Il bilanciamento tra diritto alla sicurezza e diritto di satira.
La lotta al terrorismo internazionale, specialmente nei suoi sviluppi più recenti, ha
indubbiamente sollevato un mare magnum di questioni di varia natura, tuttavia risulta evidente come questa ponga un problema di sicurezza; problema che assume un carattere cruciale in un contesto, come il nostro, nel quale invece i diritti individuali rivestono un ruolo primario e sono costituzionalmente tutelati. L’irruzione prepotente di sempre crescenti istanze di sicurezza nell’ordinamento ha infatti posto la questione del bilanciamento con i diritti individuali. Il problema, anche a seguito dei recenti eventi di Parigi, può essere specificato in riferimento al diritto di satira: ci si può chiedere,cioè, se quest’ultimo ,che incontra già limitazioni quando impatta con il sentimento religioso, possa trovare un ulteriore limite esterno proprio nella sicurezza. Si tratta di bilanciare due diritti parimenti tutelati dall’ordinamento a livello costituzionale , a livello sovranazionale ed internazionale: da un lato il diritto di satira è un diritto soggettivo a rilevanza costituzionale rientrante nell’ambito di applicazione dell’art.21 Cost., quale specificazione della libertà di espressione (tuttavia ,a livello giurisprudenziale,la Corte di Cassazione con la sentenza n° 4943 del 1996, si è espressa affermando che “la satira, per essere accettata come libera manifestazione di pensiero a norma dell’art. 21 Cost., non deve porre in essere un comportamento denigratorio o diffamatorio che si configuri come lesivo dell’altrui reputazione”),dall’altro lato il diritto alla sicurezza viene garantito convenzionalmente, per esempio dall’art. 5 CEDU e dall’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Infatti se è vero,come ha sostenuto il professore Viola, in occasione del seminario “Essere o non essere Charlie Hebdo? un nuovo labirinto giuridico tra libertà e sicurezza” ,riprendendo tra l’altro la posizione del prof. Pagliaro, che nel diritto non esistono valori assoluti,allora bisogna trovare un equilibrio tra queste due istanze che sembrano collidere. Tuttavia non tutte le voci del panorama giuridico e culturale italiano concordano su tale premessa, ad esempio,in un’ intervista rilasciata a “Il Fatto Quotidiano” del 14 gennaio 2015,il giurista Stefano Rodotà sembra tenere un atteggiamento cauto nei confronti delle limitazioni alla libertà di espressione. Infatti in un contesto di minaccia globale da parte del terrorismo internazionale,l’interesse coinvolto non è più quello di una ristretta cerchia di soggetti (come nel caso dei “versetti satanici” di Salman Rushdie, per i quali venne emessa una sentenza di morte secondo il diritto della Shaaria islamica),bensì della collettività intera,non essendoci confini agli attentati terroristici ( si pensi alle vicende di Tunisi, New York, Londra).Ad ogni modo la questione rimane aperta in quanto è innegabile il fatto che far pendere l’ago della bilancia dall’una o dall’altra parte comporta notevoli implicazioni,soprattutto sotto il profilo penalistico.
Ci chiediamo infatti,guardando alla “parte generale”,se un sistema eccessivamente
sbilanciato a favore della sicurezza finisca per legittimare,o comunque avvalorare, quella categoria di cui parla il penalista tedesco Gunther Jakobs, il cd. “diritto penale del nemico”,una sorta di secondo binario che comporta una vera e propria differenziazione nella risposta sanzionatoria da parte dell’ordinamento verso alcuni soggetti,di volta in volta identificati come nemici da parte della società,con ripercussioni anche sul piano della compressione dei diritti individuali. Aggiungendo ulteriori spunti problematici alla questione,ci si chiede se gli strumenti tradizionali del diritto penale,non essendo efficaci nella loro funzione preventiva,non debbano invece cedere il posto a leggi ad hoc anche a livello internazionale ed anche ad interventi a livello di Soft Law e di codici di condotta. Così come ci si chiede se il paradigma della libertà di pensiero e di conseguenza della sicurezza, venga messa in discussione non solo dall’esterno, ma anche dal nostro stesso interno dai gruppi xenofobi, che in nome dell’identità vogliono uno stato chiuso nelle proprie frontiere.
Aveva, dunque, forse ragione Montesquieu, quando diceva che “la libertà consiste nella sicurezza, o almeno nell’opinione che si ha della sicurezza”?