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SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

IL GIUDICE CIVILE E IL GIUDICE TRIBUTARIO: L’ANALISI DELLE

FATTISPECIE COMUNI SOTTO LE DUE DIVERSE PROSPETTIVE.

UTILIZZABILITÀ AI FINI TRIBUTARI DEI DOCUMENTI

ACQUISITI DALLA POLIZIA GIUDIZIARIA

di Livia Salvini

1. Funzione dell’autorizzazione del magistrato.

1.1. Si è molto discusso in passato sul tema della funzione che riveste

l’autorizzazione concessa dal magistrato di cui agli artt. 63 d.P.R. 633/72 e 33,

comma 3, d.P.R. 600/73. In particolare, ci si chiedeva se tale provvedimento

autorizzativo costituisse una condizione per la legittimità dell’accertamento o se fosse

prevista solo in funzione di garanzie proprie delle indagini penali.

Inizialmente, la Corte di Cassazione aveva appoggiato l’orientamento

manifestato da alcune Commissioni di merito secondo il quale il provvedimento

autorizzativo era necessario per il legittimo ingresso dei dati acquisiti dalla polizia

giudiziaria nel procedimento tributario e, cioè, che fosse posta a tutela del

contribuente. Si veda, su tutte, la sentenza della Corte di Cassazione n. 5111/1996.

Successivamente, la Suprema Corte ha modificato il proprio orientamento

sancendo che tale provvedimento autorizzativo rilasciato dal magistrato – diverso

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dall’autorizzazione del Procuratore della Repubblica previsto ai fini dell’accesso ai fini

fiscali – è previsto a salvaguardia delle indagini penali e non a tutela del contribuente.

In altre parole, si ritiene, secondo un orientamento che si è via via consolidato in

seno alla Corte di Cassazione, che la mancanza dell’autorizzazione non può

precludere l’utilizzabilità ai fini fiscali degli elementi probatori acquisiti in sede penale.

Si veda in proposito la sentenza n. 23729/2013, in cui la Corte afferma che

“l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria, richiesta dal D.P.R. 26


ottobre 1972, n. 633, art. 63, comma 1, per la trasmissione, agli uffici delle
imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza
nell'ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza
delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento
medesimo o di terzi, con la conseguenza che la sua mancanza, se può
avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca
l'efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l'invalidità dell'atto
impositivo adottato sulla scorta degli stessi”.

Nello stesso senso depongono altresì, senza pretesa di esaustività, Cass., sent.

nn. 10573/2011, 16233/2010, 22173/2008, 18868/2007, 4905/2007, 20601/2005,

3852/2001.

Tale orientamento è stato però criticato dalla dottrina, la quale osserva che

l’autorizzazione del PM non è prevista al solo fine di salvaguardare il buon esito delle

indagini penali, ma è altresì posta a tutela dei diritti fondamentali della persona

oggetto dei controlli, tra cui il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. Pertanto, gli

elementi di prova trasfusi dal processo penale a quello tributario senza

l’autorizzazione del PM sarebbero inutilizzabili e costituirebbero, se acquisiti, causa di

annullamento dell’atto impositivo.

Si è altresì osservato che la posizione della giurisprudenza di legittimità,

secondo cui la Guardia di finanza può trasmettere ad libitum i dati raccolti in sede

penale senza la citata autorizzazione, potrebbe comportare che il pubblico ministero

non sia più titolare esclusivo del potere di valutare se e quando derogare al segreto

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sulle indagini. Tuttavia, nella sentenza n. 23729/2013 si precisa che la mancanza

dell’autorizzazione “può avere riflessi a carico del trasgressore”, cioè di colui che ha

trasmesso gli atti per l’utilizzo in sede fiscale.

Inoltre, sempre in tale sentenza la Corte afferma che la mancanza

dell’autorizzazione non inficia la trasmissione degli elementi probatori acquisiti in

sede penale

“neppure nel caso in cui l'attività di polizia giudiziaria riguardi


soggetti diversi dal contribuente, anche considerato che la L. n. 413 del
1991, art. 18, comma 1, eliminando dal suddetto art. 33, comma 3, le
parole "nei confronti dell'imputato", ha reso irrilevante la circostanza che
l'indagine penale si sia svolta nei confronti del contribuente o di altro
soggetto”.

Pertanto, sarebbe legittimo che un contribuente venga sottoposto ad un

accertamento fondato su elementi derivanti da indagini penali condotte nei confronti

di un terzo.

1.2. Soltanto le prove raccolte in sede di accessi domiciliari non autorizzati

(o invalidamente autorizzati) sono inutilizzabili in sede tributaria, essendo in questo

caso in preminente la tutela del domicilio.

Si veda in proposito la sentenza della Cassazione n. 15230/2001, in cui si

legge:

“A) L'autorizzazione del procuratore della Repubblica di cui


all'art. 52, comma 2, d.p.r. 26.10.1972 n. 633 e, per ciò che qui
specificamente rileva, all'art. 33, comma 1, d.p.r. 29.9.1973 n. 600, giusta
quanto evidenziato sub 1) integrante atto amministrativo condizionante la
legittimità dell'accertamento, sindacabile in sede di contenzioso tributario,
deve, imprescindibilmente, essere motivata, ancorché la relativa
motivazione possa essere concisa ed esaurirsi anche nel semplice richiamo
alla nota della p.a. contenente la richiesta della relativa adozione, facendo
riferimento ad indizi di violazione della norma tributaria che tale richiesta
giustificano (cfr., in terminis, Cass. Sez. I civ., sent. n. 12050 del 1998, già
citata, recante puntualizzazione di postulati ricavabili dalla dianzi
ricordata Cass. SS.UU. civ., sent. n. 8062 del 1990).
B) L'assenza, l'abnormità, l'insufficienza e l'incongruenza della
motivazione addotta per supportarlo, consequenzialmente, si riflettono,
escludendola, sulla legittimità dell'atto in argomento e comportano,
perciò, il potere dovere del giudice tributario che le rilevi di dichiarare

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l'invalidità, dedotta, dell'atto medesimo e, derivatamente, dell'intero
procedimento di accertamento basato su prove acquisite a seguito della
relativa esecuzione, atteso che attività compiute illegittimamente ed in
ingiustificata violazione del diritto, costituzionalmente garantito, alla
inviolabilità del domicilio non possono essere assunte a basamento di atti
impositivi a carico di chi quelle attività illegittime abbia suo malgrado
subito (cfr., per riferimenti, Cass. Sez. I civ., sent. n. 7358 del 27.8.1998).
C) Tanto premesso, con specifico riguardo alla situazione
controversa, è da dire che non può ritenersi suscettibile di integrare
effettiva, sufficiente e congrua motivazione dell'autorizzazione di cui
trattasi il richiamo, diretto o indiretto (correlato, cioé, al contenuto della
richiesta degli organi dell'amministrazione finanziaria) all'esistenza di una
o più fonti confidenziali anonime denuncianti l'esistenza di violazione delle
norme tributarie.
Ed invero, posto che la ridetta autorizzazione è rilasciabile
soltanto "nel caso di gravi indizi" che possano giustificare l'adozione del
considerato mezzo di ricerca di prove di, presunte, evasioni fiscali, nella
sicura totale inettitudine indiziante delle notizie anonime, pertanto
incontrollabili, è da escludere che il richiamo alla esistenza di tali notizie
possa, da solo, costituire valida motivazione del provvedimento
autorizzativo”.

Nello stesso senso, anche Cass., sent. nn. 16424/2002, 9320/2003; più di

recente anche Cass., sent. n. 26830/2014.

La Cassazione (sent. n. 20253/2005) precisa inoltre che l’inutilizzabilità delle

prove reperite nel corso della perquisizione illegale

“non abbisogna di un'espressa disposizione sanzionatoria,


derivando dalla regola generale secondo cui l'assenza del presupposto di
un procedimento amministrativo, infirma tutti gli atti nei quali si
articola”.

Sul più generale tema della (in)utilizzabilità nel processo tributario delle prove

illegittimamente acquisite si rinvia alla relazione del prof. Tesauro.

2. Dichiarazioni rese dall’imputato.

Sulle dichiarazioni dell’imputato l’orientamento è stato sempre quello della

utilizzabilità, sul presupposto che il procedimento penale garantisce un

contraddittorio utile alla difesa dell’indagato/imputato, anticipando dunque alla fase

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processual-penalistica la dialettica tra Fisco-contribuente normalmente posta in essere

in fase di istruttoria fiscale.

In proposito, la giurisprudenza di legittimità (si vedano le sentenze nn.

20601/2005, 9320/2003) ha affermato che le dichiarazioni rese in sede penale dal

contribuente in qualità di indagato non sono assimilabili, nel processo tributario, a

testimonianze, proprio in quanto provenienti dal contribuente/indagato, ma ad esse

deve attribuirsi valore di dichiarazioni confessorie, liberamente valutabili dal giudice

tributario ai sensi dell’art. 116 c.p.c. e, in quanto tali, idonee a costituire prova

esclusiva della fondatezza dell’accertamento, soprattutto se mai ritrattate dallo stesso

contribuente.

In particolare, nella sentenza n. 20601/2005 la Corte, nel respingere il motivo

sollevato dal ricorrente, afferma che

“La questione relativa alla natura ed al valore probatorio delle


dichiarazioni rese dal Sama in sede penale, in qualità di indagato, ha
costituito oggetto di specifico esame da parte del giudice di secondo grado
(pagg. 1113 della sentenza), il quale, dopo avere correttamente escluso
che tali dichiarazioni siano assimilabili a testimonianze, proprio in quanto
provenienti dal contribuente-indagato, conclude con adeguata e coerente
motivazione nel senso di attribuire ad esse valore di dichiarazioni
confessorie, liberamente valutabili dal giudice tributario e nella specie
idonee a costituire prova esclusiva della fondatezza dell'accertamento,
anche perchè mai ritrattate dallo stesso contribuente.
Il principio secondo cui la confessione resa in sede penale è
utilizzabile dal giudice tributario anche come prova esclusiva della pretesa
tributaria è d'altro canto conforme alla giurisprudenza di questa Corte
(Cass., 9320/03)”.

Più di recente, con la sentenza n. 20032/2011, la Cassazione ha riconosciuto

alle dichiarazioni rese dagli organi della stessa società contribuente in sede penale

“ampio valore probatorio, per il loro carattere confessorio”.

3. Dichiarazioni del legale rappresentante.

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Le dichiarazioni del legale rappresentante della società non rivestono la natura

di mere dichiarazioni testimoniali, bensì di confessioni stragiudiziali e quindi

costituiscono non già prova indiziaria ma diretta, non necessitando come tale di

ulteriori riscontri.

Si veda in proposito la sentenza n. 5931/2015, in cui la Suprema Corte

afferma che

“le dichiarazioni rese in sede di verifica dal legale rappresentante


di una società possono, anche da sole, fondare l'accertamento di un
maggior imponibile ai fini dell'IVA e delle imposte dirette. Tali
dichiarazioni non rivestono, invero, la natura di mere dichiarazioni
testimoniali, in quanto il rapporto di immedesimazione organica che lega
il rappresentante legale alla società rappresentata esclude che il primo
possa essere qualificato come testimone, in riferimento ad attività poste in
essere dalla seconda; esse possono, invece, essere apprezzate come una
confessione stragiudiziale, e costituiscono pertanto prova non già
indiziaria, ma diretta, del maggior imponibile eventualmente accertato
nei confronti della società, non abbisognevole, come tale, di ulteriori
riscontri (Cass. 23816/05; 12271/07; 22122/10)”.

Già in precedenza, la Corte di Cassazione si era espressa sulle confessioni rese

in sede penale dagli amministratori di una società (sent. n. 19862/2012), ritenendo

che esse sono pienamente utilizzabili nel contenzioso tributario in quanto non

violano il divieto di prova testimoniale sancito dall’art. 7, 4° comma, d.lgs. n. 546 del

1992, secondo le medesime argomentazioni suesposte.

Tali confessioni, dunque, pur avendo solo portata indiziaria, possono

assumere efficacia decisiva nel processo tributario, anche se non corroborate da

riscontri documentali; in ogni caso, il giudice tributario deve procedere ad una

valutazione globale degli elementi disponibili, e, anche in tal caso, laddove intenda

escludere l’utilizzabilità delle predette dichiarazioni, deve spiegare le ragioni della loro

non attendibilità (così Cass., sent. n. 5746/2010).

4. Dichiarazioni di terzi.

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Il tema della utilizzabilità di dichiarazioni di terzi è strettamente connesso al

divieto di prova testimoniale nel processo tributario. Sul punto, come è ben noto, è a

suo tempo intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 18/2000, che ha

ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 7 del

d.lgs. 546/92, affermando che il divieto di prova testimoniale nel processo non

comporta di per sé l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di terzi raccolte nella fase

procedimentale.

La Corte di Cassazione si è subito conformata a tale orientamento,

riconoscendo che tali dichiarazioni costituiscono elementi indiziari, i quali possono

concorrere a formare il libero convincimento del giudice, fermo restando che non

sono elementi idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione.

Si vedano in proposito le sentenze nn. 15538/2002, 2658/2007, 14879/2007.

In ossequio ai principi costituzionali del giusto processo e della parità delle

parti, è però riconosciuta anche al contribuente la facoltà di introdurre, nel processo

tributario, le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale. Anche tali

dichiarazioni avranno il valore probatorio di elementi indiziari e, in quanto tali, sono

liberamente valutate dal giudice tributario alla luce del materiale probatorio prodotto

nel giudizio (vedi sent. n. 16978/2012).

Con la sent. n. 11785/2010 (nello stesso senso, sent. n. 7707/2013), la

Cassazione censurava la sentenza di 2° grado per essersi fondata solo su prove

testimoniali, assunte in sede penale, ma vietate in quella tributaria.

A tal proposito, la Corte ha precisato che il divieto di cui all’art. 7, comma 4,

del d.lgs. n. 546 del 1992 si riferisce solo alla prova testimoniale da assumere nel

processo tributario, mentre tale limite non è scalfito dall’utilizzabilità, nello stesso,

delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria in sede procedimentale e

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rese da terzi e, del pari, delle dichiarazioni, introdotte dal contribuente, e rese da terzi

in sede extraprocessuale. Questo perché tali informazioni testimoniali – così

prosegue la Corte di Cassazione nella motivazione – rivestono il valore probatorio

proprio degli elementi indiziari e nessuna censura può essere sollevata alla sentenza

impugnata se ad essi è stata attribuita tale natura dalla Commissione Tributaria e se

hanno contribuito a formare, con un’adeguata motivazione, il convincimento del

giudice.

Più di recente, la Cassazione ha ribadito, nella sentenza n. 6953/2015, il

medesimo principio secondo il quale

“Le dichiarazioni … dei terzi raccolte dai verificatori,


quand'anche nell'ambito di un procedimento penale, e inserite nel processo
verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite
nell'ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente
utilizzabili quali elementi di prova (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20032 del
30/09/2011) e di convincimento, sebbene esse non siano state assunte o
verbalizzate in contraddittorio con il contribuente, da nessuna norma
richiesto (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21812 del 05/12/2012).
Si tratta di atti che, legittimamente assunti in sede penale e
trasmessi all'amministrazione tributaria, entrano a far parte, a pieno
titolo, del materiale probatorio che il giudice tributario di merito deve
valutare, così come previsto, tra l'altro, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63,
(Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2916 del 28/3/2017). Del resto, in base al
principio del giusto processo e della parità di armi processuali tra le parti,
è riconosciuta ampia facoltà di prova contraria, potendo il contribuente
avvalersi, se lo ritenga, anche di analoghi mezzi conoscitivi da riversare
nel processo (Corte cost. n. 109 del 2007). Infine, va ricordato che le
dichiarazioni rese in sede penale, pur avendo solo portata indiziaria, ben
possono assumere efficacia decisiva nel processo tributario, anche se non
corroborate da riscontri documentali; il giudice tributario deve, infatti,
procedere a una valutazione globale degli elementi disponibili, spiegando,
ove intenda escludere l'utilizzabilità delle predette dichiarazioni, le ragioni
della loro inattendibilità. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8772 del 04/04/2008)”.

In relazione alle prove testimoniali, si segnala altresì la sentenza n.

8037/2013, in cui la Corte di Cassazione afferma che

“deve esser rammentato come non sia affatto impedito al giudice


tributario di liberamente apprezzare sotto l'aspetto indiziario le prove
assunte in un processo penale. Comprese, ovviamente, le prove
testimoniali. Difatti, il divieto della prova testimoniale D.Lgs. 31 dicembre
1992, n. 546, ex art. 7, riguarda esclusivamente la diretta assunzione della

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stessa da parte del giudice tributario (Cass. n. 20032 del 2011; Cass. n.
14960 del 2010)”.

5. Intercettazioni telefoniche.

In merito alle intercettazioni telefoniche eseguite durante le indagini penali

relative a un contribuente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che, se assunte

legittimamente, esse possono essere utilizzate anche nel giudizio tributario (si vedano,

in proposito, le sentenze nn. 2916/2013 e 4306/2010).

In entrambe le pronunce, la Suprema Corte ha escluso che il divieto di

utilizzo dei risultati delle intercettazioni potesse operare all’interno del procedimento

tributario, richiamando a giustificazione dell’assunto l’impossibilità di estendere

l’applicazione di una norma processuale a una procedura disciplinata da regole

strutturalmente diverse rispetto a quella penale. In tal senso, così si legge nella

sentenza 2916/2013:

“il divieto, posto dall'art. 270 c.p.p., di utilizzare i risultati di


intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quello in cui furono
disposte non opera nel contenzioso tributario, ma soltanto in ambito
penale, non potendosi arbitrariamente estendere l'efficacia di una norma
processuale penale, posta a garanzia dei diritti di difesa in quella sede, a
dominii processuali diversi, come quello tributario, muniti di regole
proprie (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4306)”.

6. Perizia.

Con la sentenza n. 6918/2013, la Cassazione si è nuovamente pronunciata

sulla valenza probatoria del materiale proveniente dal processo penale (nella specie,

una perizia), inserendosi nell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di

legittimità.

In particolare, la Corte ha così affermato:

“In ogni caso, non può revocarsi in dubbio che, nel processo
tributario, il giudice possa legittimamente fondare il proprio
convincimento anche sulle prove acquisite nel processo penale, pure se

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questo è destinato a concludersi con una pronuncia non opponibile alle
parti del giudizio civile, purchè tali prove vengano dal giudice tributario
sottoposte ad una propria ed autonoma valutazione (Cass. 12577/00,
2409/05, 22200/10). Tanto più che, nella specie, la perizia in coerenza con
la sua natura di strumento ausiliario di integrazione delle conoscenze del
giudice ha svolto effettivamente un ruolo di supporto alle altre
acquisizioni processuali, ed in relazione ad un accertamento specifico e
limitato ad una questione strettamente tecnica (il funzionamento delle
apparecchiature elettroniche, in termini di registrazione degli introiti delle
giocate)”.

Sul tema, si veda altresì la sentenza della Corte di Cassazione n. 1250/2007, in

cui si legge:

“Va evidenziato in premessa che le sentenze dei giudici di merito


(della C.T.P. e della C.T.R.) si fondano esclusivamente sulle risultanze di
una perizia eseguita in un procedimento penale (a cui la P.A. non aveva
partecipato) definito, peraltro, con una sentenza istruttoria di
proscioglimento, che come tale non ha alcuna efficacia vincolante nel
processo tributario (v. Cass. 13.01.2006, n. 586). Si osserva poi che tale
elaborato peritale non è stato neppure prodotto nel giudizio tributario
nella sua interezza (sono state allegate due sole pagine su ben 1600), per
cui si deve ritenere che il giudice tributario non ne ha avuto effettiva,
diretta cognizione, tanto è vero che il medesimo non ha citato o potuto
citare alcun paragrafo o brano o altra specifica circostanza della perizia
stessa, in modo da motivare in qualche modo il proprio convincimento sul
punto decisivo della valenza probatoria dello stesso elaborato peritale. Va
poi rimarcato che ben diversa era la finalità cui tendeva la perizia nel
giudizio penale (doveva stabilirsi il superamento della soglia di evasione
di rilevanza penale), che certamente non poteva essere letta ed interpretata
alla stregua di una verifica fiscale che ha ben altri scopi, come quella
eseguita dalla G.d.F. sulla base delle indagini bancarie di cui si è fatto
cenno. Si deve dunque dedurre da queste considerazioni, che il giudice
d'appello ha omesso del tutto di motivare il suo convincimento su tali
punti decisivi della controversia, non avendo proceduto al diretto esame
di tali elementi per sottoporli a vaglio critico”.

Quindi, la perizia assunta in sede penale non vincola il giudice tributario ed è

da questi liberamente valutabile.

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