ombra, «Il Corriere della Sera», 11/05/1993.
Giotto contro i barbari, «Il Corriere della Sera», 18/06/1993.
Balenieri nostalgici sull’isola fiorita, «Il Corriere della Sera», 21/06/1993.
Alla ricerca di sé in un’altra lingua, «Il Corriere della Sera», 12/07/1993.
Da Saffo a Greenpeace: così parla la natura, «Il Corriere della Sera», 15/07/1993.
Romantica nostalgia di profumi egiziani, «Il Corriere della Sera», 23/07/1993.
Eroe o traditore? A voi il verdetto, «Il Corriere della Sera», 04/08/1993.
La dolce Europa terra di torture, «Il Corriere della Sera», 27/02/1994.
Dialogo fra un romanziere e un venditore di almanacchi, «Il Corriere della Sera»,
22/07/1994.
Gli sfoghi di Pessoa, amore e versi pudichi, «Il Corriere della Sera», 09/10/1994.
Gérard Castello-Lopes, «Vis à vis», N°16, inverno 1994, pp. 112-114.
Italia 1994, il Paese dei Balocchi, «Il Corriere della Sera», 12/03/1995.
Cari editori, ecco uno scrittore che si batte per i dannati della terra, «Il Corriere
della Sera», 26/04/1995.
Autobiografie: meglio se immaginarie, «Il Corriere della Sera», 30/04/1995.
«E invece io sulla morte di Pasolini conservo tutti i miei dubbi», «Il Corriere
della Sera», 19/05/1995.
«Grazie, caro, magnifico Marcello», «Il Corriere della Sera», 04/06/1995.
Ma quante sono le limonate di Pereira?, «Il Corriere della Sera», 07/06/1995.
Il sorriso del figliol prodigo, «Il Corriere della Sera», 10/06/1995.
Pessoa, amato Poe e amatissimi gialli, «Il Corriere della Sera», 17/11/1995.
C’era una volta il Che, «Il Corriere della Sera», 18/11/1995.
A Parigi con Arbasino nell’età dei dinosauri, «Il Corriere della Sera», 14/12/1995.
Pontormo, l’arte di ritrarsi in mutande, «Il Corriere della Sera», 21/12/1995.
L’altra cattedrale di Chartres, metafora della letteratura, «Il Corriere della Sera»,
28/12/1995.
L’atroce sospetto: sarò anch’io un intellettuale?, «Il Corriere della Sera»,
05/01/1996.
Carissimo Svevo, all’ombra delle tue vernici..., «Il Corriere della Sera»,
12/01/1996.
165
Educazione civica: due consigli per giovani bipedi smarriti, «Il Corriere della
Sera», 19/01/1996.
Amo l’uomo che ha trascorso ogni sua vacanza andando a cercare la tomba di
Che Guevara, «Il Corriere della Sera», 31/01/1996.
Il Bello nasce con Pitagora, il Brutto con un Cristo flagellato, «Il Corriere della
Sera», 10/02/1996.
Cercando la realtà fra le nuvole, «Il Corriere della Sera», 17/02/1996.
Desio, la saudade di Dante, «Il Corriere della Sera», 29/02/1996.
Siamo postumi o contemporanei?, «Il Corriere della Sera», 10/03/1996.
Ritratto d’autore, «MicroMega», N° 4, 1996, pp. 233-239.
Il mio Novecento nato da un atlante, «Il Corriere della Sera», 24/01/1997;
rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Fel-
trinelli, 2010.
E io vi racconto la vera storia di Pereira dopo la fine del romanzo, «Il Corriere
della Sera», 02/02/1997.
Pereira e il buon proto: com’è bello cambiare finale ai romanzi, «Il Corriere
della Sera», 11/02/1997.
Intellettuali copritevi, ora piovono pietre, «Il Corriere della Sera», 01/04/1997.
L’albanese sono io, «Il Corriere della Sera», 07/04/1997.
Il canto della Santa Bevitrice, «Il Corriere della Sera», 26/06/1997.
Elogio di Baggio, «Il Corriere della Sera», 15/07/1997.
Signori poeti, attenti alle vedove, «Il Corriere della Sera», 24/07/1997.
Pessoa schiavo delle stelle, «Il Corriere della Sera», 31/07/1997.
Brasile. Eden dei nostri rimorsi, «Il Corriere della Sera», 08/08/1997; rist. in
A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli,
2010.
Il palco mobile in giro per il mondo, «Il Corriere della Sera», 23/08/1997; rist.
in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli,
2010.
La testa perduta del Portogallo, «Il Corriere della Sera», 25/09/1997.
Via col vento sui mari di Stevenson, «Il Corriere della Sera», 24/12/1997; rist.
in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio,
2011.
Novecento. Il filo dell’inquietudine, «Il Corriere della Sera», 02/01/1998.
I cambi di stagione della letteratura, «Il Corriere della Sera», 15/01/1998.
Il signor Cartesio va in pensione, «Il Corriere della Sera», 10/02/1998.
Pessoa. Amori veri e amori ridicoli, «Il Corriere della Sera», 14/02/1998.
Pessoa in ginocchio da Ofelia, «Il Corriere della Sera», 05/03/1998.
Date un passaporto alla Baraldini, «Il Corriere della Sera», 14/03/1998.
E in Portogallo il rinnovamento si manifestò con un romanzo, «Il Corriere della
Sera», 26/04/1998.
Bruno Schulz: la fantasia finì nel ghetto, «Il Corriere della Sera», 18/05/1998.
Garcia Lorca, il poeta assassinato, «Il Corriere della Sera», 31/05/1998.
Leopardi. Il pensiero globale, «Il Corriere della Sera», 16/06/1998.
Caro libro, senza te non sapremmo chi siamo, «Il Corriere della Sera», 28/06/1998.
Adesso viaggio, mi occupo di marketing…, «Diario della Settimana», N° 28,
luglio 1998, p. 27.
Cardoso Pires ovvero il mio amico Zé, «Il Corriere della Sera», 07/11/1998.
Se la letteratura è igiene mentale, «Il Corriere della Sera», 19/11/1998.
166
Pellegrini a Gerusalemme, tutti colpiti da una sacra sindrome, «Il Corriere della
Sera», 22/11/1998; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di
Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
L’omelette e il nulla. Dibattito a Parigi, «Il Corriere della Sera», 03/12/1998;
rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Fel-
trinelli, 2010.
Diritti umani. Ora serve un tribunale, «Il Corriere della Sera», 07/12/1998.
Da Atlantide a Lisbona, le città del desiderio, «Il Corriere della Sera», 18/12/1998;
rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Fel-
trinelli, 2010.
Se stroncare diventa mestiere, «Il Corriere della Sera», 02/01/1999.
L’ultima spiaggia dell’intellettuale, «Il Corriere della Sera», 14/01/1999.
Treccani e Vitali istanti d’eternità, «Il Corriere della Sera», 16/03/1999; rist. in
A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Diario da Lisbona. Una città a cui ogni scrittore vorrebbe assomigliare, «Il Corriere
della Sera», 08/05/1999.
Diario dello scrittore per pianeti lontani, «Il Corriere della Sera», 22/05/1999.
Occhi da bambino sulla vita e la morte, «Il Corriere della Sera», 01/06/1999.
Grande madre Africa. L’orto del racconto, «Il Corriere della Sera», 08/07/1999.
Nostalgia di Drummond, «Il Corriere della Sera», 11/08/1999; rist. in A. Ta-
bucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Borges, veggente cieco, «Il Corriere della Sera», 18/08/1999.
Oniromanti, così il Novecento mette in vendita anche i sogni dell’umanità, «Il
Corriere della Sera», 22/08/1999.
La forza di un destino, «Il Corriere della Sera», 07/10/1999.
Nasce «Autodafè», rivista per gli scrittori perseguitati, «Il Corriere della Sera»,
14/10/1999.
L’ultimo tram, «Rassegna lucchese», N°1, 1999, pp. 7-13; rist. in «Il Corriere
della Sera», 30/07/1999 e in A. Tabucchi, Tristano muore, Milano, Fel-
trinelli, 2004.
Osservando il Novecento, «MicroMega», N° 1, 1999, pp. 249-254.
Il capro espiatorio, «la Repubblica», 25/01/2000.
L’eterno incanto della voce che legge, «Il Corriere della Sera», 20/04/2000.
L’eleganza di Firenze tra vestaglie e carcadè, «la Repubblica», 12/07/2000 (autore
dell’articolo è anche Maurizio Bettini).
Nel mondo dei boia, «la Repubblica», 12/09/2000.
Il mito delle due ruote, «l’Unità», 29/03/2001.
Io, prigioniero del mio film, «la Repubblica», 27/05/2001.
Pessoa. Un poeta contro il dittatore Salazar, «Il Corriere della Sera», 31/05/2001.
Le ragioni dei senza terra, «la Repubblica», 12/07/2001; rist. in A. Tabucchi,
Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Dialogo tra un astronomo e un viandante povero, «l’Unità», 15/07/2001.
Un atto di civiltà, «Il Corriere della Sera», 23/08/2001.
Le civiltà parlarono con il CORPO, «Il Corriere della Sera», 05/09/2001.
Il pensiero unico e la garbata legge sull’editoria, «l’Unità», 02/12/2001.
Ho paura di sognare, «l’Unità», 08/12/2001; rist. in A. Tabucchi, L’oca al
passo, a c. di S. Verde, Milano, Feltrinelli, 2006.
Manifesto della parola, «MicroMega», N° 2, 2002, pp. 7-12.
I morti a tavola, «Micromega», N° 3, 2002, pp. 178-187; rist. in A. Tabucchi,
167
 Racconti, Milano, Feltrinelli, 2005 e in A. Tabucchi, Il tempo invecchia
in fretta, Milano, Feltrinelli, 2009.
La coda dei miei libri, «la Repubblica», 21/03/2002.
José, lo scrittore che sabotò un regime, «l’Unità», 27/04/2002.
Elogio di Goya e del chirurgo di guerra, «l’Unità», 24/10/2002; rist. in A. Ta-
bucchi, L’oca al passo, a c. di S. Verde, Milano, Feltrinelli, 2006.
Quando la luna illuminava il Novecento, «la Repubblica», 09/03/2003.
Quella foto misteriosa che valeva un libro intero, «la Repubblica», 07/05/2003.
L’inatteso trionfa nel corso degli eventi e segna date che diciamo epocali, «la Re-
pubblica», 02/10/2003.
Il mio amico Manea, «l’Unità», 01/04/2004.
Quel che resta della rivoluzione dei garofani, «la Repubblica», 21/04/2004.
Qualcosa di più, «l’Unità», 16/11/2004.
Ricordando Giuseppe Gioacchino Belli, «l’Unità», 28/11/2004.
Vi racconto De Andrè, «l’Unità», 14/12/2004.
La voce, quel che resta alla fine dell’amore, «l’Unità», 04/03/2006.
Le mie isole Azzorre e quelle degli altri, «la Repubblica», 13/07/2006; rist. in A.
Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Le parole per dirlo, «l’Unità», 06/08/2006.
Ascolta, la voce, di Luciana, «la Repubblica», 30/08/2008.
In cataloghi d’arte:
Il gioco di carte di José de Guimarães, in J. de Guimarães, Il gioco di carte,
Milano, Naviglio, 1985.
Uma conversa no outono de 1938 in J. J. Brito, Uma conversa no outono de
1938, Lisboa, Imprensa Nacional/Casa da Moeda, 1985, pp. 13-15.
L’autoritratto della fotografia/O auto-retrato da fotografia, in F. Giaccone, Una storia
portoghese/Uma história portuguesa, Palermo, Randazzo, 1987, pp. 9-10.
Salon de l’automobile de José de Guimarães, in J. de Guimarães, Salon de l’au-
tomobile de José de Guimarães, Milano, Naviglio, 1987; rist. in A. Tabucchi,
Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Tanti saluti, in T. Pericoli, Tanti saluti, Milano, Archinto, 1988, pp. 5-15;
rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo,
Sellerio, 2011.
As Tentações: um pintor Hieronymus Bosch, um escritor António Tabucchi/Com
um estudo e legendas de José Luís Porfírio, Lisboa, Quetzal, 1989; La
tentation de Saint Antoine, Paris, Adam Biro, 1989.
Fiamme, in D. Benati, Davide Benati, Modena, Galleria Civica, 1989, pp. 5-
6; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo,
Sellerio, 2011.
Le mappe del desiderio, in Pomellato: le mappe del desiderio. Un viaggio raccontato
da Antonio Tabucchi, visto da Giampaolo Barbieri, Milano, Idea books, 1989.
Vivere o ritrarre, in T. Pericoli, Woody, Freud e gli altri, Milano, Garzanti,
1989, pp.142-149; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T.
Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Lettera a Salgot o una giornata con Salgot, in J. A. Salgot, Esastamente, Barcelona,
Marianovich Arte, 1991.
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Lettera a Tullio Pericoli, in T. Pericoli, Attraverso il disegno, a c. di R. Tassi,
Milano, Fabbri, 1991, pp. 115-117; rist. in A. Tabucchi, Racconti con
figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Sera di pioggia su una diga d’Olanda, in J. Barrias, Tempo, Verona, Colpo di
fulmine, 1992, pp. 1-5; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di
T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Le vacanze di Bernardo Soares. Un racconto di Antonio Tabucchi per tre acqueforti
di Giuseppe Modica, Milano, Sciardelli, 1993; rist. in A. Tabucchi, Racconti
con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Il mistero dell’annuncio cifrato, in H. Pratt, Avevo un appuntamento, Roma,
Socrates, 1994, pp. 304-315.
Il pittore e le sue creature, in G. Savino, frame café, Napoli, Electa, 1994, pp. 6-7;
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Viaggio attraverso un viaggio, in S. Pausig, Babele «Voyages 1989-1993» Asia
America Latina Europa, a c. di R. Nardi e S. Stipitivich, Venezia, Caffè
Florian, 1994, p. 13.
Sonhando com Dacosta, in António Dacosta, a c. di M. Rewald Dacosta, Lisboa,
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figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Forbidden Games, in M. Scavone, And between shadow and light/E entre a
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rassegna lucchese», N° 2, 2000, pp. 49-60 e in A. Tabucchi, Si sta facendo
sempre più tardi, Milano, Feltrinelli, 2001.
Un calendario: campane del mio villaggio. Prose in prosa, acquerello in acquerello, testo
di A. Tabucchi, acquerelli di D. Benati, Reggio Emilia, Edizioni G, 1996.
Terrazze esterne, terrazze interne, in D. Benati, Terrazze, Bologna, Galleria Mag-
giore, 1997, pp. 5-6; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T.
Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Dalle parti delle terre di Siena, in Le terre di Siena, a c. di M. Boldrini, Siena,
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Corrispondenze (Lettera a Piero Pizzi Cannella), in P. Pizzi Cannella, Pizzi
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Lettera dal nulla, in A. Marinai, Lettera dal nulla, Prato, Canopo, 2000.
Le cefalee del Minotauro. Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami, in V.
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Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Notte di un sogno di mezzo inverno, in Davide Benati, a c. di F. Gualdoni,
Milano, Silvana Editoriale, 2001, pp. 13-14; rist. in A. Tabucchi, Racconti
con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Per un ritratto di Bobo, in S. Staino, Il romanzo di Bobo, a c. di M. La Ferla,
Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 7-10.
Seguendo la cernia…, in G. Fanello, Pesci idraulici e altro…: scultura, 1995-
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con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Forme possibili. Contenuti fuori moda, in A. Rauch, Il sonno della ragione…
169
 Manifesti politici di Andrea Rauch, Siena, Università degli Studi di Siena/Pro-
tagon Editori Toscani, 2002.
Senza titolo, in Cartier Bresson: immagini e parole, Roma, Contrasto, 2003, p. 128.
Eureka, non-eureka. Omaggio drummondiano all’amico Gérard Castello-Lopes,
fotografo entrato in polemica con la legge di Archimede, in Gérard Castello
Lopes. Vedere il sogno di una vita: fotografie 1956-2002, a c. di S. Parmiggiani,
Milano, Skira, 2003; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T.
Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Una notte indimenticabile, in P. Rego, A. Tabucchi, Fogo. Fuoco. Fire, Lisboa,
Galeria Ratton, 2003, pp. 27-38; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure,
a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Senza titolo, in O. Toscani, Sant’Anna di Stazzema 12 agosto 1944. I bambini
ricordano, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 13.
Os herdeiros de Maria Helena Vieira da Silva agradecem, in AA. VV., Vieira da
Silva nas collecções internacionais: em busca do essencial, Lisboa, Assírio &
Alvim, 2004, pp. 31-38; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di
T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Um curandeiro na cidade à borda d’água, trad. port. di G. Martins De Oliveira,
in Júlio Pomar: a Comédia humana, Lisboa, Fundação Centro Cultural de
Belém, 2004, pp. 38-47; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di
T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
La toile comme scène, in V. Adami, Valerio Adami, Braga, Museu Nogueira
da Silva-Universidade do Minho, 2005; rist. in A. Tabucchi, Racconti
con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Récit de l’homme de papier, trad. di B. Comment, in A. Seguí, Œuvres sur
papier, Paris, Adagp/Centre Pompidou, 2005, pp. 5-9; rist. in A. Tabucchi,
Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Una carta hallada, trad. di C. Gumpert, in fotografía, Città del Messico,
DGE/Equilibrista, 2005, pp. 12-15; rist. in A. Tabucchi, Racconti con
figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Yo me enamoré del aire, in D. Benati, Air. Peintures récentes, Monaco/Torino,
Marlborough Gallery/Grafiche Ferrero, 2006; rist. in A. Tabucchi, Il
tempo invecchia in fretta, Milano, Feltrinelli, 2009.
Come in uno specchio, in Camilla e Valerio Adami, a c. di M. Tavola e P.
Fandella, Torino, ALPGAMC, 2009; rist. in A. Tabucchi, Racconti con
figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Doppio Enigma, in A. Magnelli, Pierres, Paris, Galerie Di Meo, 2009; rist. in A.
Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini, Palermo, Sellerio, 2011.
Il cielo sopra, in T. Pericoli, Sedendo e mirando: i paesaggi 1966-2009, Milano,
Skira, 2009; rist. in A. Tabucchi, Racconti con figure, a c. di T. Rimini,
Palermo, Sellerio, 2011.
Prefazioni e volumi miscellanei
Un biglietto per Tabonio Antucchi, in L’almanacco letterario 1979, a c. di F.
Giannessi, Firenze, Vallecchi, 1979, pp. 23-29.
Irma Sirena, in L’astromostro. Racconti per bambini, a c. di A. Porta, Milano,
Feltrinelli, 1980, pp. 119-123.
170
Prefazione, in L. Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, Genova, Costa & Nolan,
1990, pp. 5-6.
Il romanzo del desiderio. Un libro ipotetico offerto al mio amico Giorgio Luti, in
I segni e la storia. Studi e testimonianze in onore di Giorgio Luti, a c. di L.
Baldacci, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 77-79.
Verso Mahabalipuram, in Il mito di Vespa, a c. di O. Calabrese, Milano, Piaggio
stampa, 1996, pp. 143-144; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c.
di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Prefazione in forma di lettera, in C. Di Scalzo, Vecchiano, un paese: lettere ad
Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 9-13.
Succede a Firenze, in M. Pierre, Florence, Paris, Éditions Autrement, 1997,
pp. 6-13.
Prefazione, in P. Carter, Memorie Barocche. Una stravaganza, Lecce, Argo,
1998, pp. 9-11.
La logica della vita, in P. Almodóvar, Parla con lei, Torino, Einaudi, 2003,
pp. V-VI.
L’Araba Fenice. Tentativo dissennato di definire a un amico una parola indefinibile,
in Studi di letterature comparate in onore di Remo Ceserani, Manziana, Vec-
chiarelli, 2003, v.1, pp. 347-354.
Préface, in L’anomalie Berlusconi, a c. di A. Candiard, Paris, Flammarion,
2003, pp. 13-27.
Méfiance, mini-guide préalable au voyage dans le monde de Sergio Pitol, in S.
Pitol, Mater la divine garce, Paris, Gallimard, 2004, pp. 9-18.
Minima fotografalia, in B. Pinto De Almeida, Immagine della fotografia, postf.
di S. Cresci, Roma, Jouvence, 2005, pp. 9-16.
Vingt photogrammes pour Pedro Almodóvar, in B. Benoliel, E. Charbit, M.
Orléan, F. Strauss, ¡Almodóvar:exhibition!, Paris/Madrid, Les Éditions
du Panama/ La Cinémathèque Française/ El Deseo, 2006.
Nota, in M. Braudeau, Il sogno amazzonico, Palermo, Sellerio, 2007, pp. 9-
11; rist. in A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano,
Feltrinelli, 2010.
La polvere della farfalla, in M. Monroe, Fragments. Poesie, appunti, lettere, a c.
di S. Buchtal e B. Comment, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 11-18.
Saggi e curatele di lusitanistica
La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi, Torino, Einaudi, 1971.
Il tema della metamorfosi nel poema inedito Fílis y Demofonte di António da
Fonseca Soares, in Venezia nella letteratura spagnola e altri studi barocchi,
Padova, Liviana, 1973, pp. 99-214.
Il castigliano come registro stilistico nell’opera poetica di António Da Fonseca
Soares, «Annali della Scuola Normale Superiore», III, N° 1, 1973, pp.
195-212.
Da Adamastor a Polifemo. L’antinomia acqua/pietra in Camões e Góngora,
«Annali della Scuola Normale Superiore», III, N° 2, 1973, pp. 581-591.
Recensione de «La letteratura brasiliana» di Luciana Stegagno Picchio, «Annali
della Scuola Normale Superiore», III, N° 4, 1973, pp. 1313-1317.
La musa sottochiave (Alexandre O’Neill o della poesia come «verità pratica»),
171
 «Spicilegio Moderno», Pisa, Giardini, N° 3, dicembre 1974, pp. 139-
155.
Interpretazione dell’eteronimia di Fernando Pessoa, «Studi mediolatini e volgari»,
XXIII, 1975, pp. 139-187.
Il teatro portoghese del dopoguerra (trent’anni di censura), Roma, Abete, 1976.
La «verità pratica» di Alexandre O’Neill, in A. O’Neill, Made in Portugal, trad.
di A. Tabucchi, Milano, Guanda, 1978, pp. 7-10.
Interpretazioni della «História Trágico-Marítima» nelle licenze per il suo «impri-
matur», «Quaderni Portoghesi», N° 5, primavera 1979, pp. 19-43.
Prefazione, in J. Cardoso Pires, Il delfino, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 7-14.
Tipologia de súplica em Os Lusíadas, «Brotéria», Lisboa, N° 1-3, luglio-settembre
1980, pp. 101-110.
Sopra una fotografia di Fernando Pessoa, «L’illustrazione italiana», N° 1, otto-
bre-novembre 1981, p. 77-78.
Gli occhi di Miguilim, in J. Guimarães Rosa, Miguilim, Milano, Feltrinelli,
1984, pp. 7-12.
Pessoana mínima. Escritos sobre Fernando Pessoa, Lisboa, Imprensa Nacional-
Casa da Moeda, 1984.
O’Neill: riso, dor, bichos, in A. O’Neill, Tomai lá do O’Neill!: uma antologia,
a c. di A. Tabucchi, Lisboa, Círculo de Leitores, 1986, pp. 9-17.
Nota, in C. Drummond de Andrade, Sentimento del mondo, trad. it. di A.
Tabucchi, Torino, Einaudi, 1987, pp. I-III.
Fernando Pessoa leitor de Giacomo Leopardi, «Estudos Italianos em Portugal»,
N° 48-49-50, 1985-86-87, pp. 91-105.
Una sciarada per Il marinaio, in F. Pessoa, Il marinaio, trad. it. di A. Tabucchi,
Torino, Einaudi, 1988, pp. 53-62.
Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa, Milano, Feltrinelli, 1990.
Lisbona tu, Lisbona lei, in J. Cardoso Pires, Lisbona. Libro di bordo, trad. it.
di C. Pero, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 5-8.
La nostalgie, l’automobile et l’infini. Lectures de Fernando Pessoa, Paris, Seuil, 1998.
Le montagne ideali di Eça de Queiros, in J. M. Eça de Queiros, La città e le montagne,
trad. it. di N. Vincenti, Verbania, Tararà, 1999, pp. V-X; rist. in A. Tabucchi,
Viaggi e altri viaggi, a c. di P. Di Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010.
Un romanzo interrogativo, in J. Cardoso Pires, L’angelo ancorato, trad. it. di
M. Raggini, Roma, Fahrenheit 451, 1999, pp. 15-18.
La voce del corpo di Maria la Bigia, in G. Vicente, Pranto de Maria Parda,
introd. di R. Francavilla, trad. it. di L. Dallapè, Siena, Protagon, 2002,
pp. 115-120.
La nostalgie du possibile: sur Pessoa, Paris, Seuil, 2003.
Nota Previa, in J. Cabral de Melo Neto, Morte e vita severina. Rappresentazione
del Natale pernambucano, trad. di C. Bambini, R. Greco, D. Occelli, L.
Rocchi, Roma, Robin, 2003, pp. 5-6.
Traduzioni
M. S. Lourenço, Una dinastia sensibile, «Il Caffé», N° 3-4, 1972, pp. 19-23.
J. Lins do Rego, Il treno di Recife: due romanzi, pref. di L. Stegagno Picchio,
Milano, Longanesi, 1974.
172
I. Loyola Brandão, La storia della nana e di suo padre ambizioso bastonatore,
«Il Caffé», N° 2/3, 1974, pp. 37-38.
Zero, Milano, Feltrinelli, 1974.
A. O’Neill, Made in Portugal, Milano, Guanda, 1978.
F. Pessoa, Una sola moltitudine, a c. di A. Tabucchi, trad. di R. Desti, A.
Tabucchi e M. J. de Lancastre, v. II, Milano, Adelphi, 1979.
F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, a c. di M. J. de Lancastre,
Milano, Feltrinelli, 1986.
C. Drummond de Andrade, Sentimento del mondo, Torino, Einaudi, 1987.
F. Pessoa, Il marinaio, Torino, Einaudi, 1988.
F. Pessoa, Il poeta è un fingitore, Milano, Feltrinelli, 1988.
F. Pessoa, Lettere alla fidanzata, Milano, Adelphi, 1988.
F. Pessoa, Nove poesie di Álvaro de Campos e sette poesie ortonime, Bologna,
Baskerville, 1988.
F. Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, a c. di M. J. de Lancastre, Milano,
Adelphi, 1993.
Inediti
Una serie di tredici lettere e cartoline di Antonio Tabucchi a Vittorio Sereni
dal 1977 al 1983. La corrispondenza è conservata nell’Archivio Privato
di Vittorio Sereni presso la Biblioteca Comunale di Luino.
Interviste, interventi
Ultime leve. Un questionario ai giovani scrittori italiani, «Linea d’ombra», N°
7, 1984, p. 94.
Doppio senso, «Alfabeta», N° 69, febbraio 1985, p. III-IV.
Narratori anni ’80. Equivoci senza importanza, «Mondo operaio», N° 12, di-
cembre 1985, pp. 109-111.
Signori, io lascio la Juventus, «L’Espresso», 29/12/1985, p. 82.
Scrittori d’Italia, a c. di F. Adornato, M. Fortunato, E. Golino, «L’Espresso»,
12/01/1986, pp. 80-86
Spegnete il mondo per favore, a c. di F. Marcoaldi, «L’Espresso», 19/10/1986,
pp. 187-92.
António Tabucchi: «Vivi na Índia mais como português do que como italiano»,
a c. di V. de Lemos, «Jornal de Letras», 14/12/1987.
Apostrophes internationales. Images animées, a c. di B. Pivot, intervista mandata
in onda su «Antenne 2» il 06/03/1988.
Linguaggi lontani. Colloquio con Antonio Tabucchi, a c. di M. Fortunato, «L’E-
spresso», 05/02/1989, p. 67.
António Tabucchi o lento fascínio das «Tentações», a c. di M. T. Horta, «Diário
de notícias», 23/08/1989.
All’ascolto di «rumori di fondo» fatti scrittura, a c. di A. Botta, «L’anello che non
tiene. Journal of Modern Italian Literature», 3, N° 1-2, 1991, pp. 83-97.
Cos’è una vita se non viene raccontata? Conversazione con Antonio Tabucchi, a
c. di A. Borsari, «Italienisch», N° 26, 1991, pp. 2-23.
173
Tabucchi in nero, a c. di P. Décina Lombardi, «Tuttolibri», 02/03/1991, p.3.
«Io, in compagnia dei libri», «Il Corriere della Sera», 14/04/1991.
«No, non provo nostalgia per l’oscura Lisbona di Salazar», «Il Corriere della
Sera», 10/07/1991.
«A alma é uma fatalidade», a c. di A. Barros Baptista e T. Coelho, «Diário
de notícias», 24/10/1991.
«Quest’Europa così vicina è la mia grande patria». Incontro con Antonio Tabucchi
mentre esce Requiem, a c. di P. Mattei, «L’Avanti», 01/04/1992.
Os anjos «reformados» de António Tabucchi, a c. di M. T. Horta, «Diário de
notícias», 19/04/1992.
Tabucchi: addio Pessoa, ora fuggo con Stevenson, a c. di N. Orengo, «Tuttolibri»,
06/06/1992, p. 3.
Io, Tabucchi sognatore e bugiardo, a c. di P. Mauri, «la Repubblica», 22/10/1992.
Écrire pour faire rêver, rêver pour être libre, «Le Monde des livres », 06/11/1992,
pp. I-II.
A chave dos sonhos segundo Tabucchi, a c. di M. T. Horta, «Diário de notícias»,
03/02/1993.
António Tabucchi: nascer com várias almas, a c. di J. Guardado Moreira, «Ler:
livros e leitores», Lisboa, N° 22, primavera 1993, pp. 96-101.
Une écriture à l’écoute, entretien sous forme de lettres, a c. di B. Comment,
«Quai Voltaire», N° 8, primavera 1993, pp. 80-95.
Intervista ad Antonio Tabucchi, a c. di B. Ferraro, «La rivista dei libri»,
settembre 1993, pp.7-9.
Un giornalista in cerca d’autore, a c. di R. Polese, «Il Corriere della Sera»,
22/01/1994.
«Preferia maior ambiguidade…», a c. di V. Camara, «Público», 04/03/1994.
«La cultura? Sta con chi l’ha sempre difesa», a c. di A. Agostinelli, «l’Unità»,
24/03/1994.
«Quel 25 aprile a Lisbona», a c. di M. Ferrari, «l’Unità», 24/04/1994, p. 3
Um romance contra o esquecimento, a c. di M. L. Nunes, «Jornal de Letras»,
27/04/1994.
«Acontece-me sonhar em português», a c. di M. T. Horta, «Diário de notícias»,
24/05/1994.
Antonio Tabucchi: la quête d’un détective métaphisique, a c. di P. Savary, T.
Guichard, «Le matricule des anges», N° 7, aprile-giugno 1994, pp. 4-7.
Quem fala assim… O Olhar dos outros, a c. di M. J. Seixas, intervista televisiva
registrata a Lisbona il 27/06/1994.
Per colpa di Pereira, a c. di D. Pasti, «la Repubblica», 17/07/1994.
Le mie pagine per chi non cerca sicurezza, «Tuttolibri», settembre 1994.
An interview with Antonio Tabucchi, a c. di A. Botta, «Contemporary Litera-
ture», XXXV, 3, 1994, pp. 423-40.
No hay estética sin ética: entrevista con Antonio Tabucchi, a c. di L. Hernández
Domingo, «Quimera», N° 134, 1994, pp. 24-26.
Intervista ad Antonio Tabucchi, a c. di B. Ferraro, «La rivista dei libri»,
dicembre 1994, pp. 42-44.
Conversazione con Antonio Tabucchi. Dove va il romanzo?, a c. di P. Gaglianone,
M. Cassini, Roma, Il libro che non c’è, 1995.
Conversaciones con Antonio Tabucchi, a c. di C. Gumpert, Barcelona, Anagrama
1995. Edizione consultata: L’atelier de l’écrivain. Conversations avec Antonio
174
Tabucchi, a c. di C. Gumpert, trad. fr. di M. J. Wagner, Genouilleux,
Éditions la Passe du Vent, 2001.
«Écrire le cinéma». Entretien avec Antonio Tabucchi, in Le cinéma des écrivains,
a c. di A. De Baecque, Paris, Éditions de l’Étoile/Cahiers du Cinéma,
1995, pp. 11-18.
Entretiens radiophoniques de Antoine Spire avec Antonio Tabucchi. Interviste
radiofoniche mandate in onda il 15-16-17-18-19 Maggio 1995 all’interno
del programma francese Á voix nue.
Sostiene Tabucchi, a c. di R. Cotroneo, «L’Espresso», 02/06/1995, pp. 104-108.
O elogio do mistério, a c. di A. Sousa Dias, «Público», 04/02/1996.
A vida desconhecida de Antonio Tabucchi, a c. di J. C. De Vasconcelos, «Visão»,
24/04/1997.
A Língua é o meu instrumento de trabalho, a c. di A. Correia Sambuco, T.
Morgado, «Língua e cultura», 2a série, N° 3-4, gennaio-giugno 1997, p.
157-167.
Portogallo. Finestra sul mondo, a c. di A. Fiori, «l’Unità», 19/10/1997.
Scrittori a confronto: incontri con Aldo Busi, Maria Corti… Antonio Tabucchi,
a c. di A. Dolfi, M. Papini, Roma, Bulzoni, 1998.
Escrita: um monólogo interior, a c. di M. T. Horta, «Diário de notícias»,
17/04/1999.
Sostiene Tabucchi, a c. di A. Scarponi, «Lettera internazionale», N° 62, 1999, p. 5
Antonio Tabucchi: douter toujours, dénoncer parfois, a c. di A. Lopez, «Le
Courrier de l’Unesco», novembre 1999, pp. 46-50.
Tabucchi. Le voci di dentro, a c. di B. Comment, «l’Unità», 06/04/2001.
Cinema, Amore mio, a c. di L. Buccella, «l’Unità», 03/08/2002.
Tabucchi e Barba, le voci di dentro. Lo scrittore commenta lo spettacolo dell’Odin
Teatret tratto da un suo libro, «l’Unità», 02/10/2002.
«Vi spiego perché mi candido in Portogallo», a c. di R. Cotroneo, «l’Unità»,
08/04/2004.
Le voci di Tristano raccontate da Tabucchi, a c. di S. Teroni, «il Manifesto»,
21/05/2004.
Tabucchi sostiene Anghelopulos: è un poeta della Storia, a c. di F. Caprini, «l’U-
nità», 25/06/2004.
Tabucchi racconta il suo Tristano, a c. di G. Casagrande, 18/09/2004, consultabile
su http://www.alice.it.
Um amigo «em Pessoa», «Jornal de Letras», 15-28 settembre 2004, p. 23.
Tabucchi: «La sinistra italiana ha un sogno in formato ridotto», a c. di S. Dandini,
«l’Unità», 13/12/2004.
Antonio Tabucchi, a c. di C. De Gregorio, «Almanacco dei libri», 03/12/2005,
p.45.
«La información nos convierte en lectores muy privilegiados», a c. di A. Fancelli,
«El País», 23/04/2006.
Paradoxos da verdade, a c. di A. Guerreiro, «Expresso», 06/05/2006.
A escrita como fotografia, a c. di A. Marques Gastão, «6a», 12/05/2006.
«Être engagé avec soi-même», a c. di E. Grangeray, «Le Monde», 10/11/2006.
Deux écrivains complices, conversazione con B. Comment tenutasi l’11/01/2007
presso l’Istituto di Cultura Italiano di Marsiglia.
Il dolore e la letteratura, lezione tenuta da A. Tabucchi presso il Centro
Didattico del Policlinico Le Scotte di Siena il 09/05/2007.
175
Una realtà parallela. Dialogo con Antonio Tabucchi, a c. di M. Alloni, Lugano,
ADV, 2008.
Omaggio a Mercé Rodoreda, intervento scritto in occasione delle Giornate Mercé
Rodoreda in Toscana tenutesi a Pisa il 4-5 Aprile 2008.
Tabucchi e De Oliveira: «Basta ai doppiaggi», «l’Unità», 05/07/2008.
Partecipazione alla tavola rotonda Littérature et cinéma, qui influence qui? mo-
derata da B. Comment nell’ambito della manifestazione CinÉditions or-
ganizzata dalla Cinémathèque Française il 06/07/2008.
Sceneggiature tratte da opere di Antonio Tabucchi
A. Tabucchi, M. Guglielmi, S. Vecchio, Rebus, sceneggiatura inedita del 1986
conservata presso la Biblioteca Luigi Chiarini del Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma.
C. Frank, Le fil de l’horizon, sceneggiatura inedita del 1993 conservata presso
la Cinemateca Portuguesa di Lisbona.
R. Faenza, S. Vecchio, A. Tabucchi, Sostiene Pereira – Film Book, Milano, Il
Castoro, 1995.
C. Porcedda, G. Giansoldati, La traduzione, sceneggiatura inedita del corto-
metraggio La traduzione presentato al «Premio Internazionale Hans Ch-
ristian Andersen», 24 maggio-1 giugno 1997.
Elenco delle illustrazioni
1. La famiglia di Fernando Pessoa sulle scale del cottage di Durban. Da
M. J. de Lancastre, Fernando Pessoa. Uma fotobiografia, Lisboa, Imprensa Na-
cional Casa da Moeda – Centro de estudos pessoanos, 1981.
2. Gli alunni dell’High School di Durban. Da M. J. de Lancastre, Fernando
Pessoa. Uma fotobiografia, Lisboa, Imprensa Nacional Casa da Moeda – Centro
de estudos pessoanos, 1981.
3. Hieronymus Bosch, Le tentazioni di Sant’Antonio (particolare), olio su
tavola, 1505-1506, Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona.
4. Hieronymus Bosch, Le tentazioni di Sant’Antonio, olio su tavola, 70x51
cm, 1510, Museo Nacional del Prado, Madrid.
5. Francisco Goya, Pitture nere. Il cane, olio su muro trasportato su tela,
131x79 cm, 1820-1823, Museo Nacional del Prado, Madrid.
6. Paula Rego, Rosamunda, azulejo, Galeria Ratton, Lisbona. Da P. Rego,
A. Tabucchi, Fogo. Fuoco. Fire, Lisboa, Galeria Ratton, 2003.

Documentari sull’opera di Antonio Tabucchi

Elogio della finzione: dal Tago all’Arno con Antonio Tabucchi, Speciale TG1,
14/09/1991.
M. Sebestik, Antonio Tabucchi: géographie d’un écrivain, ARTE France, 2002.
V. Noseda, M. Togni, Tristano e Tabucchi mediometraggio presentato in con-
corso al 56° Festival Internazionale del Film di Locarno nella sezione Ci-
neasti del Presente Video (CDPV), 2003.

176 177
 Ringraziamenti

Ringrazio con tanto affetto il Professore Silvano Nigro, guida

costante e paziente, che mi ha insegnato a interrogare la letteratura.
Gli sono grata per le sue splendide lezioni che dopo molti anni di
studio continuano a rivelarmi nuovi aspetti del mondo letterario.
Un ringraziamento particolare va ad Antonio Tabucchi che non
mi ha donato soltanto una bellissima quarta di copertina, ma insieme
a Maria José de Lancastre mi ha fatto vivere momenti indimenticabili.
Un grande riconoscimento merita Francesca Trigilio, non più
solo insegnante, ma amica preziosa e prodiga di suggerimenti.
Tra coloro che mi hanno consigliato per la stesura del lavoro,
vorrei ricordare Bernard Comment, Sergio Vecchio, Anna Dolfi,
Perle Abbrugiati, Flavia Brizio-Skov, Giuditta Isotti Rosowsky,
Davide Conrieri, Denis Ferraris e Domenico Scarpa.
Ringrazio Andrea per la sua onestà di lettore, e per il pronto
intervento delle pagine Smochi.
Ringrazio infine i miei fratelli, le Fresche, e il gruppo pisano
per avermi soccorso e sostenuto in questi anni.

179
 Indice dei nomi
Abbrugiati, Perle 21n, 42n, 143n,
178
Adami, Valerio 84n, 169, 170
Adornato, Ferdinando 173
Agostinelli, Alessandro 174
Alazraki, Jaime 47n
Alciato, Andrea 125 e n
Aleixandre, Vicente 164
Alloni, Marco 176
Almeida, Bernardo Pinto de 101n,
171
Almodóvar, Pedro 14, 43n, 75 e n,
76, 139n, 171
Amigoni, Ferdinando 116n
Anceschi, Luciano 115
Andrade, Carlos Drummond de 54 e
n, 116, 127, 128 e n, 157 e n,
172, 173
Anghelopulos, Theo 14, 32 e n, 33,
34, 35 e n, 69, 76n, 175
Angiolieri, Cecco 137 e n
Antonioni, Michelangelo 45 e n, 46
e n, 47, 58, 59
Antunes, António Lobo 129 e n
Aprà, Adriano 60n, 80n
Arbasino, Alberto 165
Archimede 170
Azorín (José Martínez Ruiz) 117, 118
en
Bacall, Lauren 38, 39
Baecque, Antoine de 22n, 26n, 34n,
47n, 58n, 175
Baggio, Roberto 166
Baker, Joséphine 52
Baldacci, Luigi 171
Baltrušaitis, Jurgis 132 e n
Balzac, Honoré de 137n
Bambini, Cristiana 172
Baptista, Abel Barros 174
Baraldini, Silvia 166
Barba, Eugenio 75n, 175
Barbieri, Giampaolo 168
Barrias, José 169
Baudelaire, Charles 63 e n, 139 e n,
151 e n
Bauer, Nathalie 136n
Baxter, Warner 36, 38, 39
Bazin, André 60n, 80 e n
Beato Angelico (fra Giovanni da Fie-
sole, al secolo Guido di Piero)
56n, 104n, 121 e n, 122, 140,
141n, 143n, 163, 164
Belli, Giuseppe Gioachino 168
Belpoliti, Marco 125n, 164
Benati, Davide 168-170
Benoliel, Bernard 75n, 139n, 171
Bentivoglio, Fabrizio 63
Berger, John 144n
Bergman, Ingrid 65, 66 e n
Berlusconi, Silvio 146, 171
Bernhard, Thomas 105, 133 e n
Bertini, Francesca 67
Bertone, Giorgio 61
Bettini, Maurizio 167
Biscetti, Rita 120n
Blanchot, Maurice 42n
Bogart, Humphrey 37-39, 59, 60 e
n, 61, 65, 66n, 77
Boldrini, Maurizio 169
Borges, Jorge Luis 165, 167
Borsari, Andrea 44n, 173
Bosch, Hieronymus 7, 15-17, 109,
119 e n, 120-125, 126 e n, 127-
130, 131 e n, 132, 133, 134 e n,
136, 137 e n, 138, 140, 141, 143,
144n, 154, 157n, 158n, 168, 177
Boselli, Maria Laura 51
Bossche, Bart van den 126n
Botta, Anna 173, 174
Bovoli, F. 132n
Brandão, Ignacio de Loyola 173
181
Brasseur, Claude 50
Braudeau, Michel 171
Brecht, Bertolt 34, 35
Breguet, Abraham-Louis 82n
Breton, André 134 e n, 139
Brito, José João 168
Brizio-Skov, Flavia 24n, 33n, 83n,
178
Bruni, Francesco 70n, 122n
Buccella, Lorenzo 175
Buchtal, Stanley 77n, 171
Bush, George 152
Buzzati, Dino 131 e n
Caetano, Marcelo 127
Calabrese, Omar 171
Calvino, Italo 44 e n, 125, 164
Calvo, Pablito 40
Camara, Vasco 174
Camões, Luís de 113, 120n, 171
Candiard, Adrien 171
Capote, Truman 78
Capra, Frank 36
Caprini, Francesca 32n, 175
Caproni, Giorgio 171
Carné, Marcel 45
Carroll, Lewis (Charles Lutwidge
Dodgson) 150 e n, 151
Carter, Paul 171
Cartesio (René Descartes) 43 e n, 166
Cartier-Bresson, Henri 170
Casagrande, Grazia 175
Cassini, Marco 174
Castiglione, Baldassarre 112 e n
Cattaruzza, Claudio 27n, 98n, 115n
Cerina, Giovanna 63n
Cesariny, Mário 164
Ceserani, Remo 45n, 98n, 171
Céu, Violante do 114
Chaplin, Charlie (Charles Spencer)
40n, 71
Charbit, Elsa 75n, 139n, 171
Chastel, André 132 e n
Chiara, Piero 81 e n, 82
Chopin, Frédéric 129n
Ciccuto, Marcello 113n
Cinotti, Mia 131n
Clerc, Jeanne-Marie 40 n
Coelho, Tereza 174
182
Colli, Barbara 51n
Coltrane, John 62
Comment, Bernard 43n, 75n, 77n,
139n, 145n, 156n, 163, 170, 171,
174-176, 178
Conrieri, Davide 140n, 178
Contarini, Silvia 38n
Conte, Paolo 61
Contini, Gianfranco 115n
Cortázar, Julio 45 e n, 46 e n, 47n,
62
Costa, Antonio 68n
Cotroneo, Roberto 175
Courbet, Gustave 103, 104, 156n
Cresci, Simona 101n, 171
Cristo 121, 141, 142, 166
Cruz Rueda, Ángel 118n
Curci, Carlo Maria 22
Curi, Umberto 39n
Dacosta, António 126n, 169
Dacosta, Miriam Rewald 126n, 169
Dalí, Salvador 139
Dallapè, Luciano 172
Damasio, Antonio 43n
Dandini, Serena 175
D’Annunzio, Gabriele 30, 31
Dante Alighieri 166
D’Autilia, Gabriele 101n
David, Jacques-Louis 122n, 123n
Day, Doris 53
De Andrè, Fabrizio 168
Debord, Guy 24
De Chirico, Giorgio 49
Decina Lombardi, Paola 174
De Gregorio, Concita 175
Del Giudice, Daniele 122n, 123n
Demontis, Debora 61n
Desti, Rita 62n, 173
Deville, Patrick 156n
Dias, Ana Sousa 175
Didi-Huberman, Georges 114n
Di Paolo, Paolo 91n, 136n, 158n,
163-168, 171, 172
Di Scalzo, Claudio 102 e n, 171
Dolfi, Anna 38n, 67n, 70n, 74n, 90n,
102n, 116n, 122n, 124n, 126n,
127n, 146n, 175, 178
Domenichelli, Mario 63n
Ejzenštejn, Sergej Michajlovi 14, 22,
25 e n, 26 e n, 27 e n, 28 e n,
29 e n, 32, 33, 42, 43
Ernst, Max 139
Escher, Maurits Cornelis 62, 71
Fabbri, Paolo 84n, 169
Faenza, Roberto 176
Fancelli, Agustí 175
Fandella, Paola 170
Fanello, Gianni 126n, 169
Fellini, Federico 29, 31 e n, 57
Ferrara, Giuliano 146, 148
Ferrari, Marco 120n, 174
Ferraris, Denis 54n, 178
Ferraro, Bruno 45n, 113n, 174
Ferreira, Maria da Piedade 122
Ferréol, Andréa 50
Ferreri, Marco 50
Ferro, Roberto 67n
Filippo IV 108
Fiori, Antonella 175
Fischer, Ernst 144n
Fofi, Goffredo 42n, 45 e n
Ford, John 54, 65, 80
Forman, Miloš 152
Fortunato, Mario 173
Foucault, Michel 109 e n, 111n, 116
en
Francastel, Pierre 136
Francavilla, Roberto 172
Francese, Joseph 78n
Franco, Ernesto 46n
Frank, Christopher 48n, 176
Freire, Héctor 67n
Fronteira, Marchese de 158
Gabin, Jean 59, 60 e n, 61, 77
Gable, Clark 76-78
Gadda, Carlo Emilio 22, 115 e n
Gageiro, Eduardo 149 e n
Gaglianone, Paola 174
García Lorca, Federico 166
Garibaldi, Giuseppe 28n, 31n,
Gastão, Ana Marques 159n, 175
Geerts, Walter 40n, 42n, 44n
Giaccone, Fausto 168
Giannessi, Ferdinando 77n, 170
Giansoldati, Guido 176
Giotto di Bondone 165
Girotti, Massimo 63
Giuda 156n
Gogh, Vincent Van 159n
Golino, Enzo 173
Gombrowicz, Witold 36
Góngora y Argote, Luis de 114, 120n,
171
Goya, Francisco de 7,15, 16, 115n,
126n, 139, 140, 141 e n, 142,
143, 144 e n, 145 e n, 146 e n,
147-149, 152-155, 156 e n, 157
e n, 158 e n, 159 e n, 168, 177
Grangeray, Emilie 175
Grant, Cary 77
Greco, Lorenzo 116n
Greco, Riccardo 172
Grossi, Paolo 38n
Gualdoni, Flaminio 169
Guerreiro, António 175
Guevara, Ernesto Che 166
Guglielmi, Giuseppe 139
Guglielmi, Massimo 14, 61 e n, 62,
176
Guichard, Thierry 174
Guimarães, José de 168
Gumpert, Carlos 60n, 110n, 170,
174, 175
Hayworth, Rita 53
Hemingway, Ernest 79n
Hitchcock, Alfred 50n, 72 e n
Holden, William 38
Holiday, Billie 62
Hopper, Edward 49
Horta, Maria Teresa 119n, 173-175
Iovinelli, Alessandro 42n
Isotti Rosowsky, Giuditta 74n, 178
Jankélévitch, Vladimir 37, 55n
Jansen, Monica 126n
Kafka, Franz 53 e n, 56n
Kie lowski, Krzysztof 50 e n
Ladd, Alan 80
La Ferla, Mario 169
Lancastre, Maria José de 49n, 60n,
183
 62n, 95n, 97 e n, 99n, 129 e n,
142n, 173, 177, 178
Landolfi, Tommaso 98
Lanslots, Inge 24n, 40n, 122n
Lemos, Virgílio de 173
Leopardi, Giacomo 166, 172
Lessing, Gotthold Ephraim 113
Lippi, Filippino 136
Longhi, Roberto 115n
Longo, Luigi 25n
Longo, Nicola 112n
Lopes, Fernando 48, 49 e n, 50 e n,
84, 85 e n
Lopes, Gérard Castello 165, 170
Lopez, Asbel 175
Louvel, Liliane 111n
Lowe, Edmund 37
Loy, Myrna 37-39
Lucci, Roberto 134n
Luciani, Albino (Giovanni Paolo I) 150
Lumière, Auguste e Louis 40
Luti, Giorgio 171
Macchia, Giovanni 139n
Magherini, Graziella 136
Magnelli, Alberto 170
Magni, Luigi 66n
Malavoy, Christophe 63
Malraux, André 157 e n
Manea, Norman 168
Manganelli, Giorgio 164
Marat, Jean-Paul 122n, 123n, 164
Marchesani, Pietro 153n
Marcoaldi, Franco 173
Marconi, Guglielmo 163
Margarita María d’Austria 108, 109
Marianna d’Austria 108
Marinai, Aroldo 169
Mattei, Paolo 174
Mauri, Paolo 174
Mayo, Virginia (Virginia Clara Jones)
37
Miccichè, Lino (Niccolò) 35n
Millner, Clélie 102n
Modica, Giuseppe 169
Modugno, Domenico 58
Mondrian, Piet 48
Monroe, Marilyn (Norma Jeane Bak-
er) 77 e n, 78, 171
Montale, Eugenio 124
Montesano, Giuseppe 139n
Moreau, Jeanne 82
Moreira, José Guardado 174
Morelli, Giovanni 17
Morgado, T. 175
Munch, Edvard 159n
Musarra, Franco 126n
Napoleone Bonaparte 139, 140, 145
Nardi, Roberto 169
Neto, João Cabral de Melo 172
Nigro, Salvatore Silvano 99 e n, 178
Noseda, Veronica 73 e n, 154n, 176
Novak, Kim 38, 41, 50
Novelli, Mauro 81n
Nunes, Maria Leonor 174
Occelli, Delia 172
Oldoni, Massimo 132n
Oliveira, Gaëtan Martins 150n, 158n,
170
Oliveira, Manoel de 69n, 176
Olivieri-Godet, Rita 54n
O’Neill, Alexandre 33n, 120 e n, 123,
126 e n, 127 e n, 135, 138, 171-
173
Orengo, Nico 174
Orléan, Mathieu 75n, 139n, 171
Ors, Eugenio d’ 115 e n, 141 e n
Ortega y Gasset, José 117 e n
Palmieri, Giovanni 24n
Pannaitescu, Emilio 109n
Panofsky, Erwin 125
Paoli, Rodolfo 53n
Paolo Uccello (Paolo di Dono) 104n,
136
Papini, Maria Carla 175
Parmiggiani, Sandro 170
Pasolini, Pier Paolo 165
Pasti, Daniela 174
Pastrone, Giovanni 29, 31
Pausig, Sergio 169
Penn, Irving 110
Pericoli, Tullio 16, 31n, 97n, 99 e n,
168-170
Pero, Cecilia 101n, 172
Pessoa, Fernando 15, 49, 50, 62n,
76, 79n, 93, 94, 95 e n, 96 e n,
97 e n, 98n, 99 e n, 107, 112n,
118, 131, 132, 134n, 142 e n,
143 e n, 151n, 163, 165, 166,
167, 172-175, 177
Pezzella, Mario 60n, 72n
Pezzin, Claudio 30n
Picasso, Pablo Ruiz 100
Pierre, Michel 136n, 171
Pirandello, Luigi 69, 76
Piranesi, Giovanni Battista 71
Pires, José Cardoso 114 e n, 119, 120
e n, 123 e n, 128 e n, 129 e n,
149 e n, 166, 172
Pitagora 166
Pitol, Sergio 55n, 171
Pivot, Bernard 173
Pizzi Cannella, Piero 169
Platone 148, 163
Pocar, Ervino 53n
Poe, Edgar Allan 151n, 165
Polese, Ranieri 174
Pollaiolo (Antonio Benci) 136
Pomar, Júlio 16, 149 e n, 150 e n,
151 e n, 170
Pontormo (Jacopo Carucci) 136, 156n,
165
Porcedda, Carlo 176
Porfírio, José Luís 119n, 122, 123,
168,
Porta, Antonio 170
Pratt, Hugo 169
Praz, Mario 90 e n
Preisner, Zbigniew 50
Proust, Marcel 58
Prunster, Nicole 45n
Queirós, José Maria Eça de 172
Quondam, Amedeo 112n
Raboni, Giovanni 139n
Raggini, Mauro 128n, 172
Raimondi, Ezio 139n
Rampling, Charlotte 63
Rauch, Andrea 169-170
Rego, José Lins do 172
Rego, Paula 16, 158 e n, 159 e n,
170, 177
Rilke, Rainer Maria 42n
Rimini, Thea 31n, 60n, 72n, 84n,
97n, 126n, 149n, 156n, 163, 164,
166-170
Rissetto, Stefano 66n
Rocchi, Laura 172
Rodoreda, Mercè 159n, 176
Roelens, Nathalie 24n, 40n, 122n
Rohmer, Eric 19
Rosa, João Guimarães 130 e n, 172
Rosengarten, Ruth 159n
Rotelli, Marco Nereo 123n
Ruchat, Anna 133n
Saffo 165
Salazar, António de Oliveira 99, 107,
127, 137n, 167, 174
Salgot, José Antonio 168
Sambuco Correia, A. 175
Savinio, Alberto (Andrea De Chirico)
87
Savino, Giancarlo 169
Scarpa, Domenico 77, 178
Scarponi, Alberto 53n, 175
Scavone, Márcio 169
Schulz, Bruno 166
Sciascia, Leonardo 80n
Sebastiano I de Aviz 140-145
Sebestik, Miroslav 176
Segal, George 57
Segre, Cesare 73n
Seguí, Antonio 170
Seixas, Maria João 22n, 174
Sereni, Vittorio 51 e n, 173
Shakespeare, William 54n
Silva, Maria Helena Vieira da 170
Soares, António da Fonseca (António
das Chagas) 114n, 171
Sofri, Adriano 148, 150n
Sontag, Susan 89 e n
Sordi, Alberto 52
Sotomayor, María Augustina Sarmien-
to de 108
Spaccini, Jacqueline 121n
Staino, Sergio 169
Stegagno Picchio, Luciana 130n, 171,
172
Stendhal (Marie Henri Beyle) 121n,
135, 136, 164
Stevenson, Robert Louis 166, 174

184 185
Stewart, James 50, 71
Stipitivich, Stefano 169
Strada, Gino 152, 153
Strauss, Frédéric 75n, 139n, 171
Surdich, Luigi 67 e n, 146 n, 171
Susini, Clemente 114
Svevo, Italo (Aron Hector Schmitz)
165
Szymborska, Wislawa 153 e n
Taggi, Paolo 38n
Tanner, Alain 49
Tassi, Roberto 169
Tavola, Michele 170
Teroni, Sandra 82n, 175
Tessitore, Giovanna 133n
Tintoretto (Jacopo Robusti) 133
Togni, Marcello 73 e n, 154n, 176
Toscani, Oliviero 170
Totò (Antonio De Curtis) 52
Treccani, Ernesto 133n, 167
Trentini, Nives 27n, 40n, 90n, 126n,
157n, 158n
Tricomi, Antonio 60n, 72n
Truffaut, François 68, 69, 81, 82
Tucci, Patrizio 63n
Ungaretti, Giuseppe 103
186
Van de Velde, Jean 98
Vansconcelos, José Carlos de 175
Vanvolsem, Serge 126n
Vecchio, Sergio 14, 48n, 60 e n, 61n,
130, 135n, 163, 176, 178
Velasco, Isabel de 108
Velázquez, Diego Rodríguez de Silva
y 15,16, 107, 108, 109, 111 -
113, 115n, 116, 117 e n, 118,
141 143
Velázquez, José Nieto 108, 117, 118
Verde, Cesário 49
Verde, Simone 146n, 163, 167, 168
Vermeer, Johannes 133
Vespa, Bruno 148
Vicente, Gil 172
Vigo, Jean 56, 57
Vila-Matas, Enrique 118 e n
Virdis, Maurizio 63n
Vitali, Giancarlo 133n, 167
Wagner, Michel J. 60n, 110n, 175
Welles, Orson 50n, 56 e n
Wohl, Hellmut 150n
Zenith, Richard 158n
Zingone, Alexandra 113n
Zuliani, Fulvio 132n