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20 // //
|||| | | N|N| |||||||||

In capo alla corda... un maresciallo di Francia... nel'a barca una bella Messica
(sua moglie) e un nipote di lei.
l’AG. 3.

NM | L_ A N CD
TIPOGRAFIA EDITRICE DANTE ALIGlIIERI
DI

ENRIC0 POLITTI
1874.
B A Z A IN E

(1874)

Rimpetto alla città di Cannes, nella Francia meridionale, tra il


capo Roux e quello di Galupe, in un clima delizioso, sorgono dal Me
diterraneo due isolette che, dal nome di un' antica divinità, sono
chiamate Lerine. Una di esse, l'isola di Santa Margherita, è lontana
due chilometri dalla costa e ne ha sei di lunghezza. E arida anzi che
no, come sono in generale le coste della Provenza. Havvi un castello
che servi di prigione di stato a molti distinti personaggi, tra i quali
l'uomo dalla maschera di ferro e alcuni capi arabi d'Algeria. Questa
isola, come l'altra di Sant'Onorato, che un canale largo un chilometro
da essa divide, è circondata da scogli che ne rendono molto pericoloso
l'accesso.
Un gran colpevole, secondo l'opinione dei più, un grande sventu
rato, come altri credono o fingono di credere, era chiuso nel castello di
Santa Margherita, al principio d'agosto 1874, il maresciallo Bazaine.
Noi viviamo in tempi veramente civili! Generali come il Bazaine
ne' tempi antichi sarebbero stati condannati ad obbrobriosa morte; a
Cartagine, per esempio, crocifissi. Oh miti costumi dell'età nostra,
in cui l'uomo il quale, piuttosto che perire colle armi alla mano, con
senti a sottoscrivere la vergognosa capitolazione di Metz, e non solo ha
salva la vita, ma è custodito in un forte dove ha per consolazione la
compagnia della sua famiglia e la vista di un bel cielo e del mare!
Meno fortunato però di un altro, colpevole al pari di lui, anzi più di
lui, un uomo reo d'immensa vigliaccheria, che passeggia a fronte alta
le vie di una città italiana, le vie di Torino !
BAZAIN

Il luogo,dove per alcuni mesi abitò Bazaine a Santa Margherita,


è posto da una parte a picco sul mare, dall'altra è preceduto da un
giardinetto, che ha circa venti metri di lunghezza su cinquanta di lar
ghezza; come si vede, si era pensato a tutto, anche al passeggio del
prigioniero e dei suoi bimbi ! Le stanze sono sei a pianterreno; ivi al
loggiavano otto persone, Bazaine, la marescialla, bella e giovane messi
cana ch'egli aveva sposato durante la spedizione francese in quella parte
d'America, tre figli loro, il colonnello Villette, amico del maresciallo, e
due persone di servizio.
Era dunque, piuttosto che una carcere, un casino di campagna, ove
il fedele servitore di Napoleone stava a domicilio coatto. fin che gli
piacque di uscirne in un modo che si vuol spacciare come pericoloso,
romanzesco, ma che sembra piuttosto essere stato sicurissimo e al tutto
prosaico. Quando le passioni saranno calmate, quando non si avrà più
cagione di nascondere, di travisare la verità, tutto sarà conosciuto, e
noi o chi verrà dopo di noi saprà se l'uomo di Metz sia uscito dal suo
casino per la porta, ovvero per una corda pendente in una notte tene
brosa sui flutti irati e sui pericolosi scogli del Mediterraneo.
Diamo dunque le due versioni. Il lettore è libero, secondo le sue
opinioni e i suoi gusti, di scegliere quella che gli va meglio a' versi.
È la notte dal 9 al 10 agosto, una notte scura, burrascosa, sulle
coste e nelle acque della Provenza. Di sotto un mare infuriato, tutt'in
torno nebbia; in mezzo il vuoto, una corda.
In capo a quella corda, è un uomo panciuto, dalla faccia volgare,
un maresciallo di Francia, l'antico soldato della Cabilia, del Marocco,
della Crimea, del Messico e delle rive del Reno.
Sotto quella corda, appiccata a una prominenza della roccia, è
l'oscurità profonda, il mare immenso, le onde mugghianti. Poi un
punto nero, un grano di sabbia sull'abisso che minaccia d'inghiottirlo.
È una barca, con una donna messicana splendidamente bella, di venti
cinque o trent'anni, venuta per salvare il suo vecchio marito che ne
ha sessantacinque, e per cui essa può avere l'amore che ha una figlia
o una nipote verso il padre od il nonno. Tanto più meritevole il suo
sacrificio! Presso la generosa e leggiadra donna è un giovane, del paese
di lei, del paese di Montezuma e di Cortez, ove il sole è ardente come
le passioni di quegli uomini e di quelle donne, un parente, un nipote
dell'eroina, un bello e prestante giovane. Uniti solo dai legami di pa
rentela, non da altri più stretti e più cari,come alcuno potrebbe ingiu
stamente supporre, sfidano la morte su quel fragile legnetto per sal
vare il vecchio ad ambi caro, l'eroe che pende in cima alla corda, che
lentamente si lascia strisciare sino al basso, col pericolo, se le forze gli
vengono meno per un istante, di cadere nel baratro, o di ammaccarsi,
di stritolarsi se la bufera lo caccia contro le anfrattuosità della roccia.
Confesso che il quadro è bello, che la descrizione è poetica. Anzi,
FUGEIE ED EVASIONI CELEBRI 5

siccome io sono, innanzi tutto, amante del bello, e pizzico un poco


del poeta, faccio tacere in me la ragione e le passioni partigiane, e
dico che questa è la verità vera, frase inventata oltr'alpi, probabil
mente per distinguerla dalla falsa. Cosi è fuggito, non altrimenti, il servi
tore di Napoleone III e del Napoleonide, colui che pospose l'interesse su
premo della patria e la sua fama alla fedeltà dovuta a chi l'aveva
fatto grande e potente. L'amore della libertà dètte al vecchio soldato
le forze che appena possiede un uomo nel fiore della virilità. Tutto il
resto è invenzione dei democratici, è verità falsa.
Se la storiella non è vera, è però, bisogna confessarlo, ben trovata.
I Francesi si sono tante volte burlati di noi, che ci deve essere
permesso, almeno qualche volta, di ridere alle loro spalle.
Ci fu un tempo, per quanto si narra, un inglese bizzarro, eccen
trico, come ora suolsi dire e come sono spesso quegl'isolani, il quale
faceva una collezione di corde che avevano servito ad appiccagioni.
Molto più preziosa e più difficile da raccogliere sarebbe una collezione
di corde adoperate in evasioni celebri. Se quella collezione si facesse, e
se qualche entusiasta avesse per avventura la tentazione di baciare,
come sacra reliquia, qualcuna di quelle corde, per esempio quella per
cui Orsini fuggi dal castello Gonzaga, quella per cui Bazaine si salvò
dall'isola di Santa Margherita. Ma basta, che il tempo stringe, e la
materia abbonda.

« Andiam, chè la via lunga ne sospinge. »

Sentiamo un poco l'eroina del dramma, la bella messicana. Ecco


com'ella, parlando con un corrispondente del Figaro, dopo di aver par
lato delle difficoltà superate per condurre la barca a' pie' del forte di
Santa Margherita, descrive il momento dell'evasione.
« A un tratto udiamo un lieve rumore. Sentite? disse Rul. Si,
sono certa che discende. Di li a un minuto secondo s'intese un nuovo
rumore, come d'un corpo che scivolasse. Ci pareva di udire una corda
che battesse contro gli scogli. -

» Finalmente, non ostante l'oscurità, vidi una grossa massa che si


calava lenta lenta lungo il forte. Tosto presi di tasca un zolfanello e
lo accesi davanti al mio volto, affine di poter essere riconosciuta. Il
maresciallo vide il lumicino e rispose accendendo egli pure uno zolfa
ncllo. Egli era ancora a una grande altezza, ed io era così spaventata
che dissi tra me e me: è impossibile che tocchi mai terra. Seguitammo
a remare, e ci avvicinammo quanto più ci fu possibile. Allora intesi
distintamente uno sfregamento sulla corda. I miei occhi stavano fissi
sul maresciallo, che vidi discendere. D'improvviso mi parve che spa
risse fra due enormi scogli. Questa volta credetti che tutto fosse finito.
Guardai Rul (il nipote di lei) ed esclamai in spagnuolo: se matò,
(6 . BAZAlNE

(s'ammazzò). Non so che cosa accadesse nel momento che segui: quando
riebbi i sensi, vidi il maresciallo nell'acqua, che ora nuotava, ora s'ag
grappava agli scogli. Rul gli gettò una corda che si trovava per caso
nella barca. Il maresciallo l'afferrò e potè avvicinarsi di più; ma, sic
come le forze gli venivano meno e seguitava a tener salda la corda
per non essere portato via dalle onde, tememmo che il suo peso avesse
da capovolgere la barca. Fu un momento terribile. Io mi misi dalla
parte opposta per bilanciare il suo peso. Finalmente Rul s'ingegnò ad
afferrare il maresciallo, a tirarlo su, a metterlo in barca. Il maresciallo,
anzi che entrarvi, vi rotolò dentro. Le sue prime parole furono: ah
miei figliuoli, come mi siete devoti! L'emozione gl'impedi di dire
di più I .
Si dice che tutto questo sia una romanzesca invenzione della bella
marescialla e di Rul, e che Bazaine sia uscito nottetempo dalla porta
del forte, per connivenza dei custodi, forse del governo stesso. Altri sono
d'opinione che questa ultima asserzione sia poco probabile, essendostato
il generale Chabaud-Latour, ministro della guerra, uno dei giudici che
condannarono a morte il Bazaine.
Checchè si sia, è certo che la marescialla, accompagnata dal fido
nipote, aveva noleggiato a Genova un vapore della compagnia Peirano,
detto il Ricasoli, a mille franchi al giorno per una corsa di piacere nel
Mediterraneo; che il vapore era nelle vicinanze dell'isola quando Ba
zaine si mise in salvo, e che raccolse il fuggitivo co' suoi compagni per
a Genova.
Come Bazaine aveva potuto procurarsi una corda, come eludere la
sorveglianza de' suoi custodi? Ben s'intende, queste domande ammettono
chesia vera la storia dell'evasione, come è raccontata dalla marescialla
e da' suoi compagni ed amici.
Ecco quello che raccontò la signora Bazaine su questo proposito.
« Avevo portato io stessa al maresciallo in prigione una cintola
munita di un gancio di ferro per attaccarvi la corda e sostenersi più
facilmente in aria. La corda lunga 27 metri era stata preparata alcuni
giorni prima, e messa intorno a dei bauli mandati al maresciallo. Av
vertito da me, ogni sera stava in vedetta dalla parte della baia.
Appena ci ebbe scorti, la sera del 9 agosto, andò ad attaccare la
corda nel luogo da lui predisposto. C'era nel muro del pian terreno
un foro per lo scolo dell'acqua: il maresciallo l'avea pulito col suo ra
strello da giardino. Vi fece passare la corda e ne assicurò il capo ad
una sbarra di ferro che attraversava il foro e la ricoperse di terra.
Durante questo tempo il signor De Marchi, governatore della fortezza,
era a tavola. S'alzò quindi e passeggiò col maresciallo e col colon
nello Villette; essi parlavano tranquillamente. Alle dieci meno un quarto
il maresciallo disse: sono stanco anzi che no; stassera andrò a letto
prima del solito. Il governatore si ritirò. Allora Bazaine si portò cam
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 7

minando carponi al lato opposto del terrazzo, dov'era la corda. Era


tempo, giacchè alle dieci doveva arrivare la sentinella notturna, e al
lora la fuga diveniva impossibile. Quando venne il carceriere a chiu
dere, dal di fuori, a chiave la porta della camera del maresciallo, egli
credette che fosse già a letto.
« Il maresciallo mi disse dopo, che si spaventò davvero quando con
templò l'abisso su cui era sospeso. La corda a un certo punto non era
più tenuta ferma dal peso del corpo. Il vento lo spingeva a destra o
a sinistra, dimodochè egli venne a noi colla parte inferiore del corpo
piena d'ammaccature e colle mani insanguinate. I suoi abiti erano la
ceri; i suoi calzoni sopratutto erano in brandelli. Li teniamo come un
ricordo. La cintola col gancio che io gli aveva dato, gli fu utilissima:
essa gli diè modo di rimaner sospeso per un momento con una mano
sola e di cercare nel taschino del panciotto una scatoletta di fiammiferi
per rispondere al mio segnale ».
Sul vapore e a Genova,dove scesero partendo da Cannes, Bazaine
si spacciò come un servo della signora e del suo compagno. Da Genova
arrivarono a Milano alle 11, 50 antimeridiane del giorno 11, e smonta
rono all'albergo della Gran Bretagna: parlavano tra loro in spagnuolo;
il signor Rul faceva l'interprete; Bazaine stesso scrisse sul registro
dei forestieri i seguenti nomi: « Don Francisco Ascarate, Dona Maria
Ascarate, Don Arthure Ascarate; » luogo di provenienza Espana. Poscia
si recò allo stabilimento Bocconi a comprare degli abiti nuovi. Ai ca
merieri dell'albergo che parlavano francese, rispondeva sempre in lin
gua spagnuola, benchè tratto tratto gli sfuggisse qualche vocabolo
francese.
Da Milano i tre compagni partirono per la Svizzera, indi per la
Germania, finalmente si recarono a Spa.
I giornali pubblicarono, oltre i particolari della fuga, una lettera
della signora e una di Bazaine al ministro della guerra. Lo scopo prin
cipale di queste lettere è di sostenere che l'evasione avvenne senza
connivenza dei custodi del forte. La verità sarà chiarita dall'istruzione,
che ordinò il governo francese, o piuttosto presto o tardi dalla storia.
Sembra però certo che l'amico e compagno di Bazaine, il colonnello Vil
lette, ignorasse ogni cosa. Bazaine lo chiama in una lettera « suo ne
mico ». Il Villette che era già prima partito per Marsiglia, il coman
dante del forte De Marchi e i carcerieri furono tutti arrestati. E strano
che la custodia del bonapartista Bazaine sia stata affidata al Corso
e bonapartista De Marchi.
ll furore di tutti i partiti in Francia, tranne il bonapartista, per la
fuga di Bazaine, è immenso; i commenti, le congetture infinite. Chi
vuole che la vita politica del vecchio maresciallo sia finita persempre; chi
erede di vederlo in un'alta posizione, forse in Francia, tra breve. Chi
vivrà, vedrà, come dice il proverbio francese.
I

R O C II E F O RT

Grousset, Pain, Jourdes, Baillière e Granthille.

(1874)

Non vi sono due uomini al mondo che meno si rassomiglino di


coloro, i cui nomi succedonsi immediatamente sul principio di quest'opera
nostra, Bazaine e Rochefort. Quegli è un uomo del popolo salito per il
suo valor militare dagli ultimi gradi della milizia al sommo: ad esso
può veramente applicarsi quel detto francese, che ogni soldato porta
nella sua giberna il bastone di maresciallo. Questi appartiene ad un'an
tica famiglia della più illustre nobiltà francese, e per uno strano
concorso di circostanze, che nessuno ed egli meno che altri poteva
prevedere,è divenuto uno dei corifei della democrazia più avanzata. Il
maresciallo venne a gran fama col farsi sostegno del potere assoluto
o camuffato con vane larve costituzionali, nel suo paese ed in un altro da
quello lontanissimo, al Messico; volle ed ottenne onori e pecunia. Il
conte, uomo pochi anni sono oscuro o noto solamente come uno dei
tanti ingegnosi e leggeri autori di vaudevilles e di articoli di giornali,
salse aun trattoinrinomanza, combattendo il potere assolutoeimpegnando
una lotta quasi corpo a corpo col più autorevole e potente campione di
esso in Europa. Bazaine, non il solo ma uno dei tanti uomini che tras
sero a rovina la misera Francia, fu scelto come capo di espiazione ,
condannato a morte e chiuso in una fortezza. Rochefort, per nascita,
per carattere,per abitudini aristocratico anzi che no, poscia uno dei piu
moderati tra i partigiani della riforma sociale, fu pure dannato al
l'estremo supplicio, poi deportato in lontane regioni. Quegli è vecchio,
obeso, di aspetto volgare; questi è nel fiore della virilità, asciutto di
persona e simpatico se non bello. Ciò solo di comune hanno i due Fran
cesi, che sono fuggiti dal luogo dove erano astretti a domicilio coatto
ed ora son liberi, ma lungi dalla patria loro.
UGIE ED EVASIOMI CELEBRI 9

Non vogliamo qui fare la storia del Figaro, della Lanterne, della
Marseillaise, del Mot d'ordre, i più importanti giornali in cui scrisse Ro
chefort. Si mostrò nel primo sagace osservatore ed elegante scrittore;
nel secondo, coraggioso assalitore dell'uomo potentissimo che reggeva
allora i destini della Francia, servendosi contro di lui dell'arma terri
bile del ridicolo; nel terzo fu rivoluzionario ardente, sebbene al mo
mento dell'azione, per esempio ai funerali di Victor Noir, non mostrasse
la tempra del vero uomo di azione; finalmente nell'ultimo giornale
a vicenda attizzò le passioni e procurò di temperarle: uomo di penna
sovra ogni altra cosa, e sotto la veste del democratico socialista alla
fin fine ancora un poco aristocratico e conte. In un rivolgimenio avve
nire, in un cataclisma, che forse è meno lontano di quello che altri
non creda, e sarà molto più terribile di quello che altri possa immaginare,
Rochefort sarebbe in sulle prime un attivissimo promotore, quindi un mo
deratore; alla fine, travolto dalla corrente, finirebbe forse coll'essere vit
tima delle passioni politiche da esso accarezzate ed irritate.
Quante vicende nella vita di quest'uomo fornito d'ingegno di
stinto e di carattere nobile, generoso, e che ha una delle penne piùaffi
late che giornalista abbia mai avuto, di questo antico collaboratore (1865)
del Figaro diretto dal famoso Villemessant, e poscia autore della let
tera in quest'anno indirizzata al New York Herald, in cui il nome di
Villemessant è a ragione trascinato nel fango!. Una delle più strane
vicende della vita del conte Enrico di Rochefort è appunto la sua eva
sione dalla Nuova Caledonia, dove era stato deportato in compagnia
di molti altri superstiti alle stragi della reazione del 1871.
Di questa celebre evasione parlando, ci serviremo principalmente delle
parole dello stesso Rochefort nella sua lettera a quel giornale americano.
Diciamo prima qualche cosa dell'isola in cui furono trasportate più
migliaia d'insorti francesi condannati dai tribunali eccezionali di Ver
saglia.
La Nuova Caledonia è posta nell'emisfero Australe, all'est del
l'Australia, tra il 20 grado di latitudine sud ed il 22, 30, fra 161 ,
45 e 164, 31' di longitudine. E circondata da scogli madreporici, che
rendono difficilissima e pericolosissima la navigazione delle coste. E
traversata da alte montagne, le più delle quali nude, alcune boscose.
Ha parecchi fiumi, in generale non navigabili, e le cui foci sono
pericolose a cagione delle madrepore che le ingombrano. Dal mese
di maggio a quello di gennaio la temperatura è dolce e il tempo bello:
da gennaio a tutto aprile piove molto e imperversano venti impetuosi e
uragani. Parte del suolo è fertilissima:vi si trovano, a varie altezze sul
livello del mare, vegetabili delle zone calde e delle temperate; molti
altri potrebbero riuscir bene in quella fortunata regione, se ci fossero
piantati. La popolazione indigena sembra prodotta da “un incrociamento
di una razza negra con una di altro colore; ha belle forme di corpo, capelli
10 '. ROCHEFORT'

lanosi, costumi feroci, da qualche tempo alquanto raddolciti dal


Cristianesimo che i missionari procacciano d'introdurvi. E paese che
diventerebbe floridissimo in altre mani, ma non in quelle dei Francesi,
che si sono ordinariamente mostrati cattivi colonizzatori.
Lasciamo ora la parola a Rochefort:
« Durante un anno la marina francese fu unicamente occupata al
trasporto dei condannati. Malgrado che si siano trovati dei capitani
di mare per sollecitare una missione che Jean Bart e Duquesne avreb
bero rifiutato, è nostro debito di riconoscere che un gran numero degli
ufficiali di marina hanno procurato di attenuare ciò che il compimento
del loro dovere aveva di rigoroso.
» Disgraziamente gli ordini superiori lasciavano assai poco mar.
gine alla loro benevolenza. Dopo una visita medica assolutamente ir
risoria, furono imbarcati pazzi e persino moribondi. Napoleone III aveva
sconsiderato Cajenna abbastanza lontana dalla Francia per potervi av
viare con tutta sicurezza le vittime dei suoi misfatti. L'assemblea ver
agliese non si credette fuor di pericolo, che dopo aver scelto a 6000
leghe dalle sue coste mun' isola perduta nelle scogliere dell'Oceano, in
cui i suoi nemici avessero tanta difficoltà ad uscirne quanta ne avevano
trovata per giungervi.
» Migliaia e migliaia di condannati vennero trasportati in quelle
lontane regioni.
» Seicento ottanta uomini erano ammucchiati in una sola nave
senz'aria, senza luce, con lardo salato e biscotto per vitto, durante un
viaggio di cinque mesi. Questo procedere produsse gli effetti previsti:
mettere 680 uomini privi di luce e d'aria respirabile al fondo di una
batteria umida, era sfidare la natura. Sopra la sola nave di trasporto
l'Orne, 480 casi di scorbuto si dichiararono dopo due mesi di viaggio.
Quando uno di questi convogli funebri era entrato nel porto di Numea,
il telegrafo annunziava invariabilmente all'Europa, che la salute a
bordo era soddisfacente. In quanto a coloro, ch'erano morti per via,si
guardavano bene dal farne menzione.
» Coloro i quali, come il mio collaboratore Oliviero Pain, sono rimasti
quasi due anni nelle cave della penisola Ducos,potranno darvi un'idea
della vita che vi si conduce e della morte che vi si trova. Vi diranno
come la deportazione, cui un ministro chiamava enfaticamente « l'esilio
in una colonia » è in realtà una prigionia, » come i migliori operai di
tutte le professioni di Parigi siano condannati all'ozio a perpetuità, per
mancanza di relazioni, di strumenti e di mezzi.
» L'amministrazione, la quale pretende di fare dei deportati altret
tanti coloni, non può farne che dei cadaveri. Le grandi somme spese
per la sorveglianza, per l'installazione di funzionari e per gli stipendii
di varie categorie di guardiani, avrebbero salvato la vita a due terzi
dei deportati, se fossero state impiegate in acquisto di stromenti da
FUGHE ED, EVASIONI CELEBRI 11

lavoro e articoli di coltura. Invece i deportati si relegano come ap


pestati in un lazzaretto, gli uni all'isola dei Pini, gli altri alla peni
sola Ducos. E vietato quasi ogni rapporto cogli abitanti della terraferma,
e intanto vien detto loro « noi vi abbiamo inviati qui per colonizzare:
Perchè non colonizzate?
» Non si consuma in Caledonia un chilogrammo di carne, non si
mangia un pane, non si compra un abito che non venga dall'Australia.
L'industria è nulla, la produzione illusoria. Ignoro ciò che l'avvenire
riservi a questa terra vulcanica; so che finora il governo francese non
ha potuto farne che una voragine, in cui s'inghiottono più di quindici
milioni all'anno. L'immensa distanza che separa la Caledonia della
Francia, fa del governatore non solamente un proconsole o un vicerè,
ma un autocrata che decreta senza discrezione e senza controllo. »
Qui Rochefort svela, tra gli altri orrori che si commettono in quel
remoto paese all'ombra della bandiera tricolore di Francia, anche una
sorta di tratta di Negri; nè le sue osservazioni vennero smentite dai
fogli ufficiali francesi.
Il celebre redattore della Lanterne era rimasto, dopo la sua con
danna, per molti mesi in Francia, mezzo ammalato. Alla fin fine ri
sanato, era stata eseguita la sentenza contro di esso: fu deportato a
Numea, capoluogo degli stabilimenti francesi in Caledonia: si trovava
colà da tre mesi. Sembra ch'egli fosse tra i condannati soggetti a
una vita meno dura degli altri; che quel paese fosse per lui solamente
una terra di esilio, assai doloroso esilio per chi è nato in Europa ed
ha passato i suoi begli anni a Parigi.
« Presto ci divenne insopportabile il respirare l'aria di quel triste
paese! Il ministro della marina signor Dampierre d'Hornoy, con le
alte cognizioni che hanno distinto nell'ultima guerra i nostri ufficiali,
aveva dichiarato che la custodia dei deportati era sicura. I pesci cani
s'incaricavano d'impedire ogni fuga dalla parte dell'Oceano, e i Kanaca
(nativi della Caledonia, antropofagi) ci avrebbero sterminati, se aves
simo tentato di fuggire nell'interno dell'isola. Questa idea ingegnosa
di porci in questo modo tra le mascelle degli uomini e quelle dei pesci
aveva provocato, per parte dei deputati di destra, risa di approvazione.
« Il pensiero di rivedere la Francia ci dominava giorno e notte.
Oliviero Pain, Pasquale Grousset ed io abitavamo una capanna di paglia
sovra una collina: avevamo colà il tempo e il modo di concertarci a
nostro bell'agio. Il nostro piano fu di andar per mare, a nuoto se bi
sognasse, sino a qualche nave il cui capitano consentisse a imbarcarci.
» Avevamo udito narrare che i pescicani, numerosi nella rada, si
riunivano ordinariamente presso il macello situato non lungi dalla pe
nisola, e che nutriti abbondantemente degli avanzi, dei rifiuti delle
carni che si gettano in mare, assai di rado avveniva che assalissero
l'uomo. Oliviero Pain, che ignorava i primi elementi del nuoto, si mise
12 ROCHIEFORT

energicamente all'opera, e un mese dopo il mio arrivo egli era dive


nuto uno dei più abili nuotatori della penisola. Ci famigliarizzammo
col pericolo esercitandoci ogni giorno per due o tre ore al nuoto.
» Io non potrei insistere su certi particolari senza compromettere
qualche brava persona che ci ha prestato il suo aiuto. Fatto sta che
tre deportati residenti pure a Numea, Achille Baillière, Jourdes e B. Gran
thille poterono abboccarsi col capitano Lau, che comandava un legno
inglese a tre alberi. Quest'uomo eccellente, senza rendersi esatto conto
dell'importanza dei prigionieri ch'egli avrebbe a bordo, consenti a con
durci dalla Caledonia in Australia. Ma la penisola era troppo stretta
mente custodita, perchè gli fosse permesso d'avvicinarsi. Ci promise di
riceverci a bordo della sua nave, se avevamo qualche mezzo per andar
a bordo. Quel legno rimaneva in fondo alla rada di Numea, cioè a più
di tre leghe dalla nostra città, cinta di mura fortificate.
» Il viaggio al bastimento inglese fu l'episodio più drammatico
della nostra evasione. Noi avremmo dovuto soccombere alla fatica, se
i nostri amici di Numea non ci avessero risparmiato la massima parte
del cammino, venendoci incontro in una notte scurissima dentro una
baleniera; fummo raccolti nudi e colle carni lacerate dal percuoter dei
flutti e dalle scogliere taglienti come rasoi.
» L'intrepido capitano Lau seppe solamente riconoscendomi a bordo,
ch'egli doveva salvar me pure, e lungi dallo spaventarsi della respon
sabilità cui poteva andar incontro, ci rinnovò più energicamente la pro
messa di proteggerci e di difenderci. La notte che passammo al fondo
della stiva fu delle più tormentose. La partenza era fissata per le sette
del mattino; sventuratamente il ritardo di mezza giornata, cagionato
dalla calma che regnava sul mare, poteva esser cagione della nostra
perdita. Finalmente dopo alcune ore di bonaccia si alzò un vento favo
revole, e in meno di sette giorni eravamo a Sidney, viaggio che richiede
sovente 25 giorni e più. »
Rochefort e i suoi compagni partiti il 30 marzo 1874 dalla Nuova
Caledonia, arrivarono il 6 aprile a Sidney in Australia, di là partirono
per la California, quindi per Nuova York. Indi presero via per l'Inghil
terra, ove giunsero in luglio.
Si erano impegnati a pagare al loro salvatore, il capitano Lau,
una grossa somma, che fu infatti sborsata dai loro amici di Parigi.
Le vicende di Rochefort e de' suoi coraggiosi compagni non son finite:
essi sono serbati a nuove agitazioni, a nuove lotte. Certo i momenti
di azione febbrile, come quello in cui si posero in salvo, lasciando la
triste terra di esilio in cui erano stati relegati dalla reazione che trionfa
in Francia, non possono essere continui o succedersi senza posa. Ma
essi sono di quegli uomini, sulla cui tomba si potrà scrivere ciò ch'è
scritto su quella di Trivulzio nella chiesa di San Babila in questa città:
« bIic tandem quievit. »
III

O RS IN I
(1855)

Non intendiamo di dare tutta la vita politica di questo celebre ri


voluzionario; per far questo, rispetto ad esso e ad altri personaggi di
cui si parla nell'opera nostra, dovremmo uscire dai limiti che ci sono
prescritti. Daremo solamente, compendiando le Memorie di Orsini ed
aggiungendo qualche osservazione, quel periodo che si estende dalla fine
del 1854 sino alla fine del 1855, dal suo viaggio a Milano, a Vienna
in Ungheria, sino alla sua fuga dalle prigioni di Mantova.
A Milano si abboccò col Comitato rivoluzionario e potè accertarsi
che lo scoraggiamento dei democratici era grande dopo i fatti del 6 feb
braio 1853; non aveano però smesso il pensiero di fare altri tentativi.
Orsini era allora conosciuto dai patrioti lombardi sotto il nome di Tito
Celsi. Diede in iscritto delle istruzioni al Comitato sul modo più ac
concio a preparare un nuovo movimento, istruzioni che gli erano state
comunicate da Mazzini.
Compiuta a Milano la missione ricevuta da Mazzini,e persuaso che
un nuovo movimento non dovesse essere molto vicino, decise di met
tersi in viaggio per Vienna; visitò Verona, Vicenza, Venezia; rivide i
luoghi che gli ricordavano i fatti gloriosi del 1848, cui egli pure avea
preso parte.
Nel viaggio per mare da Venezia a Trieste fu riconosciuto da un
Marco Formiggini ebreo di Modena, che poi lo denunciò alla Polizia
austriaca.
Visitò Vienna, ne ammirò i monumenti; vide le tombe degl'impe
1. ORSINI

ratori. Si era proposto di entrare nell'armata russa per combattere


contro i Francesi in Crimea. Aveva fatti profondi studi militari; era
strenuo soldato del 1848. Voleva far esperienza della guerra in grandi
proporzioni e prepararsi a servire l'Italia, come abile e perito capitano,
in tempi migliori. Il segretario dell'ambasciata russa di Vienna gli disse
che durante la pace la Russia soleva ammettere al servizio anche stra
nieri, ma non già in tempo di guerra. Orsini aveva allora un passa
porto svizzero sotto nome di Giorgio Hernagh.
« Pensai allora, di entrare nell'esercito austriaco e di realizzare
così il piano che aveva più volte discusso con Mazzini ed anche con
Kossuth, di fare la propaganda nei reggimenti italiani. Il consiglio non
poteva essere migliore, ma presentava pericoli e difficoltà straordinarie.
Nulladimeno, convinto di servire la mia patria, mi decisi di tentare il
passo. Fui presentato per lettera al feld maresciallo di Salis, allora
in Galizia; e dicevo aver servito nei reggimenti papali, al tempo che
suo padre n'era il generale. Aggiungeva di esser pronto agli esami di
ufficiale di stato-maggiore. »
Siccome avrebbe dovuto entrare come soldato semplice, salvo poi
ad ottenere in breve tempo gradi superiori, rinunciò a questo progetto,
e si pose in viaggio per l'Ungheria e la Transilvania. Voleva, sembra,
andare a prender servizio in Turchia. Fu arrestato a Hermanstadt il
17 dicembre 1854 per ordine venuto dall'alta Polizia di Vienna, che
aveva preceduto di dodici ore il suo arrivo in quella città. Nulla si trovò
nei suoi effetti e sulla sua persona che potesse dare indizio di cospi
razione. Fu assalito da una febbre biliosa.
« Il medico continuò a visitarmi tre volte al giorno, mostrandosi
gentilissimo. Quando cominciai a star bene, l'appetito crebbe, ed allora
appunto per ordine del direttore generale di Polizia mi venne proibito
di spendere del mio per mantenermi. Fui messo a pane ed acqua; il
medico nulla poteva; recandosi da me mi toccava i polsi, crollava il
capo e se ne andava tutto mesto. Divoravo il pane che mi si portava
sul mezzodi; contavo le ore che doveano trascorrere sino all'indomani;
stentavo a dormire per la soverchia debolezza di stomaco, e il capo
mi girava fortemente. »
Ebbe a lodarsi di una guardia carceraria e dello stesso commissario
di Polizia; ma gli ordini di Vienna era rigorosissimi. Fu trasportato a
Vienna incatenato in un carro scoperto con suvvi della paglia. Talora
nelle caserme dei gendarmi ove si fermavano, gli si concedeva un letto,
a piedi del quale facevano sentinella due gendarmi con baionetta in
canna. Altre volte era chiuso in sudicissime carceri criminali. A Vienna
fu cacciato nella Polizei-haus, ch'è il luogo dove sono posti i prigio
nieri prima di passare sotto processo regolare.
» La segreta era lunga e stretta con due finestroni assai alti. Sur
un tavolato che prendeva quasi tutta la stanza, v'erano alcuni sporchi
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 15

paglioni con vecchie coperte; il tutto con buona dose d'insetti. Quattro
individui a me del tutto ignoti mi facevano compagnia. »
Fu condotto dinanzi al capo della sezione politica degli stranieri
alla Direzione di polizia. Subi parecchi interrogatori. Confessò di es
sere italiano; disse che per domestiche amarezze aveva lasciato la To
scana sua patria e chiese di essere mandato ai confini austriaci e quivi
liberato. Il governo sapeva, gli fu detto, che egli era o Garibaldi o
Orsini; non aveva contravvenuto alle leggi durante il suo soggiorno
a Vienna, ma essendo un pericolosissimo rivoluzionario, invece di li
berarlo, gli si sarebbe assegnata per dimora una fortezza. Fu sorpreso
dell'umanità e della gentilezza di quel funzionario austriaco.
Il 4 di Febbraio 1855 ebbe il primo interrogatorio dal consigliere
Alborghetti, giudice processante presso il tribunale provinciale e cri
minale di Vienna, alla presenza di due testimoni e di due segretaritutti
italiani. Confessò ch'era Felice Orsini; dettò in succinto la sua vita
sino dal giorno del suo arresto in Hermanstadt, tacendo, com'è natu
rale, quello che doveva essere taciuto. Non si usavano contro di lui
minaccie o domande suggestive.Si persuase che nulla sapevano intorno
alla missione che aveva adempito in Lombardia. Gli furono fatte nuove
minutissime perquisizioni; gli fu portata via della stricnina, di cui s'era
provveduto per uccidersi nel caso che arrestato fosse stato battuto,
torturato.
Da Vienna fu condotto per la ferrovia a Lubiana, di là in carrozza
a Treviso e quindi, di nuovo per ferrovia, a Mantova, al Castello di
San Giorgio.
« Una volta domandai al commissario che mi accompagnava se le
Prigioni di Silvio Pellico erano proibite. – No di certo, rispose egli:
Silvio Pellico non fa che esporre la verità. – Indi toccando dell'Italia,
fece intendere essere la causa dell'indipendenza ben giusta, ma ch'era
inutile tentare una rivoluzione contro chi disponeva di 300.000 baionette.
« Salita la interminabile scala del Castello, mi trovai a fronte di
un uomo che mostrava di essere sui 55 anni, livido in volto, di
sguardo sinistro, con voce rauca. Era Francesco Casati milanese, capo
custode del Castello di San Giorgio.
Venne posto nella segreta N. 3, visitato dal medico delle carceri
e umanamente trattato. Vide il presidente del tribunale che si recava
a far la solita visita mensile.
Pei prigionieri non malati il vitto consisteva in dodici once di pane
nero, pasta e riso nell'acqua e niente vino. A chi aveva mezzi di fa
miglia, si concedeva di viver del suo. Orsini aveva ancora pochi soldi,
. faceva comperar un po' di pane. Quando non n'ebbe più, Casati lo ob
bligò a prender del pane e si mostrò meno tristo della sua fama.
Più tardi Orsini fu da amici suoi fornito di danaro.
Al tribunale militare di Mantova che aveva mandato alla forca
16 ORSINI

nove patrioti e alla catena parecchie centinaia, era succeduto allora per
giudicare i rei di stato il tribunale civile chiamato Corte speciale di
giustizia, che si componeva di Vicentini presidente e dei consiglieri
Pickler, Schuhmaker e Sanchez; quest'ultimo nato in Austria di padre
spagnuolo, educato in Italia, era il peggiore di tutti.
Dall'insieme delle domande che vennero fatte ad Orsini al primo
interrogatorio, si avvide che sapevasi qualche cosa della sua missione
di Milano. Infatti era tutto scoperto.
« Sanchez trasse un foglio da una scrivania vicina e me lo apri
sotto gli occhi, dicendo assai freddamente:
« Conosce questo carattere?
» Rimasi di gelo; erano le mie istruzioni date al Comitato di
Milano.
« Le volsi d'ambo i lati e con calma risposi;
« – Sono mie.
« Fuvvi silenzio per un istante: indi sentii nascere una forte rea
zione interna, gettai le istruzioni sulla tavola, e con isdegno proruppi
dicendo:
« Invece di spirare sopra un campo di battaglia, morrò impiccato.
E una volta! che fa? Doveva ben terminare cosi. Non importa. Sarà
finita per sempre. Saprò far vedere come si muore. »
De Giorgi ed altri membri del comitato milanese, cui erano state
consegnate quelle istruzioni, erano in potere del tribunale. Questo sa
peva, per delazione o per confessione di accusati, quali discorsi aveva
tenuto Orsini a Milano, quali consigli e promesse aveva dato.
Ricondotto alla sua segreta dopo quel terribile interrogatorio,
Orsini vi trovò il presidente del tribunale, che lo consigliò a fare rive
lazioni, promettendogli che, invece di essere condannato a morte,
avrebbe solo una condanna in vita. Rispose che non sapeva nulla, che
non commetteva viltà.
« Io mi trovavo in uno stato convulsivo. Morirò, diceva; stavolta
la non si fugge; si, morirò con coraggio, con dignità. Ma dunque non
farò più nulla per la libertà d'Italia? non vedrò più i miei vecchi e
i miei bimbi!. A questi pensieri mi gettava sul letto e meditava an
gosciato. »
A un secondo interrogatorio Sanchez gli chiese:
– Quante volte è ella stato arrestato?
- Cinque con questa, che sarà l'ultima.
– Oh! rispose egli, non si può mica sapere!
Infatti tutti sanno ora che non fu quella l'ultima volta che Orsini
fu arrestato, che non in quella, per cui veniva giudicato a Mantova, .
ma in altra audacissima impresa in Francia egli perdette libertà e
vita.

Fughe ed evasioni celebri, Disp. .


FUGHE ED EVA-IONI CELEBRI 17

Nella segreta attigua a quella di Orsini era Calvi, uno dei più
illustri 1martiri italiani. I due patrioti si riconobbero e conversarono
tra loro, per quanto permetteva la sorveglianza delle guardie. Poco
tempo dopo Calvi era condotto al patibolo.

=====

Fuga di Rochefort e de' suoi compagni dalla Nuova Caledonia. PAG. 14.

Quella pure dovea essere la sorte di orsini: egli n'era certo. Al


lora cominciò a pensare alla fuga.
« Per un giorno o due le mie sofferenze morali fecero qualche sosta,
ma poi tornarono da capo; malinconia mista ad accessi di rabbia ed
impazienza. Volgeva l'animo agli amici, alle mie bimbe. Dicevo: se
- fosse il doiuc di lasciare le mie fanciulle senza appoggio, che mi
18 ORSINI

fa di morire? Che cosa è mai la morte? per l'uomo che sente, altro
non è che la quiete del cuore. Dopo qualche istante cadevo spossato,
e, poggiati i gomiti sulla tavola, mi coprivo il volto colle mani e stavo
per lungo tempo in quell'attitudine, gridando: maledizione!. Poi ri
posavo o balzavo in piedi: il sangue mi saliva alla testa: me la ba
gnava a più riprese con l'acqua. Indi guardavo alle sbarre della
prigione, e mi pareva già di esser libero ed esclamava: mi bat
terò ancora per l'Italia; e se morirò, sarà almeno con un ferro in
II18IO,

« Tra questi pensieri volava coll'imaginazione al modo di eseguire


un'evasione: in quel momento tutto mi pareva facile, la mia mente
si esaltava ognor più. In un attimo mi arrampicai sino alla vetta della
sbarra della finestra, misurai il taglio che avrei dovuto fare, la distanza
dall'una inferriata all'altra, e discendendo a terra mi strofinava le mani
e credeva già la mia evasione come un fatto compiuto. Volli misurare
l'altezza della finestra dal piano della fossa. Corsi al letto; sfilai le
lenzuola dall'un de' lati ed ebbi in un attimo rannodato un filo lungo
a mio piacimento. Ruppi il vaso con cui bevea, ed appiccatone un pez
zetto all'estremo del filo, lo spinsi fuori della finestra. A un tratto non
scese più il filo, nè senti il peso. E al fondo, dissi meco stesso. Indi,
trattolo su di nuovo, lo rinvenni bagnato. Vi è acqua e molta, ripresi:
le difficoltà si accrescono ».
Il prigioniero non si perdeva d'animo; si mostrava dolce, sommesso,
per non destar sospetti, e prendeva delle informazioni che potessero
servirgli a porre in atto il suo disegno.
Intanto la Corte speciale di giustizia, riunita in consulta secreta,
decretava che Orsini era reo di alto tradimento in primo grado, e lo
condannava alla pena di morte. Dovevano passare però dei mesi prima
che venisse da Vienna l'approvazione della sua sentenza.
Orsini scriveva, si mostrava tranquillo, rassegnato, si amicava i
secondini e il nuovo capocarceriere Tirelli succeduto al Casati. Nei rap
porti che si davano giornalmente al presidente, si diceva:
» Il signore del numero 3 è tanto buono, che se gli si apre la porta,
egli non fugge; dice ch'è rassegnatissimo e che non ha mai trovato
gente buona come noi e i signori giudici. »
Fu traslocato alla secreta numero 9, ove rimase qualche tempo in
compagnia di parecchi detenuti leggermente compromessi; indi fu di
nuovo chiuso solo in un'altra carcere, al numero 4.
« Entrato, diedi uno sguardo tutt'intorno e dissi: addio speranze !
addio evasione! Uscirò di qui per essere appiccato! »
Aveva chiesto di avere fa segreta ov'erano stati Tazzoli e Speri, ma
il Presidente del tribunale gli disse: quella secreta poteva esser sicura
per quei due, per lei no. Se ella ci dovesse fuggire, il governo ci ac
ciufferebbe tutti, cominciando da me.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 19

Dopo alcuni momenti di scoraggiamento, Orsini aveva ripreso animo,


e più che mai fermamente stabilito di fare tutto il possibile per met
tersi in salvo. Aveva trovato il modo di scrivere delle lettere ad alcuni
suoi amici, e di procacciarsi delle seghe di acciaio per tagliare le sbarre
del carcere. Le memorie ch'egli pubblicò, sono necessariamente incom
plete. Molte cose tacque per non compromettere coloro che lo aiutarono
nella sua evasione. Forse altre rivelazioni saranno fatte col tempo e
completeranno quanto ci fu narrato da lui stesso.
Potè o per un caso fortunato, come egli dice, o forse per conni
venza di qualche secondino conservare due lenzuola, e due asciugamani
sudici, benchè gliene avessero già portato di puliti. Per il momento del
l'evasione egli aveva dunque quattro lenzuola e quattro asciugamani
di tela ordinaria ma forte, i quali formavano una corda anche più lunga
del necessario. Con un filo accomandato a un capo al manico della
scopa e che all'altro portava quattro noci, potè misurare l'altezza dalla
finestra sino al piano della fossa: erano sottosopra ventinove metri.
Il fondo della fossa era melmoso.
« La mia finestra aveva due metri d'altezza dal piano della camera:
v'erano due grosse sbarre di ferro lungi un metro l'una dall'altra, e
un decimetro distante dalla seconda v'era una grata assai fitta. Il dia
metro dei ferri della prima sbarra era di quattro centimetri e mezzo
circa.
« Per lavorare mi bisognava salire sulla spalliera della sedia; ciò
m'incomodava moltissimo, poichè all'udire appressarsi un secondino,
avrei dovuto con tutta prestezza e celerità senza far romore chiudere
il taglio, discendere e toglier la sedia di sotto.
« Provai a tagliar un ferro; la sega, benchè unta d'olio, faceva
romore. Deposi subito l'idea di lavorare di notte nei due intervalli delle
visite. La sentinella che costantemente stava girando nell'andito e che
si metteva in ascolto, il totale silenzio della notte, che lascia udire il
più piccolo moto, me lo rendevano impossibile. I secondini, quasi ad
ogni ora, o per un oggetto o per un altro, venivano nelle secrete dei
prigionieri, sicchè non avevo quiete.
« Per due o tre giorni stetti sempre coll'occhio alla porta, onde
abituarmi a udire il più lieve moto che fosse venuto dall'andito: feci
altrettanto stando ritto sulla spalliera della sedia e poggiato col destro
orecchio alla sbarra e il sinistro dal lato della porta. Incominciai cosi
ad accostumare il mio organo acustico al massimo grado di sensazione:
un sospiro, per cosi dire, di un secondino non mi sfuggiva.
« Un'altra avvertenza io m'ebbi. Dopo che fui messo al numero 9,
non vidi mai visitare i ferri. Lo stesso si fece nei primi giorni che fui
messo al numero 4. La fiducia era giunta al colmo: quel mio far dolce,
quel non lamentarmi mai di alcuna cosa, quei bicchieri dati a tempo,
le promesse fatte che all'intimazione della sentenza avrei lasciato tutti
20 ORSINI

i miei abiti e qualche libro di valore ai secondini, avevano prodotto


l'effetto che mi ero ripromesso. Ormai certo della trascuranza del ser
vizio, mi armai di una costanza a tutta prova. Preparai della cera im
pastata con polvere di mattone e di carbone e imitai così il colore del
ferro ossidato: con questa chiudeva i tagli delle sbarre.
« Le seghe erano eccellenti, ma per non perder tempo conveniva
lavorare con forza e lestezza. Dopo tre ore si facevano assai lente.
Me ne stavo in piedi sulla spalliera della sedia, posizione penosissima;
collo stoma o mi appoggiava al muricciuolo della finestra e faceva forza
colle braccia e colle gambe nello stesso tempo per istare in equilibrio.
Due volte mi trovai in terra di botto. Mani e piedi mi formicolavano;
il gomito sinisti o scorticato mi addolorava profondamente.
« – Avanti, avanti, diceva: ogni cosa ha il suo termine: il ferro
non è legno; pazienza e costanza fanno tutto.
« Dava in qualche esclamazione di rabbia; vedeva i giudici nella
loro residenza posta l’impetto alla mia finestra, e neco stesso proferiva
queste parole « me ne andrò, signori, statene certi. »
Quando ebbe finito il taglio delle prime sbarre e aperto un varco
sufficiente, provò ad uscirne per esaminare i ferri della seconda
inferriata, prender di nuovo la misura dell'altezza della finestra sino
alla fossa ed esaminare lo stato del muro esterno. Ma siccome il pas
saggio era strettissimo, cosi con grande difficoltà potè tornare nel
carcere; gli venne fatto alla fin fine, ma ne rimase tutto scorticato e in
dolenzito. - -

Un Redaelli, che aveva svelato ogni cosa per render meno crudele
la sua sorte, aveva poi tentato di fuggire per il tetto. Preso e carico
di ferri era stato chiuso nella secreta attigua a quella di Orsini. Se
questo s'era fatto a un carcerato benemerito dei giudici, che si sarebbe
fatto all'Orsini, neo di morte, se si fosse scoperto che tentava di fuggire?
Ccmpiè il taglio degli otto ferri in 24 o 25 giorni. Con due chiodi
che avea potuto estrarre da una delle imposte della finestra, fece un
istrumento con un manico di legno da scavare il muro e il cemento
dalla parte estemma della seccnda inferriata. Tolse otto mattoni circa e
con molto terriccio li ripcse nel paglione.
, La notte del 28 febbraio 1855tagliò in istrisce le lenzuola sudicie e
gli asciugamani nascosti nel saccone del letto, e una parte degli altri; con
giunse le striscie col nodo detto alla marinaia; poscia con due chiodi
ruppe la grata esterna della finestra. Fece due involti separati che
racchiudevano camicie, scarpe, paletot, calzoni e sottovesti, e nelle
prime ore della notte seguente, destinata per l'evasione, li calò nella fossa
insieme con un suo manoscritto ed un libro.
« All'una e mezza dopo mezzanotte, ecco la visita. Io fingeva di
dormire. Terminata la visita, scesi dal letto. Perchè i lenzuoli trovas
sero maggior atto nello scorrere, mi posi i calzoni grossi che por
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 21

tava giornalmente. Passata con un po' di fatica la prima sbarra, mi


rivolsi colle gambe verso la seconda, le cacciai fuora e passai il brac
cio destro e il capo, mentre tenevo colla sinistra la corda.
«Colla punta dei piedi feci forza contro il muro e trovai una spe
cie di muricciuolo da poggiarmi.
« Adattatami con qualche fatica la corda fra le gambe, incominciai
lentissimamente a discendere tenendo la spalla destra contro il muro.
La notte era oscurissima, ed ogni cinque minuti il telegrafo militare
che corrisponde con Verona, mandava raggi di luce interno a sè, e io
temevo di essere scoperto.
« Per riposarmi poggiai il piede destro contro il muro, ma la corda
mi fuggi subito dalle gambe: giudicai di esser presso a terra, mi
lasciai andare e caddi dall'altezza di sei metri. Perdetti momentanea
mente i sensi, poi mi riebbi ». -

Rivestitosi con migliori panni, il fuggitivo, malconcio e zoppicante,


tentò di uscire dalla fossa per la volta che mette al lago, e prese via
per la melma, ma trovò una inferriata che chiudeva l'uscita. Provò ad
arrampicarsi sulla volta coll'aiuto di due chiodi che aveva portato seco:
era quasi giunto alla vetta, quando gli mancò il piede destro, cadde
in addietro e per poco non si ammazzò. All'angolo cha risponde alla
porta di San Giorgio, v'è un condotto di pietra che serve per lo scolo
delle acque della strada. Gettò la corda e provò di arrampicarsi, ma
tutto era inutile, gli mancarono le forze. Dormi alcun poco, e desto al
primo albore, pregò più volte indarno quelli che passavano, che gli
dessero aiuto per uscire dalla fossa. Alla fin fine un giovane contadino,
aiutato da un altro popolano che passava, lo trasse su di peso.
« Io feci uno sforzo straordinario: giunte le mie mani all'angolo
delle mura, mi si tagliarono in più luoghi; si vedeva l'osso, e quei due
uomini si chinarono subito a terra e mi presero per le braccia. Se tar
davano un istante, avrei lasciato per dolore la corda, e mi sarei am
mazzato, cadendo rovescioni nella fossa ».
Intanto si era fatto giorno. I due pietosi che l'aveano tratto dalla
fossa, gli fecero traversare il ponte e lo condussero fuor di città: quivi
si nascose tra i canneti e il pantano.
« Durante tutto il giorno stetti fra i canneti; ebbi rasoi da radermi
la barba, e fummi portato pane, acquavite e formaggio. Godeva nel
l'aspirare l'aria pura dopo tanti mesi di puzza; una leggera brezza
faceva ond ggiare le canne; il sole che quel di splendeva assai, tem
perava un poco il freddo che mi veniva dallo star nel pantano ».
La notte i suoi salvatori trassero Orsini dal suo nascondiglio e,
con manifesto pericolo della loro vita, lo posero cosi malconcio com'era
sopra un carretto e poi lo nascosero nella loro capanna. Fu poscia aiu
tato da altri generosi, e gli venne fatto di rifugiarsi a Genova.
Orsini nomina alcuni di coloro che lo soccorsero durante la sua
92 ORSINI

prigionia e aiutarono la sua evasione. Peccato ch'egli non abbia potuto


dire i nomi dei due bravi contadini lombardi che lo trassero dal fosso!
Se fossero stati colti in quell'atto o sospettati dopo, avrebbero essi pure
salito il patibolo.
E noto che un famoso criminalista , il Farinaccio, ogni volta che
sentiva parlare di qualche fatto clamoroso, massime negli annali giu
diziari, domandava: dov'è la donna? Credeva che in tutti i fatti digrande
rilievo fosse più o meno direttamente mescolata una donna. Onde il
lettore chiederà: dov'è la donna che cooperò alla fuga di Orsini?
E la donna salvatrice ci fu appunto. Fu la signora Emma Her
vegh di Berlino, amica d'Orsini. Si racconta ch'ella stessa siasi recata
sott'altro nome a Mantova, e che, affine di aver modo di diminuire i
rigori della sorveglianza cui era soggetto il prigioniero e fornirgli gli
strumenti necessari per segare le inferriate e mettersi in salvo, ella abbia
consentito alle richieste di un ufficiale austriaco incaricato della guardia
del castello. Checchè si sia, il nome della valorosa donna vivrà nella
storia nostra, congiunto a quello di Felice Orsini.
V. I

P I O I X

(1848)

Per narrare la fuga di Pio IX, sullo scorcio del 1848, da Roma,
dobbiamo prendere a guida l'autore dell'Ebreo di Verona. Ben s'intende
che, quanto al modo di giudicare i fatti, l'opinione nostra è tanto di
stante da quella del padre Bresciani, quanto il cielo dalla terra. Ma
siccome in nessun libro che possiamo avere a mano, troviamo, come
nell'opera di quel celebre gesuita, particolari minuti ed interessanti su
quella parte della vita di Pio IX, dall'Ebreo di Verona togliamo quanto
ha di più rilevante e più fa al caso nostro. Il prologhetto, le scarse os
servazioni di cui la narrazione sarà accompagnata, son nostri, e tali
che il Bresciani, se vivesse, e gli uomini della sua risma, se ci leggessero,
senza dubbio ci darebbero sulla voce e ci griderebbero anatema.
Alcuni particolari togliemmo pure dall'opera di Farini. « Lo stato
Romano dal 1815 al 180. »
Come Pio VII aveva, per ambizione e velleità di liberalismo, favorito
in sulle prime la carboneria, poi l'aveva maledetta e dato mano all'Au
stria nel perseguitarne gli adepti, cosi Pio IX, per vanità, per desiderio,
d'applauso e di fama, avea da principio favoreggiato il movimento nazio
male italiano, e poi sen'era chiarito accanito nemico.
I patrioti Romani, anzi tutti i veri liberali in Italia, perduto avevano
lasperanza, vana speranza efanciullesca invero (come possiamo giudicare
adesso, considerando quegli avvenimenti occorsi tanti anni sono) di
persuadere il pontefice ad essere buon italiano: tentavano di spin
gerlo, benchè riluttante, a lasciare che altri in suo nome operasse
italianamente. Indi la dimostrazione romana che tenne dietro all'ucci,
24 PIO X

sione di Rossi, e la nominazione del ministero Galletti, il 16 Novembre


1848. Sin d'allora Pio IX avea deciso di allontanarsi da Roma, affine di
ricuperare il potere assoluto, di rientrare nella sua capitale sopra monti
di cadaveri e di regnarvi di nuovo col terrore.
A uscir di Roma e ricoverarsi altrove lo confortavano gli ambasciatori
stranieri tutti o quasi tutti, i parenti e familiari suoi, i più autorevoli
reazionari, la maggior parte dei cardinali, tra cui l'Antonelli, prefetto
dei sacri palazzi, ed anche parecchi costituzionali. « Posso attestare, dice
il Farini, il quale era uno dei corifei di questo partito, che Antonelli
a taluno dei costituzionali con familiare e benevola intimità, nelle pro
prie stanze, ragionava dei modi di salvar Pio IX da Roma, proponeva
farlo uscire un giorno a diporto per la città o per andare a San Pie
tro, affinchè minor sospetto desse poi il vederlo uscire nel giorno che
dovrebbe partire. Antonelli mostrava pure di approvare il consiglio di
non lasciare lo Stato, ma di ridursi in luogo dove potesse nominare un
ministero, col qualegovernare secondo lo statuto; affermava infine essere
conveniente che il papa fosse seguito da alcuni costituzionali, quasi per
dare malleveria della ferma volontà di mantenere lo statuto ».
Il furbo cardinale dava probabilmente dell'erba trastulla al Farini
ed ai suoi, e intanto teneva il sacco ai ministri stranieri, che volevano
far uscire Pio IX dallo Stato della Chiesa. I più attivi in quei maneggi
erano il duca d'Harcourt ambasciatore di Francia, Matinez della Rosa
ambasciatore di Spagna e il conte Spaur ministro di Baviera. Costui
faceva allora gl'interessi dell'Austria ed agiva a tenore delle istru
zioni che riceveva da Vienna.
Concordi i tre diplomatici nell'opinione che il papa dovesse allon
tanarsi da Roma, erano di diverso parere nello scegliere il luogo ov'egli
dovesse riparare. Il duca d'Harcourt voleva fosse la Francia, Martinez
della Rosa la Spagna: lo Spaur voleva condurre Pio IX nel regno di
Napoli; alla fin fine parve in parte cedere allo spagnuolo e in parte
al desiderio del papa. Si offerse di condurre Pio IX a Gaeta, ove era
per attenderlo un legno spagnuolo che lo tragitterebbe alle Baleari. Il
Bavarese sapeva bene che alla fin fine sarebbe riuscito nel suo intento,
perchè Ferdinando re di Napoli avrebbe trovato modo di persuadere
Pio IX a restare a Gaeta.
Qual parte a così fatti maneggi prese la contessa Teresa Giraud, romana
e moglie del ministro bavarese, donna bellissima e scaltra, la quale poi
col marito accompagnò il papa nella sua fuga? Si dovette a lei , se
Pio IX aderi al disegno dello Spaur? Quale influenza esercitava costei
sull'animo del pontefice? Qui ci converrebbe lasciare la gravità della
storia, ed entrare nella cronaca cittadina, nei pettegolezzi che cor
revano in quel tempo per Roma: poco diremo e molto lasceremo indo
vinare al lettore. Certo l'influenza delle donne sopra Pio IX fu sempre
grande. Fu osservato che donna Chiara Colonna, da buoni ed antichi
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 25

vincoli di amicizia legata con Pio IX, donna di nobile animo e patrio
tici sentimenti, viveva quando il papa si mostrò disposto a favorire
il risorgimento italiano; che dopo la morte di lei, egli cambiò di lin
guaggio e di condotta; e che la moglie dell'uomo che meglio di qua
lunque altro rappresentava in Roma la reazione Europea e gl'interessi
de' più accaniti nemici d'Italia, fu consigliera e compagna della fuga
del papa. Anche qui lasciamo ai lettori i commenti e saltiamo di piè
pari lo scabroso argomento.
Alcuni cardinali, tra cui Lambruschini, aveano preceduto Pio IX
nel partire da Roma. Uno di costoro, racconta il Bresciani, pensò di
mettersi in arnese da cacciatore e sotto quella vista fuggire. Onde una
mattina per tempissimo, che non era ancora di chiaro, fatto capolino a
un usciuolo ch'era di dietro a un suo giardinuzzo e visto che la strada
era solitaria, si mosse con un suo cane bracco al guinzaglio verso
piazza Barberina. Aveva in gamba lunghi borzacchini di fustagno uli
vigno a tromba, un grosso farsettone a carniera indosso, un cappello
alla Bolivar in capo, una cintura colle cartuccette coperta d'un rovescio
di lontra, il zaino a rete e la sua torcigiona in spalla a due canne.
Come fu giunto alla fontanella della conchiglia, in sulla prim'alba, ec
coti un calessino con entrovi un giovinotto cacciatore inglese che dice:
amico, montate, è mattina da beccacce. Così uscirono dalla porta
(Salara) e furono di buon trotto oltre il ponte Salaro due buone mi.
glia, ove una carrozza attendeva il cardinale che per gli Abruzzi si fu
ricoverato a Napoli.
Un altro si vesti da boattiere di Sabina, all'antica foggia de' mon
tanari pelliti, coprendosi di pelli di caprà, si pose sopra le cosce due
gran femorali di pelle di becco ben lucignolata e folta, si mise in
ispalla un pellicciotto di capra, agli stinchi due gambiere di cuoio af.
fibbiate e in capo il berretto frigio di lana bruna, e cosi camuffato, gui
dando un biroccio che aveva portato corbone a Roma, usci di città sul
l'annottare.
Due altri eminentissimi si acconciarono al modo degli Ernici. Chiuse
le gambe in due pezze di tela grossa, messo in capo un cappello aguzzo
e tutto ornato di nastri con entrovi una pennuzza d'occhio di pavone,
preso in mano una mazza e postosi in ispalla un sacchetto di pane,
presero la via fuor di Porta Maggiore e fuggirono oltre il Liri a sal
vamentO.

Intanto si preparava anche la partenza di Pio IX. Un Filippani,


scalco secreto del papa, mise a ordine quel po' di bagaglio ch'era stret
tamente necessario all'andata, e a mano a mano sotto il mantello re
cavalo alla contessa Teresa, che lo riponeva in un suo forziere senza che
occhio la vedesse.
Il conte Spaur aveva dato voce ch'egli dovea condursi alla Corte di
Napoli per negozi del suo re: la contessa avea già detto in fa
26 PIO IX

miglia e fuori ch'ella sarebbe partita il mattino col figliuolo Massimi


liano e coll'aio ed avrebbe atteso il conte ad Albano. Era d'accordo col
marito di andare colla carrozza da viaggio a raggiungerlo fuori del
l'Ariccia.
Il duca d'Harcourt doveva eludere le sentinelle fingendo d'entrare
dal papa alla solita udienza. Si noti che tutta la guardia del Quirinale,
ove allora abitava Pio IX, era affidata alla civica romana. Allo scocco
delle cinque pomeridiane del 24, secondo il convenuto, giunse dunque
al Quirinale la carrozza dell'ambasciatore francese. Sali all'udienza del
papa, il quale, com'era convenuto, ritirossi nella sua camera a svestirsi
l'abito pontificale. Filippani, che l'attendeva,avea disteso sul letto dei
panni neri da prete. Come chiunque Pio IX si fu vestito da pretazzuolo, en
trò nella sala ov'era il duca d'Harcourt, quindi mosse insieme col Filippani
per certi anditi celati ad una porta secreta detta degli Svizzeri, la quale
mettea sulle scale del salone. Quivi fu dato il segno a un fido fami
gliare che stava di fuori alla vedetta, ma trovossi che nella confusione
si era dimenticato di aprir la porta. Il Filippani corse indietro in cerca
della chiave, e trovatala, tornò incontanente. Si perdè tempo ad aprire,
ma finalmente uscirono ambedue, calaron la scala ed entrarono in car
ITOZZ8,

Il papa era in un ferrajuolo scuro, in cappel tondo e basso, con


una gran cravatta bruna Intorno al collarino da prete. Filippani avea
sotto il mantello un cappello a tre spicchi, un fascetto di carte dei più
alti segreti, i sigilli, il breviario, le pianelle crociate, un po' di lini e
una cassetta di medaglie d'oro col ritratto del papa. All'usci; di pa
lazzo, Filippani, com'era costumato di fare ogni sera, salutò i due uf
ficiali civici di guardia, e tirò giù per le Tre Cannelle. Così dopo aver
fatto volteggiare il cocchiere per varie strade, giunsero ai Santi Pietro
e Marcellino, ove lo Spaur aspettava colla carrozza. Il papa vi salì; e
salutato il Filippani, mosse col conte verso il Laterano.
La carrozza giunge alla porta San Giovanni. – Chi va là? - Il
ministro di Baviera. – Per dove? – Per Albano. – Passi. E passò.
Così il papa trovossi fuori di Roma.
La contessa Teresa era giunta il mattino in Albano. A notte ecco
un messo che porta la notizia che il papa era già in viaggio col conte.
Allora la signora montò in carrozza con suo figlio Massimiliano e col
l'aio di esso, per recarsi all'Ariccia ove doveva trovare suo marito ed
il papa.
Intanto a Roma il ministro Francese si era trattenuto nella camera
di Pio XI tanto che, a suo avviso, dovea già trovarsi a buono spazio fuori
di Roma. Uscito l'ambasciatore, entrò un prelato con un gran fascio
di carte alla relazione dei negozi, indi un cameriere secreto per recitar
l'ufficio al papa. All'ora solita fu portata la cena, per ultimo fu detto
che Sua Santità, alquanto infreddata, voleva coricarsi, e allora fu licen
ziata l'anticamera e la guardia d'onore.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 27

Ben s'intende che di tutta necessità, anche in palazzo, molte per


sone erano state ammesse al secreto, dicesi oltre a ventiquattro.
Il conte Spaur giunto oltre l'Ariccia e fermatosi alla fontana ch'è
sulla via maestra di Napoli, presso il santuario di Galloro, smontò col
papa per attendere la famiglia. Erano scesi appena da pochi minuti
quando ecco cinque carabinieri, i quali battevano in ronda la strada, e do
mandarono ai viaggiatori chi fossero. Rispose il tedesco: sono il conte
Spaur ministro di Baviera che vo a Napoli per negozi del mio re, ed
ora attendo la carrozza da viaggio colla famiglia. I carabinieri dissero
che le vie erano sicure, tuttavia s'offersero ad accompagnarlo. ll mi
nistro li ringraziò; ma i carabinieri non si mossero.
Giunse finalmente a sei cavalli la carrozza della contessa, la quale
veggendo il papa e il marito circondati dai carabinieri, smarri, nè sapea
che pensare. A ogni modo, voltasi al papa, disse con voce franca; su
lesto, signor dottore, entrate. Il papa salì accanto alla contessa; il conte
montò a cassetta col suo cameriere , avendo in pronto ciascuno ad
ogni uopo due pistole. In carrozza la contessa era sulla dritta e avea
di faccia il figliuolo Massimiliano; sulla sinistra era il pontefice e di
fronte l'aio del giovinetto, il prete tedesco Liebl.
A Genzano il conte spedi avanti un postiglione a maniera di staf
fetta per far preparare i cavalli alla posta. Pervennero a Terracina in
sulle cinque antimeridiane del 25 Novembre.
Al primo toccar delle frontiere del regno di Napoli, il papa intonò
lieto il Tedeum, che tutti i viaggiatori recitarono a vicenda. A Fondi
si accorsero che nella velocità del correre una ruota dinanzi avea preso
fuoco, e dovettero soffermarsi alquanto per gettarvi dell'acqua e dar
la sugna alle sale. Qui da taluno il papa fu riconosciuto, ma la gente
non corse a romore, perchè in quella i cavalli partivano.
Nell'accostarsi a Mola di Gaeta, vennero ad incontrare il papa il
cardinale Antonelli in abito secolare e il cavaliere Arnau secretario
dell'ambasceria di Spagna, che poi seguirono i viaggiatori alla Villa di
Cicerone, ove tutti smontarono. Verso il mezzogiorno il papa fu servito a
colezione in una camera a parte dal cardinale Antonelli, mentre la fa
miglia Spaur sedeva a mensa nelle sale dell'albergo. Indi scrisse una
lettera al re Ferdinando, annunziandogli il felice arrivo nei suoi stati e
dicendogli ch'era per condursi a Gaeta.
Il conte bavarese prese il carrozzino leggero dello Arnau col suo
passaporto spagnuolo, e all'Arnau consegnò il suo bavarese, ingiun
gendogli di far le sue veci verso il papa e condurlo con tutta la fami
glia a Gaeta sotto nome del ministro Spaur. Egli intanto parti per Na
poli, dove giunse verso le dieci di notte e senza por tempo in mezzo si
presentò al re. Questi pieno di gioia inviò subito a comperar drappi bianchi,
rasetti rossi e trine di Fiandra per rivestire il papa con abiti pontifi
cali; scelse egli stesso negli armadi la più fina biancheria, il più bel
28 PIO IX

vasellame d'oro e di porcellana e candelieri e lucernieri di gala, e or


dinò che il tutto fosse portato a bordo di un vapore, su cui parti egli
stesso per Gaeta.
Dalla villa di Cicerone Pio IX e i suoi compagni si erano recati a
Gaeta: quivi furono condotti ad un alberguccio domandato del Giardi
netto, dove s'acconciarono alla meglio.
Il papa, accompagnato dall'Arnau, presentossi la mattina del 26,
come era l'ordine, al comandante della fortezza, ch'era il generale Gross
svizzero. Costui volse loro il discorso in tedesco, credendo parlare col
ministro bavarese ed un suo dipendente. Pensate come rimasero inter
detti ambedue a quel nuovo favellare. Lo spagnuolo rispose in italiano:
signor comandante, egli è si gran tempo ch'io dimoro a Roma che,
parlando sempre italiano, o francese. io dimenticai pienamente la lingua
tedesca. Di che lo svizzero entrò in scspetto che i due viaggiatori non
fossero per nulla bavaresi; e il primo pensiero che gli corse all'animo,
fu di carcerarli come spie. Pur considerando che uno d'essi avea seco
moglie, figliuolo e famiglia, sospese per allora il proposito della cat
tura, e come furono partiti da lui, fece mettere due soldati di fazione
alla porta dell'albergo, e poco appresso mandò loro, sotto sembiante di
una visita, due ufficiali di polizia, ai quali non venne fatto di scavar
nulla. -

Verso il mezzogiorno, mentre la contessa era a far visita al co


mandante col cardinale e col segretario di Spagna, ecco messi sopra
messi recare che venivano da Napoli tre legni a vapore, che sopra
uno di essi sventolava lo stendardo reale, finalmente che il re stesso
stava per entrare in porto.
Il comandante accorso a fare omaggio a Ferdinando rimase come
trasognato al sentire che c'era a Gaeta il papa. Intanto il segretario di
Spagna ed Antonelli erano andati per esso al Giardinetto. Pio IX, mes
sosi il cappello a tre spicchi e preso il bastone di Don Liebs, avviossi
alla reggia.
Quivi le riverenze e i mirallegro furono infiniti. Come la scaltra ro
mana e il bavarese aveano preveduto, re Ferdinando indusse il papa a
fermarsi a Gaeta ed a rinunciar al suo disegno di recarsi alle isole
Baleari.
E qui ci fermiamo; il nostro cómpito è fornito.
Da Gaeta e poi da Portici Pio X mosse un turbine di guerra
contro la sua Roma, che tanto l'avea festeggiato, contro l'Italia che in
un momento di delirio aveva creduto in esso. Ora, dopo tanti anni, per
fidiando sempre negli stessi sentimenti anti-italiani, anti-umanitari
d'allora, procaccerebbe se potesse, di attirare ogni maniera di sciagure
sulla patria,benedicendo chi tentasse di perderla, lacerarla, coprirla di
ruine e di sangue, e maledicendo agli strenui difensori di essa.
PIOTROVVSKI

(1846)

Fra le innumerevoli vittime che il governo russo, ha trasportato


da un seco'o in Siberia, se ne conoscono solamente due che abbiano
potuto ricuperare la libertà fuggendo da quell'orribile paese. Sono
Beniowski, di cui racconteremo più innanzi l'evasione, e Piotrowski.
Ma se le avventure del magnate ungherese sono interessanti come un
romanzo, la storia del molesto e intrepido soldato della Polonia inspira
un diverso sentimento. Non è più l'emozione prodotta, per cosi dire,
da un carattere che pompeggia in sulla scena; è un dramma intimo,
che strazia le fibre del cuore; è il racconto delle lunghe angoscie di
un martire, fatto con semplicità e dignità. Beniowski, generale e pri
gioniero di guerra, è trattato come tale; egli conserva persino nell'esilio
una libertà relativa e quasi i privilegi del suo rango. Piotrowski, l'an
tico combattente del l831, divenuto semplice emissario de' suoi com
patrioti rifugiati in Francia, è confuso in Siberia colla turba dei for
zati nella catorga, nel bagno. Egli deve obbedire agli ordini di un
forzato condannato per furto, la popolazione semiselvaggia del paese
ov'è stato sbalestrato, chiama col nome infamante di varnak il Po
lacco deportato per il suo patriotismo, del pari che l'ignobile falsario e
l'assassino.
Rufino Piotrowski è il Silvio Pellico della Polonia. Il libro di
Silvio Pellico ha sollevato contro l'Austria l'indignazione di tutti i po
poli civilizzati. Battuti a Solferino, disfatti a Sadowa, i carcerieri dello
Spielberg non hanno trovato in nessun luogo uno sguardo di pietà.
Le Memorie di un Siberiano sono una terribile testimonianz contro i
carcerieri della Siberia.
30 PIOTROVAVSKI

Piotrowski mandato in Russia dall'emigrazione polacca, era arri


vato nel 1843 a Kamieniec, in Podolia, sotto il falso nome di Catharo,
suddito inglese; vi dimorava da nove mesi come professore di lingue,
quando fu riconosciuto per polacco, arrestato e condannato ai lavori
forzati in Siberia. Deportato nel luogo del suo esilio, nel 1844, fu con
dotto allo stabilimento di distillazione di Ekaterinski-Zavod (stabilimento
di Caterina), a 300 chilometri al nord di Omsk; quivi durante un anno,
dovette sottoporsi ai lavori più faticosi e ributtanti. Una sua parola,
un suo gesto, o il cattivo umore di coloro che gli comandavano, pote
vano esporlo ai colpi di knut; ma deciso di soffrire la morte, piuttosto
che lasciarsi battere, ed inoltre avendo sempre fermo il pensiero di
mettersi in salvo,seppe esercitare tanto impero sopra di sè da mostrare
una docilità, una costante premura di eseguire i lavori che gli veni
vano imposti, e riuscì persino a farsi impiegare negli uffici d'ammini
strazione dello stabilimento.
« Il mio ufficio, dice Piotrowski, era il raduno di molti viaggiatori
che arrivavano sia per vender grani sia per comprar spiriti; contadini,
borghesi, commercianti, Russi, Tartari, Ebrei, Chirgisi. Da questi pas
seggeri io potei avere, con una curiosità che non si stancava mai, esatte
e dettagliate informazioni sulla Siberia. Parlai con uomini dei quali
altri erano stati a Berezov, altri a Nercinsk, o alle frontiere della China,
al Camciatcà, nelle steppe dei Chirgisi, a Boccara. In questo modo
senza uscire dal mio ufficio, mi venne fatto di conoscere tutta la Si
beria nei suoi più piccoli particolari.
«Queste conoscenze dovevano più tardi essermi di un'utilità im
mensa nella mia impresa di evasione. L'ispettore mi accordò il per
messo di lasciar la caserma: anche questo addolci la mia sorte. Potei
dunque abbandonare quella dimora abituale di forzato, e stare con due
miei compatrioti in compagnia di Siesiski: questi era riuscito a costruire
poco a poco una casa di legno: da molti anni abitava Ekaterinski-Za
vod e aveva potuto fare dei piccoli risparmi sulla sua meschina paga.
La capanna non era ancora finita, il tetto mancava affatto; eppure ci
trasportammo i nostri penati. Il vento soffiava da tutte le fessure, ma
siccome la legna non costava quasi nulla, accendevamo ogni notte un
gran fuoco nel camino. Inoltre ci eravamo liberati dalla orribile com
pagnia dei forzati: solamente i soldati, ch'erano pagati da noi, non ci la
sciavano mai. Passavamo le lunghe notti d'inverno a discorrere, a ram
memorare gli esseri e i luoghi che ci erano più cari, a fare dei pro
getti per l'avvenire. Ah! se quella casa è ancora in piedi, se qualche
fratello deportato vi alberga, sappia ch'egli non è colà il primo che
pianga e che invochi la patria assente!
«Io era in breve salito dall'ultimo al primo grado cui possa alzarsi
un forzato del nostro stabilimento sulla riva dell'Irtisce. In principio
del 1846, poteva quasi illudermi e considerarmi come un membro del
UGI ED ASIONI CELEBRI 3

l'onnipotente burocrazia, relegato pur troppo in quei remoti paesi e


sotto un clima inospitale. Quanto quel tempo differiva dal terribile in
verno del 1844, quando io scopava i canali diacciati, portava o spac
cava legna, e viveva sotto lo stesso tetto col rifiuto del genere umano!
Ahimè! quanti dei miei fratelli gemevano in quel momento nelle mi
niere di Nercinsk o nelle compagnie disciplinari! Quanti, anche tra
quelli ch'erano stati condannati ad una pena meno severa della mia,
si sarebbero creduti fortunati di avere una posizione simile a quella
ch'io aveva ottenuto! Eppure era risoluto di mettermi in salvo, anche
con pericolo che mi toccasse il knut o una segreta di Akatoia.
« L'imperatore Nicolò aveva fatto, nel 1845, un decreto, il cui scopo
era di aggravare le condizioni dei deportati in Siberia. Gli stabilimenti
penitenziari erano visitati da commissioni, che doveano proporre nuovi
severi provvedimenti. La coabitazione coatta di tutti i forzati nelle ca
serme era la prima disposizione che doveva prendersi per acchetare le
inquietudini dello Czar. Tutto ciò mi faceva persistere in un progetto
che aveva da gran pezza concepito.
«Nell'estate del 1845 fece due tentativi,un poco precipitati, che fal
lirono sin dal principio, senza però destare sospetti. Aveva osservato,
nel mese di giugno, un battello che spesso si trascurava di ritirare la
sera dalla riva dell'Irtisce. Imaginai di servirmene e di lasciarmi por
tare dalla corrente del fiume sino a Tobolsk. Ma appena avevo, in una
notte oscura, staccato il battello e dato alcuni colpi di remo, ecco la
luna uscir dalle nuvole, spandendo intorno un chiarore pericoloso per
me. Nel medesimo tempo sentii parlare ad alta voce sulla riva lo smo
tritel (ispettore), che passeggiava in compagnia di alcuni impiegati.
Tornai prudentemente a terra: era per quella volta un affar finito. Il
mese seguente, scorsi la medesima barca in un luogo molto più favo
revole,sopra un lago che comunicava per mezzo di un canale coll'Irtisce,
in un punto abbastanza lontano dal nostro stabilimento. Un fenomeno
molto frequente nelle acque della Siberia, durante quella stagione, rese
impossibile la riuscita del mio secondo tentativo. Sul far della notte,
per cagione dell'improvviso raffreddamento dell'aria, si alzano enormi
colonne di vapore così denso che è impossibile di distinguer nulla a
due passi. Indarno spinsi la mia barca in tutte le direzioni durante
quella notte eterna e piena d'angoscia: la nebbia m'impediva di scor
gere il canale per cui doveva scendere nell'Irtisce.
« Solanuente allo spuntar del giorno mi venne fatto di scoprire l'im
boccatura inutilmente cercata nella notte : era troppotardi e mi credetti
fortunato di poter tornare senza cattivi incontri alla mia dimora. Ab
bandonai allora il pensiero di affidarmi ai flutti poco benigni dell'Irti
sce, e presi a meglio maturare e combinare il mio progetto di eva
SO6, e

« Dopo aver lungamente riflettuto sulle diverse vie che gli si offri
32 - POTROVVSKI

vano per uscire dall'impero russo, Piotrowski decise di cercare scampo


dalla parte del nord per i monti Urali, la steppa di Peciora ed Ar
cangelo. -

« Lentamente, a fatica, misi insieme gli oggetti indispensabili


per il viaggio, tra i quali innanzi a tutto un passaporto. Ci sono due
specie di passaporti per gli abitanti della Siberia: una sorta di passa
vanti di corta dºrata e per luoghi vicini, poi un passaporto molto più
importante rilasciato dall'autorità superiore sopra carta bollata, il pla
katny. Mi venne fatto di fabbricarmi l'uno e l'altro. A poco a poco e
con gravi difficoltà riuscii pure a procurarmi gli abiti e gli accessori
che dovevano servire al mio travestimento. Mi adoperai a trasformarmi,
così per il morale come per il fisico, in un indigeno, in un Sibirski
celoviek o uomo della Siberia, come dicono i Russi. Dopo la mia par
tenza da Kiew, io aveva lasciato crescere apposta la mia barba, che
ben presto divenne di una lunghezza rispettabile, proprio crtodossa.
Con lunghi sforzi, riuscii ad avere una perucca, una vera perucca si
beriana, cioè fatta di pelle di montone col pelo a rovescio. Grazie a
questi diversi mezzi io era riuscito a trasformarmi in modo da non essere
riconosciuto. Finalmente - mi restava la somma di 180 rubli in carta
(circa 200 franchi), modica somma per un si lungo viaggio e che do
veva essere molto diminuita da un accidente fatale.
« Io non m'illudeva sulla dificoltà della mia impresa, nè sui pe
ricoli cui mi esponeva ad ogni passo. Una cosa mi sosteneva e, benchè
aggravasse la mia situazione, rendeva la mia coscienza più tranquilla:
il giuramento «lhe aveva fatto a me stesso, di non rivelare ad anima
viva il mio secreto prima di giungere in un paese libero, di non do
mandare nè aiuto, nè protezione, nè consiglio a nessuno finchè non
avessi passato i confini dell'impero degli Czar, di rinunciare piuttosto
alla liberazione che metter in pericolo qualcuno de' miei simili.
» Io aveva compromesso più d'uno de'miei poveri compatrioti colla
mia dimora a Kamieniec, ma allora io credeva di adempiere una mis
sione d'interesse generale. Ora non si trattava altro che della mia sal
vezza personale, e io doveva ricorrere solamente a me stesso. Dio si
è degnato di sostenermi sino alla fine in una risoluzione che era one
8ta e nulla più: forse in considerazione di questo voto, fatto sin dal
principio, egli ha steso sopra di me il suo braccio protettore.
« Nei primi giorni del gennaio 1846 i miei preparativi erano finiti.
Il momento mi sembrò tanto più favorevole che presto doveva aver
luogo la gran fiera d'Irbite, a' piè degli Urali, una delle fiere come se
ne vedono solamente nella Russia orientale. Speravo di perdermi in
mezzo alla folla di tanta gente di diverse razze, e mi affrettai ad ap
profittare della circostanza.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 2.


FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 33

« L'otto febbraio mi posi in cammino. Mi era messo due camicie,


di cui una di colore, sopra il pantalone di panno grossolano, e su questo
un armiak o piccolo burnus di pelle di montone, ben unto di sevo,

Un giovane contadino - lza di peso Orsini per trarlo dalla tossa.


PAG. 2l.

che mi scendeva sino alle ginocchia. Grandi stivali a rovesci e spal


mati di catrame completavano il mio costume. Una cintura di lana
bianca, rossa e nera mi stringeva la vita, e sulla mia perucca por
tava un berretto rotondo di velluto rosso orlato di martora, berretto
che soglion portare, i giorni di festa, i paesani comodi della siberia
3 PIOTROVVSKI

o i commessi viaggiatori. Era inoltre inviluppato in una grande e


larga pelliccia, il cui bavero diritto e cinto da una pezzola annodata
sul dinanzi mi preservava dal freddo e nello stesso tempo mi nascondeva
il viso.
» Avevo messo in un sacco, che portava in mano, un altro paio di
stivali, una quarta camicia, un pantalone d'estate, blu, secondo il co
stume del paese, del pane e del pesce secco. Nella gamba dello stivale
diritto aveva nascosto un lungo pugnale, e posto sotto il panciotto il mio
danaro, in biglietti di 5 a 10 rubli; finalmente aveva le mani coperte
da grossi guanti di pelle rovescia, col pelo all'indentro, e portava un
nodoso bastone.
» Una sera, cosi camuffato, lasciai lo stabilimento di Ekaterinski-Zavod,
prendendo una scorciatoia. Gelava fortemente: la brina cadeva per
l'aria scintillante ai raggi della luna. Ebbi presto passato il mio Ru
bicone, l'Irtisce, ch'era gelato; e con un passo frettoloso, benche rallen
tato dal peso dei miei vestiti, presi la strada di Tara, borgata posta a
dodici chilometri dal luogo della mia destinazione. Le notti d' inverno,
pensavo, sono lunghissime in Siberia. Quanta strada farei prima che
spuntasse il giorno e la mia fuga fosse scoperta? che sarebbe poi
di me?
» Aveva appena passato l'Irtisce, quando senti dietro di me lo stre
pito di una slitta: f emetti, ma decisi di aspettare il viaggiatore not
turno; e come mi è più volte accaduto nella mia pericolosa peregri
nazione, ciò che temeva come un pericolo, m'offerse un modo insperato
di salvezza. Dove vai? mi domandò il paesano che conduceva la slitta.
– A Tara – E di dove sei? – Del casale di Zalivina. - Dammi
sessanta kopek (dieci soldi) e ti menerò a Tara: ci vado anch'io – No,
è troppo caro: cinquanta kopek se vuoi. – Ebbene, sia pure; monta,
3Il1CO n ,

» Presi posto vicino ad esso e partimmo di galoppo. Una mezz'ora


dopo eravamo a Tara. Rimasto solo, mi avvicinai alla finestra di una
casa, e domandai ad alta voce, secondo la maniera russa: ci sono ca
valli? - E per dove? – Per la fiera d' Isbite. – Ce ne sono – Un
paio? - Sì , un paio. – Quanto per ogni versta? - 8 kopek
– E troppo: 6 kopek – Ebbene. subito. – Pochi minuti dopo i ca
valli erano pronti ed attaccati alla slitta. – Di dove siete, mi doman
darono – Di Tomsk: sono il commesso del signor N. N. (diedi un
nome qualunque). Il mio principale mi ha preceduto a Isbite. Io ho
dovuto restar indietro per alcuni affari: ho perduto molto tempo, e
temo che il principale vada in collera. Se si va presto, ti darò la mancia.
– Il paesano fischiò, e i cavalli partirono come una freccia. A un tratto
il cielo si oscurò; cominciò a cadere una folta neve; il paesano smarri
la strada e non sapeva più come orientarsi. Dopo aver vagato lunga
pezza quà e là, fummo obbligati a fermarci ed a passar la notte
FUGIE ED EVASIONI CELEBRI 35

nella foresta. Finsi di mettermi in gran collera; il mio conduttore


mi domandava umilmente scusa.
» Io non mi proverò a descrivere le angosce terribili di quella notte
passata nella slitta, in mezzo a una tempesta di neve, a una distanza
di quattro leghe al piu da Ekaterinski Zavod. Ogni momento mi pareva
di sentire i campanelli dei kibitka mandati per inseguirmi. Final
mente cominciò a spuntare il giorno. – Torniamo a Tara, dissi al
paesano; prenderò un altra sitta; a te, imbecille che sei, non darò
nulla, anzi ricorrerò alla polizia contro di te per avermi fatto perder
tempo. – Il paesano si mise in cammino per tornar a Tara; ma ap
pena ebbe percorso una versta, si fermò, guardò da tutte le parti e mo
strandomi alcune traccie di strada sotto mucchi di neve; – ecco, mi disse,
la via che avremmo dovuto prendere. – Va dunque, va in nome di Dio.
» Il paesano tece allora tutto il possibile per farmi riguadagnare il
tempo perduto. Tuttavia un'idea orribile mi assalse: mi ricordai che anche
il mio colonnello Vysoski era stato obbligato, al pari di me, a passare
una notte nella fo esta, durante la sua fuga, e che il suo conduttore
l'eveva consegnato ai gendarmi. Vani timori ! il paesano arrivò pre
sto da uno de' suoi amici, che mi diede del tè e mi forni dei cavalli
allo stesso prezzo per continuare il mio viaggio. Così andando innanzi
e cambiando sempre cavalli a modico prezzo, arrivai a notte buia in
un villaggio chiamato Soldatskaia. Non avendo abbastanza spiccioli per
pagare il condottiere, entrai con lui in una taverna, dove c'era molta
gente ubbriaca. Io aveva ritirato disotto al mio panciotto alcuni biglietti e
stava per darne uno o due al padrone della taverna perchè me li cam
biasse, quando un movimento della folla, fatto a caso o a bello studio,
mi rispinse dal banco dove aveva messo i miei biglietti, e altri
rapidamente li ghermi. Ebbi un bel gridare: mi fu impossibile di
scoprire il ladro; siccome non poteva ricorrere ai gendarmi, mi dovetti
rassegnare. Mi furono cosi rubati 45 rubli in carta; ma ciò che aumentò
il mio dispiacere e, se oso dirlo, il mio terrore, si fu che il ladro si era
nel medesimo tempo impadronito di due carte che avevano per me un
valore inestimabile; una piccola nota in cui avevo scritto le città ed i
villaggi che dovevo traversare flno ad Arcangelo e il mio passaporto
sopra carta bollata, che mi aveva costato tante fatiche per farlo.
Già dal primo giorno della mia evasione io aveva perduto il quarto
della sommerella che possedeva, la nota che doveva guidarmi e il
plakatny, il solo documento che doveva acchetare i primi sospetti di
un curioso. Io era disperato ».
Bisognava contiuuare il viaggio: ogni passo in avanti avvicinava
il fuggitivo alla sua meta: che fosse preso ad alcune verste di lonta
nanza del suo luogo d'esilio od alla frontiera russa, la sua sorte sarebbe
stata la stessa. Perduto nella folla innumerevole che copriva la strada
d'Irbite, arrivò il terzo giorno dopo la sua evasione alle porte di questa
3G PioTRowski

città, avendo percorso, grazie alla rapidità della slitta, mille chilometri
dopo la sua partenza da Ekateirinski-Zavod.
«Ferma!... dov'è il vostro passaporto? - mi gridò la sentinella.
Per fortuna aggiunse subito a bassa voce: datemi venti kopek e tirate
dritto. Io soddisfeci subito alle esigenze della legge così opportunamente
modificate. » -

Dopo una notte passata a Irbite, Piotrowski lasciò senza por tempo
in mezzo quella città, ma le spese del suo viaggio e il furto di cui era
stato vittima, avevano ridotto il suo peculio a 75 rubli di carta (circa
80 franchi). Non poteva viaggiare che a piedi.
« L'inverno del 1846 fu straordinariamente rigido. Tuttavia la mat
tina in cui traversai Irbite, l'aria divenne più mite; ma la neve cadeva
cosi folta, che mi toglieva affatto la vista. Era molto faticoso di camminare
in mezzo a quelle masse candide, che si accumulavano ad ogni passo.
Verso mezzodi il cielo si rischiarò e il cammino divenne meno faticoso.
Schivava d'ordinario i villaggi, e quando doveva traversarne qualcuno,
camminava dritto, come se fossi dei contorni, e non aveva bisogno d'in
formazioni. Solamente arrivato all'ultima casa, mi arrischiava qualche
volta a fare delle domande, allorchè era molto incerto sulla direzione
da prendere. Quando avevo fame, tiravo fuori dal mio sacco un pezzo
di pane gelato, e lo mangiavo camminando o seduto a piedi di un al
bero in un luogo remoto della foresta. Se avevo sete, cercavo quei
buchi che gli abitanti del paese sogliono fare nel ghiaccio dei fiumi e
degli stagni per abbeverare le greggie; mi contentava qualche volta
della neve fusa nella mia bocca, quantunque in questa maniera non
potessi cavarmi la sete.
» Il mio primo giorno di cammino, uscito che fui d'Irbite, mi
stancò molto, e la sera mi trovai affatto sfinito. I pesanti vestiti che
portava, accrescevano la fatica del viaggio, eppure non osava disfarmene.
Sul far della notte, mi addentrai nel bosco e pensai a prepararmi un
luogo da passar la notte. Sapevo come fanno gli Ostiachi per ripararsi
durante il sonno nei loro deserti di ghiaccio: scavano un profondo
buco sotto una gran massa di neve, e vi trovano in questa maniera
un letto duro, ma molto caldo in paragone dell'aria esterna. Cosi feci
io pure, e potei prendere un riposo di cui aveva estremo bisogno. »
Il giorno seguente il povero fuggitivo si smarri, e dopo aver tutto il
giorno errato qua e là, si trovò la sera sopra una strada; fortunata
mente era la buona. Scorgendo una casupola vicina ad un villaggio,
si decide a domandarvi l'ospitalità. Si spaccia per un operaio che an
dava a cercar lavoro alle fonderie di Bohotole sull'Ural. Ma i paesani
credono che sia troppo ben fornito di biancheria per un operaio, e lo
svegliano dal primo sonno per domandargli il suo passaporto. Non si
perde di animo, e mostra loro il passavanti che gli restava. Per buona
fortuna la vista del sigillo bastò a quei gendarmi improvvisati, che gli
domandarono scusa di averlo preso per un forzato fuggitivo.
FUGHIE ED EVASONI CELEBRI 37

« Il resto della notte passò tranquillamente: il giorno dopo presi


congedo da coloro la cui ospitalità per poco non mi fu fatale. Questo
incidente mi convinse che pur troppo io non poteva fare assegnamento
sopra un ricoveroumano in tempo di notte, salvo che non avessi voluto
espormi ai più grandi pericoli, e che il letto ostiaco sarebbe il solo luogo
in cui potessi trovar riposo. Dovetti infatti contentarmene dal tempo
in cui traversali gli Urali sino al mio arrivo a Veliki-Ustiug, cioè dalla
metà di febbraio fino ai primi giorni d'aprile. Tre o quattro volte so
lamente mi peritai a chiedere l'ospitalità per la notte in una capanna
isolata, estenuato da quindici o venti giorni passati nella foresta, sfi
nito di forze e quasi senza aver coscienza di ciò che mi facessi. T'utte
le altre notti mi contentai di scavare una tana per dormire. A poco
a poco presi l'abitudine di farlo; anzi al cader della notte, mi adden
trava nella foresta, come altri entra in un albergo conosciuto. Tuttavia,
debbo dirlo, questa vita di selvaggio mi pareva intollerabile. La man
canza di un ricovero umano e di alimenti caldi, la scarsezza persino
del pane gelato, mio unico alimento per giorni interi, mi abituarono
a guardar in faccia e nella loro terribile realtà que' due spettri schi
fosi che si chiamano il freddo e la fame, e di cui con tanta leggierezza
sogliamo pronunciare i nomi, alla più piccola privazione o disagio.
In tali momenti io temeva sopratutto gli accessi di sonnolenza che mi
prendevano ad un tratto: erano segni manifesti di morte, contro i quali io
lottava colle poche forze che mi restavano. Sentivo estremo bisogno di
un nutrimento caldo e con fatica resistevo alla tentazione di andar a
domandare in una capanna qualunque un poco di minestra colle rape,
come suolsi mangiare in Siberia. »
Dopo di aver così salito lentamente l'Ural, alla fine il fuggitivo lo
traversò in una bella notte; ma le sue pene continuarono anche sul
versante occidentale della montagna. Una sera si smarri durante una
tempesta di neve, passò una notte orribile nelle torture della fame,
e, spuntato il giorno, dopo di avere invano cercato d'orientarsi, cadde
a' piè d'un albero. Il sonno, che precede la morte, aveva già cominc ato
a impadronirsi di lui, quando fu salvato da un promychlennik (caccia
tore di martore) che traversava la foresta. Quel bravo uomo gli diede
un po'd'acquavite e alcuni pezzi di pane, gli fece riprender coraggio e
lo condusse sino a un'izbucia (casa di rifugio) e disparve nei boschi.
« Non poso descrivere qual gioia provai scorgendo da lontano
l'uzbucia; credo che vi sarei andato anche se avessi saputo che i gen
darmi mi aspettavano colà per arrestarmi. Arrivai sino alla porta; ma,
appena passata la soglia, non potei tenermi ritto e caddi in terra sott
un banco. » -

Dopo alcuni minuti di svenimento, il povero Piotrowski tornò in


sè e, senza poter toccare gli alimenti che il suo buon ospite gli offriva,
si addormentò e rimase immerso in un profondo sonno durante venti
38 POTROVVSKI

quattro ore. L'ospite ebbe affettuose cure per l'infelice, massime quando
seppe ch'era un pellegrino che andava all'Isola santa del Mar Bianco.
Infatti il fuggitivo si era spacciato per tale, si era trasformato in un
bohomolelz (adoratore di Dio), che andava a riverire le sante immagini
del convento di Solovetzk vicino ad Arcangelo. Il rispetto e la simpatia
che questo titolo sveglia nel paesano russo, agevolarono il viaggio di
Piotrowski, sin che giunse a Veliki-Ustiug. Quivi fu bene acc lo dai
suoi confratelli bohomoletz, i quali atten levano in gran numero che lo
sdiacciare permettesse loro di imbarcarsi sulla Dvina da quella città
per Arcangelo. Dopo essersi fermato un mese tra loro, avendo acqui
stato fama di buon pellegrino per l'esattezza con cui com,iva tutti i
suoi doveri religiosi, s'imbarcò sopra uno dei numerosi battelli che tra
sportavano colà i pellegrini. S'ingaggio col padron di barca come re
matore, per il prezzo usuale di quindici rubli in carta per tutto il
viaggio. Era appunto la somma che aveva speso per via da Isbite in
poi. Quindici giorni dopo arrivava ad Arcangelo: gli era parso mille
anni di porvi il piede, perchè sperava che uno di queitanti bastimenti
che frequentano quel porto, potesse dargli asilo e ricondurlo in Francia
o in Germania.
senza trascurare fe pratiche religiose che gl'imponeva il suo titolo
di pellegrino, e le precauzioni che non poteva omette e senza pericolo,
cercò indarno per due giorni quel bastimento salvatore. Sul ponte di
ogni legno stava giorno e notte una sentinella russa; sulla riva, lungo
il porto, per passare la linea delle sentinelle,bisognava dar spiegazioni
e mostrar carte che il fuggitivo dalla catorga non avrebbe potuto dare
e mostrare. Rinunciando dunque con un profondo scoraggiamento alle
sue care speranze, prese la strada di Onega, come un pellegrino che,
dopo di aver visitato le sante imagini di Solovetsk, andava a Kiew
« per fare le sue divozioni alle sante reliquie. » Dopo molti incontri
più o meno piacevoli, arrivò a Vyuiegra. Sulla rada un paesano si av
vicina ad esso e gli domanda dove va, e, dietro la sua risposta, gli
propone di condurlo nella sua barca a Pietroburgo. Piotrowski s'in
gaggia come rematore, parte, e durante il viaggio ha l'occasione di
rendere qualhe servigio ad una povera vecchia contadina che andava
pure a Pietroburgo. Giunti in porto, ecco il fuggitivo in grande imba
razzo per sapere come evitar la polizia, dove alloggiare, ecc. A un
tratto la buona vecchia sua protetta gli dice: restate meco: ho man
dato ad avvertir mia figlia, che verrà a prendermi e v'indicherà un
buon alloggio. Restava la questione del passaporto e della polizia: egli
temeva che l'albergatrice non fosse troppo esigente su questo punto;
ma avendola interrogata sulle formalità da adempiere, gli rispose che
non c'era bisogno, per due o tre giorni di soggiorno, di andare alla
polizia. Rassicurato a questo riguardo, il giorno dopo va a passeg
seggiare dalla parte del porto, leggendo alla sfuggita, perchè un pae
FUG ll E El) EVASIUNl CEL LIBRI 39

sano russo non deve saper leggere, gli affissi che si trovavano sui di
versi battelli a vapore per annunciar la loro partenza.
« A un tratto mi venne veduto un avviso sritto in grossi carat
teri, posto vicino all'albero di un vapore: quel bastimento partiva il
giorno dopo per Riga. Vedeva un uomo passeggiar sul ponte, colla
camicia rossa sopra il pantalone, alla russa, ma non osava di parlargli;
mi contentava di guardarlo molto fisso. Intanto il sole stava per tra
montare, quando a un tatto l'uomo della camicia rossa alzò la testa e
mi domandò: vorresti forse andar a Riga? allora vieni a prender posto
qui. – Certo ho bisogno di andar a Riga. Ma io sono un povero
uomo; come posso prendere il vapore? Deve costar molto caro: non è
fatto per noi altri poveretti. – E perchè no? vieni. A un mugik, come te,
non si domanderà molto. – E quanto? - Mi disse un prezzo che non mi
ricordo più, ma che mi fece su,ire, tanto era moderato. – Ti conviene
dunque? Perchè esiti ancora? – Sono arrivato solamente oggi, e bi
sogna che la polizia faccia il visto al mio passaporto. – Allora perde
rai tre giorni alla polizia: il vapore parte domattina. - Che far dun
que? – Che diavolo! partire senza visto. – Bah! se mi succedesse poi
qualche disgrazia? – Imbecille: ecco un mugik, che vuol insegnare a
me. Hai il tuo passapCrto in tasca? mostramelo – Io trassi dalla mia
tasca ilpassavanti accuratamente involto in una pezzola di seta, secondo
l'abitudine dei contadini rus; ma egli senza guardarlo mi disse: vieni
domattina alle sette. Se non mi trovi, aspettami. Ora vattene via
presto. »
« Tornai tutto contento all'albergo, e il giorno dopo fui esattissimo
all'ora indicata. Già si scaldava la macchina. Quell'uomo mi scorse e
mi disse solamente: dammi qua il danaro. Poi si allontanò, e tornò
a portarmi un biglietto giallo: io finsi di non capire che cosa fosse e
feci delle osservazioni. Taci tu, mugik, disse sgarbatamente l'altro, e
lascia fare. La campana sonò tre volte, i passeggeri accorsero, e quel
l'uomo con un buon pugno mi cacciò dietro di loro. Alcuni momenti
dopo il vapore era in cammino: io credeva di sognare. »
Da Riga Piotrowski, viaggiando a piedi, arrivò senza difficoltà alla
frontiera, avendo un poco modificato il suo costume, ma conservando
sempre i distintivi del ruski celoviek (uomo russo), cioè l'armiak o pic
colo burnus e la pelle di montone. Si spacciava per un mercante di
setole di porco, lo che gli permetteva di prendere in viagg o le infor
mazioni necessarie. Dpo essersi ben informato degli ostacoli che po
teva incontrare passando dalla Russia in Prussia, riuscì a traversar
la frontiera di giorno senza essere colpito da alcune fucilate che gli
tirarono le sentinelle. Si rifugiò in un bosco vicino e, tagliata la barba,
camuffatosi in altra maniera, si spogliò dei vestiti propri del pae
sano russo. Finalmente arrivò senza cattivi incontri a Königsberg. Ma
al mºmento in cui si credeva salvo, poco mancò che non fosse affatto
0 PIOTROWSKI

rovinato. Aveva risoluto di partire col vapore per Elbing: verso la sera
sedette presso ad una casa in rovine sopra un mucchio di pietre, fa
cendo conto di allontanarsi sul far della notte e andare a dormire nei
campi, sino all'ora della partenza. Sfinito dalla fatica si addormentò
e fu risvegliato da una guardia di notte che, poco soddisfatta delle
sue risposte, lo arrestò e lo condusse al corpo di guardia vicino. Alla
polizia si spacciò per un operaio francese, e disse che aveva per
duto il passaporto. Fu messo in prigione.
Un mese dopo, chiamato di nuovo alla polizia, il commissario gli
dimostrò che quanto egli diceva era falso e gli lasciò capire chiara
mente che cadevano sopra di lui i più gravi sospetti. Stanco di fin
gere, irritato sopratutto di passare per un malfattore che si nascon
desse, dichiarò chi era. Una recente convenzione tra la Prussia e la
Russia obbligava i due stati a consegnare l'uno all'altro i fuggitivi.
Ifunzionari prussiani furono costernati ricevendo la dichiarazione di
Piotrowski: era loro impossibile di eludere la convenzione. Tuttavia i
principali abitanti di Königsberg ed alcune persone alto locate essen
dosi adoperati in suo favore, l'autorità era disposta a cedere. Poco
tempo dopo Piotrowski fu avvertito che un ordine giunto da Berlino
prescriveva di consegnarlo ai Russi, ma che gli si lascerebbe tutto il
tempo di fuggire a suo rischio e pericolo. Aiutato da generosi amici,
il giorno dopo era sulla strada di Danzica.
« Avevo, dice, lettere per differenti persone nelle città tedesche
che dovea traversare: e per tutto trovai dei generosi che si adopera
rono con gran cura a facilitarmi il viaggio. Grazie all'appoggio che
non mi mancò in nessun luogo, ebbi presto traversata la Germania e
il 22 settembre 1846 mi trovava di nuovo a Parigi, che aveva lasciato
quattro anni prima » – Rufino Piotrowski, Memorie di un Siberiano. (1)

(l) Abbiamo tradotto la narrazione della fuga di Piotrowski, compilata sulle memorie di
esso, da un'opera francese, di P. Bernard, che tratta lo stesso argomento della nostra. A lb
biamo pure altre volte approfittato di quel libro. Si noti però che il nostro volume com
prende un numero di fughe ed evasioni quasi doppio di quelle che dà il Bernard. Inoltre per
quelle narrate anche nell'opera francese, quando abbiamo potuto trovare i libri su cui fu
eseguita la compilazione, abbiamo fatto lavoro nuovo. L'opera nostra, ha dunque una doppia
estensione della francese ed è per quasi due terui originale.
,

ca

VI

,
-

LUIGI NAPOLEONE
(1846)

Dopo il pazzo tentativo di Strasburgo (1836) Luigi Napoleone Bo


naparte, arrestato e quindi posto in libertà dal governo francese, par
tiva per gli Stati Uniti d'America. Poscia mancando alla parola d'onore
ch'egli aveva dato, di non più tornare in Europa, col pretesto di rive
dere sua madre gravemente ammalata, si recava dall'America in In
ghilterra, poi nella Svizzera, quindi di nuovo a Londra. Fallito pure
il secondo tentativo di Boulogne e arrestato, veniva dalla Camera dei
Pari condannato alla detenzione perpetua in un forte e trasportato il
7 ottobre i840 in Ham.
Alcuni suoi complici furono pure detenuti in quel castello, ma poscia
amnistiati nel 1844. Uno di questi, il dottor Conneau, ch'è un italiano di
Livorno, sebbene il suo cognome sia francese, da lunghi anni amico
e fedele compagno di Napoleone, ottenne di poter dimorare con esso,
non più come prigioniero, ma libero a suo piacimento di uscire dal
forte e di rientrarvi.
IIam è una cittadetta della Piccardia, nello spartimento della
Somma, vicino alla riva sinistra di questo fiume. E difesa da un celebre
castello, che serve di prigione di stato e ove furono detenuti parecchi
personaggi storici, tra i quali citeremo, oltre Luigi Napoleone, il re
Carlo il semplice, Giovanna d'Arco, che vi rimase alcuni giorni prima
di essere consegnata agl'Inglesi, Mirabeau che vi fu chiuso per la sua
A2 , LUIGI NAPOLEONE

Memoria al re sull'agiotaggio; nel 1818 il maresciallo Moncey, per aver


rifiutato di esser membro del consiglio di guerra che doveva giudicare
il maresciallo Ney; i ministri di Carlo X, che vi restarono dalla rivo
luzione di luglio sino alla fine dell'anno 1836, e i generali Chmgarnier,
Lamoricière, Cavaignac, Bedeau, Le Flo, i deputati Roger (du Nord) e
Baze, e il colonnello Charras, che vi furono condotti al tempo del colpo
di stato del 2 Dicembre 1851. Questo castello ha un tetro as etto;
prima della rivoluzione, vi esistevano dei trabocchetti, ove si facevano
morire secretamente dei detenuti.
Un biografo benevolo anzi che no al prigioniero di Ham, che poi
fu Napoleone III, dice relativamente a questo periodo della sua vita:
« I primi tempi della detenzione furono assai tristi per il principe
e solo venivano alleviati dalla presenza dei suoi amici, coi quali con
versava parecchie ore del giorno.
« Quindi cominciò a cercare altre distrazioni nello studio e nel
lavoro. La prima opera da esso scritta nel castello e che poi fu stam
pata e diffusa in tutta la Francia, portava il titolo di Frammenti sto
rici. La seconda consisteva in una memoria intitolata: analisi della
questione degli zuccheri. Nel 1844 pubblicò un altro lavoro molto in
teressante sulla estinzione del pauperismo. Scrisse molti articoli, che vi
dero la luce in diversi giornali francesi. Un'altra opera pure compose
in quel tempo, di genere militare, e che aveva per titolo Studi sul
passato e sull'avvenire dell'artiglieria.
« Dobbiamo però notare che, secondo altri, quelle opere erano o in
tutto o in parte dettate da altre persone, locchè avvenne pure per la
Vita di Cesare pubblicata da Luigi Napoleone, quando egli era all'a
geo della sua potenza. Certo gli appartenevano, perchè... ne aveva
pagato gli autori.
E non taceremo neppure che si mostrarono due volte clementi
verso di lui Luigi Filippo e il governo francese : avrebbero potuto
torgli la vita e si erano contentati la prima volta di esiliarlo e la
seconda di chiuderlo in un forte. Cosi, durante la sua detenzione in
Ham, fu trattato con tutta la dolcezza possibile. Non gli mancò nulla
di quanto può non già compensare la perdita della libertà, inestima
bile bene, ma renderla meno dolorosa. Si racconta che persino s'intro
ducevano nel castello, sotto il nome di lavandaie e stiratrici, belle e
desiderabili donne; e che tutte le agiatezze della vita si trovavano in
quella dimora, invece dello squallore di una volta.
Prigioniero politico, Luigi Napoleone trovò dunque miti giudici e
miti custCdi, egli che poscia fece soffrire crndelmente tanti e tanti de' suoi
nemici politici, quando fu padrone del potere e dominò la Francia.
Ham era però sempre un carcere; l'uomo di Strasburgo e di Bou
logne voleva uscirne, e gli venne fatto di ottenere il suo intento.
Egli non era stato compreso nell'amnistia del 1844. Sino dall'aprile
1843 scriveva ad un suo amico:
FUGHE ED EVASIONl CELEBRI A3

« Voi dite che circolano voci d'amnistia, e che io potrei essere


compreso nella lista dei graziati: mi chiedete come io accolga tale no
tizia. Rispondo lealmente alla vostra domanda.
« Se domani mi aprissero le porte del carcere e mi dicessero, « cit
tadino, voi siete libero », con gioia accetterei la libertà che mi sarebbe
offerta dalla nazione; ma se invece mi schiudessero la mia cella, per
additarmi di nuovo la via dell'esiglio, ricuserei, perchè preferisco es
sere prigioniero sul suolo francese, piuttosto che libero in estraneipaesi. »
Lasciamo ancora parlare il biografo di Luigi Napoleone.
« Sul finire del 1845 il conte di San Leu, padre del principe, cadde
ammalato, in modo che i medici disperavano di poterlo salvare. Pre
sentendo vicina la sua fine, mostrò desiderio di aver presso al suo
letto di morte l'unico figlio che gli era rimasto (1). Appena tal nuova
giunse a cognizione del principe, chiese di poter soddisfare ai desideri
del morente, impegnando la sua parola d'onore che sa eble tosto ri
tornato al suo carcere. Molte persone influenti aveano parlato al mini
stro dell'interno ed al re stesso, perchè la domanda di Luigi Napo
leone avesse ad ottenere una favorevole risposta. Quello che più aveva
perorato in fa vore di esso, era Odilon Barrot (2); ma uutte coteste
pratiche rimasero senza risultato.
« Il 25 settembre il principe si decise a scrivere egli stesso al
ministro.
– « Mio padre la cui salute e l'età reclamano le cure d'un figlio,
ha chiesto al governo, che mi sia permesso di portarmi presso di lui.
« Le sue pratiche sono rimase infruttuose. Il governo, mi scri
vono, esige da me una garanzia formale. In questa circostanza, la mia
risoluzione non potrebbe esser dubbia. Io debbo fare tutto quanto è
compatibile col mio onore per poter offrire a mio padre le consolazioni
ch'egli merita per tanti titoli.
« Io vi dichiaro dunque, signor ministro, che se il governo fran
cese consente che io possa recarmi a Firenze ad adempie e un sacro
dovere, io mi obbligo sul mio onore di ritornare a costituirmi prigio
niero appena che il governo me ne dimostrerà il desiderio ».
Queste parole dell'uono infido che aveva già un'altra volta man
cato alla sua parola d'onore, fanno pensare ad Hernani che promette
al vecchio Silva di mettersi in potere di esso, subito che senta sonare
il corno. Ma dal carattere di Hernani a quello dell'uomo del 2 dicem
bre ci corre assai!

(1) Si sa però che Luigi Napoleone non era vero figlio di Luigi fratello di Napoleone I. In
una lettera diretta dall'ex re d'olanda al papa Gregorio XVI, pubblicata nel 1872 a Parigi,
dice, dopo di aver parlato del principe Napoleone suo figlio, il quale avevo preso parte ai
noti del 1831, » Quanto a que l'altro, V. S. sa bene che non mi e nulla.
(2) Luigi Napoleone era stato difeso dinanzi alla camera dei Pari da Ferdinando Barrot,
ratello di odilon Barrot, e che 1 oi fu ministro in spagna.
* LUIai NAPoLEose

Infatti il consiglio dei ministri respinse la domanda, ed il rifiuto


fu notificato al principe dal comandante del forte.
Allora Luigi Napoleone si rivolse al re stesso e gli scrisse:
» Il consiglio dei ministri non avendo creduto che fosse di sua com
petenza di accogliere la domanda che io aveva fatto d'andare a Firenze,
impegnandomi di far ritorno al castello di Ham, quando il governo
me lo comandasse, faccio, o sire, con tutta fiducia un appello ai sen
timenti di umanità della Maestà Vostra, e rinnovo la domanda, sotto
mettendola, sire, al vostro alto e generoso intervento.
» La Maestà Vostra, ne sono convinto, giudicherà, come esso merita,
un passo che impegna anticipatamente la mia riconoscenza, e sarà com
mossa dall'isolamento in cui si trova, negli ultimi giorni della sua
vita, un uomo che, come mio padre, meritò sul trono la stima dell'Eu
ropa, e vorrà esaudire i suoi voti ed i miei. »
Luigi Filippo nel leggere questa lettera parve infatti commosso e pago
della garanzia che il principe offriva. Voleva firmare il salvacondotto,
col quale Luigi Napoleone potesse recarsi in Toscana e restarvi per
tutto quel tempo cheavrebbe desiderato suo padre: ma i ministri tanto
fecero che invece sottoscrisse il rifiuto. »
Come si vede, l'orgoglio del prigioniero era stato raumiliato dal
tempo e da gravi considerazioni; il suo linguaggio era differente da
quello che teneva pochi mesi prima. Ostinato a non chieder una grazia
pura e semplice, chiedeva però con umili parole un atto che sottosopra
corrispondeva alla grazia e che intanto gli accordava la libertà.
Perduta ogni altra speranza, Luigi Napoleone decise di fuggire, e i
suoi amici si prepararono ad assicurare la sua evasione.
Il principe abitava un appartamento in cui si facevano dei restauri.
Entravano dunque ed uscivano frequentemente degli operai, portando
gli arnesi dell'arte loro, o nuovi materiali da porre in opera, od altri
vecchi che non servivano più. Luigi Napoleone si concertò dunque col
suo amico dottor Conneau e col suo cameriere particolare Thélin, che gli
era fidato ed affezionatissimo, per fuggire travestito da operaio.
Thélin doveva chiedere al comandante del forte il permesso di
recarsi in città. Nel momento in cui usciva, il principe doveva se
guirlo, lasciandogli la cura di sviare l'attenzione dei soldati di guardia
o di qualunque altro che avesse potuto riconoscerlo sotto il suo tra
vestimento.
La difficoltà maggiore non era quella di traversare la corte o di
passare in mezzo alle guardie vicine al ponte levatoio. Il fuggitivo
poteva essere riconosciuto dagli operai sparsi per il castello e che
andavano e venivano per le loro bisogne. Vedendo una faccia nuova
per essi, avrebbero potuto a bello studio o sprovvedutamento, con
qualche gesto o parola di maraviglia dar l'allarme ai custodi e alla
guarnigione del forte. Ad ogni modo il tentativo era audace, ma il
dado era gettato e non era più tempo di ritirarsi.
PUGHE ED EVASIONI CELEBRI 45

La mattina del 23 maggio 1846 Luigi Napoleone aveva disposto


tutto per il suo travestimento; alle sette e un quarto era pronto. Aveva
indossato abiti sdrusciti alla foggia dei muratori, con iscarpe rotte ai
piedi e imbrattate di calce. Thélin aveva raccolto tutti i lavoranti che
si trovavano sparsi per l'appartamento e sulle scale, e li aveva invi
tati a bere un bicchier di vino. Intanto Luigi Napoleone si pose sulle
spalle una vecchia trave, che doveva esser portata fuori del castello, e
in testa un cappellaccio, che gli nascondeva la fonte e una parte
della faccia. Preceduto da Thélin, che doveva distrarre l'attenzione
dei custodi, si avviò verso il ponte levatoio del castello. Scese le
scale, incontrò appunto uno dei custodi, ch'ebbe appena il tempo di
cansarsi per non essere urtato dalla trave che il finto operaio portava
sulle spalle. Dopo cinque minuti, tempo che senza dubbio al fuggitivo
ed a coloro che ne aiutavano l'evasione, dovette parere un secolo,
essendosi trovato più volte in procinto di essere scoperto dalle persone
di servizio, dalle guardie o dal capo custode, preceduto sempre da
Thélin, Luigi Napoleone, si trovò sul primo ponte levatoio. Alcuni operai
entravano allora nel castello : parve loro strana la fisionomia di un
compagno che non avevano mai veduto, e si fermarono per guardarlo. Il
principe si levò d'impaccio facendo passare la trave dalla spalla destra
alla sinistra. Quel movimento bastò per sottrarlo agli sguardi dei cu
riosi, che continuarono la loro strada.
Fuori del secondo ponte levatoio, quantunque non conoscesse esat
tamente Ham, pure guidato dalle indicazioni di Thélin, il fuggitivo volse
il passo verso il luogo ove doveva trovarsi il legno noleggiato dal ca
meriere. Infatti arrivò un momento dopo, e Luigi Napoleone, gettata
la trave, le scarpe e il camiciotto d'operaio, salì a cassetta e prese le
redini, come fosse il cocchiere. Giunto a Saint-Quintin cambiò i cavalli
e si diresse a Valenciennes. Da Valenciennes passò a Bruxelles, di là
ad Ostenda, ove sali sul primo battello a vapore che partiva per l'In
ghilterra.
Intanto che il fuggitivo volava sulla via di Saint-Quintin e di Va
lenciennes e toccava la frontiera del Belgio, il dottor Conneau riusciva
ad ingannare il comandante del forte, facendogli credere che il prin
cipe fosse ammalato e avesse bisogno di riposo. Era accomodato sul letto
un fantoccio, che avea l'apparenza di un uomo coricato e coperto dalle
coltrici. Intorno al letto erano tesi e semichiusi i cortinaggi; le imposte e
le cortine lasciavano entrare per le finestre una scarsa luce nella camera.
Il comandante, passata appena la soglia, in compagnia del dottor Conneau,
e creduto che il principe fosse realmente nel suo letto e riposasse, si
era ritirato. L'inganno fu scoperto solamente il giorno seguente, quando
il fuggitivo era già in salvo.
Conneau fu dalla Corte di Amiens condannato a tre mesi di car
cere; due gendarmi, le persone destinate al servizio del principe e il
6 ' LUIGI NAPOLEONE

comandante stesso del forte, vennero arrestati. Ma tutto era inutile;


l'uccello era già fuggito di gabbia.
Quando alcuni anni dopo, Napoleone III, al colmo della sua gran
dezza, volle rivedere il luogo in cui aveva passato più di cinque anni
di cattività, quali memorie debbono averlo assalito!. Oh s'egli avesse
potuto avere allora il presentimento della sua nuova strepitosa caduta l.
Se avesse potuto imaginare che sarebbe un giorno chiuso in un altro
castello, non qual reo di stato, ma qual prigioniero di guerra! La sua
prima prigionia fu conseguenza di un'impresa che lo coperse di ridi
colo; la sua seconda prigionia di un'impresa che lo coperse d'infamia.
Nel 1840 egli trasse nella sua ruina solamente pochi complici suoi; nel
1870 una nazione intera, che gli aveva improvvidamente affidato i suoi
destini. Due volte doveva trovare un asilo nell'ospitale Inghilterra; la
prima per ordire nuovi intrighi e poscia, approfittando di circostanze
straordinarie, toccare la meta della sua stragrande ambizione; la se
conda per terminar fra breve una vita tanto agitata e in cui le colpe
e le vergogne soverchiarono di gran lunga i meriti e le glorie.
MARRAST

Gninard , G. Cavaignac, ecc.

(1834)

In seguito agli ammutinamenti d'Aprile 1834, a Parigi e a Lione


un gran numero d'uomini conosciuti per le loro opinioni ostili al go
verno furono posti in stato d'accusa dinanzi alla Corte dei Pari per
aver preso una parte diretta o di complicità a questo movimento. Tra
gli accusati figuravano Guinard, Marrast, Cavaignac, fratello del gene.
rale, Fontaine, ecc. Il processo seguiva il suo corso, quando la
sera del 12 luglio si seppe che ventotto fra i prigionieri, detenuti a
Santa Pelagia, antica prigione per delitti, erano fuggiti.
La sorveglianza esercitata sopra di essi era stata poco rigorosa
essi comunicavano coi loro conoscenti e gli amici ch'erano fuori della
prigione, passavano tutta la giornata riuniti sia nelle loro camere, sia
nella corte destinata al passeggio. Dava su questa corte la porta di
una cantina,la quale si estendeva nella direzione del muro di cinta del car
cere, in modo che la sua estremità era separata dal giardino di una casa
vicina solamente da una breve distanza. Bastava dunque forare il muro
della cantina e scavare una galleria per arrivare al giardino. Questo
appunto fecero i prigionieri. La galleria aveva dieci metri circa
di lunghezza sopra un metro di diametro, diretta in maniera che toc
cava alla sua estremità il suolo del giardino della casa situata in via
Copeau N. 7. Per mezzo delle intelligenze che aveano fuori della pri
ne trovarono tutto preparato in questa casa per facilitare la loro
uga senza comprometter nessuno. Verso le nove di sera, forarono la
8 MARRAST, GUINARD, G. CAVAGNAC, ECC.

crosta di terra che separava ancora la loro galleria dall'aria libera,


passarono quindi da Santa Pelagia nel giardino, e di là si misero in
salvo a gruppi, o a uno a uno. I giornali ministeriali dissero che si
erano procacciata una chiave falsa della porta della cantina: invece,
secondo il National, questa cantina era sempre a disposizione dei dete
nuti. Mentre ventotto di essi evadevano, altri quindici circa rifiutarono
di seguirli per vari motivi o ne furono impediti da malattia. Ma quelli
tra loro che non erano obligati a guardar la camera, stettero nella
corte, da cui non si facevano risalire alle loro celle prima delle dieci.
La loro presenza in quel luogo, le loro conversazioni a voce alta, lo
strepito che facevano, impedirono, dicesi, ai custodi di prender sospetto
sull'evasione degli altri. In una parola questa evasione fu così facile e
cosi favorita da una gran quantità di circostanze, che si disse persino
che l'autorità l'aveva aiutata per semplificare un processo molto diffi
cile da terminare.
Quelli tra i prigionieri fuggitivi che passarono in paesi stranieri,
non ebbero nolti ostacoli da vincere. Armando Marrast e i suoi com
pagni di viaggio furono tuttavia arrestati dai gendarmi a quaranta
chilometri della frontiera, mentre andavano per una scorciatoia che cre
devano sicura. Da due ore si vedevano ritenuti per ordine di un bri
gadiere di gendarmeria, quando fortunatamente sopravvenne l'assessore
municipale del paese vicino. Marrast l'interpellò vivamente dicendogli:
signore, io vi rendo personalmente responsabile dei danni che mi ca
giona questo ritardo: da due ore vi aspetto per liberarmi dai gendarmi
che mi prendono per non so chi: è proprio una cosa ridicola! L'asses
sore un poco confuso esaminò con molta cura i passaporti dei due
viaggiatori, che, ben inteso, erano perfettamenie in regola, e li lasciò
partire. La sera stessa Marrast guidato dai contrabbandieri, passava senza
ostacolo la frontiera.
Lo stesso avvenne al sig. Guinard. Arrivato a Compiègne da uno
de' suoi amici, questi, per maggior sicurezza, pensò di far pranzare il
fuggitivo in compagnia del procuratore del re. Il magistrato che aveva
una bella occasione di avanzamento, non sospettò per nulla chi fosse
il convitato che gli teneva compagnia. Venuta la notte, l'amico con
dusse il suo ospite in un carrozzino con buoni cavalli sino presso alla
frontiera; poi un contrabbandiere, con cui era d'accordo, fece traver
sare al fuggitivo le linee della dogana.

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Fughe ed evasioni celebri. Disp. 3.


Piotrovschi mostra il suo passaporto.
Pag. 7.
V I i I

RI

(1833)

La Giovine Italia, s'era rapidamente diffusa in tutta la Penisola:


vi s'erano aggregati a Genova, a Torino e in altre città della Liguria
e del Piemonte, molti giovani e ufficiali dell'esercito. Nell'aprile del 1833
il governo venuto in sospetto procedè ad arresti di studenti e soldati,
e cominciò una persecuzione feroce.
I generosi che ponevano a sbaraglio averi e vita per l'amore della
libertà furono dai giornali venduti al potere, diffamati come sciagurati
pieni di vizi, assassini, infami sovvertitori, nuovi Catilina. Le calunnie
apposte in quel tempo dai reazionari anche a taluno fra quelli che
furono condannati a morte, trovarono più tardi un eco in certe storie
dettate con intendimenti partigiani dai moderati.
Furono istituite a Chambery, a Torino, ad Alessandria, a Genova
commissioni militari per giudicare gi accusati. La più severa fu quella
d'Alessandria: e il comandante Galateri si procacciò allora un nome
infame nella storia per la sua crudeltà. Non fu conceduta alcuna re
golare difesa. Si poneano sott'occhio agli accusati imaginate confes
sioni, interrogatori falsificati, sottoscrizioni abilmente imitate. Si chiu
devano nelle carceri insieme coi liberali degli agenti di polizia che
sotto la maschera del cospiratore si acquistavano la confidenza dei pri
gionieri. Insomma si adoperarono per tutto le infami arti poliziesche
usate dai tirannici governi italiani d'allora.
Lasciamo la parola a Brofferio (Storia del Piemonte vol. III).
« Tutto ciò che l'immoralità, l'inverecondia, la vendetta, l'esercizio
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 51

dei tormenti e la sete di sangue possono inventare, tutto fu posto in


opera per strappare ai prigionieri delle rivelazioni. Con questi si prati
cava la corruzione, con quelli la menzogna, con altri l'insidia, con
tutti il terrore.
« Con quelli di cui volevano strappare qualche confessione per
farne argomento di condanne, non avevano ribrezzo d'impiegare le arti
piu vili dei sicari e delle spie.
« L'ufficiale Pianavia spaventato da questi rei maneggi si faceva
denunziatore in Alessandria dei suoi compagni.
Fra gli altri carcerati era Giovanni Re negoziante di Stradella,
invano sino a quel giorno tormentato dall'infame Galateri.
Re concepì il pensiero di burlarsi dei suoi carnefici e nello stesso
di ricuperare la libertà. Ordi per questo un sottile inganno, e gli
venne fatto di conseguire l'intento. La biscia beccò il ciarlatano.
« Dichiarò di voler rivelare. Corse avidamente il governatore, e
dal labbro del prigioniero uscirono illustri nomi e importanti notizie.
«Il rivelatore divenne carissimo a Galateri. Ogni giorno qualche
nuova esposizione rendeva più benemerito il prigioniero. Esultava il
governatore e colmava di riguardi la vittima. -

Si andò tant'oltre che Giovanni Re ebbe la permissione di recarsi


nella Lomellina per munirsi di carte relative alla congiura e della
massima importanza.
« Appena il cospiratore fu libero, passò la frontiera e si rifugiò in
Lugano, d'onde scrisse incontanente a Galateri, partecipandogli che
tutto ciò che aveagli rivelato era falso, e che invece di dargli in mano
le carte, gli avrebbe piantato in cuore un pugnale alla prima occasione.»
IX

FR I GN A N I

(1829)

Questo esimio patriota riuscì a salvarsi da una lunga prigionia,


forse dalla morte, ed a riavere la libertà non col segare con lime di
acciaio le inferriate della carcere, non collo scavare sotterranei cunicoli,
non col scendere da paurose altezze per una corda, come altri di cui
si parla in quest'opera nostra, ma con un mezzo singolare, strano.
col fingersi pazzo.
Angelo Frignani di Ravenna, sino dal 1821, in età di ventiquattro
anni, erasi dato con tutto l'ardore giovanile a favorire i tentativi di
libertà, poscia ad aiutare le fughe dei perseguitati ed a salvarli dalle
mani dei carnefici.
Nel 1827 caduto egli stesso in mano agli sgherri del papa, fu ca
rico di ceppi di enorme grossezza; il carcere era fetido, il cibo pessimo.
Dopo due interrogatori fu tramutato in altra segreta ancora più orri
bile. Poichè si persuase che sarebbe senza fallo condannato a morte,
come tanti altri patrioti di quel tempo, rivolse tutti i pensieri a trovar
modo di scampo.
Credette che il solo partito che poteva riuscire, fosse quello di darsi
per pazzo. « Volse tutto l'ingegno, dice il Vannucci nei Martiri della
libertà italiana, a contraffare la mania, così che togliesse affatto il so
spetto della finzione. Volea mostrare, ch'era il rigeneratore degli uo
mini, il liberatore d'Italia; e ogni suo fatto, ogni suo detto diresse
a provare che n'era profondamente convinto. Un maresciallo di gen
darmeria, uomo tristissimo, per tirare il prigioniero a far delle con
fessioni, si fece a lui in aria malinconica e pietosa, e dopo molte lu
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI - 53

singhe gli disse che gli altri prigionieri avevano rovesciato sopra di
lui ogni colpa, e che pagandoli della stessa moneta egli salverebbe se,
e avrebbe lode e premio dalla sovrana clemenza. A queste parole il
prigioniero acceso d'ira rispose: «cessate; serbate le vostre infami pro
ferte alle coscienze venali. Chi turberà l'innocenza mia? Non le calun
nie, non la debolezza altrui. Non credo però quel che mi dite.
segreti d'altrui non conosco; conoscendone, tacerei. Della clemenza so
vrana non so che me ne fare: ella può giovare al malvagio, non a
me. A ogni modo non io il sovrano, ma egli offende me, che sono de
stinato a rigenerare l'umanità: dunque spetta a me il perdonare, e non
a lui. Egli può mandarmi oro e proferte corrompitrici: io accoglierò
più volentieri il carnefice, suo dono anch'esso, ma meno infame ».
Questa intemerata fece credere al gendarme che il povero Frignani
avesse proprio perduto la ragione, e lo disse. Il prigioniero teneva
pure simili discorsi ai soldati di guardia e inveiva contro i pontefici,
dicendo cose vere ma arditissime, lo che sempre più convalidava l'opi
mione ch'egli fosse fuor di senno. Oltre dire le più stravaganti cose,
faceva le più strane pazzie. Un agitarsi continuo, un correre qua e là,
un fissar gli occhi in terra e stare immobile per lungo spazio. Non
mangiava, non dormiva; ora gridava orribilmente, ora sgangherata
mente rideva; ora dava in accessi che parevano di vero maniaco. Ai sol
dati che gli facevano la guardia prometteva premi e grandezze quando
avessero liberata l'Italia e stabilita la repubblica; poi si azzuffava con
loro; si strappava le vesti e i capelli, si graffiava la fronte. Una volta
finse di essere stato avvelenato; mandava orribili grida, scuoteva con
gran fracasso le porte del carcere. Alla fin fine fu posto in ceppi.
Intanto monsignor Invernizzi, che acquistò una trista fama in quei
processi di sangue, recatosi a Faenza e sentendo che il matto con
tinuava a farne delle sue, ordinò che fosse condotto colà per guarirlo
(diceva) mettendolo nelle carceri del Santo Uffizio. Sopra la porta era
l'epigrafe dell'inferno. « Lasciate ogni speranza, voi che entrate ». Il
Frignani nel suo nuovo carcere continuava a fare le più straordinarie
pazzie; sosteneva sempre la sua chimerica parte di liberatore e par
lava del modo con cui avrebbe organizzato il nuovo stato d'Italia.
Monsignor Invernizzi volle vederlo, e fu tanto spaventato dalle
parole e degli atti di lui, che fuggi subito, e ordinò che si chiamasse
un medico per curarlo. Andò tra gli altri a visitarlo il dottor Ander
tini, medico primario della città di Faenza, il quale sin dalla prima
visita si accorse della finta pazzia, e, valent'uomo com'era, stabilì di
aiutare l'infelice nella sua prova.
Per intercessione di lui il Frignani potè anche rivedere il padre e
i fratelli, a uno dei quali svelò l'enimma del suo artifizio. Traspor
tato nell'ospedale Faentino, continuò la commedia. Intanto la commis
sione che decideva qual destino dovessero avere gli accusati di crimenlese,
5 FRIGNANI

decretò che egli non fosse ricondotto in carcere prima di essere perfet
1amente guarito. Se fuggi alle branche del carnefice, ne fu debitore al
l'Anderlini, che lo secondò a tutto suo potere, e con altre pietose frodi
salvò pure altri infelici in quei tristi tempi.
Fu permesso al Frignani di recarsi a finire la convalescenza in
famiglia, ma ogni suo passo era continuamente spiato dai birri; per
ciò stabilì di non aspettare il termine prescritto e si dispose a fug
gire. Ebbe consigli e mezzi di fuga da Antonio Farini di Russi. Nel
settembre del 1829 si recò segretamente a Firenze, ove trovò modo di
aver un passaporto fingendosi servitore di un Corso. Condottosi a
Livorno, nell'atto d'imbarcarsi scrisse questa lettera a monsignor In
vernizzi:
« Domani porrò il piede in terra non libera, ma dove almeno la
dignità dell'uomo non è in tutto oltraggiata. Ivi aspetterò in pace il
risorgimento d'Italia, inevitabile, io spero, ancorchè mi sembri lontano.
Frattanto, s'egli è vero che il dolore scemi col narrarlo ad altrui, sof
frirò i mali a cui mi sottoponeste per avere amato la patria. Scoprirò
l'ipocrisia e la ferità vostra, degno satellite di re sacerdote. Voi vole
vate mandarmi alle forche: io vi dissi che Iddio mi aiuterebbe e mi
salverebbe. Voi vi beffaste di me, e Dio mi ha poi dato modo di libe
rarmi dalle mani vostre o di lasciarvi schernito. »
Di Corsica passò in Francia e sui primi tempi pati più mesi la
fame e condusse orribile vita a Marsiglia. Poscia a Aix si dette a far
i'artefice di lavori di ottone, e quindi l'orefice e cosi guadagnava un
pane onorato. Più tardi, quando potè, riprese l'esercizio delle lettere
e pubblicò un elegante e curioso libro in cui narrò le sue vicende e
i suoi patimenti, e le lunghe prove con cui gli fu dato di sottrarsi
alla morte (La mia pazzia nelle carceri, Memorie di Angelo Frignani,
Parigi 1839).
ARRIVA BENE, UGONI E sCALVINI
(1822

Il conte Giovanni Arrivabene di Mantova, uomo dotto e beneme


rito, dato ad opere di beneficenza ed a studi letterari e scientifici, non
apparteneva propriamente alla Carboneria, ma conosceva alcuni dei
principali cospiratori, come il conte Porro eSilvio Pellico, ne approvava
i generosi disegni e a richiesta del Pecchio aveva dato mille lire
per aiutare la rivoluzione che si stava preparando.
Scoperta la congiura, Pietro Maroncelli, uno dei detenuti, disse ai
giudici che i Carbonari facevano molto assegnamento sull'adesione del
l'Arrivabene, e Silvio Pellico confessò di avergli manifestato il dise
gno di estendere la Carboneria, aggiungendo però, per mitigare gli
effetti della sua rivelazione, che l'Arrivabene avea disapprovato la cosa
come assai pericolosa.
Nella perquisizione fatta in casa sua non gli si trovarono carte
di Carboneria; ma furono sequestrati altri scritti, come di tenore so
spetto; l'inno di Rossetti per la rivoluzione di Napoli e alcune lettere
scrittegli da vari amici, nelle quali si parlava di mutuo insegnamento
e di carbon fossile.
L'Arrivabene fu condotto a Venezia, davanti la Commissione spe
ciale, e dopo dieci mesi di prigionia fu rimandato assoluto il 10 di
cembre 1821.
Il fatto più grave di cui si sarebbe potuto fare un capo d'accusa
contro l'Arrivabene, era ancora fortunatamente ignorato dai giudici
austriaci. Egli, prima di essere arrestato, aveva avuto un convegno, in
una casa di campagna vicina a Milano, con Borsieri, Pecchio, Beni
S6 ARRIVABENE, UGONI E SCALVINI

gno Bossi e Carlo Castillia. Si era trattato di una guardia nazio


inale e di un governo provvisorio da istituirsi a Milano, quando
scoppiasse la rivoluzione in Piemonte. Anche il fatto delle mille lire
non era ancora noto alla polizia austriaca ed alla Commissione speciale
di Venezia. -

Appena liberato dal carcere seppe che Confalonieri, Pallavicino e


Castillia erano stati arrestati. Temendo dunque di esser di nuovo gher
inito dagli sgherri dell'Austria, decise di mettersi in salvo.
Da Venezia si recò in gran fretta a Brescia, visitò Camillo Ugoni
e Giovita Scalvini, suoi antichi amici. Anche Scalvini gli disse: bisogna
partire; questa non è aria per noi. Tutti e tre, qual più qual meno
compromessi, deliberarono dunque di fuggire.
Erano le quattro pomeridiane: risolvettero di aspettare lo spuntar
del giorno. Scalvini, accolse in casa sua l'Arrivabene, lo fece coricare
nel letto di sua madre; e la buona donna, cui non si voleva dir nulla,
fu con destrezza allontanata, in modo però che, senza essere partecipe
del secreto, doveva avvertirli in caso che la polizia fosse venuta a far
loro una visita.
Il 10 aprile 1822, i tre fuggitivi e il servitore dell'Arrivabene la
sciarono Brescia e, dirigendosi verso le montagne, rimandarono presto
loro carrrozza e continuarono il viaggio a cavallo. Passarono tre
giorni e tre notti nel labirinto delle valli, condotti da guide sempre
nuove e dappertutto ricevuti con una stima e con un rispetto che
rammemorano i tempi di Omero e della Bibbia.
Giunti a Edolo, villaggio sull'Adda, a dodici ore da Tirano, entrano
nell'albergo e vedono sospesi davanti al fuoco d'un gran camino de
gli uniformi di gendarmi tutti inzuppati d'acqua. – Ch'è questo? –
Silenzio. dormono. Povera gente, sarebbe peccato di svegliarli! –
I gendarmi erano stati mandati in cerca dei tre fuggitivi: stanchi per
un diluvio di pioggia e per una lunga corsa a cavallo riposavano al
piano superiore.
I tre proscritti pieni di carità non vollero turbare il sonno dei
dormienti, e battendo colla mano una delle giberne, dissero « qui c'è
forse l'ordine del nostro arresto. Andiamo, andiamo... dei cavalli e via.
Lasciamo l'antro prima che il leone rugga. »
Ciascuno si dette premura d'aiutarli, ma si poterono fornir loro
due cavalli solamente. I gendarmi intanto continuavano a dormire. Allo
spuntare del giorno i fuggitivi passarono la montagna detta Sapei
della Briga. Colà si trovava un posto di gendarmi, ma il buon angelo
che aveva addormentato quelli di Edolo, fece il medesimo anche per
questi. Arrivabene e i suoi compagni di fuga passarono senz'essere
veduti.
Tuttavia non aveano ancora passato il punto più difficile, la fron
tiera. Si fecero annunciare come mercanti di buoi che andavano alla
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 57

fiera; poi adagio adagio e senza strepito traversarono una fila di do


ganieri austriaci che facevano loro rispettosamente delle scappellate, cre
dendo salutare dei boari e non dei conti e dei baroni. Questi risposero
ad una tanta cortese accoglienza facendo essi pure di cappello; poi ap
pena arrivati al di là della pietra che segna il confine, rifiniti si lascia
rono cadere in terra.
Come descrivere il quadro? A due passi al di quà della frontiera
i doganieri che bestemmiavano, che minacciavano, furiosi di vedere che
aveano lasciato passare dei fuggitivi, dei compromessi politici e non
dei mercanti di buoi. Due passi al di là, i poveri esuli, che abbando
navano la patria, la loro fortuna, i loro amici, tutto ciò che avevano di
più caro, ma che benedivano il cielo che li aveva salvati e non rispon
devano che con una tranquilla indifferenza alle ingiurie che si sca
gliavano loro.
Quanto all'albergatore di Edolo, fu messo in prigione e ci restò
lungo tempo. La povera moglie a cui era stato detto che suo marito
sarebbe appiccato, ne mori di dolore.
Giovita Salvioni e Camillo Ugoni col fratello Filippo condannato
a morte esso pure, dopo aver a lungo peregrinato, approfittarono del
l'amnistia del 1838, per l'incoronazione di Ferdinando, e tornarono a
Brescia.
Arrivabene prese stanza a Brusselle, e quivi fece onore al nome
italiano coll' integrità della vita, coll'amore della libertà e coi suoi
studi economici. Ora ottuagenario è senatore del Regno d' Italia e,
come Giorgio Pallavicino, uno dei pochi superstiti di quell'epoca burra
scosa cui si riferiscono i fatti da noi raccontati.
XI

BERCHET, ARCONATI E PORRO


(1821)

Vogliamo narrare come questi celebri patrioti milanesi riuscirono


a mettersi in salvo ed evitare la sorte di tanti loro illustri amici con
dannati al durissimo carcere dello Spielberg, come Carbonari.
Per formarsi una chiara idea della celebre società secreta dei Car
bonari, fa d'uopo conoscerne il programma. Non era intendimento di
quei cospiratori di fondare l'unità d' Italia. Questo concetto, balenato
in varie epoche ad alcune splendide menti dotate d'una specie d'in
tuizione profetica, fu per la prima volta l'obiettivo di una cospirazione,
la parola d'ordine di un gran partito, al tempo della caduta di Napo
leone. Furono patrioti italiani delle provincie meridionali che propo
sero a Murat di mettersi a capo di un partito unitario italiano, di
farsi re di tutta Italia: ma gli animi erano ancora impreparati; il tempo
fu troppo breve, il succedersi degli avvenimenti troppo rapido. Il grande
concetto, che doveva poi essere ripreso da Mazzini e dalla Giovine
Italia, era stato del tutto messo da parte dai Carbonari. Il loro inten
dimento era di organizzare una confederazione italiana composta del
Regno dell'Alta Italia, della Toscana, del Regno delle due Sicilie
e dello Stato pontificio, per cacciare lo straniero dall'Italia. Invocarono
pure il papato, colla speranza di fare una nuova lega di Pontida e
rinnovare colle forze unite d'Italia i trionfi che i soli Lombardi e i loro al
leati aveano ottenuto contro il potentissimo imperatore tedesco. Perciò la
FUGIE ED EVASONI CELEBRI 59

scuola dei Carbonari fu chiamata neo-guelfa; i cospiratori delle Romagne


e nelle Marche portavano appunto il nome di Guelfi. Era il medesimo si
stema che fu poi nel 1846 predicato da Gioberti e poi da lui stesso, dopo
la mala prova che fece nel 1848-49, abbandonato. Arconati, Berchet, e
Confalonieri furono inviati dalla setta a Papa Pio VII, a proporgli di
emulare il gran nemico di Barbarossa, Alessandro III, e di chiarirsi
nemico dell'Austria. Dicesi che il papa abbia incoraggiato quei deputati
e detto loro che se i Carbonari erano Italiani, era italiano egli pure.
Onde, per un tacito consenso delle autorità pontificie, malgrado le istanze
e le minaccie dell'Austria, la setta potè diffondersi sicuramente negli
Stati del papa. Le vendite del Veneto erano diramazioni, affiliazioni di
quelle di Ferrara e di Bologna. Solamente più tardi, fallito il movi
mento il pontefice stretto dell'Austria scomunicò e perseguitò i Car
bonari, cui per un momento aveva teso la mano.
In Lombardia tutti gli uomini più illustri nel patriziato e nelle
lettere formavano parte di quella società; tra i letterati i celebri Pel
lico e Berchet. Bisogna eccettuarne Manzoni, patrizio e letterato, il quale,
benchè sollecitato da parenti ed amici, ricusò ostinatamente di entrar
nella cospirazione. Più tardi dettò l'ode:
Soffermati sull'arida sponda; ecc.

ma, avuta la notizia dei primi arresti, la imparò a memoria, poi la


lacerò.
Il celebre poeta era amante del quieto vivere, e fu capo di quella
scuola che chiameremo scuola della rassegnazione. Gli adepti di essa si
consolavano delle sventure d'Italia pensando che

Solo al vinto non toccano i guai:


Torna in pianto dell'empio il gioir;

che in ogni caso la vendetta divina coglie l'empio vincitore all'e


stremo sospiro, cioè che va all'inferno.
Se tanti agitatori e martiri italiani avessero appartenuto a quella
scuola, avremmo ancora in Italia gli Austriaci e i tirannelli che sgover
navano il nostro misero paese all'ombra dell'aquila austriaca
I Carbonari avevano fatto dei tentativi per ascrivere tra i cugini o
affiliati anche Vincenzo Monti; ma egli rispose a Pellico ed a Berchet
che, in nome degli amici, gliene avevano fatto proposta, ch'egli era
troppo vecchio per farsi cospiratore, ma che sperava di poter prima di
morire celebrar le glorie e i trionfi della Carboneria.
Giovanni Berchet, sin d'allora poeta che godeva di una bella fama, l
quale poi doveva tanto accrescersi da collocarlo fra i grandi, era partito
da Milano, qualche tempo dopo che la rivoluzione era scoppiata in Pie
monte, colla speranza di rientrar poi in Lombardia cogl'insorti e colle
(60 BERCHET, ARcoNATi E PoRRo

truppe piemontesi. A quanto dicesi, queste aspettavano, per passare il


Ticino, che sorgesse Milano. Molti giovani Carbonari erano pure accorsi
al Ticino per rannodarsi alle truppe che doveano essere comandate dal
capo della Carboneria italiana, Carlo Alberto.
Senonchè i cospiratori erano stati traditi, e si erano già incomin
ciati gli arresti. Il Marchese Arconati ricchissimo e generosissimo pa
gava largamente un segretario del barone Torresani direttore della
polizia in Milano, affine di essere informato di tutto ciò che potesse
nettere in pericolo la sicurezza sua e quella degli altri cospiratori
Seppe in questo modo che parecchie lettere erano state intercettate
ch'era tesa una vasta rete di spionaggio dalla Lombardia alla Venezia
e all'Emilia, e che si erano ordinati parecchi arresti.
Berchet era allora a Pavia, e l'ordine del suo arresto era già par
tito dall'ufficio di Santa Margherita, sede della direzione generale di
polizia a Milano. Arconati, che aveva avuto contezza della cosa, spedi
un suo vignaiuolo a cavallo a portare a Berchet un segno di conven
zione per avvertirlo del pericolo. Non poteva inviare uno scritto, perchè,
nel caso che il messo fosse arrestato, sarebbero stati entrambi perduti.
Erano rimasti d'accordo che se tutto andava bene, Arconati avrebbe
spedito una pipa, per incoraggiare l'amico a proseguire l'impresa, e
che, come segno che, le cose andavano male, avrebbe invece mandato
una tabacchiera. L'illustre poeta, ricevuta la tabacchiera, passò il Ti
cino e fu sul punto di esser fatto prigioniero dalle autorità piemontesi.
Sotto mentite spoglie, giunse a Genova, si rifugiò sopra un legno mer
cantile e poi riparò a Corfù.
Intanto Arconati di casolare in casolare arrivò a Como, stette na
scosto por alcun tempo in Brianza, poi si ricoverò in Svizzera e
quindi nel l8rabante, ove si stabili per lunghi anni. Quivi, nel 1828,
Berchet andò a raggiungere il fido amico, cui doveva la sua salvezza.
Un altro dei più illustri Carbonari, il marchese Porro Lambertenghi,
ebbe, dicesi, l'allarme da un magistrato lombardo suo amico e antico
condiscepolo, il quale aveva già ricevuto dall'alta polizia istruzioni per
far delle ricerche intorno allo scopo ed ai progressi della Carboneria.
Egli si era adoperato sopratutto a mettere in comunicazione i cospira
tori della Lombardia con quelli delle Romagne. Si rifugiò presso sua
sorella la marchesa Raimondi, sul lago di Como, e rimase lunga
pezza nascosto in un casolare: quindi, coll'aiuto di alcuni montanari
svizzeri, che soleano fare il contrabbando del tabacco, si ricoverò
nel Cantone Ticino; passò in Francia e poi in Grecia. Si sa che Silvio
Pellico, il quale era istitutore dei figli di Porro, fu meno di lui fortu
nato; che arrestato e condannato subi quella dura prigionia ch'ei narrò
poi nel suo libro immortale.
È noto che furono molte volte impiegati dei colombi per traspor
tare a luoghi lontani, in breve tempo e con sicurezza, importanti notizie
FUGHE ED EVASIONI CELEBR1 6

Ma pochi sanno che talvolta delle rondinelle ammaestrate hanno pur


servito a quest'uso. Fu appunto una rondinella che portò ai congiurati di
Venezia un dispaccio carbonaresco, il quale li avvertiva che tutto
era scoperto, che il tentativo era fallito e che pensassero a mettersi
subito in salvo. Giovanni Bachiega, ex-luogotenente del genio militare
nell'esercito italico, tentò di fuggire per via del Polesine, con taluni
giovani animosi che aspettavano al pari di lui un cenno da Milano per in
sorgere, ma fu arrestato ad Occhiobello, e poi condannato allo Spielberg.
Di lui parla anche Pellico, nelle Prigioni, e sopratutto, con molto onore,
Foresti ne' suoi Ricordi.
I giovani volontari che si erano raccolti al Ticino riuscirono ad
evadere, alcuni traverso la Liguria per via di mare, altri per la valle
d'Aosta e pei greppi del Moncenisio.
Prima di finire, vogliamo aggiungere un aneddoto relativo al
conte Federico Confalonieri, che fu, come tutti sanno, un illustre pri
gioniero dello Spielberg.
Arduo problema storico è il decidere se e perchè Confalonieri
abbia cooperato a stabilire il governo Austriaco in Italia dopo la ca
duta di Napoleone. Dicesi che, per una di quelle ingiurie che tra pri
vati soglionsi vendicare col sangue, egli fosse divenuto fiero nemico del
vicerè d'Italia Eugenio Beauharnais e che, particolarmente in odio a
costui, egli abbia poi favorito gli Austriaci. Che che si sia, più tardi fu
ardentissimo a liberare la patria, e patriarca dei Carbonari nella re
gione Lombarda. Prevedendo il pericolo che correva di essere arrestato,
egli aveva fatto fare sul tetto della sua casa un finestrino, chiuso a
chiave. Dal finestrino sarebbe agevolmente per il tetto passato in
un'altra casa, ove tutto era preparato per renderfacile e sicura la sua
fuga. Egli soleva sempre tenersi allato quella chiave.
Aveva il Confalonieri tenuto antica pratica col conte Bolza, sa
tellite dell'Austria e attivissimo commissario di polizia, verso il quale
poi i Milanesi furono troppo generosi quando nelle Cinque Giornate
cadde in potere degl'insorti.
Una volta il Bolza, uomo dissipato e prodigo, avendo fatto una
grave perdita al giuoco, si rivolse al vecchio amico Confalonieri, perchè
pagasse il suo debito. Avuto un rifiuto, giurò vendetta.
Quando appunto furono scoperte le mene dei cospiratori, a notte
buia, Confalonieri vide entrare repentinamente nel suo palazzo uo
mini d'arme capitanati dal Bolza. Senza por tempo in mezzo, corse
al soffitto, trasse la chiave di tasca per aprire il flnestrino che met
teva sul tetto; ma la chiave non aperse il serrame; ogni sforzo fu vano.
Uno de' suoi servi era stato corrotto dal Bolza, e aveva cambiato la
chiave nelle tasche del conte mentre dormiva. Qualche tempo dopo,
gli agenti della polizia, condotti dal commissario, dopo aver frugato
tutti gli angoli della casa, salirono al soffitto e, trovato il Confalonieri,
62 BERCHET, ARCONATI E PORRo

lo presero e ammannettato il condussero in prigione. – Te l'aveva ben


detto, gli disse il Bolza, quando mi dicesti: « chi ha perduto, paghi, »
che si vedrebbe chi di noi l'avrebbe pagata.
Non è statofuor di proposito dopo di aver narrato come alcuni
de' più illustri patrioti e carbonari Lombardi riescirono a fuggire,
fallito il tentativo di rivoluzione, il raccontar pure come perchè uno
de' più illustri di essi, il Confalonieri, non abbia potuto mettersi in
salvo.
Se una volta il Confalonieri volle e non potè fuggire dalle branche
dell'Austria, un altra volta potè e non volle (nel 1825). Dopo la sua
condanna, l'eroica sua moglie la contessa Teresa concepì l'ardito disegno
di far fuggire il Confalonieri dal carcere e trovò i modi di recarlo ad
effetto.
Ecco come il fatto è raccontato dal Vannucci sulle tracce dell'An
dryane nelle sue Memorie di un prigioniero di stato.
« Federico gemeva da due anni nell'orrido carcere, quando fu ve
duto in Brünn un forestiero che faceva sembiante di essere un gran
mercante, colà recatosi per ragione di suoi traffici. Poco dopo l'arrivo
di costui, Federigo dal fondo di sua prigione senti passare per la pic
cola finestra una voce sommessa, che gli dirigeva queste amiche pa
role: In Brünn è tale che tutto ha apparecchiato per la vostra fuga,
ed io sono pronto a liberarvi domani; dòmattina fatemi sapere l'animo
vostro; e gli gettò un biglietto dl questo tenore: « Ho provveduto a
tutto; ho guarentigia di passaporti per me e per te: a ogni tratto ci
attendono velocissimi cavalli per giungere in salvo, risolvi: dopo do
mani non c'è più tempo. »
Federigo aveva risoluto. Sentendo che non si potevano liberare
anche i compagni, eroicamente si decise a restare. Gli pareva viltà
partir solo, lasciando in mano dei nemici i martiri della sua medesima
fede, i quali dopo la fuga di lui sarebbero trattati più crudelmente.
Nulla valse a smuoverlo, nè le preghiere nè le lagrime di Alessandro
Andryane suo compagno di carcere. »
Alcuni dei particolari che abbiamo raccontato rispetto al Confalonieri
e ad altri fra i più illustri cugini in Carboneria, sono ora pubblicati per la
prima volta e li abbiamo saputi da un vecchio patriota, uno dei pochi
superstiti di quella famosa società secreta.
XII

MI O R A N D I

(2821-1831)

Correvano a Modena, come in tutta Italia, tristissimi tempi: era


il 1821. L'efferatezza, il furore dei governi della Penisola erano in pro
norzione dello spavento da cui erano stati colti quando la rivoluzione
aveva minacciato di balzar di seggio i tiranni d'Italia, o almeno di
tor via lo sconfinato arbitrio che esercitavano e d'impor loro norme le
gali e liberali statuti. Piene le prigioni dei migliori patrioti e, mas
sime nel mezzogiorno, alzati i patiboli e bagnati di nobile sangue.Tra
i principi che inferocivano nella repressione, era il duca Francesco IV
di Modena, crudele quanto spregevole, il quale, avendo a trono un
guscio di castagna, come poi disse il Giusti, s'imbrancava coi re. Que
sto abbietto servitore dell'Austria e ridicolo paladino della Santa Al
leanza perseguitava gli uomini generosi e per sua propria soddisfa
zione e per gratificarsi il suo augusto parente, l'imperator d'Austria.
Stimava che non vi potesse essere delitto più enorme del cospirare
contro la sua ducale autorità emanata da Dio, com'egli diceva. I suoi
satelliti, per istrappare delle rivelazioni dai miseri detenuti, usavano
le arti più inique, maltrattamenti, minaccie, lusinghe. A taluni fra
gl'imputati di Carbonarismo somministravasi dell'estratto di atropo
belladonna, che produceva una violenta ebbrezza, durante la quale,
inconsci di quello si facessero o si dicessero, spesso accusavano sè
stessi ed altrui. La vita talvolta veniva loro meno fra terribili con
vulsioni: talvolta perdevano per sempre la ragione.
Tra i più feroci servi del tiranno e persecutori dei liberali la sto
ria, stigmatizza un Besini, direttore di polizia. Era uomo ignorante, di
6 ORAND

mali costumi, avaro, ambizioso, crudele. Aveva egli pure appartenuto


alle sette: appunto per questo più infieriva con tutte le armi sbirre
sche ch'erano in sua mano, per dileguare i dubbi che nell'animo del
suo padrone potessero per avventura sorgere contro di lui. Gli arresti,
le perquisizioni aveano empito le famiglie di desolazione: il Besini era
divenuto a tutti tremendo e da tutti era detestato.
Antonio Morandi di Pontremoli, giovane di 22 o 23 anni, allievo
della scuola militare di Modena, secondo alcuni per impulso proprio,
secondo altri sortito tra i più giovani della setta, si fece ministro della
vendetta pubblica contro il vile satellite dell'Austriaco, e una sera di
maggio 1821, in una via solitaria ed oscura, lo pugnalò. Abbiamo sen
tito nel 1850, in Grecia, il Morandi stesso narrare i particolari di quel
fatto e il modo con cui dopo averlo compito si era messo in salvo. Il
Besini, benchè mortalmente ferito, ebbe la forza di andare alla sua casa,
ch'era vicina: quivi dinanzi alla moglie ed alla famiglia atterrita stra
mazzò in terra e poco tempo dopo rimase cadavere. L'uccisore fuggi,
si ricoverò nella casa di un cugino Carbonaro, ch'era posta vicino alle
mura della città; poscia, a notte buia, si fece calare dalle mura nel
fosso sottoposto, diramazione del Panaro; indi, raccolto in una barchetta
a questo preparata, tragittò all'altra riva, prese via verso la Lunigiana,
e per le montagne, ch'egli conosceva benissimo, essendo nativo di
que' luoghi, si rifugiò in Sarzana: di là passò a Genova e poi si rico
verò in Ispagna. Quivi con molti altri Italiani che vi aveano cercato
un rifugio dopo fallita la rivoluzione della penisola, prese una parte
gloriosa alle lotte dei liberali contro il rey neto: quando la reazione
trionfò per l'intervento francese, passò in Grecia. Rese grandi servigi
a questo paese nella guerra contro i Turchi, si distinse sopratutto al
l'assedio di Missolungi e salse ai primi gradi della milizia.
« Non è da chiedere, dice il Vannucci nei Martiri della libertà ita
liana, se il duca montasse in furore quando seppe che il Besini era
stato ucciso. Lasciati sospesi tutti gli altri processi, a questo volse ar
dentemente ogni cura. Ma le prove mancavano: il moribondo, doman
dato se avesse conosciuto il suo feritore, nominò dapprima un cero
Scandiani, poi si disdisse, ed accusò un Gaetano Ponzoni, che si ripu
tava nemico suo: quindi si disdisse di nuovo, affermando che non aveva
veduto in volto l'assalitore. Non ostante il Ponzoni fu sottoposto ad
una commissione stataria formata di tre membri. Il giudice Martinelli
opinò per l'assoluzione dell'imputato e ne provò l'innocenza. Il secondo
giudice disse che si doveva condannarlo a grave pena: il terzo, per
far piacere al principe, dichiarò il Ponzoni degno di morte. Il duca,
sdegnato di questa discordia di opinioni, sottopose il prevenuto ad un
altro tribunale, che lo condannò al carcere in vita. Eppure Francesco IV,
durante il processo aveva avuto prove certe della sua innocenza, pe

Fughe ed evasioni celebri, Disp. 4.


FUGHE ED EVASIOI CELEBRI 65

rocchè il Morandi, il vero uccisore del Besini, avea fatto depositare in


mano dell'ambasciatore austriaco, a Londra, una dichiarazione legale e
giurata di esser egli l'autore dell'omicidioper cui si condannava il Pon
zoni. Il duca non ne tenne conto nessuno, e la disse un'astuzia di setta

Luigi Napoleone fugge travestito da operaio muratore. È preceduto


dal suo cameriere. Pag. 45.

per liberare il condannato. L'infelice avrebbe finito i suoi giorni fra


le ambasce del carcere, se non lo avesse liberato, dieci anni dopo, nel
1831, la rivoluzione. »
Nel 1830 il Morandi, impaziente di riposo e caldissimo d'amor
patrio, lasciata la Grecia, ove era finita la guerra, accorreva di nuovo
66 MU)RANDI

in Italia; si annunciavano grandi eventi. Nel 183l era a Modena con


Ciro Menotti, indi, passato a Bologna, prese parte al combattimento di
Rimini. Quando le sorti furono nuovamente avverse ai liberali, ed il
governo provvisorio capitolò col cardinale Benvenuti in Ancona, ren
dendo al papa tutte le provincie insorte a patto che fosse accordata
piena amnistia ai compromessi politici, il colonnello Morandi fu tra
quelli che, non fidandosi alle promesse dei preti, pensarono a ricovrare
in terra straniera. S'imbarcò per le isole Jonie con altri che nel governo
e nella milizia aveano preso parte maggiore alla rivoluzione; ma, cat
turata dagli Austriaci la nave, furono tutti condotti incatenati a Ve
nezia. Le prigioni di quella città rigurgitavano: non avendo più luogo
da chiudervi i liberali detenuti, gli Austriaci ne tenevano alcuni in
un legno di stazione nella Laguna, non lungi dal mare. Fra questi era
il Morandi che, non franto dalle sventure e dai patimenti, volse tutto
l'animo a trovar modo di fuggire. Fu aiutato da un ufficiale della ma
rina austriaca, il veneto Zane. Travestito da marinaio potè lasciare la
sua prigione ondeggiante e nascondersi in un bastimento greco, che
ben presto fece vela per l'Oriente. Rimase molti anni in Grecia, dove
era meritamente onorato: fu dei comandante corofilaci o gendarmi. Nel
1848-49 tornò in Italia, e prese parte nobilissima alla guerra dell'in
dipendenza prima a Vicenza, poi a Venezia, ove fu nominato generale.
Tornato in Grecia, vi mori pochi anni sono. Straordinariamente avven
turato fu il Morandi nei suoi tentativi per mettersi in salvo e ricupe
rare la perduta libertà: la sua fuga da Modena nel 1821 e la sua eva
sione da Venezia dieci anni dopo furono atti coraggiosi quanto fortunati.
La memoria del generale Morandi è sacra per ogni buon italiano;
il suo nome deve essere annoverato tra quelli dei più illustri patrioti
e de'piu valorosi soldati del nostro secolo.
- - - - -

XIII

LA VALETTE

(181)

Arrestato il 18 luglio 1815 e chiuso alla Conciergerie , il conte di


Lavalette era stato condannato a morte per aver preso una parte at
tiva alla fuga di Napoleone dall'isola d'Elba. Inutilmente sua moglie
procurò d'impietosire Luigi XVIII; egli non volle rinunciare alla sua
vendetta. La sventurata donna aveva creduto di trovare la duchessa
d'Angoulême più accessibile alla pietà: fu duramente respinta. «Sfinita
per la fatica, dice Lavalette nelle sue Memorie, ella sedette sugli sca
lini di pietra della corte e vi restò un'ora; illudevasi, sperando tuttavia
che la lascierebbero entrare. Tutti quelli che passavano, sopratutto
quelli che andavano al palazzo, gettavano uno sguardo sopra di lei ,
ma nessuno osava di far un segno di compassione. Finalmente decise
di allontanarsi dal palazzo e tornare nella mia carcere, ove giunse sfi
nita e col cuore pieno di dolore. »
Poche ore di vita restavano a Lavalette. A forza d'interrogare i cu
stodi aveva finito coll'indovinare che l'esecuzione doveva farsi il gio.
vedi mattina, ed era già il martedì sera.
» Mia moglie, dice, venne alle sei a pranzar meco. Quando fummo
soli mi disse: sembra pur troppo certo che non abbiamo più nulla da
sperare. Bisogna dunque, amico mio , prendere una risoluzione. Ecco
ciò che vi propongo. Alle otto partirete coperto de' miei vestiti e ac
compagnato da mia cugina. Salirete nella mia portantina, che vi con
durrà nella via de' Santi Padri, dove si troverà il Sig. Baudus con un
calesse. Egli vi condurrà in un luogo dove vi ha preparato un asilo
sicuro. Là aspetterete senza pericolo, che vi possiamo far uscire di
Francia, » ,
68 LAVALETTE

Questo progetto parve in sulle prime impraticabile a Lavalette:


tuttavia sua moglie insisteva con tanta forza ch'egli temè di aumentare
il suo dolore e forse di darle un colpo mortale con un rifiuto. Le fece
solamente osservare che il calesse era posto troppo lontano, che non
potrebbe arrivarci prima che fosse scoperta la sua fuga, che allora
sarebbe facilmente ripreso. Si convenne dunque di modificare il piano.
Il giorno dopo passò in teneri e strazianti addio.
« Alle dinque, madama Lavalette arrivò accompagnata da Giu
seppina, che io rividi con sorpresa ed altrettanta gioia.Credo,dissemia
moglie, che sia meglio di prender nostra figlia per accompagnarci; le
farò fare con più docilità ciò che ho in mente. Aveva messo una veste
di merinos foderata di pelle; aveva nel suo sacco una sottana di taf
fetà nero. Basta, disse, basta per travestirsi completamente. Allora
mandò mia figlia vicino alla finestra e mi disse a voce bassa « alle
sette sarete vestito: tutto è preparato. » Uscirete dando il braccio a Giu
seppina; avrete cura di camminare assai lentamente. Traversando lo
stanzone metterete i miei guanti e vi coprirete il viso col fazzoletto.
Aveva pensato a prender un velo, ma sventuratamente io non ho avuto
l'abitudine di portarlo venendo qua. Ciò potrebbe destar dei sospetti.
Non bisogna pensarci. Abbiate cura passando sotto le porte che sono
così basse, di non fare che i fiori del cappello si attacchino al di sopra
della porta: tutto sarebbe rovinato. »
La signora Lavalette dette pure delle istruzioni a sua figlia, e
mentre finiva, un amico di Lavalette, il signor Saint-Rose, venne a
dirgli addio. Bisognava mandarlo via presto. Lavalette cosi fece, dando
per pretesto che sua moglie non era ancora informata del termine fatale.
Fece il medesimo col colonnello di Bricqueville che si era alzato dal letto,
ove lo ritenevano le sue ferite,per venire ad abbracciare il suo amico.
« Finalmente fu portato il pranzo. Questo pranzo, che doveva esser
l'ultimo della mia vita, fu spaventevole. I bocconi ci si fermavano
in gola; non potevamo pronunziare una parola: dovemmo passar così
quasi un'ora. Suonarono le sette e tre quarti: ella tirò il campanello.
Entrò Bonnevillé, il mio cameriere; ella lo trasse in disparte, gli disse
alcune parole all'orecchio, e aggiunse ad alta voce: abbiate cura che i
portatori siano pronti; uscirò fra breve. Andiamo, mi disse ella, bi
sogna vestirvi. Aveva fatto mettere nella mia camera un paravento
per farmi una sorta d'abbigliatoio. Passammo di dietro il paravento.
Nel tempo stesso che con una destrezza e una rapidità maravigliosa
ella faceva mia toeletta, mi diceva: non dimenticate di abbassar la testa,
passando la porta. Camminate lentamente, come una persona sfinita
dal dolore. In meno di tre minuti la toeletta era finita. Ci avanzammo
tutti in silenzio verso la porta. Il custode, dissi ad Emilia, viene ogni
sera dopo la vostra partenza. State dietro il paravento e fate un poco
di rumore, movendo qualche mobile. Crederà che io sia di dietro e uscirà
UGIE D, EVASIO CELEBRI 69

per alcuni minuti, che mi sono necessari per allontanarmi. Intese bene
e tirò il campanello. Il carceriere si fece sentire, Emilia si lanciò dietro
il paravento; la porta s'aperse. Passai primo; mia figlia dopo; madama
Dutvit, (una vecchia serva della signora Lavalette) era l'ultima. Dopo
di aver traversato il corridoio, arrivai alla porta.
» Bisognava alzare il piede e nel medesimo tempo abbassar la testa,
perchè le piume del cappello non toccassero il disopra della porta. Vi
riusci, ma nel rialzarmi mi trovai in quello stanzone, in faccia a cinque
carcerieri seduti, appoggiati, in piedi, dove io doveva passare: mi te
neva il fazzoletto sugli occhi e aspettava che mia figlia si mettesse
alla mia sinistra, come eravamo convenuti. La fanciulla prese il mio
braccio sinistro, e il custode scendendo la scala della sua camera, ch'era
a dritta, mi si accostò e ponendomi la mano sul braccio, mi disse: vi
ritirate molto di buon'ora, signora contessa. »
» Pareva molta commosso, e pensava senza dubbio ch'ella aveva
dato un eterno addio a suo marito. Altri hanno detto che mia figlia
ed io mettevamo delle grida: la verità è che appena potevamo appena
respirare.
» Finalmente arrivai all'altro capo della stanza. Un secondino vi sta
giorno e notte in un seggiolone, in uno spazio abbastanza stretto da
aver le sue due mani poste sulle chiavi delle due porte, una con un
cancello di ferro e l'altra che è esterna e si chiama il primo sportello. Il
secondino mi guardava e non apriva: passai la mia mano destra fra
le sbarre per avvertirlo. Egli girò le due chiavi ed uscimmo. Ci sono
dodici scalini da salire per arrivare alla corte, ma al fondo di questa
scala è posto il corpo di guardia dei gendarmi. Una ventina di soldati,
coll'ufficiale alla loro testa, stavano ritti a tre passi lontano da me, per
veder passare la signora Lavalette. Finalmente arrivai lentamente
all'ultimo scalino, ed entrai nella portantina, ch'era a due o tre passi.
Ma non v'erano nè i portatori,nè il servo: mia figlia e la vecchia serva
stavano in piedi vicino alla portantina. La sentinella a dieci passi immo
bile e voltata verso di me. Alla mia meraviglia cominciò a mescolarsi
un principio di agitazione violenta: i miei sguardi erano fissi sul fucile
della sentinella, come quelli del serpente sulla sua preda. Io sentiva
per cosi dire quel fucile chiuso nelle mie mani. Al primo movimento,
al primo strepito, mi sarei gettato su quell'arma.
» Questa situazione terribile durò due minuti circa; miparve lunga
una notte intera. Finalmente sentii la voce di Bonneville, che mi disse
piano: uno dei portatori non si è fatto vedere, ma ne ho trovato un
altro. Allora mi sentii sollevato. La portantina traversò il gran cortile,
poi girò a destra nell'uscire. Andammo sino al quai degli Orefici, in
faccia alla piccola strada di Harley. Allora la portantina si fermò, si
aperse la porta; il mio amico Baudus, presentandomi il braccio, mi disse
a voce alta: Sapete, signora, che avete da fare una visita al presidente
0 LAvALErri:

Uscii dunque; egli m'indieò un calesse che stava pochi passi lontano
in quella strada oscura. Mi slanciai nella carrozza e il cocchiere mi
disse: datemi la mia frusta. La cercai inutilmente: era caduta. Che
cosa importa? disse il mio compagno. Una buona scossa di briglie fece
partire il cavallo di gran trotto. Passando vidi Giuseppina sul quai a
mani giunte: ella pregava Dio con tutta l'anima. Traversammo il ponte
di San Michele, la via della Harpe e arrivammo presto a quella di
Vaugirard dietro l'Odéon. Là solamente cominciai a respirare. Guar
dando il cocchiere del calesse, qual fu la mia maraviglia nel riconoscere
il conte di Chassenon! Oh siete voi? dissi. – Avete di dietro quattro paia
di pistole ben cariche: spero che ne farete uso. – No, in verità, non
voglio rovinarvi. – Allora ve ne darò l'esempio. Guai a chi si pre
senterà per arrestarvi. -- Andammo sino al baluardo di Montparnasse, al
canto della via Plumet. Là ci fermammo. Io mi era sbarazzato per via
di tutte le vesti da donna, di cui era camuffato: misi un carrick di
jockey e un cappello rotondo coi galloni. Presto arriva il signor Baudus.
Presi congedo dal signor Chassenon, e seguii modestamente il mio
nuovo padrone.
« Erano le ore di sera. La pioggia cadeva a torrenti. L'oscurità
era profonda e la solitudine completa in quella parte del sobborgo di
San Germano. Io camminavo con fatica dietro al signor Baudus che
andava avanti rapidamente. Perdetti una delle mie scarpe; eppure bi
sogna camminare. Incontrammo dei gendarmi che correvano di galoppo
e che non avevano il menomo sospetto che io fossi là; era io proba
bilmente ch'essi cercavano. Finalmente dopo un'ora di cammino, stanco
dalla fatica, con un piede calzato e uno scalzo, vidi il signore Baudus
fermarsi un momento nella via di Grenelle,vicino a quella di Bac. En
trerò, mi disse, in un palazzo; mentre parlo col portinaio, avanzatevi
nella corte. Troverete a sinistra una scala; salite sino all'ultimo piano;
prendete un corridoio oscuro a destra. In fondo è un mucchio di legna:
state là ad aspettarmi. Facemmo alcuni passi nella via di Bac, e una
specie di vertigine mi prese quando lo vidi battere alla porta del mi
nistero degli affari esteri. Entrò primo, e mentre egli parlava col por
tinaio che aveva la testa fuori del suo camerino, passai rapidamente.
Dove va quell'uomo? sclamò il portinaio. – E il mio servitore. – Sali
fino al terzo piano e arrivai al luogo indicato. Appena giunto sento il
fruscio di un abito di seta: mi sento prender con buona maniera per
il braccio. Fui condotto in una camera e la porta si chiuse dietro di me.
In quella stanza era accesa una stufa. Trovai sul tavolino un lume
e dei solfanelli: si poteva adunque senza pericolo accender il lume. Sul
canterale una carta portava queste parole: « non fate romore; non
aprite la finestra che di notte; mettetevi delle pantofole e aspettate
con pazienza. » Vicino alla carta c'era una buona bottiglia di eccellente
vino di Bordeaux, parecchi volumi di Molière e di Rabelais, e un bel
paniere che conteneva degli oggetti di toeletta molto eleganti. »
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 71

Alcuni minuti dopo entrò il signor Baudus, si gettò nelle braccia


del suo amico e gli fece sapere che era in casa del signor Bresson, cas
siere al ministero degli affari esteri.
Il signor Bresson e sua moglie, proscritti altempo del terrore, ave
vano trovato un asilo in casa di brave persone che li aveano salvati
con pericolo della loro vita: essi pure volevano salvare un proscritto.
Lavalette restò dieciotto giorni nascosto al ministero degli affari esteri.
Sentiva dalle sue stanze gridar per via i decreti che minacciavano pene
severe a chi gli desse asilo.
Intanto la signora Lavalette fu ben presto scoperta da un secon
dino dietro il paravento dove si teneva nascosta. Dato l'allarme agli
altri carcerieri, quella donna eroica si vide esposta alle ingiurie dei
miserabili che non potevano apprezzare il suo coraggio. Il procuratore
generale Bellart fece cessare quel gridio, ma rivolse ridicoli rimproveri
alla signora Lavalette, e la mise in una camera che dava sulla corte
delle donne, le cui grida e le oscene parole erano per lei un supplizio.
Bellart si comportò, come si vede, come un degno servitore del re
Luigi XVIII, che aveva detto alla signora di Labédoyère, che gli chie
deva la vita di suo marito. « Signora, farò dire delle messe per il ri
poso dell'anima sua. »
Dopo di aver prudentemente studiato il modo di far uscir il La
valette dal regno, i suoi amici si rivolsero ad un giovane inglese, il
signor Bruce, che accettò con gioia la proposta e si confidò col general
Wilson. Questi, che non era riuscito nel suo tentativo di salvare il ma
resciallo Ney, voleva prender la sua rivincita: tutto fu accomodato e
ben preparato. Malgrado i gendarmi, i doganieri e le difficoltà di un
simil viaggio, Lavalette vestito da ufficiale inglese fu condotto dal ge
nerale Wilson sul territorio belga.
«Stringendo le mani del generale, gli espressi con una profonda
emozione tutto la mia riconoscenza. Ma egli, conservando la sua gra
vità, sorrideva solamente senza rispondermi. Dopo una mezz'ora, si
volse verso di me e mi disse con gran serietà.
« Mio caro amico, spiegatemi perchè non volevate essere ghigliot
tinato.
« Io lo guardava sorpreso, senza rispondergli.
- Sì, mi è stato detto che avevate domandato come un favore di
essere fucilato.
– Gli è che si conduce il condannato in un carretto, colle mani
legate dietro la schiena; lo si attacca sopra un asse.
– Ah capisco! non volevate essere scannato come un vitello ».
Alcune ore dopo i due compagni di viaggio si separarono, uno
per andare in Germania, l'altro per tornare a Parigi, dove la sua ge
nerosa condotta gli fruttò tre mesi di prigionia.
Il signor Bruce che in quella occasione aveva reso così grandi
servigi al signor Lavalette, prese d'allora il nome di Bruce Lavalette.
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XIV

NAPOLEONE I

(1815)

Dopo l'abdicazione di Napoleone a Fontainebleau, era stato conve


nuto tra i rappresentanti di esso e i sovrani alleati le cui truppe oc
cupavano Parigi, che egli si ritirerebbe nell'isola d'Elba, che la
possederebbe in piena sovranità, che potrebbe condur seco sette od
otto cento uomini della sua vecchia guardia, come scorta d'onore e di
sicurezza. L'imperatore – egli conservava pure il suo titolo – giunse
il 3 maggio del 1814 nella rada di Porto-Ferraio sopra una fregata
inglese. Per far credere ch'egli s'era rassegnato alla sua sorte, e che,
perduto il maggior impero del mondo, si contentava di esser sovrano
di una delle più piccole isole del Mediterraneo, aveva deciso di ag
giungere al palagio degli antichi governatori un nuovo caseggiato,
per renderlo regolare e per ingrandirlo, di erigere un fabbricato per
gli ufficiali della sua piccola truppa e una villa per sè e per la sua
famiglia nel valle di San Martino, in amenissima posizione. Aveva or
dinato di far dissodamenti e piantagioni, aprire nuove cave di marmi,
riprendere sopra una grande scala gli scavi del ferro, costruire strade
da un capo all'altro dell'isola. Pareva insomma che volesse stabilirvi
durevolmente il suo soggiorno e rinunziare alle sue tragrandi ambi
zioni, che aveano costato tanto sangue alla Francia, all'Europa.
Porto-Ferraio, capoluogo dell'isola, era stata, una volta fortificato: Na
poleone risolse di porlo in istato di poter essere facilmente difeso.
Aveva condotto seco alcune centinaia di vecchi soldati a lui devotis
simi, tanto per difendersi contro una bassa violenza, quanto per servir
di nucleo per qualche arrisicata impresa, se per avventura egli volesse
tentarne una. Questi suoi compagni di esilio, rinchiusi in una buona
FUGI ID EVASIO CELERI 73

fortezza marittima ben provveduta, vi si poteano difendere per alcune


settimane, e dargli il tempo di fuggirsene, se i sovrani alleati, pentiti
di averlo lasciato troppo vicino all'Europa, pensassero a confinarlo in
qualche remota isola dell'Oceano. Infatti era corsa voce che questa era
l'intenzione dell'imperatore d'Austria e del re di Prussia, e che molti
Francesi, che aveano parte a'grandi negozi di stato, caldeggiavano pure
questa idea; ma Alessandro imperatore di Russia, di generoso carat
tere e memore ancora dell'antica amicizia avuta con Napoleone, era
riuscito a fare che le sorti di questo fosse meno crudeli, e che gli fosse
data in signoria l'isola d'Elba. Poteva però da un momento all'altro
avvenire un mutamento nella volontà dello Czar; poteva la vittoria re
stare ai nemici numerosissimi e potenti di Napoleone i quali, non a
torto, credevano che la condizione della Francia, di tutta l'Europa sa
rebbe stata incerta,finchè egli rimanesse in una terra vicina alla Francia
e, benchè spiato e custodito dalle crociere francesi ed inglesi, non però
tanto strettamente che non potesse fuggire e tentare nuove imprese.
Napoleone aveva pure messo in istato di difesa una piccola isola
vicina all'Elba e soggetta alla sua sovranità, quella di Pianosa. Vi avea
mandato provvisioni e presidio e ordinato le cose in modo che po
tesse nella notte calarsi alla riva, imbarcarvisi e prendere il largo. Se
dunque si fosse tentato di trarlo violentemente dall'isola d'Elba, egli
aveva agevolezza di ritirarsi alla Pianosa durante la notte e di là
far vela.
Ai soldati che avea condotto seco dalla Francia, aveva aggiunto il
presidio che, prima della sua caduta, guardava l'isola d'Elba, ed altri,
massime antichi ufficiali, ch'erano venuti a raggiungerlo; poteva di
sporre in tutto di 1500 uomini circa. Aveva trovato a Porto Ferraio
un brick ed una goletta, e comperato a Livorno una feluca e due altri
legnetti: quest'armatetta aveva cento marinai circa e poteva imbarcare
i militi che seguivano le sue sorti. Aveva dunque abilità di difendersi
per alcuni giorni, se fosse stato repentinamente assalito, e il modo di
tornare sul continente e di tentarvi novella fortuna.
A provvedere alle nuove costruzioni che aveva ordinato e al man
tenimento della sua piccola truppa e dell'armata, ci voleva più di un
milione, e la rendita dell'isola sommava in tutto a circa cinquecentomila
franchi. Egli aveva portato seco due o tre milioni di franchi, ma questa
somma era insufficiente ed in pochi anni vi si sarebbe dato fondo.
Letizia, madre di Napoleone, e Paolina Borghese, sua sorella, lo
avevano raggiunto e dividevano il suo esilio; non così Maria Luigia,
sua moglie, che nelle braccia del conte di Neuperg dimenticava i suoi
doveri di moglie e di madre. Bertrand e Drouot erano stati fedeli a
Napoleone anche nell'avversità e formavano intorno ad esso una pic
cola corte.
Intanto le discordie degli alleati, gli eccessi della reazione e gli
7 is, ApoLgNel ' '

errori dei Borboni preparavano il ritorno dell'imperatore in Francia,


Dall'isola in cui si era accolto a riprender forze e meditar nuove imprese
egli seguiva il corso degli avvenimenti e attendeva il momento oppor
tuno per ricomparire sulla scena del mondo. Egli pensava che non
poteva morire in quell'isola; che per lui, per la sua gloria era a pre
ferirsi una tragica morte ad una molle vecchiezza in quella pri
gione. Inutilmente si agitava e curava l'esecuzione di quanto aveva
determinato per la difesa e la prosperità del suo minuscolo staterello;
avvezzo a cure tanto maggiori, si annoiava su quello scoglio. Si an
noiavano pure mortalmente i soldati e gli ufficiali che l'avevano se
guito: sbollito l'ardore dell'impeto primo, pensavano dolorosamente
alla patria lontana. Uno de' più fedeli suoi agenti, Meneval, e la signora
Brignole, dama genovese d'alto affare e a lui affezionatissima, tenevano
dietro agli avvenimenti con estrema sollecitudine: quegli da Vienna
e questa da Genova l'avvertivano che gli alleati pensavano a tramu
tarlo in una lontana isola nell'Oceano e che stava per finire il Con
gresso di Vienna. Correva la metà di febbraio 1815, e le lunghe notti
stavano per far luogo ai lunghi giorni: per fuggirsi dall'isola d'Elba
sopra un vascello carico de' suoi soldati, bisognavano a Napoleone le
lunghe notti. Intanto cresceva il malcontento in Francia: grande era il
fermento degli animi e il desiderio di novità. Napoleone sapeva questo
dai giornali, da lettere e dai messi che gli erano inviati dai suoi più
fidi partigiani. La madre sua, donna risoluta e di magnanimi spiriti,
accresceva il suo coraggio e il confortava alla grande impresa di
promuovere una nuova rivoluzione in Francia e di ricuperare lo stato.
Fermo dunque nell'animo di tornare in Francia, fece in gran se
greto fare gli apparecchiamenti della partenza per la prossima spedi
zione. Sotto il pretesto di una rivista generale raccolse a Porto-Ferraio
le truppe sparse per l'isola.
Gl'Inglesi avevano incaricato il colonnello Campbell, uno dei com
missari che avevano accompagnato Napoleone da Fontainebleau a
Porto-Ferraio, di sopravvegliarlo diligentemente. In quel momento il co
lonnello si era per pochi giorni recato a Livorno: circostanza propizia
alla fuga preparata da Napoleone. Restavano le crociere, che l'impe
ratore sperava di poter facilmente ingannare, mettendosi in salvo.
Il 26 febbraio fu dunque fissato da Napoleone per la sua fuga
dall'Elba e per la sua arditissima spedizione, che poteva di nuovo
farlo risalire sul trono, ma che poteva pur fallire e cagionar la sua
morte e l'eccidio dei suoi, come di un capo di briganti e delle sue
masnade.
Ecco come Thiers nella Storia del Consotato e dell'Impero racconta
questo importantissimo fatto:
« Il giorno 26, sin verso l'ora meridiana, Napoleone lasciò i suoi
soldati sui lavori a' quali erano già da tempo occupati; ma dopo il
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 75

mezzodì li convocò subitamente, li fece mangiare, poi li riunì sul posto


con armi e bagagli, facendo annunciare che dovevano imbarcarsi. Seb
bene non fosse detto che dovevano far vela per le coste della Fran
cia, essi sel pensarono, e le dimostrazioni della loro letizia furono in
descrivibili. Uscire da un'immobilità di tanta noia, operare, invadere
la Francia, salire al sommo della possanza e della gloria, ecco le idee
che li rendevano beati, e tutta la strada di Porto-Ferraio rimbombava
delle festose grida di Viva l'Imperatore. -

« Napoleone non tardò a comparire, accompagnato da Bertrand, da


Drouot, da Cambronne e da tutto lo stato maggiore che lo aveva se
guitato nell'esiglio. Aveva pranzato con sua madre e con sua sorella,
ed abbracciandole più volte e ricordando loro come per venti anni, in
mezzo a mille pericoli, egli si era miracolosamente salvato, si separò
da esse commosso, ma fermo, e scese alla riva raggiante di speranza.
La sua presenza fece scoppiare nuovi gridi di gioia; e ben presto il
piccolo seguito di millecento uomini, che andava a conquistare l'impero
di Francia, si trovò a bordo di sette legni destinati a trasportarlo.
Trecento uomini circa con lo stato maggiore imbarcaronsi sull'Inco
stante, il rimanente fu ripartito sulle altre sei navi che componevano
l'armatetta. Verso le sette pomeridiane, stando la folla sulla riva, e la
madre e la sorella alle finestre del palazzo, si spiegarono le vele, na
vigando verso il capo Sant'Andrea. Col prendere questa direzione vo
levasi oltrepassare l'isola d'Elba e inoltrarsi al nord tra la Capraia e
la costa d'Italia, per tenersi possibilmente lontani dai paraggi fre
quentati dalle crociere. Il vento soffiava dal mezzodi in quell'ora, sicchè
pareva che la fortuna volesse favorire quella rischiosa spedizione e mo
strarsi amica un'altra volta all'uomo straordinario ch'ella aveva tante
volte favorito.
« Ben presto ricominciarono le alternative come sogliono accadere
anche nei più fortunati successi. Il vento amico del mezzodi incominciò
a spirar debolmente, e giunti in vista del capo Sant'Andrea l'armatetta
restò immobile; a grande stento potè passare alquanto al nord verso
l'isola di Capraia, e il 27 sul far del giorno aveva percorso uno spazio
di sette od otto leghe. Trovavasi nelle acque stesse della crociera in
glese e francese ed esposta ad incontrarle; il pericolo era grave; alcuni
capitani e marinai erano di parere che si dovesse rientrare in Porto
Ferraio per aspettarvi un vento migliore. »
Per cessare un pericolo in questo modo si correva incontro ad un
altro; sendochè, ad onta del divieto d'uscita dei bastimenti ch'erano
rimasti a Porto Ferraio, un avviso poteva esser giunto agl'Inglesi. In
tal caso una subita apparizione di forze britanniche avrebbe chiuso
Napoleone e i suoi in Porto Ferraio, sorpresi in fragrante delitto di at
tentato alla pace generale, e Napoleone sarebbe stato tramutato in
altr' isola, non più qual sovrano, ma qual prigioniero. Meglio era dunque
76 APOO ,

il perseverare e rimanero in panna finchè spirasse novellamente il


vento di mezzodi. Il pericolo maggiore era quello di essere incolti dalle
crociera francese composta di due fregate e di un brick. Ma conosce
vasi lo spirito che animava quegli equipaggi, ed era possibile insigno
rirsi di quei bastimenti senza trar colpo, saltando all'arembaggio con
le aquile e i tre colori. Napoleone dunque aspettò, ben risoluto di
trarsi d'impaccio con un colpo d'audacia, se per caso s'incontrava
nella crociera francese.
« In sul mezzodi il vento si afforzò e si giunse all'altezza di Li
vorno. Alla destra, verso la costa di Genova, scorgevasi una fregata,
ed un'altra sulla manca verso il largo; da lontano un vascello di linea
spinto da un vento di poppa, che pareva dirigersi a gonfie vele contro
l'armatetta, e questi erano pericoli che bisognava sfidare. Si continuò
a navigare, e d'improvviso si fu a bordo con un brick di guerra fran
cese, il Zefiro, comandato dal tenente di vascello Andrieux, buon uffi
ciale, spesse volte incontrato dalla piccola marineria dell'isola d'Elba.
Si avrebbe potuto tentarne la cattura, ma Napoleone non volle senza
necessità tentare la sorte d'un sifatto tentativo. Fece sdraiare sul ponte
i suoi granatieri, ed ordinò al capitano Taillade, che conosceva An
drieux, di parlamentare con lui. Taillade, prese il suo portavoce, salutò
Andrieux e gli domandò dove andasse. – A Livorno, e voi? – A Ge
nova soggiunse Taillade, e si offerse di adempiere le commissioni del
Zefiro, offerta che Andrieux non accettò, non avendone perquel porto.
– E come sta l'imperatore? domandò l'ufficiale della marina reale.
- Benissimo, rispose Taillade. – Tanto meglio, soggiunse Andrieux;
e continuò il suo cammino senza verun sospetto dell'incontro che aveva
fatto. »
Nella notte eransi veduti sparire i bastimenti di guerra che avevano
dato inquietudine alcune ore prima, e si veleggiò verso la Francia.
Tutto il di 28 fu speso nel traversare il golfo di Genova, incontrandovi
unicamente un vascello da sessantaquattro, che si credette in sulle
prime un incrociatore nemico, ma che presto mostrò di non attender punto
all'armatetta; e il 1 di marzo in sul mattino si videro le coste fran
cesi, a mezzogiorno Antibo e le isole Lerine, e alle tre pomeridiane si
gittarono l'ancore nel golfo Juan. Napoleone. avendo nel modo più
fortunato cansato le prime difficoltà della sua impresa, potè credere che
l'antica fortuna fosse tornata per lui; e i suoi soldati, che n'erano al
par di esso persuasi, fecero risuonare il grido di viva l'imperatore.
« A un dato segno ed al tuonar del cannone s'innalzò la bandiera
tricolore, ed ogni soldato prese la cocarda tricolorata, e furono poste
in mare le scialuppe per operare lo sbarco. »
Com'è noto, traversata la Francia sensa trovar resistenza, Napoleone
arrivò a Parigi, dopo che i Borboni n'erano fuggiti. Però la fortuna
che lo aveva favorito nella sua fuga dall'isola d'Elba, gli fu di nuovo
UG ED VASIOI CELIBRI 77

nemica a Waterloo, ed egli dovette una seconda volta lasciare la Francia,


per non più tornarvi, fuorchè cadavere. Fu vinto dall'Europa di nuovo
congiurata, che pensò a custodir meglio l'uomo fatale che aveva veduto
Due volte nella polvere,
Due volte sull'altar.

Egli fu trasportato in un isola solltaria, nell'Oceano, a Sant'Elena,


onde gli fu impossibile la fuga, che tanto facile gli era stata dall'isola
d' Elba.

,
RICHIEMONTI

(1809)

Nel 1807, il barone di Richemont, colonnello francese fu preso da


un corsaro inglese col bastimento che dall'isola di Francia lo condu
ceva in Europa. Gli fu assegnata per residenza la città di Chesterfield.
Richemont trovavasi in Inghilterra da circa diciotto mesi; era stata
rigettata ogni proposizione di scambio con altri prigionieri, e la sua
cattività sembrava doversi prolungare indefinitamente, quando una
mattina trovò nel suo giornale una notizia che gli fece una profonda
impressione.
« Io lessi e rilessi, dice nelle sue Memorne, che il colonnello Craw
ford era fuggito da Verdun, ov'era prigioniero sulla sua parola, e che
non volendo riprendere il comando del suo reggimento, prima che la
sua condotta fosse approvata , aveva chiesto un giuri. Questo avea
dichiarato ch'essendo egli ritenuto prigioniero contro il diritto delle
genti, aveva agito legittimamente rompendo la pretesa obbligazione
che gli era stato imposta. Io rilessi una terza volta quell'articolo con
una profonda attenzione, e rimasi lungo tempo assorto a pensarvi sopra.
Vi si narravano i particolari dell'evasione, i mezzi che gli erano stati
suggeriti dal sentimento del suo diritto, secondo il suo modo di vedere,
e le astuzie di cui s'era servito per assicurare senza pericolo il suc
cesso delle sua intrapresa. Aveva sollecitato dal governo francese il
permesso di andare ai bagni di Spa, sotto promessa di tornare a costi
tuirsi prigioniero a Verdun ed aveva profittato di questo favore, accor
dato colla fiducia che ispira la parola di un gentiluomo, per tornare
in Inghilterra.
FUGHE, DEVASIONI CELIBRI 79

» Efacile indovinare quali pensieri un tale avvenimento mi fece sor


gere nell'animo. Io pure era ritenuto con violazione del diritto delle
genti, e la mia posizione era molto più incontestata che quella del
colonnello inglese, perchè una sentenza dell'Alta Corte dell'ammira
gliato aveva proclamato la neutralità del bastimento su cui io era stato
arrestato. Io aveva protestato ufficialmente contro l'iniquità della mia
detenzione, e certo non mi poteva venir in mente l'idea di chiedere il
permesso di viaggio per facilitare la mia fuga. Ero libero da ogni
specie d'impegno per la dichiarazione del giuri che aveva pronunciata
l'assoluzione del colonnello Crauford; non poteva essere ritenuto dal
menomo scrupolo di delicatezza. »
Poichè ebbe presa la determinazione di fuggire, Richemont si as
sociò un altro francese, ufficiale di marina, che gli aveva già proposto
di mettersi in salvo. Stabilito che fu il loro piano, egli scrisse all'uf
ficio dei trasporti una lettera in cui dichiarava la sua intenzione di
uscir d'Inghilterra ed esponeva 1 motivi e il verdetto del giuri inglese
che gli avevano fatto prendere questa risoluzione.
« Questa lettera, messa alla posta due ore dopo ch'ebbe lasciato
Chesterfield, era nelle mani dei signori di quell'ufficio il giorno stesso
in cui entrai a Londra, ed io ho lasciato l'Inghilterra solamente otto
o dieci giorni dopo. Ho dato loro tutto il tempo necessario per fare le
loro ricerche; ma in buona coscienza, non dovevano aspettarsi che io
andassi da per me stesso ad abbandonarmi alla loro generosità. »
I due fuggitivi che si spacciavano come Spagnuoli e che avevano
la borsa ben fornita, arrivarono felicemente a Londra: partirono di là
immediatamente colla posta per Folkestone, dove si trovava un contrab
bandiere, sul quale Richemont si era procurato le informazioni più
precise. Appena arrivato si recò da esso.
« Picchio ed entro. La ragazza che mi aveva aperto la porta, mi
conduce in un salotto pulito e decentemente apmmobigliato, dove trovai
l'uomo ch'io cercava, che stava fumando con un bicchiere di grog allato.
Lo salutai con un cenno del capo, e gli domandai se aveva l'onore
di parlare col signor W. G. Fes sir, mi rispose: Jam the man (si, signore
son quello che voi cercate).
Allora entrando difilato sul mio argomento, gli dissi che eravamo
Francesi, e che avevamo fatto assegnamento sopra di lui per tornar in
Francia. – « Per chi mi prendete, ci disse con un tuono di collera. –
Signore, ripresi, parliamo freddamente. Se voi avete da lamentarvi di
me, siete sempre libero di fare quello che vi piacérà: ma prima ascol
tatemi. Noi siamo due gentlemen onesti e discreti, che desiderano trat
tare amichevolmente con voi. Vi debbo dire inoltre che ho preso le mie
precauzioni per costringervi, bisognando, a far quello che vi chiediamo,
od almeno per farvi pagar caro un rifiuto ostinato. Io mi sono prov
veduto di tutti i documenti e di tutte le testimonianze che provano con
80 RICEOT

piena certezza che alla tal'epoca voi siete andato a Chesterfield a pren
dere il capitano X., che l'avete condotto via nella vostra carrozza, che
l'avete tenuto tanti giorni nascosto in casa vostra e poscia trasportato
al di là della Manica. Ora io ho cento belle lire sterline da offrirvi, e
di più la riconoscenza e l'amicizia di due uomini leali e di cuore,
« Quando si parla in questo modo, diss'egli prendendomi la mano
e scotendola forte, si è servito in tutti i paesi del mondo. Le vostre
maniere mi piacciono; c'è nelle vostre parole franchezza e risoluzione.
Siate il benvenuto; io sono l'uomo che fa per voi; conserverete buona
memoria del fatto mio. Non abbiate timore: siamo noi i padroni del
mare, e non già the ships of the royal navy (i bastimenti della marina
reale).
« È vero, gli dissi, stringendogli cordialmente la mano. E affare
conchiuso; ora bisogna intenderci per l'esecuzione.
« Allora gli feci sapere dove eravamo alloggiati, e che il più im
portante era di poter aspettare con sicurezza un tempo favorevole e
di provvedere a tutto durante il nostro soggiorno.
« Va bene, mi disse il valentuomo: tutto sarà fatto e ben fatto.
A tale ora di notte venite a prendermi qui, e vi condurrò in luogo
sicuro, ove potrete bere, fumare e dormire a vostro piacere, senza darvi
pensiero d'altro.
All'ora indicata ci recammo dal nostro contrabbandiere, che ci
aspettava. Gli misi in mano le cento sterline convenute, e gli disse che
doveva aspettare di veder affisso ai muri un avviso dell'ufficio dei tra
sporti, relativo a noi, con promessa di ricompensa a chi ci arrestasse.
« – Never mind (non vi date pensiero di nulla), soggiunse: anche
se gli offrissero la corona d'Inghilterra, non si potrebbe mai rimprove
rare a W. G. una viltà, un tradimento.
» Ci mettiamo in via ed entriamo in una casa di meschina appa
renza, vero ricovero di contrabbandieri, una casa con trentasei porte
od uscite. Se anche fossero venuti a pigliarci, avremmo potuto scappare.
Ci trovammo una donna di una certa età, che ci fu presentata come
nostra serva e cuoca: una credenza guarnita di molte stoviglie, una
buona provvista di carbone, tanto per il salotto che per la cucina al
l'inglese co' suoi fornelli di ferro fuso.
» Voi non avrete che a dare i vostri ordini, ci disse il signor W.
La dispensa è ben fornita: vi sono in abbondanza vino, porter e birra:
potrete sceglier quel che v'ha di meglio.
» Ci condusse in due camere, ciascuna delle quali aveva un letto,
una tavola ed alcune sedie. In una di queste camere c'era una scri
vania con calamaio e carta.
« Così installati e trattati con più riguardi che non chiedesse lo
stretto dovere di ospitalità, mentre noi non potevamo pretender altro
Fughe ed evasioni celebri, Disp. 5,
FUGIE ED EVASONI CEI,EIBIl 8

che di trovar sicurezza in un modesto asilo, ringraziammo vivamente


il nostro liberatore, che prese congedo da noi stringendoci la mano, ri
dendo ed augurandoci la buona notte.
» Da sei o sette giorni ci adoperavamo ad acquietare le ansie della

avalete condannato a morte, fugge dalla co .eri, vestito cogli abiti di


sua moglie. Pag. 69.

solitudine e far passare la noia che ci assaliva, quando il signor W. si


Presenta a noi tutto contento, e ci annunzia che il vento è divenuto
favorevolissimo, e che c'è tutta la probabilità che duri; verso le dieci
pomeridiane verrebbe a portarci degli abiti da marinaio, e poi spie
gheremmo le vele coi migliori auspici. Lo ringraziamo e diamo alla
82 RICHIEMONT

cuoca la mancia che meritava, soddisfacendo a tutte le esigenze del


l'equità e di una generosa liberalità, e aspettiamo il momento solenne.
Finalmente arriva. Mettiamo sopra i nostri vestiti dei pantaloni e delle
casacche da marinaio che c'erano stateportate, ed usciamo con una pipa in
bocca. Arriviamo alla spiaggia e ci troviamo un bel legnetto di 15 o
16 piedi di chiglia e senza ponte, e lo mettiamo in acqua. Rizziamo
l'albero, stabiliamo le vele e il pappafico, mettiamo in assetto il timone
e saltiamo dentro la barca coi due marinai mandati dal signor W. Le
vele si gonfiano; eccoci partiti e in alto mare. Un bastimento della
dogana era in sorveglianza nel porto; ci scorge e ci fa il segnale di
andar a bordo, ma non ne teniamo conto: e avanti che quei della do
gana potessero scendere nel battello ed allestirlo, noi eravamo già lontani,
perchè il nostro era buon veliero e la notte già ci copriva colle sue
ombre. Eravamo marinai tutti e quattro, e ciascuno aveva il suo po
sto; uno era al timone, uno aveva cura della vela, il terzo sul dinanzi
della barca; il quarto, armato di un cannocchiale, spiava l'orizzonte, per
iscoprire i legni di crociera e sorvegliarli. Il vento era fresco, il mar
buono: in meno di due ore eravamo sotto il capo Gris-Nez. Andavamo verso
il mezzodi sempre costeggiando, e ogni volta che una batteria ci faceva
un segnale di riconoscenza, rispondevamo con un altro parimenti amico,
essendo provveduti di tutti i segnali corrispondenti a quelli della costa.
La crociera era lontana, e la nostra barca, tenendosi vicina a terra, non po
teva essere veduta; in ogni caso, al primo movimento sospetto, potevamo
afferrar la costa e approdarvi malgrado i battelli della crociera.
Allo spuntar del giorno, entriamo arditamente nel piccolo porto
di Vimereux, e io salto presto in terra. Il comandante del porto, che
faceva una ronda mattutina di sorveglianza, arrivò appunto nel mo
mento in cui io era saltato sulla riva. –Se mi fossi trovato presente.
voi non sareste scesi, mi disse con mal garbo. – Signor comandante,
gli risposi, se S. M. l'imperatore, a cui io son devoto in anima e corpo
quanto altri mai in Francia, avesse voluto interdirmi il suolo della
patria, io sarei sceso malgrado di esso e della sua valorosa guardia,
malgrado voi e la vostra guarnigione. Io sono il colonnello Richemont:
fate il vostro rapporto ».
Richemont si recò prontamente col suo compagno a Boulogne, vi
ottenne la libertà dei due marinai inglesi che li aveano condotti e li
ricompensò generosamente (Memorie del generale Cannes, barone di Riche
mont, Corrispondenza letteraria, febbraio 1859).
XVI

PICHIEGRU

Barthélemy, De la Rue, ecc.

(1797)

La giornata del 18 fruttidoro aveva fatto trionfare il partito repub


blicano. Un certo numero d'uomini fra quelli che aveano preso parte agli
intrighi contro-rivoluzionari furono deportati alla Guiana; appartene
vano più o meno da vicino al partito realista. Tra questi figuravano
Pichegru, uno dei più grandi uomini di guerra e uno de' più cattivi
cittadini ch'abbia prodotto la Francia; Barthèlemy membro del diret
torio; Ramel, aiutante generale, comandante dei granatieri al corpo
legislativo; De la Rue, membro del Consiglio dei cinquecento; i gene
rali Aubry, Villot, ecc., che furono arrestati tra i primi. A questi nomi
di uomini di partito è giusto di aggiungere quello di Letellier, servi
tore di Barthélemy, che chiese ed ottenne come una grazia di seguire
il suo padrone in carcere, gli fu compagno nel suo esilio e mori vittima
del suo attaccamento.
A Caienna, poi a Sinnamary, i deportati videro soccombere alle
influenze del clima parecchi dei loro compagni e, per fuggire alla mede
sima sorte, risolvettero di evadere e di rifugiarsi nella Guiana olandese.
Ecco come Ramel racconta quei fatti. Forse la sua narrazione è al
quanto amplificata, esagerata; forse ha abbellito la verità con alcuni
particolari romanzeschi.
«Avevamo l'abitudine di passeggiare, dice Ramel, sullo spaldo,
lungo il fiume; guardavamo sospirando la costa occidentale, ma senza
scorger nulla sulle acque e nei boschi, che ci potesse far concepire una
84 P1CHIEGRU

speranza di metterci in salvo. C'era a'piedi del bastione, fuori del


forte e sulla riva del fiume, una piccola piroga che serviva a traspor
tare al fortino delle Punta la nuova guardia e a ricondurre quella
che smontava. Questa piccola piroga co' suoi attrezzi era consegnata
alla sentinella che era posta sull'angolo del bastione, nell'interno del
quale si trovava il corpo di guardia. Spesso guardando la piroga ci
era venuta la voglia di averla, ma solamente a poco a poco e spinti
dalla disperazione ci abituammo all'idea di metterci in balia dell'onde
su quel fragile legnetto. Nessuno di noi sapeva dirigere un battello e
sopratutto una piroga, la cui manovra è difficile e pericolosa. Non ave
vamo bussola; bisognava affidarci a qualche Indiano o a qualche ma
rinaio ».
Un primo tentativo falli. Pichegru avendo tentato di sedurre un
indiano che veniva a vendere dei legumi nel forte, questi parlò con altri
dei sospetti che quelle parole coperte gli aveano fatto concepire. Una
persona che si trovava nel forte, e di cui Ramel non dice altro che questo,
diede informazioni preziose sulla strada da seguire e sui provvedimenti
che avrebbero potuto assicurare la fuga. Si procurarono dei passaporti
sotto nomi supposti, e maturarono i loro progetti, nascondendoli ac
curatamente a quelli tra i loro compagni d'infortunio che, deportati
com'essi, non erano del complotto, e fra i quali alcuni inspiravano
loro una giusta diffidenza.
Un capitano di corsari chiamato Poisvert aveva catturato una
nave americana comandata da un certo Tilly, ch'era proprietario del
carico. Poisvert condusse la sua presa a Sinnamary e mise nel forte
l'equipaggio americano ed il suo capitano. Questi andò subito a trovare
Pichegru, Ramel e i loro compagni per dare ad essi notizie delle loro
famiglie e dei loro amici. Disse che voleva appunto venire a Sinnamary
per farli evadere sul suo bastimento, quando il corsaro aveva a un
tratto posto fine alla sua intrapresa. Gli comunicarono i loro progetti
e gli mostrarono la piroga. Dopo aver cercato di persuaderli ch'era
impossibile di fare un viaggio di mare di piu giorni su quel legno,
vedendoli risoluti a perire piuttosto che restare ancora a Sinnamary, il
bravo Tilly volle associare al loro destino il suo. « Abbandono tutto,
disse loro, per salvarvi: prenderò meco il piloto Barrick e partiremo
insieme. » Tutto era convenuto, quando si seppe che Tilly doveva es
sere immediatamente trasferito a Caienna. Partì lasciando Barrick, il
suo piloto, per far le sue veci. Ma si temeva la sorveglianza e la de
lazione.
» Barrick disparve dunque e restò nascosto nei boschi vicini parec
chie ore, arrampicato sopra un'albero, per salvarsi dai serpenti e dai cai
mani. Era stato convenuto che due giorni dopo, il 3 giugno alle nove
di sera, si troverebbe sulla riva del fiume, sotto il bastione, e che, ve
dendoci comparire, saltererebbe nella piroga. » -
pUGHE ED EVASIONI CELEBRl 85

Tutto pareva favorire i fuggitivi. Il capitano Poisvert dava un


pranzo, al comandante del forte a bordo del legno americano di cui
s'era impadronito. C'era vino in abbondanza per tutti, nel forte, come
sul legno: i soldati, gli ufficiali, anche i deportati, erano in festa. Tutti
furono ben presto ubbriachi, fuorchè i nostri otto congiurati, che si
contentarono di fingere l'ubbriachezza e di litigare fra loro per allon
tanare i sospetti.
- La notte s'avvicinava. Vedemmo rientrar in casa il comandante
Aimé, affatto ubbriaco: lo portavano come un morto. Il silenzio era
succeduto ai canti, alle grida dei bevitori: i soldati e i capi erano
sdraiati qua e là, il servizio trascurato, il corpo di guardia abban
donato.
» Sonò alla fin fine l'ultima ora del nostro soggiorno a Sinnamary.
Alle nove, Dossonville, che vegliava, avverti ciascuno di noi. Uscimmo
e ci raccogliemmo verso la porta del forte: il ponte non era stato an
cora alzato. Tutti dormivano profondamente. Salgo con Pichegru e con
Aubry sul bastione del corpo di guardia, e vado diretto alla sentinella:
era un miserabile tamburo, che ci aveva cagionato tutte le noie pos
sibili. Gli domando che ora è; egli alza gli occhi verso le stelle. Lo
prendo per la gola; Pichegru lo disarma; lo trasciniamo, stringendogli
la strozza per impedirgli di gridare. Eravamo sul parapetto; il catti
vello si dibatte vivamente, ci sfugge e casca nel fiume. Raggiungiamo
i nostri compagni a piè dello spaldo, e vedendo che al corpo di guardia
non c'era nessuno, vi corriamo a prendere cartuccie ed armi. Usciamo
dal forte e voliamo alla piroga. Barrick era li, ci viene incontro, ci
aiuta, ci porta nella piroga. Barthélemy, malaticcio e meno agile di noi,
cade e s'affonda nella melma: Barrick lo prende con un braccio vigo
roso, lo tira fnori e lo mette nella piroga. Si taglia la gomena: Bar
rick tiene il timone; immobili, in silenzio, ci lasciamo trasportare dalla
corrente. Tendiamo l'orecchio e non sentiamo che il mormorio delle
acque e la brezza di terra che ben presto gonfia la nostra piccola vela.
Non vediamo più quella tomba di Sinnamary.
» Quando fummo vicini al fortino della Punta, che bisognava pas
sare, ammainiamo la vela per dar meno nell'occhio. Sapevamo che gli
otto uomini di guardia del fortino avevano ricevuto la parte loro nelle
largizioni del capitano Poisvert, e che doveano essere ubbriachi come
loro camerati. Infatti non fummo chiamati, e la marea ci portò al di
là della sbarra. Lasciando a destra il bastimento del nostro bravo amico
“Tilly, passammo vicino alla goletta la Vittoria, ch'era da poco tempo
arrivata da Caienna: sapevamo che era comandata dal capitano Bra
chet, che si sarà rallegrato della nostra fuga e che certamente non
vi si sarebbe opposto.
» Il vento rinfrescò; il mare era bello. Avanzandoci in alto mare,
correvamo pericolo di perderci; e seguendo la costa troppo da vicino,
86 PIGHIEGRU

potevamo romperci sugli scogli di cui è sparsa fino ad Iracubo. La


luna apparve tutto ad un tratto, come per rischiarare il nostro cam
mino: fu un momento delizioso. Ringraziammo la Provvidenza e il nostro
generoso pilota Barrick, ch'era in uno stato orribile, tutto gonfio per
le punture delle zanzare.
» Andavamo da circa due ore a buon viaggio, quando sentimmo
tre colpi di cannone, due dal forte di Sinnamary e uno dal fortino della
Punta; poco dopo il forte d'Iracubo ripeteva i tre colpi di cannone. Senza
dubbio la nostra fuga era stata scoperta; ma non avevamo timore di
essere inseguiti direttamente da Sinnamary, perchè non c'era nep
pure un battello che potesse essere armato e perchè eravamo già
molto distanti.
» Non avevamo dunque da temere altro che il distaccamento d'Ira
cubo, che sapevamo essere composto di dodici uomini. Non pote
vano darci la caccia altro che in un battello con otto o dieci uomini,
presso a poco come il nostro. Continuammo a costeggiare, preparando
le nostre armi e decisi a difenderci se fossimo attaccati e se tentavasi
d'impedirci il passaggio sotto il forte d'Iracubo.
» A quattro ore dopo mezzanotte due colpi di cannone si fecero
sentire all'est; vi rispose un altro colpo che ci passò vicino. Eravamo
davanti al forte: era notte ancora e non si vide nulla. Noi andavamo
rapidamente e, fatto giorno, ci trovammo sotto il vento d'Iracubo. Non
avevamo più a temere d'essere inseguiti: ci restava da vincere i pe
ricoli del mare. »
In una barca troppo piccola e fragile, che le onde riempivano ogni
momento e che dovevano votare continuamente con una zucca, i fug
gitivi erano sempre a rischio di perire. Un falso movimento di Ramel,
il quale volle riprender il suo cappello ch'era caduto in mare, per poco
non fece rovesciare le piroga, e Pichegru nominato capitano a unani
mità rimproverò con severità l'imprudente. Senza bussola e senza stru
menti per dirigersi e conoscere la loro strada, senza viveri, non avendo
altro che due bottiglie di rum, dovettero soffrire la fame per otto
giorni, se si crede a Ramel. La loro forza morale li sostenne: pote
vano ancora scherzare sulla loro miseria e sulla loro fame, che sop
portavano con pazienza.
Dopo di essere stati canoneggiati, passando davanti il forte orange
che voleva far loro issare la bandiera, furono gettati sulle coste da
una tempesta. Il giorno dopo vennero loro incontro dei soldati olan
desi. In sulle prime ci furono delle difficoltà per la loro amnissione
sul territorio olandese, ma furono tolte e si videro ben presto accolti
e trattati coll'ospitalità più generosa (Giornale dell'aiutante generale
Ramel).
XvII

SIDNEY-SMITHI

(1778)

Il commodoro inglese Guglielmo Sidney-Smith, era stato fatto pri


gioniero dai Francesi alla foce della Senna, in cui aveva osato di pe
netrare coi battelli della sua fregata ch'era in stazione dinanzi all'Ha
vre. Questa impresa era tanto audace, che si sospettò che il vero suo
scopo fosse di favorire i tentativi dei realisti contro la repubblica. Intatti
tra i compagni del commodoro, che vennero fatti prigionieri, erano due
Francesi, i quali riuscirono però a spacciarsi per Inglesi. Scoperti, sa
rebbero stati certamente condannati a morte. Uno si chiamava de Tro
melin, l'altro de Tergonac, ambedue nobili di Bretagna.
si potrà farsi un'idea dell'importanza che il governo della repub
blica annetteva alla cattura e alla detenzione di Sidney-Smith, da ciò
che il Direttorio ricusò di liberarlo in iscambio di Bergeret, capitano
della marina francese.
Quel bravo ufficiale, comandante della Virginia, aveva con questo
solo legno sostenuto un combattimento contro una squadra nemica
composta di cinque fregate e un vascello raso, e si era arreso al
momento di colare a fondo, avendo già cinque piedi d'acqua nella sen
tina. Era trattato con rispetto dai suoi vincitori, che ne stimavano la
lealtà, quanto l'ingegno e il coraggio. Era stato poi mandato a Parigi
per trattare lo scambio della sua propria persona con quella del
commodoro inglese; ma non essendo riuscito, era tornato a Londra a
costituirsi di nuovo prigioniero.
Silney-Smith, era stato chiuso all'Abbazia di San Germano, prigione
88 , SNEY SMIT

infame per la strage dei preti che v'erano custoditi nel settembre 1791;
poscia fu trasportato al Tempio, ove passato avevano gli ultimi giorni
della loro vita Luigi XVI e Maria Antonietta, in quella torre che poi
doveva essere testimone dei più tenebrosi episodi del Consolato, i sui
cidi di Pichegru e di Cadoudal, o piuttosto gli omicidi di questi due
famosi realisti.
Il Direttorio non aveva però creduto necessario di trattare l'illu
stre prigioniero con severità, con durezza. Non fu caricato di catene,
non chiuso in una muda, non cibato a pane ed ocqua. Gli fu dato il
più comodo appartamento che si potesse trovare nella torre, e gli fu
permesso di avere un cuoco, un cameriere e un domestico. Erano fran
cesi tutti e tre, ma quest'ultimo era quel conte Tergonac che era stato
preso col commodoro e che si spacciava per inglese e servitore di esso.
I pesci più rari, il pollame più scelto, le più care ghiottornie che
potevano trovarsi sul mercato di Parigi, tutto quanto insomma può so
leticare l'appetito di un delicato gastronomo, era imbandito sulla tavola
del prigioniero, a cui naturalmente non mancava il danaro. Il cognac,
lo sherry, il claretto facevano parte della cantina dei commodoro, il
quale erasi specialmente provveduto di uno stupendo vino di Porto
vecchio, corrubinato, delizia dei più solenni bevitori Inglesi. In quell'ozio
forzato, Sidney-Smith passava di lunghe ore a tavola in compagnia
del capitano Wright, altro Inglese detenuto al Tempio, ed era servito dal
finto cameriere Sparkes (questo era il nome sotto cui era conosciuto
il conte di Teogonae).Costui era burlone, epperò molto accetto agli uf
fiziali di servigio della prigione cosi per il suo buon umore, come per
la strampalata maniera con cui parlava e pronunziava il francese. Il
commodoro invitava spesso a tenergli compagnia il capo custode del
tempio, il cittadino Muzio Scevola. Costui rispondeva sulla sua testa
della persona di lui e dormiva colle chiavi della prigione sotto l'ori
gliere. Non era però tristo uomo, e le istruzioni che avea ricevuto dal
governo, erano di trattar bene il suo prigioniero.
Molti tentativi erano stati fatti dai realisti per liberare il commo
doro e i suoi due compagni. In quel tempo, non ostante la sanguinaria
severità del governo republicano, abbandonavano in Francia, e mas
sime a Parigi, secreti emissari delle potenze estere, noti come alar
misti, incettatori, ma più sotto il generico nome di agenti dello stra
niero, chiamati dal popolo agenti di Pitt e di Coburgo. Venivano da
Londra, da Vienna, da Berlino, da Amsterdam. Ce n'erano dell'esercito,
nella marina, nelle sale di conversazione, nei pubblici uffici, nelle an
ticamere dei ministri, fra le donne che aprono i palchi dei teatri, le
trecche del mercato, i fiaccherai. Erano tutti ben forniti di danaro, tutti
istancabili nel procacciarsi informazioni, nel fomentare tumulti e pro
muovere la fuga dei prigionieri politici: se l'intendevano coi reazionari
del paese, alcuni dei quali, i più astuti, si spacciavano per ardenti re
pubblicani.
FUGHE ED pVASIONI CELEBRI 89

Malgrado la vigilanza della polizia, il commodoro fu più volte sul


punto di esser liberato. Si erano perciò molto adoperate le Tre Muse,
tre signore realiste che celavano il loro vero nome sotto i falsi nomi
gnoli di Talia, Melpomene e Clio: esse cospiravano notoriamente ed
indefessamente per riuscire alla scarcerazione di Sidney Smith. La mo
glie di Tromelin era venuta a Parigi, ed avea preso a pigione una casa
vicina al Tempio. Un muratore guadagnato a prezzo d'oro aperse una
comunicazione sotterranea fra questa casa e la prigione, per le can
tine; e tutto pareva assicurare il successo, quando lo strepito cagio
nato dalla caduta di alcune pietre sparse l'allarme. Furono dati ordini
severi, massime dopo il 18 fruttidoro, in cui il partito realista ebbe
un grave colpo dal repubblicano che, come suole avvenire, divenne più
spietato persecutore. Tromelin era stato scambiato con un prigioniero
francese, ma Sidney Smith fu custodito con più rigore. Eppure il mo
mento della sua liberazione si avvicinava.
Il celebre romanziere Dickens nella sua storia della evasione di
Sidney Smith racconta che una sera, dopo copiose libazioni, il capo
custode Muzio Scevola propose al commodoro di fare insieme una pas
seggiata sui baluardi, dopo che questi ebbe dato la sua parola d'onore
di gentiluomo inglese che non avrebbe colto quell'occasione per met
tersi in salvo; che poi, in mezzo alla folla, si erano divisi e che mentre
il capo custode, turbatissimo per la responsabilità che cadeva sopra di
lui, tornava alla prigione, trovò l'Inglese che, fedele alla sua parola, lo
aspettava alla porta del Tempio per rientrar nel suo carcere. Non
sappiamo se questo incidente sia storico ovvero creato daila feconda
immaginazione del romanziere.
Una mattina per tempissimo una carrozza di posta tratta da
quattro cavalli s'arrestò al portone del Tempio: sedevano a cassetta
due individui, che aveano l'aspetto di gendarmi in borghese. Due altri
gendarmi, ma in uniforme, scesero primi dalla carrozza ed aiutarono a
scendere un personaggio in grande uniforme. Entrati nella prigione, an
nunciarono una visita del cittadino Auger, aiutante generale dell'eser
cito di Parigi.
Pochi momenti dopo, il commodoro fu chiamato alla stanza comune
della prigione: gli si mostrò un ordine firmato dal ministro dell'in
terno, in vigore del quale Sidney Smith e il suo domestico Giovanni
Sparkes dovevano essere trasferiti alla prigione militare dell'Abbazia.
Il commodoro si mostra sorpreso, protesta, e alla fin fine fa sembiante
di cedere alla forza. Muzio Scevola, bene esaminate le carte che gli
erano presentate, vide che tutto era in ordine. Il cittadino Auger firmò
il proprio n me nei registri della prigione, ricusò la scorta di sei uo
mini che Muzio Scevola voleva dargli, dicendo che bastavano i quattro
gendarmi per custodire il prigioniero.
L'ordine di trasferimento era falso; l'aiutante maggiore (secondo
90 SIDNEY SMITH

altri il commissario delle prigioni) e i suoi gendarmi erano realisti o


agenti dello straniero travestiti. Chi erano costoro? Corsero versioni
differenti. Fu detto che il finto Auger era il marchese di Rochecotte, pro
scritto emigrato. Venne pure sparsa la voce che tutta la trama era opera
di un ufficiale del genio chiamato De Phélippeau, una volta rivale for
tunato di Bonaparte alla scuola militare di Brienne e da quell'epoca
suo aperto avversario, come pure nemico della causa repubblicana.
Costui, dicono, si era associato altri realisti, specialmente un ballerino
dell'opera, di prestante persona, chiamato Boisgirard. Costui, travestito
da aiutante generale, presentò al direttore della prigione un falso or
dine di scarcerazione sottoscritto dal ministro dell'interno e liberò i due
prigionieri.
Alcuni dicono che Sidney-Smith e il falso Sparkes, insieme coi loro
liberatori, si recarono da Parigi a Rouen e quindi all'Havre, e riuscirono
a farsi condurre a bordo della nave inglese l'Orso, che li trasportò a
Londra.
Secondo altri, i fuggitivi toccarono Calais, passarono lo stretto in
una nave contrabbandiera e giunsero in questo modo sani e salvi in
Inghilterra.
Qualche anno dopo Sidney Smith era comandante di San Giovanni
d'Acri alla celebre difesa di questa piazza contro i Francesi, comandati
da Napoleone: Phélippeau era in compagnia del commodoro, allora di
venuto ammiraglio. -

Il capitano inglese Benton assicura nella sua Storia della marina,


ch'egli sapeva di buona fonte che 3000 lire sterline (75.000 franchi)
date dal governo inglese aveano aperto le porte della prigione a Sidney
Smith e tolti gli ostacoli alla sua fuga sino alla costa. Aggiunge che
lord Saint Vincent lo accertò di aver veduto l'ordine del tesoro.
Il capo-custode del tempio, il cittadino Muzio Scevola, non ebbe a
soffrir nulla per l'evasione del commodoro inglese. La firma del ministro
dell'interno era vera: chi sa come? un impiegato infedele aveva riuscito
di furto ad averla.
Il governo inglese pose lealmente in libertà il capitano di marina
Bergeret, subito che Sidney-Smith fu arrivato in Inghilterra.
XVIII

CARAFFA

(1795)

Ferdinando Borbone aveva già fatto immolare le prime vittime


della sua feroce tirannide le quali dovevano essere seguite da tante e
tante altre, avvegnachè nessuna parte d'Italia abbia avuto così ricco mar
tirologio come le provincie meridionali. Il sangue dei martiri aveva ac
cresciuto l'odio di tutti i buoni contro i barbari ordini antichi; e quello
ch'era semplice amore di riforma, era divenuto desiderio ardente di
repubblica. Quindi nuovi tormenti e nuovi tormentati. Tra i carcerati
dalla polizia napoletana per accusa di cospirazione, alcuni dei quali
appartenevano alle più cospicue famiglie del paese, fu pure Ettore Ca
r3ffa conte di Ruvo.
Era il Caraffa uomo di forte e animosa natura, di animo fierissimo,
d'incredibile ardire. Quantunque usasse in corte, come discendente dalla
illustre famiglia dei duchi d'Andria, s'accontava coi giovani più gene
rosi di tutte le classi, i quali nelle cospirazioni preparavano la ruina
della tirannide e la libertà della patria, secondo gli ordini di fresco istituiti
e considerati qual modello di civile reggimento, i repubblicani di Francia.
Avea fatto ristampare alla macchia e diffonder nel popolo la costituzione
del 1793. Con tutto il fervore della gioventù,dell'indole sua meridionale
e di una convinzione profonda si era fatto apostolo di libertà: accu
sato, fu cogli altri sostenuto e chiuso nel forte di Sant'Elmo.
Continuò durante la prigionia il suo apostolato coi giovani ufficiali
che presiedevano alla guardia del forte. Colle sue calde parole destava
in molti simpatia per i martiri della libertà ed accendeva nei loro cuori
l'amore della repubblica.Si strinse particolarmente in amicizia con un
92 CARAFFA

luogotenente siciliano chiamato Aprile, chegli si proferse come aiutatore


e compagno se avesse voluto fuggire dal castello.
Non fa meraviglia che il nobile e generoso giovane che esercitava
tanta seduzione sugli uomini, la esercitasse pur sulle donne. La figlia
di un ufficiale del presidio si accese di amore per esso: le infiam
mate parole, il nobile aspetto, le cavalleresche maniere del conte de
starono nella giovinetta una viva passione. Si sa di quali sacrifici, di
quale eroismo sia capace la donna, quando la più veemente, la più
santa delle passioni, l'amore, ne scalda il petto e la rende coraggiosa
ed ardita. La giovinetta, con grave pericolo suo, si adoperò a fare che
il Caraffa potesse mettersi in salvo coll'amico; aiutati da lei, si calarono
ambedue per una corda dalle mura del castello.
I fuggitivi ebbero sorte diversa. Il luogotenente Aprile fu tosto
ripreso e condannato alla pena di morte, che per grazia regia fu com
mutata in quella del carcere perpetuo nell'orrida fossa del Maretimo.
Il conte di Ruvo, più avventurato, si ricoverò in casa amica a Portici,
e di là per ermi sentieri uscì dal regno. Più tardi si ridusse a Milano,
quando divenne sede del governo Cisalpino.
Proclamata la repubblica Partenopea, il Caraffa tornò a Napoli.
Quando sopravvennero i tempi difficili, combattè valorosissimamente
contro le masnade di Ruffo, e contro Gunio, capo di bande reazionarie
nell'Abruzzo. Difese sino all'estremo la fortezza di Pescara, e la cedette
ai regi alle condizioni stesse che s'erano stabilite per la resa dei ca
stelli di Napoli venne quindi coi suoi compagni alla capitale per imbar
carsi e serbare la vendetta a tempi migliori.
Si era convenuto che i presidi repubblicani dei castelli uscirebbero
cogli onori di guerra, sarebbero rispettati e guarentiti nella persona
e nei beni, che potrebbero scegliere d'imbarcarsi sopra navi parlamen
tarie per essere trasportati a Tolone, o restare nel regno, sicuri da
ogni inquietudine per sè e per le famiglie.
Quando la capitolazione fu rotta per la perfidia del Borbone, il
conte di Rnvo fu imprigionato con tanti altri illustri patrioti, alcuni
dei quali di grande celebrità e i cui nomi bastano ad illustrare un
paese, un secolo. Condannato a morte, dovendo, come nobile, morir di
mannaia, invece che appiccato, volle giacere supino per veder a dispregio
scender dall'alto il terribile coltello.
Questo imperterrito patriota ha di comune con Orsini alcuni im
portantissimi accidenti della sua vita. Come Orsini, carcerato, potè fug
gire, aiutato da una donna innamorata. Come Orsini, un'altra volta
arrestato, non potè mettersi in salvo e peri sulla ghigliottina.
- ,

NIX

CHATEAUBRUN
(1794)

Un nobile, chiamato De Chàteaubrun, era stato condannato a morte,


messo nella fatale carretta e condotto al luogo dell'esecuzione, in Piazza
della Rivoluzione, a Parigi. Dopo dodici o tredici esecuzioni, una parte
dell'orribile stromento si ruppe; si fece venire un operaio per acco
modarlo. Il condannato era colle altre vittime, presso il patibolo, colle
mani legate dietro la schiena. Ci volle molto tempo per l'accomodatura;
intanto il giorno si avvicinava alla fine. La folla, sempre numerosa a
quel crudele spettacolo, era occupata a guardare il lavorio che si faceva;
anche i gendarmi avevano gli occhi fissi sul patibolo. La gente si
spingeva innanzi per veder meglio; alcuni individui del popolo si tro
varono davanti al condannato, che fu separato dai suoi custodi, e a
poco a poco insensibilmente respinto alle ultime file dei curiosi.
Ristabilito lo strumento, i supplizi ricominciarono; quando furono
finiti, la moltitudine si disperse. Era notte buia: Chàteaubrun fu tra
scinato dalla folla. Prese via per i Campi Elisi, e s'indirizzò ad un
uomo che gli parve un operaio. Gli disse ridendo che dei camerati con
cui scherzava, gli avevano legato le mani dietro la schiena e portato
via il cappello. Il buon uomo tagliò la corda e poi, pregato da Chà
teaubrun di andar a cercare un amico di questo e portargli un bi
glietto, esegui fedelmente la commissione. Una mezz'ora dopo arrivò
l'amico e trovò modo di nascondere Chàteaubrun, così miracolosamente
sfuggito alla morte. (Memorie di Vaubane)
XX

LUIGI XVI

a)

Per narrare la fuga di Luigi XVI da Parigi, ci serviremo delle


parole di Thiers nella sua Storia della rivoluzione francese:
« Il re aveva fatto uno studio particolare della storia della rivo
luzione inglese. La sorte di Carlo I l'aveva particolarmente colpito, e
non poteva difendersi da sinistri presentimenti. Aveva sopratutto os
servato il motivo della condanna di Carlo I: questo motivo era la
guerra civile. Aveva un orrore istintivo contro ogni provvedimento
che poteva far scorrere il sangue, e si era costantemente opposto a
tutti i progetti di fuga, proposti dalla regina e dalla corte.
« Durante l'estate passato a Saint Cloud nel 1790 avrebbe potuto
fuggire, ma non aveva mai voluto sentirne parlare. Gli amici della
costituzione temevano al pari di lui questo mezzo, che pareva dover
produrre la gnerra civile. Gli aristocratici soli lo desideravano, perchè,
quando fossero padroni del re allontanandolo dall'Assemblea, speravano
di poter governare in suo nome e di tornar in Francia con lui a capo
degli emigrati. Agli aristocratici si aggiungevano alcuni uomini di
testa calda, che già cominciavano a sognar la repubblica. . . . . Queste
due idee, allontanamento del re e guerra civile, erano così strettamente
associate negli animi dal principio della rivoluzione, che si considerava
questa partenza come una grande sventura.
« L'espulsione del ministero, il quale, se non aveva la fiducia
di Luigi XVI, era stato almeno scelto da lui, gli fece temere di
perdere interamente il potere esecutivo. I nuovi dibattimenti reli
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 95

giosi che la mala fede del clero aveva fatto nascere a proposito della
costituzione civile, spaventarono la sua coscienza ed allora pensò a
partire. Ne scrisse, verso la fine del 1790, al generale Bouillé suo fida
tissimo, il quale sulle prime resistette, poscia cedè, per non render so
spetto il suo zelo allo sventurato monarca. »
Mirabeau, che ancora favoriva gli interessi del re, aveva forse
concepito il progetto di fare che si allontanasse da Parigi, ma per re
carsi a Lione, non già al campo di Bouillé.
Intanto il re, non potendo più soffrire la violenza che gli era
imposta e le restrizioni di potere che l'Assemblea gli faceva subire,
non avendo alcun riposo di coscienza dopo i nuovi decreti sul clero,
aveva deciso di fuggire. Tutto l'inverno era stato consacrato ai prepa
rativi; si promettevano mari e monti a Mirabeau, se riuscisse a met
tere in libertà la famiglia reale. . ..
La morte improvvisa di Mirabeau tolse tutto il coraggio alla
corte. Nuovi avvenimenti precipitarono la decisione che il re avea già
preso. Il 18 aprile voleva andare a Saint Cloud; si diceva che
non volendo servirsi di uno dei preti che avevano prestato giura
mento alla costituzione per far la sua pasqua, egli avesse deciso d'al
lontanarsi da Parigi durante la settimana santa. Altri avevano sparso
voce che voleva fuggire. Il popolo si affolla intorno alla carrozza e
ferma i cavalli. Lafayette accorre e supplica il re di restar in
carrozza, assicurandolo che gli aprirà un passaggio. Tuttavia il re
scende e non vuol permettere alcun tentativo: era la sua antica poli
tica di far credere che non era libero. Per consiglio de' suoi ministri
si reca all'Assemblea a lamentarsi dell'oltraggio che avea ricevuto.
L'Assemblea lo accoglie colle sua solita premura, promettendo di fare
quando dipende da lei per assicurare la sua libertà. .. .. Il 23 aprile,
Luigi XVI fa scrivere dal signor Montmorin, ministro degli esteri, una
lettera ai suoi ambasciatori presso le corti straniere, in cui dichiara
ch'è falso ch'egli abbia intenzione di lasciare la sua residenza, come
altri supponeva; dichiara che ha prestato giuramento alla costituzione
e ch'è disposto ad osservarla e proclama suoi nemici coloro che voles
sero far credere il contrario. . . .
L'imperatore Leopoldo promise di far marciare 35.000 uomini in
Fiandra e 15.000 in Alsazia. Un numero eguale di Svizzeri dovevano
portarsi verso Lione; altrettanti Piemontesi sul Delfinato: la Spagna
doveva raccogliere 20.000 uomini. L'imperatore prometteva la coopera
zione del re di Prussia e la neutralità dell'Inghilterra. Doveva farsi
una protesta in nome della Casa di Borbone, sottoscritta dal re di Na
poli, dal re di Spagna, dall'infante di Parma e dei principi emigrati
(il Conte di Provenza e quello d'Artois). Era raccomaadato Luigi XVI
di non allontanarsi da Parigi.
Gli agenti secreti di Luigi XVI erano discordi su questo ultimo
punto; altri lo consigliavano a restare a Parigi, altri a fuggire.
96 LUIG1 XVI -----

« Il re si decise e scrisse a Bouillé che non voleva differir di più.


La sua intenzione non era di uscir del regno, ma di ritirarsi a Mont
médy, donde poteva, a un bisogno, appoggiarsi sul Lussemburgo e
ricevere i soccorsi stranieri. Fu preferita la strada da Chàlons per
Clermont e Vayennes, malgrado il parere di Bouillé. Tutti i preparativi
furono fatti per partire il 20 giugno. Il generale raccolse le truppe
sulle quali faceva più assegnamento, preparò un campo a Montmédy,
vi ammassò dei foraggi e diede per pretesto di tutte queste disposi
zioni i movimenti che scorgeva alla frontiera. Lo regina si era incari
cata dei preparativi da Parigi sino a Chàlons, e Bouillé da Chàlons
fino a Montmédy. Dei corpi di cavalleria poco numerosi dovevano, sotto
pretesto di scortare un tesoro, portarsi su diversi punti e ricevere il
re al suo passaggio. Bouillé stesso aveva intenzione di avanzarsi a
qualche distanza da Montmédy. La regina si era assicurata di una porta
secreta per uscir dal palazzo: la famiglia reale doveva viaggiare sotto
un nome straniero e con un falso passaporto. Tutto era disposto per
il 20; tuttavia alcuni timori fecero ritardare il viaggio sino al 21, in
dugio che fu fatale a quella sventurata famiglia. Erano corse delle
voci di fuga, sia che il progetto fosse trapelato, sia che fosse uno dei
soliti allarmi. Il comitato delle ricerche era avvertito, e la vigilanza
della guardia nazionale era cresciuta.
« La sera del 21 giugno, il re, la regina, madama Elisabetta, sorella
del re, madama di Tourzel, governante degl'infanti di Francia, tra
vestiti, uscirono un dopo l'altro dal castello. Madama Tourzel coi
fanciulli si recò al piccolo Carrousel, e montò in una carrozza guidata
dal sig. di Fersen, giovane gentiluomo svedese (amante, dicevasi, della
regina), travestito da cocchiere: il re presto li raggiunse. Ma la regina,
ch'era uscita con una guardia del corpo, dié loro le più grandi inquie
tudini. Ella e la sua guida non sapevano camminare per Parigi; si
smarrisce e non trovava il Carrousel che un'ora dopo. Incontra per via
le carozze di Lafayette con delle torcie. Si nasconde sotto gli sportelli
del Louvre e, salvata da questo pericolo, arriva alle carrozze dove
era impazientemente aspettata. Cosi riunita tutta la famiglia si mette
in Via, dopo un lungo giro arriva alla porta di San Martino e monta
in una carrozza da viaggio a sei cavalli, che era là per aspettarla.
La signora Tourzel, sotto il nome di signora di Korff, doveva spac
ciarsi per una madre che viaggiava co' suoi figli: il re figurava come
suo servitore. Tre guardie travestite dovevano precedere le carrozze
come corrieri, o seguirla come servi. Finalmente partono, accompa
gnati dai voti del signor di Fersen, che torna a Parigi per indi prem
dere la via di Bruxelles. Durante questo tempo il conte di Provenza,
fratello del re, si dirigeva verso la Fiandra con sua moglie e seguiva

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 6.


FUGHE ED EVASIGNI CELEBRl 97

un'altra strada per non eccitare i sospetti e far mancare i cavalli di


posta alle stazioni.
« Viaggiarono tutta la notte senza che la cosa fosse scoperta a Parigi.
Il sig. Fersen corse alla municipalità per vedere se si sapeva qualche cosa:

|
-
|

Un cospiratore, vestito da generale, mostra un falso ordine del Ministero per trasportare
Sidney-Smith in un'altra prigione. PAG. 89

alle otto antimeridiane nulla ancora. Ma presto si sparse rapidamente


la voce della fuga. Lafayette riunisce i suoi aiutanti di campo e ordina
loro di partir subito, dicendo che senza dubbio non raggiungerebbero
i fuggitivi, ma che bisognava far qualche cosa. Prese sopra di sè la
responsabilità dell' ordine che dava; supponeva nella redazione del
98 LUIGI XVI

medesimo, che la famiglia reale fosse stata rapita dai nemici del
paese. Questa rispettosa supposizione fu ammessa dall'Assemblea e
costantemente adottata dalle autorità. In quel momento il popolo am
mutinato rimproverava Lafayette di aver favorito l'evasione del re: al
contrario il partito aristocratico lo accusò più tardi di averlo lasciato
fuggire per arrestarlo, poi rovinarlo con questo vano tentativo. Tuttavia,
se Lafayette avesse voluto lasciar fuggire il re, avrebbe mandato, prima
di ricever ordini dall'Assemblea, due aiutanti di campo per inseguirlo?
E se, come hanno supposto gli aristocratici, l'avesse lasciato fuggire
solamente per riprenderlo poi, avrebbe permesso che la carrozza avesse
il vantaggio di una giornata intera? Il popolo fu presto disingannato e
Lafayette tornò nella sua grazia.
» L'Assemblea si riunì alle nove antimeridiane: la sua attitudine
era imponente, come nei primi giorni della rivoluzione. La supposi
zione convenuta fu che Luigi XVI fosse stato rapito. La più gran
calma e la più perfetta unione regnarono in tutta quella seduta: furono
approvate le disposizioni prese spontaneamente da Lafayette. Il popolo
aveva arrestato alle barriere i suoi aiutanti di campo: l'Assemblea fece
loro aprir le porte. Uno di essi, il giovane Romeuf, era latore del de
creto che confermava gli ordini dati dal generale, e comandava a tutti i
funzionari pubblici di opporsi alle conseguenze di questo ratto e d'im
pedire che si continuasse il viaggio. Come il popolo bramava, Romeuf
prese la strada di Chàlons, ch'era la vera; si sapeva ch'era passata
per di là una carrozza a sei cavalli. L'Assemblea fece quindi chiamare
i ministri e decretò che ricevessero ordini solamente da lei. Nel partire
Luigi XVI aveva ordinato al ministro della giustizia di mandargli il
sigillo dello Stato.
» L'Assemblea ordinò che il sigillo fosse serbato per apporlo ai suoi
decreti; decise che le frontiere si ponessero in istato di difesa, e che
il ministro degli esteri fosse incaricato di assicurare le potenze, che
le disposizioni della nazione francese non erano cangiate verso di esse.
» Fu sentito poi il signor De la Porte, intendente della lista civile.
Aveva ricevuto diversi messaggi dal re, fra cui un biglietto, che pregò
l'Assemblea di non aprire, ed una memoria che conteneva i motivi della
partenza. L'Assemblea, pronta a rispettare tutti i diritti, restituì senza
aprirlo il biglietto che il De la Porte non voleva render publico, e or
dinò la lettura della memoria, che fu ascoltata colla più gran calma.
L'impressione che produsse, fu quasi nulla: il re si lamentava con poca
dignità che fosse scemato il suo potere; pareva che gli spiacesse più
di esser ridotto a trenta milioni di lista civile, che di aver perduto
tutte le altre sue prerogative. Si ascoltarono i lamenti del monarca, si
compiansero le sue debolezze; si passò oltre.
» In quel momento pochi desideravano che Luigi XVI fosse arrestato.
Gli aristocratici vedevano nella sua fuga realizzato il più antico de'
FUGHE ED FVASION1 CELEBRI 99

loro voti e speravano vicinissima la guerra civile. I membri più arditi


del partito popolare, che già cominciavano ad essere stanchi del re,
trovavano nella sua assenza l'occasione di farne di meno, e concepi
vano l'idea e la speranza di una repubblica. Tutto il partito moderato,
che dominava in quel momento l'Assemblea, desiderava che il re si
ritirasse sano e salvo a Montmédy e, facendo assegnamento sulla sua
equità,sperava che allora fosse più facile una riconciliazione fra il trono
e la nazione. Erano pochi coloro che si spaventavano di vedere il mo
narca in mezzo ad un esercito minacciare le costituzione. Il popolo solo.
a cui non si era cessato d'ispirar questo timore, lo conservava, mentre
l'Assemblea l'aveva deposto: esso faceva ardenti voti perchè la famiglia
reale fosse arrestata. Tale era lo stato delle cose a Parigi.
» La carrozza partita nella notte del 20 al 21 aveva percorso feli
cemente una gran parte della strada ed era giunta senza ostacoli a
Chàlons, il 2l, verso le cinque pomeridiane. Quivi il re, che avea avuto
l'imprudenza di farsi più volte allo sportello, fu riconosciuto: quegli
che fece questa scoperta, voleva sulle prime svelare il secreto, ma
glielo impedi il sindaco della città, ch'era un realista fedele. Arrivata
a Pont de Sommeville, la famiglia reale non trovò i distaccamenti che
dovevano riceverla: quei distaccamenti avevano aspettato parecchie
ore, ma il popolo che si allarmava di quel movimento di truppe, si
era sollevato e li aveva obbligati a ritirarsi. Intanto il re giunse a
Sainte-Menehould, ove, affacciatosi allo sportello, fu riconosciuto da
Drouet, figlio del mastro di posta e caldo rivoluzionario. Questo gio
vane, non avendo avuto tempo di far fermare la carrozza a Sainte
Menehould, corre a Varennes. Un maresciallo di gendarmi, che si era
accorto della sua presenza e che ne sospettava i motivi, gli va dietro in
caccia per arrestarlo, ma non lo può raggiungere.
» Drouet giunse a Varennes prima della famiglia reale. Corse ad av
vertire le municipalità e fece prender subito tutti i provvedimenti ne
cessari per l'arresto.
» Varennes è posto sulla riva d'un fiume stretto, ma profondo. Un
distaccamento di ussari vi era di guardia; ma l'ufficiale, non vedendo
arrivare il tesoro che gli era stato annunciato, aveva lasciato la sua
truppa nella caserma.
» La carrozza arriva finalmente e passa il ponte. Appena è entrata
sotto una vòlta, che bisognava traversare, Drouet, aiutato da un'altro
individuo, ferma i cavalli. «Il vostro passaporto, » grida e con un fucile
minaccia i viaggiatori, se si ostinano ad avanzarsi. Si obbedisce, a
quest'ordine e si mostra il passaporto. Drouet se ne impadronisce e
dice che spetta al procuratore del comune di esaminarlo. La famiglia
reale è allora condotta da quel procuratore, chiamato Sausse. Costui,
dopo di aver esaminato il passaporto, finge di trovarlo in regola e,
con molti riguardi, prega il re di aspettare. Quando Sausse si è as.
100 LUIGI XVI

sicurato che si raccolse un numero sufficiente di guardie nazionali,


cessa di simulare e dichiara al principe ch'é riconosciuto e che è in
arresto. Ne segue una contestazione. Luigi pretende di non esser quello
che si suppone, e la disputa diviene troppo viva. « Poichè voi lo ri
conoscete per il vostro re, sclama la regina, perduta la pazienza, par.
lategli dunque col rispetto che gli dovete. »
» Il re vedendo ch'è inutile di negare, smette di fingere. Il sa
lotto è pieno di gente. Egli prende la parola e si esprime con insolito
calore: protesta che ha buone intenzioni; assicura che andava a Mont
médy solamente per ascoltar più liberamente i voti dei popoli, so
traendosi alla tirannia di Parigi; finalmente domanda di continuar la
sua strada e di esser condotto alla meta del suo viaggio. Lo sventu
rato principe intenerito abbraccia Sausse e lo prega di salvar sua
moglie ed i suoi figli. Sausse è commosso, ma resiste e l' invita a
tornar a Parigi per evitare una guerra civile. Il re al contrario, spa
ventato di questo ritorno, persiste a continuare il viaggio verso Mont
médy. In quel momento i signori de Damas e de Goguelas erano ar
rivati coi distaccamenti posti in diversi punti. La famiglia reale si
credeva salva, ma non si poteva contare sugli ussari: gli ufficiali li
riuniscono, annunziano loro che il re e la famiglia sono arrestati e che
bisogna salvarli, ma i soldati rispondono che sono per la nazione.
» In quel momento le guardie nazionali convocate in tutti i con
torni affluiscono e riempiono Varennes: tutta la notte passa in questo
modo. Alle sei della mattina arriva il giovane Romeuf, portando il
decreto dell'Assemblea: trova i cavalli attaccati alla carrozza nella di
rezione di Parigi; sale e consegna con dolore il decreto dell'Assemblea.
Tutta la famiglia grida contro Lafayette, che la fa arrestare. La re
gina sembra maravigliata ch'egli non sia perito per mano del popolo,
Il giovane Romeuf risponde ch'egli ed il suo generale hanno fatto il
loro dovere coll'inseguirli, ma che speravano di non raggiungerli.
» La regina prende il decreto, lo getta sul letto dei suoi figli, poi
lo strappa di là, dicendo che li insudicierebbe.
» Madama, le dice Romeuf, che le era devoto, vorreste voi che un
altro, invece di me, fosse testimonio delle vostre furie? - Ella torna
allora in sè e ricupera la sua dignità. Nel medesimo tempo si an
nunciava l'arrivo di diversi corpi appostati da Bouillé nei contorni.
Allora la municipalità ordina la partenza. La famiglia reale è obbli
gata a risalire in carrozza e a riprender la via di Parigi, via fatale e
temuta.
» Bouillé, avvertito alla metà della notte, aveva fatto montar a ca
vallo un reggimento ed era partito fra le grida di viva il re. Straziato
dall'inquietudine, marciò rapidamente e fece nove leghe in quattro
ore. Giunse a Varennes, ove trovò già vari corpi riuniti, ma il re
era partito da un'ora e mezza. Varennes era barricato: si erano prese
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 101

buone disposizioni per difenderlo. Il ponte era rotto e il fiume non si


poteva passare a guado. Dopo un primo combattimento per impadro
nirsi delle barricate,bisognava poi traversare il fiume; quindi,fatta una
così gran perdita di tempo, raggiungere la vettura che aveva un van
taggio d'un'ora e mezza. Questi ostacoli rendevano impossibile ogni
tentativo: non ci voleva altro che questa impossibilità per arrestare un
uomo intrepido e devoto come Bouillé. Si ritirò addoloratissimo.
» Quando si seppe a Parigi l'arresto del re, si credeva che già si
fosse posto in salvo. Il popolo ne provò una gioia straordinaria. L'As
semblea deputò tre commissari scelti nelle tre sezioni della sinistra
per accompagnare il monarca e ricondurlo a Parigi. Questi commissari
erano Barnave, Latour-Maubourg e Pétion. Si recarono a Chàlons, e
poi ch'ebbero raggiunto la famiglia reale, tutti gli ordini furono dati
solamente da essi. Madama Turzel passò in una vettura del seguito
con Latour-Maubourg. Barnave e Pétion salirono nella carrozza della
famiglia reale. Latour-Maubourg, uomo distinto, era amico di Lafa
yette e, al pari di esso, devoto al re quanto alla costituzione. Cedendo
ai suoi due colleghi l'onore di star colla famiglia reale, la sua inten
zione era di renderli pietosi verso la grandezza sventurata. Barnave
sedette in fondo della carrozza fra il re e la regina; Pétion sul di
nanzi tra Elisabetta e la figlia del re. Il giovane delfino riposava
sulle ginocchia ora dell'uno ora dell'altro. Tale era stato il rapido corso
degli avvenimenti! Un giovane avvocato di poco più di vent'anni, di
stinto solo per il suo ingegno, e un altro distinto per i suoi lumi, ma
sopratutto per la severità de' suoi principi, erano seduti allato al prin
cipe che, poco tempo prima, era il più assoluto d'Europa, e allora di
pendeva interamente dai loro cenni.
» Il viaggio era lento, perchè la carrozza seguiva il passo delle
guardie nazionali che l'accompagnavano: durò otto giorni da Varennes
a Parigi. Faceva un gran caldo; e una polvere ardente, sollevata dalla
folla, soffocava i viaggiatori. I primi momenti passarono in silenzio:
la regina non poteva nascondere il suo cattivo umore. Il re fini col
legar discorso con Barnave: si parlò di tutto, e finalmente della sua
fuga a Montmédy. La regina fu sorpresa dell'ingegno distinto e della
delicata gentilezza di Barnave; sollevò il velo e prese parte alla con
versazione. Barnave fu commosso dalla bontà del re e dalla graziosa
dignità della regina. Pétion si mostrò più ruvido; ebbe ed ottenne
meno riguardi. All'arrivo, Barnave era devoto a quella sventurata fa
miglia; e la regina, incantata del merito e della ragionevolezza del gio
Vane tribuno, gli aveva accordata tutta la sua stima. Nelle relazioni
ch'ella ebbe da quel momento in poi coi deputati costituzionali, Bar.
nave fu quello cui accordò maggior confidenza. Gli uomini di partito sa
rebbero indulgenti uno verso l'altro, se potessero vedersi e intendersi
» A Parigi si era preparato il ricevimento che si dovea fare alla
102 LUIGI XVI

famiglia reale. Era sparso e affisso per tutto un avviso che diceva:
chiunque applaudirà il re, sarà battuto; chiunque l'insulterà, sarà ap
piccato. L'ordine fu puntualmente eseguito, e non si sentirono nè ap
plausi nè insulti. La carrozza fece un giro per non essere obbligata a
traversar Parigi. Fu fatta entrare per i campi Elisi, che conducono di
rettamente alle Tuileries. Una folla immensa l'accolse in silenzio: tutti
avevano il cappello in testa. Lafayette, seguito da una guardia nume
rosa, aveva preso le più grandi precauzioni. Le tre guardie del corpo
che avevano aiutato la fuga, erano sedute a cassetto, ed esposte alla
vista ed alla collera del popolo; eppure non si usò loro alcuna vio
lenza. Appena arrivata al palazzo, la carrozza fu circondata. La famiglia
reale discese precipitosamente e traversò una doppia fila di guardie
nazionali destinate a proteggerla. La regina era rimasta l'ultima; i
signori de Noailles e d'Aiguillon, nemici della corte, ma generosi amici
della sventura, la presero nelle loro braccia e la misero in salvo. Ve
dendoli avvicinarsi, ebbe dapprima qualche dubbio sulle loro intenzioni,
poi si abbandonò loro e arrivò sana e salva al palazzo.
» Tale fu questo viaggio, la cui funesta fine non può essere attri
buita ad alcuno di quelli che l'aveano preparato. Un accidente lo fece
fallire; un accidente poteva farlo riuscire. Se per esempio Drouet fosse
stato raggiunto ed arrestato da quello che lo inseguiva, la carrozza ar
rivava a salvamento. Forse il re mancò di energia quando fu ricono
sciuto. -

» L'effetto del viaggio di Varennes fu di distruggere ogni rispetto


per il re, d'abituare il popolo a far senza di esso, di far nascere il
voto della republica. La mattina dell'arrivo di Luigi XVI, l'Assemblea
avea già a tutto proveduto con un decreto. Il re era sospeso dalle sue
funzioni: una guardia era data alla sua persona, a quella della regina
e del delfino; questa guardia doveva rispondere di essi. Tre deputati,
d'André, Trouchet e Duport erano incaricati di ricevere le dichiarazioni
del re e della regina. Fu osservato il più gran riguardo nelle espres
sioni, perchè quell'Assemblea non mancò mai alle convenienze, ma il
risultato era evidente; il re era provvisoriamente detronizzato.
XXI

BENIOVVSKI

(1771)

Il conte Beniowski, magnate di Ungheria e di Polonia, fatto pri


gioniero dai Russi, fu deportato al Camciatcà. Il giorno dopo il suo
arrivo nella piccola città di Bolsa o Bolscerrietzkoi, che gli era stata
assegnata qual residenza, aveva riunito sette de' suoi compagni d'esilio
in un complotto di evasione. Non si trattava ancora che di provvedersi
di un bastimento per fuggire; più tardi le cose dovevano seguire un
indirizzo molto differente. Beniowski non aveva per anco trent'anni, e
ai vantaggi fisici della forza, della destrezza e dell'eleganza congiun
geva un'istruzione abbastanza avanzata, che lo metteva al primo posto
tra gli esuli. Quindi divenne incontestatamente il loro capo. Il gover
natore lo incaricò di dar lezione di lingue a tre sue figlie, di cui la
minore, Atanasia, s'innamorò perdutamente del suo maestro. Beniowski
si serviabilmente della sua passione per venire a capo de' suoi disegni.
Il numero dei congiurati, sulle prime poco considerevole, presto
crebbe; ma ebbero molte difficoltà da superare. Beniowski ed i suoi
fidi avevano bisogno di denaro per la loro impresa, e sotto questo rapporto
il caso e la cupidità dei loro custodi diedero loro fortunatamente un
aiuto di costa. I tre principali personaggi di Bolsa erano il governatore,
il cancelliere e l'etmanno dei Cosacchi. Questi due ultimi avendo ri
conosciuto l'abilità di Beniowski al giuoco degli scacchi, imaginarono
di farlo giuocare coi più ricchi mercanti del paese; ed egli quasi sempre
fu obbligato, nell'interesse della sua impresa e de' suoi compagni, di
tener mano a questo intrigo contro la borsa dei convitati dell'etmanno
104 BENIOWSI

e del cancelliere, che prelevavano la loro parte di leone sul guadagno: si


dovette pur dare una parte al governatore. Malgrado questo, la cassa
dei congiurati contava già dodicimila rubli circa, quando mancò poco
che tutto non fosse scoperto per causa di uno dei giuocatori.
Un mercante chiamato Casarinow, che aveva perduto delle forti
somme a quel giuoco, regalò a Beniowski una certa quantità di zuc
chero avvelenato. Il 1 gennaio 1771 i principali congiurati si raccol
gono per prendere il te: e appena ne hanno bevuto alcunetazze, sono
assaliti da orribili dolori. Uno d'essi morì nella notte; gli altri, salvi
per miracolo, provano lo zucchero sopra degli animali, riconoscono le
sue qualità velenose, ed avendo in questo modo saputo chi era il col
pevole, lo denunziano al governatore. Si manda a chiamare Casarinow;
il governatore gli propone, in presenza di una numerosa riunione, di
prendere il te: egli accetta. «Vedete che buon cuore hanno questi esuli,
disse il governatore, facendo presentare dello zucchero a Casarinow.
Jeri mi hanno regalato una parte di quel pane di zucchero, che
aveano essi pure ricevuto in dono. » Casarinow impallidisce, accusa
un malessere improvviso, vuol ritirarsi. Lo ritengono, e non potendo
negare i fatti evidenti, dice che aveva voluto far perire Beniowski per
punirlo del complotto che aveva formato, di armare gli esuli e d'im
padronirsi di un vascello per uscire con essi dal Camciatcà. Un con
giurato, Planizin, gli ha svelato tutto.
Troppo irritato per tener conto di quest'accusa, il governatore fa
incarcerare Casarinow, e dà ordine al cancelliere di procedere alla con
fisca de'beni del colpevole e alla sua spedizione alle miniere, secondo
le leggi sugli avvelenatori. Ma Beniowski aveva assistito alla scena,
nascosto in un gabinetto, perchè la legge proibiva ai funzionari ed
anche ai semplici cittadini di aver rapporti cogli esuli. Si è veduto
come era osservata; ma qualche volta se ne teneva conto nelle cir
costanze ufficiali. Beniowski aveva dunque sentito la deposizione di
Casarinow. Di ritorno a casa sua, raccoglie il consiglio dei congiurati
e denunzia loro il tradimento di Planizin, ch'era presente. L'assemblea
lo condanna ad unanimità e gli accorda tre ore solamente per prepa
rarsi alla morte. Un prete ch'era del complotto, resta solo con lui.
Poi la sera è condotto fuori del villaggio e fucilato.
Qualche tempo dopo le autorità si ricordarono della deposizione
di Casarinow, ma si cercò inutilmente Planizin, e Casarinow fu con
vinto di aver fatto una falsa deposizione per giustificarsi.
Non possiamo raccontare minutamente i vari episodi di questa
storia di quattro mesi, durante i quali il complotto fu molte volte
scoperto. I congiurati dovettero la loro salvezza alla presenza di spi
rito del loro capo e sopratutto alla stoltezza e alla inazione dei loro
custodi. Poco mancò che essi medesimi non rovinassero tutto, a ca
ne dei sospetti che concepirono contro Berovski, Aci giorni dopo
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 105

l'affare di Casarinow, la povera Atanasia, in presenza di suo padre e di


una gran quantità di persone invitate ad una festa, dichiarò la sua
passione per il conte. Il padre montò in gran collera, ma poi si calmò,
quando gli fu fatto osservare che la libertà di Beniowski dipendeva
da esso, che tutto si poteva accomodare. Beniowski è più che mai fa
vorito e, senza por tempo in mezzo, dichiarato libero. Si spande subito
la voce dell'accaduto, e quando egli torna in casa, ci trova quattro
dei principali congiurati che gli ordinano con aria cupa di recarsi al
l'assemblea generale. Ci va, ed entrando vede che la porta è custodita
da due uomini colla sciabola in mano; un nappo di veleno è sulla
tavola, in mezzo alla stanza. Era accusato di aver ottenuto la sua li
bertà col tradire i suoi compagni. Si giustificò facilmente, e il suo ac
cusatore fu il primo ad abbracciarlo commosso, rimproverando a sè
stesso di aver potuto concepire quei sospetti.
Poco tempo dopo Beniowski ottenne dal governatore che tutti gli
esuli fossero dichiarati liberi e che potessero riunirsi per formare una
colonia nel paese di Lopatca. Ma mentre egli si avvicinava in questo
modo al suo scopo, la moglie del governatore, la sig. Nilow, insisteva
perchè il matrimonio di sua figlia si facesse presto. D'altra parte uno
dei congiurati, chiamato Stefanow, s'innamorò di Atanasia, divenne ge
loso sino al furore, volle uccidere Beniowski e quasi rivelò il com
plotto. I suoi compagni gli fecero paura, gli perdonarono, ma lo misero
in arresto.
I congiurati erano benissimo organizzati; avevano armi e mu
nizioni. Finalmente, malgrado che ci fossero ancora molti ostacoli,
non aspettavano altro, fuorchè si rompessero i ghiacci, per imbarcarsi
sopra un vascello preparato da uno dei cospiratori, quando nuovi so
spetti resero le autorità più diffidenti. Beniowski, riconoscendo da
molti segni che tutto poteva essere compromesso da un momento al
l'altro, avvertì la giovane Atanasia, cui aveva messo a parte del se
creto, di mandargli un pezzo di nastro rosso nel caso di pericolo im
minente. Tutti i congiurati erano pronti ed armati. Due giorni dopo,
Atanasia mandò il nastro rosso, e nel medesimo tempo il governatore
spediva un sergente a Beniowski per invitarlo a far colazione con lui. Si ca
pisce bene che, per l'avviso ricevuto dalla figlia, aveva poca voglia di
accettare l'invito del padre. Prese per pretesto ch'era indisposto, e che
sarebbe andato l'indomani. Il sergente fece la sciocchezza di dirgli che
andasse di buon grado, se non voleva esser condotto per forza; e Be
niowski gli rispose che, se un altra volta gli davano una simile com
missione da fare, avesse cura di andarsi a confessare prima di ese
guirla.
A mezzogiorno arrivò l'etmanno e fu ricevuto politamente; ma la
sua aria confidenziale, la sua bonomia, le sue finezze troppo artifi
ziate, tutto falli contro il buon senso di Beniowski. Siccome egli ri
106 BENOVVSKI

fiutava di andare alla fortezza, il povero etmanno si mise in collera


e lo minacciò di adoperare i suoi Cosacchi per forzarlo. Beniowski gli
fece delle risate sul viso. L'etmanno furioso chiama la sua gente. Be
niowski dà un fischio; compariscono cinque dei suoi compagni, e
l'etmanno e i suoi due Cosacchi sono disarmati e messi in luogo sicuro.
Alle cinque il governatore manda un messo ad esortare Beniowski
di ricorrere alla clemenza dell'imperatore, e gli minaccia la pena ca
pitale se non mette subito l'etmanno in libertà. Il conte risponde per
iscritto, a fine di tener a bada il governatore, e intanto fa rapire, in
vece del cancelliere, che non si era potuto trovare, suo nipote ed altri
due individui, di cui temeva i consigli.
Il giorno dopo, il governatore manda quattro uomini e un caporale
per arrestare il conte, che s'impadronisce di loro senza fatica, sotto
pretesto di dar loro da bere, e li chiude nella sua cantina. Poco tempo
dopo, un distaccamento di soldati si avanza verso la sua casa, di cui
egli aveva fatto una fortezza ben munita. Assale il distaccamento ed
uccide quattro uomini: gli altri si mettono in fuga. Si manda contro
di lui un altro distaccamento con un cannone. Beniowski, sotto pretesto
di parlamentare, domanda di avvicinarsi; l'ufficiale che comandava il
distaccamento glielo permette. Arrivati a questa distanza i congiurati
fanno fuoco; i loro nemici si mettono in fuga o si gettano bocconi in
terra; il cannone passa al partito dell'insurrezione. Tutti i congiurati
sono raccolti in un quarto d'ora: si servono del cannone per aprirsi
la strada sino al ponte. La sentinella, vedendoli venire con quel pezzo
di cannone, li prende per il distaccamento che l'aveva condotto via la
mattina istessa, e abbassa il ponte levatoio.
Beniowski ed i suoi entrano nel forte. Il conte corre tosto all'ap
partamento del governatore per salvarlo, ma questo gli tira un colpo
di pistola e gli salta addosso. Beniowski stava per essere costretto a
far uso egli pure delle sue armi, quando un altro congiurato con un
colpo di pistola rompe la testa al povero governatore e libera il conte
Intanto era venuta la notte e i Cosacchi marciavano sul forte per
dargli l'assalto: fortunatamente le loro scale erano troppo corte. Il
fuoco dei loro fucili serviva ai congiurati per puntare in quella dire
zione i loro cannoni, che fecero molto danno agli assedianti, mentre
gli assediati non perdettero un uomo solo. L'indomani gli esuli chiu
sero nella chiesa della città le donne e i fanciulli, in numero di circa
mille persone, poi fecero sapere agli ottocento Cosacchi, i quali bloc
cavano il forte, che, se non cedevano le armi, metterebbero fuoco alla
chiesa. I Cosacchi accettarono queste condizioni, ed i congiurati ri
masero padroni della piazza. Avevano avuto nove morti e sette feriti
gravemente. "
Alcuni giorni dopo, gli esuli s'impadronirono della corvetta di
guerra San Pietro e Paolo. Si resero gli ultimi onori al povero gover
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 107

natore: il 9 e il 10 fu allestita la nave, si rimandarono in città gli


ostaggi, tranne il segretario della cancelleria, per punirlo delle sue
passate tristizie. Era una grande imprudenza. ma pare che gli esiliati
non abbiano avuto a pentirsene. Finalmente, l' 11, Beniowski montò a
bordo, fece issare la bandiera della Confederazione di Polonia, che fu
salutata dai cannoni della corvetta, e lasciò il Camciatcà, non come
un prigioniero che fugge, ma come un sovrano che percorre il suo
impero.
XXII

IL A TU D E

(1750-1784)

Masers de Latude nacque nell'anno 1725 nel castello di Craiseih,


presso Montagnac, nella Linguadoca. Era figlio del marchese di Latude,
che comandava nell'esercito francese come colonnello di fanti, e avea
destinato al genio militare il figliuolo.
All'età di ventiquattro anni ebbe la trista idea di preparare una
gherminella per far rivolgere sopra di sè l'attenzione della signora di
Pompadour e ottenere il suo patrocinio.
Ei mise alla posta una scatola di cartone, entro alla quale avea
riposta una polvere innocua e l'indirizzò alla marchesa. Recossi quindi
a Versaglia , ed ammesso alla di lei presenza dichiarò alla dama che
alcuni sconosciuti aveano deliberato di avvelenarla, e ch'egli, scoperto
il segreto, era venuto a fine di prevenirla.
Alla cortese espressione di una viva gratitudine subentrò nel
l'animo della marchesa il sospetto che le si tramasse qualche inganno.
Ella richiese al giovane malaccorto uno scritto.
L'inganno apparve chiaramente, poichè lo scritto del giovane La
tude e la direzione che trovossi sovra la scatola erano d'un medesimo
carattere.
Pochi giorni dapoi, Latude era rinchiuso alla Bastiglia, e dopo
quattro mesi trasferito al castello di Vincennes.
Egli poteva ben pensare che sarebbe rimasto prigione di Stato
durante tutta la sua vita, avvegnachè ei già sapesse che la signora di
Pompadour s'era mostrata inesorabile.
Ecco come parla lo stesso Latude nelle sue Memorie.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 109

« Il mio coraggio non potea reggersi, se non sostenuto dalla spe


ranza di procacciarmi la libertà. Conobbi però fin d'allora, che da nes
sun mortale potea sperarla, tranne da me medesimo, e volsi ogni mio
pensiero a scoprire un mezzo, qual ch'ei si fosse, per conseguirla.
Solea vedere ogni giorno un sacerdote attempato, il quale passeggiava
in un giardino che facea parte del castello, e seppi da poi essere
egli rinchiuso colà da lunga pezza per cagione di giansenismo. L'abate
di San Salvatore, figlio d'un antico luogotenente del re a Vincennes,
avea ottenuto licenza di recarsi in codesto giardino a favellar secolui
ogni volta che gli fosse tornato in grado, e solea profittarne di sovente.
» Oltre a ciò, il buon giansenista addestrava a leggere e a scrivere
parecchi figliuoletti degli uffiziali del castello. L'abate ed i fanciulli
andavano e venivano senza che veruno badasse a loro.
» L'ora del passeggio era quella stessa in cui soleano condur me
pur anche in un contiguo giardinetto.
» Il signor Berryer, luogotenente di polizia, avea dato l'ordine di
lasciarmi colà per ben due ore al giorno, ond'io potessi così rinfrancare
la mia salute respirando l'aria aperta. Due porta-chiavi venivano a
prendermi per condurmi in giardino.
» Talvolta il più vecchio m'attendea nel giardino ed il più giovane
venia tutto solo ad aprir la porta del mio carcere.
» Io solea correre giù dalla scala a precipizio, senza aspettarlo,
raggiungeva in un attimo il suo commilitone, ed entrato in giardino,
mi trovava con quest'ultimo.
» Risolsi un giorno di tentare ad ogni costo la fuga. Aperta che
egli ebbe la porta della mia camera, balzai sulla scala. Avea già di
scesa la torre, ed ei neppur sognava d'inseguirmi. Ivi era una porta
aperta ed io la chiusi coi catenacci al di fuori, per impedire ogni co
municazione fra que' due carcerieri mentr'io compieva il mio disegno.
» V'erano quattro sentinelle, e facea d'uopo trarle tutte in inganno.
» La prima stavasi a guardia d'una porta che metteva nel fortili
zio ed era sempre chiusa. Io batto, la scolta apre ed io senza ambagi
chiedo tosto l'abate di San Salvatore. Già da due ore, esclamo, il no
stro sacerdote lo attende in giardino, ed io vado dovunque in cerca
di lui, nè mi vien dato d'incontrarlo. E ciò dicendo, continuava a cam
minare a passi affrettati. All'estremità della vôlta ch'è sotto all'orolo
gio, trovo un'altra sentinella: le chieggo se per avventura fosse uscito
l'abate di San Salvatore; mi risponde che nol sa, e mi lascia passare.
» Volgo la stessa domanda alla terza, ch'era di là dal ponte leva
toio, la quale mi dice di non averlo veduto. Ebbene! Lo troverò io,
gridai.
» Corro esultante innanzi, saltellando come un fanciullo, e giungo
là dov'era l'ultima scolta, che ben lungi dal sospettare ch'io fossi un
prigioniero, credette ch'io me n'andassi davvero in traccia dell'abate:
110 LATUDE

traverso la soglia, mi slancio fuori, mi sottraggo agli sguardi delle


sentinelle: son libero !
» Corsi attraverso campi e vigneti, tenendomi lungi quanto più
il poteva dalla strada maestra, e venni a celarmi a Parigi in una stanza
a pigione per ivi godere un po' di libertà, dopo di esserne stato pri
vato per ben quattordici mesi ».
In questa guisa Latude era giunto a salvarsi dalla prigione; ma
poi ebbe l'imprudenza di rivolgere una preghiera al Re, scusandosi de'
suoi falli e chiedendo venia pel resto della pena. Venne di bel nuovo
arrestato, tradotto alla Bastiglia ed ivi posto alle segrete, ove rimase
18 mesi. Trascorsi i quali, il direttore di polizia Berryer gli fece dare
una stanza, nella quale aveva per compagno un suo coetaneo, no
mato d'Alègre, la cui colpa era pur quella d'avere osato oltraggiare
Madama Pompadour.
In cotanto stremo non poteano rimaner più a' due giovani se non
due partiti da scegliere; l'evasione o la morte.
« Il progetto, l'idea sola di fuggire dee sembrar un sogno, un de
lirio a chiunque conosca la Bastiglia, le mura che la cingono, i suoi
manieri, le sue torri.
» Malgrado però cotesta idea che s'era rifitta nella mia mente, io
serbava intatta la mia ragione, e si giudichi pure se fosse mestieri
d'un anima non comune, direi meglio fortissima, per concepire, svol
gere e porre in esecuzione un simile progetto. Uscir dalla Bastiglia
per le porte, sarebbe stata follia sperarlo: ostacoli insormontabili ren
deano quella via impraticabile. Non rimaneva dunque altra strada da
tentare, fuor quella dell'aria.
» Noi avevamo nella nostra stanza un camino onde la canna giun
gea fino all'ultima vetta della torre principale, ma era piena di grate,
siccome tutte le altre ch'erano nella Bastiglia e, ad intervalli, v'erano
delle sbarre che lasciavano appena passare il fumo. E posto anche che
noi fossimo giunti a salir sul vertice dell'alta torre, un abisso di oltre
duecento piedi si spalancava sotto di noi (1). Giù un fosso protetto da
un muro, ch'era pur d'uopo di valicare. Malgrado tutti quegli ostacoli
e tutti quanti que' pericoli, io non mi ristetti. Comunicai il pro
getto al mio compagno d'infortunio ed ei mi tenne per forsennato, per
la qual cosa dovetti pensare al mio piano soltanto fra me e me.
» Facea mestieri arrampicarsi su pel camino, malgrado gli
ostacoli che ne frapponeano le sbarre, poi dall'alto della torre discen
dere al basso; nè avremmo potuto calar giù nel fosso, se non mu
niti d'una scala di legno almeno di 180 piedi e di un'altra per

(1) Secondo una planimetria della Bastiglia, ch'è nel gabinetto delle stampe della grande
Biblioteca a Parigi, l'altezza delle torri dal parapetto fino al fondo del fosso era di 95 piedi,
ehe corrispondono a 30 metri e 85 centimetri.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 1 11

uscire dal fosso. Arroge a ciò che, s'io fossi pur giunto a procacciarmi
i materiali per costruirle, e' bisognava celarli a tutti gli sguardi, la
vorare senza far rumore, e deludere i custodi e le scolte.
« Io dovea indagare, pria d'ogni altra cosa, ove fosse un luogo atto
a nascondere i nostri materiali ed i nostri utensili ».
» Dopo d'aver lunga pezza fantasticato colsi un'idea che mi parve
propizia.
» Io aveva abitato già parecchie camere alla Bastiglia e m'era
accorto che in tutte le corrispondenti, sotto a' miei piedi come pure
sovra la mia testa, udiasi ogni più lieve romore. Tesi l'orecchio in
fatti e udi distintamente ogni suono, ogni fruscio che muovea dalla
stanza ch'era al di sopra, ma non mi fu dato quel giorno udire alcun
rumore che venisse dalla stanza ch'era al disotto di noi; eppure io
sapeva per fermo starsi in quella rinchiuso un prigioniero. A furia di
calcolo giunsi a scoprire che v'era un doppio tavolato, ed ecco il mezzo
da me posto in opera per accertarmene.
» V'era alla Bastiglia una cappella ove celebravasi una messa ogni
giorno e tre nei giorni festivi. Il permesso d'udir la messa era uno
speciale favore che ben difficilmente venia concesso. Il signor Berryer
l'imparti a noi, siccome pure al recluso nella stanza n. 3 ch'era appunto
sotto alla nostra. Risolsi quindi di profittare dell'istante in cui questi
non fosse ancor rinchiuso per lanciarvi un'occhiata al di dentro. In
dicai al d'Alègre il mezzo di rendermi agevole quell'ispezione, po
nendo il suo astuccio entro al fazzoletto e facendolo poi cadere e roto
lare giù per le scale, poi pregando il carceriere di raccorlo.
» Lo stratagemma riuscì a meraviglia. Mentre il porta-chiavi Da
ragon correva dietro all'astuccio, io salsi alla stanza del n. 3, aprii i
catenacci, misurai l'altezza del pavimento, e riconobbi che non era
che dieci piedi e mezzo; quindi rinchiusi la porta, e scorsi che fra
il tavolato della nostra stanza e il tetto di quella che ne stava di
sotto v'era un intervallo di cinque piedi e mezzo. Cotesto intervallo
non poteva essere colmato nè dalle pietre nè dalle travi, poichè il peso
ne saria stato gravissimo; laonde io m'indussi a credere che ci fosse
un vuoto di cinque piedi.
» Amico mio! sclamai allora volgendomi a d'Alègre, siam salvi !
Noi possiamo nascondere le nostre corde e le nostre scale !
» – Corde? rispos'egli? Scale? Istromenti? Materiali? E dove sono?
Ove mai trovarli?
» – Corde, ripres'io, ne abbiamo oltre al bisogno. Cotesto mio
baule contiene più di mille piedi di corda.
» – Il vostro baule? diss'egli. non ne contiene un sol pollice.
» - E non ho io forse de' pannilini, dodici dozzine di camicie,sal
viette,berretti da notte, calze? ne farem de' filacci e fabbricheremo delle
corde.
112 LATUDE

» Avevamo una tavola che si ripiegava, sostenuta da due spran


ghette: a queste demmo un filo tagliente aguzzandole sopra una pietra
del pavimento. In men di due ore trasformammo un acciarino in un
buon coltellino, col quale femmo due manichi alle spranghette, serbate
all'uopo di segar le grate del nostro camino.
» In sulla sera, allorchè tutte le visite erano fatte, togliemmo dal
pavimento un mattone, ci ponemmo a scavare con ogni nostra possa,
ed in questa guisa giungemmo in breve ora a scoprire un vacuo
di quattro piedi fra l'uno e l'altro palco, ciò che diè a di vedere al mio
compagno che le mie congetture erano fondate sovra giusti calcoli.
Indi riponemmo i mattoni al loro posto, affinchè nessuno potesse scor
gervi uno spostamento.
» Compiuti que' primi lavori, ci ponemmo a scucire due camicie
e i loro lembi, e traendone i fili l'un dopo l'altro, li accogliemmo in
sieme, avvolgendoli da prima in gomitoli e poi in due grossi torselli.
Annodammo e rinodammo i fili in guisa tale da formarne una fune
lunga 55 piedi, e ne costruimmo una scala che dovea servirne per
tenerci sospesi in aria, mentre toglievamo le sbarre e le punte di ferro
ond'era armato il camino.
» Questa fu l'opera più difficile e penosa, e ne costò sei mesi di
tale fatica che il solo ricordarla fa fremere. Non potevamo lavorare se
non piegando tutto il corpo, contorcendoci nelle posture più incomode,
in cui non potevamo resistere giammai più d'un'ora, uscendone colle
mani insanguinate. Le sbarre di ferro erano confitte al muro con un
cemento durissimo, che non potevamo ammollire se non che cacciando
fuor dalla nostra bocca dell'acqua e spingendola entro ai buchi che
aprivamo. Basti il dire che noi andavamo lieti, se durante una notte
di cotest'improba fatica giungevamo a cavare una linea di quel cemento
dalla muraglia. Tolta via per tal modo una sbarra, facea mestieri di
riporla, affinchè i carcerieri, nelle frequenti visite che ne facevano, non
giungessero mai ad accorgersi di nulla, per poterle poi toglier via
tutte ad un tratto, allorchè fosse giunto l'istante propizio d'uscire.Co
testo lavoro accanito ne costò dunque sei mesi di durissimi stenti; pas
sati i quali, ci accingemmo a costruire la scala di legno che ne facea
d'uopo per salire dal fosso al parapetto, e dal parapetto al giardino
del governatore: doveva essere di 29 a 25 piedi, e vi ponemmo in
opera la legna che ne veniva data per riscaldarci. Erano ceppi che
avevano una circonferenza di 18 e talora di 20 pollici. Tornava a noi
necessaria, anzi indispensabile una sega, ed io ne feci una impiegando
a tal uopo la metà di quell'acciarino onde avea composto, siccome dissi,
un coltellino.
» Colframmento di quel mattoncello, colla sega e colle spranghette
giungemmo alla perfine ad assottigliare i ceppi, con cui andavamo fa
Fughe ed evasioni celebri. Disp. 7.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRl 113

cendo dei mastietti e delle caviglie per innestarle le une nell'altre con
due buchi per ogni cerniera e passarvi il piuolo con due cavicchie affinchè
non tentennasse. A cotesta scala non abbiam fatto che un solo braccio
ponendovi 20 piuoli di 15 pollici l'uno. Il diametro del braccio era di

Ma, oh Do ! trovi un'altra mano rigida e fredda come il gh a io.


PA G. 12.

3 pollici, in guisa che ogni scalino eccedeva di sei pollici il braccio da


ambe le parti.
« Tutti i piuoli erano attaccati a ogni pezzo della scala con una
funicella per metterla su con facilità durante la notte. Quando avevamo
compiuto uno di cotesti pezzi, lo nascondevamo fra i due palchi.
11 LATUDE

« Ecco gli arnesi onde componevasi la nostra officina. Ci procac


ciammo il compasso, la squadra, il regolo, il guindolo e tutto ciò con
gran cura venia risposto nel nostro magazzino. V'era un pericolo
cui non potevamo sottrarci che colle più attente precauzioni. Oltre alle
visite frequenti che ne facevano il porta-chiavi e i luogotenenti della
Bastiglia, soleasi colà spiere attentamente la condotta ed ascoltare i
discorsi tenuti nelle carceri dai prigionieri.
Noi potevamo agevolmente sottrarci ai loro sguardi impiegando le
ore della notte per incarnare il nostro progetto, e ponendo ogni nostra
cura a far sparire le tracce de' nostri penosi lavori, avvegnachè una
sola scheggia, od un frammento avrebbe potuto tradire il nostro
segreto. Oltre di ciò era pur d'uopo deludere le orecchie de' nostri
esploratori. Noi tenevam proposito continuo intorno alla nostra fuga;
ma dovevam por mente eziandio ad evitar i sospetti che si poteano su
scitare e confondere le idee di coloro che avrebbero potuto udirci. In
tale intendimento inventammo un gergo. Noi davamo, a cagion di
esempio, il nome di Fauno alla sega, quello d'Anubi all'aspo; appella
vamo Tubalcain le spranghette, Giacobbe la scala, rampolli gli scalini,
colombe le corde (a cagione del loro color bianco), piccolo fratello, il
gomitolo, tutu il coltellino, e via via.
« Noi eravamo sempre all'erta, e perciò riuscimmo a deludere la
vigilanza de' nostri arghi.
« Le prime operazioni, ond'ho parlato testè, erano già belle e com
piute, e noi eravamo tutti intenti a comporre la gran scala, che doveva
esser lunga 180 piedi. Ci ponemmo a sfilacciare i nostri pannilini. Ca
micie, salviette, berrette, calzette, mutande; tutto ciò insomma che ne
potea fornire del filo o della seta, fu da noi messo in opera. Composto
un gomitolo, lo ascondevamo nel buco dal pavimento. Impiegammo un'in
tera notte a intrecciare cotesta corda, e ne riusci di cosi bella fattura,
che il più valente cordaio non ne avrebbe potuto fabbricar una del pari.
« Nella parte superiore della Bastiglia v'era un rialto di tre o
quattro piedi, e questo dovea senza dubbio far tentennare la nostra
scala mentre discendevamo. Sarebbe bastato ciò per far vacillare il più
robusto cervello.
« Per evitare cotanto pericolo e impedire la caduta d'un di noi
due, preparammo un'altra corda lunga 360 piedi.
« La corda dovea passare per entro ad una troclea, formando
una specie di carrucola senza ruote; a fin d'impedire che la fune,per
cui dovevamo calarci giù, s'arrestasse fra la ruota e la carrucola, (nel
qual caso il fuggente sarebbe rimasto sospeso nell'aria senza poter
discendere), oltre a queste due corde, ne fabbricamno molt'altre ancora
dl minore lunghezza per attaccare la nostra scala ad un cannone e per
altri impreveduti bisogni.
« Quando tutte coteste corde furono congiunte, le misurammo: ne
FUGHIE ED EVASlONI CELEBRI 115

avevamo 1400 piedi. Componemmo da poi 208 piuoli per la scala di


corda e per quella di legno.
«Ma vi era un altro inconveniente cui faceva d'uopo di provvedere,
e quest'era il rumore che il fruscio dei scalini dovea produrre lungo
quella muraglia nell'ora della discesa. Per evitare anche quesl'ultimo
danno che ne potea cogliere, avvolgemmo i piuoli entro a fodere fatte
a bella posta colle nostre vesti da camera, coi nostri farsetti e panciotti.
« Diciotto mesi furono da noi consacrati a cotesti preparativi; e
ciò non bastava ancora
« Avevamo in pronto bensì i mezzi di giungere fino al vertice
della torre e discendere nella fossa; ma per uscire di là ne rimanevano
ancora a vincere due ostacoli: salire sul parapetto, e da quello nel
giardino del governatore, e di là poi scender nel fosso della porta di
Sant'Antonio. Codesto parapetto, per cui dovevamo passare ad ogni
costo, era guarnito sempre di scolte. Potevamo scegliere una notte buia
e piovosa, una di quelle notti in cui le sentinelle non si muovono
dalle loro vedette; ma avrebbe potuto piovere eziandio in quell'istante
in cui stavamo per arrampicarci su pel camino, ed il cielo rassere
narsi quando noi saremmo giunti sul parapetto. Potevamo abbatterci
nella gran scolta che il visita ad ogni istante, e sarebbe tornato im
possibile il nasconderci, sendo quegli sgherri muniti sempre di lanterne
In cotest'ultimo caso eravamo irremissibilmente perduti.
« L'altro progetto era irto di difficoltà, ma pure meno peri
coloso: era quello di fare un passaggio attraverso il muro che separa
il fosso della Bastiglia da quello della porta di Sant'Antonio. Per ciò
fare noi avevamo d'uopo d'un succhiello onde poter aprire dei buchi nel
l'intonaco, piantarvi due sbarre di ferro tolte dal nostro camino, e
con quelle sbarre medesime svellere alcune pietre e aprirci un pas
saggio.
« Ci appigliammo a quest'ultimo partito, formammo un succhiello
colla spranga di uno de' nostri letti, e v'attaccammo un manico a
mo' di croce.
« Il mercoledi 23 febbraio 1756, cioè la vigilia del giovedì grasso,
fu il giorno fissato per la nostra evasione. Il fiume aveva già strari
pato e v'erano quattro piedi d'acqua si nel fosso della Bastiglia che
in quello di Sant'Antonio, ove noi dovevamo cercare la nostra salute.
« Misi dentro ad una valigia di cuoio tutte le vestimenta che ne
tornavano necessarie per cangiar quelle con cui fuggivamo, se una sorte
propizia ne avesse tratti a salvamento.
« Poichè n'ebbero recato il pranzo, mettemmo in assetto la nostra
grande scala. Ciò vuol dire,che disponemmo i piuoli,poi la nascondemmo
sotto al letto, affinchè il porta-chiavi non la scorgesse durante le visite
che dovea farne ancora entro la giornata. Approntata la scala di legno,
divisa in tre pezzi, ponemmo le sbarre di ferro, che ne erano neces
116 LATUDE

sarie per forare il muro, entro alle loro fodere per impedire che facessero
romore, e ci approvigionammo con una bottiglia di cognac per rifocil
larci, perchè n'era poi giocoforza di lavorare nell'acqua fino alle spalle
per ben nove ore.
« Poichè tutte quante le precauzioni furono prese, attendemmo l'ora
della cena, che, aspettata a lungo, giunse alla perfine. Io salsi primo su
pel camino.
« Era stato colto già da parecchi giorni da un reuma al braccio
sinistro: non badai nè punto nè poco al dolore che mi recava; ma ne
provai poscia uno più acuto. Non avendo io preso alcuna di quelle
precauzioni, che sogliono usare gli spazzacamini, poco mancò ch'io non
rimanessi soffocato dalla fuligine; i miei gomiti, i miei ginocchi si
scorticarono; il sangue sgocciolava giù per le membra, ed in sifatta
guisa malconcio giunsi sulla vetta del camino. Arrivato colassù, feci
scivolare un gomitolo che avea recato meco. D'Alègre avvinse all'estre
mità la cima d'una corda, cui aveva attaccata la mia valigia. Io la
trassi verso di me, la disciolsi e la gittai sulla piattaforma della Basti
glia. Nella guisa istessa noi tirammo su per il camino la scala di legno,
le due sbarre di ferro e finalmente la scala di corda, ond' io lasciai
cadere l'uno de' capi per facilitar la salita a d'Alègre mentr'io so
steneva l'altro con un grosso caviglio da noi preparato a bella posta.
il feci passare entro alla corda e lo posi in croce sovra il tubo del ca
mino. Per tal modo il mio compagno non ebbe le membra insangui
nate come le mie. Discesi poi dalla vetta del camino, ed ivi io era in
una postura oltre ogni dire incomoda. Alla fin fine giungemmo sulla
piattaforma della Bastiglia.
« Giunti che fummo colà, disponemmo tutte quante le cose nostre
e cominciammo a fare un rotolo della nostra scala di corda, che for
mava un volume di quattro piedi di diametro e d'un piede di grossezza,
e la femmo rotolare sulla torre detta del Tesoro; che ne apparve più
opportuna; poi attaccammo l'un dei capi della scala ad un cannone fa
cendola discendere pian piano giù per la torre, quindi vi attaccammo
la nostra muffola e vi passammo la corda lunga trecentosessanta piedi.
Io mi cinsi colla corda che avevam passato nella troclea e d'Alègre
l'andava sciogliendo mentr'io discendeva. Ciò malgrado ondeggiava per
l'aria ad ogni movimento. Il brivido cho cotesta sola idea fa scorrere
per l'ossa, può dar solo a divedere ciò ch'io dovetti provare in quell'or
ribile istante. Giunsi però, senza che verun sinistro ne sopravenisse
infino al fosso. D'Alègre tosto calò la valigia e tutti gli altri oggetti.
Per buona ventura mi abbattei in un rialto che dominava l'acqua,
ond'era pieno il fosso, ed ivi li deposi. Il mio compagno fece il mede
simo; ma egli ebbe un maggiore avvantaggio perchè io mi adoprava
con tutte le mie forze a tener fermo il capo della scala, ed egli non
vacillò. Giunti che fummo al basso ne dolea l'animo di non poter re
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 117

care con noi la nostra corda insieme cogli altri oggetti coi quali c'era
vamo procacciato lo scampo (1).
Non cadea la pioggia. Udimmo la scolta che andava su e giù ed
era lunge da noi circa quattro tese, laonde non potevamo salire sul
parapetto e fuggire attraverso al giardino del governatore. Deliberammo
adunque di porre in opera le nostre sbarre di ferro. Andammo diritti
verso il muro che separa il fosso della Bastiglia da quella della Porta
di Sant'Antonio e, senza por tempo in mezzo, ci accingemmo al lavoro.
Quivi era un picciol fosso largo circa una tesa ed avea un piede di
profondità, e ciò facea salir l'acqua. In qualsivoglia altra parte ne sa
ria salita fino all'anche; là v'eravamo immersi fino alle ascelle. Il ghiac
cio avea già da più giorni incominciato a rompersi e l'acque eran ri
piene di diacciuoli.
« Colà dentro restammo per ben nove ore. Il corpo era rifinito
dalla dura fatica, le membra assiderate. L'opera era incominciata, al
lorchè io vidi all'altezza di circa 12 piedi sopra il nostro capo avan
zarsi la gran scolta, la cui lanterna rischiarava il sito dove noi eravamo.
« Non ne rimanea più verun mezzo per non essere scoverti fuor
quello di fare un tonfo nell'acqua, e ne fu giocoforza rifarlo poi ogni qual
volta ricevevamo cotesta visita, lo che avveniva ad ogni mezz'ora. Dopo
nove ore di fatica e di spavento, dopo d'aver schiantate le pietre una ad
una, alla perfine eravam giunti a fare un buco largo abbastanza da
potervi passare, e questo in una muraglia grossa 4 piedi e mezzo; ed
entrambi ci trascinammo fuor di là.
» Le nostr'anime cominciavano ad abbandonarsi alla gioja, ma
corremmo in quella un rischio impreveduto e poco mancò che non vi
soccombessimo. Noi stavamo già per valicare il fosso di Sant'Antonio
e raggiungere la strada di Bercy. Avevamo percorso appena venticin
que passi, allorquando cademmo nell'acquedotto che stassi in mezzo e
avea dieci piè d'acqua al di sopra del nostro capo e due piè di melma:
non potevamo recarci sulla sponda dell'altro acquedotto, ch'è largo
soltanto sei piedi.
« D'Alègre si gittò tutto quanto addosso a me e mancò poco che
non mi facesse cadere. Se ciò fosse avvenuto, noi saremmo stati irremis
sibilmente perduti; poichè, non rimanendone più forze per rialzarci,
eravam dannati a perire entro a quella palude. Sentendomi afferrare,
io gli diedi un pugno violento così che lo costrinsi a lasciarmi, e nel
tempo istesso usciva fuori dell'acquedotto. Tuffai allora il mio braccio
nell'acqua, ghermi d'Alègre per la chioma e lo trassi verso di me,
quindi uscimmo dal fosso e, mentre scoccavano cinque ore, eravamo
già sulla strada maestra.

(1) Cotesti oggetti furono rinvenuti nel dì 15 di luglio, l'indomani della presa della Ba
stiglia. Le scale erano negli archivi insiem con un processo verbale che avea la data del
27 febbraio 1756 ed era firmato dal maggiore della Bastiglia e dal commissario Rochebrune
118 LATUDE

« Spinti da un medesimo impulso ci slanciammo l'uno nelle braccia


dell'altro tenendoci strettamente avvinti. Entrambi ci prostrammo a
terra, rendendo grazie all'Eterno che ne avea sottratti a cotanti guai
e tratti fuor da tanti pericoli. Compiuto cotesto sacro dovere, pensammo
tosto a mutare le nostre vesti, e ci accorgemmo ottimo avviso essere
stato quello di recare con noi una valigia, ove tenevamo in serbo
abiti asciutti. L'umido avea intirizzito le nostre membra. Accadde ciò
ch'io avea già preveduto. Il freddo si fece sentire più intenso che non
lo avessimo provato durante le nove ore consecutive passate nell'a
cqua e nel ghiaccio. Non potevamo più ne spogliarci, nè vestirci, se
non aiutandoci vicendevolmente.
» Salimmo alla fin fine in una vettura di noleggio e ci femmo tra
durre alla casa del signore di Silhouette, cancelliere di monsignor
duca d'Orleans, ch'io conoscea già da lunga pezza. Per nostra mala
ventura egli si era recato a Versaglia »
I fuggitivi trovarono un'asilo presso taluni loro amici della Lin
guadoca, poi partirono separatamente alla volta di Bruxelles. D'A
lègre vi giunse il primo e, arrestato immantinente dagli agenti
francesi, fu ricondotto in Francia: quindici anni dopo, Latude lo ri
trovò a Charenton. Egli era divenuto pazzo. Latude avea sfuggiti
nel Belgio i tranelli che gli aveano tesi i manutengoli della polizia
francese; ma di li a non molto fu arrestato anch'esso ad Amsterdam
e tradotto di bel nuovo alla Bastiglia coi ferri alle mani ed ai piedi.
Nell'anno 1764 venne trasferito a Vincennes, ove gli si fecero su
bire i più crudi trattamenti per ordine del signore di Sartine.
Poco tempo dapoi il governatore Guyonnet lo-fè trarre dal car
cere, gli assegnò una stanza e gli concesse di fare una passeggiata di
due ore per ciascun giorno nei giardini del castello.
« Cotesto favore concessomi, (prosegue egli stesso nelle sue me
morie) era prezioso per me, avvegnachè ei m'aprisse la mente a me
ditare di bel nuovo una fuga. Durante otto mesi non potei neppure
sognarla. Era sorvegliato in guisa tale ch'ogni progetto saria tornate
vano. Non potea lusingarmi d'ottenere la mia libertà se non dal caso.
Sorse uno strano evento che io non avrei potuto prevedere. Era
il dì 23 novembre 1765. Il cielo era sereno. Tutto ad un tratto
sorge una folta nebbia. L'idea d'una fuga spunta di bel nuovo nel mio
pensiero. Ma in qual guisa avrei potuto allora io sottrarmi a' miei
custodi? Avea due sentinelle a lato ed un sergente che non mi lascia
vano neppure un minuto secondo, senza contare le scolte che ne chiu
devano tutti i passi. Io non avea modo di combatterle, ne poteva per
inganno sfuggir di mano a cotestoro, cui era strettamente ingiunto di
accompagnarmi e di vegliar sui miei passi. Mi volgo al sergente
tutto ad un tratto e l'interrogo intorno alla nebbia ch'era sorta, di
cendo: Che ve ne pare di codesto tempo?
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 119

« Brutto, o signore! Ed io gli rispondo con voce pacata e con


piglio sereno: a me sembra un tempo opportuno per fuggirmene, e
ciò dicendo allontano da me co'due gomiti le due sentinelle che mi sta
vansi ai fianchi, dò un'urto violentissimo al sergente e fuggo a
volo.
« Era passato già innanzi alla terza sentinella, che non se ne ac
corse, se non quando io m'era allontanato. Tutte quante le scolte si
radunano, e s'ode a gridar dovunque: ferma! ferma!
« Io non poteva fuggire. M'assalse tosto il pensiero (profit
« tando di codesta circostanza per aprirmi una via allo scampo e
« farmi largo tra la folla) di gridar più forte d'ogni altro: Ferma!
« Ferma / Dalli / Dalli ! Al ladro ! Al ladr. Ed accennava con mano,
« come se il ladro fosse stato dinanzi a me. Tratti cosi in inganno
« per uno stratagemma, tutti si dànno ad inseguire quel fuggente che
« io fingeva di accennare. Io correva innanzi a tutti, nè mi rimaneva
« a fare che un sol passo. Era giunto all'estremità della corte reale,
« nè v'era più che una sentinella; ma era malagevole cosa lo ingan
« narla, perchè il primo che le si fosse presentato, doveva tornarle so
« spetto, ed era suo dovere di arrestarlo. Il mio calcolo non era
« fallace. Udito ch'ell'ebbe il primo grido, si mise attraverso al pas
« saggio ch'era colà angusto. Per mia disavventura, l'uomo che faceva
« la scolta nomavasi Chenu, e mi conosceva. Giungo colà, ei mi con
« tende il passo, e m'intima la resa, minacciando di traversarmi da
« parte a parte colla baionetta.
« Chenu! Gli diss'io, voi mi conoscete. Il dover vostro è quello di
arrestarmi, non già d'uccidermi. Rallentai la corsa e stetti dinanzi
a lui in aria pacata, poscia mi lanciai sul suo fucile e glielo strappai
di mano con tale violenza, che all'urto inopinato ei stramazzò. Io gli
saltai sopra, lanciai il fucile a ben dieci passi di distanza, affinch'egli non
fosse in tempo di far fuoco sopra di me, e rimasi libero di bel nuovo.
Rimasi nel parco, ove attesi la notte per entrar in Parigi. »
Ricovratosi in casa di due zitelle colle quali erasi posto in corri
spondenza dall'alto delle torri della Bastiglia, e che s'erano adoperate
invano per favorire i suoi disegni, distribuendo le lettere che aveva
loro gittate, non trovò altro mezzo per assicurare la sua libertà se non
quello di scrivere al signor di Sartine ponendosi sotto ai suoi auspici.
Latude, codest'uomo si attivo e sagace, che sotto ai chiavistelli sapea
calcolare e prevedere tutti gli accidenti e profittare con tanta destrezza
e con tanto coraggio di tutte le occasioni che gli si paravano dinanzi,
tutte queste rare doti non le trovava più allorquando usciva in
libertà.
Non contento d'aver richiamato sovra di lui l'attenzione del signor
di Sartine, che già se ne stava all'erta, fuggiasco e percosso dal bando
recavasi a Fontainebleau per vedere i signori Choiseul e de la Vail
120 LATUDE

lière, ambidue ministri, ad invocare il loro patrocinio. Ei fu arrestato


e ricondotto a Vincennes in un carcere chiamato il buco nero. Nel
l'anno 1775 venne trasferito a Charenton e posto in libertà nel 1777,
con lettera di suggello, onde veniva esigliato a Montagnac, sua terra
nativa. La sua partenza fu per buona pezza procrastinata, ma alla fin
fine parti. A cinquanta leghe fuor di Parigi fu di bel nuovo arrestato
e tradotto a Bicêtre. Ei contava allora cinquantatre anni.
Dai ventiquattro anni in poi aveva trascorsi ben pochi giorni fuor
dal carcere.
Nel 1784 la signora Necker s'adoprò a suo favore e il fece mettere
in libertà.

--
XXIII

C AS A N O V A

(1756)

Il famoso avventuriere veneziano Giacomo Casanova, fratello del


celebre pittore di questo nome, ha lasciato delle Memorie dettate in
francese nella sua vecchiaia, in un castello di Germania in cui
aveva trovato asilo, presso un ricco signore, dopo una vita tempe
stosa e piena de' più strani accidenti. Quelle Memorie vennero tradotte
in più lingue, per esteso o in compendio. E uno dei libri più curiosi e
più piacevoli a leggersi che si siano mai pubblicati, ma non si debbono
mettere nelle mani di tutti. Di bella e prestante persona, d'ingegno
non straordinario ma neppur comune, di vivissimo spirito, Casanovafu
uomo che sapeva divertir le brigate, condurreun intrigo e specialmente
sedur le donne. Il numero delle sue relazioni amorose fu stragrande:
anche supponendo che abbia alquanto esagerato, come avviene a così
fatti narratori, si debbe dire ch'egli è stato uno degli uomini che hanno
più goduto dei piaceri della vita. Intrigante, audacissimo, poco onesto
al gioco, vero cavaliere d'industria, costui conobbe tutte le vicende
della fortuna: fu spesso ben proveduto di danaro , spesso obbligato a
campare sottilmente, nella sua vecchiaia povero e ridotto per vivere a
chieder l'ospitalità a un ricco straniero. Percorse le principali città
dell'Europa, per tutto accontandosi Uoi più celebri personaggi del tempo;
onde il suo libro abbonda di particolari curiosissimi, di aneddoti im
portanti. Lo scopo che quest'uomo si era prefisso nella vita, era di go
dere; e di godimenti del mondo, di abbracciamenti delle donne, di
lautezze della vita ebbe a sazietà.
Ma ci furono pure delle epoche tristi per lui; tra queste la
sua prigionia nelle carceri della inquisizione di Stato a Venezia. Aveva
avuto contemporaneamente relazioni d'amore con due belle giovani
che stavano in un convento di Murano. Una di queste era stata sedotta
122 CASANOVA

e chiusa dal padre di lei, come punizione, in quel monastero. L'altra


apparteneva ad una delle più illustri famiglie dell'aristocrazia veneziana;
chiamavasi Marietta Memmo: era stata sedotta, più con splendidi doni che
per amore, dal celebre abate Bernis, allora ambasciatore di Francia a
Venezia. Essa era, come l'annica, chiusa in quel convento, per ordine della
sua famiglia. Quello che c'è di più strano, si è che le due ragazze trova
vano modo di uscir notte tempo dal monastero e passare delle ore in
braccio dei loro amanti, in una comunità strana ed immoralissima. Il
luogo di ritrovo era il casino che l'ambasciatore francese aveva a Ve
nezia, secondo il costume dei ricchi dissoluti di quei tempi. Gl'inqui
sitori di Stato seppero queste relazioni di Casanova col Bernis: era al
lora proibito non solo ai nobili, ma anche ai semplici cittadini vene
ziani, di aver da fare cogli ambasciatori stranieri: la politica della re
pubblica era in questo sospettosa, meticolosa e crudele. È però da credere
che nei simposi, nelle orgie del casino, il celebre abate-ministro e il
famoso avventuriere, in braccio alle due fuggitive dal convento di Mu
rano, poco o nulla si occupassero di politica. A ogni modo Casanova
aveva fatto gravissimo errore nell'accontarsi col ministro francese, er
rore che pagò assai caro. La famiglia Memmo era accanita contro di
lui e soffiava nel fuoco. Egli si era inoltre reso sospetto per i suoi studii
di magia, mezzo di scroccar denaro dai gonzi. Finalmente tra i lettera
tuzzi di quel tempo avea pure fieri nemici, per esempio, l'abate Chiari
e i suoi fautori. La procella, che da lungo tempo romoreggiava, alla
fin fine scoppiò, e Casanova fu imprigionato e chiuso ai Piombi. Ecco
com'egli stesso narra questa parte della sua vita. Compendiamo il
suo racconto, eliminando quello che non ha rapporto diretto colla sua
fuga.
» Il 25 luglio 1755, un quarto d'ora prima del levar del sole,
tornando al mio casino, trovai la porta aperta, tutti i pigionali in piedi
e nella più gran confusione.
« L'agente superiore della polizia, conoseiuto sotto il nome di Messer
grande, era venuto durante la notte a forzar la porta ed era penetrato
con una dozzina di sbirri nel mio domicilio. Dopo aver fatto un'esatta
perquisizione in tutta la casa, disse che sapeva di certa fonte, che io
aveva ricevuto il giorno prima una cassa di sale, articolo di contrab
bando, sottoposto allora a dazi enormi.
» Questo procedere inaudito eccitò la mia collera e la mia in
dignazione, e giurai di ottenere una piena soddisfazione. »
Casanova ricorse per consiglio e per aiuto a un suo protettore, il
vecchio senatore Bragadin, fl quale fu spaventato da questo fatto; gli
disse che per una cassa di sale non si sarebbe fatto tanto strepito, che
gatta ci covava. Egli era stato otto mesi membro dell'Inquisizione di
stato e conosceva la maniera di procedere di quel terribile tribunale.
Lo consigliò a partire immediatamente per Firenze, a mettersi in salvo.
FUGHE ED EVASIONl CELEBRI 123

Sventuratamente Casanova non volle ascoltarlo, e andò a passar la


notte in casa sua.
» La mattina seguente, allo spuntar del giorno, Messer grande entrò
a un tratto nella mia camera. Guardarlo con un'aria di sorpresa e sen
tirmi domandare seccamente se io era Giacomo Casanova, fu un mo
mento. Appena ebbi risposto affermativamente a questa domanda, egli
m'intima di consegnargli tutte le mie carte, e mi ordina di vestirmi
e seguirlo. Gli domandai allora in virtù di quale autorità egli agiva:
V
mi rispose, in nome del tribunale dell'Inquisizione di stato.
» Mi furono allor sequestrate tutte le carte e tutti i libri che pos
sedeva, tra i quali dei trattati di magia e di cabala, la Clavicula Sa
lomonis, il Zesor-Ben, ecc.
« Mentre il capo della polizia frugava nei libri e nelle carte, io
mi vestiva macchinalmente, senza affrettarmi troppo, nè troppo tardare.
Mi feci far la barba e pettinare; mi misi una camicia coi manichini di
merletto e un bell'abito di seta. Messer grande intanto non diceva, pa
rola; e i suoi occhi, che non mi lasciavano un momento, non esprime
vano la più piccola sorpresa nel vedere che io mi vestiva come dovessi
andar a nozze.
« Quando uscii dalla mia camera, fui spaventato nel vedere trenta
o quaranta sbirri a basso della scala. Mi aveano fatto l'onore di cre
derli necessari per impadronirsi della mia persona, mentre due avreb
bero sicuramente bastato.
» Messer grande mi fece montare in una gondola e mi sedette
vicino: tenne quattro dei suoi uomini e rimandò gli altri. Mi condusse
in casa sua, e dopo avermi offerto del caffè, che io non accettai, mi
chiuse in una camera: vi restai quattro ore, durante le quali non feci
che dormire. Ma al momento in cui suonavano le tre, vidi entrare il
capo degli sbirri, che mi dichiarò come avesse ricevuto l'ordine di con
durmi sotto i Piombi: lo seguii in silenzio. Montammo in gondola, e
dopo aver fatto una moltitudine di giri nei piccoli canali, entrammo
nel Canal grande e scendemmo sulla riva delle prigioni. Saliti alcuni
scalini, arriviamo sopra un ponte alto e chiuso, gettato sul canale
chiamato Rio di Palazzo. Questo ponte (detto volgarmente dei Sospiri)
congiunge le prigioni col palazzo ducale. Percorriamo una galleria, e
dopo aver traversato più stanze, entriamo in un gabinetto, dove fui
presentato a un uomo vestito da patrizio. Quando m'ebbe guardato,
disse: sì, è lui: mettetelo in prigione. Era il segretario degl'Inquisitori
di stato, Domenico Cavalli,
Fui consegnato all'ispettore incaricato della sorveglianza dei
Piombi. Mi fecero montare un'altra scala, e due sbirri accompagnavano
il mio conduttore. Dopo aver traversato tre lunghi corridoi, arrivai in
una soffitta molto sporca, che poteva avere sei pertiche di lunghezza
sopra due di larghezza, e ch'era illuminata da una finestra aperta nel
12 CASANOVA

tetto. Credeva che fosse la mia prigione, ma m'ingannava. Il carceriere,


armato di una gran chiave, aperse una porta pesante tutta foderata di
ferro: poteva avere quattro piedi e mezzo d'altezza, e nel mezzo c'era
un'apertura di otto pollici quadrati. Entrando, guardai con attenzione
una curiosa macchina di ferro, piantata nel muro e somigliante ad un
ferro da cavallo. Il carceriere, osservando la mia sorpresa, mi disse
sorridendo: Il signore non s'imagina probabilmente a che cosa possa
servire quella macchina: glielo dirò io. Quando gl'illustrissimi signori
ordinano di strangolare un prigioniero, lo si fa sedere sopra uno sga
bello, col dorso voltato verso questo collare di ferro, che gli circonda la
metà del collo. Si avvolge intorno un cordone di seta, i cui due capi
sono accomandati a una piccola carrucola, che si gira finchè il reoabbia
reso l'anima a Dio. Il suo confessore non lo lascia fin che non sia proprio
morto. - Ecco veramente una bella invenzione!. E siete voi senza
dubbio che avete l'onore di girar la carrucola? – Il carceriere non ri
spose a questa domanda.
» La porta della prigione si chiuse dietro di me subito che vi fui
entrato. Il carceriere mi domandò, traverso l'apertura della porta, che
cosa voleva da mangiare: risposi che non vi aveva ancora pensato. A
queste parole si allontanò chiudendo accuratamente tutte le porte una
dietro l'altra.
Oppresso, avvilito , appoggiai il gomito alla griglia della fine
stra e cominciai a pensare al mio destino. Sei sbarre di ferro, ciascuna
delle quali della grossezza di un pollice, che s'incrocicchiavano l'una
coll'altra e formavano in questo modo sedici piccoli buchi di cinque
pollici, attraversavano l'apertura di due piedi quadrati, per cui la luce
entrava nel mio carcere- Tuttavia sarebbe stato abbastanza illuminato
se non fosse stata una trave di un piede e mezzo di grossezza, che ci
era di traverso. Quando ebbi fatto il giro della camera a tentoni e
colla precauzione di curvarmi perchè le mura non erano alte abbastanza
da potermi tener diritto, scopersi che dove la quarta parete si adden
trava, doveva esserci un'alcova in cui era certamente posto il mio letto.
C'era uno sfondo infatti, ma non c'erano nè letto, nè tavola, nè sedie.
Un'asse di circa un mezzo piede di larghezza mi servì per metterci il
mio mantello di seta, il mio abito di gala che aveva indossato cosi
male a proposito ed il mio cappello con piume bianche. Il calore, che
era insopportabile, mi fece avvicinare macchinalmente all' inferriata,
a cui poteva almeno appoggiarmi. Mi era impossibile di scorgere la
finestra della soffitta; ma, per mezzo del chiaro che vi entrava, vidi dei
sorci grossi come conigli che trottavano a dritta e a sinistra. Tal era
l'audacia di quegli orribili animali, che spesso si avvicinavano alla mia
porta... Non tardai a cadere in una profonda meditazione, ed appog
giando le braccia incrocicchiate alla griglia, rimasi muto ed immobile.
« Il rumore degli orologi che sonavano ventun ora, mi svegliò dal
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 125

mio assopimento e cominciai a spaventarmi di non veder comparire


anima viva. Non mi portavano nè letto, nè sedia; nemmeno pane e
vino. E' vero ch'io non aveva fame, ma questo non si sapeva. Sentivo
nella mia bocca un'amarezza che non aveva mai provato. Speravo tut
tavia che qualcheduno venisse prima di sera; ma tutto era silenzio in
torno a me, e il mio furore scoppiò, quando sentii sonar le ventiquattro.
Mi misi a urlare,a batter i piedi, a bestemmiare, a gridare con tutte le
mie forze, in una parola a far tutto lo strepito possibile. Un'ora passò
in questa maniera in mezzo alla più violenta agitazione, senza che
comparisse nessuno, senza che un solo indizio potesse farmi sperare di
esser stato sentito. Circondato da dense tenebre, chiusi la griglia,affine
di allontanare i sorci e, dopo avermi legato una pezzola intorno alla
testa, mi gettai disteso per terra.
» Mi sembrava strano che, quando anche si fosse decisa la mia morte,
mi avessero così affatto dimenticato. Pensava che delitto potesse avermi
attirato quel cas igo, ma le mie riflessioni non durarono molto:
non riuscii a scoprire in me il minimo fallo. Era vero che io era un
buontempone, un uomo di piacere, che non mi dava pensiero di ce
lare questa mia maniera di essere e di agire, che per tutto io cercava
con ardore le gioie della vita; ma non c'è nulla in tutto questo di cui
si potesse ragionevolmente fare un motivo di accusa contro di me; ep
pure io mi vedeva trattato come un gran scellerato. I miei lettori si
imagineranno facilmente tutto ciò che m'ispiravano l'odio, il furore e
la disperazione contro un despotismo sotto il quale simili atti tirannici
erano frequenti. In questa spaventevole situazione, malgrado la violenza
della mia collera e la durezza del pavimento, presi sonno. Il mio corpo
aveva bisogno di riposo; e l'uomo, quando è giovane, si abitua a tutto.
» L'orologio che sonava mezzanotte mi tolse a quel dolce riposo.
Che penoso svegliarsi è quello che succede alle illusioni del sonno! Po
teva appena credere di aver passato tre ore di seguito interamente li
bero da ogni sentimento triste. Senza rialzarmi e sempre sdraiato sul
fianco sinistro, stesi il mio braccio diritto per prendere la mia pezzuola
verso il luogo ove mi pareva di averla lasciata. Ma,oh Dio! trovai un'al
tra mano rigida e fredda come il ghiaccio. Un fremito d'orrore fermò
il sangue nelle mie vene e mi fece rizzare i capelli. L'anima mia non
era stata mai in preda a un tale spavento: restai più di cinque minuti
in una completa immobilità, non dando il più piccolo segno di vita.
Quando fui un poco tornato in me stesso, pensai che la mano che avea
stretto, non era forse che una vana illusione della mia fantasia in de
lirio. Mi persuasi infatti che questo era vero, e stesi di nuovo il braccio
da quella parte medesima. Ma trovai ancora la stessa mano; che strinsi
mettendo un grido d'orrore: la lasciai tornando ancora a venir meno.
Pensai allora che durante la notte fosse stato portato nella carcere e
posto vicino a me un cadavere. Forse era il corpo di un povero innocente,
126 , CASANOVA

di uno dei miei amici; lo aveano strangolato e messo vicino a me per


darmi, quando mi svegliassi, un'imagine della sorte che mi era riser
bata. Questo pensiero mi gettò in un'agitazione furiosa. Per la terza
volta stesi il braccio verso quella mano gelata, la presi e nel medesimo
tempo cercava di alzarmi per trarre il cadavere verso dl me ed accer
tarmi di quel fatto orribile. Ma cercando d'appoggiarmi sul mio gomito
sinistro, quella mano fredda cominciò a muoversi, e alla fin fine mi
persuasi che ciò ch'io teneva colla mano diritta non poteva esser altro che
la sinistra. Questa aveva perduto calore e senso ed era affatto intirizzita
durante il mio sonno, sotto il peso del mio corpo.
« Verso le nove lo strepito dei catenacci posti ai differenti corridoi
che conducevano alla mia prigione, interruppe il tetro silenzio di quel
l'inferno imaginato dai vivi, e vidi arrivare il carceriere dinanzi alla
mia griglia. Mi domandò se mi avesse lasciato abbastanza tempo per
riflettere a ciò che doveva mangiare. Gli dissi di portarmi minestra di
riso, bollito, arrosto, acqua e vino. Tornò un quarto d'ora dopo per
dirmi ch'era stupito come non avessi chiesto anche un letto e dei mo
bili, dicendo che, se io credeva di dover passare in prigione una sola
notte, m'ingannava assai.
« - Bene, risposi: portatemi tutto quello di cui credete ch'io possa
aver bisogno.
« – Ma dove andrò a prender tutta questa roba? Ecco carta e la
pis: scrivete il nome e l'indirizzo della persona cui mi devo indirizzare.
« Gl'indicai allora il luogo ove doveva andare a prender un letto,
della biancheria, una vesta da camera, delle pantofole, un berretto da
notte, una sedia a bracciuoli, una tavola, un calamaio, uno specchio,
un rasoio, dei fazzoletti e dei libri, come pure altre carte che mi erano
state tolte dal messer grande. Mi rispose che bisognava cancellare dalla
nota i libri, il calamaio, lo specchio e i rasoi, oggetti severamente
proibiti ai Piombi; poi mi domandò del danaro per comprarmi il pranzo:
gli detti tre zecchini, che formavano tutta la mia fortuna.
« Quando il carceriere tornò a portarmi i mobili. e il pranzo, mi
disse: indicatemi,che cosa volete mangiare domani, perchè io non posso
venir a trovarvi altro che una volta al giorno; Sua Eccellenza il secre
tario vi fa sapere che riceverete dei libri convenienti alla vostra situa
zione: quanto a quelli che avete domandati, sono proibiti.
« - Ringraziatelo di avermi fatto dare una prigione per me solo.
« - Farò la vostra commissione. Ma fate male di scherzare.
« Il carceriere aveva ragione: me ne accorsi pochi giorni dopo.
Imparai per mia propria esperienza, che un uomo che si trova solo
in una prigione, senza poter occuparsi in nulla, in un luogo quasi af
fatto oscuro, dove non vede altro essere vivo che l'uomo il quale gli
porta una volta al giorno da mangiare, dove non può nemmeno star
a camminar diritto, è il più infelice dei mortali. Quando prova viva
FUGIE ED EVASIONI CELEBRI 197

mente il bisogno di una società qualunque, preferirebbe fin l'inferno


al luogo ove abita. Quanto a me, venni a tal punto che avrei ricevuto
con gioia la compagnia di un assassino, di un ammalato, di un orso.
La solitudine nei Piombi di Venezia produce la disperazione; ma queste
son cose che possono capir solamente coloro che le hanno provate.
« Nove giorni dopo la mia carcerazione, io non avevo più danaro.
Lorenzo, il mio carceriere, avendomi domandato a chi doveva indiriz
zarsi per farmene avere, risposi laconicamente: a nessuno. Il giorno
seguente mi annunziò che il tribunale avea fissato la mia spesa a cin
quanta soldi al giorno. Lorenzo era incaricato di ricevere in nome mio
quel danaro, d'impiegarlo per i miei bisogni e di rendermene conto
ogni mese; mi era permesso di disporre dei risparmi che avrei potuto
fare. Settantacinque lire al mese erano troppe per i miei bisogni, perchè
io era appena capace di prender qualche nutrimento. Il calore insop
portabile dalla stagione e sopratutto la fame che mi aveano fatto provar
per tanto tempo, mi avevano indebolito. La terribile canicola era ar
rivata, e i raggi del sole cadendo perpendicolarmente sul tetto di
piombo della mia prigione, ne aveano cangiato l'atmosfera in una vera
fornace. Io restava affatto nudo tutto il giorno; e il sudore che da tutte
le parti usciva dal mio corpo, cadeva a dritta e a sinistra della mia
sedia. Verso il medesimo tempo fui attaccato da coliche abdominali,
da cui non ho potuto mai liberarmi ».
Il prigioniero fu assalito dalla febbre ed ebbe circa un mese di
malattia; si ristabili al principio di settembre.
« Ogni sera io andava a letto con una specie di sicurezza che la
mattina seguente verrebbero ad annunciarmi ch'era libero. Vedendo
finalmente che tutte le mie speranze andavano a vuoto, mi venne in mente
che si fosse stabilita un'epoca fissa in cui sarebbe finita la mia deten
zione e, che quel giorno dovesse essere il primo d'ottobre, giorno in cui
entravano in funzione i nuovi inquisitori. M'imaginai che il tribunale
avesse riconosciuto nel medesimo tempo la mia innocenza e i torti di
cui si era reso colpevoli verso di me e che mi tenesse in prigione
solamente per la forma e per amore della loro reputazione, finalmente
che mi farebbe mettere in libertà tosto che cessassero le funzioni dei
membri. In seguito a queste riflessioni mi sentiva disposto perdo
nar loro e a dimenticare l'ingiuria che mi avevano fatto. Mi era
impossibile di pensare che avessero sottoscritto la mia sentenza e mi
avessero condannato senza intimarmela, anzi senza neppure farmi ri
COn0Scere il mio delitto.
« Tuttavia questo ragionamento, rispetto all'inquisizione di Stato, era
falso. Ogni cittadino è colpevole solamente per questo che il tribunale lo
condanna come tale. Allora che serve di parlargli? Che serve di comuni
cargli la sua condanna? La sua confessione è superflua: bisogna lasciargli
sempre la speranza. Il tribunale solo giudica e condanna. Il colpevole
28 CASANOVA

è, agli occhi dei giudici, una macchina inutife, e la cui presenza non
è per nulla necessaria.
« Passai la notte dell'ultimo giorno di settembre senza poter chiuder
occhio: ardeva d'impazienza di veder arrivare il giorno seguente, per
suaso che, spirando in esso i poteri degli uomini spietati che mi ave
vano gettato nel carcere, doveva pure uscirne quel giorno stesso. Arrivò
alla fine: venne Lorenzo, come per solito, a portarmi la mia ra
zione, ma senza annunziarmi nulla di nuovo. Passai cinque o sei giorni
nella più violenta disperazione, e cominciai a credere che, per motivi
che mi era impossibile di spiegare, mi avevano condannato ad una
prigionia perpetua. Quest'orribile pensiero mi faceva però sorridere:
sapeva bene che non tarderei a fare dei tentativi, a rischiar tutto, la
vita stessa, per ricuperare la mia libertà. Se mi avessero ucciso, avrei
egualmente raggiunto il mio scopo; non sarei più stato prigioniero.
» Deliberata morte ferocior. Risolvetti verso il principio di novembre
di usar la violenza per uscire da un luogo ove per violenza era rite
nuto. Questo pensiero fu d'allora il solo che mi occupasse. Incominciai
a riflettere ai modi propri a compire un'impresa tentata già senza
dubbio anche prima di me, ma in cui nessuno era riuscito. Per ben
comprendere quali potevano essere i mezzi di fuggire da una prigione
come a mia, bisogna prima fare un'esatta descrizione dei luoghi.
» Le segrete destinate ai prigionieri di Stato sono poste sotto il
tetto del palazzo ducale, tetto che non è formato nè di ardesia nè di
tegole, ma di lamine di piombo di due piedi quadrati con una linea
di grossezza; quindi proviene il nome di Piombi che si dà a quelle
prigioni. Non si arriva che per la porta del palazzo, ovvero per le lun
ghe gallerie, che mi aveano fatto traversare; e salendo si passa vicino
alla sala del consiglio degl'Inquisitori. Il secretario solo ne ha le chiavi;
e il capocustode debbe consegnargliele ogni mattina dopo aver fatto il
suo giro delle prigioni. Sono state prese queste disposizioni, perchè il
Consiglio dei dieci si raccoglie più tardi in un locale vicino chiamato
Bussola, per impedire ai carcerieri di passare e di ripassare nel
luogo dove si recano le persone che hanno qualche cosa da fare con
quei magistrati.
» Le prigioni occupano i due lati opposti dell'edifizio: – tre di esse
e la mia era di questo numero – sono alll'ovest, e quattro all'est. Da
quel lato la grondaia corre lungo la corte interna, mentre dall'altro
segue il canale chiamato rio di palazzo: le carceri sono chiare da questa
parte, e vi si può star ritto. Non è così dalla parte dov'era io; queste
prigioni si chiamano trave, per cagione appunto della trave che copre
le finestre. ll pavimento della mia prigione doveva essere il soffitto
della sala degl'inquisitori; i quali si riuniscouo ordinariamente la sera,
dopo la seduta del Consiglio dei dieci, di cui formano parte.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 8


FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 129

» Io sapeva tutto ciò esattamente, e questa conoscenza delle loca


lità mi servi per mettermi in caso di formare il solo piano di evasione
che potesse riuscire. Consisteva nello scavare il pavimento della mia
prigione; ma era necessario per questo di aver degli arnesi appropriati;

palbi scende per un buco nel soffitto enti o il carcere di Casanova: stupore di Sorodac
che aspettava di veder scendere un angelo. PA G. l56.

e come procurarmene in un luogo in cui ogni comunicazione con un


terzo è impossibile? Non si permettevano nè le visite nè le lettere:
non aveva danaro per corrompere i carcerieri. Supponendo anche che
il capocustode e i suoi secondini avessero voluto lasciarsi strango
30 CASANOVA

lare, io non aveva armi. Inoltre ne restava sempre uno a guardia


della galleria chiusa: per uscire i carcerieri stessi dovevano dare la
parola d'ordine, senza la quale il secondino non avrebbe aperto la
porta.
» La fuga era dunque il mio solo mezzo di salvamento, e tutti i
miei pensieri si volsero a questa idea. Da lungo tempo era convinto, che
quando un uomo si propone uno scopo e vi attende unicamente, finisce
col raggiungerlo, malgrado tutti gli ostacoli, purchè sia giovane e
sappia cogliere l'istante favorevole per eseguire la sua intrapresa; perchè,
quando l'uomo ha raggiunto l'età che la fortuna cessa ordinariamente
di favorire, non riesce mai a nulla,
» Ebbi da Lorenzo il permesso di passeggiare ogni giorno per una
mezz'ora nella galleria. La mia salute guadagnò molto a questo eser
cizio, il quale favori pure il mio piano d'evasione, che maturai sola
mente undici settimane dopo.
» Trovai all'estremità di quel magazzino di sorci alcuni vecchi
mobili e un mucchio di vecchie carte disperse per terra a destra e
a sinistra di due grandi casse. Ne presi alcuni fogli per divertirmi a
leggerli. Erano delle carte di procedura criminale, la cui lettura non
mancava d'interesse, e che al loro tempo dovevano essere state nascoste,
racchiudendo segreti di alta importanza. Trovai fra gli altri mobili
ed utensili uno scaldaletto, una stufa, una paletta e delle molle, un
candeliere, un vaso di terra e una siringa di stagno. Era da presu
mere che un prigioniero avesse avuto una volta il permesso di servirsi
di tutti quegli oggetti. Osservai inoltre una sbarra di ferro grossa
quanto il mio pollice e lunga un piede e mezzo. Ma non presi nulla:
non era ancora venuto il momento di approfittare della mia scoperta.
» Trovai inoltre in una delle casse della carta bianca e della scritta,
del cartone, delle penne d'oca e dello spago: l'altra cassa era chiusa.
Un pezzo di marmo nero e pulito, di un pollice di grossezza, sei di
lunghezza e tre di larghezza, eccitò la mia attenzione. Lo portai via e
lo nascosi nella prigione sotto le mie camicie.
» Il primo gennaio 1756 ricevetti un regalo per il capo d'anno.
Lorenzo mi portò una bella veste da camera foderata di pelle di volpe,
una coperta di seta e di cotone, un sacco foderato di pelle d'orso per
mettervi i piedi, giacchè di estate si soffocava nella mia prigione, d'in
verno vi si gelava. Lorenzo mi fece sapere che io potevo ogni mese
disporre di sei zecchini di più e comprar con questo danaro dei libri
e dei giornali. Aggiunse che il presente veniva dal mio protettore, il
nobile Bragadin: mi raccontò che questi era andato a far visita ai tre
Inquisitori, che si era gettato ai loro piedi, che li aveva scongiurati
piangendo di permettere ch'egli mi desse una prova del suo attacca
mento, seppure io era ancora nel numero dei vivi. Indicai i libri che
volevo avere.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 131

» Passeggiando una bella mattina, nella soffitta che era dinanzi


alla mia prigione, mi venne veduta di nuovo la sbarra di ferro ch'era
per terra e di cui ho già parlato. Mi cadde in mente che sarebbe pos
sibile di farne un'arma offensiva e difensiva; la presi, la nascosi nei
miei vestiti e la portai meco nella prigione. Esaminai nel medesimo
tempo il pezzo di marmo che aveva prima nascosto tra i miei effetti e
riconobbi che era una pietra da affilare. Dopo averla provata colla mia
sbarra di ferro, pensai a farmi di questa un'arma coll'aiuto di quella
pietra: sventuratamente mancavo di tutti gli oggetti necessari per
questo. Tuttavia gli ostacoli che avea da vincere, accrebbero il mio ar
dore. Mi bisognava lavorare in una oscurità quasi completa, tenendo
la pietra con una mano, e per mancanza d'olio bagnandola colla mia
saliva. Impiegai quindici giorni di un lavoro assiduo e non interrotto
per cangiare la mia sbarra in uno stilo ottagono e tale che il migliore
armaiuolo non avrebbe senza dubbio potuto riuscire a farne uno mi
gliore. E difficile di farsi un'idea della noia e della pazienza che mi
costò questo lavoro. Poteva appena muovere il braccio diritto : pa
reva che avessi la spalla slogata. La mano sinistra formava una gran
bolla: tuttavia non lasciai il mio lavoro prima di averlo interamente
finito. Superbo di questo capolavoro d'industria, pensai subito a na
sconderlo in modo che non fosse trovato neppure in una perquisizione.
Lo misi dunque in fondo del mio pagliericcio: era impossibile di tro
varlo, chi non avesse saputo che ci doveva essere. In questo modo il
cielo mi fornì un soccorso importante per un'evasione, la quale se non
è miracolosa, è almeno sorprendente.
» Dopo quattro giorni di mature riflessioni sull'uso che farei del
mio stilo lungo venti pollici, mi persuasi che non mi restava altro
mezzo di fuga che di scavare un buco sotto il mio letto nel pavimento
del carcere.
» Sapeva che al disotto doveva esserci la stanza in cui aveva ve
duto Cavalli, che questa stanza era aperta ogni mattina e che, quando
l'apertura fosse fatta, potrei calarmi dentro per mezzo di una corda
fatta colle mie lenzuola e attaccata ad un'estremità al mio letto. Na
scondendomi poi sotto la tavola del tribunale, scapperei subito che si
aprisse la porta: sperava di mettermi in salvo prima di essere inse
guito, perchè, anche nel caso che Lorenzo avesse lasciato uno sbirro
in sentinella in quella sala, ciò non mi avrebbe sgomentato; l'avrei uc
ciso a colpi di pugnale. Si vede che io aveva preveduto tntto. Tuttavia
era possibile che il pavimento fosse doppio, anche triplo e per traver
sarlo mi ci volessero più mesi di lavoro. Ma allora come impedire che
si spazzasse la mia prigione durante un tempo così lungo?. Spazzandola
si sarebbe trovato il buco nel pavimento. Opponendomi a ciò, avrei
destato dei sospetti, perchè sino allora io aveva sempre insistito che
fosse pulito spesso affine di distrugger gl'insetti.
132 CASANOVA

» Tuttavia proibi che si spazzasse e senza dire perchè. Pochi giorni


dopo Lorenzo volle sapere per qual motivo io non volessi: gli risposi
che questo produceva molta polvere, e faceva male ai miei polmoni.
Mi fece osservare che in questo caso si poteva bagnare la stanza; ma
io insistetti ancora di più, dicendo che l'umidità poteva farmi sputar
sangue.
» Una settimana dopo ordinò che si spazzasse la camera e che il
letto fosse portato fuori; entrò egli stesso con un lume, col pretesto
di far chiaro al secondino che spazzava. Vidi bene che la sola diffidenza
aveva provocato quest'ordine, ma finsi di essere affatto indifferente.
» Il giorno dopo aspettai Lorenzo in letto, dopo di aver avuto
cura di riempiere la mia pezzuola di macchie di sangue proveniente
da un taglio che mi feci apposta al pollice. – Ho tossito così forte, gli
dissi, che mi si è rotta una vena nel petto. Vedete quanto sangue ho
buttato fuori; fate venire il medico. – Questi arrivò alcuni momenti
dopo, mi fece cavar sangue e mi ordinò una pozione calmante. Gli
dichiarai che Lorenzo era causa di quello che m'era succeduto, perchè
aveva voluto assolutamente far spazzare la stanza. Il medico gli fece
dei rimproveri per questo e cominciò a raccontarmi come un giovane
parrucchiere era morto in conseguenza d'una malattia cagionata dalla
polvere che gli era entrata nei polmoni. L'aneddoto non mi fece per
poco scoppiar dalle risa, ma mi contenni. Quando anche il buon dot
tore fosse stato d'accordo meco, non avrebhe potuto meglio secondare
i miei desideri. Lorenzo rispose che aveva creduto rendermi un ser
vigio, e che d'allora in poi non farebbe più spazzare la mia prigione. I
secondini ch'erano presenti, furono contentissimi nel sentir questo; d'al
lora in poi ripulirono le prigioni solamente di quelli cui volevano male.
» Quando il medico si fu allontanato, Lorenzo mi domandò scusa,
mi disse che gli altri prigionieri desideravano che si scopassero le loro
camere (cosi egli chiamava le prigioni) e m'assicurò che, se la cosa
era tanto importante, non mancherebbe di avvertirneli, perchè egli
li trattava tutti come suoi figli.
» Il salasso mi fece bene; riebbi il sonno e mi passò il granchio.
» Io aveva già fatto molto, come si vede: tuttavia non era ancora
il tempo di mettersi all'opera. Il freddo era così acuto che poteva tener
a fatica in mano il mio stromento. La mia impresa esigeva della pru
denza per evitare i sospetti, e nel medesimo tempo dell'audacia e della
perseveranza per non sgomentarsi degli accidenti fortuiti che potreb
bero guastare o rompere i piani già stabiliti.
» La posizione di un uomo obbligato ad agire in questa maniera,
è grave; ma un calcolo politico e giusto insegna che, per riuscire allo
scopo, bisogna esser preparato ed avere dell'audacia.
» Le lunghe notti d'inverno mi facevano disperare: era obbligato
a passar diecinove ore sopra ventiquattro nelle tenebre; perchè quando
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 133

faceva nebbia, lo che succedeva spesso a Venezia, la luce, che mi veniva


dalla mia finestra, non era abbastanza viva perchè io potessi leggere.
Non tardai dunque a tornare alla mia idea fissa, la fuga. Quegli che
pensa unicamente e continuamente ad una cosa sola, può facilmente
perdere la ragione. Un lume e dell'olio mi avrebbero dato una gran
consolazione. Dopo averci ben pensato e meditato sopra, mi venne in
mente di procurarmi ingegnosamente un lume. Aveva perciò bisogno
di un vaso, di un lucignolo, di olio, di una pietra focaia, di un accia
rino, di zolfanelli e di esca, e io non possedeva nessuno di questi di
versi oggetti. Quanto al vaso, me ne procurai presto uno; un tega
mino in cui si erano rotte delle uova sbattute col burro e che io aveva
nascosto fra le mie robe. Quindi cominciai ad economizzare l'olio della
mia insalata, e feci un lucignolo con del cotone che trassi fuori della
mia coperta da letto; finalmente presi il pretesto di un violento mal
di denti e pregai Lorenzo di portarmi una pietra focaia, dandogli ad in
tendere che, facendola sciogliere nell'aceto, potrei guarire della mia
flussione. Lorenzo stesso era presente quando misi tre pietre focaie
nell'aceto. Quanto all'acciarino, poteva servirmi della fibbia de' miei
calzoni, ma mi mancavano ancora il zolfo e l'esca; trovai anche
questi a forza di astuzia e d'ingegno. Una piaga che si chiudeva, mi
faceva provare un vivo prurito; pregai Lorenzo di domandare al me
dico come doveva fare per calmarlo. Questi mi rispose per iscritto, che
doveva far un giorno di dieta, che tre oncie d'olio di mandorla dimi
nuirebbero l'irritazione della pelle e che poteva anche adoperare del
fior di zolfo, ma che questo mezzo non era senza pericolo. – Che m'im
porta a me del pericolo? risposi a Lorenzo: comprate l'unguento e por
tatemelo. Potreste anche solamente comprare del fior di zolfo: per l'un
guento, posso anche prepararmelo io. Avete dei zolfanelli in tasca? -
Egli trasse di tasca una gran provista di fili di cotone imbevuti nello
zolfo e me li diede. Che consolazione per me in mezzo alle mie miserie!
» Restai tre giorni interi a pensare come doveva procurarmi del
l'esca. A un tratto mi ricordo di aver già raccomandato al mio sarto
di guarnir d'esca il mio abito di seta sotto le ascelle, affine di pre
servare quella parte dal sudore. L'abito ancora nuovo era dinanzi a
me: mi sentii nel prenderlo batter forte il cuore; infatti era possibile
che il sarto avesse trascurato di eseguire i miei ordini. Io era in tra
due, fra il timore e la speranza: non aveva bisogno che di fare due
passi per uscir d'incertezza, e tuttavia non me ne sentiva la forza:te
meva di non trovar l'esca e d'essere obbligato di rinunciare alla spe
ranza di procurarmene. Finalmente mi decisi ad avanzarmi verso la
sbarra di ferro cui era sospeso il mio vestito; lo distesi per cavare la
tela incerata di cui era foderato e scopersi l'esca. Che gioia ineffabile!
Il mio primo movimento fu di rendere grazie a Dio.
» Poi che mi vidi possessore anche dell'esca, versai dell'olio nel
13 CASANOVA

mio vaso, posi verticalmente il lucignolo, ed ecco la lampada bella e


fatta. Fui contento di non dover che a me stesso di aver trovato il
modo per render nulla una delle proibizioni più crudeli imposte ai
prigionieri. Non ci fu più notte per me: rinunciai all'insalata per aver
sempre dell'olio, benchè fosse il mio piatto favorito.
» Il primo giorno di quaresima decisi di cominciare a scavar il
pavimento. Sapeva che durante i bagordi del carnovale avea da temere
ogni giorno una visita, e non m'ingannava. La domenica grassa lo
strepito dei catenacci mi annunziò l'arrivo di Lorenzo. Lo vidi presto
entrar nella mia prigione seguito da un omaccione, che riconobbi essere
un Gabriele Schalon, ebreo che faceva il mestiere di prestar danaro
a tutti i giovani dissoluti e rovinati. Questo fu per me un compagno
odiosissimo.
» Il venerdì santo condussero via l'Ebreo, che fu poi condannato
a passar due anni in un altro carcere. Rimasto solo, quel giorno stesso
posi mano all' opera di forare il pavimento sotto il letto. Le scheggie
di legno, che io ne traeva, erano in sulle prime come grani di fru
mento, poi divennero più grosse. Le tavole avevano sedici pollici di
larghezza ed io ebbi cura di scavarle dove le si connettevano. Si trat
tava di far presto: povero me se prima che il mio lavoro fosse compito,
mi avessero dato un nuovo compagno di carcere, e se questi avesse
voluto che si spazzasse la camera ! Mentre lavoravo, cangiavo di posto
al mio letto, accendeva la lampada e mi sdraiava boccone, col mio stilo in
mano e un tovagliolo vicino per raccogliere i pezzi di legno che stac
cava. Fortunatamente il mio lavoro fu facile, perchè non trovai nè
chiodi nè uncini. Dopo aver lavorato sei ore, feci un mucchio delle
schegge che avea cavato, coll'intenzione di gettarle dietro i mobili e
gli utensili che si trovavano nel corridoio; quindi rimisi il letto al suo
posto. Il giorno dopo scopersi un'altra tavola sotto la prima; mi parve
della stessa grossezza. Non ci furono visite: pure a ogni momento il
timore di averne mi faceva tremare. Lavorai senza interruzione tre
settimane di seguito. Aveva già forato le tavole, quando giunsi a un
pavimento formato di piccoli pezzi di marmo e chiamato terrazzo mar
morino. Il ferro non mi serviva; mi ricordai del mezzo usato da Anni
bale, che, secondo quel che dice Tito Livio, si aperse una strada tra
verso le Alpi, fendendo a colpi di scure delle roccie ammollite coll'aceto.
Ciò mi era parso incredibile a cagione della enorme quantità di aceto
che una tale operazione avrebbe richiesto. Ne sparsi una bottiglia nel
buco che aveva fatto, e il giorno dopo mi fu facile di prevedere che
colla pazienza la mia impresa sarebbe certamente riuscita, perchè non
aveva da far altro che staccare il cemento che legava insieme i pez
zetti di marmo. Ebbi la gioia di accorgermi tosto che non proverei
ostacoli in questa impresa, forato che avessi lo strato superiore. In
capo a quattro giorni il lavoro fu terminato; e il mio stilo, invece di
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 13

guastarsi, divenne più bello e lustro. Trovai allora, come io me l'aspet


tava, un quarto impalcato, che io presumeva esser l'ultimo e dover
presentare maggiore difficoltà dei precedenti, perchè il buco aveva già
dieci pollici di profondità.
» Era il giorno 25 giugno, giorno della festa di San Marco. Aveva
passato nel pomeriggio tre ore di seguito steso boccone e nudo sullo
spazzo, coperto di sudore, lavorando come per solito al mio buco, in cui
aveva messo la lampada. Ad un tratto senti il terribile strepito dei
catenacci alla porta d'ingresso della soffitta che precedeva la mia pri
gione. Fremo ancora nel pensarvi ! Spengo subito il lume, lascio nel
buco lo stilo e il tovagliuolo, spingo di nuovo il letto nell'alcova, vi
ripongo in fretta il pagliericcio e i materassi, e cado semivivo sulle
coperte e sulle lenzuola, vedendo Lorenzo entrare nel mio carcere. Un
minuto di più, ero preso sul fatto. Lorenzo stava per calpestarmi un
piede, quando gettai un grido che lo fece rinculare. – Ah buon Dio,
quanto vi compiango! mi disse con un tuono enfatico: qui si sta come
in un forno. Alzatevi e ringraziate il cielo che vi manda un simile
compagno. Eccellenza, entri pure.
» Lorenzo indirizzava queste ultime parole allo sventurato che lo
seguiva e senza far attenzione alla nudità completa in cui mi trovava.
Io raccolsi le mie lenzuola, le misi sul letto e cercava inutilmente la
mia camicia.
» Il nuovo prigioniero si credette all'inferno. – Dove sono, disse, e
dove mi conducono? Che caldo spaventevole e che puzza ! Con chi mi
mettono ?
» Lorenzo gli disse allora di uscir dal carcere, ed a me di met
termi la camicia e andar nel corridoio. Prevenne inoltre il detenuto
che aveva ricevuto ordine di far venire il suo letto e tutto quello di
cui poteva aver bisogno, che intanto poteva passeggiare su e più per
il corridoio e che il cattivo odore si dissiperebbe presto. Non poteva
provenire che dalla mia lampada, senza dubbio, perchè l'aveva spenta
senza precauzione.
» Io uscii in camicia e in vesta da camera. Il nuovo prigioniero
scrisse colla matita la lista degli oggetti di cui avea bisogno; esclamò
nel vedermi : Ah, mio Dio, ecco Casanova ! Io riconobbi subito in lui
l'abate conte Fenaroli di Brescia. Era un uomo di cinquant'anni, ama
bile, ricco e ben veduto in tutte le società.
» Quando fummo soli, prevenni l'abate che, quando si porterebbe
il suo letto, io gli offrirei di farlo mettere nell'alcova, ma lo pregai
di rifiutare e di opporsi se si voleva spazzare il carcere. Gli promisi
di fargli conoscere quali erano i miei motivi. Gli spiegai d'onde pro
veniva quell'odor d'olio che aveva osservato entrando. Mi promise il
secreto, rallegrandosi di avermi per compagno nella sua sventura. Mi
disse che nessuno a Venezia conosceva per qual ragione fossi ai Piombi;
136 CASANOVA

ma che tutti volevano indovinarlo. Chi diceva che io aveva voluto fon
dare una nuova religione, chi credea che la signora Memmo m'avesse
accusato al Tribunale, dicendo che io corrompeva i suoi figli e li fa
ceva diventar atei. Altri pretendevano che Condulmer, inquisitore di
Stato, mi avesse fatto arrestare come perturbatore della pubblica tran
quillità, per aver fischiato una commedia del Chiari. Finalmente circola
vano altre differenti voci, ma tutte esagerate.
» La sera tirai fuori dal buco la mia lampada e non potei fare a
meno di ridere trovando il tovagliuolo tutto inzuppato d'olio. Quando
degli accidenti che minacciavano di avere tragiche conseguenze, fini
scono senza produr nulla d'importante, si ha il diritto di scherzarvi
sopra. Rimisi tutto in ordine e riaccesi la mia lampada, la cui storia
fece molto rider l'abate. Non dormimmo tutta la notte a cagione degli
insetti che non cessavano di tormentarci e anche perchè avevamo mille
cose da dirci. Il conte mi raccontò la storia della sua carcerazione.
Era stato veduto al teatro di Padova a parlare col ministro austriaco.
ra però cosa di nessuna importanza, onde la sua detenzione poteva
durare solamente pochi giorni, come infatti avvenne.
» La mattina dopo l'abate mi domandò perchè io non volessi far
spazzare la stanza: gli confidai il mio secreto. Fu molto stupito, poi
si sentì confuso di avermi in qualche modo obbligato a fargli questa
confessione e mi esortò a perseverare. Mi consigliò di terminare il la
voro l'indomani, affinchè egli potesse aiutarmi a scendere per l'aper
tura e ritirare in seguito la corda, dichiarando che poco gl'importava
che l'aiuto ch'egli voleva prestarmi, aggravasse poi la sua pena. Io gli
spiegai allora come i due capi della corda, passando per un anello che
c'era sul legno del mio letto, mi sarebbe facile il portarla via, perchè
era importante che Lorenzo non la scorgesse nella sala, traversandola
per andare alle prigioni: si sarebbe messo subito a cercarmi e m'a
vrebbe preso di nuovo. -

» Il 3 luglio Lorenzo prevenne il conte che si preparasse a uscire


di prigione l'indomani. Le ultime ore, che passammo insieme, furono
impiegate a ripeterci molte volte l'assicurazione di un'eterna amicizia.
Lorenzo comparve alfine e menò seco l'abate.
» Il giorno dopo Lorenzo mi presentò la sua nota per il mese di
giugno. Gli dissi di dar a sua moglie i quattro zecchini che avanzavano,
senza aggiungere che erano per la lampada; ma egli lo capi benissimo.
» Finalmente, dopo una fatica ostinata, il mio lavoro era finito il
23 agosto; una circostanza impreveduta l'aveva molto ritardato. Sca
vando colla maggior precauzione l'ultimo impalcato, scoprii per un
piccolo buco la sala degl'Inquisitori, com'io m'era già imaginato; ma
trovai pure allato una grossissima trave, come aveva sempre temuto.
Dovetti ingrandire l'apertura dal lato opposto, e poco tempo dopo feci
un secondo buco simile al primo: mi convinsi che il cielo aveva benedetto
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 137

la mia impresa. Turai le due aperture con del pane, affinchè non si
vedesse il chiaro della lampada e qualche pezzo di legno non passasse
attraverso, lo che mi avrebbe fatto scoprire da quelli che traversavano
la sala del Consiglio.
» Per eseguire la mia evasione scelsi la notte che precede la festa
di Sant'Agostino. Quel giorno si radunava il Gran Consiglio, per con
seguenza la Bussola doveva restar vuota. Era situata allato alla stanza
per cui doveva fuggire.
» Ma il 25 agosto, nel pomeriggio, avvenne cosa la cui memoria
mi fa ancora rizzare i capelli. A un tratto si fa sentire lo strepito dei
catenacci. Mi prende uno spavento mortale; i battiti precipitati del mio
cuore mi scuotono tutto il corpo e cado quasi svenuto sulla mia sedia.
Lorenzo ancora nel corridoio mi dice con allegro piglio traverso la gri
glia: –vi porto una buona notizia. – Imaginai che volesse dirmi che
io doveva esser messo in libertà: era quello il mio unico pensiero. Mi
credetti perduto al momento di giungere in porto. Infatti, se si scopriva
il buco nel pavimento, potevo esser sicuro che tutto sarebbe messo in
questione.
» Lorenzo entra e mi dice di seguirlo. Voglio prima vestirmi; esso
mi risponde ch'è inutile, poichè mi è venuto a prendere solo per tra
sferirmi da quell'orribile secreta in una gran prigione nuova, che ri
ceveva il lume da due finestre, per cui vedrei la metà di Venezia, e
vnella quale potrei star diritto. Era fuori di me, sveniva.,domandai del
'aceto; gli dissi di ringraziare il secretario per la sua bontà e lo pre
gai in nome del cielo di lasciarmi dov'era. Lorenzo a quelle parole
proruppe in uno scoppio di risa, dicendomi: – siete diventato pazzo?
si vuol trarvi dall'inferno per mettervi in paradiso, e voi vi opponetel.
Andiamo, andiamo: bisogna obbedire. Alzatevi!. Vi darò il braccio e
farò portare le vostre robe e i vostri libri.
» Confuso da questo accidente e vedendo bene che non mi restava
piu nulla da dire, lasciai la mia camera tutto racconsolato nel sentir
Lorenzo raccomandare ad uno dei secondini di seguirci colla mia sedia
a bracciuoli. c'era dentro il mio stilo!... Tenni dietro a Lorenzo, ma
serbai sempre il ricordo della mia antica prigione.
» Appoggiato alla spalla del carceriere che procurava di rallegrarmi
coi suoi scherzi, traversai due lunghi corridoi; poscia, dopo di avere
salito tre scale, arrivai in una gran sala, all'estremità della quale, sulla
sinistra, era una porta che conduceva in un corridoio di dodici piedi
di lunghezza e due di larghezza. Per le due finestre ferrate che illu
minavano il corridoio, si scorgeva la più gran parte della città; ma
nella dolorosa situazione in cui mi trovava, io non era disposto a go
dere di una bella vista.
» La porta della prigione si trovava in un angolo del corridoio, e
l'apertura ch'era fatta nella porta medesima era appunto in faccia ad
138 CASANOVA

una delle finestre che servivano per rischiarare la stanza, in maniera


che il prigioniero poteva godere non solamente della maggior parte
della bella vista che si scopriva dal corridoio, ma anche dell'aria fresca
che penetrava per questa finestra quando era aperta; e in questa sta
gione era veramente un benefizio per un povero carcerato.
» Ma come si può bene imaginare, io non feci attenzione a tutti
questi vantaggi. Subito che fui entrato nella mia nuova stanza, Lo
renzo vi fece mettere la mia sedia a bracciuoli, poi mi lasciò dicendo,
che avrebbe fatto portare anche il mio letto.
» Era seduto nella mia poltrona, immobile come una statua, e si
mile ad un uomo a cui la sorpresa e la maraviglia hanno tolto l'uso
delle sue facoltà. Vedeva di aver perduto in un momento il frutto delle
mie fatiche e tuttavia non poteva pentirmi di averle spese per la mia
liberazione. Ogni speranza era distrutta, e il non più pensare all'avve
nire pareva dovesse essere il mio solo sollievo.
» Due secondini mi portarono il mio letto dopo alcuni minuti, e
poi mi lasciarono per andar a prendere il resto delle cose mie. Ma
scorsero due lunghe ore prima che io li vedessi o li sentissi, benchè
le porte della prigione fossero rimaste aperte. Questo ritardo mi sug
geri un gran numero di riflessioni, senza poter riuscire a spiegarmene
il motivo. Come io aveva tutto da temere, cercai di prendere un'atti
tudine calma, affine di trovare in essa un mezzo di resistenza morale,
checchè potesse avvenirmi di triste.
» Oltre i Piombi e le prigioni della corte interna, gli Inquisitori
aveano pure a loro disposizione, nel palazzo stesso dei Dogi, diecinove
segrete sotterranee per i prigionieri a cui si condona la pena capitale.
Tutti i legislatori etutti i dominatori hanno considerato come una gra
zia il lasciar la vita, per quanto misefabile possa essere, a coloro che
fossero stati condannati a perderla.Tuttavia non può essere una grazia
se non in quanto che il colpevole la riconosce per tale: mi sembra che
si dovrebbe dare ad esso la scelta, affinchè la clemenza non degenerasse
in ingiustizia.
» Le diecinove prigioni sotterranee sono vere tombe. Le chiamano
i Pozzi, perchè si trovano due piedi sotto il livello del mare, che vi
penetra attraverso le sbarre per cui giunge ad essi un debole barlume.
Il prigioniero che non vuol restare tutta la giornata nell'acqua di
mare, è obligato a montar su dei trespoli che gli servono nel tempo
stesso di letto. Vi è steso il suo pagliericcio: allo spuntar del giorno
vi mettono sopra que' trespoli la sua acqua, la sua zuppa ed il suo
pane. Deve far presto a mangiare; altrimenti i grossi sorci d'acqua che
abitano con lui quelle orribili tane, gli strapperebbero il cibo di mano.
Eppure ci sono stati molti rei condannati a passare in quei pozzi il
rimanente della loro esistenza, che sono arrivati ad un'età avanzata,
malgrado il cattivo nutrimento e tutto ciò che un tal soggiorno debbe
PUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 139

aver di dannoso per la salute. Vi mori al mio tempo un prigioniero


che vi era entrato di quarantaquattro anni. Francese di nazione, si
chiamava Béguelin ed avea servito nelle truppe della Repubblica contro
i Turchi durante la guerra del 1716 sotto il comando del conte Schu
lemberg. Era spia e penetrava arditamente nel campo nemico sotto un
travestimento turco; ma faceva lo stesso mestiere per il gran visir
nell'esercito veneziano. Convinto di controspionaggio, fu condannato a
morte e certo l'avea meritata. Considerò probabilmente come una vera
grazia, che gli fosse commutata la pena in una prigione perpetua nei
Pozzi, e visse ancora trentasett'anni.
» Io temeva appunto di esser trasportato colà, ai Pozzi: perciò fui
in preda alla più viva inquietudine durante quelle due ore di aspet
tazione.
» Finalmente sentii dei passi precipitati simili a quelli di unuomo in
furore, e tosto vidi arrivar Lorenzo in gran collera e bestemmiando Dio e
tutti i santi. Cominciò coll'intimarmi di consegnargli la mannaia colla
quale aveva scavato il pavimento e di dirgli il nome dello sbirro che me
l'avea procurata, quindi diede l'ordine di frugarmi. Io mi alzai subito
minacciandolo, mi spogliai nudo e dissi ai secondini di far il loro me
stiere. Lorenzo fece cercare e smuovere da tutte le parti il mio letto,
il mio pagliericcio e le mie robe; tastò egli stesso il cuscino della
mia sedia, poi la gettò a terra incollerito per non aver trovato nulla.
« – Voi non volete dunque dirmi dove sono gli arnesi con cui
avete scavato il pavimento della vostra stanza? Ebbene un altro vi for
zerà a confessarlo. »
« – S'è vero che ho scavato il pavimento, io dirò che siete stato
voi che mi avete fornito gli arnesi di cui mi sono servito, e che ve li
ho renduti. »
» Questa risposta che fece ridere sghangheratamente i dipendenti
di Lorenzo, i quali senza dubbio erano mal disposti verso il loro superiore,
lo fece urlare ancora di più. Pareva un forsennato; batteva i piedi in
terra e dava col capo contro il muro. Finalmente mi lasciò, e i secon
dini mi portarono presto tutte le robe mie, i miei libri, le mie botti
glie e fino la mia lampada e la tavoletta di marmo. Chiuse le fine
stre del corridoio che mi davano un poco d'aria; poco dopo io faceva
fatica a respirare nella mia stretta prigione. Tuttavia mi stimai fortu
nato d'essermela cavata in questa maniera: quantunque abile nel suo
mestiere, Lorenzo avea dimenticato di voltare la mia sedia; io posse
deva tuttavia il mio prezioso arnese. Ne resi grazie al Cielo, e mi per
suasi di nuovo che il mio stilo mi servirebbe ancora per agevolare la
mia evasione.
» Il calore soffocante della stagione e il cangiamento avvenuto
nella mia posizione m'impedirono di dormire. Il giorno dopo per tem
pissimo mi portarono del vino inacetito, dell'acqua marcia, della carne
10 CASANOVA

guasta e del pane duro come una pietra. Non si spazzò la mia prigione;
e quando pregai che si aprisse la finestra, non ebbi nemmeno risposta.
Uno dei secondini esaminò con una sbarra di ferro tutti i muri del
mio carcere, come pure il pavimento, sopratutto vicino al letto.
Vedevo con compiacenza che non si batteva il soffitto, perchè io pen
sava già a fuggirmene per il tetto. Ma, per eseguire questo progetto,
era necessario di aver con altri degli accordi che mi pareva impossibile
di poter formare. La mia stanza essendo stata restaurata di fresco,
tutto ciò che io vi facessi per avventura sarebbe continuamente esposto
agli occhi vigili de' miei custodi.
» Passai una giornata terribile. Verso mezzogiorno, il calore au
mentò a tal punto ch'io mi credetti come in una stufa: mi pareva di
soffocare. Non potei nè mangiare nè bere : tutto ciò che mi si portava,
era guasto. Il sudore che mi stillava dai pori, non mi permetteva di
leggere nè di far il più piccolo movimento. Il giorno dopo la carne e
l'acqua erano egualmente cattive e puzzolenti. Domandai a Lorenzo se
avesse ricevuto ordine di farmi morire di caldo e di puzza; si allontanò
senza rispondermi. Immollai un poco di pane nel vino di Cipro per
sostenermi e darmi abbastanza forza per piantare il mio stilo nel cuore
di quel mostro. Era deciso di commettere questo omicidio: ma quando
egli entrò il giorno dopo nella mia prigione, mi contentai di giurargli
che lo strangolerei subito che fossi messo in libertà. Rise di questa
minaccia e uscì senza dirmi nulla. Mi persuasi che la sua condotta era
la conseguenza di ordini emanati dal secretario del Tribunale, cui avea
scoperto il mio tentativo di evasione. La mia impazienza si accrebbe
colla mia disperazione e fui in procinto di perdere ogni energia.
» Otto giorni dopo, in presenza dei secondini, intimai a Lorenzo
con voce irata di rendermi i miei conti e lo trattai da boia. Promise
di portarmi l'indomani la mia nota. La finestra, che aveva aperto nel
l'arrivare, fu chiusa alla sua partenza ed egli rise de' miei gemiti. Come
il poco, che avea ottenuto da lui, non l'avea ottenuto che con cattive
maniere, risolvetti di continuare a servirmi di questo mezzo.
» Ma il mio furore si dileguò il giorno dopo. Lorenzo, prima di darmi
la sua nota, mi presentò una cesta di limoni che Bragadin mi aveva
mandato, una bottiglia d'acqua buona e un pollo. Uno dei secondini
aperse la finestra. Non esaminai nella mia nota ciò che restava di dif
ferenza e lo destinai alla moglie di Lorenzo, a eccezione di uno zecchino
che divisi tra i due secondini. Quando fummo soli, mi rivolse la pa
rola con molta calma e in questi termini :
«-Voi mi avete detto che sono stato io che vi ho fornito gli ar
nesi con cui siete riuscito a far quella grande apertura nel pavimento
della vostra prigione. Non ho dunque bisogno di parlarvene. Ma chi
vi ha dato il lume?... »
» - Voi stesso... Non mi avete dato dell'olio, dello zolfo e della
pietra focaia? Quanto al resto, l'avevo già ».
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 11

« – Va bene. Potreste anche provarmi colla stessa facilità, che


sono io che vi ho fornito gli arnesi necessariperforare il pavimento?»
« - Colla stessa facilità. Ho ricevuto tutto da voi. »
– Oh Dio, che sento!. Ditemi dunque come vi ho procurato
una mannaia. »
« – Se siete curioso di saperlo, ve lo dirò, ma esigo che il se
cretario sia presente. »
« - Basta; voglio credervi.... Serbate il silenzio sopra tutto ciò
ch'è accaduto e pensate che sono un povero padre di famiglia. »
» E parti tenendosi la testa fra le mani.
» Qual gioia fu la mia di aver scoperto in qual maniera io poteva
spaventare quell'uomo, cui pur doveva la vita! Compresi che il suo
interesse lo obbligava a tacere tutto quello che io aveva fatto!
» Gli diedi l'ordine di comprarmi le opere di Maffei: questa spesa
gli spiacque, sebbene non osasse di confessarmelo. Mi domandò perchè
voleva comprare degli altri libri, mentre ne aveva già tanti.
« – Li ho tutti letti e riletti, risposi: ho bisogno di altri. »
» Allora mi promise di prender a prestito per me dei libri da un
altro prigioniero, a cui potrei in cambio prestare i miei. Mi assicurò
che non erano romanzi, ma libri dotti, perchè c'erano molti uomini
istruiti fra i carcerati.
» Accettai questa proposizione e diedi la Cronologia del Padre
Pétaud per ricevere in cambio un altro libro.
» Quattro minuti dopo tornò a portarmi la prima parte delle opere
di Wolff. Era appunto quel che mi conveniva; smisi il pensiero di
comprar il Maffei, ed egli parti contento di avermi dato un così buon
consiglio. Questo accomodamento mi fece piacere, non per i libri, ma
per l'occasione che mi porgeva di avere una corrispondenza con qual
cuno che potesse aiutarmi nei miei progetti di evasione.
» Aprendo il libro, trovai un pezzo di carta su cui erano scritti
dei versi latini abbastanza buoni, ch'erano una parafrasi di quelle pa
role di Seneca : Calamitosus est animus futuri anxius. Ne feci altri sei
in risposta e, servendomi, come di penna, dell'unghia del dito mignolo
della mano destra, la bagnai nel succo di lampone e scrissi i miei
versi sull'ultimo foglio del libro, dove misi la nota delle opere che
possedeva. Scrissi inoltre sul dorso della legatura, immediatamente sotto
il titolo: latet. Curioso di vedere che risposta mi si farebbe, dissi a
Lorenzo il giorno dopo, che aveva già finito il libro e che il prigio
niero mi farebbe piacere di prestarmene un altro; mi portò subito la
seconda parte. Un foglio volante, che vi trovai, conteneva quanto se
gue, scritto in latino:
« Tutti due prigionieri nel medesimo luogo, dobbiamo rallegrarci
che l'imbecillità di un avaro carceriere ci procuri un privilegio finora
senza esempio. Io scrittore mi chiamo Marino Balbi: sono un nobile
142 CASANOVA

veneziano e appartengo alla compagnia dei Somaschi. Mio compagno


di cattività è il conte Asquini di Udine nel Friuli. Vi fa dire che po -
tete disporre di tutti i suoi libri: ne troverete la lista sulla parte in
terna della coperta. Bisogna aver prudenza, per nascondere a Lorenzo
il nostro accordo. »
» Questa conformità di pensieri mi piacque: tuttavia non potei
far a meno di ridere di questa raccomandazione di prudenza per parte
di un uomo che si contraddiceva evidentemente egli stesso, servendosi
di un foglio volante per iscrivermi. Se Lorenzo avesse trovato quella
carta, non avrebbe avuto che da farsela tradurre. Ne conclusi che quel
Balbi era un uomo poco riflessivo.
» Dopo aver letto il catalogo, scrissi sull'altra metà della pagina
chi era, come era stato arrestato, che ignorava di qual delitto fossi
imputato e che sperava di esser messo presto in libertà.
» Nel libro che ricevetti in cambio del Wolff, trovai una lettera
di Balbi di sedici pagine, perchè Asquini non scriveva mai: essa con
teneva la storia completa del suo arresto. Mi diceva che il suo delitto
consisteva nell'aver fatto battezzare sotto il suo nome diversi figli na
turali: la metà della sua lettera aveva per iscopo di difendere questa
circostanza della sua vita. Io non ci trovai che sofismi appoggiati so
pra sentimenti falsi ed opinioni erronee. Riconobbi che doveva essere
un uome strano, che affettava una sensibilità estranea al suo cuore, e
ch'era cattivo, sciocco, inconseguente ed ingrato.
» Per esempio, mi dicea che sarebbe molto infelice se non avesse
libri, danaro e sopratutto la compagnia del conte Asquini, ripettabile
vecchio di settant'anni. Tuttavia impiegava due pagine intiere a bur
larsi di lui e renderlo ridicolo.
» In ogni altra circostanza non avrei nemmeno risposto a costui,
ma nella mia situazione sperava di trarne partito. Trovai nel dorso
della coperta del libro penne, matita e carta. Balbi mi aveva detto fra
le altre cose ch'era il secondino Nicolò che gli procurava tutto quello
di cui aveva bisogno, e lo informava dei nuovi arresti. Per provarmelo,
mi raccontò ciò che mi era succeduto; per esempio che ci vollero due
ore a Lorenzo per chiuder il buco che io avea fatto nella mia antica
prigione, e che raccomandò un profondo silenzio al falegname ed al
fabbro i quali furono impiegati in quel lavoro. Inoltre mi fece sapere
che il mio carcere era allora occupato da un nobile Priuli. Ncolò gli aveva
detto che un giorno più tardi sarei fuggito, che tutta la città ne
avrebbe parlato, ma che Lorenzo avrebbe pagato colla vita la mia eva
sione, perchè si sarebbe creduto che per stornare i sospetti, mi avesse
lasciato fare quel buco con arnesi forniti da lui.
« Seppi ancora da Balbi che Bragadin aveva offerto a Lorenzo
mille zecchini per far che mi aiutasse a fuggire; che egli sperava di
guadagnarli, senza porci la vita, per mezzo dell'influenza di sua mo
glie sull'animo di Antonio Diedo, di cui era la ganza.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 143

» Finamente Balbi terminava la sua lunga lettera chiedendomi la


mia confidenza e pregandomi di comunicargli i mezzi di cui mi era
servito per tentare la mia evasione.
» Conobbi che Balbi era un uomo molto curioso e poco discreto:
questa sola domanda lo rendeva sospetto agli occhi miei. Tuttavia mi
determinai a tacere l'opinione che aveva del fatto suo, perchè sembra
vami l'uomo di cui aveva bisogno per eseguire tutto ciò di cui lo in
caricherei per la nostra evasione comune. Impiegai la giornata intera
a dar risposta alla sua lettera: ma la diffidenza me ne fece ritardare
l'invio. Lorenzo poteva avere egli stesso imaginato di favorire questa
corrispondenza per sapere come mi fossi procurato lo strumento della
mia liberazione e dove si trovava. Dissi dunque a Balbi che io mi era
servito di un coltello, che doveva ancora trovarsi sotto la finestra del
corridoio che precede la mia prigione; che senza dubbio Lorenzo avea
cercato da quella parte e che, se intercettava la mia lettera, poco mi
importava che ricominciasse le sue perquisizioni. Questa riflessione mi
tranquillizzò per tre giorni.
» Balbi pretendeva che effettivamente io aveva potuto avere quel
coltellaccio, perchè sapeva che non mi aveano frugato addosso. Quindi,
in caso di riuscita del mio tentativo, Lorenzo non avrebbe mancato di
allegare questa circostanza per provare la sua non complicità. Ei do
veva credere che un prigioniero, che il Messer grande consegnava nelle
sue mani, fosse già stato visitato; ma questo non aveva avuto alcun
motivo per frugarmi, perchè mi aveva veduto uscir di letto. Inoltre il
Balbi mi pregava di mandargli quel coltello per mezzo di Nicolò, in
cui io poteva avere tutta la fiducia.
» L'irriflessione di quell'uomo mi confondeva. Quando fui sicuro
che le mie lettere non eran intercettate, gli risposi che non mi fidava
per nulla di Nicolò e che mi guarderei molto bene di scrivere il mio
secreto. Le lettere di Balbi m'annoiavano: egli si divertiva a raccon
tarmi i motivi dell'arresto del conte Asquini, vecchio di settant'anni,
che aveva una grossa pancia ed una gamba rotta. Mi raccontava che
non avendo abbastanza rendite per vivere, aveva abbracciato la pro
fessione d'avvocato, che trattava specialmente le cause dei contadini
contro le pretensioni della nobiltà, che contestava loro il diritto di vo
tare nei Consigli provinciali; che n'erano risultati dei torbidi e che il
tribunale dell'Inquisizione avea finito col proibire l'esercizio della sua
professione al conte; questi, invocando lo statuto, aveva rifiutato d'ob
bedire a quest'ordine; il re, malgrado le leggi, la sua disobbedienza
lo aveva condotto ai Piombi, ov'era chiuso da cinque anni; finalmente
riceveva, al pari di me, cinquanta soldi al giorno, ma che aveva il
permesso di determinare egli stesso come dovevano essere spesi.
» La mia diffidenza svaniva a poco a poco: fini col persuadermi
che il mio stilo mi sarebbe di un grande aiuto per facilitare la mia
1. CASANOVA

evasione. Tuttavia io non potea far alcun uso di quel prezioso arnese,
perchè ogni giorno si visitavano tutti gli angoli della mia prigione,
battendo i muri con una stanga di ferro, tranne il soffitto solo, Dumque
non poteva sperare di fuggire per il soffitto, se qualcheduno non vi
avesse fatto un'apertura al di fuori. Questi potrebbe allora salvarsi
meco per un altro foro, che si potrebbe fare la stessa notte sul tetto
del Palazzo Ducale. Ma mi era necessario un compagno per arrivare
sul tetto e veder insieme ciò che ci resterebbe da fare. Bisognava
dunque sceglierlo; e io non trovai più acconcio a favorire i miei di
segni che il Balbi, giovane monaco di ventisett'anni e fornito di cosi
poco giudizio. Risolvetti in conseguenza di comunicargli ogni cosa e di
fargli consegnare la mia preziosa sbarra di ferro.
» Gli domandai dunque, in una lettera, se desiderava sul serio di
ricuperare la libertà, e s'era pronto ad intraprendere tutto ciò che esi
geva da lui per procurargli i mezzi di fuggir meco.
» Rispose ch'egli ed il suo camerata erano pronti a tutto, ma che
era inutile di sforzarsi per una cosa impossibile. Questo tema gli diede
occasione di dettare quattro lunghissime pagine sugli ostacoli, sulle
difficoltà d'ogni genere, che dovevamo aspettarci d'incontrare.
» Gli scrissi che mi dava poco pensiero di considerazioni generali,
che il mio piano era stabilito, purch'egli impegnasse la sua parola d'o
nore di seguire appuntino le mie istruzioni: me lo promise.
» Allora gli parlai del mio stilo, che aveva l'intenzione di fargli
consegnare, perchè gli servisse per iscavare il pavimento della sua
prigione e per forare il muro, affine di cavarmi poi fuori per l'aper
tura.Aggiunsi che io m'incaricava di tutto il resto, e che avrei liberato
lui e il conte.
» Mi rispose che cavandomi fuori dal mio carcere verso di lui, io
sarei sempre prigioniero come prima, e che non avrei fatto che cam
biar di prigione. Ma io replicai che questo sapeva benissimo, e che il
mio disegno non era di fuggire per una porta. Gli ripetei che atten
deva da lui l'esatta esecuzione delle mie istruzioni e non delle obbie
zioni. Lo consigliai nel medesimo tempo di far comprare una cinquan
tina circa d'incisioni e di farne tappezzare i muri della sua prigione.
Aggiungevo che Lorenzo non avrebbe concepito alcun sospetto e che
gli servirebbero a nascondere il foro per cui saremmo fuggiti; perchè
a venire a capo di quel lavoro, basterebbero pochi giorni, e Lorenzo
non potrebbe accorgersi di nulla. Gli spiegai che m'era impossibile di
incaricare Lorenzo di comprar quelle imagini: io gli era divenuto so
spetto e mi riusciva malagevole il fargli credere che avessi della ve
nerazione per quei santi.
» Restava di trovar il modo di far che la mia sbarra di ferro ve
nisse consegnata a Balbi. Ecco nuovo tranello che inventai per questo.

Fughe ed evasioni celebri. Disp, 9,


FUGIE ED EVASIONI CELEBRI 15

IL BARONE DI TRENCK NEL SUO CARCERE A MAGDEBURGO,

Trenck stesso nelle sue Memorie così descrive i ferri di cui era carico:
« Collare di ferro da cui pendevano tutte le mie catene. Conveniva che lo sostenessi notte
e giorno con una mano, senza di che si sarebbe infranta la nuca per l'orribile peso.
» Due anelli al disopra dei gomiti uniti da una catena di dietro alle spalle, la quale an
dava pure a congiungersi al collare.

|||||||
||


|||||

» Largo cerchio di ferro che mi girava intorno al corpo sulla nuda pelle.
» Marette attaccate alle due estremità di una spranga di ferro della lunghezza di due
piedi e d'un pollice di diametro.
» Anello di ferro conficcato nel muro, al quale io era incatenato.
» Tre grosse catene che si riunivano ad un grande anello ond'era avvinto il mio piede
diritto.
» Sotto i miei piedi era scavata la mia tomba, coperta da una pietra con un teschio di
mort e sopra scritto il nome di Trenck. Doveva, dopo la morte, chiudere la mia spoglia.»
16 CASANOVA

« ordinai a Lorenzo di comperarmi una bibbia in foglio colla Volgata,


sperando che il libro fosse tanto grande da potervi nascondere lo stilo
entro il dorso del medesimo: sventuratamente lo stilo era due pollici
più lungo.
» Balbi mi scrisse che la sua prigione era tutta tappezzata di santi.
Nella mia risposta gli esposi la difficoltà che avevo di mandargli il mio
stromento. Parve sorpreso che io fossi tanto scarso di spedienti, e mi
consigliò di mandargli il mio arnese entro la pelliccia di volpe di cui
Nicolò gli aveva parlato; che si prenderebbe per pretesto l'intenzione
del conte di ordinarne una di eguale, e che avrei potuto rinvolgere lo
stilo entro la pelliccia.
» Il monaco però doveva imaginarsi che Lorenzo stendesse quella
pelliccia, non fosse altro, perchè gli sarebbe più comodo di portarla
cosi distesa. Ma io aveva le mie ragioni per scrivere a Balbi di farmi
domandare la pelliccia. Gliela mandai arrotolata, ma senza stilo e seppi
dopo da Lorenzo ch'era piaciuta molto.
» Il giorno dopo Balbi mi scrisse che mi aveva dato un cattivo con
siglio e che non avrei dovuto seguirlo; che probabilmente lo stilo era
perduto, e che ogni speranza si era dileguata. Per consolarlo gli risposi
di non più darmi per l'avvenire consigli tanto improvvidi; risolsi nel
medesimo tempo di mandargli lo stilo dentro la Bibbia e d'usare per
ciò un'astuzia particolare. Prevenni Lorenzo che volevo festeggiare il
giorno di San Michele con due gran piatti di maccheroni col burro e
col cacio parmigiano, e che il mio disegno era di offrirne uno al pri
gioniero che mi prestava dei libri.
» Lorenzo mi rispose che quest'uomo desiderava ardentemente di
avere il mio librone. Soggiunsi che glielo manderei coi maccheroni , e
gli domandai il più gran piatto che fosse possibile di procurarsi, ag
giungendo che la mia intenzione era di riempirlo io stesso.
» Mentre Lorenzo andava a prendere il piatto, rinvolsi la mia sbarra
di ferro entro della carta e la nascosi nel dorso del libro, persuaso che
mettendo sul volume un enorme piatto di maccheroni, stornerei gli oc
chi di Lorenzo dalle estremità dello stilo che erano un poco più lunghe
del libro.
» Avevo avuto cura d'informar prima Balbi di tutte queste circo
stanze e di raccomandargli la più gran prudenza nel ricevere il mio
piatto di maccheroni, ma sopratutto di prender il libro nel tempo stesso
del piatto.
» Essendo venuto il giorno di San Michele, Lorenzo entrò nella mia
prigione con una gran casseruola piena di maccheroni. Ci misi subito
del butirro e la vuotai in due piatti, che sparsi di buon parmigiano
grattato. Il piatto che destinavo al monaco, era pieno sino all'orlo, e i
maccheroni nuotavano nel burro. Lo posi accuratamente sopra il libro,
poi diedi il tutto a Lorenzo, col dorso del libro voltato verso di esso;
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 17

raccomandandogli di stendere le braccia e di guardar bene che il


burro cadendo non guastasse il libro. Nel medesimo tempo io lo guar
dava; ma i suoi occhi erano fissi sul burro che temeva di versare.
Volle portar prima il piatto e tornar poi a prender la Bibbia; ma gli
feci allora osservare che il mio presente perderebbe quasi tutto il suo
valore. -

» Finalmente si pose in cammino, lagnandosi che il piatto fosse troppo


troppo pieno e che, se l'avesse versato, non sarebbe stata colpa sua.
» Qual gioia per me quando vidi sulle sue braccia quel fardello!
L'estremità dello stilo non poteva essere veduta da lui, perchè tutta la
sua attenzione era vòlta ai maccheroni. Lo seguii cogli occhi sin presso
la camera di Balbi, che sentii poi tossir tre volte, segno di cui eravamo
convenuti in caso di successo. Lorenzo tornò poi a dirmi che tutto era
arrivato felicemente al suo destino.
» Il padre Balbi mise otto giorni a far il buco ch'ebbe cura di coprire
con una stampa. Mi scriveva continuamente che l'affare andava lento,
malgrado che lavorasse tutta la notte, e che temeva che noi non fa
remmo altro che peggiorare la nostra posizione, perchè la nostra im
presa non poteva riuscire. Io gli rispondeva ch'ero sicuro del successo.
» Sventuratamente non era così: ma bisognava o continuare ciò che
avevo intrapreso o rinunciare al mio progetto. Io non sapeva altro che
questo, che voleva uscire di gabbia, ed era deciso a cedere solamente
nel caso che gli ostacoli fossero stati insuperabili. Il gran libro dell'e
sperienza mi aveva insegnato che non bisogna sgomentarsi nelle grandi
imprese. Ma se io avessi risoluto di comunicare al padre Balbi quei
misteri di alta filosofia e di morale, senza fallo mi avrebbe creduto
pazz0.
»Il 16 ottobre,alle otto, (secondo la maniera di contare allora usata in
Italia), mentre io mi divertivo a tradurre un'ode d'Orazio, sentii pic
chiare tre volte col piede al di sopra di me; risposi nello stesso modo.
Era un segnale convenuto per avvertirci che non ci eravamo ingannati
nella nostra speranza. Balbi lavorò ancora fino a sera,e mi scrisse l'in
domani che terminerebbe il lavoro nel giorno stesso, se il mio soffitto
era formato solamente da due tavole, perchè ciascuna di esse aveva
solamente un pollice di grossezza; mi prometteva nello stesso tempo di
non forare interamente l'ultima, cosa che io gli avevo già raccoman
dato, perchè era importante che non si scorgesse nel soffitto del mio
carcere alcun guasto. Finalmente mi annunciò che aveva bisogno sola
mente di un quarto d'ora per compire la sua operazione. Io fissai la
notte dell'indomani per lasciar la mia prigione e mai più rientrarvi.
Siccome Balbi mi avrebbe aiutato, ero sicuro di fare in meno di quat
tro ore un buco nel gran tetto del palazzo ducale. Il mio progetto era
di salire sul tetto e poi scegliere il miglior mezzo che mi occorresse
per discendere.
18 - CASANOVA

» Tuttavia lo stesso giorno, verso le due pomeridiane, nel momento


stesso che Balbi lavorava, sentii aprir la porta della galleria vicina
alla mia prigione. A quel romore mi si gelò il sangue nelle vene; ma
non perdetti la testa, ed ebbi il tempo di dare il segnale d'allarme con
due colpi sul muro, perchè, come eravamo intesi, Balbi chiudesse su
bito l'apertura del soffitto. Un minuto dopo entrò Lorenzo che mi do
mandò scusa di darmi per compagno di carcere un miserabile. Costui
era un ometto di trenta a quarant'anni, magro, brutto e mal vestito ,
che avea una perrucca nera e tonda, condotto da due secondini. Non
c'era il nenomo dubbio che fosse un briccone, poichè Lorenzo lo trat
tava così in mia presenza e senza che quegli mostrasse di dolersene.
Risposi che il tribunale poteva ordinare tutto quello che voleva.
» Feci poi portare un pagliericcio da Lorenzo, il quale dopo di aver
detto al nuovo carcerato che il tribunale gli accordava dieci soldi al
giorno per il suo mantenimento, ci chiuse dentro e se ne andò.
» Dopo di aver esaminato attentamente quello scellerato, chè tale lo
mostrava pure la sua faccia, volli farlo parlare, ma egli si mise a farmi
dei ringraziamenti senza fine per il pagliericcio che io gli aveva pro
curato. Gli offersi di pranzar meco, ed egli mi baciò le mani, doman
dandomi se potesse aver subito i dieci soldi che il tribunale gli aveva
accordato. Quando gli risposi di si, tratto di tasca un rosario, si mise
in ginocchio, guardando a dritta e a sinistra nel carcere. – Che cercate,
amico? gli dissi. – Un'imagine della madre immacolata di nostro Si
gnore, almeno un crocifisso, (mi rispose), perchè io sono cristiano e non
ho mai provato un più gran bisogno d'invocar l'assistenza di San Fran
cesco d'Assisi, di cui non sono degno di portare il nome.
» Potei appena tenermi dal ridere, non della sua pietà, della sua di
vozione, ma della strana maniera con cui me le avea fatte conoscere.
Gli diedi subito il mio libro di preghiere: baciò con fervore l'ima
gine della Madonna ch'è al frontispizio; poi, rendendomelo, mi disse
che suo padre non aveva avuto cura di fargli insegnar a leggere, ma
che aveva una divozione particolare per il rosario, di cui si mise a rac
contarmi una gran quantità di miracoli. Io lo ascoltai con una pazienza
da angelo. Pregai con lui; gli domandai se avesse mangiato; mi rispose
di no. Gli detti allora gli avanzi del mio pranzo, che divorò con un ap
petito di lupo e bevve tutto il mio vino; poi, quando ifumi gli ebbero
dato alla testa, si mise a piangere e straparlò. Gli domandai la sua sto
ria, che mi raccontò in questi termini:
« La mia sola passione in questo mondo è stata sempre la gloria
della nostra santa Repubblica e l'obbedienza alle sue leggi. Mi sono
sempre adoperato a svelare le arti degli scellerati che fanno il me
stiere di diminuirne le rendite; ho cercato continuamente di scoprirli
e di denunziarli poi al Messer grande. E vero, che per questo mi ha
sempre pagato; ma il danaro che mi dava, aveva agli occhi miei un va
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 149

lore molto minore che l'intimo sentimento che io provava di essere di


qualche utilità a San Marco. Mi sono quindi burlato di coloro che per
pregiudizio danno un falso significato alla parola di spia. Essa non suona
male che agli orecchi dei nemici del governo, perchè una spia non è
alla fin fine che un uomo appassionato per il ben pubblico e devoto al
suo principe. Perseguitando senza tregua i rei, quando avevo da adem
pire i doveri della mia carica, nè il sentimento dell'amicizia, cosi po
tente sopra tanti altri, nè sopratutto la riconoscenza esercitarono mai una
influenza sopra di me. Quante volte non ho giurato a un malfattore di
custodire gelosamente il suo secreto, quando si trattava di strappar
glielo; tosto che io possedeva quel secreto, andava fedelmente a comu
nicarlo, quando il mio confessore mi aveva assicurato che poteva farlo
senza peccato; perchè prestando il mio giuramento io aveva avuto cura
di fare una restrizione mentale, ovvero perchè, quando si tratta del .
bene dello Stato, un giuramento non ha più valore. Credo che, tanto
era il mio zelo, avrei soffocato la voce della natura e denunziato mio
padre stesso.
» Mi accorsi, tre settimane fa, che a Isola, dove dimoro, esisteva
un'associazione formata da quattro o cinque persone notabili del luogo,
mal disposte verso il governo, perchè aveva scoperto e sequestrato de
gli oggetti di contrabbando che aveano fatto venire; anzi parecchie di
quelle persone erano state incarcerate. Il curato della parrocchia, ori
ginario degli Stati austriaci, entrava pure in quel complotto di cui de
cisi svelare il mistero. Quelli che ne formavano parte, si raccolsero
in un albergo durante la notte in una camera in cui c'era un letto. Un
giorno, trovata la porta aperta e la camera vuota, ebbi il coraggio di
nascondermi sotto il letto. La sera arrivarono i cospiratori e principia
rono a dire che il paese non apparteneva alla giurisdizione di San Marco,
ma a quella di Trieste, e che non si doveva considerarlo come parte
dell'Istria veneziana. Il curato disse al capo della banda, che, se vole
vano sottoscrivere un'istanza all'imperatore, andrebbe egli stesso a con
segnarla al ministro austriaco:tutti vi consentirono, e il curato voleva
il giorno dopo andar a Venezia colla supplica.
» Risolvetti di far abortire quell'infame complotto, sebbene uno dei
congiurati fosse mio cugino. Quando si furono ritirati, usai di tutte le
precauzioni possibili per uscir dal mio nascondiglio. Feci la lista dei
congiurati e andai a trovar l'Inquisitore per rendergli conto di tutto
l'affare. Incaricò subito un tale di accompagnarmi a Isola per rico
noscere la persona del curato.
» Dopo pranzo mio cugino mi fece chiamare per fargli la barba,
perchè io faccio il barbiere. Quando ebbi finito, mi offerse dell'ottimo
refosco (vino d'Istria) e del salame coll'aglio: facemmo colazione da
buoni amici. Ma allora senti che la voce secreta del sangue era, nel
mio cuore, più potente che non il sentimento del dovere; lo presi per
150 CASANOVA

la mano e lo consigliai piangendo di evitare la compagnia del curato


e di non sottoscrivere una carta. Rispose che non capiva che cosa mi
volessi dire; io soggiunsi sorridendo ch'egli scherzava, e me ne andai
confuso e pentito di aver ascoltato la voce del mio cuore.
» Il giorno dopo, mio cugino era sparito, così anche il prete.
Parti da Isola e tornai a Venezia. Appena ebbi fatto una visita al Mes
ser grande, mi fece arrestare. Ecco come, mio caro signore, la disgrazia
mi ha condotto presso di voi. Ringrazio San Francesco di aver incon
trato un buon cristiano, chiuso in questo carcere per motivi che non
mi curo di sapere, perchè non ho il difetto di esser curioso. Mi chiamo
Sorodaci; mia moglie è della famiglia Legrenzi, figlia di un secretario
del Consiglio dei dieci: essa mi ha sposato malgrado i pregiudizi. Sarà
disperata di non sapere che cosa sia di me. Ma spero di esser messo
presto in libertà, perchè il secretario non mi ha senza dubbio fatto
metter qui, che a fine di avere maggior comodità per interrogarmi. »
» L'impudente franchezza di questo racconto bastò per farmi co
noscere l'uomo con cui mi trovava: finsi di compiangerlo, e lo confer
mai nella sua speranza d'esser presto liberato. Quando fu addormentato,
mi posi a scriver tutto a Balbi, e gli dimostrai ch'era necessario d'in
terrompere la nostra impresa. Il giorno dopo, ordinai a Lorenzo di com
prarmi un crocifisso e una bottiglia d'acqua benedetta. Sorodaci do
mandò dieci soldi, e Lorenzo gliene gettò venti coll'espressione del più
profondo disprezzo. Mi feci portare una quadrupla razione di vino e
molto aglio, cibo favorito del mio compagno. Quando Lorenzo fu par
tito, tirai fuori destramente dal libro la lettera di Balbi. Mi descriveva
le sue angoscie, mi diceva ch'avea chiuso l'apertura, e che, se Sorodaci
fosse stato messo con lui, egli, Balbi, sarebbe stato sicuro di esser
condannato a morte.
» Era facile di prevedere che si farebbero subire molti interroga
torii a Sorodaci. Risolsi perciò di confidargli due lettere di nessuna im
portanza, ma che gli sarebbero forse di qualche utilità, se le conse
gnasse al secretario; le scrissi colla matita. Il giorno dopo Lorenzo mi
portò tutto quello che gli aveva domandato, ed io trattai il mio com
pagno. Gli dissi che dipendeva da lui di rendermi colla sua amicizia e
col suo coraggio un servizio che mi sarebbe più caro della vita. Gli
diedi le due lettere, pregandolo di consegnarle subito che fosse libero.
La mia felicità, gli dissi, dipende dalla vostra fedeltà: ma sopratutto
nascondete bene le due lettere, perchè, se fossero trovate, saremmo per
duti ambedue. Dovete giurarmi sul crocifisso e su questa imagine della
Madonna di non tradirmi.
» Giurerò, caro signore, tutto quello che volete, rispose; tante sono
le obbligazioni che ho con voi. Nel medesimotempo si mise a piangere,
vedendo ch'io credevo possibile ch'egli mi tradisse. Gli diedi una ca
micia ed un berretto da notte e mi tolsi il mio: poi, dopo di aver asperso
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 151

la stanza di acqua benedetta, pronunciai con parole che non aveano


alcun significato ma terribili, una formula colla quale gli feci giurare
in ginocchio e con terribili maledizioni, che consegnerebbe fedelmente le
due lettere. Quando gliele ebbi date, mi propose egli stesso di cucirle
nella fodera della schiena del suo vestito.
» Sapeva bene ch'era lo stesso che dar quella lettera al secretario,
ma io mi era regolato in modo che non si concepisse alcun sospetto
de' miei progetti. Anzi sperava che questa lettera mi potrebbe meritar
la stima del tribunale. Diceva a Bragadin ed a Grimani di esser tran
quilli e di non inquietarsi della mia sorte; che quando io ricuperassi
la libertà, vedrebbero che la mia prigionia mi era stata utile più che
nociva, chè infatti nessuno avea più bisogno di me di correggersi. Do
mandava a Bragadin degli stivali per l'inverno, perchè la mia camera
era fredda. – Non bisognava però che Sorodaci credesse che nelle mie
lettere non ci fosse proprio niente di male, perchè allora avrebbe vo
luto fare la parte dell'uomo onesto, consegnandole veramente al loro
indirizzo.
» Alcuni giorni dopo Lorenzo venne a prenderlo. Restò un pezzo
assente, e già io credeva di non doverlo più rivedere. Qual fu la mia
sorpresa quando la sera fu ricondotto in carcere! In un interrogatorio,
spesso interrotto e ripreso, si volle forzarlo a confessare che aveva av
vertito il prete di non più tornare a Isola: non potè risolversi a fare
questa confessione, perchè alla fin fine non era vero. Temetti che lo
tenessero molto in prigione; scrissi a Balbi tutti i particolari di que
st'avventura e imparai in questa occasione a scrivere all'oscuro.
» Il giorno dopo volli toccar con mano una cosa di cui ero certo,
e gli domandai la mia lettera a Bragadin col pretesto di aggiungervi
qualche cosa, dicendo che poscia la potrebbe ricucire nel vestito. Osservò
che non era cosa senza pericolo, ma io insistetti. Allora lo scellerato,
gettandosi a' miei piedi, mi disse che, nel tempo del suo secondo inter
rogatorio, era stato preso da un tremito appunto in quella parte della
schiena dove stava la lettera, e che il secretario, avendogliene doman
dato la ragione, gli era stato impossibile di nascondere la verità; che
allora il secretario aveva fatto chiamar Lorenzo, gli aveva fatto cavar
il vestito, che aveva letto le lettere e che poi, mettendole nel suo cas
settino, avea detto che le avrebbe consegnate egli stesso, e che quanto
a lui, Sorodaci, lo avrebbero condannato a morte.
» A questo racconto io finsi di svenire: simulai a meraviglia lo
spavento e la disperazione e scongiurai la Madonna e i santi di pu
nire un così odioso tradimento. Mi gettai quindi sul letto e mi sfor
zai di non dire una sola parola, come se non avessi veduto le lagrime
e sentito le esclamazioni e i giuramenti di quel miserabile. Io feci be
missimo la mia parte in quella commedia, di cui aveva concepito io
stesso il piano. Nella notte scrissi a Balbi di ricominciare il suo lavoro
32 CASANOVA

nel momento stesso in cui l'orologio suonasse diciott'ore e d'interrom


perlo quattr'ore dopo, vale a dire alle ventidue. Aggiunsi che non
avea, nulla da temere e che dall'esatta esecuzione delle mie istruzioni
dipendeva la riuscita del nostro progetto.
» Eravamo già arrivati al 25 ottobre, e s'avvicinava il giorno in
cui bisognava compire il lavoro o abbandonarlo. Gl'Inquisitori e il se
cretario visitano nei primi giorni di novembre alcuni villaggi situati
sulla terraferma, e Lorenzo approfittava di quell'occasione per ubbria
carsi la sera e levarsi molto tardi la mattina. Informato di queste cir
costanze, era naturale che io scegliessi una di quelle notti, ma aveva
ancora un altro motivo.
» Non c'è nulla che sollevi l'infelice nelle sue miserie quanto la
speranza di esserne presto liberato. Tutti i suoi pensieri tendono verso
quel beato momento: vorrebbe impiegare tutta la sua forza per affret
tarlo; e desidera sopratutto di essere informato dell'epoca in cui suc
cederà quell'avvenimento. E dunque naturale che nella sua impazienza
cerchi di scoprire quel momento con qualche mezzo misterioso. Egli
dice a sè stesso che Dio lo conosce e che può permettere che gli sia
rivelato da un caso qualunque. Quindi proviene il desiderio d'in
terrogare il destino; quindi quei lunghi viaggi intrapresi per consultar
gli oracoli; quindi i misteri della cabala; quindi finalmente le do
mande in versi nella Bibbia o in Virgilio, perchè è questa l'origine di
quelle sorti Virgiliane di cui ci parlano parecchi autori.
» Ignoravo la maniera in cui la Bibbia potrebbe rivelarmi quel
secreto: risolvetti perciò di servirmi dell'Orlando furioso dell'Ariosto.
poeta di cui ammiravo il genio, e che mi pareva più proprio di Vir
gilio a predire il mio avvenire. Scrissi dunque una breve domanda per
sapere il giorno in cui avverrebbe la mia liberazione, quindi contai le
lettere e trovai i numeri 9, 7, 1. Aprii allora il poema con uno strin -
gimento di cuore inesprimibile, e lessi queste parole nel primo verso
della settima ottava del nono canto: -

« Tra il fin d'Ottobre e il capo di Novembre.


» Erano troppo chiari e si riferivano troppo naturalmente alla mia
situazione, perchè io non vi prestassi fede. Mi si perdonerà probabil
mente di aver creduto bene di spiegarli così : tra il fin d'ottobre e
il capo di novembre è la mezzanotte. Si vedrà presto che il 31 ottobre
a mezzanotte precisa fui libero, e non si crederà che io sia troppo su
perstizioso. Racconto la cosa perchè è avvenuta e perchè è straordinaria:
vi avrei fatto difficilmente attenzione, se non fossi infatti riuscito a li
berarmi. Questo fatto dimostra almeno, d'accordo in ciò colla storia,
che molti avvenimenti, che sono succeduti, non lo sarebbero mai senza
una predizione anteriore.
» Si trattava di colpire e scuotere talmente con imagini sorpren
deri lo spirito superstizioso di quel miserabile di Sorodaci, che non
FUGEIE ED EVASIONI CELEBRl 153

mi potesse nuocere. Quindi, poichè Lorenzo ci ebbe lasciati, invitai


quell'ipocrita a mangiar meco la minestra: egli era steso sul paglie
riccio e diceva che era malato. Non avrebbe osato di avvicinarsi a me
se non l'avessi chiamato. Si rialzò tosto, si gettò a' miei piedi e li baciò.
Durante alcuni momenti i suoi singhiozzi raddoppiati gl'impedirono
di pronunciare una sola parola; finalmente mi disse ch'era sicuro della
sua morte vicina, se io non gli avessi perdonato, e che la Madonna lo
aveva già castigato di aver mancato al suo giuramento. Sento, disse,
dei terribili dolori alle viscere; la mia lingua è coperta di pustule :
nel medesimo tempo me la faceva vedere. Io però non sapeva se le
avesse avute anche prima, e poco mi curava di conoscere se dicesse la ve
rità. Al contrario, era mio interesse di fingere di crederlo, anzi di
fargli sperare che gli avrei perdonato. Perciò doveva invitarlo a man
giare e bere; forse egli mi voleva ingannare anche questa volta. An
dava da galeotto a marinaio. Inoltre io preparava contro di lui un at
tacco, a cui mi sembrava impossibile che potesse resistere.
» – Mangiamo prima la minestra insieme, gli dissi; poi vi an
nuncierò la vostra fortuna. Sapete che stamattina m'è apparsa la Ma
donna e mi ha ordinato di perdonarvi. Voi non morrete; al contrario,
uscirete meco di prigione ».
» Confuso e incapace di dire una parola, Sorodaci si mise a man
giare la minestra ginocchioni, perchè non avevamo sedie. Si pose in
faccia a me sul pagliericcio per ascoltare il discorso seguente che io
gli feci col tuono più serio del mondo :
» Il dolore che io sentiva per il vostro tradimento, m'impedi tutta
la notte di dormire, perchè le lettere che avete consegnato al secre
tario, debbono necessariamente farmi condannare a una prigionia per
petua. La mia sola consolazione era di sapere che voi morrete fra tre
giorni sotto gli occhi miei. Intanto ch'io ero tutto pieno di questo pen
siero indegno di un cristiano, la Madonna di cui vedete qui l'imagine,
mi s'è presentata viva; allo spuntar del giorno ha aperto la bocca e mi
ha indirizzato le parole seguenti:
» Sorodaci è un devoto adoratore del mio rosario; perdonagli, e
rimuovi dal suo capo la maledizione ch'egli ha pronunciato sopra di
sè stesso. Per ricompensarti della tua buona azione, uno de' miei an
geli scenderà a te in forma d'uomo; farà un buco nel soffitto del car
cere e ti libererà dalla prigione, fra cinque o sei giorni. Questo an
gelo comincierà il suo lavoro oggi stesso, al momento in cui l'orologio
suonerà le dicianove, e lo continuerà sino a una certa ora, avanti il
tranontar del sole, per risalire quindi nei cieli. Condotto dall'angelo
mio, tu ti farai accompagnare da Sorodaci e prenderai cura di lui,
purch'egli rinunci al suo mestiere di spia. Comunicagli ciò che ti ho
annunziato. - -

» Io considerava attentamente il viso di quello scellerato: questo


154 CASANOVA

racconto l'aveva pietrificato. Presi il mio libro di preghiere in mano,


poi, dopo di aver asperso la camera d'acqua benedetta, finsi di pre
gare, baciando di quando in quando l'imagine della Madonna. Era più
di un'ora che il miserabile non aveva aperto bocca, quando a un tratto
mi chiese se, quando l'angelo scenderebbe dal cielo, noi lo sentiremmo
aprirsi il passo traverso i muri della prigione. Verrà sicuramente, gli
risposi, alle diecinove precise; lo sentiremo lavorare, e dopo quattro
ore, tempo sufficiente, a mio parere, a un angelo per compire una tale
opera, egli sparirà.
» Forse voi avete sognato, mi disse. Lo assicurai del contrario, e
gli domandai s'era risoluto a smetter di far la spia. Invece di rispon
dere, si addormentò; e svegliatosi, mi chiese se aveva ancora tempo
per riflettere se potesse lasciare il suo mestiere. Gli accordai una di
lazione, che durerebbe sino all'arrivo dell'angelo, annunciandogli che
s'egli non prestava il giuramento ch'io gli chiedeva, lo lascerei in
prigione. Mi divertii a vedere ch'era contentissimo di sentire queste
parole; era persuaso che l'angelo non verrebbe e sembrava aver pietà
della mia illusione. Io era impazientissimo di sentir sonare le diecinove,
e convinto che l'arrivo dell'angelo chiarirebbe tutta la debolezza di
spirito di quel miserabile, ne prendea già prima diletto. Il mio disegno
dovea riuscire, salvo che Lorenzo non avesse dimenticato di consegnare
il libro.
» Arrivò l'ora del pranzo: io bevvi solamente acqua; Sorodaci si
tracannò tutto il mio vino, dopo aver mangiato una enorme quantità
d'aglio. Tosto che cominciarono a sonare le diecinove, mi gettai per
terra e gli detti nello stesso tempo un urto così forte nella schiena,
che gli feci prendere la stessa positura; quindi sclamai: l'angelo ar
riva. Restai così prosteso a terra per un'ora. Era da sbellicarsi dalle
risa di veder la sorpresa e l'immobilità di quel cattivello di Sorodaci.
Mi guardai bene però dal burlarmi di lui, perchè era un'opera meri
toria il domare quell'anima trista riempiendola di terrore. Per tre
ore e mezza io lessi, mentre egli ora diceva il rosario e ora dormic
chiava. Egli non osava aprir bocca: i suoi occhi erano continuamente
rivolti al soffitto, ove Balbi lavorava; e non cessava di fare le più
strane smorfie. Al momento in cui l'orologio cominciava a suonare le
ventitre, io gli dissi di far come me, di gettarsi in ginocchio, perchè
l'angelo stava per isparire. Così facemmo infatti: Balbi si allontanò
e tutto tornò in silenzio. Il giorno dopo la fisonomia di quell'imbecille
esprimeva più terrore che sorpresa.
» Mi diverti molto ad ascoltarlo. Mi assicurò, nel modo più solenne
e piangendo, della sua pietà, del suo attaccamento a San Marco, della
riverenza ed affetto per il governo: per questo, diceva, la Madonna gli
aveva accordato la sua protezione. Mi raccontò quindi una infinità di
cose sulla potenza miracolosa del rosario di sua moglie, la quale aveva
FUGRIE ED EVASIONI CELEBRI 135

un domenicano per confessore. Non poteva capire, diceva, che cosa io


volessi fare di un ignorante come lui.
» Gli risposi ch'egli doveva aiutarmi e che avrebbe da vivere senza
far più l'infame mestiere di spia. Mi propose di giurarmelo; e quando
gli domandai s'egli era veramente disposto ad osservare il suo giura
mento, mi disse che senza il suo spergiuro la Madonna non mi sarebbe
apparsa e che io non sarei tanto felice. Gli domandai se amava Giuda
che avea tradito il Salvatore: rispose che no, e chiese come potrebbe
ottenere il perdono dei suoi peccati. Gli dissi cosi:
» Quando arriverà Lorenzo, dovrete restare immobile sul vostro
letto, col viso verso il muro, senza guardarlo, senza dirgli una parola
e senza alzarvi. Lo giurò: io poi gli giurai che l'avrei strangolato senza
pietà, se l'avessi veduto voltarsi verso di Lorenzo. Dopo gli domandai
se avea dispiacere di aver prestato questo giuramento e mi rispose che
no. Gli diedi da mangiare e lo lasciai andar a letto, perchè avea bi
sogno anch'io di dormire. Prima dovetti impiegare due ore a scrivere
a Balbi per informarlo di tutto e dirgli che, quando avesse finito il suo
lavoro, non avrebbe da far altro che sfondare il soffitto della mia pri
gione nella notte del 31 ottobre e che ci metteremmo in salvo tutti e
quattro, contando il suo compagno e il mio. Eravamo allora al 28 di
ottobre. Seppi dalla risposta di Balbi che avrebbe bisogno solamente
di quattro o cinque minuti per far l'apertura.
» Sorodaci fece benissimo la sua parte: quando Lorenzo entrò,finse
di dormire e il carceriere non gli rivolse neppure una parola. Durante
tutto il tempo che restò nel nostro carcere, io non tolsi mai gli occhi
dal mio tristo compagno, deciso a strangolarlo se facesse il più piccolo
movimento, perchè bastava un cenno per tradirmi.
» Durante tutta la giornata io scaldai la testa di Sorodaci con
discorsi esaltati, e non lo lasciai tranquillo che quando lo vidi ubbriaco
e vicino ad addormentarsi. Mi abbracciò dicendomi che non capiva come
un angelo avesse bisogno di tanto tempo per penetrare nella prigione.
Gli risposi che questo senza dubbio avveniva perchè lavorava come
uomo e non come angelo. Aggiunsi che temeva che l'angelo non venisse
quel giorno, perchè Sorodaci aveva espresso dei dubbi e non aveva
parlato come un uomo pio ed umile, ma come un peccatore ostinato e
impenitente, il quale desiderava ancora di stringer buone relazioni col
Messer grande e i suoi birri.
« Si mise a piangere di nuovo, e quando, al momento in cui so
navano le diecinove, non sentimmo l'angelo, lo vidi preso dalla dispe
razione. Io accrebbi il suo dolore co' miei vivi lamenti. Così passò la
giornata. Ebbi cura di fargli tenere, sino al 31 ottobre, verso di Lo
renzo, la stessa condotta che gli avea prescritto da prima. Non vidi più
il carceriere dal momento in cui gli consegnai il libro nel quale era
acclusa la lettera, che avvertiva Balbi di aprire il soffitto alle diecisette.
156 CASANOVA

Non avevo più alcun ostacolo da temere. Lorenzo mi aveva parlato della
partenza degl'Inquisitori e del secretario: non dovevo temere che si
conducesse nel mio carcere un nuovo prigioniero, e non avea più biso
gno di fingere con quell' infame di Sorodaci.
» Io debbo giustificarmi agli occhi dei lettori, che potrebbero per
avventura biasimarmi di essermi servito della religione per ingannare
un uomo tristo e imbecille. Io non poteva tacere alcuna circostanza
della mia evasione; non mi vanto di quel che ho fatto, ma non ne provo
alcun rimorso. Se si trattasse ancora di ricuperare la mia libertà,agirei
come ho fatto allora.
» La natura mi comandava di fuggire e la religione non me lo
proibiva: io non aveva tempo da perdere. Mi trovava con un mostro,
che il suo codice di morale autorizzava a tradirmi e a scoprir tutto a
Lorenzo. Bisognava o spaventare quello scellerato o strangolarlo, come
avrebbe fatto in luogo mio un più crudele di me. Avrei potuto facil
mente far questo e dir poi che Sorodaci era morto di morte naturale:
certo non si sarebbe fatto alcuna ricerca per verificarlo. Feci quello
che mi sembrava essere mio dovere. S'egli mi avesse seguito nella mia
fuga, confesso che al primo momento di pericolo, mi sarei sbarazzato
di quel miserabile, anche se avessi dovuto appiccarlo ad un albero.
Quando io gli giurava di assisterlo sempre, io sapeva benissimo che
la sua fedeltà durerebbe solamente quanto la sua esaltazione fanatica,
e che sarebbe sparita all'arrivo del monaco che io gli aveva annunziato
come un angelo: Non merta fe' chi non la serba altrui.
» Quando Lorenzo fu partito, dissi a Sorodaci che alle diecisette
precise l'angelo romperebbe il soffitto della nostra prigione e che por
terebbe un paio di forbici con cui egli dovrebbe farci la barba a tutti e
due. – Questo angelo ha dunque anche della barba. - Lo vedrete. Usci
remo per l'apertura fatta nel soffitto, dopo monteremo sul tetto del pa
lazzo, scenderemo in piazza di San Marco, e quindi ce n'andremo in Ger
mania ». Colui non rispose nulla e mangiò solo tutto il pranzo, perchè
io aveva l'animo troppo preoccupato per poter mangiare. Non potei
nemmeno addormentarmi. Finalmente suonano le diecisette, e compa
risce l'angelo. Sorodaci vuole inginocchiarsi, mettersi a pregare, ma gli
dichiaro ch'è cosa superflua. Nel medesimo istante il soffitto si sfonda;
io monto sulla mia sedia, stendo le braccia a Balbi. che scende. –Voi
avete compito la parte vostra, gli dico: tocca adesso a me di far la mia.
– Mi consegnò lo stilo e le forbici: detti queste a Sorodaci, ordinan
dogli di farci la barba a tutti e due. Io durava fatica a tener le risa
nel vedere con qual sorpresa quell'animale considerava Balbi, che aveva
l'aspetto piuttosto di un demonio che di un angelo. Ci fece benissimo
la barba a tutti due colle forbici.
» Impaziente di riconoscere la località, ordinai al monaco di restar
abbasso, perchè non volevo lasciar Sorodaci solo. Penetrai dunque, non
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 137

senza provare qualche difficoltà, nel carcere del conte Asquini, che ab
bracciai strettamente. Trovai in lui un uomo la cui costituzione fisica
non favoriva un'opera come la nostra; e quando gli comunicai il mio
piano di evasione, mi fece osservare ch'egli non aveva ali per lasciare
i tetti di piombo del palazzo. In secondo luogo mi confessò che non
aveva abbastanza coraggio da seguirci, che preferiva restar in prigione
e pregar Dio per il successo del nostro tentativo. Mi avvicinai allora
al tetto per esaminare col mio stilo le assi che erano coperte dalle la
mine di piombo. La maggior parte cedevano ad un solo colpo; e in
meno di un'ora riuscii a fare un'apertura abbastanza grande. Tornai
quindi nel mio carcere, lacerai le mie lenzuola, i tovagliuoli e le co
perte per farne una corda. Ne feci io stesso i nodi, perchè un solo nodo
difettoso poteva cagionare la caduta di quello che vi si sospenderebbe.
Ebbi in questa maniera cento braccia di corda. Poscia riuni in un
fardello il mio vesttio, il mio mantello di seta e un poco di bianche
ria. Andammo tutti e tre nella prigione del conte: quegli si rallegrò
con Sorodaci d'essere stato incarcerato meco e di poter cosi scappare.
Sorodaci vedeva bene ch'era stato burlato, ma non capiva come avessi
potuto mettermi in relazione coll'angelo, ch'era venuto a liberarmi. Le
parole del conte, il quale ci fece osservare che ci esponevamo a grandi
pericoli, gl'ispirarono dell'inquietudine; e, vile com'era, si decise a ri
nunciare a quel viaggio pericoloso. Dissi a Balbi di fare il suo fardello
intanto che io finirei il mio lavoro sul tetto. Fu terminato a due ore
di notte. Coll'aiuto di Balbi e del mio stilo riesci a staccare una la
mina in modo da poterla poi sollevare colle spalle. Guardando il cielo,
vidi con dispiacere che c'era chiaro di luna; il giorno dopo faceva il
primo quarto. Bisognava sopportare pazientemente questo impedimento
e aspettar mezzanotte, ora in cui la luna sarebbe tramontata, perchè
in una notte come questa, in cui tutto il bel mondo si raccoglie in
piazza di San Marco, importava molto ch'io non fossi veduto sui tetti.
La mia ombra avrebbe potuto stendersi sino in piazza, e allora tutti si
sarebbero messi a guardar da quella parte; questo spettacolo straordi
nario avrebbe attirato l'attenzione generale e particolarmente quella
del Messer grande e dei suoi sbirri, i soli che, durante la notte, ve
glino al riposo della gran città di Venezia. Decisi dunque che ci met
teremmo in cammino dopo il tramonto della luna. Mi posi ad invocare
l'assistenza di Dio, ma senza pregarlo di fare un miracolo in mio favore.
La luna doveva tramontare alle cinque, il sole alzarsi alle tredici: ave
vamo otto ore di una completa oscurità.
« Dissi a Balbi che passeremo quelle tre ore a discorrere col conte
Asquini, e lo consigliai di pregare il suo antico compagno di sventura
di prestarci una trentina di zecchini, che ci sarebbero non meno utili
del mio stilo per i bisogni avvenire. S'incaricò della commissione, e
Venne a dirmi alcuni minuti dopo che il conte volea parlarmi a quat
158 CASANOVA

tr'occhi. Il vecchio Asquini mi rappresentò con molta dolcezza che non


abbisognava denaro per fuggire, che egli aveva una numerosa famiglia,
e che, se io morivo nel mio tentativo di fuga, quello sarebbe denaro
perduto; quindi me ne disse tante e tante delle ragioni per nascon
dermi la sua avarizia. La mia risposta durò una mezz'ora: le ragioni
ch'io adduceva alla mia volta, erano eccellenti, ma si sa che, da quando
esiste il mondo, le migliori ragioni non hanno servito a gran cosa. Mi
richiamai l'assioma Nolenti baculus (con chi non vuole, si adoperi il ba
stone); ma non ebbi la crudeltà di metterlo in pratica. Dissi al conte, che
se voleva scappare con me, lo porterei sulle mie spalle, ad esempio di
Enea e di Anchise. Gli feci pur osservare che se preferiva far orazione
per il successo del nostro tentativo, si mostrerebbe poco conseguente a
sè stesso, pregando il cielo che noi riuscissimo in un'impresa ch'egli
ricusava di aiutare coi mezzi più semplici. Mi domandò allora pian
gendo e gemendo se mi bastavano due zecchini. Gli risposi che avrei
pur dovuto contentarmene per forza. Nel darmeli mi pregò di non
dimenticare di restituirglieli se, dopo aver inutilmente fatto il giro del
tetto, mi decidessi a tornare nel mio carcere. Gliene diedi la promessa,
sebbene un poco sorpreso ch'egli potesse pensare che io mi deci
dessi mai a tornarvi: infatti io era troppo persuaso del contrario.
Chiamai allora i miei due compagni; poi, dopo avere fatto passare le
nostre robe per l'apertura, divisi le cento braccia di corda in due pac
chetti. Passammo quindi due ore a discorrere ed a ricordare i nostri
patimenti passati. Balbi mi diede in quest'occasione la prima prova
della poca delicatezza de' suoi sentimenti, rimproverandomi più volte
di avergli mancato di parola, aggiungendo che, se avesse potuto sapere
che la cosa andrebbe così, non mi avrebbe cavato di prigione. Il conte
per parte sua ni disse con tutta la serietà di un vecchio di settan
t'anni, che io farei meglio di non andar più in là, che mi sarebbe im
possibile discender dal tetto e che ci perderei la vita. Io non tenni
nessun conto delle sue parole. Ma avvocato di professione, egli fece un
lungo discorso per procurare di riaver i suoi due zecchini. Mi fece una
spaventosa descrizione delle innumerevoli difficoltà che troverei sul
tetto: e mi espose l'impossibilità di penetrare nella soffitta per un ab
baino, perchè erano tutti guerniti di sbarre di ferro. E cometrovar un
luogo per attaccar la corda? Aggiunse che quando pure riuscissimo, ci
sarebbe impossibile di scendere tenendoci con le mani alla corda. Bi
sognerà, diceva, che uno attacchi la corda attorno all'altro e poi lo
cali, come un secchio nel pozzo: quegli che renderà questo servizio al
compagno, sarà poi obbligato di tornar in prigione. Si tratta adunque
di sapere qual di voi consentirà a quest'opera di carità; e supponendo
che ve ne sia uno abbastanza generoso per questo, da che parte potrà
sdrucciolare abbasso senza pericolo d'essere veduto. Dalla parte della
chiesa si troverebbe poi chiuso nelle corti interne, e gli arsenalotti
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 159

fanno continuamente la ronda. Sceglierete la parte del canale? Ma dove


trovare un batello od una gondola? -Egli continuò in questa maniera
ad esporci una serie di considerazioni e di probabilità, che io fui ob
bligato di sentire con una pazienza molto contraria al mio carattere,
» Quello che mi irritava di più, erano i rimproveri che mi faceva
il monaco; ma siccome aveva bisogno di un compagno per condurre
a buon fine la mia impresa, mi contenni e mi contentai di rispondere
ch'era certo della nostra liberazione, quantunque non potessi indicare
i mezzi particolari che impiegherei per riuscirvi; che le sagge osserva
zioni del frate mi renderebbero prudente e che io contava sopratutto
sull'aiuto della provvidenza.
» Sorodaci non parlava e vedeva bene che io l'aveva ingannato.
Lo mandai a guardare se si vedeva ancora la luna sull'orizzonte: tornò
presto a dirmi che fra un quarto d'ora non sarebbe più visibile, ma che
la nebbia era densa e che c'era pericolo a camminar sui tetti. Purchè la
nebbia non sia olio, dissi, poco me ne importa. Gli dissi allora di in
vilupparsi nel suo mantello e di prendere una parte della corda. A
queste parole si gettò ai miei piedi e mi supplicò, gemendo, di non con
dannarlo a una morte certa. Io cadrò nel canale, mi disse, e non vi
sarò di nessuna utilità; lasciatemi qui: pregherò per voi tutta la notte
San Francesco. E in vostro potere di uccidermi o no, ma io non vi se
guirò mai.
» L'imbecille non sapeva che io credeva che la sua compagnia mi
dovesse portare delle disgrazie: lo lasciai dunque tranquillo a condizione
che pregasse San Francesco per me e portasse al conte tutti i miei
libri, il cui valore poteva essere di cento zecchini: obbedi. Il conte pro
mise di restituirmeli subito che tornassi, ma io gli risposi che era si
curo di non più rivederlo. Quanto a quel briccone, dissi, non merita di
esser compagno mio e di Balbi in una simile intrapresa; non è vero
Balbi?
» Questa interrogazione aveva per iscopo di stuzzicare l'amor pro
prio di un altro vile: quindi egli mi rispose: sì, è vero.
» Domandai allora al conte della carta, una penna e un calamaio.
Aveva tutto, malgrado il regolamento della prigione, perchè Lorenzo
non avrebbe avuto difficoltà di vendere per uno scudo la repubblica e
San Marco stesso. Scrissi dunque, senza poterla rileggere, una lettera
che consegnai a Sorodaci: in fronte v'era questa sentenza che mi parve
appropriata alle circostanze:
« Non moriar, sed vivam et narrabo opera Domini. »
(Non morrò, ma vivrò e racconterò le opere del Signore)
» La lettera era così concepita:
« Io Giacomo Casanova, scrittore di queste linee, so che prima di
sfuggire allo stato deplorabile in cui mi trovo attualmente, posso aver
160 CASANOVA

la sventura di cadere nelle mani di coloro che mi tengono in prigione.


Se così accadesse, imploro la generosità e l'umanità dei miei giudici,
affinchè non rendano più dura ia mia sorte e che non mi puniscano
d'un'azione cui mi ha portato la natura e la ragione. Li supplico, se
vengo ad esser ripreso, di restituirmi i miei effetti e rimettermi nello
stesso carcere. Ma se sono abbastanza fortunato per mettermi in salvo,
dichiaro colla presente di donar tutto ciò che ho lasciato nella prigione,
a Francesco Sorodaci, che l'amore della libertà non anima al pari di
me e che resta ai Piombi.
» Scritto un'ora prima di mezzanotte e senza lume, nella prigione
del conte Asquini, il 31 ottobre 1756. »
» Consegnai questa lettera a Sorodaci e gli raccomandai di non
darla a Lorenzo, ma solamente al secretario che verrebbe senza dubbio
a visitare egli stesso la prigione. Il conte diceva che questa lettera
avrebbe senza fallo avuto il suo effetto; mi promise, in caso ch'io fossi
ripreso e ricondotto ai Piombi, di restituirmi tutto ciò che gli aveva
dato. L'imbecille di Sorodaci mi assicurò che avrebbe la più gran gioia
di rivedermi e rendermi tutte le robe mie.
» Ma era tempo di partire: già la luna era sparita. Posi sulla
schiena di Balbi un pacchetto di corde e le sue robe; presi io stesso
la medesima carica. Montammo poi sul letto vestiti di un semplice
panciotto e col cappello in testa.
« E quindi uscimmo a rimirar le stelle »
DANTE.

» Io parti primo; Balbi mi seguì e Sorodaci fu incaricato di ab


bassare la lamina di piombo e chiudere il foro per cui eravamo passati.
Malgrado la nebbia si potevano distinguere abbastanza facilmente gli
oggetti. Allora, mettendomi in ginoochio e trascinandomi, mi armai
del mio stilo e lo piantai quanto lontano era possibile nelle connes
sure delle lamine di piombo. Quindi tenendomi coll'altra mano alla
tavola su cui si trovava la lamina che avea sollevato, uscii sul tetto.
Per seguirmi Balbi prese colla sua mano diritta la mia cintura vicino
alla fibbia. Io somigliava dunque alla bestia da soma che trascina e
che porta: aveva di più da camminare sopra un tetto in pendio e che
l'umidità aveva reso sdrucciolevole.
» Arrivati alla metà di quel pericoloso cammino, Balbi mi gridò
di fermarmi un momento. Uno dei fardelli che portava si era staccato
e non poteva che esser caduto nella grondaja. La mia prima idea fu
di dargli un colpo che l'avrebbe mandato a raggiungere il suo fardello,
ma il cielo permise che mi moderassi. Saremmo stati ambedue crudel
mente puniti, perchè mi sarebbe stato impossibile di liberarmi senza
l'aiuto di qualcuno.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. I0


FUGIIE ED EVASIONl CELEBRI 161

» Gli domandai dunque se erano le corde che aveva perduto: quando


seppi che era solamente il suo abito nero, con due camicie e un mano
scritto che avea trovato nella prigione, lo consolai e lo esortai ad avere
pazienza. Mise un profondo sospiro e mi segui aggavignandosi a me.

Dissi a Balbi che si raccomandasse l'anima a Dio, perchè avevo intenzione di seppel
lirlo vivo. Pag. I70.

» Quando ebbi passato circa sedici lamine di piombo, arrivai al


colmo del tetto; sedetti colle gambe spenzolate una a destra, l'altra a
sinistra: anche Balbi fece lo stesso. Avevamo la schiena voltata verso
l'isoletta di San Giorgio; vedevamo, a duecento passi dinanzi a noi, la
cupola della chiesa di San Marco e quella parte del palazzo ducale ove
162 CASANOVA

si trova la cappella del doge, la cui magnificenza non ha nulla di eguale


in Europa. Mi sbarazzai del mio fardello e consigliai a Balbi di far lo
stesso. Pose il fascio di corde tra le sue gambe; ma il suo cappello,
che voleva mettersopra, perdette l'equilibrio e cadde nel canale. Questo
gli parve un triste presagio: si dolse amaramente di non aver più nè
abito, nè camicie, nècappello, e sopratutto di aver perduto un prezioso
manoscritto che conteneva una storia affatto nuova delle feste della
Repubblica. Procacciai di persuaderlo che non bisognava considerare
questi leggieri accidenti come di cattivo augurio, e che era una vera
fortuna che il suo cappello fosse caduto a diritta e non a sinistra, per
chè sarebbe stato veduto nella corte dove stanno di guardia gl arsena
lotti, i quali avrebbero congetturato che fosse di un prigioniero che
cercasse di scappare e che perciò ci avrebbero ripresi.
» Dopo di aver guardato intorno a me, dissi a Balbi di aspettarmi
in quel luogo senza muoversi, e col mio stilo in mano continuai a seguire
il colmo del tetto. Passai un'ora intera a esaminare attentamente per
tutto i luoghi dove si potesse attaccare la mia scala di corda. Ma tutti
i vuoti che scorgeva dinanzi a me, riuscivano a luoghi chiusi; e per ar
rivare alla Canonica, dall'altra parte della chiesa, si presentavano osta
coli insormontabili. Scorsi al terzo del pendio del tetto un abbaino che
dava lume probabilmente ad un luogo situato nella circoscrizione delle
prigioni, oppure a un corridoio che conduceva a delle camere che sareb
bero state aperte, come credeva, sul far del giorno. Se qualcuno ci avesse
scorti, anche pensando che fossimo prigionieri di Stato, non avrebbe
tentato di arrestarci. Mi lasciai dunque sdrucciolare lentamente verso
quella finestra, finchè arrivai ad una piccola tettoia parallela al tetto
superiore: mi ci fermai. Quindi mi curvai, mettendo innanzi la testa e
le mani, e scopersi a tastoni, dietro una griglia, una finestra a vetri
piccoli e tondi. Ci voleva una lima per tagliar le sbarre della griglia,
e io non aveva che uno stilo. Triste, in preda alla più viva agitazione,
era divenuto incapace di prendere una risoluzione qualunque, quando
a un tratto uno circostanza molto ordinaria agi sopra di me contutta la
forza di un miracolo. L'orologio di San Marco, sonando mezzanotte,cacciò
dal mio spirito quella funesta irresoluzione. Mi venne subito in pen
siero che era cominciato il giorno d'Ognissanti e che era pure la festa
del mio santo protettore, poichè mi avevano detto che io aveva pure il
mio santo. Ma ciò che forse m'incoraggiò ancora di più, si fu il ri
cordo di quel verso dell'Ariosto

Fra il fin d'Ottobre e il capo di Novembre.

« Quando la sventura spinge alla divozione uno spirito forte, vi si


mescola sempre un poco di superstizione. Questo suono dell'orologio mi
diede un nuovo ardore e sembrò annunciarmi la vittoria. Mi avanzai
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 163

trascinandomi carpone e detti un gran colpo alla griglia col mio stilo,
coll'intenzione di levarla via tutta, e in capo a un quarto d'ora riu
scii a cavarne quattro sbarre. Staccai presto i vetri, senza far attenzione
alle ferite di cui erano coperte le mie mani.
» Risalii coll'aiuto del mio stilo sul colmo del tetto e tornai al
luogo dove era rimasto il mio camerata, che trovai furioso e dispe
rato. Mi malediva di averlo lasciato solo per due ore e si disponeva a
tornare alla sua prigione, persuaso che io fossi precipitato abbasso. Mi
domandò che cosa volessi fare. Le saprete presto, gli risposi, e nel
medesimo tempo presi i miei fardelli e gli dissi di seguirmi. Quando
fummo arrivati all'abbaino, gli spiegai ciò che aveva fatto e ciò che
aveva intenzione di fare. Mi domandò: come passeremo per l'abbaino?.
Per il primo, risposi, nulla di più facile, poichè il secondo terrebbe la
corda. Ma che farebbe alla sua volta il secondo? Saltando potrebbe
rompersi una gamba, perchè non sapevamo che altezza ci fosse dalla
finestra al pavimento.
» Balbi, a cui feci pacatamente queste osservazioni, mi disse che
avrei dovuto lasciarlo scender prima, e poi cercare il mezzo di rag
giungerlo. Io fui abbastanza padrone di me stesso, sentendo questa
proposizione, per moderare la mia indegnazione, camminando sempre
diritto verso il mio scopo. Gli attaccai una corda attorno al corpo, poi
lo lasciai scivolare lungo il tetto verso l'abbaino, dicendogli di appog
giarsi col gomito alla tettoia della finestra e di mettere i suoi piedi
nell'apertura. Poi mi avvicinai e mi inclinai sul dinanzi, gridandogli
di non temere, perchè io teneva fortemente la corda. Finalmente egli toccò
terra, si staccò e io ritirai la corda verso di me. Vidi che la distanza
dalla finestra al pavimento era dieci volte la lunghezza del mio brac
cio: un salto di quell'altezza era impossibile. Il monaco mi gridava di
gettargli la corda, ma io mi guardai bene di soddisfare una cosi stolta
richiesta.
» Tornai di nuovo sulla cima del tetto e scoprersi un'apertura con
due imposte, che non aveva ancora scorto. Ci trovai un secchio, della
calce, diversi utensili da muratore e una lunga scala. Quest'ultima par
ticolarmente fissò la mia attenzione: attaccata la corda attorno agli
scalini rimontai sul tetto e mi trassi dietro la scala. Era la scala ap
punto che mi faceva bisogno per scendere nella soffitta, perchè aveva
più di dodici volte la lunghezza del mio braccio.
» Ma il soccorso di Balbi mi mancò. Aveva calata la scala in modo
che coll'estremità inferiore si appoggiava alla grondaia e colla supe
riore alla finestra. La tirai di nuovo verso di me per farla entrare
nella finestra, ma non vi potei riuscire. Intanto il giorno si avvicinava
e Lorenzo poteva sorprenderci.
» Risolvetti dunque di lasciarmi scivolare fino alla grondaia per
poter dirizzar bene la mia scala. Questa grondaia, ch'era di pietra, mi
16 CASANOVA

dava un punto d'appoggio e mi stesi sopra di essa con tutto il corpo.


Riuscii infatti a far entrare uno scalino nella finestra; si trattava so
lamente di farne entrare altri due e quindi di risalire alla cima del
tetto per tirar la scala colla corda. Per venire a capo di questo, mi le
vai sulle ginocchia, ma, per lo sforzo che feci, l'estremità inferiore del
corpo usci dalla grondaia e io non vi restava attaccato che coi gomiti
e col petto. Quanto alla scala, era benissimo riuscito a farla entrare
per più di due piedi nella finestra e non si moveva più. Allora cercai
di rimettere il mio ginocchio diritto sulla grondaia. Vi era riuscito per
metà, quando i miei sforzi continui mi cagionarono un granchio dolo
roso che mi paralizzò interamente. Che terribile momento! Restai due
minuti immobile; finalmente il dolore diminui e potei rimettere i miei
ginocchi un dopo l'altro sulla grondaia. Giunsi, coll'aiuto del mio stilo,
sino alla finestra e spinsi la scala, che il mio compagnopotè prendere
e metter al suo posto. Gli gettai il mio fardello e le mie corde, di
scesi e mi precipitai nelle sue braccia. Dopo avere espresso la nostra
gioia di vederci riuniti, esaminammo il luogo stretto e scuro in cui ci
trovaVam0.
» Ci avvicinammo a un cancello di ferro che s'aperse alzando il
chiavistello; poi entrammo in un salone di cui toccavamo le mura a
tastone; in mezzo c'era una gran tavola circondata da sedie a brac
ciuoli. Scoprimmo finalmente una finestra: l'apersi e scorsi al lume
delle stelle una profondità immensa: non si poteva pensare a fuggire
di là. Tormai al luogo in cui avevamo deposte le nostre robe, e mi
posi sopra una sedia. Sentii allora una voglia di dormire così irresi
stibile, che l'avrei sodisfatta a rischio della mia vita. Il sentimento che
provai nello svegliarmi, è di quelli ch'è impossibile di esprimere. Fi
nalmente in capo a tre ore il monaco, a forza di gridare alle mie
orecchie e di scuotermi, riuscì a svegliarmi: questo sonno nella situa
zione in cui ci trovavamo, gli pareva una cosa incomprensibile. Quanto
a me che mi era addormentato per stanchezza e involontariamente, lo
capiva benissimo. Era la natura che mi aveva vinto, affine di concedermi
poi le forze di cui avevo tanto bisogno.
» Alzandomi dissi a Balbi: qui non siamo in una prigione: questa
sala deve avere un'uscita. Infatti trovai dinanzi alla porta col cancello
un'altra porta. Introdussi il mio stilo nella toppa, sclamando: purchè
non sia un armadio! Dopo alcuni sforzi la porta cedette ed entrammo
in un locale più piccolo. In mezzo c'era un tavolo con sopravi una
chiave: la provai ed entrai in una camera, in cui c'erano degli armadi
pieni di carte: era la sala degli archivi. Scendemmo una scala ed ar
rivammo per una porta invetriata alla Cancelleria ducale. Ora io
conosceva i luoghi: se fossimo discesi per la finestra, ci saremmo tro
vati in un labirinto di cortili, da cui non avremmo potuto uscire. Presi
dunque uno di quegli strumenti di cancelleria che servono a forare le
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 165

pergamene per attaccarvi i sigilli, lo consegnai a Balbi e cominciammo


a far nella porta un'apertura abbastanza grande, senza darci pensiero
dello strepito che producevano i nostri colpi raddoppiati. Ma il legno
scheggiato da tutte le parti ci avrebbe stracciato gli abiti e la pelle.
» Di più quest'apertura era a cinque piedi dal suolo, perchè aveva
scelto il luogo dove le assi erano più sottili. Avvicinai una sedia e il
monaco vi montò, poi passò la testa e le braccia per l'apertura e io lo
spinsi in una camera la cui oscurità non mi spaventava, perchè sapeva
dov'ero. Gli gettai il fardello e lasciai solamente la corda nella sala
della Cancelleria.
» Quanto a me, siccome nessuno poteva aiutarmi a passare, avvicinai
due sedie l'una all'altra. ne posi sopra una terza, in modo che l'aper
tura mi arrivava a mezza vita, ma non potei passare che per metà e
fui obbligato di pregar Balbi di tirarmi a se con tutte le sue forze
senza essere trattenuto dal timore di farmi male. Mi morsi la lingua
e mi lacerai il corpo, ma infine mi trovai fuori. Raccolsi le mie robe,
e scendemmo prontamente due scale. Arrivammo a un passaggio che
conduce alla scala dei Giganti; ma era chiusa, del pari che il vestibolo,
con quattro grandi porte che non si sarebbero potuto forzare che con
un petardo o con una leva, e il mio stilo sembrava dirmi: hic fines
posuit; qui ha messo i termini. Quel prezioso strumento della mia libe
razione meriterebbe di esser posto, come un ex-voto, vicino all'altare del
mio santo protettore. Sedetti allegramente sovra un scalino e dissi a
Balbi che io avevo compito l'opera mia e che toccavaalla Provvidenza
o al caso di fare il rimanente.

Abbia chi regge il ciel, cura del resto,


O la Fortuna, se non tocca a lui.

» E oggi il di d'Ognissanti, continuai, domani il di dei morti. È


poco probabile che uno dei guardiani della sala venga oggi. Se ne
viene qualcuno ed apre la porta, io fuggirò e voi mi seguirete: se non
“viene nessuno, morremo di fame. Non c'è via di mezzo.
» Il furore e la disperazione di Balbi passavano tutti i confini:
tuttavia mi contenni e pensai a cangiar di vestito. Balbi aveva l'aria
di un contadino, ma almeno i suoi abiti non erano stracciati e coperti
di sangue come i miei. Cavandomi le calze, scopersi in ciascuna delle
mie gambe delle ferite, da cui usciva il sangue: me l'era fatte sulla
grondaia e sulle lamine di piombo del tetto. Lacerai la mia pezzuola,
e ne avvolsi i pezzi intorno alle mie ferite collo spago che aveva por
tato meco. Poscia mi posi il mio abito di seta, ch'era strano col freddo
che faceva. Accomodai i miei capelli di dietro a coda, mi posi delle
calze e una camicia guarnita di merletti: poi gettai i miei abiti vecchi
dietro una sedia. Cosi abbigliato sembrava un damerino che uscendo
dal ballo va a passar la notte in una casa sospetta.
166 CASANOVA

» Poi che fui vestito in questo modo e col cappello a piume in


testa, mi avvicinai ad una finestra: (come seppi due anni dopo a Pa
rigi, un tale che stava sotto a baloccarsi, mi vide e corse ad avvertire
il portinaio. Questi temette di aver chiuso dentro qualcuno per isbaglio
il giorno innanzi e accorse. Sentiamo che qualcuno monta le scale por
tando delle chiavi: guardando attraverso una fessura della porta, potei
scorgere un uomo solo con un mazzo di chiavi in mano. Raccomandai
a Balbi il più profondo silenzio, nascosi lo stiletto sotto il mio abito
e mi posi in maniera da non aver che un salto da fare per arrivare
alla scala. Finalmente la porta si apri: al nostro aspetto, il custode
resta confuso. Senza dir una parola e senza fermarmi, passai dinanzi a
lui e scesi in fretta gli scalini: il monaco fece il medesimo. Mi diressi
quindi a passi precipitati verso la scala dei Giganti, mentre Balbi mi
gridava: entriamo in chiesa, entriamo in chiesa. Si trovava a una
ventina di passi alla nostra destra.
» Ci sono poche chiese a Venezia che abbiano il privilegio di dare
asilo ai rei: quindi nessuno vi si rifugia quando è inseguito dagli
sbirri. Balbi sapeva questo al pari di me, ma non si sentiva la forza
di andar piu lontano a cercar un asilo. Io tirai dritto; Balbi mi se
gui: conobbe il bisogno di non abbandonarmi, come ni confessò dopo.
» Non era a Venezia, ma fuori delle frontiere della Repubblica
che io cercava di mettermi al sicuro. Quante volte aveva pensato
alla strada che doveva tenere! Ora si trattava solamente di mettere
in esecuzione quello che aveva tanto desiderato. Mi trovai alla porta
principale del palazzo senza guardare intorno a me, per non attirare
l'osservazione della gente. Traversai la Piazzetta e giunsi alla riva del
canale. Montai nella prima gondola che mi occorse e gridai al barca
iuolo: prendi anche un altro remo, perchè voglio andare a Fusina. Il
secondo rematore arriva: io mi getto sopra la panca di mezzo, mentre
il monaco siede da parte e la gondola si allontana presto dalla riva.
A veder quel monaco senza cappello e avvolto nel mio mantello, ci si
poteva prendere per astrologi o per ciarlatani di piazza. -

» Quando avemmo passata la Dogana, i gondolieri si misero a vogare


con tutte le loro forze per il Canal donde si può prender la dire
zione di Fusina o quella di Mestre, come io voleva. Quando fummo
arrivati alla metà del Canale, misi fuori la testa e domandai al gon
doliere di poppa se arriveremmo a Mestre avanti le quattordici.
» - Ma non voleva andare a Fusina? mi rispose.
» Gli dissi ch'era una bestia e che gli aveva detto di condurmi a
Mestre: l'altro rematore mi contradisse pure. Balbi, da buon cristiano,
credette dover prendere le difese della verità e mi diede torto. Allora
do in uno scoppio di risa, convengo che mi posso essere ingannato, e
aggiungo che la mia intenzione è di andar a Mestre e non a Fusina.
Il gondoliere non fa più obiezioni, ma dice che potrebbe anche condurci
FUGHE ED EVASIONI CELEBR1 1 (67
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in Inghilterra se mi prendesse la voglia d'andarci, e che arriveremmo


a Mestre in tre quarti d'ora, perchè avevamo il vento e la corrente
favorevoli.
» Allora guardai per la prima volta dietro di noi. Non si vedeva
una sola barca seguire la stessa direzione, e la mattina era bellis
sima. Considerava macchinalmente i nostri due giovani rematori, am
mirando la loro agilità e riflettendo sui pericoli della terribile notte pas
sata. Mi ricordai del luogo dov'era ancora il giorno prima e dei soccorsi
che la Provvidenza m'aveva accordato per favorire la mia evasione.
Pieno di riconoscenza innalzai la mia anima a Dio, fui assalito da mille
idee diverse e il mio volto si coperse di lagrime.
» Quel cattivello del mio compagno, che sino a quel momento non
aveva aperto bocca che per darmi torto coi gondolieri, volle cessar
le mie lagrime, di cui egli ben conosceva la sorgente. Ma la maniera
con cui egli pensò di farlo, mi fece dare in uno scoppio di risa, co
sicchè egli mi credette pazzo, come mi confessò più tardi. Quest'uomo
era naturalmente sciocco e cattivo per sciocchezza. Tuttavia la posi
zione in cui io mi trovava era tale, ch'ero obbligato a servirmi di
lui, benchè sia mancato poco che per la sua imbecillità non cagionasse
la mia rovina senza volerlo, anzi neppur senza pensarvi. Io non gli
potei mai far capire che la mia intenzione era stata sempre di andar
a Mestre, anche quando aveva detto al barcaiuolo di condurci a Fusina.
Pretendeva che quest'idea mi fosse venuta solamente alla metà del
Canal Grande, e non volle mai desistere dalla sua idea.
» Finalmente giungemmo a Mestre. Non c'erano cavalli alla posta;
ma all'albergo della Campana si trovavano dei vetturini, che non ce
devano in velocità alla posta stessa. Avevano vigorosi cavalli: andai in
istalla e mi accordai con un vetturino, che mi conducesse a Treviso in cin
que quarti d'ora. I cavalli furono attaccati tre minuti dopo; e persuaso
che Balbi fosse dietro di me, gli gridai: via, montiamo. Ma Balbi non
c'era. Invano lo cerco e domando dove possa essere: nessuno lo sa.Or
dinai allo stalliere di andarlo a cercare coll'intenzione di dargli poi una
romanzina. Lo stalliere torna a dirmi che non l'aveva trovato. Io non
poteva più frenarmi, e fui in procinto di partir solo: avrei potuto farlo
senza che nessuno potesse rimproverarmelo. Tuttavia mi feci forza e mi
posi io stesso a cercarlo e domandar da lui: tutti mi dicevano di averlo
visto e nessuno sapeva dirmi dove fosse. Mentre percorreva le arcate
della strada grande, per caso guardo traverso i vetri di un caffè e
veggo quell'imprudente seduto con una tazza di cioccolatta in mano,
che stava tranquillamente discorrendo colla serva. Avendomi veduto,
dice ch'è una bella ragazza, m'invita a prender anch'io una tazza di
cioccolatta, e a pagar per lui, perchè non aveva un soldo. Nel mede
simo tempo che lo pregava di far presto, gli diedi una tale stretta al
braccio che dovette temere ch'io glielo volessi rompere. Pagai ed uscii
168 CASANOVA

» Tornando verso la mia vettura, incontro un Mestrino chiamato


Balbo Tomasi, buon uomo in fondo, ma che si diceva impiegato ai ser
vigi del tribunale dell'Inquisizione. Venne a me e dissemi: come voi
qui! Oh quanto sono contento di vedervi? Siete dunque scappato! Rac
contatemi la cosa, ve ne prego. – Io non sono scappato, gli risposi:
mi hanno messo in libertà. – E impossibile. Sono stato ieri da Gri
mani, e avrei senza fallo sentito a parlarne.
« S'imagini, s'è possibile, lo stato dell'animo mio in quel terribile
momento. Io mi credevo scoperto da un uomo che dovevo conside
rare come pagato per arrestarmi, e che perciò non aveva che da fare
un cenno a uno dei tanti sbirri di cui Mestre è piena. Lo pregai di
parlare a bassa voce e di accompagnarmi all'albergo. Mi segui e quando
vidi ch'eravamo vicino a un piccolo fosso al di là del quale si stendeva
la campagna, e che nessuno ci osservava, presi colla mano destra il mio
stilo e coll'altra afferrai quell'uomo per il collarino; ma egli ebbe la
destrezza di sfuggirmi e di saltare al di là del fosso. Si mise allora a
correre con tutta la sua forza in una direzione opposta a Mestre, e
volgendosi di tanto in tanto verso di me, mi mandava dei baci colla
mano, come per dirmi: buon viaggio; non abbiate timore di nulla. Finii
col perderlo di vista, e ringraziai il cielo di averlo cosi tolto dalle mie
mani e di avermi risparmiato un omicidio inutile; il mio scopo era
di scannarlo, sebbene abbia saputo in seguito ch'egli non aveva nes
suna cattiva intenzione contro di me. E vero però che la mia situa
zione era terribile! Io mi vedeva in guerra aperta e solo contro tutte
le forze della Repubblica, ed ero obbligato di essere ad ogni costo pru
dente e sospettoso.
» Tetro e pallido come un uomo ch'è sfuggito ad un pericolo immi
nente, gettai uno sguardo di disprezzo sul miserabile che era sven
turatamente mio compagno, e che aveva allora allora veduto qual de
litto io era stato in procinto di commettere per causa sua. Mi posi in
carrozza e Balbi venne a sedere vicino a me, senza osare di rivolgermi
una parola. Cominciai allora a riflettere come potessi sbarazzarmi da
quello sciagurato.
» Arrivammo felicemente a Treviso e ordinai subito due cavalli al
mastro di posta, a fine di poter continuare il viaggio e partire alle
diecisette. Tuttavia la mia vera intenzione non era quella di servirmi
della posta, prima perchè non avevo danaro, poi perchè temevo di es
sere inseguito. L'albergatore mi domandò se voleva far colazione. In -
fatti io aveva bisogno di prendere qualche cosa per ristorarmi, perchè
era tale la mia debolezza, che mi sentivo vicino a svenire; ma non
ebbi il coraggio di accettare. Un quarto d'ora perduto poteva rovinarmi;
temei di essere ripreso; la vergogna mia sarebbe stata eterna. Quando
uno è libero in campagna può, con risoluzione e destrezza, sfuggire a
cento mila uomini: bisogna essere un gran sciocco per lasciarsi ac
chiappare.
FUGIIE ED EVASIONI CELEBRI 169

« Uscii di Treviso per la porta di San Tommaso, come uno che


va a fare una passeggiata, e continuai per una mezz'ora a seguire la
strada maestra. Mi gettai quindi a traverso i campi, ben deciso di non
prender più la strada pubblica finchè non fossi fuori dal territorio della
Repubblica. La via più breve per uscirne era quella di Bassano: tut
tavia io decisi di prender la più lunga, persuaso che mi si dovessero
tendere degli agguati anche nelle vicinanze della più corta. E si poteva
esser certo che non si sospetterebbe mai che per uscire dagli Stati della
Repubblica avessi scelto la via di Feltre: è vero che si trattava di fare
un gran giro.
» Da tre ore il mio compagno ed io camminavamo a gran passi
per le scorciatoie che conducono da Treviso a Feltre, quando mi vidi
costretto a fermarmi e seder per terra. Oppresso dalla fatica sentiva
che, per non cadere svenuto, era necessario che io prendessi qualche ali
mento. Dissi al monaco, dandogli del denaro, di lasciar il mio mantello
e di andar a comprare dei viveri a una fattoria che vedevamo da lon
tano. Balbi si decise ad eseguire la mia commissione dopo di avermi
ripetuto più volte che mi aveva creduto più forte e sopratutto più
coraggioso. A dir il vero Balbi era, fisicamente parlando, più forte di me;
esso avea passato una notte senza dormire, ma la cena che avea fatto
il giorno prima e la tazza di cioccolatta che avea preso la mattina,
compensavano sotto un certo punto di vista quella leggera privazione.
» La buona fattoressa, sebbene non tenesse albergo, mi mandò per
trenta soldi veneti un pranzo abbastanza buono,con cui mi saziai. Già il
sonno cominciava a tormentarmi quando, rialzandomi di balzo, mi misi
di nuovo a continuar la strada. Conosceva perfettamente quei luoghi,
e in capo a quattro ore mi fermai presso d'un villaggio lontano ven.
tiquattro leghe da Treviso. Le mie forze erano interamente sfinite: mi
era impossibile di andar più lontano.
» Aveva le scarpe rotte e le piante dei piedi gonfie e tutte insan
guinate. Mi assisi all'ombra d'un gruppo d'alberi isolati, e Balbi fece
lo stesso.
» Dobbiamo, gli dissi, dirigerci verso il borgo di Valsugana; è il
primo paese al di là delle frontiere della Repubblica di Venezia. Ci
saremo tanto sicuri, quanto a Londra, e là solamente potremo riposare
delle nostre fatiche. Tuttavia, per arrivarci, bisogna avere molte pre
cauzioni che la ci suggerisce; prima di tutto bisogna sepa
rarci. Voi prenderete via per il bosco del Mantello; è la migliore e la
più corta. Io andrò traverso le montagne; è la strada più lunga e più
faticosa. Voi porterete con voi tutto il denaro che abbiamo, mentre io
non terrò un soldo in tasca. Vi regalo il mio mantello: lo potrete cam
biare con un vestito e un cappello: allora tutti vi prenderanno per
un contadino, perchè la natura ve ne ha dato l'aspetto e le maniere.
Eccovi tutto quello che resta dei due zecchini che mi ho ricevuto dal
170 CASANOVA

Conte Asquini: sono diecisette lire. Voi arriverete dopo domani sera a
Borgo; io ci arriverò solamente ventiquattro ore dopo: ivi mi aspetterete
nel primo albergo a mano sinistra. Bisogna assolutamente ch'io dorma
questa notte in un buon letto, e il cielo me lo farà trovare. Finchè voi
sarete meco, sarò sempre inquieto. Senza dubbio siamo cercati da tutte
le parti. Siate sicuro che i nostri contrassegni sono stati mandati per
tutto con tanta esattezza, che sarebbe più che imprudente di entrare
insieme in un albergo. Vedete in che stato deplorabile mi trovo e
quanto ho bisogno di dormire almeno dieci ore di seguito. Addio dun
que: lasciatemi cercare in qualche luogo un asilo per questa notte.
» Io mi aspettava, rispose Balbi, tutto quello che mi dite. Non
vi risponderò altro che questo. Vi ricordate la promessa che mi avete
fatto, quando mi avete proposto di aiutarvi nella vostra fuga? Noi non
dovevamo separarci mai: dovevamo avere lo stesso destino. In questo
modo adempite un impegno cosi sacro? Credetemelo: col danaro ci
sarà facile di trovare per questa notte, non in un albergo, ma in altro
luogo, un asilo dove non correremo alcun pericolo.
» – Siete voi ben determinato a non seguire i consigli che vi
ho dato?
» – Si.
» – Ebbene ! ora la vedremo.
» A queste parole mi rialzo con fatica, prendo la misura della
lunghezza del corpo di Balbi e la segno sulla terra. Nello stesso tempo
cavo lo stilo di tasca e mi metto col più gran sangue freddo del mondo
a scavare una piccola fossa, senza rispondere a nessuna delle domande
che m'indirizzava il mio compagno. Quindi, in capo ad una mezz'ora
di lavoro, dico al monaco,gettando sopra di lui uno sguardo di pietà,
che da buon cristiano non poteva far di meno di consigliarlo che si
raccomandasse l'anima a Dio, perchè aveva l'intenzione di seppellirlo
vivo. Voi siete più forte di me, aggiunsi; voi potete forse farmi provar
la sorte che vi destino. Ecco dunque a che mi riduce la vostra ostina
zione. Finchè è tempo ancora, andatevene e siate sicuro che io non vi
correrò dietro.
» Balbi rimase muto a questa dichiarazione: io continuai il mio
lavoro. Già cominciava a temere che quell'imbecille non mi sforzasse
a spingere le cose all'estremo: quando, sia per paura, sia per rifles
sione, si gettò vicino a me. Non sapendo che ntenni avesse, gli
presentai la punta del mio stilo; ma io non aveva nulla da temere.
Mi dichiarò ch'era pronto a far tutto quello ch' io volessi. Allora lo
abbracciai, gli diedi tutto il mio bagaglio e gli rinnovai la promessa
di raggiungerlo in Valsugana. Non tenni neppure un soldo per me, seb
bene avessi due fiumi da passare; ma ringraziai il cielo di avermi li
berato da un tal compagno.
» Montando sopra una collina ch'era situata a poca distanza, scorsi
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 171

da lontano un pastore che faceva pascere una dozzina di montoni. Mi


diressi verso quell'uomo per aver delle informazioni. Gli domandai
prima come si chiamava il villaggio ch'io vedeva; mi disse ch'era
Val di Piàdene.Sentendo questo nome, capii quanta strada aveva fatto.
Domandai poi al pastore il nome dei proprietari vicini; mi nominò
in generale delle persone che conosceva, ma che io non voleva spaven
tare col mostrarmi loro improvvisamente. Tra le altre mi indicò
nelle vicinanze una campagna e mi disse che apparteneva alla famiglia
Grimani: era prudente di non farmi vedere colà, perchè avrei potuto
incontrarvi uno degli Inquisitori di Stato. Finalmente ebbi la curiosità
di sapere a chi apparteneva una casa rossa che vidi da lontano e pre
gai il pastore di dirmelo. Qual fu il mio stupore di sentire che ci stava
il capo degli sgherri! Dissi addio a quel bravo uomo e scesi dalla
collina.
» Ma chi potrà mai imaginare ch'io mi sia messo a camminare verso
quella casa, terribile da cui la riflessione e anche l'istinto avrebbero
dovuto allontanarmi? Tutto ciò che mi ricordo, si è che in quell'occa
sione obbedii ad un impulso affatto estraneo. Se è vero che l'uomo
abbia sempre vicino a lui uno spirito invisibile, come Socrate credeva,
credo che quell'impulso mi sia stato dato da uno di quegli spiriti be
nefici. In vita mia io non ho tentato mai nulla di più audace.
» Con un aria determinata epieno di fiducia entro nella corte, dove
un ragazzo giocava alla trottola. Gli domando dov'è suo padre: il fan
ciullo senza rispondermi corre a cercar sua madre. Alcuni momenti
dopo arriva una donnina molto bella, giovine ancora e in uno stato di
gravidanza molto avanzato: mi dice che suo marito non è in casa e
mi domanda che cosa ho da dirgli.
- Mi spiace, dico, di non aver trovato mio compare, ma mi ral
legro di far la conoscenza della sua cara sposa.
- Suo compare!. Ho dunque l'onore di parlare con sua eccellenza
il sig. Vetturi. Mio marito mi aveva ben detto che ella avrebbe la
bontà di tenere a battesimo il figlio di cui spero di sgravarmi presto.
Sono tanto contenta di far la sua conoscenza. Mio marito sarà dispia
cente di non essersi trovato in casa per riceverla.
– Spero che non tarderà a tornare, perchè vorrei domandargli
un letto per questa notte. Nello stato in cui mi vedete, mi sarebbe
difficile di andar più lontano.
– Le prepareremo subito un letto e la cena. Al suo ritorno mio
marito sarà molto contento dell'onore che le ha voluto fare. E partito
con tutti i suoi uomini e non tornerà che fra tre o quattro giorni.
- Perchè resterà tanto tempo assente?
– Non ha ella sentito che sono fuggiti dai Piombi due prigio
nieri di stato? Uno di essi è nobile, l'altro si chiama Casanova. Mio
marito ha ricevuto l'ordine d'inseguirli: se li acchiappa, li ricondurrà
172 CASANOVA

a Venezia. Se non riesce nelle sue ricerche, tornerà a casa; ma ha


l'intenzione di cercarli per tre giorni.
– Me ne spiace assai: ma, mia cara comare, per non darvi troppo
incomodo, mi metterei volentieri subito a letto.
– Di buon grado. Mia madre la servirà. Ma che ha ella al gi
nocchio?
– Sono caduto alla caccia sopra una pietra e mi sono fatto male.
Ho perduto anche molto sangue.
– Oh poveretto! Ma stia tranquillo: mia madre le farà una fa
sciatura.
» La chiamò subito, le raccontò ciò che io le aveva detto e mi
lasciò. Quella donnetta non ne sapeva nulla, come si vede, delle fur
berie del mestiere che faceva suo marito, il capo degli sbirri. Altri
menti come avrebbe potuto credere che io fossi un nobile? alla caccia
in abito di seta? a cavallo colle calze bianche? senza mantello e senza
servitore!. Suo marito si sarà molto burlato di lei tornando in casa!
» La vecchia madre mi trattò con quella gentilezza che si usa
colle persone distinte. Fasciò le mie ferite e mi disse, dopo aver guar
dato il mio ginocchio, che io doveva soffrir molto, ma che domani starei
meglio; mi consigliò di non toccare i tovagliuoli di cui mi circondava
le gambe e sopratutto di non muovermi. Dopo cena mi abbandonai
interamente alle cure di quella buona donna, che fu obbligata di spo
gliarmi, perchè il sonno mi sorprese come un fanciullo tra le sue
braccia. Io mi sentiva al tutto senza forze; mangiai perchè ne aveva
bisogno e mi addormentai perchè mi era impossibile di resistere alla
natura. Non feci la menoma riflessione sulla terribile situazione in cui
mi trovava.
» Aveva cenato a un'ora e mi svegliai alle tredici. Mi ci vollero
più di cinque minuti per tornare in me stesso: pensai che io real
mente aveva fatto un sonno così lungo. Mi sbarazzai dalle fasce che
circondavano la mia ferita; essa era affatto chiusa. In meno di cinque
minuti ero vestito e pettinato. Uscii dalla camera per la porta che
trovai aperta, traversai la corte e lasciai la casa senza far alcuna at
tenzione a due uomini che stavano fuori e che erano certo due sbirri.
Mi allontanai fremendo da un luogo in cui mi era stata accordata la
più benevola ospitalità ed ove avea potuto restaurar le mie forze:
sentivo a che pericolo mi fossi volontariamente esposto. Non capiva
come avessi potuto entrarvi in quella casa e sopratutto come, dopo
che l'ebbi lasciata, nessuno mi avesse inseguito. Camminai per cinque
ore di seguito attraverso i boschi e le montagne senza incontrare
anima viva, e senza guardare una volta sola dietro di me.
Era appena mezzogiorno, quando senti suonare una campana. Da
un'altura, ove mi trovavo, scorsi in fondo della valle una chiesa. Ve
dendo molta gente nei contorni, pensai che vi si celebrasse la messa
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 173

e mi venne voglia di assistervi. L'uomo oppresso dal peso delle avver


sità vede un'ispirazione celeste in ciascuna delle idee che colpiscono
la sua imaginazione. Era il giorno dei morti. Discesi dunque da quel
l'altura, entrai nella chiesa e fui maravigliato di trovarvi Marcantonio
Grimani, nipote di un Inquisitore di Stato, con sua moglie Maria Pi
sani. Li salutai passando dinanzi a loro e senti la messa. Quando
uscii di chiesa, Grimani, lasciando sua moglie, mi segui, mi si accostò
dimandandomi che faceva in quel luogo e dove aveva lasciato il mio
c0mpagno.
« Ho lasciato al monaco le ultime diecisette lire che possedeva,
affine di p.ocurargli i mezzi di fuggire più agevolmente. Quanto a me,
cerco di mettermi in salvo da questa parte, benchè non abbia un soldo.
Un piccolo soccorso di Vostra Eccellenza mi caverebbe da un grande
imbarazzo.
– « In verità non posso darvi niente, ma incontrerete lungo la
strada degli eremniti che non vi lasceranno morir di fame. Racconta
temi, ve ne prego, come avete fatto a fuggir dai Piombi.
- « E una storia molto interessante, ripresi, ma è un poco lunga,
e gli eremiti potrebbero intanto pranzare senza di me.
« Lo lasciai facendogli un profondo inchino e non potei aste
nermi, malgrado la mia miseria, di ridere del suo rifiuto. Seppi poi a
Parigi che sua moglie gli aveva vivamente rimproverato la sua indegna
condotta. In generale esiste nel cuore delle donne un sentimento di
rettitudine molto più vivo che in quello degli uomini.
Continuai a camminare sino al tramonto del sole; finalmente
mi fermai davanti ad una casa isolata di bell'aspetto. Dissi alla serva
che venne ad aprire, che mi facesse parlare col suo padrone. Mi rispose
ch'era andato dall'altra parte del fiume a una festa di nozze, e che vi
passerebbe la notte; ma che aveva ordine di ricevere meglio che fosse
possibile gli amici di casa che si presentassero.
» Quella buona ragazza mi preparò una cena eccellente e un buon letto.
Seppi per mezzo di alcuni indirizzi di lettere che scorsi quà e là, che
mi trovava in casa del sig. Rombenchi console di non so più che na
zione. Lasciai per esso una lettera sigillata. Svegliato e trovandomi in
forze, mi vesti presto e passai il fiume in un battello, promettendo di
pagare al mio ritorno. Dopo aver camminato cinque ore, andai a pranzo
in un convento di cappuccini. Quindi mi riposi in viaggio e camminai
sino alle ventidue; arrivai a una casa che apparteneva ad un tale di cui
un contadino mi disse il nome: era un mio amico. Entrando lo trovai
solo e immerso nei suoi pensieri. Corsi a lui e volli abbracciarlo, ma mi
respinse e mi consigliò di andarmene al più presto possibile. Gli rap
presentai la mia miserabile posizione e lo pregai di prestarmi sessanta
zecchini. Gli avrei fatto una cambiale, che Bragadin avrebbe senza
fallo pagato a vista. Quel caro amico mi rispose seccamente che gli
17 CASANOVA

era impossibile di aiutarmi, di offrirmi neppure un bicchier d'acqua,


perchè temeva che l'esser io comparso in casa sua non gli tirasse ad
dosso la vendetta del tribunale. Quell'uomo che poteva aver sessant'anni,
era un cambiavalute cui io aveva reso dei servigi. Il suo rifiuto mi
parve più amaro di quello di Grimani. Nella mia giusta collera e nella
mia indegnazione, lo presi con una mano pel collo e coll'altra minaccian
dolo colla punta del mio stilo, gli dissi che l'avrei colpito, se avesse alzato
la voce. Il miserabile tremando si trasse una chiave di tasca, mi mo
strò la scrivania in cui era chiusa la sua borsa e mi disse di prender
tutto quello di cui avessi bisogno. Ma io insistetti perchè aprisse egli
stesso. Aperse un cassettino in cui vidi molto denaro; gli ordinai di
darmi sei zecchini.
– Or ora ne volevate sessanta...
– Si, per amicizia. Ma poichè ho dovuto usar la violenza, non ne
voglio che sei e non ti do ricevuta. Ti si pagheranno a Venezia, mi
serabile, indegno del nome di uomo: scriverò domani per far cono
scere a qual mezzo estremo il tuo vile rifiuto mi abbia costretto di ri
COrrere.

– Ve ne domando scusa:... prendete tutto, ve ne prego.


– No, no. Ti lascio e ti consiglio di lasciarmi andar via tranquil
lamente; altrimenti metto fuoco alla casa.
» Camminai ancora per due ore: sopravenne la notte e fui obbli
gato di passarla sulla paglia in una casa di contadini, dopo aver fatto
una cattiva cena. Il giorno dopo comprai un vecchio soprabito e un
paio di stivali; quindi montai sopra un mulo per traversare il forte
della Scala. La sentinella non mi domandò nemmeno il nome. Presi
quindi a nolo una carrozza a due cavalli ed arrivai al Borgo di Val
sugana; vi trovai Balbi all'albergo in cui gli aveva dato appuntamento.
Se non mi fosse corso incontro, non lo avrei mai riconosciuto. Un so
prabito verde e un cappellaccio sopra una berretta di cotone lo avevano
intieramente travestito.
» Restai tutta la giornata seguente a letto e scrissi più di venti
lettere a Venezia, raccontando a tutti l'avventura dei sei zecchini. An
che Balbi scrisse delle lettere in termini grossolani al padre Barbarigo
suo superiore, ad alcuni nobili e ad alcune donne ch'erano state causa
delle sue sventure (l).

t1) Casanova, traversato il Tirolo, si recò a Monaco, quindi a Parigi. Fece raccomandar
Balbi a un canonico Bassi di Bologna, decano del capitolo di S. Maurizio in Augusta, il
quale lo accolse e lo trattò benissimo. Ma il Somasco fu ingrato e fuggì insieme colla
serva del canonico dopo averlo derubato. Poi caduto in miserna, per disperavo, si recò a
Brescia e si presentò al governatore. Questi lo fece mettere in prigione e poi lo mandò a
enezia ove fu di nuovo chiuso ai Piombi. Dopo una prigionia di due anni fu rimandato
al suo convento, ma fuggì e andato a Roma ottenne dal papa di depor l'abito di monaco
e restar semplice prete. Visse poveramente e morì nella miseria.
XXIV

TR E N C K
(1746-1763)

Federico, barone di Trenck, nato nel 1726 a Königsberg nella Prus


sia, discendeva da una delle più antiche famiglie del paese: suo padre
era generale maggiore di cavalleria. Un suo cugino nato in Italia, men
tre il padre di esso vi, si trovava come generale austriaco, aveva prima
servito la Russia, poscia fu capo di Panduri, milizia irregolare e fero
cissima al servizio dell'Austria, nelle guerre contro la Prussia.
Il barone Federico, dopo aver fatto buoni studi all'università di
Königsberg, entrò, in età di sedici o diciasette anni, come cadetto nella
guardia di Federico II re di Prussia. Era una truppa scelta: tutti gli
uomini più ben fatti che il re s'imbatteva a vedere, gl'incorporava
tosto nella sua guardia; gli ufficiali di quel corpo erano i meglio ag
guerriti di tutta l'armata, mangiavano alla tavola del re e nei giorni di
gala a quella della regina. Il giovane Trenck fu carissimo a Federico II,
che lo nominò fra breve ufficiale e lo scelse perchè andasse ad adde
strare la cavalleria di Slesia, onore straordinario per un giovane di
diciott'anni. Conobbe alla corte alcuni famosi letterati e scienziati fran
cesi, che il re aveva chiamato a Berlino, tra cui Voltaire e Muapertuis.
Nel fiore dell'età, cortigiano compito, di belle forme ed alto di
statura, quasi sei piedi, Trenck piacque a una gran dama della corte
di Prussia.
» In pochi giorni, dice egli stesso nelle sue Memorie, io mi trovai
di essere il più felice mortale di tutta Berlino. Tanto da una parte,
476 TRENCK

quanto dall'altra, erano quelli i primi amori. Essa mi amava con una
tenerezza senza pari, e per tutta la mia vita non potrò mai dimenti
carmi della bontà ch'ella ebbe verso di me. Il suo nome è un secreto
che debb'esser sepolto nella mia tomba. »
Il secreto di quegli amori non è però sceso con Trenck nella sua
tomba: è noto che quella gran dama era la principessa Amalia, sorella
di Federico II.
Questo amore il quale rese il barone Federico Trenck, come dice
egli stesso, il più felice uomo di Berlino, doveva poi costargli assai
caro ed essere principale cagione di tutte le sue disgrazie. Il re se ne
accorse, celò la sua ira, ma poi, quando l'inesperto giovane cadde nelle
reti di alcuni invidiosi e malvagi, lo puni crudelmente di aver osato
di amare una donna di grado tanto superiore al suo. Altri furono dinanzi
al mondo i pretesti della condanna, ma la prima cagione se ne debbe
cercare in quei secreti di famiglia.
» Sul principio del mese di Settembre 1744 scoppiò la guerra tra
l'Austria e la Prussia. Marciammo in tutta sollecitudine verso Praga,
attraversando la Sassonia, senza incontrare il minimo ostacolo. Il gene
rale Austriaco Harsch credette allora opportuno di venire a capitola
zione e si arrese dopo dodici giorni di resistenza: diecimila uomini ri
masero prigionieri di guerra.
» In questa campagna non vedemmo che da lungi il nemico; ma
le sue truppe leggere,tre volte più numerose delle nostre, c'impedivano
di foraggiare. I Panduri di Trenck c'erano sempre alle spalle e c'in
quietavano non poco, benchè non si avanzassero mai sino alla portata
del cannone. Tutta la nostra cavalleria aveva molto sofferto per man
canza di foraggi. Fummo obbligati ad abbandonar Praga con una
perdita considerevole: Trenck s'impadroni del Tabor, di Budweis e di
Frauenberg. »
La bella condotta di Federico Trenck durante la campagna, in cui
servì come aiutante del re, pareva aver placato l'animo di questo verso
il prode giovane, e infatti gli disse una volta: attenetevi ai miei con
sigli e statevi per sicuro che voglio far di voi un grande uomo.
» Arrivai verso la metà di dicembre a Berlino, ove fui ricevuto
dalla mia amica a braccia aperte. Io era meno prudente che nei miei primi
anni e forse più tenuto di vista. Un tenente della Guardia a piedi
avendo voluto scherzar meco intorno ai miei amori, venne da me sfi
dato a duello e ferito nel volto. Nella vegnente domenica, allorchè
dopo la parata mi presentai al re per fargli la mia corte, e' mi disse:
signore, il tuono va romoreggiando, e potrebbe piombarvi sul capo il
fulmine: guardatevi bene. »
Ecco come scoppiò il turbine sul capo dell'infelice.
» Mia madre in quell'inverno (1744) ricevette una lettera del mio
Fughe ed evasioni celebri. Disp. ll
FUGHE ED EVAS1ONI CELEIBRI 177

cugino Francesco barone di Trenck, comandante dei Panduri al servi


zio austriaco, il quale era stato gravemente ferito nell'ultima campa
gna. Egli diceva nella lettera che aveva intenzione d'instituirmi suo
erede universale. Questa lettera, cui non fu data risposta, mi era stata
consegnata a Potsdam.

» Il 12 Febbraio 1744 mi trovai a Berlino in casa del capitano Ja


schinsky comandante delle guardie del corpo. La conversazione cadde
appunto sopra il Trenck austriaco, e il comandante mi domandò se io era
parente di quello. Risposi che si, e soggiunsi di più, che nominato mi
aVeVa SuO erede universale.
» Ei ripigliò: che avete risposto alla sua lettera? – Niente. – Al

-
178 TRENCK

lora tutta la compagnia mi fece osservare esser cosa mal fatta il non
risponder nulla ad una lettera tanto obbligante, e che il meno che far
potessi, si era di ringraziarlo della sua buona disposizione, pregandolo
a volerla conservare e a continuarmi il suo affetto.
» Il nostro comandante soggiunse allora: scrivetegli di mandarvi
dei bei cavalli d'Ungheria per il vostro equipaggio, e date pure a me
la lettera, chè gliela farò tenere per mezzo del Signor Bossart, consi
gliere di legazione dell'ambasciatore di Sassonia, a condizione però
che mi abbiate a dare uno di quei cavalli. Cosifatta corrispondenza è
è un affare di famiglia, e non di stato; e poi io prendo il tutto sopra
di me.
» Dietro al parere del mio capo tosto mi accinsi a scrivere. Con
segnai la lettera aperta a Jaschinsky; egli stesso la suggellò e la
spedi. r

Nel 1745 il barone di Trenck prese parte alla famosa campagna di


Slesia, intervenne alle battaglie di Stringau e di Sorau, vinte dai Prus
siani comandati da Federico II contro gli Austriaci comandati da Fran
cesco Carlo.
Mentre ferveva la battaglia di Sorrau, il quartiere generale prus
siano era stato saccheggiato dai Panduri, e al Trenck austriaco loro
capo era toccata per parte sua la tenda del re con tutta l'ar
genteria.
« Durante la campagna del 1744 uno de' miei palafrenieri era
preso con due cavalli di maneggio, insieme con diversi altri, dalle
truppe leggere austriache. Io doveva, rientrando nel campo, accompa
gnare il re che voleva riconoscere il nemico. Il mio cavallo era stanco
spiegai apertamente al re l'imbarazzo in cui mi trovava, ed egli mi fe'
dono all'istante d'un superbo cavallo inglese.
» Alcuni giorni dopo rimasi infinitamente sorpreso veggendo ri
tornare il mio palafreniere coi miei due cavalli ed un trombettiere
nemico, che mi recava un viglietto concepito presso a poco nei termini
seguenti: « Il Trenck austriaco non è punto in guerra col Trenck prus
siano suo cugino. All'opposto prova molta soddisfazione d'aver potuto
levar dalle mani de'suoi usseri i cavalli che ad esso appartenevano,
e si fa premura di rimandarglieli. »
» In quello stesso giorno mi presentai al re e fui ricevuto molto
freddamente. Egli mi disse: poichè vostro cugino vi ha rimandato i ca
valli, non avete più bisogno del mio ».
Questo era avvenuto nel 1745, prima che il Trenck austriaco scri
vesse alla madre del barone prussiano, prima che questi, dietro consiglio
del comandante delle guardie del corpo, scrivesse al suo parente.
» Pochi giorni dopo la battaglia di Sorau (1745) mi fu recata
una lettera. Essa era di mio cugino Trenck e scritta già da quattro
mesi. Eccone la copia:
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 179

« Dalla vostra lettera di Berlino del 12 febbraio sento il desiderio


che avete di ricever da me alcuni cavalli ungheresi per potervene ser
vire contro i miei usseri e i miei Panduri. Mi sono accorto nell'ultima
campagna, che il Trenck prussiano è un eccellente soldato; per con
vincervi quindi del mio attaccamento, vi ho mandati i vostri cavalli
caduti in potere delle mie truppe; ma se bramate averne degli unghe
resi, non avete che a togliermi i miei a viva forza nella prossima
campagna; oppure a venire ad unirvi a vostro cugino, che vi acco
glierà a braccia aperte, vi considererà qual amico anzi qual figlio, e vi
procurerà tutti i vantaggi che dipender possono da lui.
» Da principio questa lettera mi spaventò, ma riflettendovi poi
alquanto sopra, mi posi a ridere. La feci leggere ad alcuni miei com
pagni; noi scherzammo insieme sul contenuto di essa e si conchiuse
fra noi di mostrarla al signor colonnello comandante del corpo, il me
desimo cui aveva consegnato la mia lettera per il capo dei Panduri. Il
comandante lesse la lettera di mio cugino con un'aria di sorpresa,
e mi disse: « ebbene, andremo noi stessi a provvederci di cavalli
ungheresi. »
'Trenck l'austriaco sostenne poi di non aver mai aperta quella let
tera e di non aver ricevuto niuno scritto di suo cugino, il barone
Federico. Fu tutto dunque una trama dello Jaschinsky, col quale questi
aveva avuto dei dissapori e che gli aveva serbato rancore. Si servi
della sua posizione e della fiducia che Federico II aveva in lui, per
invelenirne l'animo già mal disposto contro il giovane ufficiale, e
rovinarlo. Il re ordinò che Trenck fosse arrestato e chiuso in una
fortezza. Quello cha v'ha di più grave e che è una macchia al nome
di Federico II, si è ch'egli agi di proprio moto, non volle allora nè mai
esaudire le preghiere di Trenck di essere sottoposto adunconsiglio di guerra
che giudicasse la sua condotta. L'infelice era forse stato imprudente,
ma non mai traditore.
» Venni dunque rinchiuso qual reo nella cittadella di Glatz (in
Slesia). Da principio però non venni posto in carcere, ma bensì nella
stanza dell'ufficiale di guardia, e mi si accordava di poter pas
seggiare, avendo meco le persone di mio servizio.
» Non mi mancavano danari. In quella cittadella allora non eravi
che un solo distaccamento d'un reggimento di guarnigione, i cui uffi
ciali erano tutti poveri. Mi feci ben presto degli amici, e mi fu accor
data molta libertà, di modo che tutti i giorni il ricco prigioniero te
neva tavola aperta.
» Scrissi al re e gli domandai d'essere giudicato da un consiglio
di guerra, sottomettendomi ai più severi castighi qualora fossi stato
riconosciuto reo. Un tuono così deciso per parte di un giovane non
piacque a Federico II, e non mi venne fatto di ottenere risposta
Veruna.
180 TRENC

» Preso dalla disperazione, studiai tutti i mezzi possibili per la


fuga. Il primo che abbracciai, fu d'intavolare coll'aiuto d'un ufficiale
una corrispondenza colla mia amica di Berlino. Essa tosto mi riscontrò
dichiarando, ch'era ben lontana dal credere che mi fosse giammai ca
duto in pensiero di tradir la mia patria, e persuasa che io era incapace
della minima simulazione; biasimava la precipitazione e gl'ingiusti so
spetti del re, mi esortava ad aver coraggio e pazienza e mi mandava
un soccorso di mille ducati.
» Erano già scorsi cinque mesi dacchè mi trovava in prigione; la
pace era stata conclusa, il re tornato alla sua capitale e il mio posto
nelle guardie già dato ad altri, quando un tenente del reggimento
di Fouquet, per nome Piasky, e l'alfiere Reitz, che montavano sovente
la guardia presso di me, mi proposero di fuggirmene in loro compa
gnia. La mia situazione facevasi di giorno in giorno piu triste, e perciò
vi acconsenti. A quel tempo trovavasi pure a Glatz un altro prigio
niero chiamato Manget, nativo di Svizzera, capitano in un reggimento
di usseri. Egli era stato cassato e condannato dal consiglio di guerra a
dieci anni di carcere, e non avea che quattro scudi al mese di pen
sione. Avendo io fatto del gran bene a quest'uomo, mi determinai di
liberar lui allo stesso tempo di me; gliene parlai, accettò il partito e
restò convenuta ogni cosa. Ma il traditore non si tosto fu informato
del nostro progetto, che andò a svelare il tutto e ottenne per sè la gra
zia e la libertà.
» Piasky avendo saputo a tempo che Reitz era stato arrestato, si
pose in salvo colla fuga. Quanto a me, nègai il fatto alla presenza stessa
di Manget, col quale fui posto al confronto: un regalo di cento luigi
mi aveva già reso favorevole l'auditore. Reitz fu cassato e condannato
a un anno di prigionia, ed io venni allora chiuso strettissimamente in
una camera, come reo di aver cercato di sedurre gli ufficiali del re;
ed era guardato colla maggiore vigilanza ed attenzione.
» Qui convienmi interrompere per un istante il mio racconto e dar
luogo ad un'avventura col capitano Manget, la quale mi accadde a
Varsavia nel 1749, vale a dire tre anni dopo.
» Il caso mi portò d'imbattermi in lui in una conversazione: è fa
cile d'immaginarsi in qual maniera lo complimentai e come accompa
gnai le mie parole con molti colpi di bastone. Egli mi propose una
sfida alla pistola. Al primo mio colpo, che parti contemporaneamente
al suo, lo stesi freddo al suolo.
» Questo è stato il solo de' miei nemici da me ucciso di mia pro
pria mano; e ben se l'era meritato per il vile suo tradimento fatto a
due bravi ufficiali, e più ancora rapporto a me ch'era stato il suo be
nefattore, onde non ho mai potuto rimproverare a me stesso la morte
di costui.
» Eccomi ora a ripigliare il filo del mio racconto. La mia posi
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 181

zione a Glatz era divenuta più penosa; i sospetti del re eransi avva
lorati, ed egli era meco irritatissimo per la fuga da me tentata.
» Vedendomi abbandonato a me solo, tutti i miei pensieri erano
rivolti o ad una presta libertà o alla morte.
» Aveva trovato modo di conciliarmi tutta la guarnigione. Sape
vasi che non mi mancava denaro, e quindi non v'era cosa che non
potessi intraprendere in mezzo di un reggimento povero, i cui uffiziali
erano tutti malcontenti, e la maggior parte tolti da altri corpi e posti
in questo quasi per castigo. Ecco qual fu il mio primo tentativo.
» Stavami in una torre allato della città, e la mia finestra era
a quindici braccia d'altezza sopra il livello del terreno. Non poteva dun
que uscire dalla cittadella senza passare in mezzo alla città, dove sa
rebbe stato necessario che almeno da principio avessi un asilo. Un
uffiziale s'incaricò di procurarmelo, e indusse infatti un lavandaio a
ricovrarmi. Allora con un temperino, a cui aveva fatto dei denti, tagliai
tre enormi sbarre della mia finestra. Un altro ufficiale mi procurò una
buona lima, che adoperai con estrema precauzione per non essere sen
tito dalle sentinelle.
» Finito il mio lavoro, divisi in istrisce il mio portamantello, ch'era
di cuoio, e avendole legate le une in capo alle altre, vi uni le mie
lenzuola, e mi calai felicemente da quell'altezza. Il tempo era piovoso
e la notte oscurissima, circostanze favorevoli per me; ma era mestieri
attraversare la fossa piena di fango prima di giungere alle città, al
che io non avea riflettuto prima. Trovavami immerso nella melma fino
al ginocchio, e dopo essermi a lungo dibattuto e aver fatto incredibili
sforzi, mi vidi costretto a chiamare in aiuto una sentinella, e dirle
di far sapere al comandante il misero stato in cui mi trovavo.
» La mia sventura in tale circostanza era tanto più atroce, che
avevamo allora per governatore il generale Fouquet, uomo inumano,
con cui mio padre erasi battuto in duello, ed al quale il Trenck au
striaco avea preso i bagagli nel 1744, dopo aver posto a contribuzione
la contea di Glatz. Egli era quindi giurato nemico del mio nome, e ben
me ne diede una prova singolarmente in quell'occasione, lasciandomi
sino al mezzogiorno nel fango, perchè servissi di ludibrio alla solda
teSCa.
» Alla fine ne venni cavato, ma per esser di nuovo rinchiuso, e
mi fu negato perfino un poco d'acqua da lavarmi. Il mio stato era or
ribile: esausto di forze, pieno di fango avrei potuto inspirar pietà a
tutt'altri fuorchè al generale Fouquet. Soltanto all'indomani fu permesso
a due prigionieri di venir a pulirmi; ma la mia prigionia divenne ec
cessivamente rigorosa, se non che per buona sorte aveva potuto con
servare ottanta luigi, che mi servirono poi a procacciarmi dei buoni
servigi.
» Otto giorni erano appena scorsi dopo la cattiva riuscita del mio
182 TRNCK

tentativo, quando il maggiore Doo venne a vedermi accompagnato dal


l'aiutante e da un ufficiale di guardia. Dopo aver visitati minutamente
tutti gli angoli della mia camera, rivolsemi la parola accusandomi di
tradimento per gli sforzi da me fatti per ottenere la libertà, esoggiun
gendo che una tale azione avrebbe fuor di dubbio reso maggiore lo
sdegno di Federico lI verso di me. Mi esortò ciò non ostante alla sof
ferenza. Io l'interruppi domandandogli quanto tempo avrebbe ancora
durato la mia prigionia: mi rispose che la detenzione di un traditore,
il quale aveva tenuto corrispondenza col nemico, non poteva dipendere
che dall'arbitrio del re. A un tratto gli strappai dal fianco la spada,
che nel discorrere io aveva già fissamente adocchiato; sbalzai fuor
dell'uscio, rovesciando a capitombolo gli ufficiali e le sentinelle. Passando
innanzi al corpo di guardia, ove i soldati stavano armati per arrestarmi,
m'avventai contro di essi colla spada impugnata, aprendomi disperata
mente la via: quattro ne feri, gli altri ebbero timore e scompiglia
ronsi. Montai sulla mura e senza più mi precipitai nella fossa, ov'ebbi
la fortuna di cadere senza farmi alcun male, tenendo pur tuttavia in
mano la spada. Non v'era alcuno che avesse lo schioppo carico: nes
suno ardiva inseguirmi facendo il medesimo salto. Ciò non ostante
era mestieri di traversar la città, nè potea giunger alla porta prima di
una buona mezz'ora.
» Una sentinella volle opporsi alla mia fuga, cogliendomi in un
passo angusto; ma benchè avesse la baionetta al fucile, io la disarmai
e la ferii nel volto. Durante questa zuffa un'altra sentinella mi volea
sorprendere alle spalle; me ne accorsi e mi gettai d'un lancio al di
sopra delle palizzate, fra le quali per mia sventura rimasi stretto con
un piede. Allora riportai una ferita di baionetta nel labbro superiore,
e la sentinella mi tenne fermo per quel piede, finchè arrivassero altri
soldati. In mezzo ai più crudeli trattamenti fui ricondotto alla mia
prigione semivivo. Quel che v'ha però di certo si è che, se fossi stato
più destro nello spiccare il salto, avrei potuto guadagnare la montagna
pria che alcuno potesse raggiungermi; e forse mi sarebbe riuscito di
arrivare in Boemia dopo di essere fuggito di bel mezzogiorno dalla
fortezza di Glatz attraverso delle guardie schierate sul piede di batta
glia per ricevermi. Quando aveva in mano una spada, non mi face
vano paura ad uno ad uno i miei nemici, e a quei tempi avrei sfidato
al corso i più famosi corridori.
» Il temerario disegno da me ideato per la fuga essendomi andato
a vuoto, perdetti ogni speranza. Crebbero i rigori della prigionia: nella
mia stanza venne posto un ufficiale con due soldati chiusi essi pure
con me, e guardati da sentinelle collocate al di fuori. Era pesto dalle
bastonate che avea ricevuto: il mio piè dritto era ammaccato; versava
sangue dappertutto, e passò più d'un mese prima che guarissi dalle
ferite.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 183

» Eccomi pertanto un'altra volta in prigione, dove non tardai


molto a formare nuovi progetti di fuga. Cominciai ad insinuarmi nel
l'animo delle guardie: io aveva del danaro e, col mezzo dell'oro e della
compassione che sapeva ben ispirare nel loro cuore, nulla v'ha d'im
possibile ad ottenersi dai poveri soldati prussiani. Aveva dunque in
dotto trentadue di questi ad eseguire al primo cenno quanto loro avessi
comandato. Gli uni non sapevano degli altri, ad eccezione di due o tre:
io voleva porre alla loro testa il basso ufficiale Nicolai. La guarni
gione della cittadella non consisteva che in centoventi uomini staccati da
un reggimento diviso qua e là per la contea di Glatz, e in quattro
ufficiali che li comandavano. Di questi ne entrarono tre nel complotto.
Il tutto era già concertato, e i miei compagni erano armati di spade
e di pistole. Il nostro disegno era quello di mettere in libertà tutti i pri
gionieri e di ritirarci a tamburo battente in Boemia.
» Un disertore austriaco, cui Nicolai avea svelato il progetto, andò
tosto a denunziarlo. Il governatore spedi senza indugio il suo aiutante
alla cittadella con ordine all'ufficiale di guardia di arrestare Nicolai
e d'invigilare a quanto potea succedere nelle casematte. Ma questi era
egli stesso di guardia, e il tenente mio amico l'avverti che eravamo
traditi. Nicolai era il solo che conosceva tutti i congiurati, molti dei
quali erano di guardia in quel giorno. Egli non perde un momento;
salta nelle casematte e si dà a gridare: compagni,all'armi; siamo tra
diti. Tutti lo seguono al corpo diguardia, s'impadroniscono delle armi,
e restano all'ufficiale soli sei uomini. I congiurati minacciano di far
fuoco sopra chiunque voglia far loro resistenza e s'avviano alla mia
prigione per liberarmi; ma la porta di ferro era troppo solida e troppo
scarso il tempo per atterrarla. Nicolai ad alta voce mi eccita ad aiu
tarlo, ma invano. Allora vedendo ch'era inutile ogni sforzo a mio van
taggio, il bravo soldato alla testa di diciannove altri s'incammina alla
porta della cittadella, dove trovavansi soli sei soldati ed un basso uffi
ciale. Li costringe a seguirlo, ed arriva così felicemente a Braunaw
in Boemia. Prima che la notizia di tal accidente pervenisse sino alla
città e si provvedesse a dargli la caccia, egli avea già fatto la metà
del cammino.
» Due anni dopo incontrai quest'uomo veramente raro a Offenburg,
dove faceva il mestiere di scrivano. Lo presi al mio servigio e lo trattai
qual amico. Mori in casa mia pochi mesi dopo; io ne ho pianto la
morte, e la sua rimembranza mi sarà cara fino alla tomba.
» Allora si addensò sul mio capo un orribile nembo di mali, e
toccò a me solo di portar tutto il peso e le conseguenze della fallita
impresa. Chi mi voleva processare, come quegli che avea osato di se
durre i soldati del re. Chi pretendeva di obbligarmi in qualunque modo
a indicare i nomi dei complici che non avevano potuto fuggire. Ma a
quest'ultima ricerca io non detti mai risposta veruna, contentandomi
18 TRENCK

di dire che, essendo innocente, cassato a torto dal mio rango d'ufficiale
senza essere stato dichiarato reo da un consiglio di guerra, mi ricono
sceva perciò sciolto da qualunqne riguardo; e quindi non doveva sem
brare cosa strana che mi prevalessì della legge naturale che dà il di
ritto ad ogni uomo di difendere l'oltraggiato onor suo e di ricuperare
la perduta libertà: che questo era il solo scopo propostomi nei ripetuti
tentativi da me intrapresi, dai quali non avrei cessato giammai fino a
tanto che o fossi venuto a capo de' miei disegni o vi avessi perduto
la vita.
» Si presero contro di me tutte le precauzioni, risparmiandomi
soltanto i ferri, perchè in Prussia un ufficiale non può esser incatenato
prima di esser stato consegnato per qualche misfatto nelle mani del
carnefice, e questo non era il mio caso.
» Il peggio si era di trovarmi senza danaro: aveva dispensato
tutto quello che era in mia mano, con mia soddisfazione bensi, ma senza
alcun vantaggio, quando la mia buona amica di Berlino, nella quale
mi teneva in costante corrispondenza senza che alcuno l'avesse potuto
impedire, mi scrisse in questi termini:
» Vi compiango, mio caro. Il vostro male è senza rimedio. Ecco
l'ultima mia lettera, perchè non oso più di mettermi a rischio di man
darvene altre. Salvatevi, se potete. Io sarò per voi sempre la stessa,
qualora avrò la sorte di potervi esser utile. Addio, sventurato amico.
Ah siete ben degno di tutt'altra sorte ! ».
« Questo fu un colpo di fulmine per me.
» Mi accadde allora un'avventura, di cui non si ritrovano esempiº
negli antichi romanzi di cavalleria.
» Un certo tenente de Bach di nazione danese montava la guardia
ogni quattro giorni, ed era il terrore della guarnigione, attesochè, es
sendo valentissimo nel maneggio della spada, movea sempre delle con
tese co' suoi compagni per quindi sfidarli a duello, e ne feriva qual
cheduno quasi ogni giorno. Egli stavasi un giorno assiso sul mio letto
presso di me e mi raccontava di aver ferito in un braccio il tenente
Schell. Io gli risposi scherzando: se fossi libero e sciolto, son d'avviso
che durereste fatica a far altrettanto con me, perchè vi so dire che non
maneggio male la spada. Al momento s'accende di bile, e stacca due
lunghe schegge dell'estremità di una vecchia porta che mi serviva di
tavola; ce ne serviamo come di due fioretti, e al primo colpo gli meno
una botta dritta sul petto. Tutto turbato se n'esce senza parlare. Ma
quale stupore fu il mio, quando pochi istanti dopo lo veggo tornare con
due spade nascoste sotto i suoi abiti. Me ne presenta una e mi dice:
prova adesso ciò che sai fare, ciarlone. Io mi voglio scusare mostran
dogli il rischio cui si metteva, ma ciò non vale che a vieppiù inasprirlo.
Mi si scaglia addosso furiosamente e sono obbligato a ferirlo nel braccio
dritto. Allora getta a terra la spada: mi salta al collo, m'abbraccia strug
FUGEIE ED EVASIONI CELEBRI 185

gendosi in pianto e dopo avermi per qualche tempo considerato colla


più viva commozione, esclama: amico, confesso che tu puoi essere mio
maestro. Non dei qui restarti: ne anderai libero per opera mia, te lo
giuro, o non sarò de Bach.
» Frattanto bendai alla meglio la sua ferita. Uscendo egli mandò
secretamente a cercar un chirurgo che lo medicasse, ed alla sera fu a
me di ritorno. Mi dichiarò allora che era impossibile poter salvarmi,
salvo che non fuggisse meco anche l'ufficiale di guardia; che quanto a
lui era disposto a sacrificare la propria vita per servirmi, ma che a
dir vero esitava molto a risolversi a tradire il proprio dovere, diser
tando nel tempo della sua guardia. Mi assicurò non ostante sulla sua
parola d' onore, che fra pochi giorni mi condurrebbe una persona, la
quale conveniva al mio bisogno e ch'egli avrebbe dato ogni ainto alla
mia fuga. Nella stessa sera viene di nuovo a ritrovarmi e conduce seco
il tenente Schell. Le sue prime parole nel presentarmelo sono: ecco
l'uomo di cui avete bisogno. Schell m'abbraccia, mi dà la sua parola
e l'affare resta concluso.
» Cominciammo dunque a deliberare sui mezzi che faceva d'uopo
impiegare per eseguire con successo il nostro disegno. Schell era giunto
a Glatz da poco tempo, essendo prima di guarnigione a Habelswerth
e doveva montare fra due giorni la sua guardia alla cittadella, onde
si sospese il tutto sino a tale occasione. Io non riceveva più nulla dalla
mia amica; non mi rimanevano che sei doppie, onde fu risoluto che
Bach dovesse portarsi a Schweidnitz per esigere una somma da un
amico che mi era debitore.
» Schell aveva delle prerogative non ordinarie; possedeva a fondo
sei lingue ed era molto istruito. Serviva nel reggimento di Fouquet:
il suo colonnello, ch'era un Pomerano, lo perseguitava per futili ra
gioni; e il generale Fouquet, che non amava gli ufficiali dotti, l'avea
relegato in un reggimento di guarnigione. Domandò per ben due volte
il suo congedo, ma il re lo fece mettere in prigione. In seguito a ciò,
si risolvette di disertare e di vendicarsi col mettermi in libertà, per
far onta e dispetto a Fouquet.
» Avevamo adunque fissato che tutto dovesse esser disposto alla
prima guardia di Schell, e che nella seconda avremmo messo ad ese
cuzione i nostri progetti. Egli montava la guardia ogni quattro giorni,
ond'era appunto l'ottavo quello in cui dovevamo prender la fuga.
» Erano però caduti dei sospetti sopra di Schell: un altro prigio
niero aveva fatto qualche rivelazione. Il tenente Schweder che era al
fatto dei nostri progetti, dubitò che fossimo traditi. Corre alla cittadella
e dice a Schell: ponti in salvo; tutto è, scoperto e tu sarai arrestato
a mOmenti.

» Schell avrebbe potuto di leggieri provvedere alla sua sicurezza


fuggendo solo, perocchè Schweder avevagliproposto di somministrargli dei
186 TRENC

cavalli ed erasi pure esibito di accompagnarlo in Boemia. Ma qual fu


in una così perigliosa circostanza la condotta di quel bravo uomo?
Eccola. Entra immediatamente nella mia prigione, cava di sotto al suo
abito una sciabola da caporale e mi dice: amico, siamo traditi; sie
guimi e non mi abbandonare solo in mano de' miei nemici. Io voleva
parlare, ma egli non me ne dà il tempo, e prendendomi per la mano
soggiunge : Credimi, non abbiamo un minuto da perdere. Io mi vesto
subito, metto gli stivali e non ho neppur tempo di prender meco quel
poco di denaro che ancora mi restava.Usciamo e Schell dice alla sen
tinella: restate là; io conduco il prigioniero nella stanza degli ufficiali.
Vi entriamo infatti, ma un momento dopo ne usciamo per la porta
opposta. Il disegno di Schell era di passare sotto l'arsenale che non
era a molta distanza e, guadagnando la strada coperta, di saltar sulle
palizzate e di metterci in salvo il meglio che ci fosse stato possibile.
« Appena fatti cento passi, incontriam6 il maggiore de Quadt col
l'aiutante. Schell retrocede; monta sul bastione, che in quel luogo non
era molto alto, e si precipita abbasso. Io lo sieguo e, fortunatamente,
non mi faccio altro male che una scorticatura alla spalla: ma non è
così del mio povero amico, il quale ha la disgrazia di slogarsi un piede.
Cava allora la spada, me la presenta e mi scongiura di ucciderlo, indi
salvarmi. Egli era piccolo e smilzo. Io lo prendo fra le braccia, lo getto
dall'altra parte delle palizzate e poi salto, me lo carico sulle spalle e
mi do a correre rapidissimamente senza sapere dove andassi.
« Il sole era tramontato e nevicava: niuno ardiva, per inseguirci,
di far una capriuola così pericolosa come la nostra: soltanto si faceva
un chiasso spaventoso dietro di noi. Prima che i nostri persecutori
fossero usciti dal forte ed avessero attraversato la città per raggiun
gerci, noi avevamo già fatto una buona mezza lega.
» Non eravamo però ancora lontani cento passi, quando sentimmo
a dar l'allarme col tiro del cannone. A dir vero questo mi sgomentò
perchè sapeva quanto fosse d'ordinario difficile di poter fuggire in tal
caso da Gtatz, se uno non ne fosse per lo meno a due leghe di distanza,
essendo tutti i passi occupati in parte dei contadini, in parte dagli
usseri.
» Tutto dunque era in movimento avanti e dietro di noi. Ognuno
pensava che non ci saremmo mai indotti ad un passo così disperato
senza essere prima ben forniti di armi, e niuno sapeva che Schell non
aveva che la sua spada ed io una cattiva sciabola da caporale. Fra gli
ufficiali che aveano avuto l'ordine d'inseguirmi, eravi un tenente per
nome Bars, mio intimo amico e il capitano Zerbst del reggimento Fou
quet, che aveva sempre dimostrato per me il più tenero interessamento.
Essendo prossimi a raggiungerci alle frontiere della Boemia, l'ultimo
di questi si mise a gridare: amico, tienti a sinistra, da quella parte
ove tu vedrai alcune case isolate: là vicino sono appunto le frontiere: gli
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 187

usseri sono passati dall'altra parte. Quindi se ne tornò indietro, come se


non ci avesse neppur veduti. Non avevamo nulla a temere per parte
degli ufficiali, perchè la fraternità che esisteva tra gli ufficiali prus
siani era così intima e la parola d'onore così sacrosanta, che durante
la mia rigorosa detenzione a Glatz io era stato una volta per trenta
sei ore a caccia a Neurode col barone di Stillenfeld. Il tenente Lunik
era restato al mio posto nella prigione, e n'era pure informato il mag
giore che faceva la visita. Da ciò si può di leggeri comprendere qual
credito aveva a Glatz la parola del povero Trenck, giacchè non si du
bitava di lasciarlo uscire dal suo carcere per andare a caccia sulle
frontiere stesse della Boemia.
•» Ma torniamo alla narrazione della nostra fuga. -

» Appena aveva portato il mio amico per un tratto di trecento


passi, lo posai in terra e mi guardai intorno. Non vedeva più la città
nè la cittadella a cagione della grande oscurità, e neppur noi pote
vamo esser scoperti. La presenza di spirito non mi abbandonò mai un
momento, ed era risoluto o di morire o di procurarmi la mia piena
libertà.
» Domandai dunque all'amico « Schell, dove siamo? ov'è la Boe
mia? Da qual parte scorre la Neissa? – Il pover uomo non poteva
riaversi; avea perduto per così dire il cervello e disperava che ci po
tessimo salvare: quindi assicurandomi ch'erano inutili tutte le premure
ch'io mi prendeva, mi rinnovò la preghiera di non lasciarlo prender vivo.
» Dopo che gli ebbi promesso per quanto v'ha di più sacro nel
mondo, che l'avrei salvato da una morte infame, e che l'ebbi rin
corato alquanto, egli girò lo sguardo tutto all'intorno e dall'indizio
di certe piante riconobbe che non eravamo gran fatto lontani dalla
porta della città. Io gli dissi allora: siamo stati veduti fuggire verso
la Boemia. La frontiera è infestata dagli usseri: quindi ci converrebbe
prendere diversa strada. – Dette queste parole,me lo caricai sulle spalle
e lo portai addirittura alla Neissa. Ivi sentimmo distintamente sonar
campana a martello in tutti i villaggi e correre ai loro posti i paesani
destinati a formare il cordone per arrestare i disertori. Giunti al fiume
lo trovammo alquanto gelato; vi entrai col mio amico e lo portai fino
a tanto che trovai fondo; quando questo mi cominciò a mancare, egli
si attaccò alla mia coda (di capelli) e in questa maniera passammo
felicemente all'altra sponda.
» E facile l'immaginarsi quanto piacevole fosse il nuotare il 24
dicembre, ed il restare in seguito tutti immollati per ben otto ore al
l'aria aperta. Verso le sette della sera la nebbia cessò e per buona
ventura cominciò a far chiaro di luna. L'amico ch'io portava, mi riscal
dava colla sua persona, ma io cominciava ad esser stanco. Egli soffriva
estremamente tormentato dal freddo e dagli acuti dolori del suo piede
slogato. La morte ci minacciava da tutte le parti.
188 TRENCK

» Ciò non ostante, quando fummo arrivati all'altra sponda della


Neissa, ci trovammo alquanto più tranquilli, perchè nessuno veniva
sulle nostre traccie per la strada della Slesia. Per una mezz'ora se
guimmo la riva del fiume: passato il primo villaggio, cominciava il
cordone destinato ad impedire la diserzione, e Schell lo sapeva be
nissimo.
» La sorte ci offre in buon punto un battello da pescatore attac
cato alla riva, vi saltiamo dentro, passiamo all'altra riva e in poco
tempo prendiamo le montagne. -

» Arrivati colà, ci sediamo un momento sopra la neve. La speranza


rinasceva nei nostri animi, e si tenne fra noi consiglio di ciò che ci
restava a fare. Io tagliai un bastone per aiutare qualche poco Scell
a strascinarsi, quando era troppo stanco di portarlo, e continuammo
il nostro cammino.
» Ecco come passò quella notte, nella quale poco ci avanzammo.
Finalmente spuntò il giorno. Noi credevamo esser già presso alle fron
tiere, che sono a quattro leghe da Glatz, quando tutto ad un tratto
sentiamo a sonar l'orologio della città. La fatica, il freddo, la fame
ci opprimevano del pari e ci obbligarono a prendere un partito mal
grado i pericoli della nostra situazione.
» Ci rimettiamo dunque in cammino e dopo una marcia di una
mezz'ora arriviamo presso un villaggio situato a piè del monte. Di là
a trecento passi scopriamo due case solitarie, lo che ci dà l'idea di
uno stratagemma che ci riesce felicemente.
» Avevamo perduto i nostri cappelli saltando giù dai bastioni;
Schell aveva ancora la sciarpa che aveva montando la guardia, lo
potea conciliargli qualche autorità fra i contadini. Io mi punsi un dito,
mi macchiai di sangue la faccia, la camicia e l'abito per darmi un'aria
di ferito e mi posi un fazzoletto intorno al capo.
» In questo stato portai Schell sino all'estremità del bosco, che
terminava a piccola distanza dalle case. Qui egli mi legò le mani
dietro alle spalle in guisa pur tuttavia che le potessi sviluppar facil
mente in qualunque caso di bisogno, e gridando aiuto mi accompagne
camminando su d'una gamba coll'aiuto del suo bastone. Accorsero alle
grida due vecchi contadini, e Schell ordinò loro di affrettarsi al vil
laggio e di tornar tosto con un carro dicendo: ho arrestato questo ri
baldo. Egli ha ucciso il mio cavallo, ed è stato cagione che mi sia
spezzato una gamba: presto un carro, affinchè possa essere castigato
prima che egli spiri. Quanto a me mi lasciai trascinare come mezzo
morto in una camera. Uno de'contadini intanto corse al villaggio. Una vec
chia ed una giovane sembravano aver compassione di me e mi
diedero del pane e del latte. Ma qual fu mai il nostro stordimento,
quando il vecchio contadino chiamò Schell per nome e gli disse che
sapeva benissimo che eravamo disertori, attesoche un uffiziale incari.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 89

cato di tenerci dietro, giunto la sera antecedente alla vicina osteria,


aveva dato i nostri contrassegni e raccontato tutta la storia della
nostra fuga. Il contadino conosceva Schell, perchè suo figlio serviva
nella compagnia in cui questo era tenente.
» Appena uditi quei discorsi, lasciando da parte ogni finzione, mi
diedi a correre con tutta fretta alla scuderia: Schell frattanto teneva a
bada il vecchio, il quale per altro era uomo onesto e gl'insegnò pure
la strada da tenere per andar in Boemia. Eravamo distanti da Glatz
solamente una lega e mezza, essendoci smarriti fra le montagne, per
le quali eravamo andati inutilmente errando per tutto quel tempo.
» Nella scuderia, dove accompagnommi la giovane, trovai tre ca
valli, ma senza briglie. La scongiurai colle più vive istanze ad aiu
tarmi, ed ella mossasi a compassione mi diede alla fine tuttociò che
domandai. Condussi i cavalli alla porta e chiamai Schell, che venne
zoppicando, ed io lo posi a cavallo. Allora il vecchio cominciò a pian
gere e a reclamare i suoi cavalli; ma fortunatamente gli mancava il
coraggio o piuttosto la decisa volontà di fermarci, perchè nello stato
di spossatezza in cui eravamo, con una semplice forca ci avrebbe
potuto trattener abbastanza per dar tempo al villaggio di accorrere in
SU1O SOCCOISO.

- » Eccoci dunque a cavallo senza sella e senza cappello, Schell in


uniforme colla sciarpa e la cravatta, ed io in uniforme rosso delle
guardie del corpo. Per altro poco mancò che in quel momento non
vedessimo svanire tutte le nostre speranze, perchè il mio cavallo non vo
leva assolutamente lasciar la scuderia; ma finalmente trovai ben - io
da buon cavaliere il modo di farlo avanzare. Schell andava innanzi, e
fatti appena cento passi ci accorgemmo che i paesani uscivano in folla
dal villaggio.
» Non eravi altra strada che quella di Wurschelburg, e conveniva
attraversar la città per poterci salvare. Schell eravi stato di quartiere
un mese prima, tutti lo conoscevano e il nostro equipaggio ci annun
ziava per disertori. Pur non ostante, siccome i nostri cavalli anda
vano egregiamente bene, così avemmo la fortuna di cavarcela, sebbene
vi fosse una guarnigione di ottanta uomini d'infanteria e di dodici
usseri all'unico oggetto di fermare i disertori. Schell sapeva la strada
di Braunaw, e vi arrivammo alle undici ore della mattina dopo l'in
contro avuto, come si è detto di sopra, col capitano Zerbst.
» Giunto a Braunaw sulle frontiere della Boemia, era finalmente
al sicuro. ll mio primo pensiero fu di mandare al generale Fouquet i
cavalli e la sciabola di caporale che aveva portata meco. La lettera
ch'egli ebbe da me in quella congiuntura, gli fu tanto cara, che fece
passare per le bacchette tutte le sentinelle le quali il giorno della
fuga erano di guardia alla mia stanza, sui bastioni e in tutti i luoghi
dai quali eravamo passati. Così la viltà si vendica della debolezza e
190 TRENCK

la tirannia dell'innocenza. Nel giorno stesso prima della nostra eva


sione erasi vantato che non avrei potuto mai fuggire, ma avvenne il
contrario.
» Da quel punto furono confiscati tutti i miei beni. Io veramente
scrissi al re per rendergli conto della mia condotta; gli addussi la prova
della mia innocenza, senza permettermi neppure una parola di risenti
mento, e dimandai giustizia; ma non ottenni risposta.
» Scrissi a Berlino alla mia amica, ma non ebbi nemmeno da lei
risposta, probabilmente perchè non potei indicarle un mezzo sicuro per
farmela pervenire. Mia madre era prevenuta contro di me e mi aveva
abbandonato; i miei fratelli erano ancora minori, e nulla poteva darmi
il mio amico di Schweidnitz essendo partito pochi giorni prima per
Königsberg.
» Dopo tre settimane di soggiorno a Braunaw, la slogatura di
Schell fu guarita: fummo costretti a vendere il mio orologio, la sua
sciarpa e la sua cravatta, di maniera che ci restarono quattro soli
fiorini.
» Mi determinai allora di andare a piedi in Prussia da mia madre
per ottenerne qualche soccorso e poter passare al servizio della Russia.
Schell, il cui destino era intieramente unito al mio, non volle abban
donarmi. Prendemmo in conseguenza nomi finti, e ci furono spediti
passaporti come a semplici disertori. Io mi chiamai Kert e Schell
Lasch. »
Fra le tante avventure dei due amici in quel viaggio di circa
sei o settecento miglia fatto d'inverno a piedi e quasi senza danaro,
scegliamo la seguente.
« Eravamo giunti a Ezenstochow in Polonia. Andammo a pran
zare in un'osteria, il cui padrone, chiamato per nome Lazzaro, era un
uomo onestissimo. Era stato tenente al servizio dell'Austria, vi aveva
sofferto melte disgrazie; era finalmente ridotto a far l' ostiere in
Polonia. Non avendo più un soldo in borsa, domandammo un pezzo
di pane per carità: il generoso Lazzaro ebbe pietà di noi e ci fece
tosto sedere alla sua tavola. Gli svelai allora chi eravamo e gli con
fidai i motivi del nostro viaggio; ma appena avevamo finito di pran
zare, giunse un equipaggio con tre persone, che all'apparenza sembra
vano mercadanti, avevano cavalli propri, un domestico ed un coc
chiere.
» Avevamo già incontrato questo legno ad Elbing ed uno di quei
signori aveva domandato a Schell dove andavamo. Eravamo però senza
la minima diffidenza di loro, malgrado il pericolo che ci sovrastava.
» Passarono essi la notte all'osteria, ci fecero delle gentilezze e par
larono poco. Noi andammo a dormire, ma poco tempo dopo il nostro
buon albergatore venne a svegliarci e ci narrò con nostro grande stu
pore, che quegli erano uomini travestiti e mandati di Prussia per ar
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 191

restarci; che gli avevano offerto prima cinquanta e poi cento zecchini,
perchè permettesse loro di prenderci nel suo albergo e condurci legati
in Slesia, ch'egli aveva negato costantemente di aderire a tale pro
posizione, sebbene gli fosse stata promessa una ricompensa ancora mag
giore, e che finalmente gli avevano dato sei zecchini per farlo tacere.
» Sentito l'infame tradimento, io voleva nel primo impeto entrare
subito con una pistola in mano nella stanza de'miei nemici, ma Schell e
Lazzaro mi trattennero. Quest'ultimo mi fece inoltre le più vive istanze
di restare nel suo albergo finchè fosse arrivato il denaro di mia madre,
per poter continuare il viaggio con minor pericolo e maggiore comodità.
Ma tutto fu inutile: voleva andar io stesso a parlar a mia madre, non
sapendo qual effetto potesse far una mia lettera. Lazzaro mi assicurò
che saremmo stati senza dubbio attaccati per viaggio. Tanto meglio,
gli risposi, potrò così mandarli all'altro mondo e punirli quali assas
sini di strada.
» Quei signori partirono di buon mattino e presero la strada di
Varsavia.
» Volevamo partire noi pure, ma Lazzaro ci trattenne due giorni
quasi per forza, e ci diede i sei zecchini che aveva ricevuto dai Prus
siani. Con questa somma ci comprammo una camicia per uno, un altro
paio di pistole da tasca ed altre cose necessarie. Lasciammo il nostro
albergatore, dopo averlo teneramente abbracciato e fattogli sinceri rin
graziamenti per l'importante servigio che ci avea renduto.
» Lazzaro ci aveva avvertiti che i nostri nemici avevano un solo
fucile nel loro legno. Aveva un fucile anch'io, una buona sciabola, e
ciascuno di noi un paio di pistole.
» Il nove febbraio prendemmo la strada di Parsemechi. Avevamo
appena fatto una lega che scoprimmo sulla strada un legno. Ci avan
zammo e lo riconoscemmo per quello dei nostri nemici: pareva es
sersi fermato per le nevi, ed essi vi stavano all'intorno. Appena ci vi
dero accostare, si diedero a gridare: soccorso. Questa era l'insidia che
senza dubbio avevano disegnato di tenderci. Schell non era molto forte:
si sarebbero lanciati tutti addosso a me, e ci avrebbero rapiti facil
mente, perchè volevano averci vivi.
» Noi lasciammo adunque la riva e, scostandoci una trentina di
passi, rispondemmo che non avevamo tempo d'aiutarli. A queste pa
role saltarono tutti al loro legno, ne trassero delle pistole e si misero
a correre dietro di noi gridando: alto alto, fermatevi, canaglia. Noi ci
eravamo dati alla fuga; ma rivolgendomi tosto improvvisamente sca
ricai il mio fucile sopra quello che mi era più vicino e lo distesi morto
in terra.
» Schell fa fuoco colle sue pistole; i nostri persecutori fanno il
medesimo ed in questa scarica Schell riceve una palla nella testa. Mi
avanzo io, presento loro le mie pistole; uno di essi fugge, ed io tra-
192 TRENCK

sportato dalla collera lo inseguo per un tratto di trecento passi, lo


raggiungo e, mentre voleva difendersi colla spada, m'avvedo che perde
molto sangue, che resiste debolmente. Allora lo incalzo, gli meno un
colpo che lo atterra. Ritorno subito a Schell, lo trovo in potere dei
due altri che lo strascinavano verso il legno; ma appena si avvidero
che io gl'inseguiva da vicino, fuggirono a traverso dei campi. Il coo
chiere anch'egli, veduto l'esito del combattimento saltò sul cassetto e
prese il galoppo. Schell restò cosi liberato, ma aveva un colpo di pi
stola alla testa ed una ferita alla mano destra, che gli aveva fatto ab
bandonare la spada, colla quale però mi asseri di aver prima ferito
uno dei nemici. Il primo, che io uccisi, aveva un'orologio d'argento,
e lo presi. Stava per impadronirmi pure della sua borsa, quando Schell
mi chiamò e mi indicò una carrozza a sei cavalli che scendeva dalla
costa. Dovevamo noi aspettarla ed esporci ad essere forse arrestati
come assassini di strada?
» I due ch'erano fuggiti avrebbero senza dubbio fatto testimonianza
contro di noi. Il partito più sicuro era quello di una pronta fuga, e ad
essa ci appigliammo. »
Dopo essersi arrestati alcuni giorni in un villaggio per far cu
rare la ferita di Schell, i due viaggiatori continuarono il loro viaggio.
Arrestati a Thorn in sospetto di ladri, e poi liberati trovarono ri
covero da una buona vecchierella che aveva un figlio soldato. Schell
non potendo reggersi per le sue ferite, restò in casa della vecchia e
Trenck andò a Elbinga trovar sua madre, dalla quale fu accolto benis
simo e rifornito di danaro.
I due amici si recarono poi insieme a Vienna, ove Schell prese
servizio militare. In un'appendice alle sue memorie, Trenck racconta
le strane avventure dell'amico dopo la loro separazione. Fu tenente
Austriaco in Italia all'assedio di Genova, poi disertò e prese servizio
presso quella Repubblica, indi passò a quello del Duca di Modena,
finalmente entrò in un reggimento svizzero in Piemonte. I due amici si
rividero per poco tempo, venticinque anni dopo la loro fuga dalla cit
tadella di Glatz.
A Vienna Trenck trovò suo cugino, il famoso colonnello dei Pan
duri, in prigione, calunniato, diceva, dai suoi nemici: malgrado gli im
portanti servigi da lui resi allo Stato, quel terribile capo di bande andò
poi a finire i suoi giorni allo Spielberg.
Ma la vendetta di Federico II seguiva per tutto l'amante della
principessa Amalia.
» Una sera me ne andava a casa, portando sotto il vestito un fa
scio di scritture, quando mi avvidi che mi venivano alle spalle a po
chissima distanza due persone in cappotto grigio. M'inseguivano quasi
alle calcagna, tenendo i discorsi più insolenti sopra di me... Aveva

Fughe ed evasioni celebri, Disp. 12.


FUGHlE ED EVASIONI CELEBRI 193

appena imboccato la strada che conduce alla piazza degli Ebrei, quando
li sentii affrettare il passo e rivolgendomi ricevei nell'atto stesso una
stoccata al fianco sinistro nella parte ove mi facevano corazza le scrit

Trenck e Schell nelle foreste della Polonia. Pag. 190.

turo, che in questo incontro mi salvarono la vita. Queste furono pas


sate da una parte all'altra, e la pelle restò leggermente graffiata.
» Metto immediatamente mano alla spada: quei scellerati si danno
alla fuga; io gl'inseguo, uno di essi cade. Io gli sono addosso e lo
prendo per la gola, ma sopraggiunge la guardia; egli dichiara ch'è
194 TRENCK

ufficiale nel reggimento Kolowrat, mostra la sua divisa ed è rilasciato:


io al contrario sono condotto in prigione. »
Quando fu liberato, l'ufficiale che aveva tentato di assassinarlo, gli
fece dimandar soddisfazione del preteso insulto: era un famoso spadac
cino. Trenck rimase vincitore nello scontro e ferì il suo nemico. Poi
si battè con un'altro ufficiale austriaco, compagno del primo e che lo
avea pure sfidato; e lo distese in terra con una stoccata al basso
ventre.
Lasciata Vienna, prese servizio nell'esercito russo e fu incaricato
di accompagnare dei malati a Danzica, onde sarebbero stati trasportati
a Riga sopra dei vascelli russi. Danzica non formava allora parte della
Prussia; era una città libera. Quivi fece conoscenza con un ufficiale
prussiano.
» Restai molto sorpreso quando un giorno il mio servitore, che
aveva pure fatto conoscenza col servitore dell'ufficiale, mi disse; guar
datevi bene, signore, dall'agguato che vi si prepara. Il tenente N.
vuol tirarvi fuori della città per arrestarvi e consegnarvi ai Prussiani.
-- Gli domandai da chi sapeva questo. Dal servitore, mi rispose, dell'uf
ficiale; voi gli siete piaciuto e per questo cerca di salvarvi.
» Alcuni zecchini che diedi a quel buon uomo, lo fecero parlare
più chiaro, e seppi da lui aver convenuto il residente prussiano Rei
mer ed il tenente, che questi mi indurrebbe, col pretesto di far con
lui una passeggiata, ad andare nel sobborgo detto Langfuhr; che là eravi
un'osteria sul territorio prussiano, ove otto uomini nascosti mi avreb
bero aspettato e sorprendendomi, appena io metterei il piede nel
l'osteria, mi avrebbero chiuso in un legno e condotto a Lauenburg in
Pomerania. Due bass'ufficiali doveano scortarmi a cavallo sino alle
frontiere, e gli altri erano destinati a tenermi e non lasciarmi gridare
per tutto il territorio di Danzica. Seppi inoltre che i miei nemici non
avrebbero altre armi che le loro sciabole.
» Avrei potuto facilmente sventare l'iniquo intrigo col non ac
cettare l'invito al passeggio, ma volli prendermi la soddisfazione di
punire una così nera perfidia.
» Verso il mezzogiorno giunse il tenente N. e pranzò meco al
solito: io mi feci solamente vedere alquanto più pensieroso e più serio
del solito. Alle quattro ei mi lasciò dopo avermi fatto promettere che
sarei andato all'indomani di buon mattino a passeggiare con lui a ca
vallo a Langfuhr. Osservai che il mio consentimento lo mise molto di
buon umore, ed in quel momento pronunciai dentro di me la condanna
del traditore. Lasciato ch'ei mi ebbe, andai dal signor De Scherer re
sidente russo a Danzica, per manifestargli l'imboscata che mi si pre
parava e domandargli se mi sarebbe lecito di prender meco sei uomini
del mio distaccamento per mia sicurezza; gli esposi nello stesso tempo
il mio progetto, ch'egli disapprovò, ma vedendo di non poter indurmi
UGEIE ED EVASIONI CELEBRI 195

a cangiar parere, mi disse per ultimo: fate come volete. Io non voglio
saper nulla, e non ho altra risposta da darvi.
- Andai subito al mio squadrone, scelsi sei uomini, e li condussi
di nottetempo dirimpetto all'osteria prussiana, ove li feci nascondere
in un campo, con ordine di accorrere in mio aiuto coi fucili carichi, al
primo colpo che sentirebbero tirare, e di fermare quanti potrebbero co .
gliere, senza però far fuoco.
» Malgrado tutte queste precauzioni, stimai bene, per evitare una
sorpresa, d'informarmi di quanto facevano i miei nemici. Alle quattro
della mattina seppi dalle spie che avea messo in campagna, che i
residente prussiano Reimer era già uscito dalla città con cavalli di
posta.
» Io aveva cariche le mie pistole d'arcione e quelle del mio dome
stico, ne avea messo delle altre in saccoccia e presa meco la mia scia
bota turca. Alle sei della mattina entrò tutto ilare nella mia stanza il
tenente, esaltò la bellezza della giornata e mi promise scherzando una
graziosissima accoglienza presso la bella ostessa di Langfuhr. Io fui
subito pronto, montammo a cavallo ed uscimmo dalla città accompa
gnati dai nostri domestici. i
» Quando fummo vicini all'osteria, ov'era aspettato, l'amico m
propose di far quattro passi a piedi, facendo condurre i cavalli dalla
nostra gente. Aderi e smontando vidi gli occhi del traditore che bril
lavano di tripudio.
» ll residente Reimer era alla finestra dell'osteria. Appena mi vide,
gridò: buon giorno, signor capitano: entrate, entrate, chè la colazione
vi aspetta. Io sorrisi con ària sardonica e risposi che non aveva tempo;
ma il mio compagno, che assolutamente voleva obbligarmi ad entrarvi,
mi prese per un braccio e volle farmi una tal quale violenza. Allora
perdetti la pazienza, e dandogli un potentissimo schiaffo, corsi al mio
cavallo, come per volermi fuggire. Sul momento i Prussiani balzarono
fuori dall'osteria e mi corsero addosso con alte grida. Io sparai al
primo di loro, che mi corse addietro, e comparvero i miei Russi, diri
gendo la mira dello schioppo contro di loro. Si può pensare qual ter
rore assali i poveri Prussiani a tale sorpresa: tutti presero la fuga.
Io mi assicurai sul principio del tenente, e saltai nelia casa per fer
mare il residente; ma erasi trafugato per una porta di dietro e non
avea lasciato che una perrucca. I Russi frattanto aveano fatto quattro
prigionieri.
Ordinai che in pubblica strada si dessero ad ognuno cinquanta
bastonate. Snudai poscia la spada e rivoltomi al tenente gl'intimai di
difendersi, ma egli era così stordito che, dopo aver tratto la spada per
formalità, mi domandò perdono addossando tutta la causa al residente,
e non ebbe neppur forza di mettersi in guardia. Due volte feci saltar
in aria la sua spada, e vedendo che non ne potevo cavare alcuna sod
,96 TRENCK

disfazione, presi la canna del caporale russo e lo bastonai finchè fui


stanco, senza ch'egli pensasse a difendersi o a far la minima resistenza.
Poi lasciandolo così malconcio e in ginocchioni, gli dissi: furfante,
va ora a contare ai tuoi compagni la maniera con cui Trenck sa pu
nire gli assassini di strada. »
A Pietroburgo, il barone Federico fu accolto, così egli dice, non
come un avventuriere, ma come l'erede dei beni della casa di Trenck
in Ungheria e come un antico favorito del re di Prussia. Ingraziatosi
coll'imperatrice Elisabetta, in onore della quale compose delle poesie,
fu impiegato nel gabinetto del ministro Bestuchef, allora potentissimo.
Qui saltiamo di piè pari le avventure amorose di Trenck con una
giovane principessa russa e poi colla moglie stessa di Bestuchef. Egli
non fu fedele a quello che chiama suo primo amore, colla principessa
Amalia di Prussia. Questa invece, per quanto pare, tenne sempre
in petto questo primo amore, sino alla morte. Quando, dopo infinite
avventure e sventure, e quarantatre anni di separazione, Trenck ri
vide la real donna, tanta fu l'emozione di cui fu presa che, partito di
nuovo il barone, ella mori cinque giorni dopo.
Nel 1749 mori uella sua prigione di Spielberg, per quanto sembra
di veleno spontaneamente preso il barone di Trenck, antico colonnello
dei Panduri, e lasciò erede universale suo cugino Federico,a condizione
però che non servisse altra potenza che la casa d'Austria. Questi allora
parti dalla Russia e si recò a Vienna, ma non gli fu possibile di en
trare al possesso dell'eredità. Gli amministratori di quei beni erano
potenti e aveano gran credito in corte, dove Trenck non era ben ve
duto, come protestante ch'egli era. Ottenuto un posto di capitano in
un reggimento di corazzieri a cavallo, partì per l'Ungheria.
Nel 1754 ebbe la nuova della morte di sua madre. Domandò un con
gedo di sei mesi per andare a Danzica affine di concertarsi coi suoi
fratelli e colle sue sorelle rispetto all'eredità della madre e ai suoi
beni in Prussia che gli erano stati confiscati.
Trenck aveva potenti ed accaniti nemici non solo in Prussia, ma
in Austria pure: questi erano interessati a usurpare i beni che suo
cugino gli aveva lasciato in eredità. Federico II fu dunqne esattamente
informato del viaggio di Trenck; si aggiunse le calunnia che egli
voleva prevalersi dell'occasione del suo viaggio per attentare alla vita
del re.
» Durante il mio soggiorno a Danzica non legai conoscenza che
col signor Abramson residente austriaco, per il quale avea delle let
tere di raccomandazione e che mi accolse con istraordinaria gentilezza.
Costui era intimamente legato col residente prussiano Reimer e fu ill
questa occasione l'artefice della mia sventura.
» Partiti appena i miei fratelli e mia sorella, io risolsi d'imbar
carmi per la Russia; ma il residente austriaco a cui non quadrava la
FUGEE ED EVASIONI CELEBRI 197

mia determinazione, seppe con diversi pretesti ritenermi per avere il


tempo di preparare col signor Reimer la trama che mi ordivano.
» Il re di Prussia mi aveva chiesto al magistrato di Danzica; ma
una procedura tanto contraria al diritto delle genti non poteva aver
esito senza il consentimento della corte di Vienna, di cui era al servi
zio come capitano di cavalleria: inoltre io era munito di un congedo e
di un passaporto.
» Giunse finalmente il giorno della mia partenza: io doveva im
barcarmi sopra un bastimento svedese, ma altrimenti aveva stabilito il
mio destino. Abramson,che mi ingannava, si era incaricato di mandare
al porto per sapere il momento della partenza. Alle quattro dopo il
mezzogiorno mi disse ch'egli stesso avea parlato col capitano, il quale
lo aveva assicurato che non avrebbe messo alla vela se non il giorno
appresso: invitommi a far colazione e mi promise d'accompagnarmi egli
stesso alla nave. Io volli allora far portare subito a bordo il mio equi
paggio ed andar a dormire nel bastimento, provando una interna agita
zione e un vivo desiderio di lasciar al più presto Danzica. Me ne distolse
Abramson, obligandomi a passare la sera in casa sua, ove mi disse
essersi radunata numerosa compagnia: io non potei ritirarmi al mio
albergo prima delle undici ore. Appena ero a letto, ove stava leggendo,
quando sentii bussare all'uscio, ch'era socchiuso. Due commissari della
città entrarono nella mia stanza, accompagnati da venti granatieri, e
circondarono il mio letto con tale prontezza, che non ebbi tempo di dar
mano alle mie armi per difendermi. Mi s'intimò che il magistrato
della città si credeva obbligato di consegnarmi, come accusato di un
delitto, a S. M. prussiana.
» La mia sorpresa fu estrema nel vedermi così tradito. Fui con
dotto nella prigione di Danzica, ove restai ventiquattro ore. Verso il
mezzodi il residente Abramson venne a visitarmi. Egli mostrò di pren
dere molta parte alla mia disgrazia, e mi disse che avea protestato
altamente sulla illegalità di tale procedura contro di uno ch'era al ser
vizio attuale della casa d'Austria; ma che gli era stato risposto che in
Vienna si era fatto altrettanto nel 1752 contro due figli del borgo
mastro di Danzica e che in conseguenza si voleva valersi del diritto di
rappresaglia in simile congiuntura, e che non si poteva far a meno di
aderire alle istanze del re di Prussia, il quale mi voleva a ogni costo
in suo potere. Abramson, che in sostanza, anzichè aver fatto alcuna pro
testa in favor mio, si era inteso col ministro di Prussia, mi consigliò
di affidargli le mie carte ed altre cose preziose che poteva avere, perchè
altrimenti avrei corso pericolo di esserne spogliato. Mi abbracciò ed
assicurommi che non avrebbe omesso diligenza alcuna, affine di pro
curarmi una pronta liberazione. In premio del suo tradimento Abramson
ebbe poi un buon impiego in Prussia e abbandonò il servizio au
striaco. Però la sua fortuna non durò gran tempo: nell'anno 1764 fu
incarcerato e condannato in vita nell'ergastolo di Königsberg.
198 TRENCK

» La notte seguente entrarono nella mia prigione col residente


Reiner un uffciale prussiano ed alcuni bassi nfffciali. Fui consegnato
fra le mani di questi ultimi, e sul momento ebbe principio il sac
cheggio. Reimer mi strappò il mio anello, prese il mio orologio, la
mia tabacchiera ed il poco denaro che mi restava, nè mi lasciarono
che un abito ed una camicia; in questo arnese mi fecero sedere in
una carrozza chiusa con trePrussiani. Un distaccamento della milizia
di Danzica accompagnò il legno sino alle porte della città, che si apri
rono, e qui fui consegnato a un altro di dragoni che mi condusse sino
a Lauenburg in Pomerania. Andai cosi di presiio in presidio facendo
otto, dodici, al più venti miglia al giorno. »
Il prigioniero traversò una parte della Prussia, di cui era go
vernatore il Duca di Würtemberg, padre della granduchessa di Russia.
Questo principe lo trattò con molta umanità e fu commosso delle sue
sventure. Evidentemente, continuando il viaggio, gli ordini del prin
cipe erano tali che Trenck ebbe tutta la comodità di fuggire, ed è stra
nissima cosa ch'ei non ne abbia approfittato.
» Giunto a Berlino fui messo alla gran guardia con due sentinelle
nella mia stanza ed una alla porta. Il re era allora a Potsdam. Restai
così per tre giorni: al terzo vennero alcuni ufficiali e mi fecero le se
guenti domande:
1. Che cosa faceva a Danzica?
2. Se aveva conosciuto il signor Solz ambasciatore del re a Pie
troburgo?
3. Come si chiamavano le persone che erano entrate nel complotto
di Danzica ? ecc.
» Appena m'avvidi della forma che si voleva dare a quell'esame,
negai assolutamente di rispondervi e mi contentai di dire che l'anno
1745 era stato rinchiuso nella fortezza di Glatz senza essere inteso e
giudicato da un consiglio di guerra; che in conseguenza mi era cre
duto abbastanza autorizzato dal diritto naturale a mettere in opera
tutti i mezzi possibili per riavere la mia libertà, che attualmente era
al servizio dell'imperatrice Maria Teresa come capitano di cavalleria,
che io chiedeva ancora che il mio processo mi fosse fatto secondo le
forme legali, risalendo alla prima cagione delle mie disgrazie; che al
lora sarei pronto a rispondere a qualunque interrogazione. Fatta que
sta risposta, mi dissero che non avevano ordini in questo punto, ed io
mi ostinai a tenere il silenzio.
» Fui visitato esattamente per vedere se aveva delle armi riposte;
mi furono presi tredici o quattordici zecchini che mi restavano ancora,
e sotto una gelosa scorta fui condotto per Spandau a Magdebnrgo. Qui
l'ufficiale che comandava il distaccamento, mi consegnò al capitano di
guardia alla cittadella; ed il maggiore della piazza, che mi aspettava,
mi condusse subito in un carcere preparato a bella posta per me.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 19)

» Allora solamente mi fu levatoun piccolo ritratto brillantato della


mia amica di Pietroburgo, che teneva nascosto sotto la camicia.
» Il carcere era scavato in una casamatta,'che aveva dieci piedi di
lunghezza e sei di larghezza: due porte lo chiudevano una sopra l'altra,
e ve n'era una terza all'estremità, all'entrata della casamatta. La luce
mi scendeva da una finestra, aperta al principio della volta a traverso
un muro di sette piedi di grossezza. Sebbene mi desse abbastanza chiaro,
era tuttavia situata in maniera che non poteva vedere nè il cielo nè
la terra, ma unicamente il tetto della camera.Al di dentro e al di fuori
la finestra era guernita di enormi sbarre di ferro, e nel mezzo del
muro era interposta una finissima grata di fil di ferro, c non lasciava
distinguere oggetto alcuno si al di fuori che al di der o. Finalmente
era esteriormente armata di palizzate, affinchè le sentinelle non po
essero accostarmisi e darmi soccorso. I miei mobili in quest'orrido
soggiorno erano una lettiera attaccata al muro, sicchè non potessi tras
portarla sotto lo spiraglio e salirvi sopra, un materasso, una piccola
stufa, e presso a questa un piccolo sgabello fissato al muro e destinato a
servirmi da sedile. Non mi si permetteva alcun utensile di ferro; e la
mia provvisione era di una libbra e mezza di pane da munizione e
d'una mezzina d'acqua al giorno. Era sempre stato nella mia giovinezza
un gran mangiatore ; con tutto ciò era costretto a buttar via la metà
del mio pane, perchè era quasi affatto guasto. Questo trattamento era
effetto dell'avarizia del maggiore, che cercava di far guadagno sul
vitto dei numerosi prigionieri.
» Giudichino i miei lettori dello strano supplizio che mi fece sof
frire la fame per lo spazio di undici mesi, che io passai a questa dura
prigione, quando sei libre di pane al giorno appena sarebbero bastate
per isfamarmi. Non aveva ancora divorata la mia porzione di pane,
e tuttavia mi era forza aspettare ventiquattr'ore prima di poter sperare
qualche ristoro. Quanto volentieri avrei dato allora una cambiale di
mille zecchini sul denaro che avea a Vienna per avere una volta almeno
il piacere di satollarmi di pan secco!
» Assai di rado la fame mi lasciava prender sonno; ma quando per
avventura ciò mi riusciva, sognava tosto di essere a una gran tavola
imbandita colle più squisite vivande, che divorava con una estrema
avidità, e sembravami che la compagnia si maravigliasse del mio ap
petito. Se la fame mi svegliava, sparivano allora tutti i piatti. Frat
tanto cresceva di giorno in giorno il bisogno di mangiare. Questo ge
nere di supplizio non mi lasciava chiuder occhio e rendeva così le mille
volte più orrida la mia situazione, raddoppiando colla veglia i tormenti.
Guardi il cielo ogni uomo onesto da simili angoscie. Si può vivere otto
giorni fra i più duri bisogni, si può soffrire per tre giorni la fame;
ma certo non esiste sulla terra creatura vivente che abbia digiunato
per undici mesi senza potere in così lungo spazio di tempo prendere
200 TRENC

una sola volta la metà del nutrimento che sarebbe stato necessario a
sostenerlo. Si crede generalmente che si possa avvezzarsi a mangiar
pochissimo: io però ne ho sperimento l'impossibilità. La mia fame an
dava sempre crescendo, e la costanza colla quale per undici mesi ho
tollerato cotesto martirio è a mio credere la maggior prova di corag
gio che io m'abbia dato in vita mia.
» A nulla servivano le suppliche e le rappresentanze; mi si ri
spondeva: è ordine del re; egli proibisce di darvi di più. Il generale
Borck, uomo duro e crudele giunse persino a dirmi un giorno, in cui
io lo supplicava di accrescere alcun poco la mia porzione: - Abba
stanza ti sei rangugiato i pasticci nel servizio d'argento che Trenck ha
rubato al re a... battaglia di Sorau. Ora mangia il nostro pane di mu
nizione nella tua maledetta tana. La tua imperatrice non ha mandato
danaro per mantenerti, e tu non meriti nè il pane che mangi nè le
spese che qui si fanno per te.
» Chiuse le tre porte, come dissi, ero abbandonato a me stesso:
ogni ventiquattro ore mi si portava verso il mezzodi pane ed acqua.
Le chiavi della porta erano depositate presso il comandante. Quella che
guardava nel carcere, aveva un piccolo pertugio, per il quale mi si
porgeva il cibo. Solamente al mercoledi si apriva la mia prigione, ed
allora vi entrava il comandante accompagnato da un maggiore per
farvi la visita, venendovi prima un prigioniero a ripulirla.
» Avendo osservato questo metodo per lo spazio di mesi, ed essen
domi assicurato che niuno veniva in altri tempi, intrapresi un'opera
alla quale aveva pensato più volte.
» Dalla parte dello scalino della porta, eravi un angolo nel pavi
mento di mattoni, che si stendeva sino alla muraglia, la quale divideva
il mio carcere dalla casamatta contigua ove non istava veruno. Siccome
davanti alla mia finestra montava una sentinella, trovai ben presto due
galantuomini i quali, malgrado ogni proibizione, s'indussero a par
larmi, e m'istruirono dei contorni e delle attinenze del mio tristo sog
giorno. Mi capacitai che sarebbe facile il fuggire, se avessi potuto pe
netrare nella casamatta, la cui porta non era chiusa, non restandomi
allora che l'Elba a guadare per giungere alle frontiere della Sassonia
lontano non più d'un miglio.
» Su tali scoperte io regolai il mio piano. Cominciai dunque a
distaccare i ferri che tenevano lo scalino della porta: avevano essi
quasi diciotto pollici di lunghezza, ed erano fermati con tre chiodi che
levai, conservandone la testa per rimetterli al loro luogo al momento
della visita.
» Poscia sollevai i mattoni del pavimento, e trovai la terra al di
sotto. Allora mi determinai a fare un buco, nel muro, che aveva
sette piedi di massiccio. Il primo rivestimento era di mattoni, a que
ati succedevano due grosse pietre vive. Contai il numero dei mattoni
FUGIE ED EVASIOI CELEBR1 20

che avea levato, tanto dal pavimento quanto dalla muraglia, per po
terli rimettere senza alterazione; e quando fui sicuro di riuscirvi, con
tinuai il mio lavoro.
» Il giorno precedente a quello della visita,tutto si trovò rimesso,
Avevo però già demolito tanto muro per un piede d'altezza; ma aveva
ancora avuto la diligenza di rimettere i mattoni al loro luogo e di co
rire le commessure con polvere di calce. Per ciò raschiava i muri
della mia carcere, che forse erano stati imbiancati cento volte. Avevo
fatto un pennello coi miei capelli, di cui mi servi per riattare la parte
SinnOSS3.

» I serrami furono pure rimessi al loro luogo, di modo che era


mpossibile avvedersi del minimo disordine. Quanto ai rottami, li na
scondeva sotto la lettiera. Se una sola visita mi fosse stata fatta fuori
del giorno fissato, tutto sarebbe stato scoperto.
» Bisognava però pensare a disfarsi di quelle macerie, perchè mi
era impossibile riattarle nuovamente al loro luogo. Ci riuscii nel modo
seguente. Non potendo gettare le pietre e i calcinacci, gli spargeva per
terra e gli calpestava finchè fossero ridotti in polvere. Questa polvere
la metteva davanti alla mia finestra, alla quale m'alzava mediante lo
alino della porta. Aveva formato una bacchetta di schegge, levate
alla lettiera e legate insieme col filo di una calza vecchia, ed all'estre
mità aveva attaccato un pennacchio formato da' miei capelli, Mi era
finalmente riuscito di allargare un poco della grata che stava nel
mezzo della finestra, e di là aiutato dal mio bastoncino cacciava fuori
a polvere. Aspettava poi che si levasse del vento, e anche di notte
aveva cura di dissiparla interamente.
» Con questo solo spediente son sicuro d'aver cacciato fuori più
di trecento libbre di terra.
» Pure, siccome questo non bastava, mi applicai a quest'altro
mezzo. Impastava la terra a cilindri, la faceva alquanto disseccare; e
quando si aprivano le porte del carcere, il prigioniero ch'era incaricato
di pulirlo, credendo di purgarlo dalle immondizie, mi aiutava cosi a
liberarmi di qualche libbra di terra di più ogni settimana. Fabbricava
finalmente delle pallottole di terra, e con un tubo di carta le gettava
una dopo l'altra fuor della finestra, mentre la sentinella passeggiava.
Sono incredibili le fatiche che io provai per giungere a scavare due
piedi di muro nella pietra viva. I ferri che avea cavati dallo scalino e
dalla lettiera, furono a principio i soli miei ordigni, ma in appresso
una pietosa sentinella mi diede una vecchia bacchetta da schioppo ed
un piccolo coltello da tasca, che mi furono utilissimi, e questo partico
larmente, come dirò in appresso. Solo dopo sei mesi di assiduo lavoro
giunsi finalmente a traforare il muro ed aprirmi un passaggio nella
casamatta contigua.
» In questo intervallo avea parlato a varie sentinelle, fra le quali
202 TRENCK

ad un vecchio granatiere, detto Gefhard (lo nomino perchè mi diede rare


testimonianze di fedeltà e d'animo generoso). Da lui riseppi la situa
zione precisa del mio carcere ed il metodo che dovea tenere per fug
girne: più non mi mancava che il danaro da comprare una barchetta
per guadagnare l'Elba e fuggirmene con Gefhard in Sassonia. Per riu
scirvi egli mi procurò la corrispondenza di una donzella ebrea nativa di
Bessau, per nome Ester Heimanin, che aveva il padre in prigione da
dieci anni. Questa buona creatura, che io non ho mai veduto, guadagnò
due altri granatieri, che si abboccavano meco ogni qual volta erano
d'ispezione davanti alla mia prigione. Feci con altre schegge legate
insieme un bastone, che arrivava al di là della palizzata della finestra,
e così mi procurai della carta, un altro coltello ed una lima. Scrissi
allora a mia sorella, che stava quattordici miglia lontano da Berlino,
le notificai lo stato mio, le diedi le necessarie istruzioni per adoprarsi
alla mia liberazione e la pregai di consegnare trecento scudi alla gio
vane ebrea, avendo speranza di uscire col mezzo suo di prigione. Unii
a questa un'altra lettera per il conte della Puebla, che conteneva una
cambiale di mille fiorini da prendersi sul danaro che aveva a Vienna,
coll'istanza di rimetterla all'Ebrea, a cui aveva promesso questa somma
per ricompensarne la fedeltà. Essa doveva procurarmi i trecento scudi
di mia sorella ed unirsi coi granatieri per facilitare la mia evasione,
che non pareva poter incontrare altri ostacoli, poichè io m'era già
aperto l'accesso alla casamatta contigua.
» Le mie lettere erano aperte, avendo dovuto avvolgerle al bastone
per farle passare. Ester parti con esse per Berlino ed arrivò felicemente
dal conte della Puebla. Questo ministro lodò la sua accortezza, prese la
mia lettera e la cambiale annessa, ed ingiunse a lei di andar a parlare
col signor de Weingarten suo segretario d'ambasciata e di fare quanto
da lui le sarebbe prescritto.
» L'Ebrea, benissimo accolta da Weingarten, gli confidò tutto
quello che si era concertato coi due granatieri, gli disse pure che aveva
una lettera per mia sorella. Egli chiese di vederla, la lesse e le disse
di andare ad eseguire la sua commissione; poi le diede due zecchini
per le spese del viaggio, e le raccomandò d'andarlo a trovare al suo
ritorno, chè in questo frattempo procurerebbe di avere l'ammontare
della cambiale di mille fiorini, e le darebbe nuove istruzioni.
» Ester parti contenta: mia sorella le consegnò subito i trecento
scudi. Allora l'Ebrea riparti prontamente per Berlino con una lettera
di mia sorella e giuntavi andò a mostrare il tutto al signor Wein
garten. Questi lesse la lettera, s'informò del nome dei due granatieri,
le disse poi che i mille fiorini non erano ancora arrivati da Vienna,
le diede dodici zecchini e le raccomandò di portarsi sollecitamente a
Magdeburgo per recarmi queste buone nuove e poi di tornare a Ber
lino per i mille fiorini che doveva consegnarle.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 203

» Ester parte per Magdeburgo, viene a dirittura alla cittadella e


per caso incontra sulla porta la moglie di uno de' granatieri, che le
racconta essere stato arrestato il giorno innanzi e messo ai ferri il
marito di lei col suo compagno. Essa capi subito che eravamo stati
traditi e, cambiata sul momento direzione, andò furtivamente a Dessau.
» Ecco la chiave di questa terribile congiura.
» Weingarten segretario d'ambasciata era, come si è scoperto dopo,
un traditore, nel quale il conte della Puebla aveva troppo confidenza:
egli era venduto alla Prussia, che se ne serviva come spia; ed aveva
manifestato alla corte di Berlino, non solo il secreto degli affari che
si trattavano a Vienna, ma ancora tutto il piano di guerra che s'era
progettato, motivo per cui egli passò apertamente al servizio prus
siano, appena avvenuta la dichiarazione di guerra.
» Quanto a me, egli mi aveva tradito per potersi ritenere i mille
fiorini della cambiale che io aveva data sul mio capitale di Vienna; poi
chè il valsente n'era stato rimesso al conte della Puebla, e mi è stato
addebitata la somma dopo la mia liberazione.
» Ho tanto maggior fondamento di credere che Weingarten abbia
carpito questo danaro, che è inverosimile che l'ambasciatore medesimo
abbia voluto usurparselo, sebbene la quitanza sia sua. Così Weingarten,
per poter rubare impunemente mille fiorini, mi ha sepolto in un abisso
di sciagure, ha cagionato le disgrazie di mia sorella, che hanno avuto
fine con una morte immatura, ha fatto appiccare un granatiere e pas
sar l'altro tre giorni di seguito per le bacchette.
» L'Ebrea fu la sola che si cavò felicemente d'imbarazzo. Essa mi
mandò dopo la mia liberazione una relazione manoscritta di tutto ciò
che allora avvenne, che io conservo tuttavia. Si diedero al povero suo
padre, ch'era in prigione, più di cento bastonate per costringerlo a
svelare quanto sapeva del complotto e del ricovero di sua figlia, e
morì sotto il bastone gridando inutilmente misericordia. Mia sorella
finalmente, la povera mia sorella, fu obbligata a fabbricare a sue spese
un orribile camerotto nel forte della Stella, ove io stetti rinchiuso per
nove anni, come una bestia feroce. Fu condannata ad una multa enorme:
i suoi beni furono devastati ed i suoi figli ridotti alla più orrida mi
seria: essa ne morì di crepacuore nell'età di trentatre anni. Ombra
cara della sorella mia! Vittima innocente del mio barbaro destino! Io
sono stato sinora impotente a vendicarti; non posso più lavarmi le
mani nel sangue del perfido Weingarten. Io l'ho cercato invano; ma
lo scellerato era già in luogo di sicurezza, ed aveva già trovato sotto
il suo sepolcro un asilo inaccessibile al mio giusto furore.
» Stetti più giorni prima di sapere quanto era succeduto. Toccò
frattanto al buon Gefhard di montar la guardia alla mia porta; ma un
altra sentinella gli era aggiunta, di modo che era quasi impossibile
ogni schiarimento. Malgrado tutto ciò egli potè farmi capire la fine
deplorabile dei suoi due compagni.
20 TRENO

» Essendo allora venuto il re a Magdeburgo per una rivista, si


portò al forte della Stella ordinò che si fabbricasse sollecitamente un
nuovo carcere per me, ed egli stesso prescrisse la forma delle catene
colle quali doveva essere avvinto. Il buon Geffhard aveva inteso dire
dagli ufficiali che questa prigione era destinata per me, e me ne diede
avviso, assicurandomi però che non poteva esser finita prima di un
mese. Perciò io intrapresi di fuggire quanto prima per l'apertura che
aveva fatto nel muro, senza aspettare il soccorso di chicchessia; nè la
cosa era impossibile.
« Colla lana del mio materasso avevo formato una corda, che avrei
attaccato ad un cannone per calarmi giù dal muro. Pensava allora di
guadar l'Elba a nuoto e guadagnar le frontere della Sassonia.
» Il dì 26 maggio volli ultimare l'apertura, che doveva darmi
l'adito alla casamatta contigua; ma giunto ai mattoni dei quali era la
stricata, li trovai così duri e così ben connessi che fui costretto a dif
ferire il lavoro al giorno seguente. Comparve il giorno, quando sfinito
abbandonai il lavoro; e se allora fossero entrati nella mia prigione,
avrebbero senza dubbio scoperto lo scavo da me fatto.
» E pur singolare il mio destino! In tutta la raia vita fui sopra
fatto dalle maggiori disgrazie allora appunto quando più nulla credeva
di aver a temere, e tutte nudriva le più care speranze.
» Il 27 di Maggio fu per me un giorno ben crudele. Il mio carcere
nel forte della Stella era stato ridotto a termine prima di quello che
si sperava; ed al principio della notte, quando appunto mi preparava
all'evasione, sentii un legno fermarsi davanti alla mia prigione; i chia
vistelli e le porte si aprirono con istrepito, ed aveva appena avuto il
tempo di nascondere sotto gli abiti il mio coltello, quando il maggiore
della piazza, ll maggiore d'ispezione ed un capitano con due lanterne
entrarono nel mio ridotto.
» Vestitevi, mi dissero solamente; e ciò feci assai presto. Mi pre
sentarono le manette, ch' io stesso dovetti attaccarmi ai piedi e alle
mani. Il maggiore della piazza mi bendò gli occhi, e sostenuto al di
sotto delle braccia fui così messo nella vettura. Per andare dalla citta
della al forte della Stella bisogna passare per mezzo della città. Re
gnava da prima intorno a noi un profondo silenzio; ma entrati appena
nella città, sentii un romor sordo prodotto dal movimento del popolo
che correva in folla per vedermi: era sparsa la voce che fossi condotto
a perder la testa. Gli ufficiali che mi scortavano, avevano ordine di
fomentare questo inganno, perchè si desiderava che s'ignorasse il mio
vero destino. Comechè io sapessi la verità del fatto, finsi tuttavia di
credere che andavo realmente alla morte e, avendo libera la bocca,
parlai della mia sorte, nel tuono di chi più nulla ha da temere. Li
rimproverai di essere strumenti del dispotismo di un re, che cosi in
degnamente trattava uno de' suoi sudditi più fedeli, senza mai averlo
FUGHIE D EVASIO1 CELEBRI 2G5

voluto ascoltare o farlo giudicare. La costanza che io mostrai in un tempo


in cui era cosi naturale che mi aspettassi di perder la vita per mano
del carnefice, li sorprese. Non mi risposero; ma i loro interrotti sospiri
mi mostrarono che non erano indifferenti al mio triste stato.
» Il legno finalmente si fermò, e fui condotto nel mio nuovo sog
giorno. Quindi alla luce d'alcune candele fui sbendato, ma oh Dio! per
vedere due fabbri ferrai provveduti di un focone e dei loro martelli,
e tutto il pavimento coperto di catene.
« Si accinsero tosto all'opera. I miei piedi furono avvinti con
enormi catene ad un anello pendente dal muro. Questo anello era alto
tre piedi da terra, di modo che io poteva fare appena due o tre passi
a dritta ed a manca: mi si cinse il corpo di un larga lastra di ferro,
unita alla quale pendeva una catena fissata ad una sbarra pure di
ferro, lunga due piedi, alle due estremità della quale erano due ma
nette, che mi stringevano le mani. Solamente nel 1756 mi si aggiunse
anche un collare. Finita l'operazione, tutti si ritirarono in silenzio,
ed io udii l'orrido stridore di quattro porte, che si chiudevano una
sopra l'altra, restando senza consolazione e senza soccorso,abbandonato
a me stesso e steso fra le tenebre sopra un umido pavimento. Le ca
tene mi sembravano insopportabili prima di avvezzarmivi, e ringra
ziavo la Provvidenza che non mi avessero scoperto il coltello col quale
poteva dar fine ai miei tormenti.
« Non posso esprimere quanto io soffersi in quella prima notte.
La mia detenzione dovea durare lungo tempo: la guerra era appena
dichiarata tra la Prussia e l'Austria, nè io potea esser liberato prima
della pace. Inoltre non ignorava che coloro i quali in Vienna si erano
usurpate le mie sostanze, tenterebbero il possibile per impedire il mio
ritorno. Passò la notte fra questi cupi pensieri e nacque il giorno, ma
per me assai fosco. Potea nullameno fra la semioscurità che vi regnava,
distinguere il mio carcere. Egli aveva otto piedi di larghezza e dieci
di lunghezza. In un angolo eravi alzato un banco a mattoni per mio
sedile. Rimpetto al luogo ove stava incatenato, era una finestra a se
micircolo di un piede d'altezza e due di larghezza, attraverso un muro
di sei piedi. Il canale per cui la luce penetrava nella mia prigione
andava salendo fino al mezzo della grossezza del muro, ov'era messa
una grata finissima di fil di ferro; di là riusciva in fuori verso la
terra, formando un angolo rivoltato: le due estremità di questo canale
erano guardate da grosse sbarre di ferro.
« Questa mia tomba, ch'era poco lontana dal bastione, ed ove la luce
non penetrava che per riflesso, era oscurissima. Nondimeno i miei
occhi eranvisi per tal modo accostumati, che vi distinguevano a correr
i sorci; ma nell'inverno e quando non v'era sole, restavo veramente
in una perpetua notte. Mi avevano portato una seggiola ed un vaso
d'acqua.
206 - TRENCK

« Il nome di Trenck era stato scolpito in mattoni rossi sul nuuro


e sotto i miei piedi c'era un sepolcro, ove doveva essere seppellito, sopra
il quale vedevasi pure il mio nome ed un teschio di morto.
« Il camerotto aveva due porte di legno di quercia, e prima di
giungervi si passava per una specie di vestibolo, nel quale era inca
vato un finestrone: avea due porte simili alle precedenti.
« Era intenzione del re che questo camerotto fosse costruito in
maniera che mi riescisse fisicamente impossibile d'aver alcuna comu
nicazione colle sentinelle: era circondato di palizzate alte dodici piedi,
che formavano una specie di fosso, la cui chiave stava nelle mani del
l'ufficiale di guardia.
« Siccome era stato fabbricato di calcina e gesso in undici giorni
e vi era stato subito chiuso, si credeva che il mio supplizio non sa
rebbe stato molto lungo. Infatti giacqui per sei mesi nell'acqua, che
sgocciolava di continuo dalla volta sopra di me, e posso assicurare i miei
lettori che nei tre primi mesi non mi venne mai fatto di asciugarmi:
pure la mia salute non soggiacque.
« Quando si veniva a far la visita (e questa facevasi giornalmente al
cambiarsi della guardia), bisognava, prima di entrare, lasciar aperte le
porte per alcuni minuti, altrimenti le esalazioni dei muri unite alla
crassezza dell'aria facevano spegnere i lumi.
« Abbandonato a me stesso in questo orribile ridotto, senz'amici,
senza soccorso, senza consolazione, colla immaginazione piena delle idee
più orride e capaci di indurre un uomo alla disperazione, non ca
pisco ancora attualmente come abbia potuto ritenere la mia mano e
non uccidermi.
« Giunse il mezzodì ed entrarono la prima volta nella mia tomba.
Si leggevano sul viso de' miei custodi la commiserazione e la pietà:
ma il profondo silenzio da essi osservato e il tempo che impiegarono
ad aprire le serrature e i chiavistelli, ai quali ancora non erano av
vezzi, facevano terrore.
» La seggiola fu portata via e cambiata con una lettiera, sopra la
quale era un materasso ed una buona coperta di lana. Mi si diede un
pane intiero di munizione di sei libbre, ed il maggiore di piazza mi
disse a questo proposito: « affinchè più non vi lamentiate che vi la
sciamo morire di fame, avrete pane fin che ne vorrete. » A questo si
uni un vaso d'acqua di due boccali circa; si chiusero le porte e tutti
sparirono.
« Mi sarebbe difficile esprimere il conforto che provai, pensando
che poteva soddisfare pienamente la mia fame, dopo undici mesi del
più barbaro digiuno.
« Non vi era felicità al mondo che mi paresse in quel primo mo
mento simile a quella. Un fervido amante che ha lungo tempo sospirato,
non s'abbandona con maggior ardore fra le braccia della sua bella;
FUGHI ED EVASIONI CELEBRI 207

una tigre inferocita non mai s'avventò con tanto ardore sulla sua preda,
con quanto io mi gettai sopra il mio pane. Mangiava, divorava, mi
fermava tal volta un momento per meglio godere, ma ripigliava ben
presto con maggior avidità; trovava raddolcita la mia sorte; versava
lagrime di contentezza, mordeva un boccone dopo l'altro, e prima di
sera il mio pane era divorato.
» Oh natura, quale ineffabile diletto hai unito allo sfogo de' tuoi
bisogni, e quanto sarebbe felice un ricco, se aspettasse a mettersi a
tavola dopo ventiquattro o quarant'otto ore di digiuno !
» Ma il mio piacere durò poco, e presto ebbi a pentirmi del mio
eccesso. Lo stomaco indebolito dalla dieta, ne contrasse tale in
digestione, che mi si gonfiai tutto e votai il mio vaso d'acqua. Il gran
chio, la colica ed una sete insaziabile mi tormentarono sino all'indo
mani; e già io malediva quei che troppo mi avevan dato da mangiare,
come prima aveva maledetto quelli che me ne davano tanto poco. Se
non avessi avuto letto, la disperazione mi avrebbe sicuramente vinto
in quella notte: non era ancora avvezzo all'enorme peso de' miei ferri,
e non ancora aveva imparato, come feci in appresso, a portarli senza
grande stento. Questa dunque fu una delle notti più crudeli della vita
mia. Quelli che entrarono il giorno appresso nel mio camerotto, mi
rinvennero in uno stato orribile, ammirarono la mia voracità e mi
diedero un altro pane. Io lo ricusai, dicendo che non avrei avuto più biso
gno di pane. Non ostante me lo lasciarono, mi diedero un vaso d'acqua e
mi augurarono fortuna, giacchè secondo le apparenze non doveva sof
frire più a lungo, e chiusero le porte senza domandarmi se avessi bi
sogno d'altro soccorso.
» Passarono tre giorni prima ch'io potessi riprovarmi a mangiare,
ed in questo intervallo si affievoli anche il mio coraggio colle forze
fisiche, e mi determinai di togliermi la vita.
» Tuttavia, siccome non voleva precipitare cosa alcuna, ma pren
dere il mio partito a sangue freddo, stabili di aspettare ancora otto
giorni, dopo aver fissato irrevocabilmente il giorno 4 luglio per la mia
morte. Mi occupai in seguito a studiare se mi restasse mezzo alcuno
di fuggire, o almeno di morire sotto le baionette de'miei assalitori.
» Quando si aprirono nel giorno seguente le porte della mia pri
gione, vidi ch'erano semplicemente di legno, e mi venne in pensiero
che sarebbe forse possibile di sforzarne le serrature col coltello, che
mi era portato dalla cittadella; chè se questo progetto andava a vuoto,
ero allora in tempo di morire.
» Tentai se mi riusciva liberarmi da' miei ferri, e cavai felicemente
dalla manetta la mano dritta, ma non trovai per la sinistra la mede
sima facilità; però con un pezzo di mattone che staccai dal mio sedile,
lavorai tanto intorno la testa di un chiodo ribattuto, il quale chiudeva
la seconda manetta, che giunsi finalmente a levarlo e liberare anche
l'altra mano.
208 C

» Il cerchio che aveva intorno alla vita, non era attaccato alla
catena che con un pezzo di ferro ritorto; appoggiai i piedi alla parete
e facendo uno sforzo, l'obbligai ad aprirsi. Non restava più allora che
la catena la quale aveva ai piedi, ed anche questa finalmente ebbe
lo stesso destino, avendola ritorta per tanto tempo, che mi venne fatto
di spezzarla.
» Sgombro da'miei ferri, io mi credeva già libero; corsi alla porta
ricercai a tentone le punte dei chiodi che tenevano la serratura e
trovai che non avea da lavorar gran fatto per isforzarla. Impugnai
subito il mio coltello e feci un piccolo buco in fondo alla porta, quindi
scopersi che non aveva se non un pollice di grossezza, e che forse le
avrei potute sforzare tutte quattro in un giorno solo.
» Pieno di speranza ritornai alle mie catene per ripigliarle, ma
non v'ebbi a sudar poco. Rinvenni dopò molte ricerche l'anello che
aveva rotto,e lo nascosi. Fu mia fortuna che non avessero ancora visi
tati i miei ferri. Non li visitarono mai fino al giorno in cui volli ri
durre a termine la mia intrapresa, perchè non pareva che mi fosse in
alcun modo possibile di romperli. Ricongiunsi dunque le mie catene
con un pezzo di nastro della coda (dei miei capelli).
» Ma quando volli ricacciar la mano nella manetta che non era
aperta, provai le maggiori difficoltà per la gonfiezza cagionata dagli
sforzi fatti per liberarmene. Impiegai tutta la notte per aprire quella
manetta; ma era così bene ribattuta, che non vi riuscii. S'avvicinava
frattanto il mezzogiorno, ora della visita, e più pressante si faceva il
pericolo. Rinnovai gli sforzi, e dopo aver sofferto i più acuti dolori,
giunsi finalmente a rimetter la mano nella manetta, per lo che di
nulla si avvidero.
» Al 4 di luglio, fatta appena la visita, gittai le catene, e col mio
coltello m'accinsi a lavorare intorno alla prima porta che, avendo la
serratura in dentro, fu da me facilmente sforzata in meno di un'ora;
ma la seconda, chiusa in una direzione contraria, mi stancò a segno
che già disperava dell'esito.
» Aperta questa, vidi la luce dalla inferriata del vestibolo, e
quindi scopersi che il mio ridotto era costrutto nella fossa del primo
riparo. Vidi pure la strada che vi conduceva, la guardia cinquanta
passi discosta e l'alta palizzata che lo circondava e che bisognava sca
valcare prima di giungere al riparo. S'accrebbero allora le mie spe
ranze, e raddoppiai il lavoro per isforzare la terza porta che, chiusa
come la prima, fu da me aperta al tramontar del sole. Assali final
mente la quarta, ma sulla metà del lavoro si spezzò la lama del mio
coltello e il pezzo rotto cadde di là della porta.
• Qual divenni,gran Diol in quel terribile istante. No; alcuno non
si trovò giammai in tale stato di disperazione. Splendeva bellissima la
Fughe ed evasioni celebri, Disp. 13
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 209

luna, ed io guardava dalla finestra il cielo con occhi stupidi ed immo


bili. Caddi in ginocchio e mi raccomandai all'arbitro onnipotente della
morte, indi rialzatomi impugnai il mio coltello e mi tagliai le vene
del braccio e del piede sinistro. Ritornai tranquillamente a sedere nel

Il primo granatiere che si presentò fu steso in terra.


Pag. 2ll.

l'angolo del mio camerotto e lasciai sgorgare il sangue. Mi prese ben


tosto un profondo assopimento: il mio stato era placido e dolce. Ma
ad un tratto senti chiamarmi a nome « Barone di Trenck » e mi
destai. Si gridò un'altra volta « Barone di Trenck. » Io risposi: chi
va là? »
210 TRENCK

» E chi poteva mai essere se non il fido mio amico, il granatiere


Gefhard che, da quando l'incontrai nella cittadella, mi aveva promesso la
sua assistenza. Quell'uomo compassionevole si era introdotto nel riparo
che dominava la mia prigione, per consolarmi. Mi domandò come me la
passavo, e gli risposi, dopo averlo conosciuto: Io nuoto nel mio sangue;
domani mi troverete morto. – Come, ripigliò egli? voi morto? Vi è ben
più facile fuggire di qui che dalla cittadella. Non avete sentinella che
vi guardi, ed io vi procurerò gli strumenti necessari. Se vi dà l'animo
di uscire solamente dal vostro camerotto, io m'incarico del resto. Ogni
qual volta monterò la guardia, vedrò di parlarvi. Non vi sono che due
sentinelle nel forte della Stella, una davanti al corpo di guardia e
l'altra davanti alla barriera. Non disperate adunque: Iddio vi ajuterà,
credetemelo.
» A questo breve discorso senti rinascere il mio coraggio: trovava
ancgra possibile la mia evasione, e mi abbandonava ad una interna
contentezza. Stracciai subito la mia camicia, fasciai le mie ferite ed
aspettai il giorno, che sorse ben tosto.
» Giudichi il lettore, se fu un mero accidente o se la pietà di
vina mi dette questo conforto. Ripigliai la speranza, mentre era pros
simo ad esalare lo spirito. Chi condusse allora il buon Gefhard al mio
carcere? Senza di lui certamente, risvegliandomi, mi sarei aperto altre
vene per finire i miei dolori.
» Aveva allora tempo di riflettere fino al mezzodi sul partito da
prendere. Doveva aspettarmi di essere più duramente trattato ed inca
tenato con maggior rigore, quando si fosse scoperta la violenza fatta
da me alle porte ed alle catene. Dopo aver molto riflettuto, presi il
seguente partito che, contro ogni verosimiglianza, mi riuscì felicemente.
Ma prima di esporlo, dirò qualche cosa sullo stato in cui mi trovava.
» Era estrema la mia debolezza, ed il carcere allagato dal mio
sangue, così che poco più doveva restarmene nelle vene. Le ferite mi
doloravano; aveva le mani gonfie ed ammortite per il soverchio lavoro,
ed era senza camicia, avendola stracciata per fasciare le mie piaghe.
Il sonno mi opprimeva ed appena aveva la forza di sostenermi, perchè
era duopo vegliare per eseguire il mio progetto.
« Colla barra di ferro delle mie catene smossi il banco di mattoni
sul quale sedeva, feci un mucchio di rottami in mezzo al carcere. La
porta interiore era spalancata e colle catene trincerai la seconda in
maniera ch'era impossibile di aprirla. Quando venne il mezzogiorno e
fu aperta la prima porta, tutti restavano sorpresi nel vedere le altre
sforzate; entrarono con esitazione nel vestibolo ed allora solamente fui
visto sulla porta interiore del camerotto nell'aspetto più terribile. Lordo
tutto di sangue e disperato in viso, impugnava con una mano una
pietra e coll'altra il mio resto di coltello. Gridai: addietro, addietro,
signor maggiore ! Dite al comandante che non voglio viver più nei
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 211

ferri, e che mi faccia uccidere. Niuno entrerà qui dentro; ne atterrerò


cinquanta prima che possa passarne uno. Questo coltello poi sarà l'e
stremo mio liberatore.
» Il maggiore restò sbigottito; non poteva risolvere cosa alcuna e
mandò ad informare il comandante di quanto occorreva. Io frattanto mi
posi a sedere sul mucchio di sassi ch'era nel mezzo del carcere, in
aspettazione del mio destino. Il mio disegno era allora in sostanza, non
già di fare un colpo da disperato, ma di ottenere migliori patti.
» Un momento dopo arrivò il generale Borck col maggiore di
piazza, ed alcuni ufficiali. Egli entrò nel vestibolo, ma si ritirò ben
presto, quando mi vide in atto di lanciare un sasso. Gli replicai quel
che aveva detto al maggiore; ma egli ordinò subito ai granatieri di
sforzar la porta. Il vestibolo era largo appena sei piedi, ed uno o due
al più vi potevano passar di fronte. Quando io alzava il braccio per
lanciar i miei sassi, i granatieri saltavano indietro. In un momento di
sospensione, il vecchio maggiore si accostò con un cappellano per cal
marmi: il dibattimento fu lungo, e lascio decidere chi di noi addu
cesse ragioni migliori. Ma frattanto il comandante perdeva la flemma
ed ordinò un nuovo attacco. Il primo granatiere che si presentò, fu
steso al momento in terra, e gli altri retrocedettero per evitare un
somigliante destino. Allora il maggiore ricomparve di bel nuovo e mi
disse: – in nome di Dio, caro Trenck, che vi ho fatto io per volermi ro
vinare? Io solo dovrò dar conto di voi, perchè solo per mia inavvedu
tezza vi si è lasciato un coltello all'uscir dalla cittadella. Desistete per
carità; voi non siete ancora senza speranze, nè senza amici. - Io ri
sposi: posso esser sicuro di non venir caricato di un peso ancor mag
giore di catene? – Il maggiore usci, parlò al comandante e mi diede
la sua parola d'onore che l'affare non avrebbe avuto altre conseguenze
e che tutto resterebbe sul piede di prima.
» Avendo cosi fatta la mia capitolazione, permisi l'entrata nella
mia prigione. Il mio stato fece compassione, furono visitate le mie fe
rite e si fece venire un chirurgo a medicarle. Ebbi un'altra camicia,
e si levarono le pietre e il sangue. In questo tempo io era sdraiato
sul letto mezzo morto, e soffriva una sete incredibile. Il chirurgo ordinò
che mi si desse del vino ed una zuppa nel brodo. Si misero due sen
tinelle al vestibolo, e fui lasciato quattro giorni senza catene.
» Restai per quarantott'ore in una specie di letargo. Ogni volta
che mi risvegliava, beveva, senza sentir cessare la sete. Aveva piedi e
mani estremamente gonfi, e sentiva nel dorso e per tutte le membra
dei dolori fierissimi.
» Al quarto giorno si trovarono finite le nuove porte, fra le quali
l'interna del camerotto era guarnita di ferro. Mi si misero le catene
come prima, perchè si credevano superflue altre precauzioni; la sola
catena attaccata al muro da me spezzata si cambiò con una più forte.
V
212 TRENCK

Nel resto si osservò fedelmeute la capitolazione, dolendosi dei precisi


ordini del re, che non permettevano miglioramento al mio stato. Mi
s'augurò coraggio e pazienza e si chiusero le porte.
» Farò ora ai miei lettori la descrizione della mia toeletta. Siccome
aveva le mani attaccate ad una sbarra di ferro e i piedi al muro, non
potea servirmi di camicia e delle calze comuni. La prima era aperta e
l'allacciava una funicella, mutandola solo ogni quattordici giorni. Le
calzette erano di lana ed avevano dei bottoncini alle parti; un cappotto
di grossa tela turchina unito pure con fumicelle mi copriva il corpo,
e due pianelle mi servivano di scarpe.
» Avendomi l'onesto Gefhard rimesso in isperanza, studiava di sco
prire qualche nuovo mezzo di fuga. Si era messa una sentinella alla
mia porta per guardarmi più da vicino, e si sceglievano d'ordinario
persone ammogliate e del paese, perchè credute più difficili a sedursi
che i forestieri; errore grossissimo, come si vedrà in seguito: il Po
merano è buono e stupido, perciò facile a persuadersi. Avvezzatomi
a poco a poco alle mie catene, imparai a pettinarmi i capelli con una
mano ed anche ad accomodarmeli, presi poi a strapparmi la barba che,
non mai rasa da tanto tempo, mi dava un aspetto spaventoso. Que
sta operazione era molto dolorosa, principalmente intorno alla bocca,
ma anche ad essa mi accostumai, e negli anni successivi non lasciava
di strapparmela di sei in sei settimane o di due in due mesi. Non era
molestato da nessuna specie d'insetti, cui senza dubbio era contraria
la grande umidità; nè mi gonfiava mai, mercè l'esercizio continuo
che facevo espressamente, o saltando colle mie catene fino a sudare, o
facendo qualche lavoro quando era sciolto. Solo non poteva abituarmi
all'oscurità nella quale viveva. -

» Aveva troppo conosciuto il mondo e troppo imparato per non


aver continui soggetti di meditazione, e tanto a questo mi abituai, che
composi dei discorsi, delle favole, dei poemetti e delle satire, e le reci
tava a voce alta; e tanto mi restarono impressi, che dopo la mia libe
razione ho potuto scriverli e formarne due volumi.
» Occupando così lo spirito senza aiuto di carta e penna, mi pas
savano i dolorosi miei giorni con un'estrema rapidità.
» Le consolazioni che gustava nel mio carcere, erano il frutto del
l'ardore col quale mi applicai nella mia gioventù allo studio delle
scienze. Consiglio quindi i miei lettori d'impiegare con egual vantaggio
il tempo loro.
» Può ogni principe accordar cariche, onori e ricchezze a chi meno
lo merita, come può altresì spogliarnelo ed abbassarlo; ma qualunque
sovrana potenza s'adoprerebbe inutilmente per dare profonde cogni
zioni e sublimi pensieri ad uno sciocco o spogliarne un uomo di
genio.
» Quindi è che, sebbene il potere e lo sdegno di Federico recas
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 213

sero il terrore e l'eccidio ad interi eserciti, non potètuttavia quel prin


cipe togliermi l'onore, la tranquillità, la coscienza ed il coraggio. Ca
rico di ferri nella più tetra prigione, io eludeva i vani suoi sforzi.
Appoggiato a' miei diritti trovava in me forza per resistere e final
mente trionfai.
» Tre settimane circa dopo la mia intrapresa, il buon Gefhard
montò la prima sua guardia e mi diede occasione di parlargli libera
mente. Ei mi descrisse i contorni del mio carcere; e concepii il pro
getto di fuggire per disotto ai fondamenti, ch'egli aveva veduto gettare.
Mi assicurò che non erano più profondi di due piedi.
» Prima di tutto mi abbisognava del danaro, e vi provvidi nella
maniera seguente. Gefhard avvolse un foglio di carta ad un filo di
ferro, che introdusse attraverso le grate della mia finestra. Collo stesso
mezzo mi fece pervenire una penna: mi punsi un dito e il mio sangue
mi servi d'inchiostro.
» Scrissi a Vienna al mio fedele amico Ruckhardt; gli esponeva
in breve la mia situazione, gli mandava un vaglia di tremila fiorini
sulle mie entrate e lo pregava di farne l'uso seguente:
» Aveva destinato mille fiorini per le spese del suo viaggio a
Gummern, piccola città della Sassonia, lontana solo dieci miglia da
Magdeburgo, ove doveva portarsi immancabilmente pei 15 di agosto.
Arrivato colà doveva lo stesso giorno al mezzodi comparire con una
lettera in mano. Una persona appostata, con un pacchetto di tabacco
in mano, gli sarebbe andato incontro. A questa doveva consegnare
altri duemila fiorini e ripartirsene per Vienna. Diedi a Gefhard questa
istruzione e la mia lettera nella stessa maniera con cui egli mi aveva
fatto avere la carta; mandò sua moglie alla posta col plico a Gum
mern, e le riuscì felicemente di metterlo in posta.
» Da questo momento andavano sempre crescendo le mie speranze;
e quando Gefhard montava di guardia, ci trattenevamo sul nostro pro
getto di evasione. Arrivò finalmente il dì 15 di agosto; egli era di
guardia. Quale fu mai la mia consolazione, quando una volta sentiigri
darmi: tutto è andato bene!
» L'impiccio fu allora di trovar il modo per farmi avere il danaro.
Io colle mani attaccate ad un traverso di ferro, non poteva alzarle
fino alla grata della finestra, la quale era troppo angusta. Fu dunque
stabilito che alla prima guardia di Gefhard, egli si assumerebbe l'in
carico di ripulire il mio camerotto, e riempiendo il mio vaso d'acqua
mi metterebbe dentro il danaro. L'affare andò benissimo; ma io restai
sorpreso quando, invece di mille fiorini che pensava di ricevere, avendo
destinati gli altri mille a Gefhard per sua gratificazione, trovai la
somma intera, tranne sei doppie, ch'erano quanto avea voluto ritenere
per l'opera sua malgrado le mie istanze.
» Onorata creatura! buon Pomerano! quanto pochi saranno indotti
21 TRENCK

dal tuo esempio ad imitarti! Sia dunque almeno immortalato ne' miei
scritti il tuo nome unito al mio infelicissimo, chè io non conobbi mai
anima più grande e più disinteressata della tua!
» Provveduto di danaro pensai ad eseguire il mio piano, ch'era di
fuggirmene per una strada sotterranea scavata sotto i fondamenti del
mio carcere.
» A tal fine mi era d'uopo cominciare col sciormi dalle mie ca
tene. Gefhard mi procurò due lime, di cui mi valsi così bene, che in
pochissimo tempo venni a termine di quest'opera. Disposi le cose in
maniera, che nelle ore della visita poteva riprendere le mie catene
senza che restasse a vedersi il minimo segno. In seguito mi accinsi a
staccare la grata di ferro ch'era nel muro della mia finestra e vi riuscii
egualmente; e siccome non si visitava mai questa parte della mia pri
gione, non aveva che a rimetterla la mattina al suo luogo. Così mi
stabili una libera comunicazione colle sentinelle; ebbi tutti gli ordigni
di cui poteva abbisognare, candele, esca ed acciarino. Affinchè non si
vedesse che aveva del lume, appendeva alla finestra la mia coperta e
poteva così lavorare senza timore di essere frastornato.
» Il pavimento della mia prigione era di grossi pezzi di rovere di
tre pollici, e ve n'erano tre uno sopra l'altro inchiodati con chiodi
lunghi un piede, di modo che restava l'altezza totale di nove pollici.
» Il traverso delle mie manette mi servi utilmente in questa oc
casione: me ne servi come di leva, e giunsi così a smuovere una ta
vola del primo strato. Ne tagliai un pezzo collo stesso traverso, che da
una estremità aveva aguzzato a guisa di forbice; e rimesso questo
pezzo al suo luogo, riempiendo la fessura con midollo di pane ed un
po' di polvere, sperimentai ch'era impossibile avvedersene. Assicurato
di questa prova, continuai il mio lavoro con minor precauzione e ri
mossi assai presto le tre tavole.
» Sotto trovai una sabbia finissima, sopra la quale era fabbricato il
forte della Stella; e non potendo andare più oltre senza ajuto esteriore,
il mio granatiere mi diede alcuni palmi di tela, colla quale feci dei
sacchetti lunghi sei piedi, che potevano passare per le sbarre della
finestra: questi riempiva di sabbia, e quando Gefhard era di guardia,
li cavava fuori e li vuotava.
» Alleggeritomi di una quantità di sabbia, mi procurai della mu
nizione, un paio di pistole da saccoccia, un coltello ed una baionetta,
che nascosi sotto il pavimento; ma dopo alcuni giorni di lavoro, mi
avvidi che i fondamenti erano profondi quattro piedi e non due soli,
come mi aveva detto Gefhard. Siccome egli non era di guardia che
ogni quattordici giorni, il lavoro era lentissimo: pure non ardivo ten
tare di corrompere un'altra sentinella per timore di essere tradito,
essendovi proibizione di parlarmi, e pena la corda. Soffri in questo
inverno un freddo eccessivo, non avendo stufa: pure stava allegro, so
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 215

stenuto sempre dalla speranza di fuggire, e questo mio buon umore


faceva stupore a tutti.
» Gefhard mi provvedeva altresì di vivande; per lo piu di carne
salata, che manteneva il mio vigore. Quando io non travagliava al mio
scavo, componeva delle satire, essendo abbastanza provveduto di carta,
penne, inchiostro e lume. Così passava il mio tempo, non senza qualche
soddisfazione, sebbene rinchiuso in una oscura prigione.
» A quest'epoca mi accadde cosa che minacciò di turbarmi la dolce
sicurezza onde godeva. Gefhard mi aveva ajutato a gettare della sabbia
nella corte. Quando la mattina io volli rimettere la mia finestra, essa
mi cadde dalle mani e se ne ruppero tre vetri.
» Gefhard non poteva più soccorrermi, ed io era in disperazione.
Mi appigliai infine al partito seguente. La sentinella succeduta zufo
lava passeggiando sotto il mio spiraglio. Io mi volsi a lei dicendole:
amico, abbiate pietà non di me, ma di uno dei vostri camerati, che
sarà senza dubbio appiccato, se voi non mi aiutate. Per un piccolo ser
vigio vi darò trenta doppie, che vi getterò dalla finestra.
» Il soldato rispose: avete dunque del danaro? Io gli gettai subito
le trenta doppie. Egli mi domandò allora che cosa volevo da lui; gli
dissi che cosa mi era succeduto e gli porsi un pezzo di carta della
misura del balcone, per servir di modello a un nuovo. Fortunata
mente egli era intelligente; l'ufficiale di guardia per trascuratezza
non chiudeva la porta delle palizzate che circondavano il mio came
rotto. Il soldato si fece dunque rilevare un'ora dopo, corse alla città
e mi portò una invetriata simile alla prima. Il piacere che ne provai
m'indusse a fargli un nuovo regalo di dieci doppie, ed il mio povero
Gefhad fu salvo.
» Frattanto il mio lavoro s'avanzava, e trovava maggiore facilità
di quella che mi era figurata nel penetrare sotto i fondamenti. Scrissi
allora una seconda volta al mio amico di Vienna Ruckhardt; gli mandai
una nuova lettera di cambio e lo pregai di portarsi a Gummern ed
aspettarmi sei notti di seguito con due cavalli da mano sulla costa di
Klosterberg nel tempo ch'io gl'indicava. Ma ohimè! non passai più di
tre giorni in questa dolce aspettazione. La Provvidenza non aveva an
cora fissato il momento della mia liberazione.
» Gefhard aveva mandato sua moglie a Gummern colla mia lettera.
Ella disse al portiere che suo marito aveva una lite a Vienna e che
lo pregava di avere cura di questa lettera, e per vieppiù impegnar
velo gli mise in mano dieci scudi. Questa inaspettata liberalità diede
dei sospetti al postiere sassone, e gli fece credere che la lettera con
tenesse qualche secreto rilevante. Per assicurarsene l'apri e lettala, in
vece di spedirla o mandarla almeno a Dresda al suo superiore, volle
piuttosto esser delatore e la portò al governatore di Magdeburgo.
» Governatore era allora, come pure al giorno d'oggi (1786), il duca
21(6 TRENCK

Ferdinando di Brunswich. Io che ignorava l'occorso, fui sorpreso a tre ore


dopo il mezzogiorno a veder entrare questo principe nella mia prigione
accompagnato da un immenso seguito. Egli mi presentò la mia lettera
e mi domandò con dolcezza chi l'aveva portata a Gummern. Io risposi
che l'ignorava. Si fece subito una visita rigorosissima da falegnami,
fabbri-ferrai e muratori; ma dopo una mezz'ora di ricerche si ritira
rono, non ritrovando cosa alcuna, fuorchè la grata della finestra attac
cata posticcia al muro.
» Allora il duca cominciò a farmi delle minaccie. Io risposi con
fermezza che non aveva mai veduto la sentinella, che mi aveva pre
stato il servigio, nè mai lo aveva chiesto il suo nome.
» Il governatore vedendo che tutti questi esami non potevano
farmi parlare, mi disse con una finta severità: Trenck, voi vi siete
doluto finora di non essere stato ascoltato, nè giudicato legalmente. Io
vi prometto in parola d'onore di procurarvi subito l'uno e l'altro, e di
farvi levare i ferri, se mi nominate la persona che ha portato la
lettera.
» Altezza, io gli risposi: è notoa tutti che io non ho mai meritato
dalla mia patria il trattamento odioso che ne ricevo. Il mio cuore non
ha di che rimproverarsi. Io naturalmente cerco di riavere la libertà
con tutti i mezzi che sono in mia mano. Se tuttavia fossi capace di
tradire l'uomo benefico e pietoso che mi ha soccorso, se fossi vile a
segno di comprare la mia fortuna colla rovina di un altro, allora so
lamente meriterei i ferri che mi stringono. Fate poi di me quanto vi
aggrada: ma vi sovvenga che non sono ancora affatto abbandonato,
che sono un ufficiale di cavalleria e mi chiamo Trenck.
» Il duca tacque, mi volse le spalle ed usci; poi disse a quelli che
l'accompagnavano: mi fa compassione il suo destino, e mi sorprende
la sua costanza.
» Checchè ne sia, fu una grande imprudenza del duca questo di
scorso che tenne con me in presenza di tutta la guardia, poichè i sol
dati persuasi che era incapace di tradirli, mi ebbero da quel momento
la maggior confidenza, massimamente quando seppero che aveva del
danaro riposto e che ne aveva dato alle sentinelle.
» Non era passata un'ora dopo la partenza del duca, quando sentii
un gran rumore: era un granatiere che si era appiccato alle palizzate
del camerotto.
» Riseppi questa nuova funesta dall'ufficiale d'ispezione, che rientrò
un momento dopo col maggiore della piazza per riportarne una lan
terna che si era dimenticato, e uscendo mi disse sottovoce: si è appic
cato uno dei vostri complici.
» Questo mi sbigotti, tanto più che lo credei il buon Gefhard. Agi
tato da questo pensiero, batto all'uscio e chiedo di parlare all'ufficiale.
Venuto questi alla mia finestra, gli dissi di far sapere al governatore
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 217

ch'era disposto a svelargli il mio secreto, e che mi mandasse a tal fine


carta, penna e calamaio. Avuti questi oggetti, mi misi a scrivere e
stava per nominare il mio povero Gefhard, credendolo morto, quando
a un tratto mi prese una tale agitazione che mi fece alzare e correre
alla finestra gridando: mio Dio, non troverò dunque una persona umana
che mi dica il nome di quello che si è appiccato, affinchè possa salvare
a molti la vita?
» La mia finestra era ancora aperta e non si chiuse che all' in
domani. Gettai così di là cinque doppie, fasciate in una carta, e sog
giusi: Amico, prendi questo denaro e salva i tuoi compagni, o va a
tradirmi ed aggrava la tua coscienza col sangue che sarà sparso fra
breve. Fu raccolto il plico e, dopo un momento di silenzio, interrotto
da alcuni sospiri, senti rispondermi con voce sommessa : si chiamava
Schutz della compagnia di Ripps.
» Scrissi allora Schutz invece di Gefhard, sebbene non avessi mai
sentito questo nome, nè avessi mai avuto relazione alcuna con chi lo
portava. Finita la mia lettera, domandai il tenente e gliela consegnai.
Ma il duca, si figurò che io conoscessi più d'un soldato; le cose re
starono come prima e nulla ottenni di quanto mi era stato promesso.
» Si dichiarò poco dopo la guerra dei sette anni. Io ebbi questa
cattiva nuova dal buon Gefhard, che venne per l'ultima volta a mon
tar la guardia alla mia prigione. Stentò molto a farmela sapere, perchè
si erano duplicate le sentinelle.
» In questa occasione si cambiò tutto il presidio e fu rimpiazzato
da un reggimento di milizia urbana. Il maggiore Veyer mi consegnò
al maggiore di questo reggimento, detto Bruckhamer, che era l'uomo
più stolido e brutale che io m'abbia mai conosciuto.
» Perdei così tutti quelli che mi conoscevano e divenniun antico
prigioniero in un mondo nuovo. Ma non mi perdei per questo di co
raggio. Credeva che gli ufficiali e soldati della milizia fossero più fa
cili a corrompere che quelli della truppa regolare; nè mi apponeva
al falso.
» Si erano scelti quattro tenenti per montar la guardia a vicenda
al forte della Stella, ed in meno di un anno ne aveva guadagnati tre.
Ma erano appena partiti i reggimenti per l'armata, che arrivò il ge
nerale Borck, nominato comandante.
» Questo uomo crudele venne subito alla mia prigione, non come un
ufficiale che va a visitare un altro ufficiale disgraziato, ma come un
carnefice che va a prendere la sua vittima. Fa venire dei fabbri
ferrai, e mi si attacca al collo un orribile collare con una grossa ca
tena, che si univa a quelle che avevo ai piedi; se ne aggiunsero altre
due di rinforzo; in guisa che io era incatenato come una fiera (1). La

(1) Vedi la figura a pag. 145.


218 TRENCR

mia finestra fu murata, e non si lasciò che un angusto spiraglio per


introdurvi l'aria.
» Il tiranno mi fece togliere il mio letto di paglia, e mi lasciò
dopo avermi detto i maggiori improperi contro di me e contro l'im
peratrice regina, di cui ero al servizio. E' vero che non mancai di ri
spondergli e che le mie parole lo misero in un furore indescrivibile.
» Se fossero stati eseguiti precisamente gli ordini del re, avrei
dovuto senza dubbio rinunziare ad ogni speranza di fuga, perchè do
vendo una delle chiavi essere custodita dal comandante, la seconda dal
maggiore di piazza, la terza dal maggior d'ispezione e la quarta dal
l'uffiziale di guardia, mi sarebbe stato impossibile di parlare ad ognuno
di essi in particolare.
» Sul principio quest'ordine si osservava esattamente. I tre ultimi
ufficiali facevano la loro visita ogni ventiquattro ore, e il comandante
ogni otto giorni. Ma in seguito vennero tanti prigionieri a Magdeburgo,
che il maggiore della piazza consegnò la sua chiave al maggiore d'i
spezione, e il comandante si assentò del tutto, atteso che la cittadella
era lontana una mezz'ora dal forte della Stella.
» Era pure prigioniero in questo castello dal 1746 il generale Wall
rabe prussiano; ma egli aveva una dimora comoda nel poligono e tre
mila scudi di assegno. Il maggiore d'ispezione e l'ufficiale di guardia
andavano tutti i giorni a pranzo da lui, e vi si trattenevano sovente
fino a sera per fargli compagnia.
» Col tempo questi signori s'interessarono a favor mio e davano
le chiavi della mia prigione ai tenenti di guardia, quando si doveva
fare la visita.
» Io ebbi occasione di parlar loro a uno a uno, e coi mezzi da loro
prestatomi feci ancora vari tentativi per fuggire. Borck mi aveva messo
sotto la guardia di tre maggiori e tre tenenti, che si rilevavano alter
nativamente. Il mio stato era orribile. Il collare e l'enorme catena che
v'era attaccata m'impedivano di muovermi; ma non osavo disfarmene
prima di aver bene osservato per alcuni mesi la condotta che si ter
rebbe a riguardo mio ed essere sicuro che non si baderebbe più alle
mie catene. La privazione del letto era per me la sciagura più insoffri
bile: era costretto in conseguenza a sedere in terra ed appoggiare la
testa alla parete, che era umidissima e sostenere incessantemente con
una mano la catena del collare che mi schiacciava la nuca e colla so
verchia compressione sui nervi mi cagionava dei dolori di testa fortis
simi. Ma, siccome era obbligato, in grazia della sbarra che mi separava
le due mani, a reggerne sempre una sulle ginocchia, mentre l'altra so
steneva la catena, mi si irrigidivano talmente le braccia, che appena
poteva muoverle. Inoltre è facile il figurarsi quanto poco potessi
dormire.
» Tanti disagi accumulati oppressero le mie forze fisiche e morali, e
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 219

caddi gravemente infermo. Il tiranno Borck restò inesorabile, e deside


rava la mia morte per levarsi l'impiccio di custodirmi.
» Allora per la prima volta conobbi lo stato in cui si trova un
povero prigioniero ammalato. La costanza dell'animo, il coraggio, tutto
insomma ci abbandona, quando il corpo languisce.
» La mia infermità durò quasi due mesi, e ne divenni così debole,
che appena aveva forza bastevole per recarmi alla bocca il vaso del
l'acqua. No, non può veruno concepire l'eccesso de'miei dolori. Sdraiato
in terra in una prigione oscura e umida, senza letto, senza paglia, op
presso dalle catene, mancante di brodo, non aveva medico che mi as
sistesse o amico che prendesse pensiero di consolarmi. L'infermità è
per sè stessa una grave calamità; ma che cosa doveva patir io soffren
dola con un trattamento così inumano! L'ardore della febbre unito al
dolor di testa, il collo gonfio e stretto da un collare di ferro, i piedi,
le mani e tutto il corpo scorticato mi mettevano alla disperazione. Credo
di poter assicurare che un malfattore condannato a morir sotto la ruota,
non soffra tanto quanto io soffersi per due mesi interi.
» Giunse finalmente quel giorno terribile che non posso ramme
morare senza ribrezzo.
» Era in un violento accesso di febbre, quando, volendo bere, il
vaso mi cadde di mano e si ruppe, nè poteva sperare altr'acqua prima
di ventiquattro ore. In quest'orrida angustia credo che mi sarei abbe
verato di sangue umano. Volli dar mano alle pistole per terminare il
mio supplizio, ma mi mancarono le forze e non potei smuovere le ta
vole sotto le quali erano nascoste.
» Quando vennero l'indomani per la visita, fui creduto morto; mi
trovarono disteso in terra, privo di sentimenti, colla lingua fuor dei
denti. Mi fu data dell'acqua, che tracannai con una avidità facile a ima
ginare. Avendo vuotato il vaso, mi fu nuovamente riempito, mi si au
gurò una pronta morte, e si chiuse la prigione.
» Frattanto la voce del modo inumano col quale era trattato, si era
sparsa per la città ed aveva fatto tale impressione, che tutte le dame
e gli ufficiali maggiori del presidio si unirono per ottenere dal tiran
nico Borck, che mi si restituisse il mio letto.
» Pure quanto a me, egli è certo che dal giorno in cui aveva sof
ferto tanta sete e bevuto tanto, cominciai a riprendere le mie forze e
che in breve mi ristabilti perfettamente con maraviglia comune.
» Durante la mia malattia, m'ero guadagnato il cuore degli ufficiali
che avevano montato la guardia, e dopo sei mesi di pene atroci, vidi
ancora una volta rinascere l'aurora della speranza.
» Uno dei maggiori avendo consegnato le chiavi del mio carcere al
tenente Sontag, questi venne un giorno a trovarmi solo, mi parlò in
confidenza, si dolse de' suoi debiti e dell' impotenza cui si trovava di
soddisfarli.
220 TRENCK

» Io gli diedi venticinque luigi e ci giurammo un'amicizia eterna. A


poco a poco avvenne lo stesso di due altri ufficiali che mi custodivano
e stavano delle ore intere da me, quando toccava l'ispezione al mag
giore suddetto. Egli stesso finalmente mi prese affezione e mi faceva
buona compagnia al pari dei tenenti. Siccome era assai povero, gli re
galai una cambiale di due mila fiorini e così potei fortunatamente
tentar nuove intraprese.
Per questo mi faceva bisogno denaro, ed io aveva già diviso tra gli
ufficiali quanto ne aveva, e non mi restava altro che un centinaio di
fiorini; mi si presentò presto un' occasione di procurarmene.
» Un figlio del maggiore di K., era stato cassato e si trovava nell'ul
tima miseria: mi confidò il suo imbarazzo. Io lo diressi a mia sorella,
che gli consegnò cento zecchini.
» Avendo questa somma, K. venne allegro a ritrovarmi; io gli
diedi una lettera per l'amica mia in Russia, la contessa di Bestuchef,
ed un'altra per il granduca Pietro; raccomandava loro il giovane K.,
e li supplicava di mandare anche a me tutti quei soccorsi che dipen
devano da loro.
» Giunto a Pietroburgo, il mio raccomandato divenne capitano;
fu fatto maggiore poco tempo dopo, e fu così onesto amico riguardo a
me che prese l'assunto di farmi avere dal suo corrispondente di Am
burgo duemila scudi che la contessa di Bestuchef mi mandava.
» Avuto appena questo danaro, diedi trecento zecchini al vecchio K.,
ch'era un povero miserabile, e che me n'è stato grato sino alla morte.
A poco a poco ne distribuii altrettanti fra gli altri uffiziali.
» La condiscendenza infine era giunta a segno che il tenente
Glotin restituiva le chiavi al maggiore senza chiudere le porte della
prigione e veniva poi a passare la metà della notte meco, dopo aver
dato da bere alla sentinella.
» Così per qualche tempo mi andava tutto a seconda, ed il tiranno
Borck era ingannato.
» Non potei godere per lungo tempo questo raddolcimento del
mio destino, senza che in me risorgesse più vivo che mai il desiderio
di libertà; ma ohimè! dei tre tenenti che conosceva, nessuno aveva il
coraggio di far per me quello che Schell aveva fatto a Glatz. Avendo
due sentinelle ed alte palizzate intorno al camerotto, era inutile pen
sare a fuggir apertamente. Formai dunque un altro progetto, che per
verità richiedeva la forza d'Ercole per essere eseguito da un solo, ma
che era sicuro.
» Il tenente aveva misurato lo spazio compreso fra il mio carcere
e l'entrata della galleria ch'era sotto il primo riparo, lo aveva trovato
di ottantasette piedi. Io intrapresi dunque di minare tutta questa parte.
Giunto poi che fossi ai sotterranei, gli uffiziali s'impegnavano nel giorno
fissato per la mia evasione ad aprirne la porta, di maniera che non mi
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 221

restava allora che a guadagnar la campagna e cavarmi poi d'impaccio


quando mi fosse riuscito.
» M' accinsi subito all' opera, che durò sei mesi e mi costò stenti
incredibili; anzi un giorno corsi pericolo di restare sepolto vivo, a
cagione di una grossa pietra che staccossi dietro di me e mi chiuse
ermeticamente il passaggio. L'aria si addensava ad ogni istante, mi
mancava il respiro. Ma nell'angustia in cui mi trovava, lavorai con
tanto ardore che giunsi finalmente a smuovere il sasso e tornarmene
addietro, ma in quale stato ognuno può figurarselo.
» Io era finalmente arrivato a stabilire una comunicazione dal
mio ridotto sino al sotterraneo del riparo; ma essendo stato sentito il
rumore che faceva scavando, me ne derivò un'altra persecuzione.
» Fui sorpreso quando la mia prigione era ancor piena di sabbia.
Si fece racconciare il pavimento e si rinforzarono le mie catene. Ma la
maggior sciagura in questo incontro, fu di esser privato del letto,
perchè si era osservato che avea tagliato il pagliericcio per farne dei
sacchi di terra. Non tardai a lungo a risentire questa perdita. Fui at
taccato da una nuova infermità, alla quale avrei dovuto infallente
mente soccombere, se gli ufficiali miei amici non mi avessero prestato
tutti quei soccorsi che da loro dipendevano. Il solo maggior di Brune
hausen si mantenne inesorabile, e nei giorni della sua visita biso
gnava che mi tenessi nei ferri, liberandomene subito ch'era uscito, si
perchè gli anelli erano spezzati, si perchè, essendo molto dimagrato, le
manette non mi stringevano più le mani.
» Qualche tempo dopo ebbi la visita del generale Krusemarck, col
quale era stato cadetto nelle guardie del corpo. Costui, dimenticando
l'antica confraternità, che ci aveva uniti, osò insultarmi. Io gli corri
sposi sullo stesso tuono. E mi disse nell'uscire: insegneremo presto
all'uccello un gorgheggio diverso. La minaccia ebbe tosto effetto, e si
diede ordine d'impedirmi di dormire e di svegliarmi ogni quarto d'ora.
» Questa nuova specie di tormento mi parve sul principio, come
tante altre, insoffribile, ma mi vi abituai tanto in seguito che rispon
deva dormendo: questo durò per lo spazio di quattro anni. Il Langravio
di Assia Cassel vi pose fine l'anno precedente alla mia liberazione.
» Poco tempo dopo che fu dato l'ordine infernale da me riferito, il
generale Borck fu dimesso dal suo comando per certa debolezza di
mente che gli era rimasta dopo una grave malattia.
» Gli successe il tenente colonnello Reichmann, uno dei migliori
amici dell'umanità. Non potendo egli cambiare l'ordine stabilito, permise
solamente agli afflciali ch'erano d'ispezione, di lasciar aperte per alcune
ore le due prime porte del camerotto, perchè ne avessi luce e cambia
mento d'aria. Insensibilmente si estese il permesso sino alla notte,
tempo in cui gli ufficiali abbandonavano il forte per restituirsi in
città.
222 TRENCK

» La luce di cui godeva, mi fece nascere il pensiero di trattenermi


a scolpire con un chiodo acuminato delle satire e dei geroglifici sulla
coppa di peltro che mi serviva per bere. Ridussi quest'arte a tal per
fezione che le mie coppe si apprezzavano come cose preziose, si ven
devano carissime e non si sarebbero facilmente imitate dai migliori
maestri.
» Il mio primo abbozzo era imperfettissimo; tuttavia fu portato in
città. ll comandante lo fece vedere e mi mandò un'altra coppa, che
riusci meglio della prima. Allora ogni maggiore che mi custodiva, volle
averne una scolpita da me. Io mi perfezionai sempre più e passai un
anno in questa occupazione rapido quanto un mese. In grazia di questo
lavoro ottenni il permesso di avere un lume la notte, e lo conservai
fino alla mia liberazione.
» Vi era ordine che le coppe da me scolpite si mostrassero al go
vernatore prima di passare in altre mani, poichè solevo scrivervi e
figurarvi sotto diversi emblemi quegli avvenimenti della mia vita che
volevo render publici; ma l'ordine non s osservava, e gli ufficiali che
mi custodivano, ne facevano traffico. Ne furono vendute sino per dodici
zecchini; e dopo che riebbi la mia libertà, sali tanto alto il loro valore,
che si trovano ancora al giorno d'oggi tra le cose rare in vari gabi
netti d'Europa.
» Una di queste coppe venne per accidente in mano del principe
Augusto di Lobkovitz, ch'era allora prigioniero di guerra a Magde
burgo. Ritornato a Vienna, ne fece dono all'imperatore Francesco : vi
era scolpito un gruppo rappresentante una vigna, attorno alla quale
stavano lavorando molti operai.
» L'imperatrice Maria Teresa avendo veduto quella coppa, ordinò
al suo ministro di far le più vive istanze presso la corte di Berlino
per ottenere la mia liberazione.
» Sulla stessa coppa era un altro gruppo, ove si vedeva un uc
cello chiuso in una gabbia, che era tenuta in mano da un Turco e
portava l'iscrizione seguente in francese

« Se n'est pas un moineau


Gardé dans cette cage;
C'est un de ces oiseaux
Qui chantent dans l'orage.
» Ouvrez, amis des sages:
Brisez fers et verroux:
Ses chants, dans nos bocages,
Retentiront pour vous. »

(Non è un passero ch'è custodito in questa gabbia; è uno di quegli


uccelli che cantano durante la tempesta. Apritegli la prigione, o amici
dei saggi; rompete i suoi ferri e i suoi catenacci. I suoi canti suone
ranno per voi nei nostri boschetti).
FUGHE EOI EVAS1ONI CELEBRI 223

» L'interesse che le mie sventure, la mia costanza ed il mio in


gegno avevano destato nel Langravio d'Assia Cassel, indusse questo
principe umano a far mettere una stufa nel vestibolo della mia prigione.
Egli ordinò inoltre che si riaprisse la finestra murata, che mi si levasse
il collare, e mi fece dare della carta e delle penne.
» Scrissi allora i varii miei componimenti che riteneva a memoria,
e suppliva alla mancanza d'inchiostro con del sangue che mi cavava
al bisogno. A misura che questi abbozzi erano fatti, si recavano al
Langravio che se ne divertiva, e se ne facevano poi delle copie ch'erano
lette con estrema avidità dalla Corte e dalla cittadinanza. Questi mi
valsero un gran numero di amici, e finalmente la libertà, sebbene il
re per molto tempo abbia risposto a chi gli parlava in mio favore: è
un uomo pericoloso; finchè io vivo, non vedrà aria.
» Passo sotto silenzio vari tentativi che feci ancora in diversi
tempi per ottenere la mia libertà, e non farò menzione che di due in
cidenti, uno dei quali fece quasi scoprire la galleria sotterranea da me
scavata dal camerotto sino ai ripari, l'altro riuscito male per l'impru
denza ch'ebbi di farlo conoscere spontaneamente ai miei custodi.
» Aveva addomesticato un sorcio in maniera che scherzava continua
mente meco e veniva a mangiarmi in bocca. Una notte fece tanti salti
e capriole, che le guardie sentirono e andarono ad avvertire l'ufficiale
d'ispezione. La guarnigione era stata cambiata alla pace, ed io in
principio non aveva potuto far conoscenza così intima cogli ufficiali
della truppa regolare, come con quelli della milizia. L'ufficiale d'ispe
zione, dopo essersi accertato del rumore colle proprie orecchie, mandò
ad avvertire che dovea succedere qualche cosa di straordinario nella
mia prigione.
» Venne in conseguenza il maggiore della piazza di buon mattino
con ferrai e muratori.
» Il pavimento, il muro, le catene, il mio corpo medesimo furono
minutamente visitati.
» Nè trovandosi cosa alcuna in disordine, mi si domandò final
mente la cagione dello strepito della scorsa notte. Aveva anch'io sen
tito il sorcio, e dissi la cosa ingenuamente. Mi si ordinò di farlo ve
nire: io fischiai, e la bestiuola mi saltò sulle spalle. Dimandai allora
grazia per essa, ma l'uffiziale di guardia se ne impadroni e mi pro
mise solamente sull'onor suo di darlo a una dama, che ne terrebbe
molto conto; lo portò nella sua stanza e lo mise in libertà. Il sorcio,
che aveva familiarità solamente con me, disparve subito e si rintanò
in un buco.
» Quando vennero al mezzodì per la solita visita, mentre stavano
per uscire, ecco la povera bestia che si slancia nella prigione, s'ag
grappa alle mie gambe, mi monta sulle spalle, e si dimena in mille
maniere per mostrarmi l'allegrezza che ha di rivedermi.
22 TRENIC

» Tutti ne restarono sorpresi e tutti la volevano. Il maggiore, per


finire le liti, lo prese e lo portò a sua moglie; essa le fece fare una
bella gabbia, ma il sorcio non volle mangiare e poco tempo dopo si
trovò morto.
» Ecco il secondo caso. Aveva perfezionato il mio scavo in maniera
che niente poteva impedirmi di fuggire quando voleva. Sapeva che
l'ambasciatore austriaco si adoperava, d'ordine di Maria Teresa, per
la mia liberazione. Un tenente del presidio da me guadagnato a forza
di denaro, mi aveva promesso di disertare pubblicamente meco, come
già Schell.
» Era pieno di speranza e di presunzione, ebro di gioia, e mi girò
il cervello. Invece di prevalermi a dirittura de' miei vantaggi, risolsi
di mettere alla prova la generosità di Federico II, riservandomi di
fuggire col tenente, quando il mio tentativo presso il re non avesse
avuto effetto.
» Aspettai dunque la visita del maggiore, ed al suo arrivo gli
parlai cosi: – io so, signor maggiore, che il duca Ferdinando di Brun
swick, governatore della provincia, è attualmente in Magdeburgo. Ab
biate la bontà di andarlo a trovare e dirgli che può far visitare il mio
carcere, raddoppiare il numero delle sentinelle, e poi assegnarmi l'ora
nella quale vuole che mi faccia vedere in pieno giorno fuori del forte
della Stella e sulla costa di Klosterberg in piena libertà. Se posso
effettuare quanto prometto, voglio lusingarmi che non mi negherà la
sua protezione e si degnerà d'informare il re di questa mia condotta,
affinchè possa giustificarmi presso di lui e dargli così un'autentica
prova della buona fede di tutte le mie azioni. -
» A questo discorso il maggiore guardò fiso il tenente, e paren
dogli quanto gli diceva tanto ridicolo quanto impraticabile, credeva che
fossi impazzito. Tuttavia, siccome insisteva perchè ne andasse a render
conto, parti e ritornò ben tosto accompagnato dal comandante Sig., Reich
mann, dal maggiore di piazza Riden e da un altro maggiore incari
cato dell'ispezione.
» La sua risposta fu, che se io poteva eseguire l'intrapresa da me
proposta, il duca mi prometteva la sua protezione, il perdono del re e
frattanto la immediata liberazione dei ferri.
» Io chiesi allora seriamente che mi si fissasse un'ora. Risero della
mia domanda, e mi risposero che bastava ch'io spiegassi il metodo
che voleva tenere, senza metterlo in pratica; che se io ricusassi di
dare questi schiarimenti, si leverebbe il pavimento della mia prigione,
e vi si lascerebbero giorno e notte due sentinelle; insomma che il go
vernatore voleva unicamente assicurarsi della possibilità dell'impresa
senza fare alcuna pubblicità.
Dopo aver lungo tempo capitolato e ricevuto le più positive pro
Fughe ed evasioni celebri. Disp 14.
Carlo Eduardo cerca un asilo fra i briganti.
226 TRENCK

messe, gettai tutto ad un tratto le catene ai loro piedi, apersi il foro


che conduceva dalla mia prigione ai ripari, e diedi loro le armi, gli
ordigni e le due chiavi delle porte dei sotterranei. Proposi loro pure
di scendere nella galleria di trentasette piedi, che comunicava con
questi e di fare eglino stessi colle proprie spade l'apertura che ancora
restava a farsi per penetrarvi, opera di pochi minuti. Palesai loro fi
nalmente che da molto tempo aveva dei cavalli, che mi aspettavano
sulla costa di Klosterberg per agevolare la mia fuga.
» Fu indicibile la sorpresa di quei signori. Uscirono, osservarono
da tutte le parti, rientrarono e mi fecero mille interrogazioni, alle
quali tutte risposi, come se fossi stato io stesso l'ingegnere fabbricatore
del forte della Stella. Partirono finalmente e dopo un'ora tornarono
per condurmi nella stanza dell'ufficiale di guardia.
» Il maggiore ci diede la sera una cena squisita, e mi assicurò che
il mio affare prendeva una buona piega, avendo il duca scritto imme
diatamente a Berlino in favor mio. Ma queste belle promesse non erano
che illusioni. All'indomani fu rinforzata la guardia. Si misero due gra
natieri in sentinella nella stanza ov'era; tutta la truppa caricò a palla
in mia presenza, ed i ponti restarono alzati per tutto il giorno. Vidi
una folla d'operai lavorare nel mio camerotto e dei carri di grosse
pietre vive, che si ponevano ih opera per il pavimento prima fatto di
tavole. Questo durò cinque giorni, nei quali io mi abboccai per l'ul
tima volta col tenente mio amico, che mi scoperse essere il duca incon
scio al tutto dell'occorso.
» In capo a cinque giorni, la mia prigione essendo stata riattata,
il maggiore di piazza e il maggiore d'ispezione mi vi condussero: fui
attaccato solo per un piede al muro, e mi si levarono gli altri ferri.
Essendo il nuovo pavimento di vivo sasso, il carcere era veramente
impenetrabile.
» Mentre mi incatenavano, domandai con tuono di rimprovero al
comandante se il duca manteneva così la sua parola d'onore e se il
mio generoso procedere meritava simile trattamento. Io so, dissi, che
gli sono state fatte delle false relazioni a mio discapito; ma la verità
non starà sempre occulta, e quando si farà palese, ne dovranno tre
mare i traditori.
» Debbo ora istruire i miei lettori dei motivi che si avevano di
tener meco una così strana condotta.
» Dopo la mia liberazione andai a Brunswick e seppi dalla bocca
stessa del duca che il maggiore incaricato della mia custodia lo aveva
ingannato, dicendogli che mi aveva colto nell'atto di tentar l'evasione,
e che senza la sua estrema vigilanza vi sarei riuscito; che però aveva
saputo la verità qualche tempo dopo, che ne aveva subito dato avviso
al re, e che d'allora in poi Sua Maestà cercava un' occasione di mettermi
in libertà.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 227

» Quanto all'ufficiale col quale doveva fuggire, siccome aveva pa


gati i suoi debiti, io gli era venuto a noia e non mi si è presentato
mai più. Anzi per meglio schivarmi aveva permutato con uno dei suoi
colleghi il posto di tenente dei granatieri, che l'obbligava a montar la
guardia al forte della Stella. Io non l'ho nominato per non disonorarlo;
e se venisse mai a leggere questo libro, legga altresì ch'io gli perdono
» Allora solamente cominciai a sentire tutta la durezza del mio
destino e gli effetti della mia imprudenza.
» Quelli che venivano a far la visita della mia prigione, non tar
darono ad avvedersi del mio cambiamento.
» Era divenuto cupo, malinconico, non mi occupavo più a scol
pire la coppe, e le odi da me scritte non spiravano che dolore e dispe
razione.
» Erano già nove mesi che la pace era sottoscritta senza che si
fosse fatta ancora cosa alcuna per me. Ai 24 di dicembre, quando ap
punto io mi credeva perduto per sempre, giunse la fortunata notizia
della mia liberazione. Venne portata dal conte di Schlieben, tenente
delle guardie, che entrò in Magdeburgo all'ora della parata. L'ordine
del re portava che io fossi messo subito in libertà.
» Questa notizia cagionò un giubilo universale nella città, poichè
non v'era alcuno che non avesse per me amicizia, ammirazione o al
meno compassione.
» Il comandante credendomi più debole che non sono, temeva di
parteciparmi a un tratto questo felice annuncio. Però si aprirono tosto le
porte della mia prigione, ed io lo vidi entrare accompagnato da una
folla di persone che tutte mi guardavano con aria di compiacenza. Io
ne fui da prima sorpreso, ma il comandante rivoltosi a me: caro Trenck,
mi disse, questa volta ho il piacere di recarvi una buona nuova. Il
duca Ferdinando ha ottenuto dal re che vi si levino i ferri.
» Infatti si accostò sul momento il fabbro-ferraio e si accinse al
l'opera. » Voi avrete altresì, continuò Reichmann, una stanza migliore.
» Io l'interruppi allora e gli dissi: ho in pensiero che mi sia resa
la mia libertà e che voi non vogliate dirmelo subito ad un tratto per
timore di cagionarmi un immenso sconvolgimento. Se cosi è, ditemelo
apertamente, chè saprò bene contenermi.
» – Si, mi rispose egli. Voi siete libero.
» Mi gettò subito le braccia al collo, esempio che fu seguito da
tutti gli astanti.
- » Mi si dimandò qual abito voleva. Io risposi: il mio uniforme. Il
sarto era già pronto e mi prese le misure: Reichmann gli ordinò di
prepararmelo per la mattina seguente.
» Finito ch'ebbe il ferraio il suo lavoro, fui condotto al corpo di
guardia nella stanza dell'ufficiale. Qui ciascuno mi fece complimenti di
congratulazione. Il maggiore della piazza mi lesse il solito giuramento
228 TRENCK

che si fa prestare ai prigionieri di Stato, in vigor del quale doveva


promettere:
1. Di non pensare a prender vendetta di alcuno.
2. Di mantener un perfetto silenzio su quanto era accaduto.
3. Di non passare la frontiera della Sassonia e della Prussia.
4. Di non entrare durante la vita del re al servizio di alcun
principe, sì nello stato militare che nel civile.
» Adempite queste formalità, il conte di Schlieben mi consegnò
una lettera del generale Rieds, ministro dell'interno a Berlino, nella
quale mi scriveva ch'era soddisfattissimo di aver trovato occasione per
ottenere la mia liberazione, e che mi prestassi di buon grado a quanto
si esigerebbe da me, essendo incaricato il conte di accompagnarmi
fino a Praga.
» Schlieben mi disse allora: mio caro Trenck,io ho ordine di con
durvi questa notte in una carrozza chiusa a Praga per la parte di
Dresda e di non permettervi di parlare con alcuno per la strada. Il
generale Rieds mi ha consegnato trecento zecchini per le spese del
vostro viaggio. Io vado immediatamente a prender un legno; ma sic
come siamo già convenuti col comandante che la vostra partenza non
può aver luogo oggi, non essendovi alcuna disposizione, partiremo la
notte seguente.
» Io promisi quanto si voleva. Il conte di Schlieben restò meco, e
gli altri se ne ritornarono in città.
* Pranzai col maggiore d'ispezione e coll'ufficiale di guardia dal
generale Wallrabe nella sua prigione, ove questo vecchio morì nel 1774,
dopo ventott'anni di detenzione.
» Divenuto libero andai a passeggiare qua e là per la fortezza,
affine di avvezzarmi all'aria aperta ed alla luce. Cercai pure nella mia
prigione il danaro che vi avevo nascosto e vi trovai ancora sessanta
zecchini. Trattai generosamente la guardia. Ogni soldato ebbe da me
uno zecchino. Le sentinelle ch'erano in piedi al momento della mia
liberazione n'ebbero tre, e ne diedi dieci da dividersi fra quelli ch'erano
montati di guardia in quel giorno.
» All'ufficiale poi mandai un regalo da Praga ed il resto del da
naro lo diedi alla moglie del buon granatiere Gefhard ch'era morto.
» All'indomani ebbi la visita del corpo degli ufficiali maggiori del
presidio e per il mezzogiorno mi trovai equipaggiato da capo a piedi.
» Un cambiamento cotanto improvviso poteva certo produrre della
riflessioni. Io era quello stesso che languiva ventiquattro ore prima in
una prigione; eppure qual differenza nelle accoglienze, nei riguardi
che mi usavano ancora quelli che poco prima mi trattavano con tanto
rigore! Io era amato onorato, ricercato, esaltato... perchè? perchè sciolto
da quei ferri che non avrei dovuto portare giammai.
» Abitanti della terra, che cosa siete mai sotto un dominio dispo
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 229

tico! A che valgono i migliori servigi e le più pure virtù dove l'ar
bitrio regola ciecamente il vostro destino?
» Giunta la notte, venne il conte di Schlieben con una carrozza a
quattro cavalli di posta, e partimmo. La mia detenzione a Magdeburgo
era durata nove anni, cinque mesi ed alcuni giorni. Se vi si aggiun
gano i diciasette mesi che io sono stato a Glatz, si troverà che ho
passato in prigione undici anni della mia giovinezza, cioè, il più bel fior
della vita.
» Arrivai felicemente a Praga ai 7 di gennaio col conte di Schlie
ben; egli mi consegnò lo stesso giorno al duca di Dueponti, che n'era
governatore. Questo principe mi fece ottima accoglienza;pranzai da esso
due volte di seguito, e tutta la città era curiosa di conoscere un uomo
che avea sofferto una prigionia di dieci anni tanto crudele.
» Ma quale non fu la mia sorpresa, quando poco dopo vidi com
parire una stafetta da Vienna, che portava l'ordine di farmi partire
sull'istante verso quella capitale con una buona scorta!
« Mi si chiese la mia spada, ed il capitano conte de Wela accom
pagnato da due bassi ufficiali montò meco in una carrozza da me a
tale oggetto comprata e colà mi tradusse prigioniero. -

» Giunto a Vienna fui alloggiato alle caserme, e mi si assegnò


per prigione la stanza del tenente Blonket, al quale si era proibito di
lasciarmi parlare o scrivere a chicchessia, se non col permesso dei
signori Kump e Huttner consiglieri aulici.
» Questi essendo stati gli amministratori delle mie sostanze dur
rante la mia detenzione, si può facilmente comprendere la ragione che
avevano di procurarne la continuazione. Stetti sei settimane in tale
situazione, finchè il colonnello di Alton venne a farmi una visita. Io
gli rappresentai la mia sorpresa di trovarmi in prigione senza sapere
perchè. Solamente a questo degno signore ho l'obbligazione di non es
sere stato chiuso per sempre come pazzo nella fortezza di Gratz, chè
tale appunto era il progetto de' miei nemici.
» Ridivenuto libero, non ho potuto aver giustizia di loro; ma egli
è certo che se avessero potuto farmi uscire da Vienna, era finita per
me, e mi toccava di passare il resto de' miei giorni in una casa di pena.
» Per potermi cosi trattare impunemente, avevano dato a inten
dere all'imperatrice ch'io era diventato frenetico e capace d'insultare
l'ambasciatore di Prussia, cosa che avrebbe avuto delle serie conse
guenze.
» Maria Teresa mossa a compassione domandò se vi sarebbe ri
medio per il mio stato. Ne ebbe in risposta che mi si erano fatte
varie emissioni di sangue, ma che non erano state sufficienti a cal
marmi. Si disse pure che io era un dissipatore, che in sei giorni aveva
consumato a Praga quattromila fiorini, e che bisognava assolutamente
nominare dei curatori che vegliassero alla conservazione delle mie so
stanze, senza di che io avrei presto dato fondo ad ogni mio avere
230 TRENCK

» Il conte di Alton, che desiderava di prestarmi servigio, non dif


feri a parlare di me e delle mie disgrazie alla contessa di Parr, aia
dell'imperatrice. Nel tempo che ne parlavano, entrò da questa dama
l'imperatore Francesco, e domandò se io aveva dunque perduto affatto il
cervello, e se mi restavano almeno dei lucidi intervalli. D'Aiton rispose
ch'era da sette settimane nella sua caserma, e che non aveva mai
veduto in me se non un uomo dei più moderati e più colti che avesse
mai conosciuto; che nella falsa relazione che si era fatta a S. Maestà
dovevano esserci dei grandi intrighi, e ch'egli garantirebbe ch'io aveva
tutto il mio senno.
» All'indomani l'imperatore mandò il conte di Thurn a vedermi.
Fu mia fortuna di cadere in così buone mani. Gli raccontai le mie
disgrazie e gli dissi che gli amministratori delle mie sostanze mi aveano
ordito questa trama infernale per conservarsene la perpetua possessione.
Ragionammo due ore insieme, ed ebbi la fortuna di guadagnarmi la
sua confidenza e amicizia, che mi ha conservato sino alla morte.
» Partendo mi promise ogni appoggio ed aiuto, e mi mantenne
la sua parola, poichè il giorno seguente venne a prendermi per con
durmi all'udienza dell'imperatore. Questa durò più d'un'ora. Le cose
che esposi a Sua Maestà, la penetrarono a tal segno, che il buon prin
cipe si alzò a un tratto dalla sua sedia e s'avviò per uscire dalla sala
d'udienza. Io mi avvidi che gli piovevano lagrime dagli occhi e ne
restai cosi penetrato di riconoscenza, che mi gettai a' suoi piedi senza
poter proferire parola. L'imperatore mi guardò commosso in viso ed
usci.
» Ritornai contentissimo alla caserma, ed il giorno seguente fu so
speso il mio arresto. Andai dunque col colonello d'Alton a fare una
visita alla contessa di Parr, che desiderava di vedermi, ed ottenni per
mezzo suo un'udienza dall'imperatrice.
» Non mi è possibile di esprimere la bontà singolare con la quale
mi accolse questa sovrana. Mi compativa, lodava il mio coraggio e la
mia fedeltà. Mi disse che sapeva le soperchierie che mi erano state
fatte a Vienna; che non doveva parlar più del passato, ma perdonare
ai miei nemici, dimenticare i torti sofferti e far quitanza ai miei am
ministratori. Io voleva parlare, ma m'interruppe dicendomi: non vi
dolete: sò tutto. Vi si restituirà quanto vi è stato usurpato. Avete bisogno
di riposo e voglio che lo prendiate.
» Qual partito mi restava a prendere? Essere chiuso come pazzo
in una casa di pena, o sottoscrivere ciecamente a quanto si esigeva?
Ebbi tosto ordine di portarmi dal consigliere aulico De Ziegler, ove
fui obbligato a sottoscrivere:
1. Che riconosceva per buono e valido il testamento di Trenck mio
cugino.
2. Che io rinunciava ai miei poderi in Schiavonia, rimettendomi
interamente su di ciò alla degnazione di Sua Maestà.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 231

3. Che dava una quitanza generale ai miei amministratori.


4. Che prometteva di non stare a Vienna.
» Tale è la libertà che mi fu resa dopo nove anni di orrida pri
gionia. Nè vi era via di mezzo; doveva scegliere, o tornare in prigione,
o lasciarmi spogliare della maggior parte dei miei beni. Io era prote
stante, e quelli che si erano impossessati delle mie sostanze, erano
protetti dai gesuiti. Il solo risarcimento che mi si concesse in com
penso di tante perdite, fu lo sterile titolo di maggiore, senza funzioni. »
In seguito Trenck si stabili in Aquisgrana, prese moglie ed ebbe
una numerosa famiglia.
Dopo la morte di Federico II, nel 1786 potè tornare in Prussia;
il suo onore fu pienamente riabilitato, e gli furono restituiti i suoi
beni. Fu allora ch'ei rivide per pochi giorni la principessa Amalia.
» Al tempo della rivoluzione francese, Trenck, nemico del dispoti
smo, egli che aveva tanto sofferto per colpa di un despota, andò a
Parigi coll'intenzione di prender parte al movimento. Ma preso per un
emissario del duca di Brunswick, fu imprigionato e peri sulla ghigliot
tina nel 1793.
Le strane avventure del barone di Trenck dettero materia a ro
manzi e a drammi. Anche ora tutta Parigi accorre all'Ambigu, dove
gli amori e la prigionia di Trenck sono soggetto di un dramma inti
tolato l' Ufficiale di fortuna. Alcune circostanze sono però mutate; per
esempio, la scena si mette in Baviera, invece che in Prussia.
XXVI.

CARLO-EDUARDO
(1746)

Dopo la battaglia di Culloden, che rovinò tutte le sue speranze,


al principe Carlo Eduardo non restava altro che di fuggire per sot
trarsi alla vendetta del governo di Giorgio II. La sua testa fu messa
a prezzo, e fu offerta una ricompensa di trentamila lire sterline per la
scoperta e la cattura del pretendente, ultimo rampollo degli Stuardi.
Si credeva, dice Walter Scott, che in un paese povero come sono le
montagne della Scozia, dove le leggi che concernono le proprietà sono
quasi sconosciute, presso un popolo i cui rapaci istinti sono quasi
passati in proverbio, una ricompensa molto minore avrebbe bastato ad
eccitare la cupidigia di un traditore e a far consegnare il principe sfor
tunato. Ma non fu così: la fuga del pretendente ritardata per tanto tempo
a cagione delle persecuzioni degli agenti del governo e così difficil
mente effettuata in mezzo a tanti ostacoli, debb'essere citata, a onore
della Scozia, come uno splendido esempio di fedeltà.
Durante la battaglia di Culloden, Carlo si era esposto ai maggiori
pericoli; fu più volte coperto dalla terra sollevata dalle palle di canno
ne, si sforzò coraggiosamente di rannodare le sue truppe e, secondo la
maggior parte dei testimoni oculari, adempi i doveri di un comandante
valoroso ed abile. Abbandonando il campo di battaglia, congedò con
differenti pretesti la maggior parte dei cavalieri che lo seguivano, du
bitando forse della loro fedeltà e non tenne seco che alcuni ufficiali
irlandesi, dei quali poteva completamente fidarsi. Diresse la sua fuga
verso Gortuleg, dove sapeva risiedere lord Lovat. Forse sperava che
FUGIIE ED EVASIONI CELEBRI 233

questo personaggio rinomato per la sua sagacità gli potrebbe dare


qualche buon consiglio; forse anche di ricevere dei soccorsi, perchè il
figlio del lord e Cluny Mac-Pherson di lui genero avevano raccolto dei
considerevoli rinforzi, ed erano in cammino, per raggiungere l'esercito
del principe, quando avvenne la battaglia di Culloden.
Carlo e Lovat si videro per la prima ed ultima volta, ambedue
in preda al terrore e all'imbarazzo di una posizione disperata. Carlo
parlò solamente delle tristi condizioni della Scozia; Lovat de' suoi pe
ricoli personali. Essendosi accorto che non aveva da aspettare dal suo
ospite nè soccorsi nè consigli, il principe prese in fretta qualche rin
fresco e parti. Gortuleg era un luogo pericoloso per cagione della vi
cinanza dell'esercito vittorioso, e forse la fedeltà di Lovat gli parve
Sospetta.
Carlo Eduardo si fermò poscia a Invergarny, castello che apparte
neva al lord di Glengarry. In punizione di questa ospitalità di un
momento, i soldati inglesi saccheggiarono il castello poco tempo dopo.
Da Invergarny il principe fuggitivo penetrò nelle montagne dell'ovest
ed alloggiò in un villaggio chiamato Glenbeisdale, vicino al luogo dove
aveva sbarcato venendo dalla Francia. Rinunciando allora interamente
all'idea di continuare la sua impresa, mandò un messaggio ai capi ed
ai soldati che, secondo i suoi ordini, s'erano raccolti a Ruthven, per
esprimer loro tutta la sua gratitudine ed eccitarli a provvedere alla
loro sicurezza, facendo loro conoscere la sua intenzione di ritirarsi in
Francia. Indarno i suoi partigiani si sforzarono di deciderlo ad esporsi
con loro a nuovi pericoli. Carlo non poteva farsi illusione, e non vo
leva esporre ad una perdita certa gli uomini a lui devoti i quali pren
devano consiglio soltanto dal loro coraggio e dalla loro disperazione.
Essendosi dunque separato da' suoi fedeli, passò a Long-island nelle
isole Ebridi, sperando di trovare un bastimento francese su quelle coste.
Dei venti contrari, delle tempeste, dei dispiaceri d'ogni genere, accom
pagnati da privazioni cui non era avvezzo, lo cacciarono di luogo
in luogo e d'isola in isola. Finalmente giunse a South-uist, una delle
Ebridi, ov'era sbarcato al principio della sua spedizione. Vi fu accolto
da Clanranald, ch'era stato il primo a dichiararsi in favore di quello
sventurato principe e che gli fu fedele sino alla morte. Colà per sua
sicurezza personale Carlo trovò ricetto in una miserabile capanna che
apparteneva a un taglialegna chiamato Corradale, situata sulla mon
tagna selvaggia che porta il medesimo nome.
lntanto si visitarono con la più gran cura tutti i luoghi che po
tevano offrirgli un asilo e si fecero sopratutto le più minute perquisizioni
nelle isole dove si sospettava ch'egli si fosse ricoverato. Il generale
Campbell andò sino all'isola di San-Childa, che può considerarsi, come
l'ultima estremità del mondo abitabile; quindi venne a South-uist,
volendo continuare le sue ricerche dal sud al nord delle Ebridi, e ci
234 CARLO EDUARDO

trovò dei capi di Skye e di Mac-Leod, che cercavano, com'esso, il principe


fuggitivo. Due mila uomini facevano le più rigorose perquisizioni nel
l'isola, le cui coste erano sorvegliate da piccoli bastimenti di guerra.
Sembrava assolutamente impossibile che il principe sfuggisse a tali
ricerche, ma il coraggio di una donna lo salvò.
Questa donna era Flora Mac-Donald, il cui nome è rimasto celebre
in Iscozia. Era parente di Clanranald e si trovava in visita presso
questo capo, a Osmaclode, nel South-uist. Suo suocero, che era dei clan
di sir Alessandro Mac-Donald, era nemico del pretendente e coman
dava la milizia che esplorava allora il South-uist.
Avendo formato in fretta un piano per salvare il principe, Flora
eluse le disposizioni ostili di suo suocero, ottenne da lui un passaporto
per lei, per un servo ed una serva che chiamò Bettina Burke. La parte
di Bettina doveva esser fatta dal principe vestito da donna. Sotto
questo trasvestimento e dopo di esser stato più volte in pericolo di
esser preso, Carlo arrivò finalmente a Kilbride nell'isola di Skye. Ma si
trovava nel paese di Mac-Donald, e questo capo era devoto al governo:
il principe era più che mai in pericolo. Flora mostrò di nuovo tutto il
suo coraggio e la sua presenza di spirito in favore dell'uomo che in
modo cosi strano era posto sotto la protezione di una giovane. Risol
vette di confidare il secreto a lady Margherita Mac-Donald, sposa di
sir Alessandro, e di fare assegnamento sulla compassione naturale di
una donna e sull'affezione secreta agli Stuardi che era comune a quasi
tutte le donne della Scozia montana.
Questa confidenza a lady Margherita era tanto più pericolosa, che
dicevasi che suo marito si era in sulle prime obbligato a congiungersi
al principe col suo clan; poi s'era determinato a far prendere le
armi in favore del governo ai suoi vassalli, che allora formavano parte
delle truppe a cui Carlo era con difficoltà sfuggito. Lady Margherita
fu spaventata di questa rivelazione: suo marito era lontano e la sua
casa piena di ufficiali della milizia. Ella non trovò miglior mezzo per
la sicurezza del principe, che affidarlo alle cure di Mac-Donald di Kings
burg, uomo pieno di coraggio e d'intelligenza, ch'era agente o inten
dente di sir Alessandro. Flora s'incaricò anche di condurre il principe
da Mac-Donald di Kingsburg, e Carlo Eduardo ebbe la fortuna di non
essere riconosciuto nel viaggio, sebbene l'aspetto goffo di un uomo che
porta dei vestiti da donna, avesse fatto concepire più di una volta dei
sospetti sul fatto suo.
Da Kingsburg si ritirò a Rosa, dove si trovò nella più gran
miseria, perchè quest'isola era stata saccheggiata, avendo il laird
preso parte all'insurrezione: durante quel periodo della sua fuga, pas
sava per servitore di quello che lo conduceva. Il paese del laird Mac
Kinnon divenne poscia il suo temporaneo rifugio; senonchè, malgrado
gli sforzi di quel capo in suo favore, non potè trovare nè riposo, nè
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 235

sicurezza in quella psrte dell'isola di Skye, e fu obbligato di tornare


in Iscozia, ove chiese di esser sbarcato sulle rive del lago Nevis. Vi si
trovò esposto a pericoli ancora più grandi e per poco non fu preso.
Un gran numero di soldati percorrevano quel distretto, dov'era comin
ciata l'insurrezione, il paese di Lochiel, Keppoch, Glengurny ed altri
capi giacobiti. Il principe e le sue guide si trovarono presto chiusi in
un cerchio di sentinelle che s'incrociavano nelle ronde che facevano,
di modo che riusciva impossibile ai fuggitivi di penetrare nell'interno
del paese.
Dopo aver passato due giorni circondati da nemici, senza osar nem
meno di accendere il fuoco per cuocere i loro alimenti, evitarono il
pericolo che li minacciava e fuggirono trascinandosi carponi per una
gola stretta ed oscura, che separava i posti di due sentinelle.
Vivendo in questo modo nell'inquietudine e nella miseria, mentre
i suoi abiti andavano in pezzi, spesso senza cibo, senza fuoco e senza
ricovero, lo sventurato principe unicamente sostenuto dalla speranza
di venir a sapere che qualche bastimento francese s'avvicinasse alla costa,
arrivò finalmente nella montagna di Strath-Glass, e con Glenaladale,
ch'era allora il suo solo compagno, fu obbligato a cercar un asilo in
una caverna che serviva di rifugio a sette briganti. Non si deve inten
dere per questa parola dei ladri ordinari: erano dei proscritti che
avevano preso parte all'insurrezione e vivevano di bestiame che riu
sciva loro di prendere nelle vicinanze. Accordarono volentieri un asilo
al fuggitivo, e riconoscendo in lui il principe per cui avevano esposto
più volte la vita, gli giurarono una fedeltà inviolabile. Tra i suoi sud
diti più ubbidienti e più affezionati Carlo Eduardo non aveva mai tro
vato tanto zelo e tanti soccorsi, quanto in quegli uomini ch'erano
nemici del mondo e delle sue leggi.
Volendo dargli tutta l'assistenza possibile, quegli arditi scorridori
intrapresero di procurargli degli abiti, della biancheria, dei viveri e
delle notizie. Vi si accinsero in un modo conforme a quel misto di
semplicità e di ferocia che formava allora il fondo del carattere dei
montanari scozzesi. Due di essi si misero in imboscata ove doveva pas
sare un servo di un ufficiale, che si recava al forte Agostino col ba
gaglio del suo padrone, e lo uccisero. La valigia che portava, fornì loro
gli abiti che volevano procurare al principe. Poi uno di essi travestito
osò di penetrare nel forte Agostino, vi raccolse informazioni preziose
sui movimenti delle truppe e volendo adempire intieramente la mis
sione che aveva assunto, credette nella semplicità del suo cuore, dice
Walter Scott, di non poter fare miglior regalo allo sventurato prin
cipe che col portargli un pezzo di pan pepato d'un soldo.
Carlo Eduardo passò in quella caverna quasi tre settimane, e i briganti
con grande difficoltà consentirono a lasciarlo partire. «Restate con noi, gli
dicevano; i monti d'oro che il governo ha promesso per la vostra testa,
236 CARLO EDUARDO

tenteranno forse qualche gentiluomo a tradirvi, perchè gli sarà facile


di andar poi in un paese lontano a vivere col prezzo della sua infamia.
Ma noi non siamo esposti a questa tentazione. Non conosciamo altra
lingua che la nostra, non possiamo vivere fuori del nostro paese; e se
facessimo cadere un capello dalla vostra testa, le nostre montagne
rovinerebbero sopra di noi per punirci.»
Un esempio di entusiasmo e di fedeltà contribui verso quell'epoca
(12 agosto 1746) all'evasione del principe. Il figlio d'un orefice di Edim
burgo, chiamato Roderico Mac-Kensie, ch'era stato ufficiale nell'esercito
giacobita, era nascosto nelle lande di Glenmoriston. Era presso a poco
della stessa statura di Carlo, gli rassomigliava di volto e di aspetto
Dei soldati lo scopersero e lo attaccarono: il giovine si difese corag
giosamente e volendo, con un ultimo eroico sforzo, rendere la sua morte
utile alla causa che aveva servito, sclamò nel morire: » ah miserabili!
avete ucciso il vostro principe.» Il suo generoso disegno riusci. Fu in
fatti preso per Carlo Eduardo e si mandò la sua testa a Londra. Passò
qualche tempo prima che l'errore fosse riconosciuto, e durante quel
tempo, siccome si credeva che il principe fosse già ucciso, le perqui
sizioni fatte per scoprirlo furono meno rigorose. Approfittando di quel
momento di tregua , Carlo Eduardo volle vedere Lochiel, Cluny Mac
pherson ed alcuni altri fedeli suoi partigiani, che si dicevano nascosti
in un distretto vicino. Prese dunque congedo dai suoi fedeli banditi,
dei quali condusse seco due per servirgli' di guida e di scorta. Dopo
molte difficoltà, riuscì a raggiungere Lochiel e Mac-Pherson, non senza
correre gli uni e gli altri dei grandi pericoli. Stabilirono per qualche
tempo la loro residenza in una capanna chiamata la Gabbia in mezzo
ad un foltobosco, sul pendio di una montagna chiamata Benalder, del
pari che la foresta che la cinge, e che era allora proprietà di Mac-pher
son. Vi vissero abbastanza sicuri ed in mezzo ad una copia delle cose
necessarie alla vita, che il principe non aveva conosciuto da quando era
fuggitivo.
Verso la metà di settembre, Carlo-Eduardo seppe che due fregate
francesi erano arrivate a Lochlannagh per trasportarlo in Francia.
S'imbarcò il 20 con un centinaio de' suoi partigiani e arrivò il 29
sulle coste della Bretagna vicino a Morlaix. Da cinque mesi era fug
giasco e conduceva una vita precaria in mezzo a fatiche e pericoli
che travanzano tutto che si può leggere nella storia. Durante quel tempo
il suo secreto fu confidato a centinaia di persone di ogni sesso, di ogni
condizione, senza che una sola, anche fra quei briganti che si procaccia
vano da vivere a rischio della loro vita, abbia pensato un momento a
tradire l'infelice proscritto (Walter Scott, Storia di Scozia.)
XXVII.

STANISLAO LECZINSKI
(1734)

Stanislao Leczinski era stretto d'assedio dai Russi nella città di


Danzica. Avendo perduto omai ogni speranza di soccorso al di fuori,
cotesto sventurato re di Polonia sapea già che il nemico l'aveva in
odio più assai che la città assediata. Per la qual cosa risolvette di
porsi in salvo tutelando così gl'interessi dei bloccati cittadini.
A tal uopo gli vennero indicati parecchi mezzi di evasione.
Taluni lo consigliavano di mettersi a capo di cento uomini risoluti,
uscire con essi fuor delle mura e sfondare le file nemiche; ma era
impossibile, malgrado il valore di quel prode e de' suoi fidi, d'incar
nare cotesto disegno, perchè tutte quante le uscite erano piene di soldati
russi. Ei seguì invece il consiglio datogli dall'ambasciatore di Fran
cia, quello cioè di fuggirsene trasvestito da villano.
Ciò narrava egli stesso, così:
» Io uscii dalla casa dell'ambasciatore per una scala segreta; ma
poich'ebbi disceso alcuni gradini, mi ricorse al pensiero l'idea di rin
francare l'animo dell'amico in preda a mille timori, suscitati in lui
dal pericolo ch' io stavami per affrontare, ed asciugargli le lagrime
che avea veduto sgorgare da' suoi occhi. Risolsi e bussai lievemente
alla porta ch'egli aveva rinchiuso senza strepito. Prosteso a terra
innalzava al signore una fervida prece affinch'ei mi fosse guida in co
desto pericoloso viaggio.
» Vengo ad abbracciarvi di bel nuovo! sclamai: Rassegniamci am
bidue, ai voleri della Provvidenza!
238 STANISLAO LECZINSKI

E parti in compagnia del generale Steinflycht, travestito anch'esso


da contadino, e del comandante della piazza, il quale aveva assunto lo
incarico di agevolare la sua fuga. Traversò il fosso sur un battello
ov'erano saliti tre remiganti che doveano tradurlo in Prussia. Ma facea
pur mestieri di passar innanzi ad una scolta comandata da un ser
gente, il quale tenendosi stretto all'ordine di consegna, non volea ade
rire a ciò che gli ingiungeva il maggiore della piazza. Deliberarono
allora di svelare al capo della scolta ogni cosa; e questi, fatto un pro
fondo inchino al re, lo lasciò passare.
Le guide di Stanislao non erano state scelte dal più bel fiore della
società. Erano uomini randagi o banditi; ma per ciò appunto cono
scevano tutte le strade che dovean percorrere, e in cotesta impresa si
mostrarono fedeli a quell'infelice monarca. Quest'era ciò che sovratutto
premeva. Ei rattennero il povero re durante tutta la notte in una ca
panna ch'era in mezzo ad una palude lungi da Danzica un quarto di
lega. Eran d'avviso esser questa una sicura precauzione. Stanislao s'ac
corse che cotestoro teneano le sue osservazioni in ben poco conto, nè
punto si curavano del suo rango.
Nella sera seguente i fuggitivi s'imbarcarono, navigando" con
grande stento attraverso alle fratte. In sul far della mezzanotte si di
visero in due gruppi, l'uno dei quali conducea il generale su per l'ar
gine, e l'altro, ch'era composto di due soli banditi, continuava il suo
cammino in sul battello lunghesso la diga.
Allo spuntar del giorno lo nascosero in una capanna ov'ei do
vette coricarsi sur un fascio di paglia. Una banda di Cosacchi entrò
all'improvviso e con gran fracasso in quella catapecchia. Il re già cre
deasi perduto; ma ei v'erano accorsi soltanto per far colazione. Stet
tero assisi a tavola due ore, (che sembrarono eterne al povero fug
gente), poi uscirono.
L'ostessa che s'era recata da Stanislao, non sapea indovinare il
perchè ei ponesse tanta cura nell'evitare i Cosacchi, anzichè bere e
mangiare con loro, e colta da subito timore stava in quella di mandar
via il re, presagendo de' tristi guai. Ma cacciati poscia dall'animo que”
vaghi sospetti, rassicurossi e consenti ad ospitar tuttavia l'illustre fug
gitivo. Sovvenuta la notte, passarono col battello le altre terre pa
ludose e, dopo lungo e faticoso andare, giunsero ad una casa il cui
padrone si pose a gridare tosto che vide il re.
» E un de' nostri commilitoni! » sclamarono allora i banditi. D'onde
viene tanta meraviglia?
» Nò per Dio! non m'inganno riprese, il villico. E re Stanislao !
Si! mio amico, son io! Soggiunse il re in tuono sicuro e fermo. So che
tu sei un' onest'uomo, e per ciò appunto tu non mi negherai un
servigio che son costretto a domandarti nello stremo cui mi veggo ri
dotto. »
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 239

Era in fatti un dabben uomo. Egli promise al re di fargli passare


la Vistola e gli mantenne la parola.
Cotesto passaggio non potea per altro eseguirsi senza incorrere in
altri gravissimi pericoli. I Cosacchi ormeggiavano per tutte quante
le strade, frugando ogni sentiero, arrestando, interrogando ed esami
nando minuziosamente tutti coloro in cui s'abbattevano per via, in
guisa tale che più volte in quella corsa disastrosa ei si vide ricinto
da coteste orde. Fuvvi un istante in cui le sue guide avevano deli
berato di abbandonarlo, dicendo che non voleano correre il rischio di
farsi impiccar per la gola senza speranza di poterlo trarre in salvo,
ma egli li rattenne minacciando di chiamare a sè i Cosacchi ov'ei l'ab
bandonassero, quand'anche dovesse perire con essi.
Quello spauracchio tornò efficacissimo. Ed inoltre quel principe,
per buona ventura, avea seco una ragguardevole somma di denaro. Le
buone promesse, la cervogia e l'acquarzente rinfrancarono gli abbat
tuti spiriti de' suoi compagni di viaggio.
Era giunta omai la nuova che Steinflycht s'era smarrito e tutto
inducea a credere che fosse caduto nelle mani dei Russi.
Alla fin fine arrivarono sulle sponde della Vistola. L'ospite di
Stanislao fece nascondere il suo re in una boscaglia, mentr'egli si re
cava in traccia di una barchetta.
Sceso a riva, il re volea ricompensare quel suddito con una grossa
somma di denaro, ma il generoso campagnuolo a stento accettò due du
cati, dicendogli che li avrebbe serbati come una preziosa rimembranza
di quel giorno in cui gli veniva dato di vedere e di conoscere il suo
SOVI'8IO,

» Ed ei li prese con sì bel modo , ed esprimendo sensi nobili e


degni cotanto ch'io m'affaticherei invano con parole ad esprimerli. »
Ecco ciò che ne dice Stanislao medesimo.
» Valicato quel fiume incontrai nuovi pericoli. »
E' fu un giorno in cui una delle sue guide s'ubbriacò e sulla
piazza d'un vilaggio gli chiedea corampopolo la mercede de' suoi
servigi. Per buona ventura il capitano dei guidatori lo prese a mot
teggiare dando ad intendere ai curiosi di quel contado, che comincia
vano ad insospettirsi, essere cotestui un pazzo il quale solea vedere
ovunque principi e re quand'era brillo. E in quella guisa si trasse
d'impiccio.
Dopo una lunga sequela di pericoli e di stenti, Stanislao giunse
a passare il Nogat.
Qui cessarono per lui i pericoli, allontanata ch'ebbe da sè quella
banda di fuorusciti i quali, se nol tradirono, avevano contribuito non
dimeno a cagionargli gravissimi danni e a rendergli più disastroso
quel viaggio attraverso a tanti rischi imminenti. Vedi (Lettere di Sta
nislao alla regina sua figlia. – Proyart, Storia di Stanislao Leczinski).
XXVIII

FORSTER, MAC-INTOSH
Roberto di Reith, Nithisdale ed altri capi dell'insurre
zione dei Giacobiti.

(1715)

Durante l'insurrezione giacobita, che scoppiò nell'anno 1715, molti


de' partigiani del cavaliere di San Giorgio, caduti prigionieri a Preston,
furono tradotti a Londra e rinchiusi chi a Newgate, chi in altre car
ceri della metropoli,
Primeggiavano fra quei captivi Tomaso Forster di Bamboroug, uomo
di cospicuo lignaggio che rappresentava nel parlamento Britannico la
contea di Northumberland e avea capitanato l'insurrezione nel Nord
d'Inghilterra, Mac-Intosh di Borlum sopranominato il brigadiere, gen
tiluomo montanaro il quale era stato agli stipendii della Francia, ove
avea appreso l'arte della guerra, Roberto Hepurn di Keit che fu tra i
primi baroni che avevano inalberato il vessillo del cavaliere di San Gior
gio, Carlo Radcliff, fratello del conte di Berwentwater, uno dei capi
dell'insurrezione in Inghilterra ed i conti di Nithisdale e di Winton che
aveano avuta la parte istessa in Iscozia.
S'erano resi a discrezione e per ciò nutriano speranza di aver
salva la vita; ma vedendo poi che i decreti d'accusa d'alto tradimento
si succedevano gli uni agli altri, concepirono il disegno di fuggire.
Le ingenti somme di denaro ond'ei poteano disporre, i molti amici
che aveano al di fuori, e la costruzione istessa delle prigioni ne ren
devano agevole la fuga.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 15.


FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 241

Nel di 16 d'aprile Tomaso Forster s'impadroni d'una chiave con


cui aperse la prigione ov'era rinchiuso a Newgate e sen scappò nella
maniera la più semplice e la meno drammatica, avvegnachè gli sia
riuscita a meraviglia. Ma tutto era già disposto per la sua fuga, e senza
ostacolo riparò in Francia.
||| |

-
-

Bianca Gamond caduta nel calausi gnu per la corda e assistita ualle compagne.
PAG. 258.

Il 10 maggio il brigadiere Mac-Intosh, svincolatosi dai suoi ceppi,


scendea verso le undici ore della notte nel piano inferiore della prigione
ponendosi vicino alla porta nell'istante in cui veniva aperta per la
sciar entrare i carcerieri; percosso il custode al capo, lo fece stra
mazzare e fuggi insieme con quattordici compagni. Taluni però di que
22 FOSTER, MAC-INTOSH, ECC.

sti furono di bel nuovo arrestati nelle vie di Londra, perciuè non avean
saputo o potuto procacciarsi un asilo; Mac-Intosh però si ritrasse a
salvamento.
Un di que' fuggitivi era Roberto Hephurn di Keith, uomo dotato
di straordinaria vigoria di corpo. Era piombato addosso al portachiavi
e gli avea legate le braccia, indi uscito alla strada senz'essere inseguito
da alcuno. Ben sapea che la donna sua e la maggior parte de' suoi
amici teneansi pronti ad accorrere in suo aiuto. Ma in quale maiguisa
avrebbe potuto ritrovarli in quella vasta e popolosa città, ov'ei si ce
lavano probabilmente con finti nomi?
Mentr'egli errava all'avventura in preda a mille incertezze, non
osando interrogar chicchessia per tema d'assere discoperto, scorse sur
una finestra un vasetto d'argento, corredo della sua famiglia, al quale
erasi dato il nome di Keith.
Senza far motto il fuggitivo entra in quella casa ove certo dove
vano starsene la donna sua e i suoi figliuoli, sale ed è stretto fra le
loro braccia. Posti a parte del suo disegno, aveano preso stanza pro
pinqua alle prigioni, affinch'egli uscito fuora dalle carceri potesse tro
vare al più presto un rifugio; ma non avendo osato rivelare ad alcuno
la loro abitazione, avevano messo a bella posta sul davanzale della
casa codesto vaso d'argento, sperando che potesse colpire i suoi sguardi,
Hephurn di Keith riparò in Francia.
Carlo Radcliff e Lord Winton, condannati ambidue a morte, fuggi
rono anch'essi da quella prigione, o per la poca vigilanza dei custodi,
o per condiscendenza di taluni, che forse a disegno resero loro age
vole la fuga; ma l'evasione del conte di Nithisdale, condannato ei pure
all'estremo supplizio, destò nel pubblico la più alta meraviglia.
Personaggi alto-locati aveano fatte le più vive istanze per ottener
grazia a codesti signori, indarno.
Lady Nithisdale, sposa del condannato, donna devota e intrepida
ad un tempo, s'era prostrata ai piedi di re Giorgio per invocare la
sua clemenza; ma le sue preghiere furono vane.
Non rimanendole altro mezzo di sottrarre il marito a quella bar
bara sentenza, risolse di salvarlo colla fuga, e chiese la grazia di vi
sitarlo alla Torre di Londra seguita da due ancelle, cui aveva già
svelato il suo disegno. Una d'esse portava una veste doppia che poi
discinse e lasciò nella stanza del conte, quindi uscì dalla prigione.
L'altra ancella, vestito l'abito della compagna, diede il suo al prigioniero.
Avvoltosi quindi in un gran mantello e coprendosi gli occhi con un
fazzoletto a guisa di persona costernata dal dolore, egli passò attra
verso le scolte, usci dalla Torre e riparò in Francia. La contessa avrebbe
dovuto espiare col supplizio il suo eroismo; ma giunse anch'ella a
porsi in salvo.
Il cavaliere di San Giorgio giunto co' suoi al ponte di Montrose,
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 23

s'imbarcò segretamente in un col conte di Mar, suo capitano generale,


e seguito da parecchi gentiluomini, abbandonando così i suoi fidi mon
tanari in balia ai rigori d'un governo oltremodo irritato, curando la
sua persona più assai che gli sventurati che avean posto a cimento
per cagion sua vita e sostanze.
La sua partenza non può dirsi al certo un'evasione, ma bensì una
fuga poco onorevole, cui non si frappose ostacolo veruno, e che non
destò giammai alcun interesse.
XXIX

ID E- BUC Q U O Y
1700).1702

Il conte di Bucquoy, ufffziale da prima nell'esercito, fu poi a vi


cenda certosino, trappista e gesuita.
Devoto fanatico in sul principio, col lasso del tempo s'intiepidi.
Egli era dotato d'uno spirito attivo, operoso, e se vogliam prestar fede
a quanto ei dice di sè medesimo, sarebbe stato eziandio uno zelante
propagatore di libere dottrine. Sendosi mostrato nimico acerrimo del
despotismo di Luigi XIV e, caduto perciò in suspicione di complicità per
aver tenuti propositi oltraggianti lo Stato in un albergo, ei fu colto
e tradotto prigione a Sens.
Tentò, ma indarno, di fuggire, mentre il traducevano a Parigi; e
nel racconto ch'ei fa di cotesto suo primo conato d'evasione, ne dà a
divedere esser egli meno accorto assai in codeste imprese di quello
che il fosse più tardi.
Fu rinchiuso al forte detto del Vescovo, e fino dal primo giorno
della sua cattività concepi il disegno di fuggire; ed ecco in quale
guisa ci narra le sue avventure, come se fossero ad altri capitate.
Ei si ricordava che un sergente delle guardie del corpo altra volta
avrebbe potuto fuggire da quel carcere per la finestra del granaio che
mettea alla Valle della Miseria, ma il colpo gli era fallito a cagione
dello spavento ond'era stato colto mirando quel precipizio.
Risolse allora di arrischiare ciò che non aveva osato il povero ser
gente. Prima sua cura fu quella di orientarsi, studiando la topografia
di quello spaventevole soggiorno. -

Conobbe che il granaio testè menzionato era l'andito della cella


FUdfiIE ED EvAsIoNI cELEBRI 235

ov' ei stavasi rinchiuso, e serviva nel tempo stesso di ripostiglio pei


mobili della casa.
Per accertarsi d'ogni cosa, prima di porsi all'opera, colse un di
l'occasione mentre lo riconduceano dal cortile alla sua stanza; fingendosi
aggravato del capo, chiese permesso di porre la testa fuor da un
finestrino a fin di respirare un po' d'aria e vide in fatti che quel sito
era sulla riva della Valle della Miseria. L'altezza n'era spaventevole e
presentava allo sguardo un orribile spettacolo, poichè v'erano griglie
di ferro irte di punte acutissime.
Poichè l'ebbero rinchiuso nella sua cella, ei non volse più la mente
ad altro se non ad incarnare il suo disegno. Era a lui d'uopo uscir
dalla stanza ed entrar nel granaio in momento opportuno.
Saria stato di mestieri rompere la porta; ma questa era fortissima
ed egli non aveva stromenti atti all'opra. Arrogì il rumore che un
tal lavoro avria destato, scoprendone il tentativo.
Posto tutto a calcolo, null'altro mezzo gli sembrò più sicuro di
quello di porre il fuoco alla porta, e fisso in tale proposito, chiese per
missione al guardiano di ammannirsi egli medesimo all'indomani il desi
nare nella sua stanza; si fece dare dell'uova e del carbone e pagò lar
gamente, affinchè cotesto baggèo gli rendesse più agevole l'opera me
ditata. Dopo aver prese tutte quante le necessarie misure, quand'ei
pensò essere ognuno coricato, cacciò le brage sotto alla porta e si diè
a soffiare in guisa tale che in pochi istanti v'aveva appiccato il fuoco.
Poichè le fiamme n'ebbero distrutta una parte, ond' ei potè uscir fuora
dalla camera, prese l'acqua che a bella posta avea tenuto in serbo, e
spense il fuoco. Ebbe a lottare però col fumo che mancò poco nol sof
focasse. Ei però vinse tutti codesti ostacoli e uscito fuor dalla breccia,
trovossi nel tanto bramato granaio , d'onde sperava di giungere a
salvamento.
Il suo voto fu coronato da un lieto successo.
Benchè non fosse munito di corda per discendere dal finestrino,
ei discopri il modo di comporsene, tagliando a mo' di fascie le tele di
parecchi materassi che rinvenne in cotesto guarda-mobigli, e annodan
dole insieme avvinse l'estremo capo alla colonna d'un letto ch'era pur
ivi, la quale posta attraverso al finestrino ne assicurava l'artifiziosa
sua corda. Ciò fatto si cimentò all'ardua discesa,ch'ei dovea fare attra
verso alle punte di ferro ond'erano irte le finestre di cinque o sei
piani, e scese alla riva della Valle della Miseria in sul far del giorno,
lacero ed in un grave disordine.
Parecchi mercadanti che stavano aprendo le loro botteghe, lo vi
dero approdare a terra ma nol curarono.
Ciò nondimeno ei si tenea perduto, poichè una gheldra di cialtroni,
che s'era messa ad inseguirlo, lo incalzava con grida e ululati, onde
alla fine saria stato scoperto; ma un forte acquazzone, sorvenuto a
proposito, disperse tosto quella trista banda.
246 DE-BUCQUOY

Allora ei cercò deluderli con parecchi andirivieni.


Traversò Sant'Eustachio e giunse alla perfine al Tempio. Ivi mo
strando di voler far colazione, entrò in una taverna, sottraendosi in
tal guisa agli sguardi di coloro che avrebbero potuto inseguirlo.
Udendo poscia parlare del suo sdruscito arnese, ei credette che la sua
fuga fosse omai nota, pagò l'oste ed uscì di là con gran fretta, senza
sapere quale cammino dovesse prendere. Riparò in casa della pa
rente d'un suo domestico, la quale abitava in via della Maddalena,
le tessè un romanzo per darle un perchè dei suoi cenci, le regalò
del denaro e le chiese da mangiare; ma in sul far della sera, poco
fidente nel silenzio di cotesta donnicciuola, se n'andò e rinvenne un
asilo più sicuro.
Passati ch'egli ebbe nove mesi, presentando al re de'memoriali
dal fondo de'suoi nascondigli, a fine di giustificarsi dalle imputazioni ap
postegli, si risolse alla finfine di lasciare la Francia; ma non colse tempo
propizio: durante il viaggio fu arrestato alla Fère e condotto in car
cere. Due volte tentò la fuga e poco mancò che non vi riuscisse la
seconda fiata, scalando un muro e traversando un fosso a nuoto; fu
colto in quella e arrestato. Fu ricondotto a Parigi e rinchiuso alla
Bastiglia.
Quivi non v'era nulla da sperare. Tentar la fuga sarebbe stato tentar
lo impossibile. Ciò non pertanto ella stava in cima de' suoi pensieri.
Entrando quelle prigioni, ei volse d'ogni intorno lo sguardo scrutatore
ad osservare i luoghi d'onde l'uscita gli sembrasse più agevole, e con
cepi tosto de' piani per andarsene fuori dalla Bastiglia, malgrado tutti
gli ostacoli che vi si frapponevano. Disceso ch'ei fu dal biroccio, diè
un occhiata al ponte levatoio e alla contrascarpa; ma nol lasciarono os
servare per lunga pezza que' luoghi, e in tutta fretta il rinchiusero
nella torre detta Bretiniera.
Rimase alcun tempo nelle basse, e poi lo misero in una stanza
comune insieme a parecchi altri prigionieri, cui propose la fuga; ma
un abate ch'era ivi, il denunziò.
Allora lo ricondussero nella sua stanza, ov'ei si fece trascinare
fingendosi paralitico e quasi agonizzante, cagione per cui lo lasciarono
nella sala comune.
Più tardi poi egli ottenne di farsi balestrare di carcere in carcere, a
fine di poter meditare il suo progetto di evasione esaminando a parte
a parte quelle torri, que'fossi, quei ponti e quelle valli. Fu poi rin
chiuso di bel nuovo nella Bretiniera con un barone tedesco ch'ei s'a
doprò a convertire alla fede cattolica, e pensava di servirsene per la
fuga.
Aveano già cominciato a fare un pertugio ad una finestra ch'era
stata murata, ma furono scoperti da un prigioniero della camera con
tigua, che tutto rivelò.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 27

L'abate potè scolparsi facendo ricader la colpa tuttaquanta sul de


latore; ma la prigione gli fu mutata in quella della torricella della
Libertà, lasciandolo però in compagnia del buon tedesco, afffnchè ei
potesse compiere la sua conversione.
Qui cominciarono di bel nuovo i loro preparativi per discendere
nel fosso di Sant Antonio, e forarono a tal uopo un muro con lami
nette di rame, chiodi e lame di coltelli e chiodi, che l'abate s'era pro
cacciato qua e là nei carceri ove era stato, strappandoli dalle muraglie.
Codesti ferri ei li aguzzava sui vasi di creta ove soleasi recar
l'acqua ai prigionieri; e siccome in quella stanza v'era un camino,
si valsero anche di quel ferrame per comporre viemeglio i loro stru
menti.
Facea di mestieri una scala di corda, ed ei cominciarono a rac
corre i vimini delle bottiglie del vino che mane e sera venia loro recato.
dicendo che li mettevano in serbo per accendere il fuoco. Per sottrarre
alle indagini dei custodi tutti quegli arnesi, tolsero dal pavimento pa
recchi mattoni: e vi scavarono la terra: quel cavo loro servia di ma
gazzino per celarli, dopo averlo ricoperto cogli stessi quadrelli. Vi
riposero inoltre dei pezzi di tela, che di tratto in tratto andavano
smozzicando dalle lenzuola e dalle salviette. Cotesti pannilini ei li
convertiano in filacce, che intrecciavano coi vimini per tessere una
corda atta a reggerli nella discesa. Il lavoro giungeva al suo termine
e il momento bramato si avvicinava; ma sorgiunse un inopinato acci
dente. Il pavimento della camera si sprofondò e i due captivi caddero
con esso nella stanza ove era rinchiuso un gesuita mezzo pazzo, il quale
poi impazzi del tutto dopo lo strano evento. Ciò malgrado fu ristaurato
il palco e vi riposero di bel nuovo l'abate; ma ben tosto il mutarono
di prigione e questo il gittò in preda alla disperazione, vedendosi cosi
ad un tratto rapito il frutto di cotante fatiche.
Il tedesco suo compagno non volea più udir parlare d'evasione, ed
era divenuto un ostacolo per lui anzichè un aiuto.
Per ottenere la libertà, egli avea deliberato di rinunziare solen
nemente al luteranismo, siccome fece. Ma quella conversione valse al
l'abate la rinomanza d'abile convertente e gli venne dato a compagno
certo Grandville, protestante egli pure, il quale era tenuto in conto
d'ottimo camerata. Ciò premeva al conte più d'ogni altra cosa.
Ei lo trovò infatti disposto a secondarlo nella fuga, e dividere
secolui ogni pericolo. Furono dati inoltre all'abate due nuovi compagni,
coi quali s'acconciò ben tosto.
Fatto loro proferire solenne giuramento, disse che ei portava in
dosso una lima che non gli aveano mai potuto rinvenire, malgrado
tutte le più minuziose indagini, cui era stato più e più volte sottoposto,
e propose di segar con quella le sbarre della prigione, per poi discen
dere dalla finestra calandosi giù per le corde ch'egli avea tessute insieme
col tedesco e ch'era riuscito a serbare in gran parte.
28 DE-BUCQU0Y
--

Fu d'uopo però comporne delle nuove, e ciascuno si pose all'opera


per affrettare il lavoro.
Spuntava però nella sua mente un dubbio. Ei pensava poter acca
dere a' suoi compagni ciò ch'era accaduto a Babele; non già per la
confusione delle lingue, ma per gli avvisi lor differenti intorno alla ma
niera d'evadere.
Dopo molte proposte e discussioni caddero tutti d'accordo nel pro
posto di Bucquoy, quello cioè di discendere nella fossa. Giunti in quella,
ciascheduno avrebbe fatto poi ciò che gli talentava.
Fissato il giorno dell'evasione (cioè a dire la notte), quand'ei s'ac
corsero che tutti quanti s'erano ritratti, tolsero la grata onde avean
segate le sbarre.
Prima però di discendere, stesero un lenzuolo che copriva il muro
a guisa di nube, affinchè nessuno potesse scorgere que' corpi sospesi
in aria.
Era d'uopo oltre a ciò spingere innanzi una macchina, affinchè la
corda non rimanesse attaccata al muro; e l'abate, che avea posto mente
a ciò, per accostumare gli sguardi delle scolte a codesto spettacolo,
avea durante parecchi giorni cacciato fuor fuora una specie di qua
drante conficcato in un bastone che sporgea nel fosso tre o quattro piedi
dalla finestra.
Ciò fatto, si misero a tingere di nero la corda mercè della paglia
bruciata, della fuligine e del grasso liquefatto, e la tinsero così perchè
nessuno la potesse scernere fra le tenebre.
L'abate chiese allora licenza a' suoi compagni di scendere primo,
promettendo loro di aspettarli nel fosso, ove avrebbe ricevute le mac
chine che avevano apprestate, onde ciascuno si sarebbe valso a suo
talento.
Egli aveva assunto l'incarico di avvertirli, mercè d'un segnale con
venuto, quando giungea il momento opportuno iu cui la scolta volgeva
il dorso. ll cenno convenuto dovea farlo mercè d'un cordone che ave
vano già attaccato alla finestra, il quale scosso in una guisa o in un'al
tra facea loro conoscere il sì od il no.
Disposte in tal guisa le cose, l'abate calossi primo e rimase due
ore nel fosso senza ottenere alcun segnale da'suoi compagni. Indarno
si affaccendava a tirar il cordone: questi non rispondevano alle conve
Inute Scosse.
Si pose tosto in sospetto che fosse tra loro sorta qualche disputa
intorno ai singoli mezzi di scampo, allorchè ei vide le macchine calar
giù poco a poco, poi due compagni. Il terzo non avea potuto uscir fuori
dalla breccia. Conobbe allora la cagione di cotesto ri ardo.
Lo sventurato che non potea seguirli, era Grandville, che con ma
gnanima rassegnazione li avea esortati egli stesso ad abbandonarlo,
dicendo che era meglio che ne perisse uno in quell'impresa, piuttosto
FUGHIE EOI EVAS1ONI CELEBRI 249

che tutti. Poichè ebbe udita l'infausta nuova, l'abate esortò i discesi
a seguire il suo piano; ma non giunse a persuaderneli, e per ciò prese
la sua deliberazione. Egli però avea previsto ogni cosa e tutto gli riuscì
mirabilmente.
Piantò la sua scala di corda attaccandola al parapetto e risalse il
fosso in quella che la scolta s'allontanava. Risalito il fosso, scalò il
muro, e giunse ad una grondaia, da dove spiccò un salto, ond'ei tro.
vossi nella via di Sant Antonio, ove stannosi i macellai; ma poco mancò
che un costoro uncino non gli spezzasse un braccio.
Prima però di gettarsi giù dalla grondaia su cui si era accovac
ciato, volle osservare ciò che avveniva de' suoi compagni; ed avendo
udito un grido e visto il fuoco d'un moschetto, credette ch'ei si fos
sero impadroniti della sentinella, siccome egli li avea consigliati, o,
sendo a ciò mancata loro la lena, discoverto il tentativo, la scolta avesse
tirato quel colpo. Non avendo udito più mai favellare de' suoi colle
ghi, serbò sempre in mente quel sospetto, e li pianse perduti.
Balzato ch'ei fu in via di Sant'Antonio, passò di là nella contrada
delle Turnelle, e dopo molti andirivieni giunse alla porta della Confe
renza, ove rinvenne i suoi amici che lo nascosero e il provvidero dei
mezzi necessari per riparare in paese straniero.
Questa volta ei non rimase a Parigi. Troppo caro l'avea pagato
altra volta quel soggiorno; ma traversò la Borgogna e scelse sicuro
asilo fra gli Svizzeri.
XXX

DUGUAY-TROUIN

(1694)

Duguay-Trouin comandava una fregata di 40 cannoni che noma


vasi la Diligente, allorchè ei capitò in mezzo ad un navile inglese che
era di sei vascelli, qual di 50, qual di 70 cannoni, sospinto da un tempo
grosso e brumoso. ---

Dopo quattr' ore di accanito combattimento contro cinque navi,


ei pur volle resistere ai preghi de' suoi ufficiali che gli consigliavano
la resa, sinchèfu colto da una palla morta che il distese boccone sulla
tolda e privo di sensi. Allorchè ei rinvenne, era prigione degl'Inglesi.
Gli fu destinata da prima la città di Plymouth per soggiorno. Ivi
si strinse in relazione con taluni che gli si mostrarono benevoli; ma
poi fu rinchiuso in un carcere. Fra le compagnie ch'erano di presidio
alle prigioni, una era comandata da un fuoruscito Francese, innamo
rato cotto d'una giovine mercantessa di quella città. Ne fece confidenza
a Trouin, che gli diè promessa di adoprarsi a fin di decidere la giovine
donna ad accettare la sua mano di sposo.
I rigori con cui era custodito là entro, scemarono a cagione di cotesto
intrigo amoroso, ed ei mise a parte de' suoi disegni la giovane mer
cantessa e si pose d'accordo col capitano d'una nave svedese, che gli
vendette una barca in cui v'erano già riposti tutti quanti gli oggetti
necessari alla sua fuga, e gli diè inoltre sei marinari scelti dal suo
equipaggio per agevolarla.
Mentre il suo guardiano il credeva intento a trattare la sua causa
colla bella mercantessa in un albergo contiguo alla prigione, ove gli
avea accordata licenza di recarsi a tal uopo, Duguay-Trouin valicò il
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 251

muro del giardino insieme ad un altro ufficiale ch'era secolui prigio


niero, e trovò nel luogo di convegno il suo piloto, il suo chirurgo , il
suo cameriere ed i sei marinari svedesi che condussero a bordo i fug
gitivi.
» Noi c'imbarcammo, (dic'egli nelle sue Memorie) in sulle sei della
sera. Eravamo già entrati nella rada, quando due vascelli da guerra
inglesi in cui c'eravamo abbattuti, ne interrogarono.
» Noi rispondemmo in quella guisa istessa che avrebbe risposto
loro un battello peschereccio inglese, passando oltre.
» In sul far del giorno avevamo già traversato la rada, e ci tro
vammo in faccia ad una fregata britanna ch'entrava in Plymouth.
» Non so per quale cagione ella s'ostinasse a volerne parlare.
Certa cosa ell'è che noi eravamo sul punto d'essere colti, se il vento,
che avea cessato di soffiare, non ne avesse dato l'agio di allontanarci
a remi distesi.
» Alla perfine, perduta di vista la fregata, eravamo rotti dalla
fatica d'un sì lungo remigare. Sorvenne la notte e presi il luogo del
mio pilota per dirigere la nave.
» Io mi stava al timone ed era in così fatta guisa accasciato, che
caddi in preda al sonno. Ma venne presto a risvegliarmi un buffo im
petuoso di vento che battè forte nella vela e quasi capovolse il legno riem
piendolo d'acqua. Con un rapido rivolgimento di timone, intraveduto
il pericolo, evitai un naufragio, che ci sarebbe stato fatale poichèera
vamo lungi da terra omai 15 leghe.
» I miei compagni che dormivano, si destarono ben presto poichè
aveano l'acqua sul capo.
» Il nostro pan biscotto ed il barile ov'era riposta la birra, furono
inondati dall'acqua e perciò guasti.
» Lunga pezza ci affaticammo a vuotar l'acqua co' nostri cappelli.
» Alla dimane approdammo in sulle coste della Bretagna nelle
vicinanze di Treguier. (Collezione di Michele Poujoulat; Memorie di
Duguay-Trouin).
XXXI

BART E FORBIN

Giovanni Bart era stato posto al comando d'un navile che com
poneasi di venti legni mercantili, mentre ei stava a bordo d'una fregata
che nomavasi la Railleuse.
Il cavaliere Forbin era suo luogotenente e comandava una fre
gata di 24 cannoni.
Ei furono assaliti da due vascelli inglesi, l'un dei quali era della
portata di 48 cannoni e l'altro di 42
Cotesti due prodi capitani immolarono se medesimi per salvare i
legni francesi. Giovanni Bart perdette quasi tutte le genti del suo
equipaggio e fu ferito al capo. Forbin riportò sei ferite dopo aver per
duto due terzi dei suoi marinari. Fu lor d'uopo di rendersi; ma il
naviglio dei mercadanti in questa guisa fu salvo, e in quello scontro eran
rimasti morti tutti gli ufficiali Inglesi e buon numero di soldati e uo
mini della ciurma.
Tradotti a Plymouth dal contro amiraglio inglese che aveva as
sunto il comando dei due vascelli britanni e dei due predati, Giovanni
Bart ed il cavaliere Forbin credettero di venire trattati siccome pri
gionieri di guerra sovra parola d'onore; ma il governatore della città
non volle accordar loro cotesto onore.
Ei furono rinchiusi in un albergaccio, onde le finestre erano tra
versate da sbarre di ferro a modo di prigioni, ed alle porte d'uscita
si posero delle scolte.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 233

Quei due valorosi volsero allora il pensiero alla fuga,senza aspettar


nemmeno che le loro ferite si rimarginassero. Un pescatore d'Ostenda,
parente di Giovanni (taluni affermano anzi ch'ei fosse Gaspare Bart
fratello dell'ammiraglio), venne a por l'ancora a Plymouth e giunse a
penetrare fin dentro alla prigione dei nostri prodi. Ivi concertò con
loro l'evasione.
Egli avea recato seco una lima, affinchè i prigionieri potessero
toglier via le sbarre dalle finestre, coprendo i buchi che andavano fa
cendo col pane masticato commisto al sego.
Arrogi a ciò che il chirurgo ch'era stato inviato per medicare le
loro ferite, era Fiammingo, prigioniero degl'Inglesi anch'esso, e bra
moso al par di loro di uscire dalla cattività.
I due mozzi ch'erano stati posti ai servigi dei prigionieri, furono
comperati coi doni.
Quei due capitani erano muniti di denaro e tenuti in gran conto.
Per la qual cosa ognuno potea fidare nelle loro promesse.
Era mestieri procurare una barca. Quei due mozzi che poteano
entrare ed uscire a loro beneplacito, assunsero l'incarico di procac
ciarlo.
Scorsero un bel giorno una navicella con pennone Norvegese, an
corata nel porto, il cui capitano dormia profondamente sendo ubbriaco
morto. In men che nol diciamo, que' due monelli s'impadronirono di
quell'ebrio, l'adagiarono in una barca vicina, sciolsero lo schifo dalla
fune cui era attaccato e lo trassero in parte ove ei potesse servire al
l'uopo, indi corsero alle prigioni. In quale guisa ei vi fossero accolti,
ognuno il può immaginarselo. -

Giunto il chirurgo, gli venne affidato l'incarico di recarsi tosto dal


pescatore d'Ostenda e portare nello schifo involato dai mozzi tutto ciò
che potea tornare necessario per un tragitto di mare di qualche
giorno, cioè a dire pane, formaggio, birra, un compasso da viaggio ed
una carta marittima.
Se tutto fosse riuscito a' seconda de' loro desideri, il chirurgo era
rimasto d'accordo di recarsi in sulla mezzanotte sotto alle finestre
della prigione in un col pescatore e i due mozzi.
Un sasso lanciato contro ai vetri n'era il convenuto segnale.
All'ora appuntata i prigionieri udirono infatti il tanto bramato se
gnale. Ei tolsero allora le sbarre, già segate, dalla finestra e, fatta una
corda delle lenzuola annodate fra loro, si calarono giù senza che il me
nomo accidente venisse a turbarli.
Il chirurgo, il pescatore e i due servi che colà li attendevano, li
condussero in fretta allo schifo norvegese.
Ivi tutti s'imbarcarono, tranne il pescatore che tornossene tran
quillamente al suo bordo.
Partendo da Plymouth, i nostri fuggenti ebbero però un'all'erta
ormidabile.
25 BART E FORBIN

Un legno di guerra posto a guardia del porto li vide ed investen


doli gridò: Dove va la scialuppa?
Per buona ventura Giovanni Bart, che sapea l'inglese, rispose con
secura voce: « siam pescatori! »
Allora la nave esploratrice s'allontanò senza sospetti.
Mentre cotesto equipaggio dirigevasi verso le coste di Francia, il
luogotenente di Forbin, caduto prigioniero secoloro, li vide partire col
rammarico di non poter seguirli.
Avea perduto un braccio,era corpulento e grasso; per le quali cose
egli avrebbe potuto porre a rischio di fallire l'impresa senza poter
giovare in nulla ai suoi colleghi in quella traversata. Ei rimase in pri
gione e si rese giovevole ai fuggitivi tenendo a bada le scolte con
bizzarri racconti, nell'istante decisivo in cui gli uccelli se ne scappa
vano di gabbia, poi tolse le lenzuola per cui s'eran calati dalla finestra
e si coricò.
Alla dimane ci facea mostra d'essere soprafatto da gran meravi
glia in udendo che i suoi compagni avean preso la fuga, ne potea
darsi pace pensando ch'ei l'avessero lasciato colà tutto solo, e poi li
malediceva siccome traditori.
Gl'Inglesi fur colti alla gherminella e lo interrogarono intorno a
ciò ch'era avvenuto ne' trascorsi giorni, sperando ch'ei desse loro qualche
indizio per inseguire gli evasi.
» Cotesti traditoracci, ei diceva, non m'han messo a parte del loro
disegno.
» Io so soltanto che Giovanni Bart sendosi fatto fare un paio di
scarpe nuove, calzate che l'ebbe, disse ch'erano eccellenti, dovendogli
servire ad una lunga marcia. »
Gl'Inglesi tratti in inganno da cotestui mandarono a frugare ogni
luogo per discoprire que'due capitani che stavansi traversando la
Manica.
Il mare era tranquillo ed una nebbia folta togliea ai legni esplo
ratori la vista di quella navicella che si avanzava verso le coste di
Francia.
Per ben due giorni e due notti Giovanni Bart stette fermo remi
gando con indicibil vigore aitato dal chirurgo e dai due mozzi. Un
altro, cui le ferite vietavano di menare il remo, stavasi al timone.
I fuggitivi scoprirono alla perfine le coste della Bretagna e stre
mati di fatica approdarono ad Hanqui, piccolo villaggio a poche leghe
di distanza di S. Malò. Erano scorse omai quarantott'ore dacchè aveano
lasciato Plymouth; ma la loro prigionia, compreso il tempo della navi
gazione, era durata undici giorni.
Ei furono accolti con vivi trasporti di gioia e il loro approdo fu
un trionfo, poichè i capitani de'legni mercantili ch'erano rimasti salvi
Per opera loro, aveano già buccinate le loro gesta e portato a cielo il
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 255

loro eroismo e la devozione loro alla patria; ma li credevano morti in


quel combattimento.
Fu prima cura dell'ammiraglio quella di far ricompensare il pesca
tore d'Ostenda cui gli Inglesi aveano data tutta la colpa di quella fuga,
e che perciò stesso non potea più approdare alle coste della Gran Bre
tagna. Pensarono quindi a redimere in libertà quel generoso luogote
nente ch'era rimasto nelle mani dei nemici. Ei venne riscattato qual
che mese dopo l'arrivo dei suoi compagni in Francia.
XXXII

BIANCA GAMOND
(1687)

Bianca Gamond usciva da una famiglia protestante di San Paolo


dei tre Certosini.
Dopo la revocazione dell'editto di Nantes, la persecuzione si scatenò
veemente piucchè mai addosso agli Ugonotti, e la signora Gamond, che
fin da fanciulletta s'era abbandonata in preda ad un'ascetica esaltazione,
concepi il disegno di fuggire dalla Francia. La città di San Paolo era
ricinta dai nemici: i dragoni facevano la scorribanda nel paese, dando
la caccia ai Protestanti.
Bianca, uscita dalla città, andò errando tutta sola da prima, poi
in compagnia de' parenti che l'aveano raggiunta, frugando quella pro
vincia per discoprirvi gli Ugonotti.
Ricovrandosi talora ne' paesi abitati e talora nelle foreste, esposti
alle intemperie, trascorsero buona parte del Delfinato, poi si separarono
di bel nuovo per sottrarsi più agevolmente agl'inseguenti dragoni
La nostra povera eroina stava già per valicar il confine in un colla
madre e col fratello, allorquando fu colta nella vicinanza di Goncelin,
piccola città del Gesivandan. Suo fratello era sfuggito alle truppe, ma
sua madre e sua sorella furono sorprese nel loro ritiro dagli uomini
d'arme, ingiuriate, bistrattate e percosse senza pietà, indi tradotte a
Grenoble e cacciate in un sotterraneo.
Bianca Gamond toccava allora il ventesimoprimo anno. Colla ras
segnazione del martire ella subì le più atroci torture, oltraggiata, bat
tuta senza misericordia, morente di fame e colta da grave malattia.
Ecco in quale guisa narrò quella sventurata un suo tentativo di
evasione ch'ebbe per lei funeste conseguenze.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 16.


FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 237

« I nostri guardiani vennero ad annunziarci che fra tre giorni do


vevamo partire per alla volta d'America. Apprestatevi, ei ne dissero,
e quando voi sarete giunte in alto mare, vi porranno sur una tavola e
vi scaraventeranno nell'Oceano, affinchè sia dispersa per sempre la razza
degli Ugonotti.

La moglie di Grozio lo chiude dentro una cassa. PAG, 279.

» Ed io risposi loro: poco mi cale che il mio corpo sia roso dai
pesci o dai vermi.
» Poichè ne ebbero lasciate sole, Susanna di Montelimart disse:
» Noi potremmo salvarci per quella finestra. Basta romperne le
sbarre.
258 IBIANCA GAMOND

« Ed io risposi: Badate bene che quella è tanto bassa e noi siamo


cotanto in alto, che correremmo il rischio di rimanere uccise o storpie,
ed in tal caso saremmo più maltrattate di prima. Se mi danno le
strappate di corda in quella guisa che me l'han date, io non mi rialzo
mai più. Per la qual cosa non invoco che la morte e preferisco partire
per l'America. Dio ne toglierà agli artigli de' nostri sgherri, come
ei ne tolse a quelli del signore della Rapina.
» Cotesto Rapina o D'Hérapine (com'ei dicevasi) era un ladro con
dannato già siccome reo di parecchi furti. Il suo verace nome era quello
di Guichard.
» Divenuto dopo tai gesta direttore dello spedale di Valenza, avea
avuto incarico di porre in opera ogni mezzo per convertire i protestanti:
ei compieva il suo ufficio con un cinismo e con una crudeltà e ferocia
inaudita.
» E Susanna mi rispose: S'ei m'avessero fatto ciò che han fatto a
voi, io sarei morta. Ma alla perfine ne fanno morire di fame e per so
prappiù ne conducono in America. Malate quali noi siamo, andremo di
male in peggio e poi semivive ne getteranno nell'Oceano. Se noi pos
siamo passare per quella finestra, perchè mai dispregiare i mezzi che
Dio ne pone dinanzi per la nostra salvezza? Io son d'avviso che deb
basi passare per di là.
» Tagliammo allora a pezzi un lenzuolo, li cucimmo insieme, li
annodammo; preso un filo, vi sospendemmo un sasso per misurare
l'altezza della finestra; ma era chiusa a chiavistelli! Ciò non pertanto
noi l'aprimmo con singolare artifizio.
» Eravamo al quarto piano: le fascie delle lenzuola erano corte;
facea mestieri adunque attaccarvi de' nuovi pannilini finchè toccassero
terra. Erano attaccate alla gran trave che reggea il tetto. Io mi
posi al capo della finestra e dissi alle mie dilette sorelle: ahimè! Noi
ci accopperemo, poichè io mi sento già colta da indicibile spavento nel
guardare all'ingiù. Oh quanto è profondo!
» In quella sera istessa, allorquando il nostro guardiano si fu ad
dormentato,tentammo di avvicinarci alla finestra a piedi scalzi,temendo
che il cappellano, che dormiva in una stanza al di sotto di noi, si destasse
al rumore de' nostri passi.
» Prima ad uscire fu Susanna di Montelimart, e la fanciulla Ter
rasson di Die le venia dietro, e le seguivano la giovine Dumasse, della
Sulle di Linguadoca, ed io.
» Uscita che fui dalla finestra, afferrando il lenzuolo, mi sentii
mancar le forze e scricchiolare le ossa delle mie braccia. La mia sot
tana era rimasta avvinta ad un chiodo della finestra, per la qual cosa
e' mi fu mestieri di sostenermi con un solo braccio e svincolar coll'altro
la mia gonnella. Non ebbi più nè forza nè coraggio esclamai: Signore
Gesù accogli l'anima mia! – Indi afferrai co' denti il lenzuolo e di stretta
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 239

in istretta di denti mi precipitai giù dal quarto piano, poi caddi sul
pavimento sclamando: Dio di misericordia! son morta o sono storpia!
» Tre sorelle m'attendevano laggiù e due di loro mi richiesero ove
io mi sentissi percossa. – In tutta la persona! risposi. Dio così volle. La
mia coscia è già rotta o dislogata ! Fasciatemela, ve ne prego, col
grembiale.
» Cosi trascinai la mia coscia e presi a braccetto le mie compagne,
che m'aitarono a camminare; ma giunte che fummo alla porta di Va
lenza, la trovammo chiusa. Elle mi aiutarono a salire le mura; ma
quando giunsi in sulla vetta e ne scorsi l'altezza: quest'è un secondo
precipizio! – sclamai, e non mi sento l'animo bastante di calare in giù.
Ite voi e lasciatemi, ve ne scongiuro.
» Le sorelle mi fecero allora a bistento scendere dalle mura e mi
lasciarono colà, poi con gran fatica ne tentarono la discesa.– Noi ce ne
andiamo, mi dissero, e vi lasciamo qui a contracuore. Dio vi salvi dalle
mani de' nostri nemici. Invochiamo sul vostro capo la benedizione del
cielo e vi preghiamo nel tempo stesso d'impartirne la vostra benedi
zione.
» Ma chi mi sono io? risposi loro; poss'io impartirvi una benedi
zione? La invoco da Iddio sul vostro capo. Lo pregherò con tutto l'ar
dore dell'anima mia affinch'ei vi ponga in salvo. Frattanto vi prego
d'andarvene al più presto! Io sola rimango esposta ai danni; ma ciò
è anche troppo!
» In tal guisa io rimaneva abbandonata in quella via in preda a'
dolori violenti che non mi lasciavano un istante di tregua.
» Il giorno non era spuntato ancora. Alzai il mio cuore a Dio, e
svenni.
» Accanto a me non v'era alcuno che mi porgesse un sorso d'ac
qua, per farmi riavere dal mio accidente, nè verun mortale per con
solarmi. Ciò malgrado, rinvenni e sclamai: Non abbandonarmi, Dio on
nipossente!
» Di quando in quando rimanea là senza moto, poi pensava che
allo spuntar del giorno non avrei certo potuto sottrarmi agli sguardi
della giustizia, che sarei trasportata di bel nuovo allo spedale,e diceva
tra me SteSSa:
» Grande Iddio! pon fine tu alle mie pene! Preferisco la morte!
Questo è troppo! Ricevi tu l'anima mia o eterno Padre ! O accordami
la grazia tua, ch'oggi io discenda nel sepolcro senz'entrare all'ospizio.
» Non ebbi la forza di rialzarmi per non lasciar travedere ai pas
santi ch'era storpia; ma potei soltanto coprirmi il volto col grembiale
per non essere veduta.
» Durante le mie preghiere sentiva atroci dolori.
» Un viandante mi disse che sarei stata molto meglio e più orre
volmente a casa mia, - Signore, ripresi, se sapeste chi mi son io, non
260 BIANCA GAMOND

mi favellereste in tal guisa. Pochi istanti dopo furono aperte le porte


del sobborgo e i passanti non ristettero dal fare sinistri giudizi contro
di me, mirandomi supina in sulla publica via a cotest'ora. »
La giovine infelice pregò un viandante d'invitare una fanciulla
Ugonotta, convertita già al cattolicismo, che nomavasi Marsilière, di ve
nire a lei, cui già era nota da lungo tempo; e pregava Iddio nel tempo
istesso affinchè le desse un buon Samaritano che la prendesse in pietà.
La signora Marsilière non avea nulla di comune col buon Samaritano.
» Siete voi che m'avete richiesta? sclamò la fanciulla, poichè fu
giunta presso all'infelice ferita.
» Sì, risposi. Salvatemi! sorreggetemi! Ve ne prego. Trascinatemi
dietro a qualche cespuglio, affinch'io possa morire senz'essere veduta
da chicchessia. Ella mi disse allora ch'io volea perderla. Io me ne vado,
sclamò, prima che alcun mi vegga, poichè non vorrei essere condotta
in carcere.
» E siccome ell'era stata protestante, io soggiunsi :
» E' vi regge adunque l'animo di lasciarmi così sulla pubblica
strada! Porgetemi almeno aiuto, affinch'io possa trascinarmi dietro a
questa muraglia, onde i passanti non mi veggano. »
Le preghiere della povera Bianca non valsero ad ottenere dalla
sua antica correligionaria nessun soccorso, neppure una parola di
conforto. Cotesta sleale l'abbandonò e ritornò poscia al cappellano del
l'ospitale, ond'ella era andata in traccia; il quale senza fare alla Bianca
veruna inchiesta delle sue disventure e de' suoi cocenti dolori,l'interrogò
intorno alla sua fuga ed ai suoi complici. Sopraggiunsero due uomini che
se la recarono sulle spalle, la portarono all'ospizio ed ivi la deposero
sul pavimento d'un cortile.
Noi non possiam trascrivere qui tutto a dilungo il racconto de'
tormenti che subì quella miserrima per più e più mesi. Ella soffri con
inaudito coraggio; ma la descrizione di quelle orrende atrocità varreb
bero sole a trasformare in belva feroce l'uomo più mite del mondo.
Alla perfine ella fu renduta a' suoi parenti. Guari delle ferite, ben
chè da lunga pezza ella ne avesse perduto ogni speranza, e ritornò in
Isvizzera co' suoi parenti.
XXXIII

C A R LO II

(1680)

Sbarcato in Iscozia per tentar di riconquistare il trono degli Stuardi,


Carlo II aveva veduto ruinate le sue speranze dalla battaglia di Wor
cester, nella quale egli avea dato prove di un gran coraggio e di un
distinto ingegno militare. Egli ha lasciato un giornale completo della
sua fuga e delle peripezie che presentò, ne togliamo i fatti principali.
Vedendo la battaglia perduta, il primo pensiero del re fu di arri
vare a Londra prima che la notizia della sua disfatta ci fosse giunta,
s'era possibile; ma le persone del suo seguito non furono di questo
parere, ed egli stesso riconobbe ben presto l'impossibilità di farlo. Do
veva liberarsi da un gran numero di uomini a cavallo che l'accom
pagnavano ed erano per lui un imbarazzo piuttosto che un aiuto. Vi
riuscì grazie alla fatica, che li fece restare quasi tutti indietro. Non sa
pendo da qual parte dirigersi, Carlo, accompagnato da un sessanta gen
tiluomini ed ufficiali, prese la direzione di Woolverhampton; traversò
durante la notte e senza esser veduto una città vicina, occupata da un
distaccamento dell'esercito republicano, e consigliato da uno dei suoi
fidi arrivò ad un luogo chiamatoWhite-Ladys. Era una casa appartata,
abitata da una onesta famiglia chiamata Penderell, composta di cinque
fratelli, che contribuirono tutti a salvare il re proscritto col coraggio
e col disinteresse più ammirabile. Nel momento in cui Carlo arrivava
in quel luogo, un contadino venne a dirgli ch'erano vicini tremila uo
mini della sua cavalleria, comandati da Leslie, ma nel più gran disor
dine. Il seguito del re lo consigliava di congiungersi con Leslie, pro
curando di tornare in Iscozia, ma egli saggiamente giudicò che la cosa
era impossibile.
262 CARLO II

« Questo, dice, mi fece prendere la risoluzione di travestirmi e di


andar a Londra a piedi con abiti da contadino, portando dei calzoni
di panno grigio grossolano, un mantello di pelle e un panciotto verde
che io presi nella casa di White-Ladys. Tagliai molto corti i miei ca
pelli e gettai i miei propri vestiti in un pozzo, affinchè nessuno potesse
accorgersi che io me n'era spogliato. Non comunicai il mio progetto
ad altri che a lord Wilmot: tutti gli altri mi pregarono di non far
conoscere loro i miei disegni, per timore delle confessioni che potreb
bero essere costretti a fare.
» Lord Wilmot si diresse dunque verso Londra; gli altri nobili
ed ufficiali che mi avevano seguito, andarono a raggiungere i tremila
cavalieri sbandati di Leslie, e quasi subito dopo la loro riunione a
quella truppa furono messi in rotta da un semplice distaccamento di
cavalleria.
» Quando fui travestito, presi meco una contadino chiamato Riccaldo
Penderell, che il signor Giffard mi garantì per un uomo onesto. La
mattina del giorno seguente alla battaglia, lasciai la casa con lui; mi
trovai ben presto in un gran bosco e mi tenni sull'orlo di esso, più
vicino che fosse possibile alla strada, affine di meglio riconoscere quelli
che c'inseguissero. »
Un corpo di cavalleria passò sulla strada; ma, forse perchè piovve
per lungo tempo, nessuno pensò a cercare il bosco, ove Carlo passò tutta
la giornata senza prender cibo. Il suo compagno Riccardo Penderell
non conosceva la strada di Londra, e ciò contribuì a fare che il re
cangiasse il suo itinerario. Venuta la notte, arrivarono non senza dif
ficoltà alla casa di un gentiluomo chiamato Wolf, a cui Penderell fece
conoscere un poco imprudentemente il nome del fuggitivo che gli chie
deva asilo. Wolf lo ricevette con premura e lealtà. La casa era sorve
gliata e noti i nascondigli, per aver troppo spesso servito in tempo di
proscrizioni: il re fu nascosto in un fienile. La notte seguente tornò
indietro e si rifugiò in casa di un fratello di Penderell, ove seppe che
Wilmot era nascosto nei contorni e che c'era pur vicino un certo
maggiore Careless, che il re conosceva come degnissimo di fiducia. Lo
fece venire e gli chiese consiglio. «Sarebbe egualmente pericoloso per
Vostra Maestà, gli disse Careless, sia di restare nella casa in cui si
trova, sia di nascondersi nel bosco. Io conosco un mezzo solo di passar
la giornata di domani, ed è di salire sopra una gran quercia posta ini
mezzo ad una bella pianura aperta da tutte le parti. Potremo vedere
bene tutto intorno a noi; il nemico senza fallo cercherà il bosco. »
» Approvai questa idea, Careless ed io partimmo, portando con noi,
per tutta la giornata, una leggera provvisione di pane, del formaggio
e della birra, ma nulla di più, e salimmo sulla gran quercia. Sfrondata
tre o quattro anni prima, aveva poi rimesso nuovi rami ed era dive
nuta cosi grossa e folta che l'occhio non poteva traversarla. Vi restammo
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 263

tutta la giornata. Intanto che eravamo sul nostro albero, vedemmo dei
soldati andar e venire nel più folto del bosco per cercare coloro che
pensavano esservisi rifugiati, e di tempo in tempo guardar fuori del
bosco. » --

Questa quercia divenne poscia celebre col nome di quercia reale


e finì collo sparire, portata via a pezzo a pezzo dai giacobiti.
Dopo di essersi concertati con Wilmot, ch'era nascosto nei din
torni e col colonnello Lane che stava vicino, fu convenuto che Carlo
viaggerebbe come servitore della sorella di questo.
« La notte seguente parti per recarmi dal colonnello Lane: cam
biai i miei vestiti con un abito un poco migliore e conveniente ad un
uomo di servizio: era un soprabito di panno grigio. Il giorno dopo
mistress Lane ed io ci dirigemmo per Bristol. Erano appena due
ore che ci eravamo messi in viaggio, quando il cavallo su cui era montato
perdette uno dei suoi ferri. Fummo dunque obbligati a cercarne uno
in un villaggio appartato. Intanto che io teneva fermo il piede del mio
cavallo, domandai al maniscalco se ci fosse qualchè cosa di nuovo.
» - Niente che io sappia, mi disse, fuorchè l'eccellente notizia
della disfatta di quei bricconi di Scozzesi.
» Gli domandai s'era stato preso qualcuno di quegli Inglesi che si
erano uniti con essi.
» – Non ho sentito dire, rispose, che si siano impadroniti di Carlo
Stuardo; ne furono ghermiti degli altri, ma non lui.
» – Quel briccone, dissi , se fosse preso , meriterebbe più di
tutti gli altri di essere appiccato per aver condotto gli Scozzesi nel
regno.
» Il maniscalco sclamò che io parlava da bravo uomo, e ci sepa
rammo cosi. »
Dopo altre avventure pure pericolose, arrivarono in casa di Norton,
parente di mistress Lane. Il re fu da lei presentato al cantiniere Pope,
come un servitore ammalato e degno di riguardi. Il giorno dopo, in
tanto che pranzava con alcune persone di servizio, uno si mise a fare
una descrizione così minuta della battaglia di Worcester, che Carlo lo
prese per un soldato di Cromwell; poi gli fu detto ch'era al contrario
un soldato dell'esercito reale; e continuando ad interrogarlo, seppe che
aveva fatto parte del reggimento delle guardie.
» Gli domandai che uomo fosse il re. Mi rispose facendo un'esatta
descrizione degli abiti ch'io portava e del cavallo su cui era salito du
rante il combattimento, poi guardandomi aggiunse che il re era almeno
tre pollici più alto di me. Io lasciai in fretta la cantina, molto più
spaventato quando seppi che questo uomo era stato uno dei miei sol
dati. » ---

Carlo seppe alcuni momenti dopo che Pope, il cantiniere, l'aveva


riconosciuto, e credette saggio partito il confidarsi con quest'uomo, che
26 CARLO II

gli era assicurato essere onesto e incapace di tradire, e lo fece immedia


tamente. Pope si pose interamente a' suoi ordini e gli rese i più grandi
servigi. Nel momento in cui il re stava per partire e recarsi da uno
de' suoi partigiani, la padrona di casa, mistress Norton, fu presa dai
dolori di parto. Ella era cugina di mistress Lane, di cui Carlo passava
come servitore, e non si poteva trovare un pretesto plausibile perchè
questa lasciasse in tal momento la sua parente. Si pensò a fare una
lettera falsa indirizzata a mistress Lane, annunciandole che suo padre
era pericolosamente ammalato. Còsì partirono e giunsero a Trent, in
casa di Frank Wyndham. Mentre erano colà, Carlo sentì sonare a festa
le campane, s'informò del motivo e seppe che un cavaliere dell'esercito
di Cromwell si vantava di aver ucciso il re e di portare il suo vestito.
Intanto Wyndham avea preso a nolo un bastimento, e Carlo, ac
compagnato da quel fedele gentiluomo e da una donna, Coningsby, era
andato ad aspettarlo nel punto in cui doveva imbarcarsi. Ma il basti
mento non essendo comparso, si diressero verso Barport, il luogo più
vicino.
« Arrivati colà, vedemmo le strade piene di abiti rossi: erano mille
cinquecento soldati di Cromwell. A quella vista Wyndham sbigottito
mi domandò che cosa volessi fare. Bisogna, risposi, entrare nel miglior
albergo della città e chiedere la miglior stanza. Andammo dunque a
cavallo al più famoso albergo del paese e trovammo la corte piena di
soldati. Misi piede a terra e, prendendo i cavalli per la briglia, pensai
che il meglio fosse di gettarmi storditamente in mezzo a quella folla
e di condurre le nostre cavalcature alla scuderia. Lo feci, e i soldati
si misero molto in collera per la mia poca gentilezza. »
Arrivato nella scuderia, Carlo si trovò in un nuovo pericolo. Il
palafreniere pretese di riconoscerlo per un antico suo camerata, che
aveva conosciuto a Exeter. Il re ebbe tanta presenza di spirito da pro
fittare di questo sbaglio, e rispose: « è vero, sono stato al servizio del
signor Potter, ma ora ho fretta: il mio padrone va a Londra e tornerà
presto. Al mio ritorno rinnoveremo la nostra conoscenza bevendo in
sieme un bicchiere di birra. »
Poco tempo dopo il re ed il suo seguito raggiunsero lord Wilmot
fuor della città: ma il padrone del legno che avevano preso, cedendo
alle paure di sua moglie, rifiutò di adempiere i suoi obblighi. Carlo
riprese la strada di Trent. Un altro vascello che si erano procacciato
a Southampton fu sequestrato dalle autorità per un trasporto di truppe,
e delle voci misteriose che circolavano nei dintorni, resero pericoloso
un più lungo soggiorno dal colonnello Wyndham. Il re trovò un asilo
vicino a Salisbury, a Heale, e vi rimase cinque giorni: intanto il co
lonnello Gunter, per mezzo di un negoziante realista chiamato Mansel,
fermò un bastimento da carbone che si trovava a New-Shoreham. Carlo
si recò in fretta a Brighton, dove cenò con Gunter, Mansel e Tattershall,
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 265

il padrone del bastimento. A tavola, Tattershall tenne gli occhi fissi


sul re; poi, dopo cena, preso a parte Mansel, si dolse di essere stato
ingannato. Il gentiluomo vestito di grigio era il re: lo conosceva bene,
essendo stato preso da lui,poi liberato, quando, come principe di Galles,
comandava la flotta nel 1648. L'avviso ne fu presto dato a Carlo che,
per maggior sicurezza trovò il modo di ritenere i suoi convitati be
vendo e fumando tutto il resto della notte.
Prima della sua partenza, mentre era solo in una camera, entrò
l'albergatore; passando dietro di esso, gli baciò la mano che appoggiava
sulla schiena di una sedia, e disse: sono certo che, se vivo, diventerò
un lord e mia moglie una lady. - Carlo si mise a ridere per mostrare
che avea capito, e raggiunse la compagnia nell'altra stanza. A quattro
ore di mattina, il 16 ottobre, si recarono tutti a Shoreham. Quando
Carlo e Wilmot, che solo era rimasto con esso,furono nella barca, Tat
tershall si gettò alle ginocchia del re, e gli giurò che, qualunque po
tessero essere le conseguenze, lo condurrebbe sano e salvo sulle coste di
Francia. Il bastimento favorito dalla marea si diresse verso l'isola diWight,
come se dovesse andare a Deal, sua destinazione. Ma verso cinque ore
di sera,Carlo, come era stato convenuto con Tattershall, si rivolse agli
uomini dell'equipaggio e disse loro ch'egli e il suo compagno erano
negozianti falliti che fuggivano dai loro creditori; pregò i marinai di
unirsi a lui per indurre il padron di barca a condurli in Francia, e,
come ultimo argomento, dette loro venti scellini per bere. Tattershall
fece molte obiezioni, ma, alla fine, con una ripugnanza apparente, si
diresse verso le coste di Francia. Allo spuntar del giorno scorsero la
città di Fécamp e nel medesimo tempo apparve una vela sospetta che
si credette essere un pirata di Ostenda. Era un legno francese. Ma
senza aspettare di essersene assicurati, misero la scialuppa in mare,
e i due fuggitivi furono condotti sani e salvi in porto (Memorie di
Carlo II, collezione Guizot; Storia d'Inghilterra di Lingard).
XXXIV

QUISQUERAN DE BEAUJEU
(1671)

Paolo Antonio Quisqueran de Beaujeu, cavaliere di Malta, s'era


acquistata la riputazione di uno dei primi uomini di mare del suo
tempo, per il numero e il successo dei suoi combattimenti contro i
Turchi. Nel mese di gennaio 1660, la tempesta avendolo obbligato a
ricoverarsi in un cattivo porto dell'Arcipelago, vi fu investito e attaccato
da trenta galere di Rodi, che il capitan pascià Mazamamet comandava
in persona. Ne sostenne il fuoco per un giorno intero, e soccombette
solamente dopo aver finito tutte le sue munizioni e perduto i tre quarti
del suo equipaggio.
Era carico di ferri e condotto come in trionfo, quando si alzò una
nuova procella, molto più violenta della prima, e mise la flotta vitto
riosa in tal pericolo, che Mazamamet si vide ridotto a implorare, e non
indarno, il soccorso del suo prigioniero.
Il cavaliere di Beaujeu lo salvò coll'abilità della sua manovra e il
Turco concepì tanta stima e riconoscenza verso di esso che, volendo
salvargli la vita, lo confuse coi più vili schiavi, perchè non fosse rico
nosciuto. Ma il gran visir, che probabilmente era stato avvertito, do
mandò di vederlo, e riconoscendolo dal suo aspetto guerriero e dalle
informazioni che avea ricevuto sul fatto suo, lo fece mettere al castello
delle Sette Torri, ove non potea avere speranza di essere scambiato
nè riscattato.
La Porta rigettò tutte le proposte che le vennero fatte anche in
nome del re di Francia, e i Veneziani tentarono inutilmente di farlo
comprendere nel trattato di Candia. Uno de' suoi nipoti, in età di ven
tidue anni, formò il disegno di andarlo a liberare e lo eseguì. Si recò
UGHE ED EVASIONI CELEBRI 267

a Costantinopoli col signor Nointel, ministro di Francia: e quivi ebbe


la libertà di vedere il prigioniero, libertà che non si rifiutava a nes
suno, essendo egli custodito in un luogo tanto sicuro. Non si faceva
altro che frugare, al primo corpo di guardia, quelli che si presentavano
e si ritenevano le loro armi, fino ai semplici coltelli, e anche le chiavi,
S0 D6 3V23IO,

Il cavaliere di Beaujeu fu in sulle prime spaventato da un pro


getto che poteva avere le conseguenze più funeste; ma undici anni di
prigionia, coll'amore ch'egli conservava delle imprese pericolose, e colla
fiducia che gl'inspirava il coraggio del giovane, gli fecero metter da
parte ogni incertezza. Suo nipote, ogni volta che gli faceva visita, gli
portava una certa quantità di corda; e quando credette che ne avesse
abbastanza, convennero per il giorno, l'ora e il segnale.
Infatti, dato questo segnale convenuto, il cavaliere si calò dalla
torre, e la corda, essendo quattro o cinque tese troppo corta, si slanciò
nel mare che bagna il piede del castello.
Lo strepito che fece nel cadere, fu sentito da alcuni Turchi, che
passavano in un brigantino, e andarono diretti alla sua volta; ma il
nipote,arrivando in un battello ben armato, vigorosamente li allontanò,
raccolse suo zio e lo condusse a bordo di un vascello francese coman
dato dal conte di Apremont suo amico, che lo rimenò felicemente
in Francia, ove visse ancora molto tempo nella sua famiglia, avendo
ricevuto la commenda di Bordeaux, che il gran maestro dell'Ordine
gli conferì subito dopo il suo ritorno.
L'evasione del cavaliere costò la vita al Kaima-kam, governatore
del castello delle Sette Torri.
XXXV

IL CARDINALE DI RETZ
(1654)

Nel 1652, il cardinale di Retz, che aveva avuto una cosi gran parte
nei tumulti della Fronda, perdeva il suo tempo a negoziare coi mi
nistri, quando fu arrestato al Louvre il 19 dicembre. Chiuso prima a
Vincennes, fu obbligato a dimettersi dall'arcivescovato di Parigi, per
ottenere di essere trasportato al castello di Nantes, di cui era gover
natore Chalucet. Egli fuggi di là, ed ecco ciò che a questo proposito
racconta nelle sue Memorie.
» Il signor maresciallo de la Meilleraye e il primo presidente de
Bellièvre vennero a prendermi a Vincennes. Come il maresciallo era
tutto storpiato dalla gotta, non potè salire sino alla mia camera, lo
che diede al signor de Bellièvre il tempo di dirmi, nello scender le
scale, che io mi guardassi bene dal dare una parola che mi sarebbe
stata chiesta. Infatti il maresciallo ch'era rimasto al basso della scala,
mi chiese effettivamente che dessi la mia parola di non fuggire. Gli
risposi che i prigionieri da guerra facevano questo, ma che non aveva
mai sentito dire che lo si esigesse dai prigionieri di Stato.
» Il signor de Bellièvre prese la parola e disse: «voi non vi capite fra
voi. Il cardinale non rifiuta di darvi la sua parola, se volete fidarvi al
tutto di esso, e non mettergli niuna guardia. Ma se voi lo fate cu
stodire, a che serve questa parola? Ogni uomo ch'è custodito come
prigioniero, può violarla. »
» Il primo presidente giuocava a giuoco sicuro, perchè sapeva che la
regina aveva fatto promettere al maresciallo che mi farebbe sempre
guardare a vista. Io dissi al signor de Bellièvre: voi sapete se posso
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 269

fare quello che mi proponete. Andiamo, continuò; bisogna dunque che


vi faccia custodire; ma questo sarà fatto in modo che non avrete da
lamentarvene.
» Io restai dunque sotto la guardia del signor maresciallo de la
Meilleraye, che mantenne la sua parola, perchè io non avrei potuto
essere custodito con modi più gentili. Tutti poteano farmi visita. Pro
curavano di darmi tutti i divertimenti possibili, e quasi tutte le sere
aveva la commedia. Molte donne vi si trovavano, e spesso cenavano
meco. L'esattezza della guardia pareggiava la gentilezza; non mi si
perdeva mai di vista; e l'unica porta della camera era giorno e notte
custodita da sei guardie. C'era una finestra altissima che dava sulla
corte, dove c'era sempre un gran corpo di guardia. Quella che mi accom
pagnava a tutte le volte che io usciva, era composta, come dissì, di
sei uomini e si metteva sul terrazzo d'una torre, da cui mi guardava
mentre io passeggiava in un giardinetto, ch'era sopra una specie di
bastione o di rivellino sul fiume.
» Io risolvetti di pensar sul serio a fuggire- Il primo presidente mi
esortava a farlo, e Montrésor mi fece consegnare per mezzo di una
signora di Nantes, un bigliettino, dov'era scritto: « voi dovete essere
condotto a Brest alla fine del mese, se non vi salvate. » La cosa era
difficilissima; si trattava prima di tutto di tener a bada il mare
sciallo. Conobbi in quella circostanza che gli uomini più diffidenti sono
spessissimo gabbati più facilmente degli altri. Ne parlai quindi al si
gnor de Brissac, che faceva di tanto in tanto dei viaggi a Nantes, e che
promise di servirmi. Come egli aveva molti bagagli, avea bisogno pure
di un gran numero di muli. Questa quantità di bauli, mi diede il pen
siero di nascondermi dentro uno di essi; se ne fece fare uno più grande
dei soliti. Si aperse un buco disotto, affinchè io potessi respirare; mi ci
provai, e mi parve che questo mezzo fosse praticabile e facile quanto
semplice, e che non fosse neppur necessario di comunicar la cosa a
molta gente.
» Il signor de Brissac l'avea interamente approvato; ma cangiò pa
rere in un viaggio che fece a Machecoul. Tornò a Nantes convinto,
come diceva, che io affogherei in un baule, e mi diede la sua parola
che procurerebbe di aiutarmi a ricuperare la mia libertà in tutto ciò
che non spettasse all'interno del castello. Prendemmo tutte le nostre
misure sopra un piano che feci io stesso, tosto che falli il primo.
» Ho già detto che andava qualche volta a passeggiare sopra una
specie di rivellino che guarda sulla Loira. Aveva osservato che fra il
giardino che trovasi sul bastione ed il terrazza su cui restavano le
mie guardie mentre io passeggiava, c'era una porta che Chalucet ci
aveva fatto mettere per impedire ai soldati di andare a mangiare la
sua uva. Fatte queste osservazioni, formai il mio piano, che era di
chiuder come per caso questa porta dietro di me. Siccome essa era
270 IL CARDINALE DI RETZ

a griglia, le guardie mi potevano vedere, ma, chiusa che fosse, non


potevano venire a me. Mi sarei calato per una corda, che il mio me
dico e l'abate Rousseau, fratello del mio intendente, mi avrebbero te
nuto. A piedi del rivellino si sarebbero dovuti trovare dei cavalli per
me e per quattro gentiluomini che io faceva conto di condur meco.
Questo progetto era di un'esecuzione difficilissima. Bisognava eseguirlo
di giorno, fra due sentinelle ch'erano solamente a trenta passi di di
stanza uno dall'altra, a mezzo tiro di pistola, e le mie sei guardie
avrebbero potuto tirarmi a traverso le sbarre della porta. Bisognava
che i sei gentiluomini che dovevano favorire la mia evasione, arrivas
sero proprio nel momento stabilito a piedi del rivellino, perchè la
loro apparizione poteva facilmente far concepire dei sospetti. Un nu
mero più piccolo di uomini sarebbe stato insufficiente, perchè io era
obbligato di passare per un luogo vicino dove passeggiavano per so
lito le guardie del maresciallo. Io aveva formato il progetto di passar
rapidamente da Nantes a Parigi, se non voleva essere arrestato per
viaggio; i corrieri del maresciallo senza fallo avrebbero dato l'allarme.
Io doveva prender le mie misure a Parigi stesso, dove era tanto im
portante per me che i miei amici fossero avvertiti del fatto mio, quanto
che i miei nemici non sapessero nulla. Non ci sarebbe stato niente di
più straordinario nel nostro secolo del successo di un'evasione come la
mia, se fosse terminata col rendermi padrone della capitale del regno,
nel mentre io rompeva i miei ceppi. Tutto questo piano fu rovesciato
in un momento, sebbene alcuno degli spedienti, su cui io aveva fatto
assegnamento, non abbia fallito.
« Io fuggii un sabato 8 di agosto, a cinque ore di sera. La piccola
porta del giardino si chiuse dietro di me quasi naturalmente; io scesi
felicemente dal bastione che aveva quaranta piedi di altezza. Un ca
meriere, chiamato Fromentin, che è ancora al mio servizio, tennea bada
le mie guardie facendole bere; si divertivano a guardare un france
scano che faceva un bagno nel fiume, anzi che vi annegava. La senti
nella ch'era a venti passi di distanza da me, ma in luogo di cui non
avrebbe potuto raggiungermi, non osò di tirarmi una schioppettata,
perchè, quando vidi che stava per metter la miccia, le gridai che la
farei appiccare se mi tirasse; poi messa alla tortura confessò che, sen
tendo questa minaccia, credette che il maresciallo fosse d'accordo meco.
Non si badò a due piccoli ragazzi che si bagnavano nel fiume, e che,
vedendomi sospeso ad una corda, gridarono che io scappava; tutti cre
dettero ch'essi chiamassero la gente in soccorso del francescano che
annegava. I miei quattro gentiluomini si trovarono al momento stabi
lito a piedi del rivellino, dove aveano fatto vista di abbeverare i loro
cavalli, come se avessero voluto andar alla caccia. Io montai a cavallo
prima che ci fosse il più piccolo allarme; e siccome tra Nantes e Pa
rigi c'erano preparati per me cavalli freschi in quaranta luoghi, sarei
FUGHE ED EvAsIoNI cELEBRI 271

infallibilmente arrivato a Parigi il martedi allo spuntar del giorno,


senza un accidente fatale che decise del resto della mia vita.
» Subito che fui montato a cavallo, presi la strada di Mauve, ch'è,
se non m'inganno, a cinque leghe da Nantes, sul fiume; eravamo con
venuti che il signor di Brissac e il cavaliere di Sévigné mi aspettassero
colà con un battello per passarlo. La Ralde, scudiere del signor di
Brissac, che cavalcava davanti a me, mi disse che bisogna affrettarsi
per non dar tempo alle guardie del maresciallo di chiudere la porta
d'una piccola strada del sobborgo dov'era il loro quartiere, e per dove
bisognava necessariamente passare. Io aveva uno dei migliori cavalli
del mondo, ch'era costato mille scudi al signor di Brissac. Non gli lasciava
libere le briglie, perchè il selciato era pessimo e sdrucciolevole; ma
un gentiluomo del mio seguito, che si chiamava Boisguérin, avendo
gridato che si mettesse mano alle pistole, perchè vedeva due guardie
del maresciallo (queste non facevano per nulla attenzione a noi); io la
misi infatti appuntandola alla testa della guardia che mi era più vi
cina, per impedirle di prender la briglia del mio cavallo. Il sole che
era molto alto, dette nel metallo; il riverbero fece aombrare il mio ca
vallo ch'era vigoroso, fece un gran salto e cadde in terra. Io n'ebbi
rotta la spalla sinistra sopra la soglia di una porta. Un altro genti
luomo, pure al mio servizio, chiamato Beauchêne, mi rialzò e mi ri
mise a cavallo, e quantunque io soffrissi orribili dolori e fossi obbli
gato di tanto in tanto a tirarmi i capelli per non svenire, finii la mia
corsa di cinque leghe prima che il gran maestro che mi seguiva a
briglia sciolta con tutti i migliori cavalieri di Nantes avesse potuto
raggiungermi. Trovai al luogo stabilito il signor di Brissac e il cava
liere di Sévigné col battello: svenii nell'entrarvi; mifecero tornare nei
sensi, gettandomi in faccia un bicchier d'acqua. Passato il fiume, volli
rimontare a cavallo, ma le forze mi mancarono e il signor di Brissac
fu cbbligato a farmi nascondere in una gran bica di fieno, ove mi
lasciò con un mio gentiluomo chiamato Montel, che mi teneva fra le
braccia. Condusse seco Joly, il solo che con Montep avesse potuto se
guirmi, i cavalli degli altri avendo dovuto restar indietro per la fatica;
e tirò dritto a Beaupréau collo scopo di raccogliere la nobiltà per ve
nire a cavarmi fuori dalla bica di fieno. -

» Vi rimasi nascosto più di sette ore, in uno stato che non posso
esprimere. Aveva la spalla destra slogata e rotta e una contusione
terribile: mi prese la febbre verso le nove di sera; e l'alterazione che
mi dava, era ancora accresciuta dal calore del fieno novello. Quantunque
fossi sulla riva del fiume, non osava di bere, perchè se Montel o io
fossimo usciti dalla bica, non ci sarebbe stato nessuno per accomodare
il fieno; si sarebbe veduto ch'era stato smosso; e per conseguenza, a
quelli che m'inseguivano, avrebbe potuto venir il pensiero di frugarvi
dentro. Sentivamo gente a cavallo che andava avanti e indietro. Il
272 IL CARDINALE DI RETZ

signor de la Poise Saint-Offanges, nobile del paese che il signor di Bris


sac aveva avvertito, venne a prendermi verso le due dopo mezzanotte,
osservato che non c'era più gente a cavallo nei dintorni. Mi pose sopra
una barella da letame e mi fece portare da due paesani al fienile di
una sua casa, a due leghe di distanza. Quivi mi nascose nel fieno; ma
siccome io vi aveva da bere, mi trovai benissimo.
» Il signore e la signora di Brissac vennero a prendermi sette od
otto ore dopo con quindici o venti cavalli e mi condussero a Beaupréau,
dove io restai una notte, sin che fosse raccolta la nobiltà. Il signor di
Brissac riunì in così poco tempo duecento gentiluomi; il signor di
Retz lo raggiunse a quattro leghe di là con trecento. Passammo quasi
alla vista di Nantes, onde alcune guardie del maresciallo uscirono per
scaramucciare. Furono vigorosamente respinte sino alla barriera e ar
rivammo felicemente a Machecoul, che è nel paese di Retz, con tutta
sicurezza. »
Da Machecoul il cardinale di Retz si fece trasportare, non senza
difficoltà, a Belle-Isle, e alcuni giorni dopo giunse a San Sebastiano,
onde, con passaporti spagnuoli, si recò finalmente a Roma. (Memorie
del cardinale di Retz, collezione Michaud).

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 17.


Episodio della strage degli Ugonotti, nella notte di San Bartolomeo.
XXXV

BEAUFORT

(1648)

Il duca di Beaufort, uno dei capi del partito della Fronda, accu
sato di aver voluto far assassinare il cardinale Mazarino, fu arrestato
al Louvre, per ordine della regina Anna d'Austria,e chiuso nella torre
di Vincennes. Dopo di esserci restato cinque anni, riuscì a fuggire
col soccorso de' suoi amici. Ecco come questa evasione è raccontata
nelle Memorie di madama de Motteville.
« Il giorno della Pentecoste, primo del mese di giugno 1648, il
duca di Beaufort, prigioniero da cinque anni a Vincennes fuggi dalla sua
carcere verso mezzogiorno. Trovò il mezzo, di rompere le sue catene
per l'abilità degli amici e di alcuni de' suoi che in questa oc
casione lo servirono fedelmente. Era custodito da un uffiziale e da
sette od otto guardie che dormivano nella sua camera e non lo lascia
vano mai, era servito da ufficiali del re, non avendo seco nessuno de'
suoi domestici; inoltre Chevigny, governatore di Vincennes, non era af
fatto suo amico.
» L'ufficiale che lo custodiva, chiamato La Ramée, aveva preso
con lui, pregato da un amico, un certo uomo il quale, sotto pretesto di
un duello che aveva avuto, mentre i duelli erano severamente proibiti
dagli editti reali, aveva chiesto un asilo in quel castello. È da cre
dere che gli amici del duca l'avessero fatto entrare colà, forse col
consenso dell'ufficiale; ma non posso assicurarlo e dico solamente che
c'era l'apparenza di questo.
» Quell'uomo sulle prime, per rendere dei servigi e mostrare che
non era inutile, s'ingeriva molto nella custodia del prigioniero; anzi
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 275

si disse alla regina, contandole la storia, che lo trattava persino con


durezza. Sia dunque che fosse entrato nel castello per servire il duca,
sia che si lasciasse poi guadagnare, questi se ne servì acconciamente
per comunicare i suoi pensieri agli amici e prender conoscenza di
quello che disegnavano di fare per liberarlo. Essendo venuto il tempo
di mettere in atto i loro progetti, scelsero espressamente il giorno
della Pentecoste, perchè tutti erano in chiesa per la solennità di quella
festa. All'ora in cui le guardie pranzavano, il duca di Beaufort chiese
a La Ramée di passeggiare in una galleria, dove gli era stato per
messo di andar qualche volta a divertirsi. Questa galleria era più
bassa della torre ove era chiuso, però molto alta e guardava da due
parti sopra fossi profondi. La Ramée lo segui in questa passeggiata e
restò solo con lui nella galleria. L'uomo guadagnato dal duca finse di
andar a pranzo cogli altri; ma simulando di esser ammalato, prese
solamente un poco di vino e, uscendo dalla stanza, chiuse la porta,
come pure altre porte tra la galleria e il luogo dove mangiavano.
Andò quindi a trovare il prigioniero e quello che lo custodiva, ed
entrando nella galleria, la chiuse subito e prese le chiavi di tutte le
porte.
» Nel medesimo tempo il duca di Beaufort, ch'era vigoroso, e quel
l'uomo si gettarono sopra La Ramée, e gl'impedirono di gridare; e
senza volerlo uccidere, sebbene fosse pericoloso di non farlo, se non
era guadagnato , gli misero uno sbavaglio, gli legarono i piedi
e le mani e lo lasciarono là.
» Attaccata una corda alla finestra, poi si calarono uno dopo l'altro,
il servo prima, perchè, se non si fosse posto in salvo, sarebbe stato
severamente punito. Si lasciarono dunque sdrucciolare tutti due sino al
fosso, la cui profondità è così grande che, sebbene la corda fosse lun
ghissima, pure non era abbastanza. Infatti il principe cadde e si fece
male. Il dolore lo fece svenire e restò lungo tempo in questo stato
senza poter riprendere i sensi. Tornato che fu in sè, quattro o cinque
dei suoi che erano dall'altra parte del fosso e che, avendolo veduto
semivivo, erano inquietissimi per lui, gli gettarono una corda che
egli si attaccò intorno al corpo, e in questa maniera lo trassero a loro.
Il servo che l'aveva assistito, uscì sempre prima, sccondo la parola che
il principe gli avea dato e che serbò puntualmente. Quando Beaufort fu
in alto, sitrovò malconcio, perchè, oltre essersi ferito nelcadere, la corda
che si era legata intorno al corpo per salire, gli aveva stretto lo stomaco
e fatto provare delle forti scosse. Ma avendo ripreso forza per il vigore
del suo coraggio e per il timore di perdere li frutto delle sue fatiche,
si alzò e uscì da quel luogo per raggiungere cinquanta uomini a cavallo
che l'aspettavano nel bosco vicino.
» Un gentiluomo dei suoi, che si trovava in questa spedizione, mi
ha poi raccontato che, quando il duca si vide circondato da tutte le parti
276 BEAUFORT

dai suoi fidi, la gioia di vedersi libero fu sì grande che guari in un


momento di tutti i suoi mali. Saltando sul cavallo che si trovava pre
parato, se ne andò e sparve come un lampo, contentissimo di respirar
l'aria libera, di poter dire, come il re Francesco I, nel momento in cui
mise il piede in Francia tornando di Spagna: ah ! son libero. Una
donna che coglieva erbe in un giardino sulla riva del fosso e un ra
gazzino videro tutto ciò che avveniva in secreto: ma gli uomini che
erano in imboscata, gli avevano talmente minacciati per obligarli a
tacere, che ambedue, non avendo nessuna ragione d'impedire che il
principe si salvasse, stettero tranquillamente a guardare tutto ciò che
succedeva.
» Partiti che furono il duca e i suoi, la donna andò a dire la cosa
a suo marito, ch'era il giardiniere del luogo, e tutti due andarono ad
avvertir le guardie: ma non c'era più tempo. Gli uomini non possono
cangiare ciò che Dio ha ordinato, e già un astrologo chiamato Goesel
aveva detto a molte persone che Beaufort doveva salvarsi in quel
giorno.
» Questa notizia sorprese tutta la corte e particolarmente quelli cui
non era indifferente. Il ministro ne fu senza dubbio afflitto, ma al suo
solito non ne diede segno. La regina e Mazarino parlarono molto
del fatto e dissero ridendo che Beaufort aveva fatto bene di mettersi in
salvo. » (Memorie) di Madama de Motteville, collezione Michaud).
XXXVI

A RN A U D

(1635)

Isacco Arnaud era governatore di Philisbourg nell' inverno del


1635. Questa piazza difesa da fortificazioni di terra e da un largo fos
sato, le cui acque erano gelate, aveva una guarnigione insuffi
ciente. Gl'imperiali avvertiti di questo, formarono ed eseguirono facil
mente il loro piano d'attacco. Trovarono la guarnigione sotto le armi,
ma troppo debole per sostenere un assalto generale. Tutta la bravura
del governatore non servi ad altro che a fare una gloriosa difesa
e a vendere a caro prezzo la sua libertà, dopo che la sua guarnigione
fu tutta passata a fil di spada. Fatto prigioniero con pochi tra i suoi
compagni di sventura, ch'erano superstiti agli altri, fu chiuso successi
vamente in parecchie città e finalmente a Esslingen.
Nella sua carcere egli non ignorava le voci che correvano di lui alla
corte: lo si accusava di aver fatto perdere Philisbourg alla Francia
per sua negligenza. D'allora non pensò ad altro che a fuggire per
andar a distruggere egli stesso in persona que' sospetti; perciò rifiutò
di restar come prigioniero sulla sua parola d'onore.
L'impresa non era facile, imperocchè era custodito da soldati che
l'accompagnavano la sera, quando lo si conduceva fuori a prender l'aria,
e che dormivano alla porta della sua camera. Tuttavia gli venne fatto
di mettersi in salvo.
Osservò l'altezza della sua finestra che guardava sul fosso della
città che, essendo nell'interno della Germania e fuori d'ogni pericolo
d'attacco, non era custodita regolarmente.
Tutte le volte che lo conducevano alla passeggiata, faceva giocare
278 ARNAUD

le guardie a diversi giuochi sotto pretesto di divertirsi; e siccome pa


gava loro da bere e le guardie pure si divertivano a quei giuochi,
erano esse le prime a proporli.
Fra questi giuochi ce n'era uno che si chiamava metter le cinghie
all'asino. Siccome ci voleva un braccio di corda per legare uno di quelli
che ci prendeano parte, Arnaud gettava ad un soldato qualunque una
moneta perchè andasse a comprarne e non si faceva rendere il resto.
Quel piccolo pezzo di corda non era poi buono da niente, e per solito
si gettava, quando il giuoco era finito; ma taluno che era devoto ad
Arnaud, lo raccoglieva senza far sembiante di nulla e scherzando.
Quando egli vide che ce n'era abbastanza per il suo disegno, fuggi
insieme coi suoi ch'erano con lui prigioni.
Arrivato a Parigi, si costitui prigioniero alla Bastiglia e chiese che
fosse esaminato il suo affare. Restò in carcere alcuni mesi, poi ne usci
pienamente giustificato (Memorie dell'abate Arnauld, collezione Michaud
Poujoulat.)
XXXVII

GR OZ I O

(1621)

Involto nella rovina di Barneveld, di cui èra ammiratore e fermo


partigiano, Grozio fu condannato alla confisca de' suoi beni ed alla
prigionia perpetua. Fu chiuso nel castello di Louvenstein presso
GOrcun.
Era nel 1619: Grozio aveva allora trentasei anni. Strettamente cu
stodito, non aveva altra consolazione fuorchè lo studio e la compagnia
di sua moglie, Maria di Reygesberg, che avea chiesto il permesso di
visitarlo. Le fu accordata l'autorizzazione di entrare nella prigione di
suo marito, ma facendole capire che, se ne uscisse, non la si lascerebbe
rientrar più. Più tardi però le fu permesso di uscire due volte la set
timana.
Questa cattività durava da dieciotto mesi, quando Muys von Holy,
uno dei nemici dichiarati di Grozio e ch'era stato suo giudice, avverti
gli Stati Generali, che avea saputo di buona fonte, che il prigioniero
cercava i mezzi di mettersi in salvo. Si mandò un agente a Louven
stein, per esaminare lo stato delle cose; ma non trovò nulla che potesse
far credere che l'avviso fosse fondato sopra buone ragioni.
Era per altro vero che Maria di Reygesberg studiava con tutte
le sue forze il modo di procurar la libertà a suo marito.
Si era permesso a Grozio di prender a prestito dei libri da' suoi
amici. Quando li avea letti, li rimandava in una cassa, in cui si metteva
la sua biancheria che si faceva lavare a Gorcun.
Il primo anno le guardie della prigione visitavano accuratamente
280 GROZIO

la cassa, quando era portata via da Louvenstein; ma, abituate a non


trovarvi dentro altro che libri e biancheria, si stancarono di esaminarla,
e non si davano più nemmeno la cura di aprirla.
La moglie di Grozio osservò questa negligenza e concepi l'idea di
trarne partito. Confidò il suo disegno a suo marito, e lo persuase a ten
tare di liberarsi mettendosi nella cassa.
Prima, affine di non esporlo a mancar d'aria, ella vi fece dei bu
chi stretti e che difficilmente si potevano scorgere al di fuori, verso una
delle estremità della cassa. Lo persuase a mettervisi dentro più volte,
restandovi tanto tempo quanto era necessario per andare da Louven
stein a Gorcun. Ella stava seduta sulla cassa per vedere quanto tempo
egli avrebbe potuto reggere a quella positura incomoda. Quando Grozio
vi si fu abbastanza abituato, ella non pensò ad altro che ad approfittare
di un'occasione favorevole.
Questa occasione si presentò presto. Il comandante della fortezza
si assentò per affari di servizio. La moglie di Grozio andò a far visita
a quella del comandante e nella conversazione le disse che voleva ri
mandare una cassa di libri, perchè suo marito era così debole ch'era af
flitta di vederlo lavorare con tanta applicazione. Dopo aver così pre
venuto la moglie del comandante, tornò nella camera di suo marito e
lo chiuse dentro la cassa.
Un servitore ed una serva erano consapevoli del secreto, e la moglie
di Grozio fece correr la voce che suo marito non istava bene, affinchè
altri non fosse stupito di non vederlo. Due soldati portarono via la
cassa e uno d'essi, trovandola più pesante del solito, disse: « ci deve
essere qualche Arminiano là dentro, » facendo allusione ad una setta
di quei tempi, alla quale appunto apparteneva Grozio.
La moglie di questo rispose freddamente: « Infatti ci sono dei
libri Arminiani. »
Si fece scendere la cassa per una scala con molta fatica. Lo stesso
soldato insistette perchè la si aprisse per veder che cosa conte
neva; andò anzi dalla moglie del comandante e le disse che il peso
della cassa gli faceva pensare che vi fosse qualche cosa di sospetto e
clie sarebbe conveniente di aprirla. La moglie del comandante non
volle farlo, sia che la sua intenzione fosse di chiuder gli occhi per
compiacenza, sia per trascuranza. Rispose che non c'erano che libri in
quella cassa, secondo le avea assicurato la moglie di Grozio, e che si
poteva portarla alla barca.
La moglie di un altro soldato, che era là dove passava la cassa,
disse ad alta voce che si eranoveduti esempi di prigionieri che s'erano
messi in salvo dentro a delle casse.
Intanto la cassa fu portata alla barca. La serva di Grozio aveva
l'ordine di accompagnarla sino a Gorcun e di depositarla in una casa
che le fu indicata. Quando la cassa fu arrivata a Gorcun, si volea
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 281

caricarla sopra una slitta; ma la serva disse al padrone della barca,


che c'erano degli oggetti fragili e lo pregò di farla portar con riguardo.
Fu dunque messa sopra una barella e portata in casa di Davide Da
zelaer, amico di Grozio e parente di sua moglie. Quando la serva si
vide sola, aperse la cassa, e Grozio ne uscì, senz'aver sofferto molto,
sebbene chiuso per tanto tempo in uno spazio di tre piedi e mezzo di
lunghezza. Si vestì da muratore; prese una squadra e una cazzuola in
mano e, uscito per una porta di dietro della casa, si diresse alla piazza
di Gorcun, che traversò per andare alla porta della città, la quale dava
sul fiume. Colà entrò in un battello che lo condusse a Valvic in Bra
bante, si fece conoscere ad alcuni Arminiani e prese un legno per
Anversa. Usò tutte le precauzioni necessarie affine di non essere rico
nosciuto per istrada e giunse felicemente in Anversa.
Intanto a Louvenstein si credeva che fosse ammalato; e sua mo
glie, per dargli tempo di mettersi in salvo, assicurava che la sua ma
lattia era pericolosa. Ma quando seppe dalla serva, ch'era tornata alla
prigione, che suo marito era in Brabante e per consegnenza al sicuro,
confessò alle guardie che l'uccello avea preso il volo.
Il comandante, ch'era di ritorno, corse all'appartamento del pri
gioniero, chiedendo a sua moglie dove fosse nascosto. Dopo averlo
lasciato cercare un pezzo, ella gli raccontò lo stratagemma di cui si
era servita.
Fu sulle prime chiusa in più stretto carcere, ma presentò una
supplica agli Stati Generali, e alcuni giorni dopo fu messa in libertà.
XXXVIII

MARIA DE' MEDICI

(1619)

Maria de'Medici, dopo l'assassinio del suo favorito Concini, veden


dosi allontanata dagli affari per gl'intrighi di Luynes, domandò ed ot
tenne il permesso di ritirarsi a Blois (maggio 1617), dove poco tempo
dopo rimase prigioniera. Luynes la circondò di spie, e pose delle com
pagnie di cavalleria nei villaggi vicini per sorvegliare i suoi più pic
coli movimenti.
Ma il duca di Epernon ed altri signori malcontenti essendosi ri
tirati dalla corte, cercarono, per dar maggior importanza al loro par
tito, di liberare la regina-madre, affine di porla alla loro testa.
» Quegli che dispose il duca d'Epernon a questa impresa, dice
Fontenay-Mareuil, fu il signor Rucellai, il quale pensava solamente a
render servigio alla regina madre e particolarmente a restituirle la
libertà. Credeva che nessuno fosse più adatto a contribuire a questo del
signor di Bouillon, tanto per la riputazione di cui godeva, quanto per
il credito che aveva fra gli Ugonotti, dei quali forse sarebbero stati
obbligati a servirsi. In un viaggio dunque che Rucellai fece incognito
a Blois, propose l'affare alla regina, ed ebbe da lei il permesso di
parlarne a Bouillon e di promettergli tuttociò che sarebbe a pro
posito per questo. Avendolo fatto, sebbene con molta difficoltà, perchè
dovette andar da lui di notte e solo per timore d'essere scoperto, il
signor di Bouillon se ne schermi, dicendo ch'era vecchio, malaticcio e
in buone relazioni col re, e che voleva godere della grazia che gli avea
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 283

fatto dopo la morte del maresciallo d'Ancre, e finire i suoi giorni in


pace; ma che c'era il signor d'Epernon arrivato di fresco a Metz e
molto malcontento del signor de Luynes, e che essendo in ottimo stato
di salute e avendo gran potere nel regno, sarebbe molto più adattato
di lui. »
Rucellai ne scrisse alla regina-madre e, avendo ottenuto il suo
consenso per questo, fece fare delle proposizioni a d'Epernon, che le
accolse in sulle prime con diffidenza, poi si lasciò persuadere, ed avendo
fatto venire presso di esso Rucellai, lo tenne seco alcuni giorni
chiuso, affine di parlare con agio di tutto ciò che conveniva fare; e poi
lo rimandò alla regina per dirle che, se ella avesse potuto solamente
uscire dal castello di Blois e passare il ponte della Loira, egli si tro
verebbe dall'altra parte con tal compagnia, che malgrado i cavalleg
geri e chiunque altri potesse opporsi, la condurrebbe ad Angoulème
e per tutto ove fosse necessario di andare.
La regina fece sapere a Rucellai che la cosa era facile, e questi
fece ressa con d'Epernon perchè affrettasse l'esecuzione del loro pro
getto; ma questi volle assolutamente rimettere l'impresa al mese di
febbraio dell'anno seguente.
De Luynes sempre sospettoso e desiderando di penetrare i senti,
menti della regina, le mandò un suo fidato a dirle che il re andrebbe
tra poco a Blois e la ricondurrebbe seco.
Quel messo dovea pur fare, da parte di Luynes, delle grandi
proteste di servizio, assicurare la regina che sarebbe in avvenire trat
tata come poteva desiderare, e particolarmente osservar bene tanto le
parole quanto il viso di lei e di tutti quelli che l'avvicinavano, per
vedere se ci fosse nulla di cangiato. Ma nessuno del seguito di Maria
sapeva nulla ancora de' suoi disegni; ed ella seppe simular cosi bene,
com'era abituata di fare, che l'agente di Luynes partì persuaso che
ella attendeva impazientemente il re e ch'era disposta a dimenticare il
passato, purchè potesse riconciliarsi con Luynes.
D'Epernon, avendo fatti tutti i suoi preparativi, si recò a Confo
lens, dove l'arcivescovo di Tolosa l'aspettava con più di duecento dei
suoi amici; ma non vi trovò notizia della regina, com'egli aspettava.
Tuttavia era troppo impegnato per ritirarsi: perciò recossi a Loches e
mandò nel medesimo tempo il signor Du Plessis dalla regina per
avvertirla del suo arrivo e sapere che cosa voleva fare. Intanto ella
era inquieta perchè non riceveva lettere e non sapeva nulla di quanto
accadeva.
Finalmente Du Plessis essendo arrivato e avendo detto alla regina
che d'Epernon era a Loches e così tutto ben disposto che, quando le
piacesse, poteva andarsene, ella risolvette di farlo la notte stessa.
» Fu allora solamente che rivelò il secreto al conte di Brennes,
suo primo scudiere, a la Masure e Mercay, capi delle sue guardie, e
28 MARIA DE' MEDICI

alla signora Caterina, sua prima cameriera. Ordinò a Brennes che si


trovasse prima delle cinque del mattino alla porta della sua camera, e
che la sua carrozza a sei cavalli fosse nel medesimo tempo al di là
del ponte. Tenne seco gli altri per fare i bagagli e riporre i suoi
gioielli.
» Con quei tre uomini dunque e una sola cameriera, il 22 febbraio,
alle sei della mattina, uscì per la finestra d'una sala che dava sopra
la terrazza; siccome c'era un luogo in cui il muro era caduto, si po
teva scender facilmente e andare al ponte senza passare per la porta
del castello e per la città. Sedette dunque sul muro e si lasciò sdruc
ciolare abbasso per le terre, quindi s'avviò al ponte: quivi incontrò due
uomini che passavano, di cui l'uno,vedendola così per tempissimo in
compagnia di due uomini, ne prese sinistra opinione. L'altro invece
più assennato, avendole riconosciuta e facendo ragione ch'ella scap
passe, le augurò buon viaggio.
» In capo al ponte trovò la sua carrozza; ed essendovi salita con
quelli che l'accompagnavano, andò a Montrichard, dove l'arcivescovo
di Tolosa si era fermato per rendersi padrone del passaggio del fiume
Cher.
» Il signor d'Epernon le andò incontro a una lega da Loches, ed
ella vi restò due giorni per riposarsi e scrivere al re: indi si recò ad
Angoulême ».
Dopo molte trattative e molti intrighi, in cui De Luynes e Riche
lieu, ch'era allora vescovo dl Luçon, spiegarono tutta la loro abilità,
avendo veduto i suoi partigiani bisticciarsi tra loro e quasi tutti abban
donarla, Maria dei Medici parti da Angoulême per andare a Tours a
trovare Luigi XIII e Anna d'Austria che I'aspettavano.
» Il re e la regina andarono a riceverla a due leghe da Tours
e le fecero grandi carezze.
» La regina-madre, dopo essere stata otto o dieci giorni col re,
se n'andò a Chinon ad aspettare che si preparasse la sua entrata so
lenne ad Angers, e il re andò a Compiègne, perchè a Parigi c'era la
peste (Memorie di Fontenay Mareuil, collezione Michaud-Poujoulat).
XXXIX

CARLO DI GUISA
191

Carlo di Guisa, figlio maggiore di Enrico di Guisa, assassinato a


Blois, era stato arrestato al tempo della morte di suo padre e chiuso
nel castello di Tours. Riuscì a fuggire solamente tre anni dopo, cioè
nel 1591.
» ll duca, dice il presidente de Thou, era d'accordo con Claudio
de la Chàtre e suo figlio di fuggire il 15 agosto, festa dell'Ascensione.
Si comunicò in quel giorno, per meglio ingannare le guardie e dileguare
ogni sospetto che pensasse a fuggire.
» Egli aveva osservato che si aveva l'abitudine di chiuder le porte
dopo pranzo, e che si portavano le chiavi ad uno scabino: scelse quel
momento per eseguire il suo progetto.
» Salì rapidamente sovra un'alta torre che dava sul ponte fuori della
città, ed avendo chiuso le sue guardie in uno stanzone dove mangia
vano, tirò dietro di sè la porta della torre e l'asserragliò con un cate
naccio, per aver tempo di mettersi in salvo intanto che la rompereb
bero. Tutto gli riuscì secondo i suoi voti.
» Il suo cameriere che l'aiutava in questa occasione, attaccò ad una
corda, che teneva pronta a quest'uopo, un pezzo di legno di traverso,
per cui il duca sedette per discendere senza pericolo. Quindi il came
riere calò a poco a poco la corda. Vedendo che il suo padrone era già
a basso, attaccò fortemente quella medesima corda a un palo, e si calò
giù con maggior pericolo di esso, e lo raggiunse a Saint-Côme,
seguendo il corso del fiume.
» Le guardie del duca furono in una grande costernazione. Rou
986 CARLO DI GUISA

vray,governatore di Tours, mandò da tutte le parti a spargere la notizia


della fuga del duca, affinchè si prendessero le armi e s'inseguisse. Fece
rompere le porte della torre; quelli che furono impiegati a questo, non
avendo trovato nessuno, si congiunsero ai loro compagni che correvano
per la città.
» Passò molto tempo prima che fossero portate le chiavi per aprire la
porta del ponte e le altre porte. Ignorando da che parte si fosse diretto,
si mandò gente da tutte le parti, ma inutilmente.
» Poi che il duca fu disceso dalla torre, dice Davila, prese via per
la campagna, lungo la Loira, e trovò due uomini che gli tenevano un
cavallo pronto.
» Galoppando a briglia sciolta, se ne andò a raggiungere il figlio
del sig. De la Chàtre, il barone di Maison. Questi l'attendeva al di là
del Cher con trecento cavalli, che l'accompagnarono sino a Bourges,
ove fu ricevuto con grande dimostrazione di allegrezza (Lalanne, Cu
riosità biografiche).
XL

E N RICO IV

(1573)

« La regina (Caterina dei Medici), cui lo spirito e il corpo vigoroso


di suo genero (Enrico re di Navarra, poi di Francia, che avea spo
sato sua figlia Margherita) davano grandi sospetti, lo faceva custodire
dalle guardie che gli erano state messe vicino. Erano soldati scelti, ap
passionati cattolici, e che per la maggior parte aveano contribuito al
massacro della notte di San Bartolomeo. Anche tutti quelli che aveano
cura delle stanze e della guardaroba del principe, erano tutti fidi a lei
e vigilavano a ben custodirlo. Ma egli era di maniere così gen
tili e piacevoli, che seppe cattivarsi gli animali e servirsi de' suoi
nemici stessi. Un'altra cagione che lo riteneva, erano i suoi amoretti,
che la regina stessa eccitava. Fu questa catena che lo ritenne nel suo
carcere, quando egli ebbe concepito il progetto di fuggire nel bosco
di Vincennes. Quelli che l'aveano assistito in questa impresa, si allon
tanarono da lui; e quelli pure che per ostinazione restarono, come Fou
quières suo maestro di casa, Aubigné suo scudiere e Armagnac suo
primo cameriere, erano stupiti della sua strana condotta.
« Intanto, per tener a bada Enrico, gli si prometteva di farlo luo
gotenente generale, e tutti i suoi progetti di fuga andavano a monte.
I due che erano col re di Navarra (Enrico) si preparavano a lasciarlo
senza dirgli addio, quando una sera, Armagnac avendo alzato la cor
tina del letto, in cui il suo padrone giaceva col ribrezzo della febbre, i
due che ascoltavano presso al capezzale di esso, lo sentirono sospirare,
e canticchiare quel versetto nel Salmo 88 in cui si deplora la fuga dei
288 ENRICO IV

fedeli amici. Armagnac eccitò l'altro a cogliere quel momento e parlare


arditamente; onde tennero ambedue questo linguaggio al principe:
« Or siete fuor di senno voi che preferite di esser servo qui piut
tosto che padrone altrove; di essere il più disprezzato degli uomini,
mentre potreste essere il primo di coloro che son temuti? Non siete
stanco di nascondervi? e come un principe pari vostro può far questo?
Delle offese che avete ricevuto, avete voi la colpa. Coloro che hanno
fatto la notte di San Bartolomeo, se ne ricordano bene; e non possono
credere che coloro che le hanno sofferte, se ne siano dimenticati. Nulla
è più pericoloso per voi che il restar qui. Quanto a noi, dicevamo di
andarcene domani, quando sentendovi parlare abbiamo aperto la cor
tina. Pensate, sire, che le mani che vi serviranno dopo le nostre, non
avranno a schivo di maneggiare il ferro e il veleno.
« In quella avvenne che Fervaques e Lavardin, malcontenti, fecero
sentire il loro desiderio di un cambiamento a coloro che procacciavano
d'indurre Enrico a fuggire. Il primo si confidò con Aubigné, l'altro
fece fare le stesse assicurazioni da Roquelaure: per confabulare libe
ramente di queste cose, il re di Navarra e quei due passeggiarono in
carrozza chiusa per le vie di Parigi, e poi convennero di trovarsi una
sera dopo cena in casa di Fervaques. I sette dunque, essendosi chiusi
in una stanza e liberatisi da alcuni che davano loro noia, si legarono
con giuramento; i sei ad aiutare Enrico nella sua fuga, ed egli a non
disdirsi per carezze che gli fossero fatte, e tutti ad esser nemici sino
alla morte di qualunque scoprisse la cosa. Fatto questo, Enrico li baciò
sulle gote tutti sei, ed essi gli baciarono la mano.
« Il disegno era che il 20 febbraio, dieciotto giorni dopo il com
plotto, Lavardin s'impadronirebbe di Mans e Rosselaire, suo luogote
nente, farebbe il medesimo di Cherbourg, e che intanto Enrico andrebbe
a cacciare nel bosco di San Germano, ove sarebbe stato custodito da
Saint-Martin d'Angloyse, preposto alla guardaroba, e da spalungue
tenente della guardia.
« Il giorno dopo, sul far del giorno, il re di Navarra andò a get
tarsi nel letto del duca diGuisa, e s'intrattenne a lungo famigliarmente
con de Maitre e de Compire coi quali si era affiatato. Enrico fece grandi
millanterie su quello che farebbe quando fosse luogotenente generale,
ed ottenne il suo scopo, il quale era che il duca andasse a contar
tutto al re ed a riderne con lui. Così alla sua volta ingannò quelli che
l'aveano ingannato, perchè si seppe poi di certo che senza queste chiac
chiere di Enrico, si sarebbero fatti degl'intrighi per impedirgli di an
dare a quella caccia. Dei congiurati vi andò solamente Armagnac.
« Aubigné si trovò il giorno dopo, alla sera, nel gabinetto del re
Enrico III, a prender congedo. Scorse Fervaques che parlava all'orecchio
del re: e questi era molto attento, in modo che già da un'ora e mezza
Fughe ed evasioni celebri. Disp. 18.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 289

gli grattavano i piedi, come soleano fare per eccitargli il sonno, senza
che pensasse a mettersi a letto. Questa distrazione del re salvò la vita
a cuello che prendeva congedo da esso, perchè, quantunque il re avesse

Benvenuto Cellini, fuggendo da Castel Sant'Angelo, rottosi una gamba, va carponi


ed è assalito da una frotta di cani. Pag. 309.

il viso volto verso la porta, Aubigné trovò il modo di uscir di là, na


scondendosi dietro l'usciere. Poi, fingendo di passeggiare al chiaro di
luna, aspettò Fervaques sino alle due dopo mezzanotte. All'uscir dal
castello, gli prese improvvisamente il braccio, dicendogli: che avete
fatto, miserabile? Quest'uomo così sorpreso non potè celare il vero e
290 ENRICO IV.

dopo aver parlato dei benefizi che avea ricevuto dal re, disse a d'Au
bigné: andate a salvare il vostro padrone.
« Per riuscire in questo bisognò correr tosto alla stalla, dove da
tre settimane, per previdenza, si tenevano sempre dei cavalli pronti.
Gli scudieri veggono passare il prevosto dei mercanti, che il re Enrico III
avea mandato a chiamare per dargli l'ordine di non lasciar passar nulla
per le porte della città; ma avanti che l'ordine fosse dato, i cavalli
erano già usciti.
« Roquelaire fu avvertito di prender la porta e la strada di Senlis,
e non se lo fece dire due volte; poi avendo messo le mani addosso ad
alcuni scudieri, seppe da uno di essi che tutto era scoperto. Corse
tosto a portar questa notizia al re di Navarra, e dimostrargli la neces
sità di partire senza por tempo in mezzo, che poi altri gli avrebbe rac
contato i particolari del fatto.
» Enrico faceva la sua caccia, e aveva corso dal levar del sole ,
quando trovati i suoi cavalli al sobborgo di Senlis, chiese tosto: che c'è
di nuovo? D'Aubigné, rispose « Sire, il re sa tutto da Fervaques che me
l'ha confessato. Andando a Parigi, si va alla morte e all'infamia; in
qualunque altro luogo c'è la vita e la gloria. I luoghi più adatti sono
Sédan o Alençon. E tempo che vi liberiate dagli artigli dei vostri car
cerieri per gettarvi nelle braccia de' vostri veri amici. » - Basta,
basta, soggiunse il principe.
» Senz'altri discorsi si liberò da Saint Martin e da Spalungue. Due
dei suoi volevano ucciderli, ma egli preferi di servirsene per ritardare
gli ordini di Enrico III che gli fosse data la caccia. Chiamò prima
Saint Martin e gli ordinò di andar a dirgli che Roquelaire era venuto
ad avvertirlo che certe voci correvano alla corte sul conto suo; chie
deva che il re dicesse almeno una parola affine di smentire quelle
false voci, per continuare o smettere la sua caccia. Quando Saint
Martin fu partito, fece vista di voler andar a sentire dei comme
dianti che altri aveva fatto venire. Qualche tempo dopo, chiama Spa
lungue e gli dice che il re doveva andare a Beauvois-Nangis, che non
se n'era ricordato nel mandare Saint Martin, che andasse a Charen
tone, e, se per avventura il re non fosse già passato, lo vedesse e por
tasse a Parigi la conferma del primo messaggio.
» Queste precauzioni giovarono molto, perchè Saint Martin trovò
l'allarme al campo: si stava per ordinare alle compagnie di battere le
strade. Tutto fu allora sospeso, mentre Saint Martin andò a vedere il
re che s'alzava di letto. L'altro messo , lasciata la strada maestra, si
smarri verso San Mauro e arrivò solamente nel dopo pranzo.
» Quando la regina vide che si era, mandato un secondo messo,
non dubitò più della frode; ma gli avvisi vennero solamente in sul far
della sera, quando il re di Navarra, era già molto lontano. Egli aveva
scelto i suoi più fedeli, e condotto seco il conte di Grammont, Caumont
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 291

figlio di La Valette e poi duca di Epernon, Chalandray, le Mont de


Maras e Poudins, per legarli al suo partito o per diminuire il numero
di coloro che avrebbero riferito le cose alla corte. Con fatica potè trovar
la strada in mezzo al bosco in una notte oscurissima e rigida, ma il
soccorso di Fontenay gli fu molto utile a proposito.
» Enrico passa dunque il fiume allo spuntare del giorno a una
lega da Paissy, traversa un gran paese della Beauce tutto pieno di ca
valleggeri, si ferma a prender cibo a Châteauneuf: quindi prende per
guida il suo maresciallo d'alloggio L'Epine, quando già le compagnie
dovevano essere avvertite di dargli la caccia, e il giorno dopo entra per
tempissimo in Alençon.
» In tre giorni arrivarono ad Alençon duecentocinquanta gentiluo
mini, fra gli altri Fervaques, per l'accidente che racconterò. Intanto
che i due scudieri a Parigi preparavano, come ho detto, i loro cavalli,
Crillon passò dinanzi a loro al trotto; e uno di essi avendolo seguito,
lo vide che s'era fermato davanti al Croissant e chiamava Fervaques
per la finestra. Era per dirgli, non senza bestemmiare «quando tu sei
uscito dal gabinetto, il re si è gettato sul letto tutto infuriato e ci ha
detto: - vedete quel traditore? Egli ha messo in capo a mio co
gnato l'idea di fuggire ed altri malvagi disegni; poi è venuto a sve
larmi tutto per tradirci tutti due insieme. Non gli farò tagliar la testa,
sarà appiccato. - Addio; pensa ai fatti tuoi. Per me non voglio che mi
trovino qui. Non mi rovinare per averti fatto un tratto da amico. »
Allora Fervaques si vestì e si nascose. Arrivato ad Alençon, quantunque
il gentiluomo che l'avea veduto nel gabinetto del re e che l'avea aspettato
fuori del Louvre, sostenesse ch'egli era un traditore, Fervaques essen
dosi scusato dicendo che la signora di Carnavalet era stata la prima
ad avvertire il re e l'avea obbligato a scoprir tutto, il re di Navarra
gli menò buona questa scusa e l'accettò al suo servizio. (D'Aubigné
Storia Universale, libro II, cap. XX).

i
XILI

DE LA FORCE

(1574)

Al tempo del massacro degli Ugonotti, la notte di San Bartolomeo,


nel momento in cui gli assassini penetravano in via di Senna, il signor
de la Force che abitava in quel quartiere, spinto da suo fratello a fug
gire con lui ed altri gentiluomini protestanti, non volle abbandonare
suo figlio maggiore ch'era convalescente e non avrebbe potuto seguirlo.
Si chiuse in casa coi servi e con due figli, e si vide ben tosto circondato da
soldati che venivano per metterli a morte. Offerse al capo di quei mi
serabili duemila scudi di riscatto, e furono condotti in una casa della
via dei Campicelli, e quivi lasciati in custodia di due Svizzeri, dopo
che il signor de la Force ebbe dato la sua parola che egli e i suoi
figli non avrebbero cercato di fuggire. Per tenere appunto la sua pa
rola, l'infelice padre resistette alle offerte de' suoi custodi, che gli
proposero di metterlo in salvo, e non volle consentire nemmeno che il
più giovane de' suoi figli fosse salvato,
« La mattina dopo, dicono le Memorie di la Force, arrivò il conte
di Coconas, con quaranta o cinquanta soldati svizzeri e francesi. Tutti
salirono in casa. Coconas disse al de La Force: sono venuto a pren
dervi per ordine del fratello del re, il quale fu avvertito che siete stato
ritenuto prigioniero e vuol salvarvi.
» Le maniere di costui facevano abbastanza conoscere qual fosse il
suo disegno. Vedendo come i prigionieri volevano mettersi in uno stato
più decente e prendere il loro mantello, disse che non c'era bisogno
di tante cerimonie, e che solamente facessero presto a seguirlo. Ei soldatili
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 293

spogliarono subito dei loro mantelli e cappelli, in modo che capirono


bene che si voleva condurli alla morte.
» Il signor de la Force disse agli sgherri, che non volevano già
condurli al Lcuvre, ma al macello; si lamentò fortemente che si man
casse alla parola che gli era stata data, assicurando che il danaro che
aveva promesso per il suo riscatto, era pronto.
» Coconas li fece uscire dalla casa con due uomini a fianco di cia
scuno di essi, e ordinò a' suoi di menarli al macello.
» Il padre andava avanti; lo seguiva il figlio maggiore, dietro a
questo il minore. Essendo arrivati in fondo della via de' Campicelli,
vicino al baluardo, i soldati gridarono ammazza, ammazza. Si danno
più colpi di pugnale al maggiore dei ragazzi, che cade gridando,
« mio Dio, son morto ». Il padre volgendosi verso di esso è tosto tra
fitto. Il più giovane coperto di sangue, ma che però non era stato col
pito per miracolo, gridò tosto come ispirato dal cielo: son morto; e nel
medesimo tempo si lasciò cadere tra suo padre e suo fratello; i quali
sebbene fossero già in terra, ricevettero molti colpi, mentre egli non
ebbe nemmeno una scalfittura. Dio lo protesse visibilmente, in modo
che, sebbene gli assassini gli spogliassero tutti, lasciandoli nudi e
senza camicia, non riconobbero mai che ce n'era uno che non aveva
ricevuto nemmeno una ferita.
» Quando credettero di averli finiti, si ritirarono dicendo: eccoli bene
accomodati tutti e tre.
» Il corpo del giovane Caumont non fu colpito, ma l'animo suo
era crudelmente agitato, perchè suo padre avea tardato molto tempo a
spirare e il misero giovinetto lo senti sospirar più volte. Che angoscia
di trovarsi fra un padre e un fratello ferocemente massacrati e i cui
singhiozzi erano tanti colpi di pugnale che gli trafiggevano il cuore !
Che speranze poteva concepire? quantunque Iddio l'avesse preservato
sin allora, vedeva bene che senza un nuovo miracolo non poteva
salvarsi dalla rabbia di un popolo ammutinato.
» Restò così ignudo, quando, versole quattropomeridiane, la gente
delle case vicine, uscendo sia per cùriosità sia per ghermire quello
che gli assassini potevano aver lasciato loro, si avvicinò per visitare i
corpi. Uno annotatore al giuoco delle palle in via Verdelet, volendo
cavargli una calza che gli era rimasta in gamba, lo rivoltò, perchè
giaceva bocconi, e vedendolo cosi giovane,sclamò: ahimè! questo èun
povero ragazzo! che peccato! che male poteva aver fatto?
» Il giovane Caumont sentendolo levò adagio adagio la testa e
disse piano: io non sono morto; vi prego, salvatemi la vita.
» Ma l'altro, mettendogli subito la mano sopra la testa, gli disse:
non vi movete; sono ancora là. Così fece il giovinetto; e quell'uomo
passeggiando su e giù, un po' di tempo dopo, tornò a lui e gli disse:
alzatevi; se ne sono già andati. E subito gli gettò addosso un mantel
29 DE LA FORCE

laccio, perchè era ignudo nato, e fingendo di batterlo se lo cacciava


innanzi. Chi conducete? gli domandarono i vicini. – E mio nipote ch'è
briaco e che io batto come merita, rispose quell'uomo. – Così lo
menò, passando dinanzi a molti corpi di guardia, perchè ce n'era
pure in tutti i canti, a casa sua, molto in alto, in una cameruccia dove
erano sua moglie e suo nipote, e lo fece nascondere nel pagliericcio.
» Poco dopo avendo osservato che aveva degli anelli in dito, gli
disse ch'era povero nn canna e non aveva neppure a dargli da man
giare e gli chiese gli anelli.
» Il giovanetto glieli diede tutti, fuorchè uno che voleva serbare come
memoria di sua madre; ma la donna avida, sentito questo, gli
disse che, poichè gli salvavano la vita, era giusto che desse tutto. In
darno rispose che non poteva spogliarsi di quell'anello perchè, venendo
da sua madre, servirebbe a farlo riconoscere. Quella donna ostinata lo
volle assolutamente e disse al giovinetto che, se non glielo dava, l'a
vrebbe fatto ripigliare. Allora egli dette pur quello, e la donna gli
portò qualche cosa da mangiare e un poco di vino.
» Quell'uomo chiese allora a Caumont che volesse fare e gli offerse
di condurlo al Louvre, dicendo che ci aveva una sorella chiamata ma
dama di Larchart, ch'era presso alla regina. L'uomo gli rispose: ra
gazzo mio, io non oserei di condurvi là. Ci sono tanti corpi di guardia
da passare, che qualcheduno vi riconoscerebbe e saremmo uccisi tutti
e due.
» Allora il giovinetto gli propose di condurlo all'Arsenale, ove
stava sua zia, madama di Brisambourg. Quell'uomo acconsenti, dicendo:
è molto lontano; ma andremo piuttosto là, perchè lungo i baluardi non
trOVeremO neSSulInO.
» La mattina per tempissimo, gli danno dei calzoni sporchi di
tela, un vestito pur sudicio, il mantello che gli avevano messo il giorno
prima, con una berretta rosso-scura, su cui pongono una croce di piombo
Arrivarono alla prima porta, quando il giorno era appena cominciato.
Ma siccome quella casa era molto lontana dai fabricati, il giovane
de la Force disse a colui che lo conduceva: restate qui; vi manderò
gli abiti che mi avete prestato, coi trenta scudi che vi ho promesso.
» Restò un pezzo alla porta non osando picchiare, per timore che
gli si domandasse chi era; poscia, essendo uscito qualcuno , si avanzò
destramente senza che nessuno gli dicesse niente. Traversò tutta la corte e
se ne andò dritto in casa, guardando se ci fosse per avventura qual
cuno di sua conoscenza, perchè pensava che, vedendolo così in mal ar
nese, non lo lascerebbero entrare. Non poteva dire il suo nome, te
mendo d'incontrare qualche assassino come quelli che aveva trovato.
» Torna qui in acconcio di ricordare che un paggio del signor de la
Force si era salvato al momento del massacro: il suo nome La Vigerie,
ma in casa lo chiamavano l'Alverniate per distinguerlo da suo fratello.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 295

Quando Coconas ebbe fatto uscire il signor de la Force e i suoi figli


dalla casa ove erano custoditi da due Svizzeri, uno di questi disse al
paggio: fuggite, perchè qui sarete spacciato. Fuggì, ma si fermò al
cuni passi lontano, dove vide cadere il padre e i due figli: si ritirò la
stessa notte all'Arsenale, e gli riuscì facile il mettersi in salvo, im
perocchè portava una livrea simile a quella del conte di la Marck,
ch'era uno dei capi del massacro. Questo Alverniate diceva dunque
a tutti i corpi di guardia: soao un paggio del conte di la Marck,
e vado a trovare per parte sua il maresciallo di Biron all'Arsenale.
Quivi si recò da madama di Brisambourg e le raccontò che aveva veduto
uccidere il signor de la Force e i suoi due figli, cosa che cagionò un
vivo dolore a quella buona signora.
» Abbiamo lasciato il giovane Caumont nell'incertezza sul modo
in cui doveva entrare nell'Arsenale. Per sua buona ventura, mentre si
apriva la porta, scorse l'Alverniate e lo chiamò per nome. Ma non ebbe
risposta, sia che quegli, credendolo morto, non avesse riconosciuto la
sua voce, sia che non lo avesse sentito.
» Si aperse un'altra volta la porta e, il paggio essendo ancora in
quel luogo, Caumont lo chiamò due o tre volte « oh l'Alverniate, l'Al
verniate! » Il paggio usci subito. Chi siete? gli disse. – Il giovane
de la Force gli rispose: non mi riconoscete?
» Avendolo considerato più attentamente, «Ah! mio Dio, soggiunse,
siete voi, signore: non vi aveva riconosciuto. » Allora Caumont gli chiese
se ci fosse all'Arsenale qualcuno degli uomini di suo padre. Il paggio
fattolo entrare, lo condusse ad un gentiluomo della sua casa chiamato
Beauvilliers du Maine, che passeggiava col maggiordomo di madama
di Brisambourg. Furono tutti due molto sorpresi e contenti di vederlo,
poichè, per quanto aveva raccontato il paggio, lo credevano morto. Lo
condussero subito alla camera di quella signora, ch'era ancora a letto,
afflittissima di tante disgrazie. Quando furono giunti in presenza di lei,
essa l'abbracciò tutta bagnata di lagrime, poichè aveva creduto ch'egli
pure fosse stato assassinato cogli altri, lodando Iddio di vederlo salvo,
e gli domandò come questo fosse avvenuto.
» Allora egli le raccontò in breve come Dio lo avesse assistito e
come quel povero uomo lo avesse condotto in casa sua e poi dalla si
gnora; che gli avea promesso di dargli trenta scudi e restituirgli gli
abiti, e che l'uomo stava aspettando alla porta di casa.
» Madama di Brisambourg lo fece subito mettere in letto nella
camera delle sue donne e mandò a quell'uomo gli abiti e i trenta
scudi. Circa due ore dopo fece portare a suo nipote un abito di paggio
colla livrea del maresciallo di Biron, ch'era allora gran maestro del
l'artiglieria; poi, avendolo fatto passare per la camera di quel signore,
lo condusse nel suo gabinetto, perchè non fosse nè veduto nè conosciuto
da nessuno; e per paura che si annoiasse, gli diedero per compagno
l'Alverniate. -
996 DE LA FORCE

» Restò colà due giorni. Intanto il maresciallo aveva ricevuto av


viso che si era fatto sapere al re, come avesse dato ricovero a parecchi
Ugonotti nell'Arsenale e che Sua Maestà avea deciso di mandar a frugare
per tutto. Il maresciallo si mise in una gran collera, e disse ch'egli
saprebbe bene impedire che altri venisse a mescolarsi dei fatti suoi, e
fece puntare tre o quattro pezzi di cannone alla porta dell'Arsenale.
» Malgrado tutte le precauzioni ch'erano state prese per nascon
dere il giovane la Force, la notizia della sua liberazione arrivò al
Louvre. Perciò la regina madre, pregata dal signor Larchant, capitano
delle sue guardie, mandò un gentiluomo all'Arsenale a domandare per
parte sua il giovane la Force. Si rispose che non c'era; lo si fece uscire
dal gabinetto del maresciallo e lo si condusse nella camera delle due
figlie, dove fu coperto con delle sottane che si portavano in quel tempo;
lo che fece dire a diversi che madama di Brisambourg l'avea nascosto
sotto le sue sottane.
» Quindi il gentiluomo, avendo cercato per tutto, riferì alla regina
che non avea trovato quello che cercava. Il signor de Larchant ne fu
addoloratissimo. Siccome egli aveva un grande interesse alla morte
del giovanetto, imperocchè, avendo sposata una figlia del primo letto
di sua madre, diventava erede di tutti i beni del signor de la Force, si
diceva pubblicamente al Louvre ed in Parigi che non si sarebbe dato
l'ordine di massacrare quei due innocenti se Larchant non ci avesse
avuto interesse.
» Il giovane la Force restò così nascosto sino ad un'ora dopo mez
zanotte. Fu tolto di là per ricondurlo nel gabinetto del maresciallo.
Madama di Brisambourg era impaziente di fare che trovasse un asilo
altrove, perchè si era già sparsa la voce che si fosse ricoverato al
l'Arsenale.
» Il signor di Born, tenente generale d'artiglieria, venne la mat
tina dopo a prendere il così detto paggio, lo condusse a far colazione
in un lungo appartato, poi gli disse: seguitemi. Allora uscì dall'Arse
nale e lo condusse dal signor Guillon, controllore dell'artiglieria, che
era suo amico; e disse al giovinetto che, se gli fosse domandato il suo
nome, dicesse che si chiamava Beaupuy e ch'era figlio del signor di
Beaupuy, tenente nella compagnia dei gendarmi del maresciallo di
Biron; e lo esortò a non uscire dalla casa dove lo si conduceva e di
non far nulla che potesse farlo riconoscere.
» Il signor di Born, che avea una gamba di legno, essendo montato
a cavallo per andare da Guillon, il giovane la Force lo segui a piedi
da lontano; poi confessò ch'era stato in continue angustie, cosa che
non è difficile da credere, a cagione dei grandi pericoli in cui s'era
trOvato.

» Essendo giunto a casa del controllore, Born gli disse: Voi siete
mio amico. Vi prego, fatemi il piacere di tener qui questo giovinetto
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 297

mio parente. È figlio del signor di Beaupuy che comanda la compagnia


dei gendarmi del maresciallo Biron. L'ho fatto venire per metterlo a
fare il paggio; ma aspetto che sia passata la confusione in cui siamo,
come vedete.
» Il controllore acconsenti di buon grado; ma quantunque fosse
suo amico, Born non volle dirgli chi fosse il giovane. Guillon aveva
però sospettato che non gli dicesse tutto.
» Caumont si trovava in quella casa da sette od otto giorni, e il
controllore, che andava ogni giorno all'Arsenale per sapere che ci fosse
da fare, non mancava all'ora del pranzo di andar a vederlo.
» Accadde una volta che, all'ora in cui Guillon per solito tornava
a casa, il giovane, sentendo bussare alla porta, andò ad aprire, credendo
che fosse il suo ospite. Ma, veduto ch'era un altro ch'egli non conosceva
la chiuse in fretta. L'altro gli gridò: lasciatemi entrare; ho da parlarvi.
Essendo entrato, gli disse che l'avea mandato madama di Brisambourg,
e ch'era inquieta non ricevendo sue notizie e non sapendo dove fosse,
e poi usci da quella casa.
» Il controllore, essendo tornato a pranzo, gli chiese, come era solito
di fare, se fosse venuto nessuno in casa. La Force gli disse di sì e gli
raccontò tutto quello ch'era avvenuto. Questo diede l'allarme a Guillon,
in modo che, lasciando stare il pranzo, montò subito a cavallo per andar
a trovare il signor di Born ed avvertirlo. Questi, per chiarire la cosa,
andò dalla signora di Brizambourg, che ne fu molto maravigliata, non
avendo mandato nessuno. »
La signora di Brisambourg, prevedendo che presto o tardi suoni
pote potrebbe essere riconosciuto, aveva ottenuto da suo fratello, il ma
resciallo di Biron, che domandasse al re un passaporto per il suo mag
giordomo e un paggio che mandava in Guienna a prender la sua car
rozza e la sua compagnia di gendarmi.
Si affidò il giovane la Force, come paggio, a un gentiluomo che
faceva la parte di maggiordomo. Il signor di Born fece loro passare
senza difficoltà le porte di Parigi e si diressero verso la loro destina
zione. Il viaggio non fu senza ostacoli. A due giornate da Parigi il gio
vane riconobbe la veste da camera di suo fratello addosso a uno dei
suoi assassini, che si vantava de'fatti suoi; ma nel medesimo tempo
seppe che suo zio era sfuggito al massacro con un centinaio de'suoi
gentiluomini. Poscia l'uomo che guidava il giovane proscritto, per poco
non l'espose a un grave pericolo, biasimando publicamente in un
albergo la strage di San Bartolomeo. Finalmente, dopo aver incontrato
altre avventure, giunsero, dopo otto giorni di viaggio, in Guienna, al
castello di Castelnau-des-Mirandes, dove si era ritirato il signor di Cau
mont, che ricevette suo nipote con una immensa gioia, avendolo cre
duto già morto, e vedendo che Dio lo aveva preservato da cosi grandi
pericoli (Memorie di Caumont de la Force).
XIII

MARIA STUARDA

(1568)

Quando i lordi scozzesi confederati a cui Maria Stuarda si era ar


resa dopo la sua disfatta a Carberyhill, ebbero deciso di ritenerla pri
gioniera e di detronizzarla, la chiusero nel castello di Loch Leven, si
tuato in un'isola del lago di questo nome. Scelsero quella fortezza non
solamente per causa della posizione, ma sopratutto perchè la reale pri
gioniera doveva esservi posta sotto la custodia della persona che piu
la detestava, Margherita Erskine, madre di Guglielmo Douglas, il posses
sore di Loch Leven.
Questa donna aveva avuto da Giacomo V un figlio, che ella si ostinava
a considerare come erede legittimo della corona di Scozia e che, a suo
parere, Maria Stuarda avea spogliato della dignità che gli era dovuta.
Al risentimento dell'orgoglio ferito e dell'ambizione delusa s'aggiun
geva in Margherita l'ardore di una pietà intollerante. Essa era una
zelante presbiteriana; e il suo carattere, le sue credenze, la sua paren
tela, i suoi rancori facevano di lei un'inesorabile custode della povera
regina.
Dopo di essere stata costretta dalla violenza a rinunciare alla co
rona in favore di suo figlio, Maria Stuarda fu sottoposta ad una sor
veglianza ancora più dura per timore che s'indirizzasse a sovrani stra
nieri per reclamare il loro appoggio, o che si mettesse d'accordo cogli
amici che aveva in Iscozia per fuggire dal suo carcere.
Chiusa in una torre, in mezzo ad un'isoletta in cui aveva appena
uno spazio di sessanta piedi. per passeggiare, non poteva scrivere che
PUGIE ED EVASIONI CELEBRI 29)

nel tempo in cui o mangiavano od erano a letto i suoi custodi, le cui


figlie dormivano vicino a lei.
Ma tutte queste precauzioni dovevano essere insufficienti. La sua
bellezza, la sua grazia, le sue sventure esercitavano un irresistibile
potere sopra coloro che l'avvicinavano. Uno dei figli di Margherita
Erskine, Giorgio Douglas, fratello uterino del reggente Murray, si
lasciò vincere dalla sua dolcezza e commuovere dalle sue sventure.
Innamorato della seducente prigioniera, che non lo scoraggiava
nelle sue speranze, Douglas decise di liberarla. Una prima volta, delu
dendo la sorveglianza di sua madre, fece sortire Maria dal castello,
cogli abiti della stiratrice che portava la sua biancheria a Loch Leven.
La prigioniera così travestita avea già passato tutte le porte senza es
sere riconosciuta. Era già entrata nel battello che dovea condurla sul
l'altra riva, dove Giorgio Douglas ed alcuni suoi partigiani l'aspetta
vano. Si credeva salva, ma a mezzo il tragitto uno dei barcaiuoli, cre
dendo di aver da fare con una persona della sua condizione, volle per
ischerzo alzar il suo velo. Maria vi pose rapidamente la mano per
non lasciarsi vedere in viso, e la bianchezza e la bellezza di quella
mano fecero indovinare al barcaiuolo che era la regina.
Così scoperta Maria non si sbigotti, e ordinò ai barcaiuoli, sotto
pena della vita, di farla scendere sull'altra riva. Ma essi, temendo più
la severità del laird di Loch Leven che le minaccie di una regina de
tronizzata, la ricondussero nella fortezza.
Dopo questo infelice tentativo, il 25 marzo, Giorgio Douglas era
stato mandato via dall'isola, ma ci aveva conservato delle intelligenze
con un suo giovane parente, un ragazzo di quindici o sedici anni, chia
mato il piccolo Douglas, ch'era rimasto nel castello e serviva lady Mar
gherita in qualità di paggio.
La prigioniera, disperando di ricuperare la sua libertà, vedeva
divenire ogni giorno più severa la sorveglianza che si esercitava
sopra di lei. Cercando per tutto dei protettori, scrisse alla regina
Elisabetta, a Caterina dei Medici e a Carlo IX per supplicarli di aver
pietà di lei e di darle soccorso.
Nel momento in cui si credeva condannata a una prigionia per
petua, Giorgio Douglas, coll'ajuto di suo cugino, il giovane paggio,
preparava la sua evasione, mentre i Seaton e gli Hamilton, avvertiti
da esso, si tenevano pronti a ricevere la regina al suo uscir dal ca
stello.
La domenica 2 maggio 1568 fu scelta per questa seconda fuga,
meglio concertata della prima. Tutti mangiavano in comune a Loch
Leven, e intanto le porte della fortezza erano chiuse e le chiavi poste
sulla tavola presso al castellano.
Durante la cena il piccolo Douglas, posando un piatto dinanzi al
laird, riuscì a impadronirsi delle chiavi. Poscia condusse Maria e la
300 MARIA STUARDA

sua cameriera fuori della torre, mentre tutti dormivano, chiuse le porte
del castello dietro di loro per impedire che i fuggitivi fossero inseguiti,
mise la regina e la dama che l'accompagnava in un piccolo battello, e
remò a voga arrancata finchè ebbero afferrato l'altra riva, dopo di aver
avuto la precauzione di gettar nel lago le chiavi del castello.
Al momento di cominciare quel pericoloso viaggio, il giovanetto
fece un segnale convenuto, ponendo a una finestra un lume, che po
teva esser veduto dall'estremità più lontana del lago, per informare i
suoi amici che il piano era riuscito.
Lord Seaton e diversi membri della famiglia di Hamilton li atten
devano allo sbarco. La regina montò subito a cavallo e si diresse in
fretta a Niddry, residenza di Seaton, nel Lothian occidentale, onde si
recò, dopo alcune ore di riposo, al castello di Hamilton.
Colà fu ricevuta dall'arcivescovo di Sant'Andrea e da lord Claude,
che le era andato incontro con cinquanta cavalli.
La notizia di questa evasione, dice Walter Scott, si sparse in Iscozia
colla rapidità del lampo, e per tutto fu ricevuta con entusiasmo. Il po
polo si ricordava l'affabilità, la grazia, la bellezza e la sventura di
Maria; se si ricordava i suoi errori, diceva ch'erano stati abbastanza
severamente puniti.
Alla domenica Maria era ancora una infelice prigioniera, abbando
nata senza soccorso in una torre solitaria. Il sabato seguente si trovava
alla testa di una potente confederazione, per cui nove conti, otto lord,
nove vescovi e un gran numero di gentiluomini del più alto rango si
erano obbligati a difenderla e renderle la sua corona. Ma quel raggio
di speranza non durò che un momento.
Le chiavi gettate dal paggio nel lago furono trovate nel 1805 da
un pescatore e sono depositate a Kinross. Si chiama ancora Mary's
Knouve (collina di Maria) il luogo dove la regina fuggitiva sbarcò sulla
riva meridionale del lago.
XLIII

BENVENUTO CELLINI

(1535)

Prima di narrare colle parole stesse di Benvenuto Cellini o seguen


done le traccie, la sua fuga da Castel Sant'Angelo di Roma, vo
gliamo riassumere quello che di quel grande e bizzarro Italiano, come
artista, come uomo, e come scrittore , dice il valentissimo critico Eu
genio Camerini nella sua prefazione alla Vita di Benvenuto,
» Le confessioni del Cellini sono forse più sincere e assai più dram
matiche di quelle di G. G. Rousseau. Ai di nostri riescono forse di
maggiore scandalo; perchè la corruzione psicologica del passato secolo
si accetta più volontieri che il dar di piglio nel sangue o l'abbandono
in turpi peccati. Ma a quei tempi l'arte assolveva di tratto l'omicida,
sol che avesse una giusta o colorata cagione di vendetta. Onde il Cel
lini non tocca d'un omicidio che uno sguardo bieco del Papa,e dopo un
altro, due cardinali gareggiano nel dargli asilo. Vediamo nella Vita
Tobia, che per aver falsificato monete era condannato alle forche e al
fuoco, essere assoluto da Clemente VII pel suo valore nell'oreficeria.
Alla festa delle Marie i non ben pentiti, andando a processione, tor
navano puri e mondi come Naaman lavatosi sette volte nel fiume
Giordano,
» Benvenuto Cellini è un vivo rappresentante della sua età; ne
ha tutta la potenza d'ingegno e di creazione, e tutti i vizj che la
rodevano e dovevano un giorno, sotto le belle sembianze, ridurla a non
contenere altro che cenere, come i pomi dell'Asfaltite. Egli era vera
302 BENVENUTO CELLINI

mente, forse perchè artista e non letterato, cristiano di fede, se non


di costumi; e come i suoi coetanei, letterati od artisti, superstizioso.
» Il Cellini, secondo l'indole de' suoi contemporanei, era vendica
tivo, ora fieramente, ora puerilmente; come quando uccise l'uccisore
del fratello o quando tritò con un coltello i letti dell'oste indiscreto e
villano. La smania della vendetta era una malattia in lui, e bene
Clemente VII, allorchè lo rivide dopo l'omicidio, gli disse: « Ora che
tu sei guarito, attendi a vivere. » il Mariette lo disse un faux brave
a proposito dell'incontro al Quai des Augustins a Parigi, quando aveva
al braccio quella sportellina con mille scudi d'oro; non pare a ragione;
sebbene di quel Corsetto che gli aveva affilato dietro Pierluigi Farnese,
sembra del suo stesso racconto che temesse un poco. Amava la vita,
perchè sapeva gioirne; e solo per levarsi di travaglio, ammazzava e
senza farsi aiutare, ma il più a buona sicurtà.
» Più che la luce ch'egli diffonde sopra molti personaggi storici, piac
ciono i ritratti ch'egli fa di colpo degli originali che di quel tempo
abbondavano al mondo assai più che adesso, e che nel loro fiore
erano stati dipinti stupendamente nell'Elogio delta Pazzia di Erasmo.
» Il Cellini fu generalmente verace ed equo ne' suoi giudizi. --
Fra i re egli esaltava Francesco I, il quale checchè ne cicalino ora
gli storici paradossai, fu un principe di alti spirti e vero protettore
delle arti. Non solo le amava, ma le pregiava grandemente, tanto che
credeva annobilissero i suoi cultori e li degnava all'onore della sua
famigliarità. Non so dove quella nobile figura spicchi sì bene come
nelle pagine del Cellini.
» Insomma il Cellini mirava in tutto all'ottimo, il che prova l'ar
monia delle facoltà intellettuali negl'ingegni veramente grandi.
» L'energia dell'anima, accoppiandosi alla felicità dell'ingegno ,
fece sommo il Cellini. Quando i vecchi dell'arte gli dicevano, che ve
nendo al tingere certe gioie, tremerebbe a verga a verga, egli nota:
«Se bene io non avevo una paura al mondo, quel loro maraviglioso modo
di meravigliarsi mi facea alquanto star sopra di me: ma pur ricordatomi
di quel dono che Iddio ci dà, il quale viene senza studio nessuno, sì come è
la bellezza, la forza e l'agilità, a me mi pareva avere da Dio una sicura
animosità; e sentendomi svegliar da quella, di tutte quelle loro pap
polate che mi dicevano ridendomene da per me, e' mi venne in memoria
quando Febo spaventava il suo figliuol Fetonte di non voler pigliar
l'impresa di guidar il carro del sole; pure alla fine a me successe
meglio che non fece a Fetonte, che vi ruppe il collo, dove io ne sortii
con molto onore ed utile.» E quando si levò per risuscitare e far li
quido il migliaccio nel getto del Perseo dice: « Subito ricorsi a quella
natural virtù dell'animosità, la qual non s'impara per studio nessuno,
ma bisogna che la sia naturale.» Onde quella sua bravuria, vocabolo
che egli volgeva anche a significare la potenza di Dio, non l'abbando
nava nell'arte più che si facesse nella vita.
PUGHE ED EVASIONl CELEBRI 303

» Egli fu universale; prosatore unico,senza saperlo; musico a suo


dispetto, poeta a dispetto delle Muse; ed anche ingegnere militare,
come il suo Michelangelo; se non che questi afforzava Firenze contro
i Medici, e Benvenuto a loro difesa: orefice unico e valente scultore.»
Cellini fu arrestato a Roma , mentre sedeva sul trono pontifi
cio Paolo III; era accusato di aver rubato delle gioie al tempo del
sacco di Roma. Fu chiuso in Castel Sant'Angelo.
Non è a dire se Benvenuto si lamentasse dell' ingiustizia che gli
pareva essergli fatta. « È questa dunque, disse al castellano di Sant'An
gelo e a' suoi ministri, è questa dunque la temeraria pretesca re
munerazione, che si usa a uno uomo che vi ha con tanta fede e con
virtù servito e amato? O andate a ridire tutto quanto io v'ho
detto al papa, dicendogli , che le sue gioie e' l'ha tutte: e che
io non ebbi mai dalla Chiesa null'altro che certe ferite e sassate in
cotesto tempo del sacco; e che io non facevo capitale d'altro che di
un poco di remunerazione da papa Pagolo, quale lui mi aveva pro
messa. Ora io son chiaro e di sua Santità e di voi ministri. – Mentre
che io dicevo queste parole egli stavano attoniti a udirmi; e guardan
dosi in viso l'un l'altro, in atto di maraviglia si partirono da me.
Andavono tutti a tre d'accordo a riferire al papa tutto quello che io
avevo detto. Il papa vergognandosi, commesse con grandissima dili
genza che si dovessi rivedere tutti i conti delle gioie. Di poi che ebbon
veduto che nulla vi mancava, mi lasciarono stare in Castello senza dir
altro: il signor Pierluigi (Farnese, figlio del papa) ancora a lui paren
dogli aver mal fatto, cercavon con diligenza di farmi morire. »
Il re Francesco I di Francia, gran protettore dei letterati e degli
artisti, avendo inteso che il papa teneva prigione il Cellini, avea fatto
dal suo ambasciatore a Roma chiedere che lo lasciasse andare in Francia,
dove l'avrebbe volentieri preso al suo servizio. Ma il papa rispose che
teneva in carcere Benvenuto per omicidi e per altre diavolerie cosifatte.
Il castellano di Sant'Angelo, ch'era un Ugolini fiorentino, usava
però al Cellini le maggiori cortesie, e lo lasciava andar libero per il
castello a fede sua sola. Benvenuto faceva di necessità virtù, e lieta
mente il meglio che poteva si compensava quella sua perversa fortuna,
tanto più che il buon castellano gli dava comodità « di lavoracchiar
qualche cosa. » Avrebbe avuto in quel tempo il mezzo di fuggire, ma
non volle mancare al castellano della sua promessa fede. Poteva an
dare liberamente per tutto il castello, e manco la notte non lo sera
vano, sì come a tutti gli altri si faceva.
Benvenuto aveva improvvidamente insegnato ad un frate, ch'era
pur carcerato in Castello, in qual modo si potesse con la cera prender
l'impronta delle chiavi. Il frate gli rubò un pezzo della cera che gli
serviva per fare certe sue figurette, e con detto pezzo messe in opera
quel modo della chiave che Benvenuto inconsideratamente gli aveva
,
30 BENVENUTO CLUIII

mostrato, ed aveasi preso per compagno ed aiuto un cancelliere che


stava col castellano. Ma volendo fare le dette chiavi, il magnano li
scoperse. Caduti i sospetti sopra il Cellini, fu tenuto strettissimo ser
rato, ma poi, conosciuta la verità, il castellano ristrinse il frate, il quale
scoperse quel cancelliere che fu per essere impiccato, ed allargò Ben
venuto nel medesimo modo che si stava prima.
« Quando io veddi seguire questa cosa con tanto rigore, cominciai
a pensare ai fatti mia, dicendo: se un'altra volta venissi un di questi
furori, e che questo uomo non si fidassi di me, io non gli verrei a es
sere più ubbrigato, e vorrei adoperare un poco li mia ingegni, li quali
io son certo che mi riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio:
e cominciai a farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice
io non le rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro
che si stessin cheti, perchè io l'avevo donate a certi di quei poveri sol
dati; che se tal cosa si sapessi, quelli poveretti portavano pericolo della
galera: di modo che li mia giovani e servitori fidelissimamente, mas
simo Felice, mi teneva tal cosa benissimo segreto, le ditte lenzuola. Io
attendevo a votare un pagliericcio, ed ardevo la paglia, perchè nella
mia prigione v'era un cammino da poter far fuoco. Cominciai di queste
lenzuola a farne fascie larghe un terzo di braccio: quando io ebbi fatto
quella quantità che mi pareva che fussi abbastanza a discendere da
quella grande altura di quel mastio di castel Sant'Agnolo, io dissi ai
mia servitori, che avevo donato quelle che io volevo, e che m'attendes
sino a portare delle sottile, e che sempre io renderei loro le sudice.
Questa tal cosa si dimenticò. A quelli mia lavoranti e servitori il car
dinale Santiquattro e Cornaro mi feciono serrare la bottega, dicendomi
liberamente, che il papa non voleva intender nulla di lasciarmi andare,
e che quei gran favori del re mi avevano molto più nociuto che gio
vato; perchè l'ultime parole che aveva dette monsignor di Morluc da
parte del re, si erano istate, che monsignor di Morluc disse al papa
che mi dovessi dare in mano a' giudici ordinari della corte; e che, se
io avevo errato, mi poteva gastigare, ma non avendo errato, la ragion
voleva che lui mi lasciassi andare. Queste parole avevan dato tanto
fastidio al papa, che aveva voglia di non mi lasciare mai più. Questo
castellano certissimamente mi aiutava quanto e' poteva. Veduto in questo
tempo quelli nimici mia che la mia bottega s'era serrata, con ischerno
dicevano ogni di qualche parola ingiuriosa a quelli mia servitori e
amici che mi venivano a visitare alla prigione. Accadde un giorno in
fra gli altri che Ascanio, il quale ogni dì veniva dua volte da me, mi
richiese che io gli facessi una certa vestetta per sè d'una mia vesta
azzurra di raso, la quale io non portavo mai: solo mi aveva servito
quella volta che con essa andai in processione: però io gli dissi che
quelli non eran tempi, nè io in luogo da portare cotai veste. Il giovane

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 19.


Zizi , filio di Mametto II, prigioniero a Roma. Pag. 327.
306 BENVENUTO CELLINI

ebbe tanto per male che io non gli detti questa meschina vesta, che
lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze a casa sua. Io tutto
appassionato gli dissi, che mi faceva piacere a levarmisi dinanzi; e lui
giurò con grandissima passione di non mai più capitarmi innanzi.
Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del
castello. Avvenne che il castellano ancora lui passeggiava: incontran
doci appunto in Sua Signoria, Ascanio disse: Io me ne vo, e addio per
sempre. A questo io dissi: E per sempre voglio che sia, e così sia il
vero: io commetterò alle guardie che mai più ti lascin passare: e vol
tomi al castellano, con tutto il cuore lo pregai, che commettessi alle
guardie che non lasciassino mai più passare Ascanio, dicendo a Sua
Signoria: Questo villanello mi viene a crescere male al mio gran male;
e sicchè io vi priego, signor mio, che mai più voi lasciate entrar costui.
Il castellano gl'incresceva assai, perchè lo conosceva di maraviglioso
ingegno; appresso a questo egli era di tanta bella forma di corpo, che
pareva che ognuno, vedutolo una sol volta, gli fussi espressamente affe
zionato. Il ditto giovane se ne andava lacrimando, eportavane una sua
stortetta che alcune volte lui segretamente si portava sotto. Uscendo
del castello e avendo il viso cosi lacrimoso, s'incontrò in dua di quei
mia maggior nimici, che l'uno era quell'Ieronimo perugino sopradditto
e l'altro era un certo Michele, orefici tutt'a dua. Questo Michele, per
essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e nimico d'Ascanio, disse:
Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse gli è morto il padre? dico
quel padre di Castello. Ascanio disse a questo: Lui è vivo, ma tu sarai
or ora morto; e alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua colpi,
in sul capo tutt'a dua, che col primo lo misse in terra, e col secondo
poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli pure in sul capo. Quivi
restò come morto. Subito fu riferito al papa; e il papa in gran collera
disse queste parole: Da poi che il re vuole che sia giudicato, andategli
a dare tre di di tempo per difendere la sua ragione. Subito vennero e
feciono il detto ufizio che aveva lor commesso il papa. Quell'uomo dab
bene del castellano subito andò dal papa e fecelo chiaro come io non
ero consapevole di tal cosa, e che io l'avevo cacciato via. Tanto mira
bilmente mi difese, che mi campò la vita da quel gran furore. Ascanio
se ne fuggi a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse, chiedendomi
mille volte perdonanza, che conosceva avere auto torto ad aggiungnermi
dispiacere ai mia gran mali; ma se Dio mi dava grazia che io uscissi
di quel carcere, che non mi vorrebbe mai più abbandonare. Io gli feci
intendere che attendessi a imparare, e che se Dio mi dava libertà, io
lo chiamerei a ogni modo.
» Questo castellano aveva ogni anno certe infermità che lo traevano
del cervello affatto; e quando questa cosa gli cominciava a venire, e'
parlava assai, modo che cicalare; e questi umori sua erano ogni anno
diversi, perchè una volta gli parve essere un orcio da olio ; un'altra
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 307

volta gli parve essere un ranocchio, e saltava come il ranocchio; una


altra volta gli parve esser morto, e bisognò sotterrarlo: cosi ogni anno
veniva in qualcun di questi cotai umori diversi. Questa volta si co
minciò a immaginare d'essere un pipistrello e, in mentre che gli an
dava a spasso, istrideva qualche volta così sordamente come fanno i
pipistrelli, ancora dava un po' d'atto alle mane ed al corpo, come se
volare avessi voluto. Li medici sua, che se n'erano avveduti, così li sua
servitori vecchi, gli davano tutti i piaceri che immaginar potevano: e
perchè e' pareva loro che pigliassi gran piacere di sentirmi ragionare,
a ogni poco e' venivano per me e menavanmi da lui. Per la qual cosa
questo povero uomo talvolta mi tenne quattro o cinque ore intere, che
mai avevo restato di ragionar seco. Mi teneva alla tavola sua a mangiare al
dirimpetto a sè, e mai restava di ragionare o di farmi ragionare; ma io in
quei ragionamenti mangiavo pure assai bene. Lui povero uomo non man
giava e non dormiva, di modo che me aveva istracco, che io non poteva
più; e guardandolo alcune volte in viso, vedevo che le luce degli occhi
erano ispaventate, perchè una guardava in un verso, e l'altra in un
altro. Mi cominciò a domandare se io avevo mai auto fantasia di volare:
al quale io dissi, che tutte quelle cose che più difficili agli uomini erano
state, io più volentieri avevo cerco di fare e fatte; e questa del volare,
per avermi presentato lo Iddio della natura un corpo molto atto e di
sposto a correre ed a saltare molto più che ordinario, con quel poco
dello ingegno poi, che manualmente io adopererei, a me dava il
cuore di volare al sicuro. Questo uomo mi cominciò a dimandare che
modi io terrei: al quale io dissi, che considerato gli animali che volano,
volendogli imitare con l'arte quello che loro avevano dalla natura, non
c'era nissuno che si potessi imitare, se non il pipistrello. Come questo
povero uomo sentì quel nome di pipistrello, che era l'umore in quel
che peccava quell'anno, messe una voce grandissima, dicendo: E' dice
il vero, e' dice il vero; questa è essa, questa è essa: e poi si volse a
me e dissemi: Benvenuto, chi ti dessi la comodità, e'ti darebbe pure
il cuore di volare? Al quale io dissi, che se lui mi voleva dar libertà
da poi, che mi bastava la vista di volare insino in Prati, facendomi un
paio d'ale di tela di rensa incerate. Allora e' disse: E anche a me
ne basterebbe la vista; ma perchè il papa m'ha comandato che io
tenga cura di te come degli occhi suoi; io cognosco che tu sei un dia
volo ingegnoso che tu fuggiresti; però io ti vo' fare rinchiudere con
cento chiave, acciocchè tu non mi fugga. Io mi messi a pregarlo, ricor
dandogli che io m'ero potuto fuggire, e per amor della fede che io gli
avevo data, io non gli arei mai mancato; però lo pregavo per l'amor
di Dio, e per tanti piaceri quanti mi aveva fatto, che lui non volessi
arrogere un maggior male al gran male che io avevo. In mentre
che io gli dicevo queste parole, lui comandava espressamente che mi
legassino, e che mi menassino in prigione serrato bene. Quando io
308 BENVENUTO CELLINI

viddi che non v'era altro rimedio, io gli dissi, presenti tutti e sua:
Serratemi bene e guardatemi bene, perchè io mi fuggirò a ogni modo.
Così mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa diligenza.
» Allora io cominciai a pensare il modo che io avevo a tenere a
fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava
la prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato sicura
mente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo
iscendere da quella grande altezza di quel mastio, che così si domanda
quell'alto torrione: e preso quelle mie lenzuole nuove, che già dissi
che io ne avevo fatte istrisce e benissimo cucite, andai esaminando
quanto vilume mi bastava a poter iscendere. Giudicato quello che
mi potria servire, e di tutto messomi in ordine, trovai un paio di ta
naglie, che io avevo tolto a un Savoino il quale era delle guardie
del Castello. Questo aveva cura alle botti ed alle citerne; ancora si
dilettava di lavorare di legname: e perchè aveva parecchi paia di ta
naglie, infra queste ve n'era un paio molto grosse e grande: pensando,
che le fussino il fatto mio, io gliene tolsi e le nascosi drento in quel
pagliariccio. Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io co
minciai con esse a tentare di quei chiodi che sostenevano le bandelle;
e perchè l'uscio era doppio, la ribattitura delli detti chiodi non si po
teva vedere; di modo che provatomi a cavarne uno, durai grandissima
fatica; pure di poi alla fine mi riuscì. Cavato che io ebbi questo primo
chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere che loro non
se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di rastiatura
di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del medesimo colore
appunto di quelli cappelli d'aguti che io avevo cavati; e con essa
cera diligentemeute cominciai a contraffare quei cappei d'aguti in sulle
lor bandelle: e di mano in mano tanti quanti io ne cavavo, tanti ne
contraffacevo di cera. Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e
da piè con certi delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi li
rimessi, ma erano tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che e' mi
tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima dificultà,
perchè il castellano sognava ogni notte che io m'ero fuggito, e però
lui mandava a vedere di ora in ora la prigione; e quello che veniva
a vederla, aveva nome e fatti di birro. Questo si domandava il Bozza,
e sempre menava seco un altro, che si domandava Giovanni per so
prannome Pedignone; questo era soldato, e il Bozza era servitore.
Questo Giovanni non veniva mai volta a quella mia prigione, che lui
non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era di quel di Prato, ed era
stato in Prato allo speziale: guardava diligentemente ogni sera quelle
bandelle e tutta la prigione, ed io gli dicevo: Guardatemi bene, perchè
io mi voglio fuggire a ogni modo. Queste parole feciono generare una
nimicizia grandissima infra lui e me, in modo che io con grandissima
diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se dire tanaglie, e un pugnale
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI “ 309

assai ben grande, ed altre cose appartenenti, diligentemente tutti ri


ponevo nel mio pagliericcio: così quelle fasce che io avevo fatte, an
cora queste tenevo in questo pagliericcio; e come gli era giorno, subito
da me ispazzavo: e se bene per natura io mi diletto della pulitezza,
allora io stavo pulitissimo. Ispazzato che io avevo, io rifacevo il mio
letto tanto gentilmente, e con alcuni fiori, che quasi ogni mattina io
mi facevo portare ga un certo Savoino. Questo Savoino teneva cura
della citerna o dellé botte; e anche si dilettava di lavorar di legname;
e a lui rubai le tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste
bandelle.
» Per tornare al mio letto, quando il Bozza ed il Pedignone venivano,
mai dicevo loro altro se non che stessin discosto dal mio letto, accioc.
chè e' non lo imbrattassino e non me lo guastassino; dicendo loro per
qualche occasione, chè pure per ischerno qualche volta che così legger
mente mi toccavano un poco il letto, per che io dicevo: Ah i sudici
poltroni ! io metterò mano a una di coteste vostre spade, e farovvi tal
dispiacere che io vi farò maravigliare. Parve egli esser degni di toc
care il letto d'un mio pari ? A questo io non avrò rispetto alla vita
mia, perchè io son certo che io vi torrò la vostra; sicchè lasciatemi
stare colli mia dispiaceri e colle mia tribolazione, e non mi date più
affanno di quello che io mi abbia; se non che io vi farò vedere che
cosa sa fare un disperato. Queste parole costoro le ridissino al castel
lano, il quale comandò loro ispressamente, che mai non s'accostassino
a quel mio letto, e che, quando e' venivano da me, venissino senza
spade, e che m'avessino benissimo cura del resto. Essendomi io assi
curato del letto, mi parve aver fatto ogni cosa: perchè quivi era
la importanza di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra le
altre, sentendosi il castellano molto mal disposto, e quelli sua umori
cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che se
lor sentissino che Benvenuto fussi volato via, lasciassino andar lui, che
mi raggiugnerebbe, poichè e' volerebbe di notte ancora lui certamente
più forte di me, dicendo: Benvenuto è un pipistrello contrafatto, e io
sono un pipistrello daddovero; e perchè e' m'è stato dato in guardia
lasciate pur fare a me, che io lo giugnerò ben io. Essendo stato più
notti in questo umore, gli aveva stracco tutti i sua servitori; ed io
per diverse vie intendevo ogni cosa, massimo da quel Savoino che mi
voleva bene. Resolutomi questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo,
in prima divotissimamente a Dio feci orazione, pregando sua divina
Maestà che mi dovessi difendere e aiutare in quella tanto pericolosa
impresa; di poi messi a mano a tutte le cose che io voleva operare, e
lavorai tutta quella notte. Come io fui a due ore innanzi il giorno, io
cavai quelle bandelle con grandissima fatica, perchè il battente del
legno della porta, e anche il chiavistello facevano un contrasto, il per
chè io non poteva aprire: ebbi a smozzicare il legno: pure alla fine io
310 BENVENUTO CELLINI

apersi, e messomi addosso quelle fasce, quali io aveva avvolte a modo


di fusi di accia in su dua legnetti, uscito fuori me ne andai dalli de
stri del mastio; e scoperto per di dentro dua tegoli del tetto, su
bito facilmente vi saltai sopra. Io mi trovavo in giubbone bianco ed un
paie di calze bianche e simile un paio di borzacchini, ne' quali avevo
misso quel mio pugnalotto già ditto. Di poi presi un capo di quelle
mie fasce e l'accomodai a un pezzo di tegola antic ch'era murata nel
ditto mastio: a caso questa usciva fuora appena uattro dita. Era la
fascia acconcia a modo d'una staffa. Appiccata che io l'ebbi a quel
pezzo d'una tegola, voltomi a Dio, dissi: Signore Iddio, aiuta la mia
ragione, perchè io l'ho come tu sai e perchè io mi aiuto. Lasciatomi
andare pian piano, sostenendomi per forza di braccia, arrivai in sino
in terra. Non era lume di luna, ma era un bel chiarore. Quando io fui
in terra, guardai la grande altezza che io avevo isceso così animosa
mente, e lieto me ne andai via pensando d'essere isciolto. Per la qual
cosa non fu vero, perchè il castellano da quella banda aveva fatto fare
due muri assai ben alti, e se ne serviva per istalla e per pollaio: que
sto luogo era chiuso con grossi chiavistelli per di fuora. Veduto che io
non potevo uscir di quivi, mi dava grandissimo dispiacere. In mentre
che io andavo innanzi e indietro pensando ai fatti mia, detti dei piedi
in una gran pèrtica, la quale era coperta dalla paglia. Questa con
gran difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza di bracci la salsi
insino in cima del muro. E perchè quel muro era tagliente, io non
potevo aver forza da tirar su la ditta pertica; però mi risolsi appiccare
un pezzo di quelle fascie, che era l'altro fuso, perchè uno de'dua fusi
io l'aveva lasciato attaccato al mastio del castello: così presi un pezzo
di quest'altra fascia, come ho detto, e legatala a quel corrente iscesi
questo muro, il quale mi diede grandissima fatica e mi aveva molto
istracco, e di più avevo iscorticato le mane per di dentro, che sangui
navano; per la qual cosa io m' ero messo a riposare, e mi avevo ba
gnato le mane con la mia orina medesima. Stando così, quando e' mi
parve che le mie forze fussino ritornate, salsi all'ultimo procinto delle
mura, che guarda in verso a Prati : e avendo posato quel mio fuso di
fasce, col quale io volevo abbracciare un merlo, e in quel modo che io
avevo fatto nella maggior altezza, fare in questa minore; avendo, come
io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse addosso una di quelle sen
tinelle che facevano la guardia. Veduto impedito il mio disegno, e ve
dutomi in pericolo della vita, mi disposi di affrontare quella guardia,
la quale veduto l'animo mio deliberato, e che andavo alla volta sua
con armata mano, sollecitava il passo, mostrando di scansarmi. Alquanto
iscostatomi dalle mie fasce, prestissimo mi rivolsi indietro; e sebbene
lo viddi un'altra guardia, tal volta quella non volse veder me. Giunto
alle mie fasce, legatole al merlo, mi lasciai andare; per la qual cosa,
o sì veramente parendomi essere presso a terra, avendo aperto le mane
FUGEIE ED EVASIONI CELEBRI 31 1

per saltare, oppure eran le mane istracche, non possendo resistere a


quella fatica, io caddi, e in questo cader mio percossi la memoria e stetti
isvenuto più d'un'ora e mezzo, per quanto io posso giudicare. Di poi vo
lendosi far chiaro il giorno, quel poco di fresco che viene un'ora innanzi
al sole, quello mi fece risentire, ma sì bene stavo ancora fuor della me
moria, perchè mi pareva che mi fussi stato tagliato il capo, e mi pareva
d'essere nel purgatorio. Stando così, a poco a poco mi ritornorno le virtù
nell'esser loro, e m'avviddi che io ero fuora del Castello, e subito mi
ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E perchè la percossa della
memoria io la senti prima che io m'avvedessi della rottura della gamba,
mettendomi le mani al capo, ne le levai tutte sanguinose: di poi cer
catomi bene, cognobbi e giudicai di non aver male che d'importanza
fussi; però volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba
ritta sopra il tallone tre dita. Nè anche questo mi sbigotti: cavai il
mio pugnalotto insieme con la guaina; che per avere questo un pun
tale con una pallottola assai grossa in cima del puntale, questo era
stato la causa dell'avermi rotto la gamba perchè contrastando l'ossa
con quella grossezza di quella pallottola, non possendo l'ossa piegarsi,
fu causa che in quel luogo si roppe: di modo che io gittai via il fodero
del pugnale, e con il pugnale tagliai un pezzo di quella fascia che mi
era avanzata, ed il meglio che io possetti rimissi la gamba insieme;
di poi carpone con il detto pugnale in mano andavo inverso la porta.
Per la qual cosa giunto alla porta, io la trovai chiusa; e veduto una
certa pietra sotto alla porta appunto, la quale, giudicando che la non
fussi molto forte, mi provai a scalzarla; di poi vi messi le mane, e sen
tendola dimenare, quella facilmente mi ubbidì, e trassila fuora; e per
quivi entrai.
» Era stato più di cinquecento passi andanti dal luogo dove io caddi
alla porta dove io entrai. Entrato che io fui drento in Roma, certi cani
mastini mi si gittorno addosso e malamente mi morsono; ai quali,
rimettendosi più volte a fragellarmi, io tirai con quel mio pugnale e
ne punsi uno tanto gagliardamente, che quello guaiva forte, di modo
che gli altri cani, come è lor natura, corseno a quel cane: ed io sol
lecitai andandomene inverso la chiesa della Trespontina cosi carpone.
Quando io fui arrivato alla bocca della strada che volta in verso San
t'Angelo, di quivi presi il cammino per andarmene alla volta di San
Piero, per modo che faccendomisi di chiaro addosso, considerai che io
portavo pericolo; e scontrato un acquerolo che aveva carico il suo asino
e pieno le sue coppelle d'acqua, chiamatolo a me, lo pregai che lui mi
levassi di peso e mi portassi in su il rialto delle scalee di San Piero,
dicendogli: Io sono un povero giovane, che per casi d'amore sono vo
luto iscendere da una finestra; così son caduto, e rottomi una gamba.
E perchè il luogo dove io sono uscito è di grande importanza, e por
terei pericolo di non essere tagliato a pezzi, però ti priego che tu mi
312 BENVENUTO CELLINI

lievi presto, ed io ti donerò uno scudo d'oro; e messi mano alla mia
borsa, dove io ve ne avevo una buona quantità. Subito costui mi prese,
e volentieri me si misse addosso, e portommi sul ditto rialto delle
scalee di San Piero; e quivi mi feci lasciare, e disse che correndo ri
tornassi al suo asino. Subito presi il cammino così carpone, e me ne
andavo in casa la duchessa, moglie del duca Ottavio e figliuola dell'im
peradore, naturale, non legittima, istata moglie del duca Lessandro,
duca di Firenze, e perchè io sapevo certissimo che appresso a questa
gran principessa c'era di molti mia amici, che con essa eran venuti di
Firenze; ancora perchè lei ne aveva fatto favore, mediante il castellano;
che volendomi aiutare disse al papa, quando la duchessa fece l'entrata
in Roma, che io fui causa di salvare per più di mille scudi di danno
che faceva loro una grossa pioggia: per la qual cosa lui disse ch'era
disperato, e che io gli messi cuore, e disse come io avevo acconcio
parecchi pezzi grossi di artiglieria inverso quella parte dove i nugoli
erano più istretti, e di già cominciati a piovere un' acqua grossissima;
per la qual cosa cominciato a sparare queste artiglierie, si fermò la
pioggia, e alle quattro volte si mostrò il sole, e che io ero stato intera
causa che quella festa era passata benissimo, per la qual cosa, quando
la duchessa lo intese, aveva ditto: Quel Benvenuto è un di quei vir
tuosi che stavano con la buona memoria del duca Lessandro mio ma
rito, e sempre io ne terrò conto di quei tali, venendo la occasione di
far loro piacere: e ancora aveva parlato di me al duca Ottavio suo
marito. Per queste cause io me ne andavo diritto a casa di Sua Ec
cellenzia, la quale istava in Borgo Vecchio in uno bellissimo palazzo
che v'è; quivi io sarei stato sicurissimo che il papa non m'arebbe tocco;
ma perchè la cosa che io avevo fatta insin quivi, era istata troppo ma
ravigliosa a un corpo umano, non volendo Iddio che io entrassi in tanta
vanagloria, per il mio meglio mi volse dare ancora una maggior di
sciplina, che non era istata la passata; e la causa si fu, che in mentre
che io me ne andavo così carpone su per quelle scalee, mi ricognobbe
subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro; il qual cardinale
era alloggiato in palazzo. Questo servitore corse alla camera del cardi
Inale, e isvegliatolo, disse: Monsignor reverendissimo, gli è giù il vo
stro Benvenuto, il quale s'è fuggito di Castello, e vassene carponi tutto
sanguinoso: per quanto e' mostra, gli ha rotto una gamba, e non sap
piamo dove lui si vada. Il cardinale disse subito: Correte, e portatemelo
di peso qui in camera mia. Giunto a lui, mi disse che io non dubi
tassi di nulla: e subito mandò per i primi medici di Roma; e da quelli
io fui medicato: e questo fu un maestro Iacomo, da Perugia, molto
eccellentissimo cerusico. Questo mirabilmente mi ricongiunse l'osso, poi
fasciommi, e di sua mano mi cavò sangue; chè essendomi gonfiate le
vene molto più che l'ordinario, ancora perchè lui volse fare la ferita al
quanto aperta, uscì sì grande il furor di sangue, che gli dette nel viso, e
FUGIE ED EVASIONI CELEBRI 513

di tanta abbundanzia lo coperse, che lui non si poteva prevalere a me


dicarmi: e avendo preso questa cosa per molto malagurio, con gran difi
cultà mi medicava; e piùvolte mi volse lasciare, ricordandosi che ancora
a lui ne andava non poca pena a avermi medicato o pure finito di me
dicarmi. Il cardinale mi fece mettere in una camera segreta, e subito
andatosene a palazzo con intenzione di chiedermi al papa.
» In questo mezzo s'era levato un rumore grandissimo in Roma:
che di già s'era vedute le fasce attaccate al gran torrione del mastio
di Castello, e tutta Roma correva a vedere questa inistimabil cosa. In
tanto il castellano era venuto ne'sua maggiori umori della pazzia, e
voleva a forza di tutti e'sua servitori volare ancora lui da quel ma-
stio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui con il volarmi
drieto. In questo messer Roberto Pucci, padre di messer Pandolfo,
avendo inteso questa gran cosa, andò in persona per vederla; di poi
se ne venne a palazzo, dove s'incontrò col cardinal Cornaro, il quale
disse tuto il seguito, e siccome io ero in una delle sue camere di già
medicato. Questi due uomini dabbene di accordo si andorno a gittare
inginocchioni dinanzi al papa, il quale, innanzi che e'lasciassi lor dir
nulla, lui disse: lo so tutto quel che voi volete da me. Messer Roberto
Pucci disse: Beatissimo Padre, noi vi domandiamo per grazia quel po
vero uomo, chè per le virtù sue merita avergli qualche discrezione, e
appresso a quelle, gli ha mostro una tanto bravuria insieme con tanto
ingegno, che non è parsa cosa umana. Noi non sappiamo per qual
peccati Vostra Santità l'ha tenuto tanto in prigione; però se quei pec
cati fussino troppo disorbitanti, Vostra Santità è santa e savia, e fac
ciane alto e basso la voluntà sua; ma se le son cose da potersi conce
dere, la preghiamo che a noi ne faccia grazia. Il papa a questo ver
gognandosi disse: Che m'aveva tenuto in prigione a riquisizione di
certi sua, per essere lui un poco troppo ardito; ma che cognosciuto
le virtù sue e volendocelo tenere appresso a di noi, avevamo ordinato
di dargli tanto bene, che lui non avesse auto causa di ritornare in
Francia: assai m'incresce del suo gran male; ditegli che attenda a gua
rire; e de'sua affanni, guarito che e'sarà, noi lo ristoreremo. Venne
questi dua omaccioni, e dettonmi questa buona nuova da parte del
papa. In questo mezzo mi venne a visitare la nobiltà di Roma, e gio
vani e vecchi e d'ogni sorte. Il castellano così fuor di sè si fece por
tare al papa; e quando fu dinanzi a Sua Santità, cominciò a gridare
dicendo, che se lui non me gli rendeva in prigione, che gli faceva un
gran torto, dicendo; E'm'è fuggito sotto la fede che m'aveva data; oimè,
che e'm'è volato via, e mi promesse di non volar via! Il papa ridendo
disse: Andate, andate, che io ve lo renderò ad ogni modo. Aggiunse
il castellano, dicendo al papa: Mandate a lui il governatore, il quale
intenda chi l'ha aiutato fuggire, perchè se gli è de'mia uomini, io lo
voglio impiccare per la gola a quel merlo dove Benvenuto è fuggito
31/ BENVENUTO CELLINI

Partito il castellano, il papa chiamò il governatore sorridendo e disse:


Questo è un brav'uomo, e questa è una meravigliosa cosa; con tutto
che, quando io ero giovane, ancora io scesi di quel luogo proprio. A
questo il papa diceva il vero, perchè gli era stato prigione in Castello
per avere falsificato un Breve, essendo lui abbreviatore di Parco Ma
ioris: papa Lessandro l'aveva tenuto prigione assai; di poi per esser
cosa troppo brutta, si era risoluto tagliargli il capo. Ma volendo
passare le feste del Corpus Domini, sapendo il tutto il Farnese, fece
venire Pietro Chiavelluzzi con parecchi cavalli, e in Castello corroppe
con danari certe di quelle guardie; di modo che il giorno del Corpus
Domini, in mentre che il papa era in processione, Farnese fu messo
in un corbello e con una corda fu collato insino a terra. Non era ancor
fatto il procinto delle mura al castello, ma era solamente il torrione,
di modo che lui non ebbe quella gran dificultà a fuggirne, si come
ebbi io: ancora lui era preso a ragione ed io a torto. Basta ch'esi
volse vantare col governatore d'essere istato ancora lui nella sua gio
vinezza animoso e bravo, e non s'avvedde che gli scopriva le sue gran
ribalderie. Disse: Andate, e ditegli che liberamente vi dica chi gli ha
aiutato: cosi sie stato chi e'vuole, basta che a lui è perdonato, e pro
metteteglielo liberamente voi.
» Venne a me questo governatore, il quale era stato fatto di dua
giorni innanzi vescovo di Iesi: giunto a me, mi disse: Benvenuto mio,
sebbene il mio uffizio è quello che spaventa gli uomini, io vengo a te
per assicurarti, e così ho autorità di prometterti per commessione
espressa di Sua Santità, il quale m'ha ditto che anche lui ne fuggi,
ma che ebbe molti aiuti e molta compagnia, che altrimenti non l'aria
potuto fare. Io ti giuro per i sacramenti che io ho addosso (chè son
fatto vescovo da dua di in qua), che il papa t'ha libero e perdonato, e
gli rincresce assai del tuo gran male; ma attendi a guarire e piglia
ogni cosa per il meglio, chè questa prigione, che certamente innocen
tissimo tu hai auto, la sarà istata la salute tua per sempre, perchè
tu calpesterai la povertà, e non ti accadrà ritornare in Francia an
dando a tribolare la vita tua in questa parte e in quella.Sicchè dimmi
iberamente il caso come gli è stato, e chi t'ha dato aiuto; di poi con
fortati e riposati e guarisci. Io mi feci da un capo e gli contai tutta
la cosa com'ell'era istata appunto, e gli detti grandissimi contrassegni,
insino a dell'acqueruolo che m'aveva portato addosso. Sentito ch'ebbe
il governatore il tutto, disse: Veramente queste son troppe gran cose
fatte da uno uomo solo: le non son degne d'altro uomo che di te. Così
fattami cavar fuori la mana, disse: Istà di buona voglia e confortati,
che per questa mana ch'io ti tocco tu se'libero, e vivendo sarai felice.
Partitosi da ne (chè aveva tenuto a disagio un monte di gran genti
luomini e signori che mi venivano a visitare, dicendo in fra di loro:
Andiamo a vedere quell'uomo che fa miracoli), questi restorno meco;
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 315

e chi di loro mi offeriva e chi mi presentava. Intanto il governatore


giunto al papa, cominciò a contar la cosa che io gli avevo ditta; e ap
punto s'abbattè a esservi alla presenza il signor Pierluigi suo figliuolo;
e tutti facevano grandissima meraviglia. Il papa disse: Certamente
questa è troppo gran cosa. Il signor Pierluigi allora aggiunse, dicendo:
Beatissimo Padre, se voi lo liberate, egli ve ne farà delle maggiori,
perchè questo è uno animo d'uomo troppo audacissimo. Io ve ne voglio
dire un'altra, che voi non sapete. Avendoparole questo vostro Benvenuto,
innanzi che lui fussi prigione, con un gentiluomo del cardinal Santa
Fiore, le quai parole vennono da una piccola cosa che questo gentil
uomo aveva detto a Benvenuto; di modo che lui bravissimamente e
con tanto ardire rispose, insino a voler far segno di far quistione. Il
detto gentiluomo riferito al cardinal Santa Fiore, il qual disse, che se
vi metteva le mane lui, che gli caverebbe il pazzo del capo. Benvenuto,
inteso questo, teneva un suo scoppietto in ordine, con il quale lui dà
continuamente in un quattrino: e un giorno affacciandosi il cardinale
alla finestra, per essere la bottega del ditto Benvenuto sotto il palazzo
del cardinale, preso il suo scoppietto, si era messo in ordine per ti
rare al cardinale. E perchè il cardinale ne fu avvertito, si levò subito
Benvenuto, perchè e'non si paressi tal cosa, tirò a un colombo ter
raiuolo che covava in una buca su alto del palazzo, e dette al ditto co
lombo nel capo; cosa impossibile da poterlo credere. Ora Vostra San
tità faccia tutto quel ch'ella vuole di lui; io non voglio mancare di
non ve lo aver detto. Egli potrebbe anche venir voglia, parendogli
essere stato prigione a torto, di tirare una volta a Vostra Santità.
Questo è uno animo troppo afferrato e troppo sicuro. Quando gli am
mazzò Pompeo, gli dette dua pugnalate nella gola in mezzo a dieci
uomini che lo guardavano, e poi si salvò, con biasimo non piccolo di
coloro, li quali eran pure uomini dabbene e di conto.
» Due giorni appresso andò il cardinal Cornaro a dimandare un ve -
scovado al papa per suo gentiluomo, che si domandava messer Andrea
Centano. Il papa è vero che gli aveva promesso un vescovado: essendo
così vacato, ricordando il cardinale al papasì come tal cosa luigli aveva
promesso, il papa affermò esser la verità e che così gliene voleva dare;
ma che voleva un piacere da Sua Signoria reverendissima, e questo si era
che voleva che gli rendessi nelle mane Benvenuto. Allora il cardinale disse:
Oh se Vostra Santità gli ha perdonato e datomelo libero, che dirà il mondo
e di Vostra Santità e di me? Il papa replicò: Io voglio Benvenuto, e
ognun dico quel che vuole, volendo voi il vescovado. Il buon cardinale
disse che Sua Santità gli dessi il vescovado, e che del resto pensassi
da sè, e facessi da poi tutto quel che Sua Santità e voleva e potova.
Disse il papa, pure alquanto vergognandosi della iscellerata già data
fede sua: Io manderò per Benvenuto, e per un poco di mia satisfa
zione lo metterò giù in quelle camere del giardino segreto, dove lui
316 BENVENUTO CELLINI

potrà attendere a guarire, e non se gli vieterà che tutti gli amici sua
lo vadino a vedere, e anche gli farò dar le spese, insin che ci passi
questo poco della fantasia. Il cardinale tornò a casa e mandommi su
bito a dire per quello che aspettava il vescovado , come il papa mi
rivoleva nelle mane; ma che mi terrebbe in una camera bassa nel
giardin segreto; dove io sarei visitato da ognuno, siccome io era in
casa sua. Allora io pregai questo messer Andrea, che fussi contento
di dire al cardinale, che non mi dessi al papa e che lasciassi fare a
me; perchè io mi farei rivoltare in un materasso e mi farei portare
fuor di Roma in luogo sicuro; perchè se lui mi dava al papa, certis
simo mi dava alla morte. Il cardinale, quando e' l'intese, si crede che
lui l'arebbe voluto fare; ma quel messer Andrea, a chi toccava il ve
scovado, scoperse la cosa. Intanto il papa mandò per me subito e fecemi
mettere, siccome e'disse, in una camera bassa nel sua giardin segreto.
Il cardinale mi mandò a dire che io non mangiassi nulla di quelle
vivande che mi mandava il papa, e che lui mi manderebbe da mangiare;
e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far di manco; e che
io stessì di buona voglia, che m'aiuterebbe tanto, che io sarei libero.
Standomi così, ero ogni dì visitato, e offertomi da molti gran gentil
uomini molte gran cose. Dal papa veniva la vivanda, la quale io non
toccavo, anzi mi mangiavo quella che veniva dal cardinale Cornaro, e
così mi stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco di
età di venticinque anni: questo era gagliardissimo oltramodo e giu
cava di spada meglio che ogni altro uomo che fussi in Roma: era pu
sillo d'animo, ma era fidelissimo uomo dabbene e molto facile al cre
dere. Aveva sentito dire che il papa aveva detto che mi voleva remu
nerare de' miei disagi. Questo era il vero, che il papa aveva detto tal
cose da principio, ma nell'ultimo da poi diceva altrimenti. Per la qual
cosa io mi confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: Fratello
carissimo, costoro mi vogliono assassinare, si che ora è tempo aiutarmi;
chè pensano che io non me ne avvenga, facendomi questi favori istra
sordinari, gli quali son tutti fatti per tradirmi? Questo giovane dab
bene diceva: Benvenuto mio, per Roma si dice che il papa t'ha dato
uno uffizio di cinquecento scudi di entrata; sicchè io ti priego di gra
zia, che tu non faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene.
E io pure lo pregavo con le braccia in croce che mi levassi di quivi,
perchè io sapevo bene che un papa simile a quello mi poteva fare il
molto bene, ma che io sapevo certissimo che lui studiava in farmi se
gretamente per suo onore di molto male; però facessi presto e cer
cassi di camparmi la vita da costui: che se lui mi cavava di quivi, nel
modo che io gli arei detto, io sempre arei riconosciuta la vita mia da
lui; e per lui venendo il bisogno, la ispenderei. Questo povero giovane
piangendo mi diceva: O caro mio fratello, tu ti vuoi pure rovinare,
ed io non ti posso mancare a quanto tu mi comandi; sì che dimmi il
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 317

modo, ed io farò tutto quello che tu dirai, sebbene e' fia contra mia
voglia. Così eramo risoluti, ed io gli avevo dato tutto l'ordine, che fa
cilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi per mettere in opera
quanto io gli avevo ordinato, mi venne a dire che per la salute mia
mi voleva disubbidire, e che sapeva bene quello che gli aveva inteso
da uomini che stavano appresso al papa e che sapevano tutta la ve
rità de' casi mia. Io che non mi potevo aiutare in altro modo, ne re
stai malcontento e disperato. Questo fu il dì del Corpus Domini nel
millecinquecentotrentanove.
Passatomi, tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino
alla notte, dalla cucina del papa venne un'abbondante vivanda: ancora
dalla cucina del cardinale Cornaro venne bonissima provvisione: ab
battendosi a questo parecchi mia amici, gli feci restare a cena meco;
onde io tenendo la mia gamba isteccata nel letto, feci lieta cera con
esso loro; così soprastettono meco. Passato un' ora di notte di poi si
partirno; e due mia servitori m'assettorno da dormire, di poi si mes
sono nell'anticamera. Io avevo un cane nero quanto una mora, di questi
pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo, e mai non
istava lontan da me un passo. La notte, essendomi sotto il letto, ben
tre volte chiamai il mio servitore, che me lo levassi di sotto il letto,
perchè e' mugliava paventosamente. Quando i servitori venivano, que
sto cane si gittava loro addosso per mordergli. Gli erano ispaventati,
e avevan paura che il cane non fossi arrabbiato, perchè continuamente
urlava. Così passammo insino alle quattr'ore di notte. Entrò al tocco
delle quattro ore il bargello con molta famiglia drento nella mia cahmera:
allora il cane uscì fuora e gittossi addosso a questi con tanto furore,
stracciando loro le cappe e le calze, e gli aveva missi in tanta paura, che
lor pensavano che fussi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello, come
persona pratica, disse: La natura de'buoni cani è questa, che sempre
s'indovinano e predicono il male che dee venire a'lor padroni: pigliate
dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e gli altri leghino Benvenuto
in su questa sieda, e menatelo dove voi sapete. Si come io ho detto,
era il giorno passato del Corpus Domini, ed era in circa a quattro ore
di notte. Questi mi portavano turato e coperto, e quattro di loro an
davano innanzi, faccendo iscansare quelli pochi uomini che ancora su
ritrovavano per la strada. Cosi mi portarono a Torre di Nona, luogo
detto così, e messonmi nella prigione della vita, posatomi in sur un
poco di materasso, e datomi uno di quelle guardie, il quale tutta notte
si condoleva della mia cattiva fortuna, dicendomi-: Oimè! povero Ben
venuto, che hai tu fatto a costoro? Onde io benissimo mi avvisai quel
che mi aveva a intervenire, si per essere il luogo cotale,e anche per
chè colui me lo aveva avvisato. Istetti un pezzo, di quella notte col
pensiero a tribolarmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi co
tal penitenzia; e perchè io non la ritrovavo, forte mi dibattevo. Quella
318 BENVENUTO CELLINI

guardia s'era messa poi il meglio che sapeva a confortarmi; per la


qual cosa io lo scongiurai per l'amor di Dio, che non mi dicessi nulla
e non mi parlassi, avvenga che da me medesimo io farei più presto e
meglio una cotale risoluzione. Così mi promesse. Allora io volsi tutto
il cuore a Dio; e divotissimamente lo pregavo che gli piacessi di ac
cettarmi nel suo regno; e che sebbene io m'ero dolto, parendomi que
sta tal partita in questo modo molto innocente, per quanto promette
vano gli ordini delle leggi; e sebbene io avevo fatto degli omicidi,
quel suo Vicario mi aveva dalla patria mai chiamato e perdonato col
l'autorità delle legge e sua: e quello che io avevo fatto, tutto s'era
fatto per difensione di questo corpo che Sua Maestà mi aveva prestato,
di modo che io non conoscevo, secondo gli ordini con che si vive nel
mondo, di meritare quella morte; ma che a me mi pareva che m'in
tervenissi quello che avviene a certe isfortunate persone le quali, an
dando per la strada, casca loro un sasso da qualche grande altezza in
su la testa e gli ammazza: qual si vede ispesso esser potenzia delle
stelle: non già che quelle sieno congiurate contro a di noi per farci
bene o male, ma vien fatto nelle loro congiunzione, alle quali noi siamo
sottoposti: sebbene io cognosco d'avere il libero albitrio: e se la mia
fede fussi santamente esercitata, io sono certissimo che gli angeli del
Cielo mi porterieno fuor di quel carcere e mi salverieno sicuramente
d'ogni mio affanno; ma perchè e' non mi pare d'esser fatto degno da
Dio d'una tal cosa, però è forza che questi influssi celesti adempieno
sopra di me la loro malignità. E con questo dibattutomi un pezzo, da
poi mi risolsi, e subito appiccai sonno.
» Fattosi l'alba, la guardia mi destò e disse: O sventurato uomo
dabbene, ora non è più tempo a dormire, perchè gli è venuto quello
che t'ha a dare una cattiva nuova. Allora io dissi: Quanto più presto
io esca di questo carcere mondano, più mi sarà grato, maggiormente
essendo sicuro che l'anima mia è salva, e che io muoio a torto. Cristo
glorioso e divino mi fa compagno alli sua discepoli e amici, i quali, e
lui e loro, furno fatti morire a torto: così a torto son io fatto morire,
e santamente ne ringrazio lddio. Perchè non viene innanzi colui che
m'ha da sentenziare ? Disse la guardia allora: Troppo gl' incresce di
te e piange. Allora io lo chiamai per nome, il quale aveva nome mes
ser Benedetto da Cagliano. Dissi: Venite innanzi, messer Benedetto mio,
ora che io son benissimo disposto e resoluto; molto più gloria mia è
che io muoia a torto, che se io morissi a ragione: venite innanzi , vi
priego, e datemi un sacerdote, che io possa ragionar con seco quattro
parole; con tutto che non bisogni, perchè la mia santa confessione io
l'ho fatta col mio Signore Iddio; ma solo per osservare quello che ci
ha ordinato la Santa Madre Chiesa; che, sebbene ella mi fa questo iscel
lerato torto io liberamente le perdono. Sicchè venite, messer Benedetto
mio, e speditemi prima che il senso mi cominciassi a offendere. Ditte
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 319

queste parole, quest'uomo dabbene disse alla guardia che serrassi la


porta, perchè senza lui non si poteva far quello uffizio. Andossene a
casa della moglie del signor Pierluigi, la quale era insieme con la du
chessa sopraditta; e fattosi innanzi a loro quest'uomo disse: Illu
strissima mia patrona, siate contenta, vi priego per l'amor di Dio, di
mandare a dire al papa, che mandi un altro a dar quella sentenzia a
Benvenuto e fare questo mio ufizio, perchè io lo rinunzio e mai più lo
voglio fare: e con grandissimo cordoglio sospirando si parti. La du
chessa, che lì era alla presenza, torcendo il viso disse: Questa è la
bella justizia che si tiene in Roma dal Vicario di Dio! il duca già mio
marito voleva un gran bene a questo uomo per le sue bontà e per le
virtù, e non voleva che lui ritornassi a Roma, tenendolo molto caro
appresso a di sè: e andossene in là borbottando con molte parole
dispiacevoli. La moglie del signor Pierluigi (si chiamava la signora
Ierolima) se ne andò dal papa, e gittandosi ginocchioni (era alla pre
senza parecchi cardinali), questa donna disse tante gran cose, che la
fece arrossire il papa, il quale disse: Per vostro amore noi lo lasce
remo istare, sebbene noi non avemmo mai cattivo animo inverso di
lui. Queste parole le disse il papa per essere alla presenza di quei
cardinali, i quali avevan sentito le parole che aveva detto quella ma
ravigliosa è ardita donna. Io mi stetti con grandissimo disagio, batten
domi il cuore continuamente. Ancora stette a disagio tutti quelli uo
mini ch'erano destinati a tale cattivo uffizio, insino che era tardi
all'ora del desinare; alla quale ora ogni uomo andò ad alire sue fac
cende, per modo a me fu portato da desinare: onde che maravigliato,
io dissi: Qui ha potuto più la verità, che la malignità degl' influssi
celesti; così priego Iddio, che s'egli è in suo piacere, mi scampi da
questo furore. Comincia a mangiare, e si bene come io avevo fatto
prima la resoluzione al mio gran male, ancora la feci alla speranza del
gran bene. Desinai di buona voglia: così mi stetti senza vedere o sen
tire altri insino a un'ora di notte. A quell'ora venne il bargello con
buona parte della sua famiglia, il quale mi rimesse in su quella sieda
che la sera dinanzi lui m'aveva in quel luogo portato, e di quivi con
molte amorevol parole, a me che io non dubitassi, a' suoi birri comandò
che avessin cura di non mi percuotere quella gamba che io avevo rotta,
quanto agli occhi sua. Così facevano, e mi portorno in Castello, di
donde io ero uscito; e quando noi fummo su dall'alto nel mastio, dov'è
un cortiletto, quivi mi fermorno per alquanto.
» In questo mezzo, il castellano sopradditto si fece portare in quel
luogo dove io ero, e così ammalato e afflitto disse: Ve' che ti ripresi?
Si, diss'io; ma ve'che io mi fuggi, come io ti dissi? e se io non fussi
stato venduto sotto la fede papale un vescovado da un veniziano car
dinale, e un romano da Farnese, e' quali l'uno e l'altro ha graffiato il
viso alle sacresante legge, tu mai non mi ripigliavi: ma da poi che
320 BENVENUTO CELLINI

ora da loro s'è messa questa mala usanza, fa ancora tu il peggio che
tu puoi, chè di nulla mi curo al mondo. Questo povero uomo cominciò
olto forte a gridare, dicendo: Oime! oimè! costui non si cura nè di
vivere nè di morire, ed è più ardito che quanto egli era sano: mette
telo là sotto il giardino, e non mi parlate mai più di lui, chè costui
è causa della morte mia. Iofui portato sotto un giardino in una stanza
oscurissima, dove era dell'acqua assai, piena di tarantole e di molti
vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra,
e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro parte:
cosi istetti insino alle diciannove ore il giorno seguente. Allora mi fu
portato da mangiare: ai quali io domandai che mi dessino alcuni di
quei miei libri da leggere: da nessuno di questi non mi fu parlato,
ma riferirno a quel povero uomo del castellano, il quale aveva domani
dato quello che io dicevo. L'altra mattina poi mi fu portato un mio
libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro dove eran le Cronache
di Giovan Villani. Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io
non arei altro, e che io avevo troppo di quelli. Così infelicemente mi
vivevo in su quel materasso tutto fradicio, chè in tre giorni era acqua
ogni cosa; onde io stavo continuamente senza potermi muovere, perchè
io avevo la gamba rotta; e volendo andare fuor del letto per la neces
sità de' miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per
non far lordura in quel luogo dove io dormiva. Avevo un'ora e
mezzo del dì d'un poco di riflesso di lume il quale m'entrava in quella
infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del
tempo leggevo, e'l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio
pazientemente, non mai fuor de' pensieri di Dio e di questa nostra fra
gilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir
quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio che io
potevo, da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dis
piacere e' mi saria istato, nel passare della vita mia, sentire quella
inistimabil passione del coltello; dove istando a quel modo io la pas
savo con un sonnifero, il quale mi s'era fatto molto più piacevole che
quello di prima: e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a tanto
che la mia buona complessione si fu accomodata a quel purgatorio. Di
poi che io senti'essersi lei accomodata ed assuefatta, presi animo di
comportarmi quello inistimabil dispiacere in sino a tanto quanto le l
stessa me lo comportava. » -

Visioni notturne consolavano il povero prigioniero. Con un po' di


mattone fracido e una scheggia della porta, aveva trovato mezzo di
scrivere, e scriveva versi e fantasie religiose. Era di sorte assuefatto gli
occhi in quelle oscurità, che poteva leggere per ore intere la sua Bibbia,
e trovava una distrazione cosi grande di quei pensieri in Dio, che non
Fughe ed evasioni celebri. Disp. 20.
Francesco Novello da Carrara e sua moglie perseguitati nel loro viaggio dai rar
tigiani di Gian Galeazzo Visconti. Pag. 34,
322 BENVENUTO CELLINI

si ricordava più di nessuno dispiacere che mai per l'addietro avesse


aVutO.
Il castellano pazzo e imbestialito, come seppe che Benvenuto non
se la passava tanto male in mezzo agli orrori della prigionia, con ma
raviglioso dispiacere, disse:
« Oh Dio! colui trionfa e vive in tanto male ed io istento in tante
comodità, e muoio solo per causa sua! Andate presto e mettetelo in
quella più sotterrania caverna, dove fu fatto morire il predicatore
Foiano di fame: forse che vedendosi in tanta cattività, gli potria uscire
il ruzzo del capo. Subito venne nella mia prigione il capitano Sandrino
Monaldi con circa venti di quei servitori dal castellano; e trovorno
che io ero ginocchioni, e non mi volgevo a loro, anzi adoravo un Dio
Padre adorno di Angeli, ed un Cristo risucitante vittorioso, che io mi
avevo disegnati nel muro con un poco di carbone che io avevo trovato ri
coperto dalla terra, di poi quattro mesi che io ero stato rovescio nel letto
con la mia gamba rotta; e tante volte sognai che gli Angeli mi venivano
a medicarmela, che di poi quattro mesi ero divenuto gagliardo come
se mai rotta la non fussi stata. Però vennono a me tanto armati, quasi
che paurosi che io non fussi un velenoso dragone. Il ditto capitano
disse: Tu senti pure che noi siamo assai, che con gran rumore noi ve
gniamo a te, e tu a noi non ti volgi. A questo Iddio che mi porta a
quello de' cieli, ho volto appunto quello che vi si appartiene, perchè
quello che è di buono in me, voi non sete degni di guardarlo, nè po
tete toccarlo: sì che fate a quello che è vostro, tutto quello che voi
potete. Questo ditto capitano, pauroso, non sapendo quello che io mi
volessi fare, disse a quattro di quelli più gagliardi: Levatevi l'arme
tutte da canto. Levate che se l'ebbono, disse: Presto saltategli addosso
e pigliatelo. Non fussi costui il diavolo, che tanti noi doviamo aver
paura di lui? tenetelo or forte che non vi scappi. Io sforzato e bistrat
tato da loro, immaginandomi molto peggio di quello che poi m'inter
venne, alzando gli occhi a Cristo dissi; O giusto Iddio, tu pagasti pure
in su quello alto legno tutti e debiti nostri: perchè adunque ha a pagare
la mia innocenzia i debiti di chi io non conosco? oh! pure sia fatta la
tua volonta. Intanto costoro mi portavano via con un torchiaccio acceso:
pensavo io che mi volessimo gittare nel trabocchetto del Sammalò:
cosi chiamato un luogo paventoso, il quale n'ha inghiottiti assai così
vivi, perchè vengono a cascare ne' fondamenti del Castello giù in un
pozzo. Questo non m'intervenne: per la qual cosa me ne parve aver
un bonissimo mercato, perchè loro mi possono in quella bruttissima
caverna sopradetta, dove era morto il Foiano di fame, ed ivi mi lasciarno
istare non mi faccendo altro male. »
« Lasciato che e' m' ebbono, cominciai a cantare un De profundis
clamavit, un Miserere, e In te Domine speravi. Tutto quel giorno primo
d'agosto festeggiai con Dio, e sempre mi jubbilava il cuore di speranza
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 323

e di fede. Il secondo giorno mi trassono di quella buca, e mi riportorno


dove era quei miei primi disegni di quella immagine di Dio. Alle quali
giunto che io fui, alla presenza di esse di dolcezza e di letizia io assai
piansi. Da poi il castellano ogni di voleva sapere quello che io facevo
e quello che io dicevo. Il papa che aveva inteso tutto il seguito (e di
già li medici avevano isfidato a morte il ditto castellano), disse: In
nanzi che il mio castellano muoia, io voglio che e' faccia morire a suo
modo quel Benvenuto, ch'è causa della morte sua, acciò che lui non
muoia invendicato. Sentendo queste parole il castellano per bocca del
duca Pierluigi, disse al ditto: Adunche il papa mi dona Benvenuto, e
vuole che io ne faccia le mie vendette? Non pensi adunche ad altro e
lasci fare a me. Si come il cuore del papa fu cattivo inverso di me,
pessimo e doloroso fu nel primo aspetto quello del castellano; ed in
questo punto quello invisibile, che mi aveva divertito dal volermi am
mazzare, venne a me pure invisibilmente, ma con voci chiare e' mi
scosse, e levommi da iacere e disse: Oimè! Benvenuto mio, presto presto
ricorri a Dio con le tue solite orazione, e grida forte forte. Subito spa
ventato mi posi ginocchioni, e dissi molte mie orazione ad alta voce:
di poi tutte, un Qui habitat in adjutorium, di poi questo, ragionai con
Iddio un pezzo: ed in uno istante la voce medesima aperta e chiara
mi disse: Vatti a riposa, e non aver più paura. E questo fu, che il ca
stellano avendo dato commessione bruttissima per la mia morte, subito
la tolse e disse : Non è egli Benvenuto quello che io ho tanto difeso, e
quello che io so certissimo che è innocente, e che tutto questo male
se gli è fatto a torto? O come Iddio arà mai misericordia di me e dei
mia peccati, se io non perdono a quelli che m'hanno fatto grandissime
offese? O perchè ho io a offendere un uomo da bene, innocente, che
m'ha fatto servizio e onore? Vadia, che in cambio di farlo morire, io
gli do vita e libertà; e lascio per testamento che nissuno gli domandi
nulla del debito della grossa ispesa che qui gli arebbe a pagare. Questo
intese il papa, e l'ebbe molto per male.
» Io stavo intanto colle mie solite orazione e scrivevo un ca
pitolo, e cominciai a fare ogni notte i più lieti e i più piacevoli sogni
che mai immaginar si possa; e sempre mi pareva essere insieme visi
bilmente con quello che invisibile avevo sentito e sentivo bene ispesso,
al quale io non domandavo altra grazia, se non e' lo pregavo, e stret
tamente, che mi menassi dove io potessi vedere il sole, dicendogli che
quello era quanto desiderio io avevo; e che se io una sola volta lo
potessi vedere, da poi io morrei contento. Di tutte le cose che io avevo
in quesia prigione dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche e COI
pagne, e nulla mi disturbava; sebbene quei divoti del castellano che
aspettavano che il castellano m'impiccassi a quel merlo dove io ero
sceso, si come lui aveva detto, veduto poi che il detto castellano aveva
fatta un'altra resoluzione tutta contraria da quella, costoro, che non la
32 BENVENUTO CELLINI

potevano patire, sempre mi facevano qualche diversa paura, per la quale


io dovessi pigliare spavento per la perdita della vita. Sì come io dico,
a tutte queste cose io m'ero tanto addimesticato, che di nulla io non
avevo più paura, e nulla più mi moveva, solo questo desiderio, che il
sognare di vedere la spera del sole. Di modo che seguitando innanzi
colle mie grandi orazioni, tutte volte con lo affetto a Cristo, sempre
dicendo: O vero figliuol di Dio, io ti priego per la tua nascita, per la tua
morte in croce e per la tua gloriosa resurrezione, che tu mi facci
degno che io vegga il sole, se non è altrimenti, almanco in sogno ;
ma se tu mi facessi degno che io lo vedessi con questi miei occhi mor
tali, io ti prometto di venirti a visitare al tuo santo Sepulcro. Questa
resoluzione e queste mie maggior preci a Dio le feci a' dì due otto
bre nel mille cinquecento trentanove. Venuto poi la mattina seguente,
che fu a' di tre di ottobre detto, io m'ero risentito alla punta del
giorno, innanzi il levar del sole, quasi un'ora; e sollevatomi da quel
mio infelice covile, mi messi addosso un poco di vestaccia che io avevo,
perchè ei s'era cominciato a far fresco: e stando cosi sollevato, facevo
razioni più d vote che mai io avessi fatte per il passato; chè in detta
orazione dicevo con gran prieghi a Cristo, che mi concedessi almanco
tanto di grazia, che io sapessi per ispirazion divina per qual mio pec
cato io facevo cosi gran penitenza; e da poi che Sua Maestà divina
non mi aveva voluto far degno della vista del sole almanco in sogno
lo pregavo per tutta la sua potenza e virtù, che mi facessi degno che
io sapessi quale era la causa di quella penitenzia.»
La crudeltà degli uomini non poteva togliere all'infelice quelle con
solazioni che la sua fantasia gli somministrava e ch'egli reputava come
segno e prova della bontà divina. Queste rinvigorivano l'animo ed il
corpo suo, che non soccombessero a tanti mali.
» Il castellano, con tutto che i medici non avessino punto di spe
ranza della sua salute, ancora era restato in lui spirito saldo, e si era
partito quelli umori della pazzia, che gli solevano dar noia ogni anno:
e datosi in tutto e per tutto all'anima, la coscienza lo rimordeva, e
gli pareva pure che io avessi ricevuto e ricevessi un grandissimo torto;
e faccendo intendere al papa quelle gran cose che io dicevo, il papa
gli mandava a dire (come quello che non credeva nulla nè in Dio nè
in altri) dicendo che io ero inpazzato, e che attendessi il più che lui
poteva alla sua salute. Sentendo il castellano queste risposte, mi mandò
da scrivere e della cera e certi fuscelletti fatti per lavòrar di cera, con
molte cortese parole, che me le disse un certo di quei sua servitori
che mi voleva bene. Questo tale era tutto contrario di quella setta di
quegli altri ribaldi, che mi arebbon voluto veder morto. Io presi quelle
carte e quelle cere, e cominciai a lavorare: e in mentre che io lavoravo,
scrissi un Sonetto indiritto al castellano. »
Benvenuto mandò poi il suo sonetto al castellano, il quale mosso a

,
-
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 325

pietà comandò a un suo secretario che lo portasse a Paolo III e che


lo desse in propria mano, pregandolo che lasciasse andare l'infelice
prigioniero. E certamente il papa l'avrebbe lasciato andare, ma
Pier Luigi suo figliuolo, quasi contro la voglia di esso, per forza lo
teneva in prigione.
Ivi a pochi giorni morì il castellano. Un fratello di esso restato
in cambio suo, ebbe commissione dal papa di lasciar stare il Cellipi
nella prigione larga in cui il castellano pochi giorni prima della sua
morte l'avea fatto trasportare; era la carcere che avea avuto prima
di quei rigori.
» Cosi passando pochi giorni innanzi, comparse a Roma il cardinale
di Ferrara; il quale andando a fare reverenzia al papa, lo trattenne
tanto, che venne l'ora della cena. E perchè il papa era valentissimo
uomo, volse avere assai agio a ragionare col cardinale di quelle cose
che fuora di tale atto tal volta non si dirieno, per modo che, essendo
quel gran re Francesco in ogni cosa sua liberalissimo, ed il cardinale
che sapeva bene il gusto del re, ancora lui appieno compiacque al
papa molto più di quello che il papa non si immaginava; di modo
che il papa era venuto in tanta letizia, si per questo e ancora perchè
gli usava una volta alla settimana di fare una crapula assai gagliarda,
perchè dappoi la gomitava. Quando il cardinale vidde la buona dispo
sizione del papa, atta a compiacer grazie, mi chiese da parte del re
con grande istanzia, mostrando che il re aveva gran desiderio di tal
cosa. Allora il papa, sentendosi appressare all'ora del suo vomito, e
perchè la troppa abbundanzia del vino ancora faceva l'uffizio suo, disse
al cardinale con gran risa: ora ora voglio che ve lo meniate a casa;
e date l'espresse commissioni, si levò da tavola; ed il cardinale subito
mandò per me, prima che il signor Pier Luigi lo sapessi, perchè non
m'arebbe lasciato in modo alcuno uscire di prigione. Venne il mandato
del papa insieme con due gran gentiluomini del ditto cardinale di Fer
rara, e alle quattr'ore di notte passate mi cavorno del ditto carcere e mi
menorno dinanzi al cardinale, il quale mi fece inistimabile accoglienze;
e quivi bene alloggiato mi restai a godere. Messer 'Antonio, fratello
del castellano e in luogo suo, volse che io gli pagassi tutte le spese,
con tutti que'vantaggi che usano volere e' bargelli e gente simile, nè
volse osservare nulla di quello che il castellano passato aveva lasciato
che per me si facessi. Questa cosa mi costò di molte decine di scudi,
e perchè il cardinale mi disse di poi, che io stessi a buona guardia
s'io volevo bene alla vita mia, e che se la sera lui non mi cavava di
quel carcere ie non ero mai per uscire: che di già aveva inteso dire
che il papa si condoleva molto di avermi lasciato. »
XILIV

CU RI O N E

(1530)

Celio Secondo Curione, zelante luterano, avendo osato accusare di


menzogna, in mezzo alla chiesa, un domenicano che avea proferito sul
pulpito le più odiose ingiurie contro il capo della Riforma, fu subito
arrestato per ordine dell'inquisitore di Torino.
Dopo essere stato successivamente trasferito in varie prigioni, riusci
a fuggire in una maniera cosi destra, che i suoi nemici l'accusarono
di aver avuto ricorso alla magia. Affine di discolparsi di un'accusa
molto pericolosa in quel tempo, publicò in un piccolo dialogo latino
intitolato Probo la relazione della sua fuga. Ne traduciamo i passi se
guenti:
« Ero, dice, chiuso da otto giorni nella mia nuova prigione, dove
mi avevano messo ai piedi enormi ceppi di legno, quando fui improv
visamente ispirato dal Cielo.
» Allorchè il giovane incaricato di custodirmi entrò nella mia stanza,
cominciai a supplicarlo che liberasse uno dei miei piedi da quei ceppi.
Doveva bastare che fossi attaccato per un solo piede ad una massa
cosi enorme.
» Come costui era senza malizia, si lasciò persuadere e liberò uno
de' miei piedi.
» Cosi passarono quel giorno e il seguente, durante i quali io mi
misi all'opera. Ero rivestito d'una camicia di tela. Me ne spogliai, e
levandomi nel medesimo tempo la calza che copriva la gamba che mi
aveano lasciata libera, ne feci un fardello, cui detti la forma di una
gamba e vi adattai una scarpa.
FUGBIE ED EVASIONI CELEBRI 327

» Mi mancava ancora qualche cosa che potesse darle della consi


stenza. Ero molto imbarazzato e cercavo con inquietudine da tutte le
parti, quando scorsi un bastone sotto una fila di sedie. Lo presi tosto,
lo introdussi nella falsa gamba e nascondendo la mia vera gamba sotto
il mantello, aspettai il successo della mia astuzia.
» Il bravo ragazzo tornò due giorni dopo verso le venti ore (circa
due ore di sera), e mi domandò come stessi. Non starei male, gli dissi,
se voleste mettermi i legami di una all'altra gamba, affinchè ciascuna
potesse riposare alla sua volta.
» Egli consenti e mi legò la gamba falsa. »
Il prigioniero,venuta la notte, avendo dato ai suoi custodi il tempo
di addormentarsi e sentendoli ronfare, si cavò la gamba falsa, si rimise
la camicia e le calze, poi andò ad aprire, senza far romore, la porta del
suo carcere, ch'era chiusa solamente all'interno con un catenaccio. Questo
era il più difficile: egli riuscì in seguito, non senza fatica, a scalare le
mura della sua prigione (Lalaine, Curiosità biografiche).
XLV

Z I Z I MI

(1482)

Maometto II, conquistatore di Costantinopoli, mori al principio di


maggio 1481, nelle vicinanze di Gebize, l'antica Labissa, celebre
per la tomba d'Annibale cartaginese. L'uomo che aveva conquistato
due imperi, quello di Bisanzio e quello di Trebisonda, quattordici re
gni, i più importanti dei quali erano la Serbia, la Bosnia e l'Albania,
e duecento città, tra le altre Costantinopoli, in cui aveva stabilito la
sua sede, peri nel trentesimo anno del suo regno e cinquantesimo di
sua vita, dopo aver riempito il mondo della sua fama. Gli storici ram
memorano la sua inumana crudeltà e le nefande voluttà in cui si com
piaceva, come il suogenio guerriero, la sua generosità, l'opera che pose
alla costruzione di monumentali edifizi. Il sultano conquistatore ebbe
grandi virtù e grandi vizi, fu uno di quegli uomini straordinari nati
per demolire più che per creare, uno di quei geni più malefici che be
nefici, i quali passano sulla terra, come nembi che tutto rovesciano di
nanzi a sè, ma che talvolta fecondano il suolo da essi coperto di ruine.
I suoi due figli superstiti, Bajazet e Gem, erano ambedue lontani
da esso al tempo della sua morte. Appena Maometto ebbe esalato lo
spirito, il gran visir Nisciani Caramano, tenendo celata all'esercito e
alla capitale la morte del sultano, ne fece trasportare il cadavere a
Costantinopoli accompagnato dalle solite guardie del corpo, come se
ancora vivo ritornasse alla capitale per alcuni giorni, a solo fine di
mitigare coi bagni la malattia. Mandò il ciambellano Keklik Mustafà
come corriere a Bajazet, primogenito del morto sultano e ch'era go
vernatore di Amasia. Ma nel medesimo tempo spedì un suo confidente
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 329

al principe Gem, governatore della Caramania, cui voleva procurare il


trono a danno del fratello maggiore.
Malgrado tutte le precauzioni prese, essendosi sparsa a Costanti
nopoli la nuova della morte di Maometto, i gianizzeri si levarono a tu
multo, devastarono le case dei ricchi ed uccisero il gran visir. Il prin
cipe Korkud figlio di Baiazet fu proclamato governatore della città
sino all'arrivo di suo padre.
Dei due corrieri spediti dal gran vizir ai due figli del conquista
tore, giunse solamente alla sua destinazione quello mandato in Amasia
a Baiazet; l'altro fu preso e messo a morte da Sinam pascià governa
tore dell'Anatolia.
Baiazet si mise in viaggio, senza por tempo in mezzo, e giunse
nove giorni dopo a Scutari rimpetto a Costantinopoli. Per ingraziarsi i
gianizzeri, concesse loro un donativo. Suo padre era stato il primo a
darne uno alla sua assunzione al trono, e nei regni susseguenti fu sempre
più aumentato.
Il nuovo sultano fece il suo ingresso a Stambul in abito di lutto,
avendo indosso un drappo nero di lana, circondato il capo di un
panno nero. Il giorno seguente col viziri e gli emiri portò sulle spalle
la bara che conteneva gli avanzi del terribile conquistatore, al sepolcro
che questi si era preparato dietro la nuova moschea che aveva fatto
costruire.
Maometto II, in uno dei suoi Kanuni o leggi, aveva stabilito come
legge di stato, il fratricidio. La storia è piena di esempi di principi i
quali, per assicurarsi l'impero, uccisero i loro fratelli. Osmano, fonda
tore della dinastia, aveva dato l'esempio della uccisione dei parenti
scagliando una freccia contro suo zio. Baiazet II Ildivim (il folgore) avea
messo a morte il fratello: il medesimo avea fatto Maometto II. Ma
questi fu il primo che osò stabilire per legge, che la ragione di stato
richiedeva e legittimava il fratricidio. La maggior parte dei legisti,
dice in uno dei Kanuni, ha dichiarato esser permesso che qualunque
dei miei illustri figli e nipoti, al pervenire al governo, faccia morire
i suoi fratelli per assicurare la tranquillità del mondo.
Questa rimase legge fondamentale in Turchia, e la storia poste
riore a Maometto II e al suo successore ne porge molti esempi di fra
tricidi, quando nuovi sultani salsero il trono. Solamente da poco tempo
non è più in uso. La sultana validé madre di Abdul Megid, al suo
letto di morte, fece promettere al figlio di risparmiar la vita ad Abdul
Aziz suo fratello: questi è appunto il sultano regnante e succeduto ad
Abdul Megid.
Se dunque li fratello di Bajazet II si fosse trovato allora a Costan
tinopoli, egli sarebbe stato senza fallo ucciso. Senonche Scià-Gem
(il principe Gem, nome che gli storici Europei hanno trasformato in
Zizim) era in quel tempo governatore della Caramania. Aveva ventitre
330 ZZIMI

anni, dodici meno del fratello; era robusto di costituzione, feroce d'a
spetto; aveva dense sopracciglia, naso aquilino, capelli biondi: era nato
da una principessa Serba. Era di corpo pingue anzi che no, ma ben
complesso; molto destro al salto, al nuoto, alla caccia, ai tirar
d'arco, per solito triste e cogitabondo, cultore dei buoni studi e valente
poeta.
Appena ricevuta la notizia della morte di suo padre, Zizim si di
resse con alcune truppe ragunaticcie verso Brussa, per mettersi in pos
sesso dell'antica capitale dell'impero turco. Il primo scontro fra le truppe
di Baiazet e quelle di Zizim avvenne nei contorni di quella città. I
gianizzeri furono sconfitti e Aias Pascià loro comandante fu fatto pri
gioniero.
La città accolse allora Zizim, che entrovvi in trionfo e s'impadroni
dei tesori racchiusi nel castello. Fu fatta la preghiera del venerdì nelle
moschee in nome del sultano Gem, legittimo sovrano degli Osmani, e
col suo nome si coniò anche la moneta.
Quando Zizim intese che Baiazet si avvicinava con un grosso eser
cito, gli mandò un'ambasciata a proporgli di dividere tra loro il do
minio d'Asia e d'Europa. Ma Baiazet rispose laconicamente col detto
arabo « che non v'è affinità di sangue fra i re », e continuò la sua
marcia per Brussa.
Baiazet avea promesso a Jacob, uno dei grandi delle corte di Zizim,
di accordargli il governo dell'Anatolia, se invece di promuovere la ri
tirata delle truppe del suo principe nella Caramania, dinanzi all'eser
cito di Baiazet, ch'era molto più forte, lo inducesse a farlo scendere nella
pianura di Jeniscer. Gem seguì questo cattivo consiglio, e vi trovò il
fratello con un grosso esercito, rinforzato anche da nuove truppe che
gli avea condotto Abdullah suo primogenito. La battaglia decisiva fu
data il 20 giugno 1481 sulla sponda sinistra del fiume di Jeniscer.
Le truppe di Zizim erano in parte battute dalla cavalleria asiatica,
quando il traditore Jacob decise la giornata conducendo il fiore delle
sue soldatesche sotto le bandiere del sultano. Allora la fuga dei
Turcomani, dei Caramani, dei Toghudi, di cui era composto l'esercito di
Zizim, divenne generale.
Zizim vinto e ferito fuggì dal campo di battaglia. Aveva per
duto tutto il bagaglio, e per giunta i Turcomani al passo di Ermeni
gli tolsero i pochi cavalli da soma che aveva seco condotto, cosicchè il
suo ciambellano Sinanbeg dovette prestargli la sua sopraveste per ri
pararlo dall'umidità della notte.
Baiazet, lasciato il campo di battaglia, aveva seguito le orme del
fuggitivo fratello. Giunto al passo di Ermeni, gli sì presentarono i Tur
comani della contrada, pregandolo che gli esentasse dalle imposizioni
e dalle gabelle in ricompensa di quanto aveano operato contro Zizim,
togliendogli il resto de' suoi averi e facendo quasi lui stesso prigio
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 331

niero. Il sultano approvò apparentemente il loro zelo per la buona causa,


ed ordinò che comparissero alla sua Porta tutti quelli che aveano avuto
parte in così bell'impresa. Venuti cosi in gran turba colla speranza
di un sicuro guiderdone, furono fatti tutti crocifiggere.
Baiazet, ormai sicuro pel suo trono, era tornato a Costantinopoli,
lasciando a' suoi generali il compir la vittoria e il combattere Kasimbeg,
ultimo rampollo dei principi di Caramania, che approfittando della guerra
civile scoppiata tra i Turchi, si era levato in armi in favore del principe.
Intanto il fuggitivo Zizim era stato bene accolto dal beg di Tarso,
dal principe turcomano dei Ramazan in Adana, e dai beglerbeg egi
ziani, governatori di Aleppo e di Damasco; avea cercato un asilo presso
il sultano Kaitbai al Cairo in Egitto, e poscia fatto il pellegrinaggio
delle città sante, la Mecca e Medina, in Arabia.
Nel febbraio del 1482, di ritorno al Cairo, ricevette alcune lettere
non solo da Kasimbeg, ma anche da diversi capi dell'esercito ottomano.
Essi lo invitavano al ritorno e gli dicevano che quello era il momento
propizio per riconquistare la paterna eredità.
Da ciò indotto Zizim si parti dal Cairo ed arrivò ad Aleppo, ove
prese a radunare i suoi partigiani. Udita da Baiazet questa spiacevole
notizia, parti di nuovo da Costantinopoli e mosse contro Zizim e Ka
simbeg collegati. Ahmed pascià, ch'era stato uno dei migliori generali
del conquistatore e serviva allora Baiazet, si azzuffò con Maometto duce
della cavalleria di Zizim, ma senza effetto decisivo. Un altro partigiano
del principe, Mahmud beg, attaccò Suleimano pascià di Amasia, per
impedirgli di recarsi al campo di Baiazet, ma fu battuto, e la sua testa
fu mandata per segno di vittoria al sultano.
Le truppe ragunaticcie di Zizim si scoraggiarono e si dispersero, e
ilprincipeinseguito dalla cavalleria nemica, riuscì a salvarsi nella Cilicia
petrosa. Baiazet spedi allora il luogotenente generale dei gianizzeri a
Zizim, domandando che gli fosse inviato un negoziatore con cui venire
ad un pacifico aggiustamento. Il principe mandò al fratello due suoi
fidi, ripetendo la proposizione che a lui si lasciassero i paesi dell'Asia.
Baiazet fece rispondere che « la sposa dello stato non poteva essere
divisa fra due pretendenti », e propose alfratello di pagargli un annuo
assegno, purchè si obbligasse a viversene tranquillo a Gerusalemme.
Non essendo stata accolta questa proposizione, Ahmed pascià si avanzò
colla cavalleria asiatica verso la Cilicia per impadronirsi del fuggitivo.
Intanto il Caramano Kasimbeg avea consigliato Zizim a cercare un ri
fugio in Europa piuttosto che in Persia o in Egitto: poscia avrebbe
potuto, diceva, penetrare negli stati turchi di Europa e ricominciare
la guerra contro il fratello. Seguendo questo parere, Zizim spedi Sulei
mano il Franco, uno dei suoi confidenti, come ambasciatore con regali
al gran maestro dell'ordine di San Giovanni a Rodi, per domandargli
un'amichevole accoglienza e il passaggio per il suo paese.
332 ZIZIM

Questa fuga a Rodi di Zizim, principe turco, figlio del conquista


tore che avea mosso così feroce guerra ai cavalieri di Rodi, è una delle
più famose che ricordi la storia. Noi la narriamo seguendo Hammer
nella sua Storia dell'impero Ottomano.
Verso la fine del luglio 1482, Zizim, nel porto di Korkey o Coricos,
montò sopra una galera dell'Ordine per recarsi a Rodi. Il gran priore
di Castiglia don Alvarez de Zuniga era venuto egli stesso a prenderlo.
Tre giorni dopo approdò a Rodi, ove fu accolto coi più grandi onori.
Un ponte lungo dieci piedi e largo quattro, tutto coperto di ricche
stoffe, si stendeva dalla spiaggia fino alla galera, acciocchè il principe,
uscendo da questa, potesse scendere a terra stando a cavallo. I cavalieri
gli fecero lieta accoglienza e lo accompagnarono in solenne processione.
Le strade per cui passava, erano tutte adorne di tappeti fiamminghi e di
altra specie, ed ornate di fiori e rami di mirto. Le finestre erano piene
di donzelle e matrone, le terrazze colme di popolo. Precedevano i servi
e i musici vestiti a gala, cantando inni francesi; seguivano i cavalieri
in abiti di seta; veniva finalmente il gran maestro dell'ordine, D'Au
busson, sopra un destriero bardato d'oro, alla sinistra del principe. Fu
destinato a Zizim per abitazione il palazzo della lingua di Francia. Ali
beg, confidente di Gem, fu spedito con una galera alla costa della Cli
cia, a prendere il bagaglio del principe ed il suo seguito.
Intanto erano giunti a Rodi alcuni deputati dal governatore di Ca
ramania e di Ahmed pascià, offerendo una stabile pace tra l'imperatore
turco e l'Ordine gerosolimitano, se il gran maestro volesse mandare
ambasciatori al sultano per conchiuderla.
Fu allora deciso dal gran maestro e dal capitolo dei cavalieri di
allontanare Zizim e di mandarlo in Francia in una commenda dell'or
dine. L'infelice principe trovava dunque la prigionia nei paesi dove egli
aveva sperato di trovare l'ospitalità e i mezzi per salire il trono di suo
padre. Gli ambasciatori mandati da Rodi al sultano ricevettero onore
vole accoglienza e ottenero favorevoli patti, per opera specialmente
di uno dei negoziatori incaricati dal sultano, Mesih pascià, quello stesso
che ai tempi di Maometto II aveva ferocissimamente attaccato Rodi.
Tanto premeva a Baiazet ed ai suoi d'impedire che il principe fuggi
tivo trovasse aiuto dai cavalieri in Europa! Fu conchiusa una conven
zione, in vigor della quale si stabiliva pace e libero commercio fra le
due nazioni. Gli ambasciatori tornarono a Rodi con ricchi donativi, ac
compagnati da un legato turco, che concluse col gran maestro un se
condo trattato secreto, riguardante la sola persona di Zizim, in forza
del quale il sultano si obbligava di pagare annualmente 45.000 zecchini,
a condizione che questo principe fosse custodito dall'Ordine.
La nave sulla quale Zizim s'era imbarcato, allo scorcio d'Agosto
del 1422, arrivò dopo un mese a Messina, e verso la metà di Otto
bre a Nizza. Il principe poeta in quel delizioso clima, che gli ricor
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 333

dava le splendide contrade d'Oriente, ov'era nato, sentì ispirata la sua


musa e dettò alcuni bei versi. Ma poscia chiese che lo lasciassero pro
seguire il viaggio verso la Rumelia, ov'era suo disegno di riprender
la guerra contro il fratello. Ma l'infelice era stato tradito, venduto; era
prigioniero. Il capitano e i cavalieri di Rodi si opposero, dicendo che
trovandosi ora sopra il suolo francese, non poteva partirsene senza
l consenso del re di Francia; e che volesse mandare a questo un suo
legato con uno dei cavalieri: sarebbero di ritorno fra dodici giorni.
Zizim spedi uno de' suoi, Nassuh-Celebì, il quale dopo due giorni di
viaggio fu arrestato e messo in carcere.
Quattro mesi erano passati dall' arrivo del principe ottomano a
Nizza. Intanto la peste cominciava e desolare questa città e il paese
adiacente, ed offriva un pretesto per condurre il principe più addentro
nel paese. Infatti fu condotto per Saint Jean de Maurienne a Chambéry
e di là a Roussillon. Da questa città Zizim spedì due suoi fidi al re di
Ungheria, affine d'esplorare se fosse sicura la strada, ma nulla più
egli seppe di loro.
A Roussillon il principe musulmano vide il duca di Savoia e gli re
galò una bellissima arma d'acciaio di damasco intarsiata d' oro. Il
duca promise di fare il possibile per liberarlo dalle mani dei cava
lieri.
Intanto l'infelice prigioniero era stato condotto per l'Isero e il
Rodano a Le Puy nel Delfinato. Era allora a Chambéry un ambascia
tore di Baiazet spedito prima a Rodi, poi al re di Francia. Zizim fu
separato dal suo seguito che, imbarcato a Aigues-Mortes, venne ricondotto
a Rodi: pochissimi de' suoi Turchi restarono col principe, a dividere la
sua prigionia. Fu poscia trasportato in un castello situato sopra un
alta rupe, e da questo passò a Sassenage, ove l'amore e la corrispon
denza tenuta colla figlia del castellano Elena Filippina rasserenarono
i tristi giorni del figlio del conquistatore. Tra le poesie del suo Divano
(collezione), che si conservano manoscritte alla Biblioteca di Berlino, ce
ne sono parecchie dedicate alla bella Francese.
Ma fu presto tolto da un luogo ove aveva provato qualche conso
lazione nelle sue sventure, e trasportato a Bourg-Neuf, il cui castello
era da lungo tempo possesso ereditario della famiglia del gran mae
stro D'Aubusson, che vi era nato. Indi fu tratto a Montuel,a Moretel,
e al castello di Bocalimi, ove rimase due anni.
Quattro dei più grandi sovrani d'Europa negoziavano col gran
maestro di Rodi la liberazione del principe turco, affine di porlo alla
testa di eserciti contro Baiazet e indebolire le forze degli Osmani,
seminando fra loro la guerra civile. Ma l'astuto D'Aubusson seppe
conservarsi, ad onta di tanto richieste, in possesso del principe. Oltre
alla somma che riceveva da Baiazet, si fece dare anche dalla madre e
dalla moglie di Zizim in Egitto altri ventimaila zecchini, col pretesto
33 ZIZIM

di equipaggiare le navi necessarie per il prossimo suo trasporto. Se


condo gli storici ottomani, D'Aubusson si servì per questi raggiri di
varie carte bianche segnate col sigillo del principe, ottenute a forza di
danaro dal suo guardasigilli, e poi scritte in nome di Zizim a sua mo
glie ed ai sovrani europei che per lui s' interessavano.
Ma il denaro non era il solo mezzo che i Turchi aveano impiegato
per comperare il gran maestro dell'Ordine di Rodi e il suo capitolo.
Aveano fatto loro un prezioso donativo: era la mano destra, dicevasi,
di San Giovanni Battista, conservata in uno stipetto di cipresso coperto
da un prezioso drappo di seta. Questa reliquia era stata trovata a Costan
tinopoli al tempo della conquista insieme colla corona di spine, la spu
gna e la lancia della crocifissione. Era insomma una delle tante pseudo
reliquie, allora e anche pur troppo adesso veneratissime dai gonzi, dai
superstiziosi che bevono grosso.
L'astuto Baiazet tentò gli stessi mezzi di corruzione anche col re
di Francia Carlo VIII, e gli mandò un ministro a portargli altre pre
ziose reliquie ; ma quel re non volle vedere nè l'inviato, nè le reli
quie che portava.
L'infelice Zizim passava in questo modo nella cattività il fiore dei
suoi giovani anni. I cavalieri aveano fatto fabbricare appositamente una
torre per custodirlo. Era formata di sette piani, di cui l'ultimo, il più
basso, era destinato alla cantina, il secondo alla cucina, il terzo alle ca
mere per la servitù, il quarto e quinto alle camere di abitazione e da
letto del principe, il sesto e settimo ai cavalieri che sopra lui vigi
lavano.
Il Papa da molto tempo desiderava di avere in sua mano e custo
dia il principe turco; e l'ebbe alla fin fine per interposizione di Carlo VIII.
Accordò all'Ordine grandi libertà e favori, per risarcirlo dei quaranta
cinquemila zecchini annui che veniva a perdere. D'Aubusson ottenne
in ricompensa della sua docilità il cappello cardinalizio, che male in
vero conveniva ad un guerriero e gran maestro di un ordine militare.
Cosi Zizim dopo sette anni passò dalla custodia dell'Ordine a quella
del papa. Da Civitavecchia ove giunse sopra una galera Italiana, si recò
al castello di Francesco Cibo, figlio d' Innocenzo VIII, aspettando il
giorno destinato al solenne ingresso in Roma, che fu il 13 Marzo 1489.
Il seguito di Zizim apriva la marcia; seguivano le guardie e i ca
valli del papa, i suoi paggi, quelli dei cardinali e della nobiltà romana.
Il visconte De Monteil, fratello del gran maestro che tanto gloriosa
mente si era distinto all'assedio di Rodi, cavalcava vicino aCibo figliuolo
del papa. Veniva poi Zizim sopra un destriero di battaglia pomposa
mente bardato; il seguiva il priore d'Auvergna e gli altri cavalieri di
lingua francese destinati a custodirlo. Chiudevano la marcia il gran
camerlingo del papa, i prelati e i cardinali.
Il principe ottomano fu alloggiato al Vaticano, e il di seguente fa
FUGRE ED VASIONI CELEBRI 333

ammesso all'udienza del papa per mezzo del gran priore d'Auvergna
e dell'ambasciatore francese. Il papa lo ricevette in pieno concistoro
dei cardinali, seduto in trono. Il principe non volle però scoprirsi il
capo, nè piegare il ginocchio. Senza neppur inchinarsi, andò diretta
mente verso il papa e baciollo sulle spalle, lo stesso facendo poi coi
cardinali. Con parole brevi ed altiere si raccomandò alla protezione del
capo della Chiesa, e lo pregò di accordargli un colloquio secreto. Gli
raccontò in questo le pene sofferte nelle sua prigionia di sette anni, la
sua separazione dalla madre, dalla moglie, dal figlio, che ardentemente
bramava rivedere e per cui domandava di partire per l'Egitto.
Le lagrime dell'infelice principe commossero il papa sino a ver
sarne egli pure; ma gli rappresentò non potersi per allora combinare
il suo viaggio per l'Egitto col desiderato possedimento del trono, e ag
giunse che il re d'Ungheria bramava di averlo seco al confine della
Rumelia; gli consigliò prima di tutto che si convertisse alla religione
cristiana. Rispose Zizim che con questo giustificherebbe la sentenza di
morte dei suoi dottori; che non cambierebbe la sua fede per tutto l'im
pero ottomano, neppure per il dominio del mondo intero. Innocenzo
allora desistette e il congedò con parole consolanti.
Baiazet aveva mandato a Roma un suo ministro per trattare col
papa relativamente alla custodia del prigioniero. Offriva 40,000 zecchini
all'anno e, per giunta sulla derrata, diverse reliquie, nientemeno che
la canna e la spugna con cui si dette da bere a Cristo, e la lancia con cui
fu trafitto in croce.
Zizim stanco della sua cattività, tentò di tornare in grazia col fra
tello, e disse all'ambasciatore turco che stava per tornare a Costanti
nopoli, che era disposto a sottomettersi e restargli sempre fedele. Ma
non sembra che si sia nulla concluso.
Durante la malattia mortale d'Innocenzo, il prigioniero fu custodito
in Castel Sant'Angelo ; ma tosto che il nuovo papa Alessandro VI sali
sul trono, ritornò al Vaticano.
Alessandro VI spedi un ambasciatore al sultano e propose di custo
dire il prigioniero per 40,000 zecchini annui, e di ucciderlo quando
gliene fossero contati 300.000 in una volta sola.
Sceso Carlo VIII re di Francia in Italia nel 1494, ed entrati i Fran
cesi in Roma, Alessandro VI si era chiuso in Castel Sant'Angelo ed
avea condotto seco il principe turco. Segnata poi la pace tra il papa
e il re di Francia, una delle condizioni fu che il principe fosse con
segnato al re per potersene servire per la esecuzione di altri più estesi
piani di conquista. Da Roma Zizim segui Carlo VIII a Velletri e a
Napoli. Baiazet aveva mandato in Italia un altro ministro con danari;
ma questi fu ritenuto e spogliato da Giovanni della Rovere governa
tore di Sinigaglia.
Alessandro, perduta cosi la somma già scaduta pel mantenimento di
336 ZIZIM

Zizim, perduta anche la speranza di più 'ottenerne, afferrò l'ultimo


mezzo che ancora gli rimaneva per guadagnarsi l'oro turco coll'avvele
nare l'infelice principe prima di lasciarlo partire con Carlo VIII. Sic
come nelle mani del re francese, Zizim poteva riuscir pericoloso
a Baiazet e alla Turchia, il vicario di Cristo pensò di rendersi bene
merito del sultano col tor di mezzo l'infelice è averne poi (sperava)
una lauta ricompensa. -

Concordano gli storici italiani e i turchi nel fatto d'un lento avve
lenamento, ma non nel modo con cui il veleno fu somministrato. Vogliono
i primi che avvenisse per mezzo di una polvere bianca frammischiata
allo zucchero, come Borgia avvelenò poscia alcuni dei suoi cardinali.
Ma i secondi pretendono che si fosse introdotto nel suo sangue un
lento veleno mediante una piccola scalfittura fattagli con un rasoio av
velenato. Gli Osmani dicono che il barbiere di Zizim fosse un Mu
stafà, rinegato greco; il quale seppe poi mettersi in grazia di Baiazet
e divenne gran visir.
Quando Zizim giunse a Napoli, era già tanto debole, che non potè
nemmeno leggere la lettera ricevuta dall'Egitto da sua madre. Si
vuole che l'ultima sua preghiera sia stata: Allah! se i nemici della
fede si debbono servire della mia opera per effettuare dei piani dan
nosi all'Islam, non mi far arrivare a quel giorno e prenditi il mio spi
rito. Egli lo esalò infatti il 24 febbraio 1495, in età di trentasei anni.
Il re di Francia ne pianse sinceramente la morte, mandò droghe
per imbalsamarne il corpo e lo fece seppellire a Gaeta. Fece avere l'ere
dità dell'infelice principe a sua madre in Egitto, col mezzo di Nassuh,
uno dei più fedeli servi del defunto. Ma sia che fossero contrari i venti,
sia che questi pure tradisse il suo signore, fatto sta che la nave entrò
nel porto di Costantinopoli invece che in quello di Alessandria.
Baiazet volle soddisfare all'ultima volontà di suo fratello,ch'era da
essere sepolto in terra dell'Islam. Un ambasciatore turco spedito al re
Federico d'Aragona ne prese il cadavere, che fu trasportato a Brussa
e sepolto vicino a quello del sultano Murad II. Così mori questo infe
lice principe, dopo tredici anni di prigionia, dopo di essere stato vit
tima specialmente della slealtà e della cupidità del gran maestro del
l'Ordine di Rodi e di Alessandro VI.
Le poesie di Zizim furono raccolte e messe in ordine da Saadi suo
defterdar(secretario). È a desiderare che vengono presto o tardi in luce.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 2.


Bimsi, principe Indiano, ugge con sua moglie. Pag. 358.
XLVI

GIACOMO V

(1528)

Sir Giorgio Douglas e suo fratello, il conte di Angus, che aveva


sposato la regina vedova Margherita, si erano impadroniti di Giacomo V,
re di Scozia, ancora fanciullo. Il conte d'Angusgovernava il regno e fa
ceva le funzioni di reggente, sebbene non ne avesse il titolo. In una
parola quei due signori si adoperavano a sostituire la loro famiglia
sul trono di Scozia alla famiglia regnante.
Erano falliti molti tentativi per liberare il re; anzi erano state
date senza successo due battaglie dai partigiani di Giacomo V. Al
principio della seconda Giorgio Douglas accorgendosi che il re cercava
l'occasione di fuggire, gli avea detto: è inutile che Vostra Grazia pensi
a scappare: se i nostri nemici vi tenessero per un braccio e noi per
l'altro, vi faremmo in pezzi piuttosto che lasciarvi.
Avevano incaricato di custodirlo una guardia speciale formata di
cent'uomini scelti, comandati da uno dei loro, Douglas di Parkhead.
Tutti i tentativi colla forza aperta essendo dunque falliti, Gia
como V risolvette di ricorrere all'astuzia. Ottenne da sua madre, la
regina Margherita, che gli cedesse il castello di Stirling, che le era
stato assegnato come dotazione vedovile, e ne affidò la guardia ad un gen
tiluomo in cui egli poteva avere una piena fiducia. Essendosi così
preparato un asilo, Giacomo spiò l'occasione di rifugarsi colà e, per
addormentare la vigilanza di Douglas, mostrò tanta deferenza al conte
d'Angus, che non si dubitò più ch'egli avesse preso un partito e che,
disperando di fuggire, si fosse rassegnato alla sua schiavitù.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 339

Giacomo abitava allora Falkland, residenza reale, situata in buona


posizione per la caccia da tiro e col falcone, ch'era il suo divertimento
favorito. Il conte d'Argus, Arcibaldo e Giorgio Douglas si erano al
lontanati tutti e tre, chiamati ad altre parti del regno dai loro affari
o dai loro piaceri. Restavano presso il re solamente Douglas di Parkhead
e le cento guardie, sulla cui vigilanza gli altri sapevano di poterfare asse
gnamento. Giacomo credette il momento favorevole. Per istornare i so
spetti annunciò che si alzerebbe il giorno seguente per tempissimo a dar
la caccia al cervo. Douglas di Parkhead, non temendo di nulla, si recò nel
suo appartamento dopo aver messo le sentinelle; ma il re, appena si vide
solo, chiamò Giovanni Hart, suo paggio favorito, e gli disse: Gio
vanni, mi ami? – Più di me stesso rispose il paggio. – Vuoi rischiar
tutto per me? – Anche la mia vita, se fa bisogno, soggiunse il gio
vinetto. – Allora il re gli spiegò il suo disegno, e indossata la livrea di
un valletto, si recò alla scuderia col suo paggio, come per fare i pre
parativi per la caccia del giorno seguente.
Le guardie ingannate da quel travestimento lo lasciarono pas
sare senza ostacolo. Tre buoni cavalli lo aspettavano, già bardati e sel
lati, perchè il re si era confidato con uno de'suoi servitori, il quale
avea già preso tutte le disposizioni necessarie.
Il re montò a cavallo coi suoi due fidi e corse di galoppo tutta la
notte, come un uccello scappato di gabbia. Allo spuntar del giorno
arrivò al ponte di Stirling. Siccome non si poteva passare il Forth
che sopra quel ponte o in battello, Giacomo ordinò di chiudere le
porte che lo difendevano e di non lasciar passare nessuno.
Egli era molto stanco quando giunse al castelio di Stirling, dove
fu ricevuto con gioia dal governatore che aveva nominato egli stesso.
Si alzò il ponte levatoio, si posero guardie per tutto, insomma si pre
sero tutti i provvedimenti dettati dalla prudenza. Ma il re aveva tanta
paura di ricadere nelle mani dei Douglas che, malgrado la sua fatica,
non volle mettersi a letto prima di aver ricevuto e posto sotto il suo
guanciale le chiavi del castello.
Il giorno dopo, ci fu grande allarme a Falkland. Giorgio Douglas
era tornato la notte stessa della partenza del re, verso le undici. Ap
pena giunto, domandò dove fosse Giacomo, e gli fu detto che dormiva,
perchè dovea partire la mattina per tempissimo e andar alla caccia.
Si ritirò dunque completamente tranquillo.
Ma la mattina dopo ricevette delle notizie molto differenti. Un .
certo Pietro Carmichael, bailo di Abernethy, venne a battere alla sua
porta e gli chiese se sapeva dove fosse allora il re. – E a dormire nella
sua camera, rispose Giorgio – V'ingannate, riprese Carmichael: ha
traversato stanotte il ponte di Stirling.
Douglas balza fuor di letto e corre alla camera del re. Picchia più
volte e, non ricevendo risposta, fa gettar abbasso la porta. Trovando
30 GIACOMO V

l'appartamento vuoto, grida: tradimento! il re è partito ! Manda subito


corrieri a' suoi fratelli e ordina a tutti i suoi partigiani di raccogliersi
e dar la caccia al re.Ma Giacomo fece pubblicare a suono di tromba, che
dichiarerebbe traditore chiunque portasse il nome di Douglas, che si
avvicinasse a dodici miglia alla sua persona e prendesse parte al go
verno del regno.
I Douglas dovettero sottomettersi e d'allora cominciò la decadenza
della loro casa. Giacomo non perdonò loro mai (Walter Scott, Storia di
Scozia, 1 serie, capitolo XXIII).
XLVII

DUCA DI ALBANY

(1475)

Giacomo III, re di Scozia, vedeva con inquietudine l'ascendente che


i suoi fratelli, il duca di Albany e il conte di Mar, aveano acquistato
sopra i suoi sudditi; e le insinuazioni degli uomini vili ed oscuri, di
cui il re faceva la sua società intima, cangiarono ben presto questi so
spetti in odio mortale e implacabile.
Quegl'indegni favoriti procacciarono dunque di riempire l'animo
del re di terrore e di apprensioni sui pericoli che, come egli preten
deva, gli preparavano i suoi fratelli; gli raccontarono che il conte di
Mar aveva consultato delle streghe per sapere quando e come il re
morrebbe, e che gli aveano risposto che questo avverrebbe per mano
dei suoi prossimi parenti. Condussero pure a Giacomo un astrologo, il
quale gli disse che c'era in Iscozia un leone che sarebbe messo a morte
da leoncini.
Tutto ciò fece una tale impressione sull'animo timido e geloso del
re, ch'egli fece arrestare i suoi fratelli. Albany fu chiuso nel castello
di Edimburgo, ma la sorte di Mar fu decisa subito. Il re lo fece soffo
care in un bagno o, secondo altri storici, gli fece trarre sino all'ultima
goccia di sangue.
Albany correva gran rischio di provare la stessa sorte: ma alcuni
de' suoi amici di Francia e di Scozia avevano fatto il loro piano per
liberarlo. Un piccolo sloop entrò nella rada di Leith, carico di vini di
Guascogna, e ne furono mandati due barili in dono al principe prigioniero.
La guardia del castello avendo permesso che fossero portati nella ca
mera di Albany, il duca, esaminandoli in secreto, trovò in uno di essi
una grossa palla di cera, che racchiudeva una lettera in cui lo si esor
tava a fuggire, e gli si prometteva che il piccolo bastimento che
32 DUCA DI ALBANI

aveva portato il vino, sarebbe pronto a riceverlo, se potesse arrivare sino


alla spiaggia del mare. Lo si scongiurava inoltre di affrettarsi, poichè
doveva avere tagliata la testa il giorno dopo. Un grosso rotolo di
corda era chiuso in quello stesso barile, perchè il duca potesse discen
dere dall'alto della mura del castello sino a piedi della rupe su cui
era fabbricato. Il suo ciambellano, servitore fedele, ch'era in pri
gione con esso, promise di aiutar la sua intrapresa.
Il punto principale era di mettere le mani sul capitano delle
guardie. Albany lo invitò a cenare con lui sotto pretesto di assaggiare
il buon vino che gli era stato regalato. Il capitano, dopo aver messo
delle guardie dove credeva che ci potesse essere pericolo, si recò nella
camera del duca, accompagnato da tre soldati, e prese parte alla re
fezione che gli fu offerta.
Dopo cena il duca gli propose di giuocare al tric trac; e il capi
tano seduto vicino a un gran fuoco e provando l'effetto del vino, che
il ciambellano non cessava di versargli, cominciò ad addormentarsi,
del pari che i soldati, cui era stato pure dato vino in copia.
Allora il duca di Albany, uomo vigoroso e cui la disperazione
raddoppiava le forze, si slanciò dalla tavola, colpi col suo pugnale il
capitano, che cadde morto stecchito. Si liberò nello stesso modo da due
soldati, intanto che il ciambellano pugnalava il terzo, e ne gettarono
i corpi nel fuoco.
Venne loro fatto tanto più facilmente di disfarsi di quei poveri diavoli,
che l'ubbriachezza e la sorpresa gli avevano resi come imbecilli. Presero
allora le chiavi nella tasca del capitano e, salendo sulle mura, scelsero
un canto lontano, fuori della vista delle guardie, per effettuare la loro
pericolosa discesa.
Il ciambellano volle provar la corda scendendo primo, ma era
troppo corta: cadde e si ruppe una coscia. Gridò allora al suo pa
drone di allungar la corda.
Albany tornato nella sua camera prese le lenzuola del letto, le attaccò
alla corda e si trovò ben presto sano e salvo a piedi della rupe. Allora
prese il ciambellano sulle spalle, lo portò in un luogo sicuro, dove potè
restare nascosto finchè la ferita fu guarita, e si recò sulla spiaggia del
mare, ove, a un segnale convenuto, una barca venne a prenderlo e lo
condusse allo sloop, che fece vela per la Francia.
Durante la notte le guardie, che sapevano che il loro ufficiale era
con tre uomini nell'appartamento del duca, non ebbero alcun sospetto
di ciò che avvenne. Ma quando, allo spuntar del giorno, scorsero la
corda che pendeva lungo il muro, diedero l'allarme e si precipitarono
nella camera del duca. Trovarono il corpo d'une dei soldati attraverso
alla porta e quelli del capitano e dei due altri stesi nel fuoco.
Il re fu molto sorpreso di un' evasione cosi straordinaria, e non
volle credervi che dopo di avere esaminato i luoghi cogli occhi proprii
(Walter Scott, Storia di Scozia. I serie, Cap.XIX).
XIVIII

IRAN (CESC() TERZO

GIACOMO DA CARRARA
(1402)

Francesco terzo e Giacomo da Carrara, figli di Francesco Novello


signore di Padova, erano stati fatti prigionieri nel giugno del 1402 alla
battaglia di Casalecchio, in cui l'esercito di Gian Galeazzo duca di Mi
lano, comandato dal conte Alberico di Barbiano, aveva disfatto le truppe
alleate fiorentine, bolognesi e padovane.
Francesco terzo valorosamente combattendo era stato forzato ad
arrendersi a Facino Cane, famoso condottiere di quei tempi ; e Giacomo
si era arreso al Gonzaga, signore di Mantova.
Narreremo, seguendo lo storico di Padova Andrea Gataro, come
ambedue i fratelli riuscirono a mettersi in salvo.
Francesco con altri prigionieri padovani era stato in sul principio
di luglio condotto da Facino Cane a Parma. Era col Carrarese un
barbiere padovano, deputato a servirlo. Essendo costui uscito per
alcuni servigi dall'albergo ove si trovavano,ben custoditi,i prigionieri, ed
andato in piazza, per vedere le cose della terra, come fanno i forestieri, si
accostò a lui un Giovanni da Parma e dissegli: Che fai tu, Padovano?
e fecegli gran festa e carezze. Ed insieme ragionando partirono di piaz
za e, dopo molte cose, disse Giovanni da Parma al barbiere:
» dimmi, questo tuo signore perchè non fugge di qua, togliendosi dalle
34 FRANCEsco TERzo E GIAcoMo DA cARRARA

mani di Facino Cane? chè, per lo corpo di Cristo! s'egli va alla pre
senza del duca di Milano, non torna mai più a Padova. E certo, s'egli
volesse, io avrei il modo di trarlo da questa terra e condurlo a salva
mento sino sul Ferrarese. Nè a ciò mi muove se non la pietà che io
ho di lui, e l'amore ch'io porto a tutta la casa da Carrara ed al
signor suo padre, perchè già stetti nella sua corte per maniscalco dei
suoi cavalli, ed ebbi da lui grandi favori. E certo io farei ogni cosa
per avere la grazia di quel signore. »
Piacquero molto al barbiere padovano queste parole, e gli rispose:
dimmi che modo avresti di cavarlo di qui, e come il condurresti fuori
di questo territorio in luogo sicuro? »
Al quale Giovanni da Parma rispose: Io te lo mostrerò. – E mena
tolo alle mura della città, e montato sul muro, disse: « noi verremo qui
e ci caleremo giù, perchè questo muro è basso, come tu vedi, e pas
seremo questa fossa, la quale è con poca acqua; poscia entreremo in
un bosco qui vicino, nel quale io so molto bene la via per cui voglio
poi condurre il suo signore in luogo sicuro. Confortalo all'impresa, e
fa che tu mi porti la risposta, chè io ti aspetterò in piazza.»
La cosa piacque molto a Francesco. Il barbiere parlò la sera
con Giovanni da Parma, il quale preparò quanto era necessario per la fuga.
Venuta l'ora di andar a riposare, Francesco andò a letto, a canto a
Rigo Galletto, altro prigioniero padovano, con cui sempre dormiva; e,
fingendo di dormire, stette sino all'ora determinata a partire. Indi si
levò quietamente e, vestitosi dei panni di un suo famiglio, tolse un'in
guistara in mano, ed il barbiere innanzi andava cantando. Usciti fuori
dall'albergo, con passi veloci si recarono al luogo concertato ed ivi
trovarono Giovanni da Parma che gli aspettava. Presto tutti e tre an
darono al muro all'ora quinta di notte, e il 7 di luglio con buona
ventura montarono sopra il muro e poi si calarono tutti e tre abbasso.
Primo Giovanni da Parma montò nella fossa; dopo lui Francesco terzo
e finalmente il barbiere; poi tutti e tre velocissimamente cominciarono
a camminare e poco lontano entrarono in un bosco, dove il giorno si
teneano nascosti e la notte camminavano con gran paura, perchè molte
volte sentivano strepito di gente che gli andava cercando.
Giunsero finalmente sul territorio di Nicolò da Este, cognato di Fran
cesco. Questifece subito sapere il suo arrivo alla marchesana sua sorella,
pregandola che gli mandasse cavalli e panni da vestire, chè tosto vo
leva essere a Padova. La marchesana, subito avuta la nuova, montò
a cavallo con alquanti della sua famiglia e andò ad incontrare il fra
tello; e, così trovatisi insieme, strettamente si abbracciarono.
Dipoi Francesco si rivesti coi panni portati dalla sorella, e montò
a cavallo coi suoi due compagni e cavalcò verso Padova. Entrò nella
città il 15 luglio con grandissima festa ed allegrezza di tutto il popolo,
e fu dal padre e dalla madre degnamente ricevuto; e per molti giorni
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 345

fu festeggiato fra' cittadini. Dipoi Francesco Novello signore di Padova


fece gran festa a Giovanni da Parma e gli donò mille ducati d'oro e
tante possessioni che gli rendevano ogni anno d'entrata ducati trecento,
ed una bella casa, ed in vita sua buona provvisione con quattrocento
cavalli.
Il signore di Mantova dopo aver visitato Gian Galeazzo a Pavia e
avergli presentato il suo prigioniero, se n'era tornato a Mantova, te
nendo Giacomo nella sua corte sempre onestamente guardato e spesse
volte accompagnato dal figliuolo e da alcuni altri gentiluomini.
Il signore di Padova, finita la guerra di Bologna, credeva sicura
mente di ricevere Giacomo suo figliuolo dal Gonzaga che il teneva pri
gione, per la parentela ch'era fra lui e Francesco terzo suo genero, e
per li buoni servigi che gli avea fatto nel tempo della guerra di Man
tova. E più volte il signore di Padova per ambasciatori e lettere avea
chiesto il figlio al Gonzaga. Questi rispondeva che sì lo darebbe volen
tieri, ma che il duca di Milano, del quale era collegato, non voleva che
il rendesse; che però fosse certo che Giacomo saria da lui sempre ben
trattato; e così era veramente.
Credè un tempo Francesco Novello che veramente per cagione del
duca di Milano il figliuolo suo rimanesse prigioniero: però, essendo
morto il duca, di nuovo mandò e rimandò a domandare il figliuolo al
Gonzaga, offrendogli ciò che a lui fosse possibile a fare. Mai non ebbe
altro che parole generali. Pure, dopo molte pratiche, il signore di Man
tova chiese, per il riscatto di Giacomo, al signor da Carrara suo padre
ducati 100.000 d'oro. Conoscendo Francesco l'ingratitudine e l'avarizia
del Gonzaga, gli propose di dargli 50,000 ducati; il qual partito fu r
cusato. Il che veduto, il Carrarese procurò un altro mezzo di levar il
figlio dalle mani del signore di Mantova, e trovò questo modo.
Fece venire certi Bonvicino e Piero da Soletto fratelli, che sape
vano molto bene il mestiere del pescare e quello ogni giorno esercita
vano, e con Giacomo da Padova servitore suo ordinò loro che andassero
a stare a Mantova ed ivi esercitassero il pescare nel lago con la bar
chetta, accostandosi spesse volte attorno la corte del Signore ad un
portello che metteva fuori delle mura ad una spiaggia. Aveva Francesco
Novello avuto avviso da Giacomo suo figliuolo, che spesso si giuocava
alla palla in quel luogo e che alcunevolte era gettata fuori del muro ed
il portello si apriva per andarla a prendere, ed alle volte toccava a lui.
Quelli che lo guardavano, ora gli andavano dietro ed ora no. Il signore di
Padova avendo dunque parlato con quei tali, loro diede ordine di com
perare barche e reti, quello insomma ch'era bisogno, e li mandò via e
con loro mandò la madre di Giacomo suo servitore.
Giunti a Mantova i due Padovani presero fuori della terra una
casa atta a pescatori, e comperarono una barchetta e molte sorte di
reti; e subito si diedeIo all'esercizio del pescare. Tutto il pesce che
36 FRANCESCO TETZO E GIACOMO DA CARRARA

pigliavano, lo mandavano a Mantova a vendere per mezzo della donna


madre di Giacomo padovano, facendo sempre buon mercato.
La donna era conosciuta da un Rigolino tedesco servitore di Giar
como da Carrara, allora con lui. Il Tedesco,fingendo alle volte di voler
comprare pesce ed alle volte comperandone,parlava con la detta donna
e le dava dei bullettini piccoli scritti con avvisi ai pescatori sui modi
che dovevano tenere. Spesse volte gli tornavano la risposta ora a bocca
ora con bullettini piccoli posti nel ventre dei pesci, i quali vendevano
al detto Rigoiino, e non ad altri, trovando la sagace donna il modo
di farlo.
Il signore di Padova, oltre i pescatori, mandò a stare a Mantova
in diversi luoghi dodici uomini con dodici cavalle corridore delle mi
gliori che fossero nel suo stato; i quali stessero sopra il lago e guar
dassero se Giacomo sipresentasse alla riva per dargli soccorso delle dette
cavalle; e smontato che fosse di barca, lo conducessero sano e salvo sino
a Castelbaldo. E a tale uffizio deputò dodici suoi valorosi cittadini e ben
armati sopra altri dodici cavalli, che ben sapevano le strade di tutto
quel paese. E quelli spediti con buonissimo ordine andarono ed ese
guirono quanto era stato loro commesso; e giunti a Mantova si misero
alle poste, ove lor parse bisogno, e così stettero.
Messe tutte le cose sopradette ad ordine,Giacomo da Carrara spesse
volte invitava al giuoco della palla, e così giocando occorreva che
spesso la palla era gettata fuori del muro; ed alcune volte andavano
quei gentiluomini mantovani a prenderla, ed altre volte Giacomo da
Carrara. E cosi più giorni facendosi tal giuoco, mai non mancavano
i pescatori di continuare il loro esercizio attorno il lago, ed ognora da
Giacomo da Carrara erano veduti.
Un giorno essendosi que' Mantovani ridotti al giuoco della palla,
Giacomo da Carrara spogliatosi in giubbone e senza cosa alcuna in te
sta (abito fuora d'ogni sospetto), si messe al giuoco. Ed essendo la palla
gettata fuori del muro, e il portello aperto, andò Giacomo, facendo vista
di prenderla di fuori e corse alla riva del lago, ov'erano i pesca
tori giunti, e subito saltò nella barca. E quelli, lasciate le reti e presi
i remi, con forza si posero a vogare verso l'altra riva. E questo ve
dendo, que' Mantovani cominciarono a gridare: « dà a riva, dà a riva
sotto pena della forca.» Ed allora Bonvicino e i compagni vogavano va
lorosamente,e senza tema alcuna portarono Giacomo da Carrara oltre
il lago, ed ivi trovarono le cavalle ad ordine. Usciti tutti di barca, si
calzarono gli speroni e sopra quelle montarono e di buona voglia co
minciarono a correre, seguitando sempre gli armati sopra buoni ca
valli. E così corsero sino ad una certa valle, dove convenne loro smon
tare a piedi, e quella passare abilmente per non affondare, e mandarono
cavalli e cavalle per altra strada a Castelbaldo.
Camminato ch'ebbero un poco per la valle, trovarono una barca
PUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 347

che gli aspettava ed entrarono in quella bagnati alquanto, e tutti co


minciarono a vogare, essendo fornita la barca di ciò che era bisogno.
E così vogando lietamente, giunsero a Castelbaldo, e smontati tutti a
terra si rinfrescarono. E subi.o per un cavallaro notificò Giacomo al
signore come egli andava verso Padova. Rinfrescati tutti, montarono a
cavallo e cavalcarono verso di quella città.
Essendo la nuova arrivata, tutte le arti con i loro gonfaloni anda
rono incontro a Giacomo sino al Bassanello, e tutto il popolo, maschi
e femmine, piccoli e grandi, gridando tutti « carro, carro. Benedictus
qui venit in nomine Domini. » E cosi giunto messer Giacomo con canti
e feste entrò in Padova e fu dal padre e dalla madre suo teneramente
ricevuto, e poi ognuno con gran festa al suo albergo si ritornò; e av
venne questo il 23 di novembre 1402, il giorno di san Clemente.
XLIX

FRANCESCO NOVELLO
DA CARRARA

(1390)

Per narrare le fortunose vicende di Francesco Novello da Carrara


nella sua fuga dal castello di Cortezzone, ov'era stato confinato da Gian
Galeazzo conte di Virtù signor di Milano, invece di copiare Muratori
o Sismondi, ci prenderemo a guida gli storici padovani Galeazzo e
Andrea Gataro, alla cui opera hanno pure largamente attinto quei due
celebri scrittori.
Gian Galeazzo avea cresciuto la sua potenza a danno dei tirannelli
d'Italia. Spodestati i meno potenti di essi, era pure riuscito a ro
vinare gli Scaligeri e i Carraresi: egli tendeva ad insignorirsi a poco a
poco di tutta Italia. Mentre il suo esercito comandato da Jacopo Dal
Verme accampava intorno a Padova, Francesco da Carrara, signore di
quella città, sapendosi odiatissimo dai suoi, aveva abdicato in favore di
Francesco Novello suo figlio e si era ritirato a Treviso.
Ma i più illustri cittadini padovani avevano intelligenza col Vi
sconti e col suo capitano Dal Verme. Il Consiglio convocato dal Carra
rese opinò ch'egli dovesse ad ogni modo cercare l'accordo col conte di
di Virtù, domandare altre possessioni in luogo del Padovano e qualche
castello in Lombardia, e starsene in quelle parti, rimettendosi alla
grazia del Conte.
Francesco Novello cedette alla volontà dei suoi concittadini, dicendo
FUGRIE ED EVASIONI CELEBRI 349

che sì il faceva per non aggravarli più, acciocchè, se tempo venisse mai,
ricordandosi di questo benefizio, gliene rendessero merito.
Mentre i primi cittadini di Padova, vinti da paura, o secretamente
intesi col Visconti, davano a Francesco Novello pusillanimi consigli,
altro linguaggio teneva la moglie di lui, Taddea, figlia del marchese
d'Este, che dagli storici padovani è lodata come donna « di gentile e pudi
cissimo animo e piena di cordiale amore verso il marito sì nella pro
sperità come nell'avversità, vero esempio di virtù e di puro matrimonio. »
Queste sono le nobilissime parole che, secondo Gataro, ella disse al
marito in quei terribili momenti di crisi: «Signor mio, io stimo più santa
cosa e laudabile essere il morir liberi che vivendo languire in brutta
servitù e massime de' suoi nemici; io però lodo il parer vostro di pigliar
prima un partito, che questi vostri tristi consiglieri vi conducano alla
misera servitù. »
Senonchè il Carrarese, vedendo che i cittadini erano stanchi della
sua famiglia e che poteva far poco assegnamento sulla fedeltà delle
milizie, piuttosto che perir combattendo, come la sua valente donna il
consigliava difare, od anzichè cedere la città e lo stato, propose al coman
dante delle truppe del Visconti, che gli desse un salvacondotto per andar
con tutti i suoi a Pavia da Gian Galeazzo a patteggiare direttamente
con esso, e ottenne quanto chiedeva. Si riservava nella capitolazione
di tornar liberamente a Padova e ripigliarne la signoria, nel caso che
non avesse potuto intendersi col Visconti. Intanto il castello sarebbe
stato consegnato al Dal Verme, ma questi si obbligava a restituirlo
quando Francesco tornasse a Padova. Durante il suo soggiorno in Lom
bardia le ostilità sarebbero sospese; nessun soldato dei Visconti avrebbe
dovuto entrare nella città o nelle fortezze, neppure se la città andasse
a romore e alcuna delle parti chiamasse in aiuto i Milanesi. Il Dal
Verme, d'accordo anche coi provveditori veneziani che accompagnavano
le truppe della Republica, ch'era alleata del Visconti, promise e nelle
mani del Carrarese giurò di attendere ed osservare tutto quello che
aveva promesso.
Francesco Novello, posti entro a barche insieme colla moglie e tutta
la famiglia sua i panni, le argenterie e i danari, li fece partire, quindi
uscì dalla terra e andò a Monselice, che trovò ribellato, come pure Este.
Erano insorti anche i villani di quelle campagne per derubare il fuggi
tivo, ma furono dispersi colla forza. A Verona lo raggiungevano la moglie
e la famiglia, ch'erano venuti sempre per acqua: lasciatili quivi, s'avviò
a Brescia, quindi a Milano, ove fu accolto con onore ed alloggiato nel
palazzo dell'arcivescovo. Quivi s'era sparsa la novella che il conte di
Virtù era disposto a trattar bene e grandemente onorare Francesco
Novello da Carrara e quello avere come proprio figliuolo e far a lui
siffatta utilità che fosse al mondo universalmente manifesta: onde
Francesco concepì buone speranze. Intanto però il Visconti restava as
sente e s'impediva alla famiglia da Carrara di lasciare Verona.
350 FRANCESCO NOVELLO DA CARRARA

Anche Francesco Vecchio cedette al capitano di Gian Galeazzo la


città di Treviso, ove si era rifugiato, dopo aver abdicato la signoria
di Padova. Conchiuse una capitolazione simile a quella che suo figlio
aveva fatto per Padova, e si recò a Verona a raggiungere la famiglia
colà rimasta.
Intanto che Gian Galeazzo tirava le cose in lungo, tenendo i Car
raresi in una crudele incertezza, Padova si ordinava di nuovo a co
mune, eleggendo per ogni quartiere un capitano e cinquanta cittadini,
i quali avessero a provvedere alle cose buone ed onorevoli alla repubblica.
Il Consiglio sceglieva otto signori od anziani,parte nobili e parte plebei,
e un nuovo podestà, per amministrare la giustizia. Ma, perduta la libertà
da circa settant'anni, male poteva tornare quel popolo degenerato agli
ordini antichi, e ben conoscevasi che non si trattava più per esso di vivere
libero, ma di passare da una ad altra signoria. Fu creato pure un ca
pitano generale del popolo e nominati dagli anziani otto cittadini per
formare dei capitoli col conte di Virtù. Le accoglienze che ricevettero
dal Visconti furono splendidissime; rispose loro che « liberamente ri
ceveva la città di Padova dalla sua magnifica comunità e sempre s'of
feriva agli utili ed onori di quella; ma alle particolarità dei capitoli
non faceva alcuna risposta, perchè in breve risponderebbe di modo che
farebbe di molto contento alla città e comune. »
Così senz'altra conclusione gli ambasciatori tornarono a Padova ,
mentre i due Carraresi padre e figlio dimoravano, l'uno a Verona,
l'altro a Milano, senza aver potuto ancora vedere il conte di Virtù. Era
chiaro che costui ingannava tutti e voleva diventare assoluto signore
di Padova. Intanto prendeva possesso di tutte le fortezze, i castelli e
i luoghi particolari del Padovano.
Francesco Novello, vedendo che gli era impossibile di parlare con
Gian Galeazzo, che rimaneva a Pavia, si presentò al Consiglio di Mi
lano, e disse che volea ad esso comunicare quello che avrebbe detto
pure al Signore; che era disposto a cedergli le ragioni che aveva sulla
città di Padova e suo distretto, rimettendo il tutto alla buona grazia
sua. Il Consiglio, lodata la proposta del Carrarese, ne scrisse a Gian
Galeazzo, e n'ebbe risposta che molto gli piaceva tal cosa, e ch'eglino
mandassero per Messer Francesco e subito il ringraziassero, accettando
in luogo di lui. Fatta tale donazione per istrumento, fu data licenza
alla moglie di Francesco Novello e a tutta la famiglia di lasciar Ve
rona e raggiungerlo a Milano. Ivi il Carrarese, celando la sua ira e
il desiderio di vendetta, passava il tempo in festeggiamenti e diletti.
Intanto il conte di Virtù lo teneva a bada, facendo spargere voce che
gli avrebbe ceduto la signoria di Lodi o di Crema. Francesco arrovel
lato faceva disegno di uccidere Gian Galeazzo e si confidava ad amici
traditori, i quali comunicavano ogni cosa al Visconti.
Alla fin fine Gian Galeazzo fece sapere al Carrarese, per un messo
FUGHE ED EVASIOELNI CEBRI 351

che questi gli aveva inviato, che gli sarebbe data per stanza sua e della
famiglia il castello di Cortezzone nel territorio di Asti; e che avrebbe
messo a Genova in deposito 60.000 ducati, i quali sarebbero pro
prietà di Francesco, ma non potrebbe levargli di là, ricevendone solo
l'interesse.
Era quel castello di Cortezzone tutto rotto e dirupato. Francesco e
i suoi si persuasero che era mandato colà solamente perchè fosse uc
ciso dagli uomini di quel paese, ch'erano micidiali e fieramente, come
ghibellini, avversi al nome Carrarese ch'era guelfo. Onde il messo di
Francesco, Paolo Lioni, disse al conte di Virtù, che queste cose vili
non erano da dare al Carrarese, che questa non era quella proferta
che gli era stata fatta in Milano. e ch'era mal esempio agli altri che
volessero darsi alla signoriadi lui. Il conte si scusò dicendo che questa
era decisione del suo Consiglio, e che, se fosse contento di Francesco,
gli accorderebbe in seguito condizioni migliori.
Mancatagli la speranza che aveva di tornare a casa sua con pace e
benevolenza del conte di Virtù, come pure quella di fare di lui vendetta,
Francesco, vedendo che, se si fosse opposto, avrebbe potuto di leg
geri essere ucciso, deliberò d'infingersi e di accettare quello che gli
era offerto, e poi trovar nuovo partito per ricuperare lo stato. Or
dinò dunque a Lioni di andare a Pavia a ringraziare il Conte e diman
dargli in grazia, che per alcun tempo potesse con la sua famiglia stare
in Asti, tanto che avesse fatto racconciare Cortezzone. Licenziato il nu
meroso seguito che aveva condotto seco da Padova, Francesco, ritenuta
seco solamente la famiglia, col consenso di Gian Galeazzo, si recò in
Asti, allora governato in nome del re di Francia. Rimasto pochi giorni
in Asti, andò a Cortezzone.
Quivi, per ingraziarsi gli abitanti, dichiarò pubblicamente che, per
l'autorità concessagli dal conte di Virtù, liberava il castello, il paese
e gli uomini da ogni gravezza e fazione reale e personale per dieci
anni, eccetto che voleva dal comune legname ed opere per racconciare
il castello.
Intanto che si eseguivano i lavori ordinati per render abitabile il
castello, Francesco tornò colla famiglia in Asti. Quivi fu dal governa
tore e da altri avvisato che si avesse guardia, perchè il conte di Virtù
voleva farlo pigliare ed ammazzare.
Intanto Francesco Novello cominciò a pensar di fuggire dalle
branche del Visconti e di andarsene con tutta la famiglia a Firenze,
considerando di potervi stare comodamente e bene per molti benefizi
che quella città e comune dei Fiorentini avea ricevuto da' suoi anteces
sori Carraresi e specialmente da suo padre.
Interpose per questo alcuni suoi amici Fiorentini e, avuta favore
vole risposta, cominciò a pensare qual via dovesse tenere per recarsi
a Firenze. Parsegli più presta la via di Genova; ma, dubbioso perchè
352 FRANCESCO NOVELLO DA CARRARA

il doge Antonio Adorno era amico del conte di Virtù, non osava
pigliar quel partito per non esporre a pericoli la sua famiglia. Si
mandarono dal Carrarese a' suoi amici di Firenze, diramati Pacino
Donati e Francesco Allegri, e da questi a lui, come segnatili dei dati rotti.
Decisero dunque di trovarsi tutti a Genova, e Francesco si mise in
cammino nel marzo del 1390.
Egli aveva ottenuto dal governatore di Asti di avere una scorta di
gente d'arme sino al confine di quel territorio e di lasciar colà in tutta
sicurezza i suoi figliuoli e la sua numerosa famiglia. Intraprese il disa
stroso viaggio solo con sua moglie, Giacomo e Ugolino da Carrara, suoi
fratelli naturali, e alcuni domestici. Arrivato nel Monferrato, scrisse di
là al conte di Virtù, che se ne andava con la sua donna ed altri della
sua famiglia a Sant'Antonio di Vienna (nel Delfinato) per soddisfare un
suo voto, e poi ad Avignone dal papa per impetrare qualche benefizio
per i suoi figliuoli e fratelli bastardi; che il resto di sua famiglia avea
lasciato in Asti, e la raccomandava a sua Signoria.
Per Torino e Susa andato a Vienna, Francesco di là, si recò a Santo
Spirito, ove montò in una barca sul Rodano, e quindi passò ad Avignone,
ove fu bene accolto da papa Clemente. A Marsiglia ebbe ospitalità dal
vescovo, ch'era stato pur vescovo di Padova, ma parti presto di là perchè
seppe che il capitano di Marsiglia voleva metterlo in carcere per trarne
denari.
Partito da Marsiglia Francesco Novello e navigando con Madonna
Taddea e con la famiglia, fu la nave da grandissimo vento as
salita e corse gran pericolo. La donna, ch'era gravida, sofferse
molto in quella fortuna e pregò il marito che smontasse a terra, di
cendo ch'ella voleva piuttosto camminare a piedi che sulla nave sog
giacere a tanti pericoli. La compiacque Francesco, sebbene molto più
pericoloso fosse per lui il viaggiar per terra, chè molti dei signori
e castellani dei luoghi per cui doveva passare, erano amici del suo ne
mico, il conte di Virtù. Smontò dunque in terra con la moglie, lasciando
una gran parte della famiglia nella barca con suo fratello Giacomo e le
robe, dando ordine al padrone ove la barca dovesse approdare.
Camminando a passo lento arrivarono a Grimaldo, ove furono ri
tenuti prigioni. Ma mostrate le lettere che avea del re di Francia,
Francesco fu subito liberato, e la notte alloggiò coi suoi in quel
luogo, dati al signor del paese quattrocento ducati. La mattina se
guente, tolto un somaro a nolo, vi fece montar sopra Madonna Tad
dea, ed egli con la famiglia le tenne dietro a piedi. Arrivati a un luogo
che apparteneva alla famiglia Fieschi, furono bene accolti dal castellano
e, trovata quivi la barca, c'entrarono tutti di nuovo. Dopo una fiera
burrasca, sbarcarono a Monaco e di là partiti giunseroa Turbia. Colà
furono riconosciuti da un Nicolò Spinola, che li avverti del pericolo

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 22.


Adelaide di Borgogna, ImOglie di Lotario re d Italia, e sua madre Berta.

Pag 363
33 FRANCESCO NOVELLO DA CARRARA

che correvano,essendo il castellano molto amico dei Visconti. Cercarono


ricovero in una chiesa rovinata, quindi proseguirono il loro cammino per
Ventimiglia, la barca seguendoli sempre terra terra costeggiando. Erasi
data voce a Ventimiglia, che una brigata di Lombardi menava seco
per forza una donna, che pareva essere d'alto affare; onde il podestà
di quella terra mandò un suo ufficiale con dieci fanti per prenderli.
Francesco e i suoi si azzuffarono con costoro, e cosi combattendo si ri
dussero alla nave e trovarono soccorso. Quivi Francesco diede venti
ducati ad uno di que' fanti da dare all'ufficiale, acciocchè nongli desse
più molestia.
L'ufficiale, inteso ch'ebbe dal padrone della barca che quello era
Francesco da Carrara, subito fece tirare tutti que' sgherri da banda e,
buttate l'armi in terra, disse « perdonatemi, signor mio. Io sono guelfo,
che già fui vostro famiglio e servitore alla casa da Carrara. Comandate,
chè tanto si eseguirà quanto volete. » Allora Francesco parlò con lui e
insieme tornarono al castello. Fu accolto in casa dell'ufficiale, che l'o
norò grandemente secondo il suo potere e lo presentò al podestà. For
nita la nave di vettovaglie, la famiglia carrarese parti da Venti
miglia.
Con prospero vento giunsero presso ad una terra dei marchesi
del Carretto, fieri ghibellini, per conseguenza nemici dei Carraresi. Fran
cesco decise allora di scender sul lido e trarsi fuori di strada, cammi
nando coi suoi tutta la notte per i boschi, tanto che fossero passati
al di là di quel sito pericoloso.Ugolino fratello di Francesco aveva com
prato da un pastore un capretto, e stavano con gran sospetto man
giando sopra un colle vicino al mare. Alcuno della famiglia vegliava
intanto sopra alcun albero, per vedere se ci fosse pericolo, se venisse
gente a quella volta. Infatti sopraggiunse un uomo il quale annunziò a
uno della famiglia di Francesco, ch'era fiorentino e che voleva parlare
col conte. Dubitò Francesco che fosse per avventura una spia, e disse ad
Ugolino: se costui è una spia, io ti toccherò con la mano e tu ammaz
zalo subito. Il Fiorentino disse che si chiamava Nozio e ch'era un messo
di Pacino Donati, il quale mandava ad avvertire Francesco che lo
aspettava a Genova. «Amico, rispose Francesco insospettito: io non so
chi tu sia, e non conosco codesto Pacino.» «Come,soggiunse il Fiorentino?
Io sono certo messo del Donati a voi, ed ho meco un famiglio di messer
Antonio doge di Genova, il quale vi deve condurre per il paese con
tutta la famiglia vostra. » Crebbero a queste parole i sospetti di Fran
cesco; insistette nel negar di conoscere il Donati e di essere il Carra
rese, e minacciò il Fiorentino di farlo ammazzare.Costui tutto tremante
mostrò il segno che gli aveva dato Pacino: consisteva in certi dadi
spezzati. Allora Madonna Taddea disse: io ho in borsa alcuni mezzi
dadi. Vediamo se si scontrano con questi. Trovato che realmente i dadi
si scontravano, Francesco si rassicurò e diede piena fede al Fiorentino.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 355

Il Carrarese con tutta la sua famiglia e le robe sue entrò nel pali
schermo ch'era stato mandato per lui da Genova, e intanto Nozio tornò
indietro per terra. Ma assaliti da una fortuna di mare dovettero i
viaggiatori smontare a Savona, ove trovarono Pacino Donati, lo Spinola
e Nozio che li aspettavano. Questi vennero tutti spaventati all'osteria ove
la famiglia fuggitiva avea cercato ricovero, gridando che si levassero
subito di là, ch'erano in pericolo d'esser presi, che era arrivato a Ge
nova un messo del conte di Virtù, e che i Del Carretto ed altri d'ac
cordo col Visconti li cercavano per metter loro le mani addosso. Ma
donna Taddea tutta turbata disse quasi piangendo « quanto ci è contra
ria la fortuna! Ora ch'eravamo giunti in parte ove credevamo avere si
curezza, ne conviene fuggir di nuovo! Io mi credeva questa notte ripo
sare delle passate notti, chè abbiamo sempre dormito sopra la terra
da poi che ci partimmo d'Asti. »
Tutta la famiglia perseguitata montò dunque di nuovo in barca. Pas
sata Genova durante la notte, andarono a dormire in una chiesa.
Fatta l'alba, Francesco travestito a modo di romeo entrò con la sua
donna pur travestita in Genova, e con alquanti famigli camuffati an
ch'essi da romei si rifugiò in una taverna, poi andò a Capoano ove
trovò l'amico Donati. Insieme col famiglio del Doge passò per mezzo
a Genova e, montato coi suoi in un legno, andò per l'alto mare verso
Porto Venere, poi verso Montrone: quivi dette licenza al famiglio, lar
gamente ricompensandolo e incaricandolo di ringraziare il Doge in
SU1O IOIO6,

Mentre i fuggitivi stavano mangiando a Montrone, ed ecco arrivare


un uomo venuto a preparare gli alloggiamenti per quaranta cavalli
comandati da Galeazzo Porro, mandato dal conte di Virtù in traccia di
essi. Si misero tosto di nuovo in fuga e si nascosero in un bosco, fin
chè furono passati il Porro e i suoi che, non avendo trovato i Carra
resi a Montrone, andavano ad arrestarli a Pisa, per dove avrebbero do
vuto passare prima di giungere a Firenze.
Proseguendo il viaggio per terra, Francesco mandò Nozio a Pisa,
a dire da parte sua a Pietro Gambacorta signore di quella città, co
m'egli era ivi e a pregarlo che li provvedesse di cavalli per entrare
in città. Partito il messo, il Carrara camminando disse volto verso la
donna sua e Pacino Donati « se noi arriviamo a Pisa, riposeremo al
quanto le nostre ossa tutte affrante, perchè Messer Gambacorta ha ca
gione di farci onore. Trovandosi egli cacciato di casa sua e andando
tapino a cercar soccorso, come al presente fo io, capitò a Padova. Quivi
mio padre ricevè nella nostra corte lui e i suoi figliuoli maschi e fem
mine; gli fu fatto grande onore e stettevi lungo tempo con buona pro
visione. Di più mio padre gli maritò una figliuola in Messer Spineta
Malaspina, e dettegli soccorso per ritornare a casa, e mandogli a sue
spese i figliuoli Andrea e Benedetto Gambacorta sino a Pisa con molti
doni; e perciò mi tengo che saremo ben visti e onorati da lui. »
356 FRAncesco NovELLo DA CARRARA

Per tali parole madonna Taddea molto si confortò e più ardita


mente camminava per giungere a Pisa, colla speranza di riposarsi colà.
E così lieti camminando incontrarono Nozio, che ritornava da Pisa; il
quale riferi a Francesco, che Pietro Gambacorta si scusava con lui di
non gli poter dare cavalli nè altro e nemmeno ricoverarlo in Pisa, per
chè vi era giunto Galeazzo Porro , che andava cercando di lui sotto
coperta d'altre faccende; e che l'avesse per iscusato, che non voleva ini
micarsi il conte di Virtù. Infatti questo era in quei tempi il più po
tente signore d'Italia.
Al triste annuncio la povera Taddea, ch'era gravida e sfinita dal
“viaggio, cadde svenuta in terra. Ugolino da Carrara la raccolse nelle sue
braccia e dissele « Madonna, state di buon animo; non vogliate voi
stessa abbandonarvi: su confortatevi, su confortatevi, chè Iddio ci aiu
terà. Facendo voi così, ci sconfortate tutti. Noi siamo già vicini a Fi
renze, ove tanto abbiamo desiderato d'andare. » Ella alquanto ristorata
si fece un poco animo e prese a camminar dietro al marito.
Francesco, con Nozio fiorentino, entrati in Pisa, andò a un'osteria
e comprò carne cotta, vino e pane abbastanza, togliendo anche un bi
roccino a nolo, e lo mandò per Nozio a sua moglie, con ordine che
andassero verso Cascina, ch'egli pure andrebbe dietro. Ed era quasi notte,
quando tutti arrivarono insieme alla terra ed alloggiarono a un'osteria
ch'era piena di gente. Convenne a Francesco e a sua moglie andar a dor
mire nella stalla, mentre il resto della famiglia con Pacino Donati e
Nozio stava di fuori in guardia.
Ed ecco, durante la notte, arrivar colà un famiglio del Gambacorta
con dieci cavalli e una lettera per il Carrarese. Il signor di Pisa si
scusava grandemente di non poter raccoglierlo in città, gli mandava
i dieci cavalli e certe scatole di confetti e cere. Ilfamiglio chiamò l'oste
e gli ordinò per parte del suo signore, che provvedesse di ogni cosa i
viaggiatori e facesse loro onore, come alla persona propria del signor
di Pisa, e che non togliesse loro danaro alcuno.
Allora l'oste diede il suo letto a Francesco, e Madonna Taddea
andò sopra quello a riposarsi: ella ne avea gran bisogno, chè dopo
la partita sua d'Asti mai non aveva dormito in letto, ma continuamente
sopra il nudo terreno o sulla paglia; e così per conforti di Pacino Do
nati andò anche Francesco a riposarsi in letto.
La mattina seguente ievati e montati a cavallo, i fuggitivi anda
rono tanto che giunsero a Firenze. Quindi Francesco mandò in Asti
un suo fidato famiglio con lettere di sua mano a suo fratello naturale
Conte di Carrara, che in ogni modo con la famiglia, i figliuoli e tutte
le sue robe sf riducesse a Firenze.
Qualche anno dopo Francesco Novello con aiuti italiani e stranieri
ricuperò lo stato suo e tornò signore di Padova: egli rimase sempre fiero
nemico del duca di Milano.
B I MI S I

(1280)

Ragiaputi o figli di re è il nome che porta una razza guerriera


stabilita da dodici o tredici secoli nel centro e nel sud-ovest dell'India.
Pretendono di essere Ksciatras, cioè di appartenere alla seconda casta
vedica, quella dei guerrieri. Sembra però che i veri Ksciatras, inva
sori dell'India in tempi antichissimi, siano stati poi quasi al tutto
spenti nelle guerre civili che scoppiarono fra gli Ari conquistatori di
quel paese, e che i Ragiaputi discendano da antiche razze parte o scite,
ed abbiano molto tardi abbracciato il bramanismo. Checchè ne sia di que
ste origini contestate, sono guerrieri coraggiosissimi, ordinati in regime
feudale, sotto un gran numero di principi e capi, nel vasto territorio
compreso tra il Pengiab e l'altipiano di Malwo, prolungamento setten
trionale del monte Windhya. Si sono meno degli altri antichi abitatori
dell'India lasciati influenzare dal contatto delle razze invadenti cioè dai
Mongoli e dagl'Inglesi. Hanno per secoli lottato contro quelli, e le gesta
eroiche loro sono il soggetto dei canti dei bhät o bardi, che anche og
gidi sono molto stimati nel paese. Il Ragiaputan o Ragiastan è ora in
parte direttamente soggetto agli Inglesi, in parte a tre principi indigeni,
sotto la protezione dell'Inghilterra, che è rappresentata alle corti di
quei regoli da residenti.
Secondo gli ultimi viaggiatori, si conservano tuttavia presso i Ra
giaputi le qualità brillanti, la fierezza, la lealtà e l'urbanità che mos
358 BIMSI

sero ad entusiasmo alcuni Europei che visitarono una volta quel paese,
il quale era di difficile accesso, quanto è ancora il centro dell'Africa. I
Ragiaputi hanno fattezze fiere, espressive, di grande bellezza ed apparte
nenti completamente alla fisonomia ariana. Le donne sono alte, ben fatte
e talvolta bellissime: quelle dei nobili vivono rinchiuse nel genanah o
gineceo; le altre sono libere ed escono a faccia scoperta. Portano un
costume graziosissimo e, come le donne di tutte le razze dell'India,
sfoggiano una quantità prodigiosa d'ornamenti d'oro e d'argento: sono
molto stimate ed influenti. I costumi di quei paesi ricordano i tempi
della cavalleria in Europa. Ancora oggi una donna ragiaputa ch'abbia
un insulto da vendicare, manda un braccialetto al guerriero che scelse
per difenderla, e questo semplice segno l'obbliga ad abbracciare la
causa della donna. La storia del Ragiaputan abbonda di tratti d'eroi
smo da parte delle donne del paese.
Una delle città ragiapute più famose nella storia della lotta contro
i Mongoli, è Sciattore, ora in gran parte rovinata, ma in cui tuttavia si
ammirano maravigliosi monumenti di architettura, che attestano il suo
antico splendore. Nel 1280 Dehli era caduta in mano degli invasori,
ma Scittore tuttavia resisteva e i Mongoli non aveano ancora potuto
mettervi il piede.
Vi regnava il giovane re Lakumsi, il cui zio e reggente, durante la
sua minorità, il principe Bimsi, aveva sposata la figlia di un nobile
di Ceylan, Pudmani, donna di maravigliosa bellezza e di magnanimi
spiriti, ancora celebrata nelle canzoni popolari del paese.
L'Imperatore mongolo Ala-Udin, avendo udito vantare le grazie di
Pudmani, era venuto a porre l'assedio a Scittore con la sola intenzione
d'impadronirsi di lei; ma tutti i suoi sforzi furono vani. « Come av
vien che per fama non s'innamori », il Mongolo era invaghito della
bellissima ragiaputni; e prima di levar l'assedio, chiese almeno che gli
fosse permesso di contemplarne le sembianze. La sua richiesta fu bene
accolta, ed egli potè (« oh gran bontà dei cavalieri antiqui ! ») entrare
sicuramente in Scittore sotto la fede dei Ragiaputi, e soddisfare il suo
desiderio di vedere la vaghissima donna. Bimsi non volendo mostrare
minor fiducia del Mongolo, l'accompagnò fuori delle palizzate; ma Ala
Udin gli avea teso un'imboscata: un drappello scelto di Mongoli si gettò
sopra l'imprudente principe ragiaputo e, fattolo prigioniero, lo con
dusse al campo musulmano.
Il giorno dopo il Mongolo sleale dichiarò che non avrebbe restituito
la sua preda, che quando gli fosse consegnata in cambio la principessa.
Pudmani non esitò,ed annunciò a tutti la sua intenzione di darsi nelle
mani del sultano; ma riuni in consiglio i suoi parenti e loro sottopose
il progetto che aveva concepito per salvare il suo sposo e tornare ella
stessa in Scittore senza essere insozzata dalle carezze del sultano dei
Mongoli.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 359

Fu adunque comunicato ad Ala-Udin che la bellissima ragiaputni


consentiva a darsi nelle sue mani in cambio di Bimsi, a patto che le
fosse permesso di condur seco fino al campo nemico le sue compagne,
le persone di sua famiglia e le sue serve più care, e che i Mongoli
dessero parola di non offendere le leggi del genanah e rispettassero
quelle donne, che poi sarebbero libere di tornare nella città. Il prin
cipe prigioniero era stato avvertito da messi fidatissimi di tutto quello
che si trattava e del modo con cui la sua fedele sposa voleva liberarlo.
Il giorno stabilito settecento lettighe scendevano la collina verso
il campo Mongolo, accompagnando quella in cui si trovava Pudmani.
Invece di deboli donne racchiudevano il fiore dei guerrieri Ragiaputi,
dei difensori della città assediata, nascosti dietro le tendine. Giunta
che fu la comitiva ove Alà-Udin l'aspettava, Bimsi fu messo in libertà,
e doveva separarsi dalla consorte, quando, a un tratto , ecco i guer
rieri ragiaputi escono dalle lettighe e mettono mano ai ferri. Bimsi
monta a cavallo, prende in groppa Pudmani, s'invola e riesce a met
tersi in salvo a Scittore. Intanto i suoi fidi proteggevano la sua fuga e
con forze tanto minori resistevano alla turba dei Mongoli. Il combatti
mento fu sanguinoso; pochi Ragiaputi tornarono nella fortezza, ma la
libertà del principe e l'onore della sua sposa furono salvi.
Così contano anche oggidi i bháit (bardi) e di tutto il Mesvar, anzi
di tutto il Ragiastan, ove l'eroismo della bella Pudmani è tuttavia
celebrato.
L'imperatore dei Mongoli scornato dovette levar l'assedio e riti
rarsi. Ma tornò nel 1290 a vendicarsi ed a conquistare la bellissima
donna che non aveva potuto dimenticare. Dieci anni durò l'assedio di
Scittore, meno famoso di quello di Troia, perchè non ci fu un Omero
che lo cantasse. Alla fin fine i Ragiaputi superstiti alla lunga guerra
deliberarono di perir tutti, uomini e donne, piuttosto che arrendersi.
Gli ultimi difensori col re Lakumsi alla testa si scagliarono sul
l'esercito di Ala-Udin, e si fecero uccidere sino all'ultimo dopo di aver
fatto orribile strage dei nemici. Gli appartamenti sotterranei del pa
lazzo reale erano stati già prima riempiti di materie infiammabili, sulle
quali vennero ammonticchiati i tesori, i gioielli, i diamanti che potevano
tentare la cupidigia musulmana: più migliaia di donne vi erano pure
entrate seguendo la loro regina, la anindita (intemerata) Pudmani.
Vi fu posto il fuoco. Quando Ala-Udin entrò in Scittore, non trovò
più che una città muta, deserta, sulla quale ondeggiava una nube di
fetido fumo sgorgante dai sotterranei nei quali bruciava, con tutto ciò
che aveva voluto conquistare, anche la bella Pudmani.

---tect c--
LI

RICCARDO DI NORMANDIA

(952)

Guglielmo Lunga-Spada, duca di Normandia, era stato assassinato


vicino a Pecquigny sulla Somma, e suo figlio Riccardo, ancora fan
ciullo, era chiamato a succedergli, quando Luigi d'Oltramare, che ago
gnava all'eredità del giovine principe, riusci ad impadronirsi della sua
persona, e sotto pretesto di fargli dare un'educazione degna del suo
rango, lo fece trasportare a Laon. Lo sottopose alla sorveglianza più
rigorosa, si mostrò duro e crudele verso di lui, anzi manifestò l'inten
zione di fargli bruciar i garretti, supplicio atroce che la politica del
medio evo inffliggeva talvolta ai principi che voleva privare del trono.
Osmondo, intendente del giovane Riccardo, avendo saputo la severa
decisione del re, prevedendo la sorte riserbata al fanciullo e col cuore
pieno di sbigottimento, mandò alcuni deputati ai Normandi per far loro
sapere che il loro signore Riccardo era ritenuto dal re in una dura
prigionia.
Appena queste notizie furono conosciute, si ordinò in tutti i paesi
di Normandia un digiuno di tre giorni, e la chiesa fece continue pre
ghiere al signore per la liberazione del giovane Riccardo.
Quindi Osmondo, avendo tenuto consiglio con Leone, padre di Gu
glielmo di Beleuze, consigliò il fanciullo a fingersi ammalato, a met
tersi a letto, mostrandosi cosi aggravato dal male che tutti disperas
sero della sua vita.
FUGHE ED VASIONI CELEBRI 361

Il fanciullo eseguendo con intelligenza queste istruzioni, restava con


tinuamente sdraiato in letto, come se fosse ridotto all'ultima estremità.
I custodi, vedendolo in quello stato, trascurarono di sorvegliarlo e se
ne andarono chi da una parte chi dall'altra per attendere ai loro affari.
C'era per avventura nella corte della casa un mucchio d'erba, in
cui Osmondo inviluppò il fanciullo, mettendoselo quindi sulle spalle, come
chi per andar a dar del fieno al suo cavallo: mentre il re cenava e la
gente aveva abbandonato le piazze pubbliche, passò le mura della città.
Appena giunto alla casa del suo ospite, si slanciò sopra un cavallo
e prendendo seco il fanciullo, fuggi a precipizio e arrivò a Courci. Colà,
avendo raccomandato il fanciullo al castellano, continuò a cavalcare
tutta la notte ed arrivò sul far del giorno a Senlis.
Il conte si maravigliò di vederlo arrivare in cosi gran fretta e
gli domandò con premura come andassero gli affari del suo nipote
Riccardo.
Osmondo avendo raccontato minutamente ciò che avea fatto, monta
rono ambedue a cavallo e andarono a trovare Ugo il Grande, conte di
Parigi. Avendogli raccontato l'affare e chiestogli consiglio, egli promise
loro con giuramento che avrebbe soccorso il fanciullo.
Andarono poco tempo dopo a Courci con molta gente armata e,
avendo preso Riccardo, lo condussero con gran gioia nella città di Senlis
(Guglielmo di Gumiège, Storia dei Normandi, libro IV, cap. IV).
LII

ADELAIDE DI BORGOGNA
(951)

Era un giorno di Novembre dell'anno 950: la campana della torre di


Sant'Ambrogio di Milano spandeva per le vie funebri rintocchi. Accom
pagnavano alla tomba un giovane di alto affare, un re spento nel fiore
degli anni suoi e delle sue gioie, Lotario, figlio del tiranno Ugo. Egli
era morto improvvisamente ed inaspettatamente fra le braccia della sua
giovane sposa, dopo aver portato per tre anni la corona d'Italia, che suo
padre nel 926 si era appropriato colla forza ed avea pur troppo diso
sonorato (1).
Il giovane era stato nei primi anni suoi vittima dell'arbitrio del
padre ed era forse da reputar felice che se ne andasse dal mondo
prima di subirne le conseguenze. Ugo l'avea dichiarato suo conregente,
quando avea soltanto quattordici anni, e per assicurare la sua corona
contro le pretensioni del re di Borgogna, gli avea dato per moglie la
figlia sedicenne di Rodolfo II dell'Alta Borgogna, mentre nello stesso
tempo egli sposava Berta di Svevia vedova di quel re valoroso. Seb
bene il connubio fosse stato concluso solamente per calcolo senza alcun
altro riguardo, pur era forse il meglio che il padre potesse fare per
suo figlio, il quale somigliava ad un fiore gentile che cresce in mezzo ad
un'aria appestata. Lotario non era di un carattere eroico: aveva un
animo dolce, benevolo, una bella e fiorente persona: la sua anima era
rimasta pura, malgrado il cattivo esempio del suo padre tiranno. La

(1) Abbiamo tradotto e in parte compendiato un bellissimo racconto della valente


scrittrice tedesca Caterina Diez.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 363

giovinetta sua sposa era un angelo protettore della sua gio


ventù, e stoglieva gli occhi di lui dal vizio, drizzandoli al bello ed
al buono.
La giovine Adelaide era un essere dotato di molte nobili qualità.
Bella come un angelo, piena di spirito come poche altre donne, fioriva
sotto l'occhio vigile della sua pia e virtuosa madre e diventava un'a
mabile donna. Anche il tirannico suocero di lei guardava con dolcezza
la vaga fanciulla, e non le lasciava mancar niente di ciò che poteva for
mare e perfezionare lo spirito suo vivace.
Arte e scienza abbellivano la giovinetta sposa reale, e le erano più
care delle vanità in cui si compiaceva la gioventù spensierata ed avida
di piaceri alla corte. Ella sorpassava molto il suo sposo d'ingegno e
carattere, eppure lo amava sinceramente per la sua dolcezza e la sua
gentilezza. Egli aveva per lei quasi un culto, ed ella esercitava un'in
fluenza senza limiti sul debole animo di lui. Egli si compiaceva di
chiamarla la sua piccola regina, ed ambedue i giovinetti scherzavano
sui gradini del trono, su cui li aspettava una trista sorte: la loro co
rona dovea diventare una corona di spine.
Ben presto il nembo si addensò sopra di essi. Il marchese Beren
gario d'Ivrea, uomo valoroso, ma ambizioso, il quale avea sofferto molte
ingiustizie da Ugo, approfittò del malcontento del popolo per la tiran
nide di costui e dell'odio che gli portava. Lo infiammò e seppe provocare
una terribile rivoluzione. Ugo dovette rinunziare al trono: abbando
nato da tutti gli amici, rimasto senza appoggio, fuggi al suo paese, in Pro
venza, e fini penitente in un chiostro una vita di delitti. La sua sposa
che aveva tanto sofferto per causa sua, presto lo segui nella tomba,
ela tenera Adelaide non ebbe più altro appoggio che il dolce e debole
Lotario.
Questi fu nominato re: Berengario non gli poteva carpire il suo
diritto alla corona, per quanto egli ambiziosissimo agognasse di posse
derla. Astuto com'era, seppe procacciarsi una grande influenza sull'animo
del giovane, in modo ch'egli propriamente esercitava l'autorità re
gale e a Lotario era rimasto solamente il nome di re.Senonchè amato
dai suoi sudditi e contento di posseder la sua diletta e fedele Adeiaide,
egli lasciava che Berengario diventasse influente e potente e non
poneva mente alle tristi mire che colui celava sotto benevole appa
renze. Adelaide però aveva sguardo più acuto che il suo buono sposo:
la sua anima pura sentiva per istinto come un nemico si celasse sotto
quelle spoglie; il suo carattere libero e altero non s'era potuto adat
tare, come quello di Lotario, al predominio di Berengario. Senonchè ella
era ancora troppo giovane per sentire tutta la importanza della di
gnità reale, del suo potere: anch'essa si abbandonava spensieratamente
alla gioia di vivere. Dopo la morte di Ugo infatti era divenuta più
dolce la vita per la giovane coppia, ed una graziosa bambina era stata
364 ADELAIDE DI BORGOGNA

il frutto dei suoi amori. Quella nobile e forte anima doveva essere pro
vata dalla sventura per arrivare alla grandezza per cui ella rimase un
modello alle donne delle più tarde età.
A guisa di fulmine, la morte ruppe la felicità dei due giovani sposi.
Dovette parere un terribile sogno alla povera Adelaide, dopo di avere,
appena un'ora prima, lasciato il suo Lotario sano e fiorente assiso a
festivo banchetto e circondato dai suoi commensali, di esser chiamata
al suo letto di morte, ov'egli non potè, prima di spegnersi, far altro che
pronunciare con pieno affetto il nome di lei e stringerle la mano per
per dare un eterno addio alla sua sposa diletta.
Ma non Adelaide soltanto, tutta Milano fu sbigottita da questa
morte inaspettata. Il bello e buon Lotario era molto amato. e la sua
spoglia fu accompagnata alla tomba con sincero dolore per la tragica
sorte del giovane sventurato e della sua vedova sposa.
Appena cessati i funebri rintocchi delle campane alle esequie di Lota
rio, si dovette nominare un nuovo re. L'astuto Berengario seppe approfit
tare dello spavento generale e della mobilità del popolo. Seppe capacitarlo
che, in tempi cosi gravi come quelli, non si poteva affidare lo scettro
reale ad una debole mano di donna. Siccome, anche durante la vita di
Lotario, egli era stato il vero signore del paese, ottenne l'adesione
del popolo, perchè, malgrado i diritti della regina vedova, si ponesse
la corona d' Italia sul capo di suo figlio Adalberto.
Ci furono però taluni a cui quella elezione non piacque, e strane
voci corsero quà e là per il popolo. Ma Berengario seppe dominarle,
e farle tacere; atterri gli uni, seppe guadagnarsi il favore degli altri
colla sua energia. In questo modo gli venne fatto che il giorno ch'era
cominciato con lamenti e canti funebri, finisse con grida di gioia; e la
tomba di Lotario fu il gradino per cui, in grazia a un delitto, altri si
assise sul trono d'Italia.

II.

La luna spandeva gli argentei suoi raggi sul tetto della magione
reale per cui era passata la morte, producendo un così spaventevole
cambiamento di cose. La giovine vedovella sedeva nella sua camera
solitaria, appoggiando la bella testa a una mano, cogli occhi aperti e
fissi dinanzi a se.
Dietro un cortinaggio giaceva la piccola Emma, la sua bella figliuo
lina, dormendo tranquillamente nel suo letto. Ma neppur quella cara
vista, neppure la fanciullina che quietamente respirava, nulla potea
togliere la dolente madre alla sua tristezza e porle dinanzi serene
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 365

imagini. Ella aveva allontanato tutti i suoi servi, voleva star sola per
meditare. Ella aveva veduto portar via il cadavere del suo giovane sposo,
aveva sentito romoreggiare intorno a lei tutte le pompe di un regio
funerale, come un sogno da cui a fatica poteva destarsi.
Non era solamente il dolore per la perdita del diletto compagno
della sua gioventù, del padre della figlia sua, che l'aveva cosi profon
damente scossa. Ella avrebbe potuto consolarsi colla fede, gettando uno
sguardo a quell'esistenza felice che oltre la tomba attendeva il suo
Lotario. Ma un non so che di tenebroso e d'ignoto l'angustiava, a guisa
di spettro ch'entra a passi leggeri, e si avvolge intorno; era il sospetto
che aveva concepito al letto di morte di suo marito, ch'egli fosse morto
avvelenato. Si sentiva sola nel mondo, ella cosi giovane, così tenera.
Come in un tratto avrebbe potuto trovare la forza di guardare tran
quilla nell'oscuro abisso della vita che le appariva dinanzi?
Il silenzio della sua stanza diventava sempre più cupo, e qnasi
con gioia senti nell'anticamera dei passi a lei noti. La porta si aperse
ed apparve un uomo vestito da monaco. Era il cappellano di casa della
giovane principessa, chiamato fra Martino, che nella sua fanciullezza
le aveva insegnato la santa parola di Dio e poscia era divenuto suo
confessore ed il suo più fedele servo ed amico. Era un uomo semplice,
di carattere leale, di quelli che fanno così poco romore nella vita
che appena si osservano. Nei giorni della prosperità sono messi da
parte, dimenticati; ma nelle avversità ponno diventare consolazione e
guida delle anime afflitte.
La faccia magra e pallida del monaco, così piena di dolcezza, che
appariva fuor della cocolla, con due occhi scuri e malinconici, parve re
care un raggio di consolazione alla giovane regina nella sua triste
solitudine. Ella gli andò incontro gridando:
- Martino, caro Martino. grazie a Dio, ti vedo finalmente.
E correndo verso di lui, come una fanciulla che cerca soccorso,
gli aperse le braccia.
- Calmatevi, nobile principessa, le rispose il monaco: mostratevi
in questi tempi difficili degna figlia del vostro eroico padre; non per
dete il coraggio, che vi difenderà ancora dall'ingiustizia e dall'iniquità.
Adelaide guardò l'amico e,» dimmi, gli rispose, che pensi? Io leggo
nel tuo volto che mi porti cattive notizie. Tu vieni dalla città: che
hai veduto o sentito? Come ha accolto il popolo la notizia di quella
terribile morte?. Mi sembra di aver udito grida di gioia. Parla... io
sono all'oscuro di tutto: dammi il modo di veder chiaro. »
Il fedele Martino guardò tristamente la giovane principessa. » Non
vi siete ingannata, le disse, il popolo è passato rapidamente dai la
menti al giubilo. Berengario, per volontà del popolo, ha posto la co
rona d'Italia sull'indegno capo di Adalberto. »
Adelaide si scosse come avesse toccato un serpente.
366 ADELAlDE DI BORGOGNA

– E possibile? sclamò. Il popolo poteva, cosi dimenticando i miei di


ritti, fare una scelta tanto ingiusta ed indegna?. Martino,conducimi fuori.
Io voglio gridare al popolo una parola che lo farà stupire, io voglio
dirgli: « hai coronato degli assassini. Lotario mori del veleno che gli ha
propinato la mano di Berengario. »
– Starvene cheta e affidare a Dio la vendetta e il soccorso: ecco
la sola cosa che possiatefare in questo momento, rispose Martino strin
gendo la mano tremante della principessa. Credetemi, non è per anco
venuta l'ora in cui possiate farvalere i vostri diritti: Berengario tiene
il potere, ed il popolo è in sua mano, come una palla di giuoco. Egli
ha astutamente scelto il tempo in cui tutti i vostri amici erano lon
tani, e non avevate allato a voi alcuno che potesse fare per voi ciò che
le circostanze richiedevano. Pensate che in questo momento voi siete
in suo potere e dite a voi stessa che potrebbe fare contro di voi, se
diveniste in palese sua accusatrice, come fate ora in secreto di
nanzi a me. Moderatevi, nobile signora, continuò il fido servo, mentre
adiratamente ella s'alzava dinanzi a lui e pareva non volesse più sentir
altro. Pensate che non siete solamente principessa, ma che siete anche
madre. Guardate la figliuolina vostra, che non ha altri che voi; il suo
tenero sguardo sembra pregarvi di conservarle la vostra vita, le vo
Stre cure »,
A queste parole la sventurata donna ruppe in pianto. Corse al
letto della bambina che dormiva, e pose il suo viso ardente sui molli
cuscini accosto al diletto capo che vi riposava, come volesse aspirare il
fiato della bimba, che mettesse un po' di calma nell'animo suo.
Si alzò e, porgendo la mano a Martino, gli disse: » ti ringrazio. Non
dimenticherò mia figlia. Oh potessi fuggire con essa lungi, lungi da
questo mondo scellerato! Oh potessi cambiarmi in una di quelle
povere donne che in una capannuccia possono vivere in libertà e si
curezza coll'uomo amato ! Martino, facendo come tu dici, non potrei
vivere vicina al mio mortale nemico. Io non ho imparato a simulare. Come
potrei andar incontro con faccia amica agli assassini di Lotario? Io
debbo fuggir di qua, se voglio viver tranquilla d'ora innanzi. Aiutami
a fuggire da queste mura allo spuntar del giorno. Andiamo a Pavia.
Quella città mi spetta per eredità. Ho colà dei buoni amici, tra quali
posso attendere che mi rechi l'avvenire. Oh Dio ! mi par di essere in un
nero precipizio. Martino, dimmi, potrò da queste tenebre tornare alla
luce del giorno? Posso fare tuttavia assegnamento sulla tua fedeltà ?
Non abbandonerai la tua infelice regina circondata dalle insidie dei
suoi nemici?
– Non dubitate di me, cara signora, rispose il buon uomo: non per
dete la fiducia nella fedeltà e nell'onestà, in un momento in cui la
malvagità degli ngmini vi funesta. Io sono un debole omicciattolo, che
può far poco per voi. Ma sperate in quello che guidò i figli d' Israello
FUGHIE ED EVASIONI GELEBRI 367

attraverso il Mar rosso e fiaccò l'orgoglio di Faraone. Davide dice: il


signore è re; egli siede sui cherubini. »
Così dicendo il buon Martino trasse dalla sua bisaccia un libriccino
legato in pergamena, lo diede alla principessa e le disse: » io credo che
sia il momento di metter questo libro nelle vostre mani. Sono i salmi di
Davide, che nelle ore solitarie ho copiato per voi nella mia cella. Ri
cevete benignamente questo dono, signora, dal vostro servo fedele. Io
so che in questi canti c'è una forza che può chetare le tempeste della
vita. Leggeteli e col loro aiuto entrate nella lotta. »
Adelaide baciò il pio dono, cadde in ginocchio e disse: benedicimi,
Martino. Il prete fece il segno della croce sul capo inclinato di lei. La
principessa maravigliosamente calmata sorse e andò nella sua stanza
da letto. Mentre un dolce riposo restaurava le sue forze, il fedele Mar
tino vegliava e faceva i preparativi del viaggio. La mattina dopo,
quando il sole illuminò le vie di Milano, la superba magione reale
era vuota e il vento d'autunno fischiava, come fossero degli spiriti
che si lamentassero, nelle stanze abbandonate.

III.

Adalberto figlio di Berengario, che aveva ottenuto ingiustamente


la corona d'Italia, era un uomo d'ingegno e valoroso; ma i vizi, cui
egli, del pari che il padre suo, erasi dati in balia fin dalla prima gio
ventù, avevano stampato la loro impronta sulla faccia di esso. Egli avea
un aspetto ripugnante, che gli alienava i cuori: gli mancavano le ma
niere insinuanti di suo padre, e questi pure guardava talora bieca
mente il figlio, come volesse chiedergli: sei tu veramente degno di
quanto ho fatto io per l'onore e la gloria della mia casa?
Altri però era tanto acciecato da non vedere quanto il giovane re
fosse odioso e da non trovare in questo suo ributtante aspetto un osta
colo a' suoi progetti ambiziosi. Era Villa, la moglie di Berengario, cui
lo stesso più intimo e profondo sentimento del cuore della donna,
l'amor materno, potea condurre ad azioni triste ed ingiuste. Era il mal
genio di suo marito, che spinto ed aiutato da lei si era sempre più
avanzato sulla via del delitto. Ambedue sapevano che colla morte dell'in
felice Lotario si era tolto di mezzo solamente un ostacolo ai loro disegni,
e che la bella e spiritosa Adelaide, che sapeva farsi amare, poteva
esser per loro una pericolosa nemica, e meglio di suo marito far va
lere i propri diritti.
- Credete voi, diceva Villa a Berengario, che la povera princi
pessa voglia passare i suoi giorni a Pavia immersa nel lutto per uno
368 ADELAIDE DI BoRGogNA

sposo che non ha amato? Io la conosco meglio di voi, e so che in lei


cova un'ardente brama di potere. Guai a noi se si desta! Ella atti
rerà presto a sè l'affetto del popolo, che la vostra potenza ora tiene a
freno. C'è solamente un mezzo di renderla impotente, ed è quello di
legarla a noi con indissolubili nodi. Fate che sposi Adalberto: allora
ella sarà nelle nostre mani e potremo guidarla secondo la nostra volontà.
– Moglie di Adalberlo ! sclamò Berengario con un riso amaro. In
verità solamente una madre accecata dall'amor materno può credere
che una giovane e bella regina possa di buon grado acconsentire ad
una tale scelta!
- Di buon grado o no, soggiunse Villa, ella sarà sua sposa. Non
ci sono mezzi da costringerla? Ora ell'è sbigottita, come dimostra la
sua rapida fuga a Pavia: bisogna sforzarla a dare il suo consenso.
In questo connubio ella deve vedere la sola via per cui può risalire
il trono di suo padre. Mostratele dunque la vostra potenza; persuade
tela che ella può ricevere la corona solamente dalle nostre mani.
Forse Berengario stesso aveva in secreto concepito lo stesso piano;
ma, pensando all'Adelaide, temeva che non falisse. Egli temeva il puro
sguardo della vedovella, come sempre il malvagio teme il giusto, e
fugge da lui, perchè nella sua presenza si sente colpevole. Ma Villa
aveva ragione: egli non doveva fermarsi a mezza via; doveva assicu
rarsi la corona a suo figlio, e questo non poteva altrimenti ottenere
che facendo che la regina vedova gli desse la mano di sposa. Egli
dunque, malgrado che sentisse per ciò un'interna ripugnanza, si
decise di proporre queste nozze all'Adelaide, e si recò con una nume
rosa comitiva e dei ricchi donativi a Pavia, dove risiedeva la giovane
principessa.

IV.

Adelaide aveva passato il primo tempo del suo lutto in una pro
fonda solitudine e riavuto in questo modo il riposo e la forze
della sua nobile anima. Villa non l'avea giudicata male: ella agognava
al potere. Sentiva ch'era nata non per servire, ma per dominare: che Dio
le avea dato bellezza, spirito e forza di carattere per acquistare il regno,
e compire grandi cose. Amava la sua bella patria con tutte le forze di
un caldo e nobile cuore, e si attristava per la decadenza a cui deboli
signori e tristi tiranni l'aveano condotta. Essa aveva diritto alla corona
d'Italia non solamente per il suo matrimonio, ma anche per la sua na
scita; imperocchè suo padre, il prode Rodolfo di Borgogna aveva go

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 23


ill

congiura di Catilina. Pag. 390.


370 ADELAIDE DI BORGOGNA

vernato l'Italia parecchi anni, come re eletto, ed era stato sopraffatto


dalla prepotenza di Ugo.
Sebbene ella fosse ancora fanciulla, quando suo padre era morto,
la imagine di lui le appariva ancora, e diventava senmpre più grande
e splendida nella fantasia della regina provata dalla sventura. Ella non po
teva adattarsi ad essere una principessa decaduta, ed a condurre
i suoi giorni nell'oscurità, mentre la sua nascita e le sue qualità le
avevano additato un altro e più nobile scopo. La vita ritirata che aveva
passato per alcuni mesi, era per essa solamente una sosta nel suo cam
mino, in cui ella voleva raccogliere le sue forze ed aspettare il momento fa
vorevole a far valere i suoi diritti. Ma questo momento apparve altri
menti da quello ch'essa aveva desiderato e sperato.
La venuta di Berengario a Pavia la riempi di stupore, e il modo
con cui egli si presentò e le fece chiedere un abboccamento, l'attristò
vivamente. Che poteva recarle di buono? Ma ella non poteva e non
voleva fuggire questa volta. Era necessario che alla fin fine la sua po
sizione fosse bene determinata, sebbene ella pensasse ch'era molto me
glio che fossero aperti nemici, e molto più volentieri sarebbe andata
ad affrontarlo colle armi che venire con lui ad amichevole abbocca.
mento. Ella raccolse perciò i suoi fedeli e decise di ricevere il suo
mortale nemico circondata da essi e sotto la loro protezione.

Magnificamente addobbata era la sala in cui fu introdotto Beren


gario col suo seguito per abboccarsi con Adelaide. Quando apparve la
bella persona della principessa involta in lunghi e oscuri panni vedo
vili, quando ella fissò in lui i suoi splendidi occhi, il malvagio, che le
aveva tolto con un delitto il consorte, non potè a meno di allibire
tremare dinanzi a lei.
Rimasero lunga pezza muti l'uno rimpetto all'altra, quando alla
fin fine ella lo interrogò:
– Che vi conduce qua?
Berengario sollevò arditamente il capo e, avanzandosi fra suoi ca.
valieri, con quelle lusinghiere parole che sapeva a tempo trovare, le
espose la sua richiesta. Fece elogi dello spirito, della virtù, della bel
lezza di lei; le offerse la corona d'Italia e la mano di suo figlio, e disse
che questo connubio avrebbe potuto assicurare la pace del popolo,
unire i partiti e produrre il benessere del paese.
- In verità, rispose Adelaide guardandolo severamente, io non
mi sarei aspettata questa proferta. Voi mi offrite una corona che mi
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 371

avete rapito e che non accetterò mai come un dono dalle vostre mani.
Volete che io diventi consorte di vostro figlio. Io non potrei vivere
nella casa del peccato e del vizio. Ecco la mia risposta. La notte e il
giorno potranno stare insieme piuttosto che questo connubio si compia.
Voi avete tolto ciò che non vi apparteneva: è scritto nel libro di Dio
il delitto che avete commesso per ottener questo fine.
La voce della principessa era divenuta sempre più ardita e quelli
che la circondavano erano stupiti delle sue parole. Berengario le sentì
penetrare come una spada tagliente, sentì che non gli rimaneva altra
scelta che una lotta mortale con quella donna.
– Voi avete pronunciato ardite parole, rispose irosamente. Avete
voi pensato a chi erano dirette? Sapete voi che io sono il padrone del
l'Italia e che la vostra vita e la vostra libertà sono nelle mie mani?
Avete dimenticato che io ho punito il vostro indegno suocero e liberato
il popolo dalla sua tirannide?. Ricordatevi, bella regina, soggiunse
frenandosi e moderando la sua voce, che in questo momento avete so
lamente una scelta da fare. Io vi ho mostrato la via della pace; se
guitela e tutto sarà dimenticato e perdonato. Ma se non accettate le
mie offerte, io saprò punire il vostro orgoglio, spezzarlo come fragile
C3II3,

– Io so, rispose la coraggiosa donna, che voi avete la forza, che


potete rapirmi, come avete già fatto, la nnia felicità, che mi potete to
gliere la vita. Ma solamente il mio corpo è in vostro potere, non
l'animo mio. Non mi forzerete mai a stringere un connubio che ho in
orrore, come un delitto. O miei amici, diss'ella prorompendo in pianto
e stendendo le mani ai suoi, credete che io non posso fare altrimenti.
Difendete la vostra regina dalle arti scellerate e dalla prepotenza. State
accanto a me. Il diritto è per me e Dio aiuta i buoni.
I cavatieri devoti alla regina le si strinsero intorno e levarono le
loro spade, come in giuramento di fedeltà. Berengario sentì che la sua
visita era finita: per il momento egli era vinto dal coraggio della
nobile regina. Ma nell'uscire le volse uno sguardo feroce e terribile.

VI,

Adelaide contava molti amici tra i migliori del paese, i quali ave
vano fedelmente conservato la memoria del suo magnanimo padre e
riconoscevano il duritto dei discendenti del re di Borgogna alla corona
d'Italia. Ma Berengario aveva guadagnato la maggioranza del popolo
coll'astuzia e colla gza, sapeva adescarlo con feste e divertimenti,
372 ADELAIDE DI BORGOGNA

mentre di nascosto lo tiranneggiava. Onde poteva opprimere impune


mente la magnanima regina senza difesa.
Prima che i fidi a lei potessero raccogliersi, Berengario si presentò
di nuovo alle porte di Pavia con un numeroso esercito, e questa volta
non portava doni di nozze. Il piccolo drappello che circondava la regina,
dovette cedere alla prepotenza, ed egli la condusse seco come prigio
niera al forte di Como, e ne affidò la sorveglianza alla sua indegna
consorte. -

Il fedele Martino aveva potuto salvare la piccola Emma e nascon


derla fra le mura di un chiostro agli occhi del suo nemico. La infelice
Adelaide fu separata dalla sua tenera figliuoletta e dal suo servo
fedele.
Sulle prime la prigioniera conservò lo splendore principesco. Si
voleva tentare di ammansarla, di farla cadere nella rete. Villa, la si
gnora del castello di Como, le mostrava tutta l'amicizia, tutta la
cortesia possibile; voleva farsi credere un'amica che non aveva nes.
suna colpa in quella contesa. La pregò di considerarsi come ospite sua,
e procurò in tutte le maniere di guadagnare il suo cuore e la sua
confidenza. Ma Adelaide sentiva per la falsa donna lo stesso orrore che
per il marito di essa. Rispose con freddezza e con dignità alle sue
lusinghe, e le fece capire ch'ella conosceva la sua falsità.
Infatti non ci poteva esser nulla di più differente che quelle due
donne fra loro. Ambedue erano regine per origine e per nascita, am
bedue belle e spiritose; ma Adelaide era simile a fresca rosa bagnata
dalla rugiada del mattino, e la bellezza di Villa si potea paragonare
a quella di un fiore velenoso, i cui effluvi sono mortiferi.
Quando Villa s'accorse che tutte le sue dimostrazioni di amicizia
per l'orgogliosa principessa erano inutili, si lasciò cadere la maschera.
Adelaide fu in breve spogliata di tutto lo splendore reale, delle agia
tezze della vita. Le furono tolti i suoi gioielli; le sue belle vesti furono
lordate e lacerate. Dovette contentarsi dei cibi più comuni, servirsi da
sè, ella ch'era solita di vedersi circondata da una schiera di damigelle;
dovette metter mano ai più grossolani lavori. Fu quello un tempo di
prova per l'altera principessa: eppure fu per lei meno doloroso di ve
dersi cosi duramente trattata, che di sopportare le false dimostrazioni
di prima per parte della sua nemica.
Ma la crudele Villa non era ancora contenta; riserbava più severe pu
nizioni all'altera donna che osava sfidarla. A un tratto la bella pri
gioniera non si vide più passeggiave nei giardini del castello: era
sparita. Nessuno sapeva dove fosse, e si sparse nel popolo la voce che
ella,soccombendo ai suoi dolori, fosse morta. Berengario ed i suoi non
facevano nulla per opporsi a questi rumori: il nome dell'odiata prin
cipessa non doveva mai pronunziarsi dinanzi a loro, chi non volesse
cadere nella loro disgrazia.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 373

VII.

Fra gli amici di Adelaide ve n'era uno solo, che non credeva che
ella fosse morta: era fra Martino. Egli conosceva la perfidia dei ne
mici di lei, e comprendeva che il loro scopo era di farla dimenticare.
Non aveva altro pensiero che di cercarla, anche se avesse dovuto an
dare sino in capo al mondo: non c'erano ostacoli per la sua fedeltà.
Egli sapeva che la piccola Emma era al sicuro. Cominciò, secondo il
costume di quei tempi, a viaggiare di luogo in luogo, pregando e pre
dicando. Non portava bagagli seco; non aveva che il suo bastone di
pellegrino e il suo breviario in mano, e si contentava di quello che
gli davano i suoi uditori.
Intanto raccoglieva d'ogni parte informazioni, visitava ogni castello,
ogni torre, ogni muraglia, a somiglianza del cane fedele che fruga e
fiuta per tutto cercando il suo padrone. Aveva la prudenza di non pro
nunciar mai il nome della sua diletta regina. Dovunque si recava, era
bene accolto e ben trattato. Sentiva di tanto in tanto dei discorsi che
lo consolavano: la povera Adelaide era compianta dal popolo e si ma
lediceva alla tirannia di Berengario.
Si trovava una volta in un villaggio chiamato Garda, che diede ap
punto il suo nome al famoso lago. Andava, secondo il suo costume, gi
rando e osservando. Non c'erano in quel tempo le splendide ville e i bei
giardini che adesso abbelliscono quelle rive, ma la natura era in quei
luoghi come adesso, incantevole. Era nel mese di Maggio; gli effluvi
dell'erbe e dei fiori imbalsamavano l'aria. Quanto più ammirabile era
la bellezza della natura intorno al buon Martino, tanto più tristi erano
i suoi pensieri, tutti rivolti ad un solo oggetto.
A un tratto scorse un castello con un'altissima torre che sorgeva
sulla riva solitaria. Era circondato da rupi scoscese e da una fitta bo
scaglia. Martino, il quale vedeva dietro ad ogni muro l'imagine della
sua regina prigioniera, si sentì commosso. Il cuore gli batteva, men
tre egli avvicinavasi a quel forte e lo considerava da tutte le parti.
Tutto era silenzio, come se nessun mortale abitasse fra quelle rustiche
0Ulr8,

Alla fin fine stanco, dopo aver lungo tempo girato, sedette a piedi
della torre sopra un macigno e si abbandonò ai suoi melanconici pen
sieri. Il sole tramontava e gettava una luce rossastra su quelle grosse
muraglie, che colle loro piccole finestre alte e sbarrate rassomigliavano
ad una prigione.
A un tratto senti una voce e senti cadersi ai piedi un oggetto che
37 ADELAIDE DI BORGOGNA

egli raccolse: era un libro. Tutto rientrò nel silenzio. Qual fu la sua
maraviglia, quando riconobbe il libro dei salmi che aveva scritto egli
stesso e che aveva quella sera, dopo la morte di Lotario, donato alla
povera Adelaide! Teneva con mani tremanti il caro libro; credeva di
scorgere sopra di esso le traccie delle lagrime della sua diletta regina.
Osservava ch'erano sottolineate queste parole del salmista. « Io veglio
e sono come un uccello solitario sul tetto. I miei nemici m'insultano,
mi beffano. Io mangio la cenere come pane, e le lagrime sono miste
alla mia bevanda ».
Anche le lagrime di Martino caddero su quelle parole. «O mia po
vera regina, sclamò, quanto hai sofferto e quanto soffri anche in
questo momento, mentre il tuo servo fedele ti è vicino e non può pe
netrare nel tuo carcere !
Per timore di essere scoperto, Martino si addentrò nel bosco, e cre
dette di non dover fare quel giorno altre ricerche. Tornato alla sua dimora,
il giorno dopo egli prese informazioni rispetto agli abitanti del soli
tario castello sulla riva del lago. Gli fu detto che apparteneva a Beren
gario; che questi e sua moglie lo visitavano di tanto in tanto; che or
dinariamente era abbandonato e che ci abitavano solamente i cu
stodi, che nella torre erano incarcerati dei grandi colpevoli. Non si
sapeva nulla di Adelaide. -

Martino fece tutta la notte dei progetti per liberare la infelice.


Si addormentò pregando Iddio dal fondo del suo cuore. Vide in sogno
la sua regina seduta sopra un alto trono con una splendida corona sul
bel capo ed angeli che cantavano intorno a lei.

VIII,

Senza dubbio la regina prigioniera aveva scorto il suo fedele;stando


alla finestra, e temendo che la sua voce potesse essere udita dai custodi,
massime a cagione della grande altezza della finestra dal suolo, in
luogo di chiamarlo, gli aveva gettato, come segnale, il libro dei salmi.
Mentre Martino stava, la mattina dopo, pensando come potesse
penetrare nel castello, e andava appunto aggirandosi nei dintorni,
un uomo che usciva dal forte, si avvicina a lui e gli dice: « dal vostro
aspetto io veggo che voi siete un ecclesiastico. Appunto io sono man
dato per un uomo di chiesa. Dice benissimo il proverbio: quando si
parla del lupo, gli è dietro la macchia. La notte passata un'abita
trice di questo castello è caduta gravemente ammalata, e vuol con
fessarsi. Voi fate proprio il caso suo: è questo un fortunato incontro.»
Il cuore di Martino batteva forte nell'udire queste parole. Però si
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 375

centenne e disse con tutta calma: » io sono pronto e ringrazio Iddio


di avermi condotto in luogo ove posso portare la consolazione della
sua grazia ad un'anima che la cerca. Conducetemi senza indugio dal
l'ammalata ».
» Venite » disse il custode a Martino. Questi lo seguì alla torre.
Salirono una piccola scala a chiocciola oscura ed umida. Il custode apri
una porta e fece entrare Martino in una bassa stanzuccia rischiarata
appena da un finestrino con una grata di ferro. Quattro nude pareti,
una seggiola di legno e una tavola con una brocca d'acqua, ecco tutto
quello che vide intorno a un lettuccio su cui giaceva una donna am
malata. Il custode le si avvicinò e con un misto di durezza e di com
passione le disse: ecco come desiderate, un prete, a cui vi potete con
fessare.
La povera ammalata volse il suo pallido volto al frate che le si
avvicinava e lo salutò con un piccolo cenno di capo. Sebbene la sua
bella mano fosse dimagrata, sebbene le sue guance fossero affossate,
Martino la riconobbe e represse a fatica un grido, non sapeva egli
stesso se di gioia o di dolore. Era lei appunto, Adelaide, la sua bella,
nobile ed infelice regina, chiusa in uno squallido carcere, come un de
linquente.
» Che cosa è la grandezza umana! che cosa è la fortuna ! » cosi
pensava il pio frate. Signore, lasci tu forse cadere tanto in basso i
tuoi giusti per poi salvarli? »
Finse di non riconoscerla e le disse dolcemente » il Signore sia
con voi ». Poi prese la mano dell'ammalata e la strinse leggermente.
Erano ambedue muti e commossi, quando apparve la perfida Villa. A
lei era dovuta particolarmente la carcerazione di Adelaide nella torre
di Garda. Ella veniva di tanto in tanto a vedere se i dolori fisici e
morali dell'infelice ne scemavano l'alterezza; ella sperava di veder
la figlia di Rodolfo di Borgogna caderle ai piedi e chiederle grazia.
Ma l'infelice conservava tutta la sua grandezza d'animo, tutto il suo
coraggio. Affranta dai patimenti, giacente in un letto, come le avveniva
spesso, la sera precedente s'era alzata per poco tempo, aveva scorto
Martino e gettato per segnale al suo fedele il libro dei salmi. Dicen
dosi più che mai aggravata dal male, aveva ottenuto che si mandasse
perun prete, sperando che il caso la favorisse: così appunto avvenne,
che il suo amico devoto potesse vederla da vicino, come egli tanto
bramava.
Il monaco seppe rispondere alle interrogazioni di Villa in modo di
fare che in lei non si destasse il menomo sospetto; seppe, coll'autorità
che gli dava la sua condizione e la sua veste, se non ispirare pietà
nell'animo della perfida donna per la sua vittima, almeno fare ch'ella
celasse i suoi malvagi sentimenti. Ottenne in questo modo di poter
visitare frequentemente l'ammalata, tanto più che la moglie di Beren
376 ADELAIDE DI BORGOGNA

gario sperava di poter servirsi in seguito di lui per piegare l'altero


animo di Adelaide e indurla ad acconsentire ai voleri di lei e di suo
marito, accettando la mano di Adalberto.
Intanto, dopo di aver dato nuovi ordini perchè la prigioniera fosse
ben custodita, Villa lasciò il castello di Garda.
Contro ogni aspettazione e malgrado il cattivo trattamento, l'am
malata si riaveva sempre più di giorno in giorno. Seduta presso al
finestrino della sua stanzuccia guardava lo splendido lago e le bellis
sime rive. Come ci avrebbe volentieri colto un fiorellino, per aspirarne
il grato olezzo. Con quale sguardo seguiva il volo degli uccelli, che
passavano cantando dinanzi alla sua finestra, e le nuvolette che tra
versavano il cielo azzurro, e le barchette che si spiccavano leggere leg
gere dalla sponda e si perdevano nei flutti in lontananza! E una trista
sorte quella di un povero prigioniero! è doppiamente trista al cospetto
delle maraviglie che la mano benefica del creatore ha sparso per tutto
e per tutti i figli degli uomini, e massime quando uno si trovi nella più
bella età della vita, in tutto il vigore della gioventù, fornito di tutto
ciò che potrebbe renderlo felice. Povera Adelaide ! Che l'era rimasto
di tutto lo splendore di cui era stata circondata dalla sua nascita? Ella
poteva veramente sclamare col salmista: « i miei giorni sono passati
come un fumo, e le mie ossa arse come per incendio. Il mio cuore è
abbattuto e inaridito come l'erba ».
Quella nuda rupe su cui le tempeste della vita l'aveano gettata
come un naufrago, era divenuta per la infelice regina un altare su
cui ella ogni giorno offeriva all'ente supremo il suo cuore con tutti i
suoi difetti e le sue debolezze, con tutte le sue speranze ed i suoi so
gni. Ma soprattutto lo ringraziava di averle mandato nella sua solitu
dine il suo più fedele amico. Fra Martino aveva preso una casetta nel
piccolo villaggio di Garda e si recava ogni giorno un'ora dalla po
vera prigioniera a pregare con essa ed a leggerle i sacri libri. Seb
bene queste visite avvenissero in presenza di un guardiano e di una
inserviente, il fedele amico sapeva trovare occasioni propizie, ragio
nando di cose sante, per far parlare il suo cuore e dare alla infelice
prigioniera speranza di salvezza e di tempi migliori.
Ma non era soltanto con preghiere e consolazioni che Martino vo
leva esser utile alla sua signora; egli voleva coi fatti mostrarle la sua
devozione. Pensava sempre al modo di salvarla dalle mani dei suoi
nemici. Esaminando in secreto l'esterno e i dintorni dell'antica torre,
egli aveva trovato una cavità in un muro circondato da una densa
macchia, e aveva concepito il pensiero di aprire in quel muro una
via, per cui potesse far uscire dalla torre la prigioniera.
Una circostanza agevolò il suo progetto. Era stata destinata per
servir la regina una parente di uno dei carcerieri. Il cuore di questa
donna fu commosso dal veder ogni giorno i patimenti dell'infelice Ade
FUGHIE ED EVASIONI GELEBRI 377

laide. La buona Annina una volta si era confidata con Fra Martino,
il quale era riuscito a farne un'alleata, ed ambedue si adoperavano
in secreto per far fuggire Adelaide.
Nottetempo, quando tutti dormivano, fra Martino armato di una
zappa, entrava nella macchia che copriva il muro, e lavorava come una
talpa, tutta la notte, per scavare un cunicolo per cui la sua signora
potesse fuggire.
Siccome Martino poteva lavorare solamente nelle notti oscure e
verso il mattino dovea far sparire tutte le traccie del suo lavoro, così
passò un certo tempo prima ch'egli potesse compire l'opera sua.
Berengario era un giorno venuto improvvisamente al castello accom
pagnato da suo figlio, per poter esaminare egli stesso lo stato di salute
e le intenzioni della prigioniera. Con gran maraviglia la trovò comple
tamente ristabilita dalla sua malattia, e negli abboccamenti ch'ebbe
con lei indarno procacciò di persuaderla ad acconsentire a' suoi dise
gni. Ella fu più che mai ferma ne' suoi rifiuti, ed egli l'avea lasciata
furioso, dopo di averle fatte nuove e terribili minaccie. -
Scorto il monaco che alla solita ora era venuto a far la preghiera
con lei, guardandolo biecamente, gli disse: le vostre preghiere hanno
prodotto uno strano frutto. Invece d'indurre la vostra penitente ad
umiliarsi e ad obbedire, l'hanno resa ancor più altera ed ostinata.
– Non è in mia mano, rispose Martino tranquillamente e seria
mente, di piegar l'animo degli uomini ad obbedire ai potenti della
terra. Io insegno loro solamente a conoscere la volontà del Signore
che regna nei cieli. Io ho esortato la povera prigioniera ad essere umile,
paziente, costante nelle sue avversità, ed ho trovato ch'ella è divenuta
un vero modello di queste virtù e, per quanto è possibile a una de
bole mortale, un angelo in veste umana ».
- Ora compite l'opera vostra, soggiunse ironicamente Berengario.
E vostro ufficio di preparare alla morte l'eroina che avete educato, in
caso che domattina ella non abbia fatto senno.
Martino fu spaventato da queste parole del tiranno: ma ringraziò
Iddio in secreto, che il cunicolo fosse già finito e che gli fosse data
ancora una notte, per approfittarne a salvare la sua regina. Intanto Be
rengario mandò il monaco a visitarla e parti per la caccia in compa
gnia di Adalberto e di altri.
Martino trovò Adelaide molto commossa, ma coraggiosa e magna
nima come sempre. Egli doveva per ordine di Berengario prepararla
alla possibilità di una morte violenta. Non sapeva di certo se i suoi
sforzi per salvar la principessa avrebbero un esito felice, e stendendo le
mani sul capo della sventurata la esortò a mettere la sua vita nelle
mani di Dio.
Il monaco dette poscia ad Annina il segnale da lungo tempo con
venuto per la fuga in quell'istessa notte. Ella era decisa a non sepa
378 ADELAIDE DI BORGOGNA

rarsi dalla regina, e, siccome al castello nessuno aveva il menomo so


spetto sopra di lei, potè a suo bell'agio fare i preparativi necessari.
Berengario e i suoi compagni tornati stanchi dalla caccia erano
immersi nel sonno.
Annina aveva avvertito la sua signora di vegliare tutta la notte,
di restar vestita e di aprirle senza timore quando avesse picchiato alla
porta.
Quando annottò, Adelaide inginocchiossi per raccomandare a Dio
l'anima sua, la sua bambina, i suoi amici, il suo sventurato paese, e
pregò anche per i suoi nemici.
Era mezzanotte, quando Annina picchiò alla porta,Adelaide aperse
tremando e la vide al chiaro di una lanterna cieca che teneva in mano.
-- Animo, le disse Annina: seguitemi e procurate di non far ro
more. Il vostro salvatore è qui.
Adelaide credeva di sognare. Seguendo Annina, che portava la lan
terna, prese la scala a chiocciola; e quindi trovarono il cunicolo. «Cur
vatevi e seguitemi, le disse la donna. »
Così fece Adelaide e, piuttosto carponi che camminando, si tra
scinò per uno stretto ed oscuro sotterraneo. Fredde gocce cadevano
dalle umide pareti sulle sue spalle. La lanterna di Annina si spense,
ma un barlume apparve agli occhi loro, un fresco soffio alitò sulle loro
guancie. Ella sentì la voce ben nota di Martino che diceva « venite »
La mano di Annina stringeva la sua e la traeva rapidamente innanzi.
Oh cielo! L'aria libera le spirava intorno; le foglie stormivano presso
a lei; il canto dei rosignuoli risonava al suo orecchio! Quasi sgomenta
di questo saluto della vita, guardava dietro se il buco oscuro, per cui
era passata, toccava tremando i rami degli alberi, quasi volesse convin
cersi ch'era libera, ch'era fuori di quelle tristi mura.
– Venite, venite, le disse Annina. Tremando, seguivano il fedele
Martino che, curvo a terra, si avanzava a guisa di talpa e apriva loro
il sentiero in mezzo alle pietre ed alle macchie spinose.
Il vasto lago e la magnifica campagna splendevano illuminati dalla
luna dinanzi agli occhi della prigioniera liberata. Ella avrebbe voluto
inginocchiarsi e ringraziar Dio ad alta voce della grazia che le avea con
cesso. Ma Annina le ripeteva: venite presto, presto : i custodi possono
ad ogni momento scoprire la nostra fuga. La regina tendeva allora le
mani ad ambedue i suoi compagni e senza parlare si lasciava guidare
da essi nel silenzio della notte.
I fuggitivi, a passo spedito, si tennero per quanto era possibile
lungo la sponda selvosa, senza dire una sola parola; sentivano per
così dire battere i loro cuori. Era una bellissima notte, e la luna ver
sava gli argentei suoi raggi sul loro cammino, come se vegliasse dal
cielo sopra di essi, per mostrar loro la strada e tener lontano ogni
pericolo.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 379

Già da tre ore camminavano rapidamente tra rupi e boschi, e i


teneri piedi della regina erano insanguinati a cagione delle pietre su
cui doveva passare. Allora uscì il primo gemito dalle sue labbra. «Non
posso più » disse e cadde senza forza dinanzi ai sui compagni. Annina
si appoggiò al seno il capo della povera donna quasi svenuta, e Mar
tino stava addolorato presso a loro, guardando da tutte le parti, se
per avventura gli venisse fatto di scorgere qualche luogo di rifugio. A
un tratto gli parve di udire in lontananza il calpestio di un cavallo
« In nome di Dio, principessa, sclamò con angoscia, alzatevi, alzatevi:
temo che i nostri nemici c'inseguano.
Annina balzò in piedi e voleva trar seco Adelaide, ma questa disse
piangendo: « salvatevi, amici miei, e abbandonatemi al mio destino
e all'aiuto di Dio. »
– Mai, mai, soggiunse Martino. – In quella scorse un pescatore
che si avvicinava vogando col suo battello. Balzò sulla sponda gridando:
in nome di Dio vi prego di venir qua e di prender sotto la vostra pro
tezione un'infelice innocente, perseguitata dai suoi nemici.
Il pescatore arrivò a voga arrancata. Martino prese la regina come
un fanciullo fra le sue braccia e la portò nel battello. Annina lo segui.
Presto vogate e conduceteci all'altra riva, disse Martino, e il pescatore
obbedi.
Si alzò un vento fresco di levante e portò i fuggitivi traverso il
lago verso la sponda opposta. Era proprio l'aiuto del momento supremo.
Era infatti lo stesso terribile Berengario che, destato dal custode
della torre e avuta la notizia della fuga di Adelaide, si era messo im
mantinente a darle la caccia col suo seguito e i più veloci suoi cor
sieri, sulla strada che, per quanto congetturava, i fuggitivi dovevano
aver preso. Fortunatamente quegli erano innanzi un bel tratto. Quando
gl'inseguenti videro dalla riva la barchetta che vogava, cominciarono a
trar pietre e dardi, cosicchè per poco non affondò. Ma alla fine i fug
gitivi scesero sani e salvi in sulla riva.
La regina fu adagiata in mezzo ad una folta macchia. Martino un
poco lontano di là accese il fuoco, e poi andò col pescatore a far delle
provvisioni, consistenti in pesce, del pane nero, alcune frutta ed acqua
fresca, di fonte.
Come i poveri fuggitivi trovarono squisita quella magra refezione!
Adelaide mangiò con miglior appetito che non aveva mai fatto alla
sontuosa mensa regale. Il sole aveva dissipato la nebbia e versava la
luce sopra gli alberi ed i cespugli. Le pallide gote della regina comin
ciarono a colorirsi; i suoi occhi brillavano guardando ora il cielo, ora
i suoi compagni. Ella diede a tutti la sua bella mano, e non trovava
parole sufficienti per esprimere la sua gratitudine. «Amici miei, diss'ella,
io mi sento ancora piena di vita, di speranza. Io non sono più una
prigioniera, respiro ancora l'aria libera: sono come l'uccello che vola
sul mio capo. »
380 ADELAIDE DI BORG0GNA

Ma ella non poteva osare di mostrarsi pubblicamente senza trovar


un traditore: anche in quel paese solitario non era sicura dalle perse
cuzioni di Berengario. Bisognava prima di tutto cercare un nascondi
glio sicuro, e il pastore indicò loro una caverna ove avrebbero potuto
riposare quel giorno.
La bella regina stese le sue membra sopra un letto di erbe e di
foglie che i suoi amici le avevano preparato, e quella spelonca le parve
un palazzo reale in paragone del carcere oscuro ed umido da cui era
fuggita.

IX.

Mentre le donne si riposavano nella caverna, il pescatore condu


ceva Martino alla capanna di un pastore, ove egli voleva cercare un
asilo per la povera regina, sinchè gli venisse fatto d'invocare per lei
l'aiuto di potenti amici.
Trovò della buona gente che gli promise di soccorrere una donna
infelice. Egli cambiò quivi il suo abito da monaco con uno da con
tadino.
Il giorno si avvicinava alla fine, quando Annina si destò dal sonno
e andò a cogliere delle corniole in un cespuglio dietro la grotta, per
farne un presente alla regina. Anche questa turbata da tristi sogni si
era svegliata ed era uscita dalla spelonca per cercar la campagna in
mezzo al boschetto di cornioli.
A un tratto sentono avvicinarsi un calpestio di cavalli. Qual fu il
terrore delle donne nel veder Berengario e Adalberto alla testa dei loro
cavalieri nelle vicinanze della grotta, osservando e frugando per tutto!
Adelaide cadde in ginocchio e cominciò a pregare. Intanto alcuni dei
cavalieri erano scesi di cavallo e avevano cercato tutti gli angoli della
spelonca. Non avendo trovato nulla, il drappello nemico parti verso un'
altra direzione, convinto che la preda cui dava la caccia, non era nasco
sta in quei contorni. Le due donne rannicchiate a terra nel più folto
del cespuglio non erano state fortunatamente vedute. Sopravvenne Mar
tino, al quale narrarono il pericolo cui erano sfuggite;tutti e tre s'in
ginocchiarono ringraziando il cielo di averli cosi miracolosamente sal
vati.
La capanna del pastore fu un sicuro asilo per le due donne, men
tre Martino andò a cercare un potente protettore per la regina. Il mar
chese Azzo d'Este venne a prenderla coi suoi cavalieri e la raccolse nel
suo castello di Canossa. Ella invocò l'aiuto di Ottone di Sassonia, im
peratore di Germania, che la sposò e, disfatto Berengario, fu proclamato
re d'Italia.
LIII

EBA E SESABUTO

(712).

Il regno dei Goti in Ispagna era in decadenza. Le guerre civili,


prodotte dalle dissensioni fra i membri della famiglia reale, laceravano
il paese. I costumi erano pessimi, come avviene sempre negli stati
che volgono all'estrema rovina. Come dice Mariana, il famoso storico
della Spagna, per tutto c'erano conviti e mangiari delicati e vino in
copia: i popolani, ad esempio dei capi, facevano una vita turpe ed
infame. Amavano le contese, ma eran poco abili nel maneggio del
l'armi e valevano poco nelle battaglie. Quella signoria guadagnata
col valore e colla forza si perdette per l'abbondanza e per i piaceri.
I vizi estinsero quel valore militare per cui i Goti avevano fatto cosi
grandi cose.
Rodrigo principe della casa reale, per vendicare suo padre e i suoi
oppressi dal re Vitiza, prese l'armi contro di questo, lo vinse, l'uccise
e s'impadronì del potere.
Il nuovo re, dice Mariana, aveva grandi pregi di corpo e di animo.
Il corpo era indurato alla fatica, accostumato a soffrire la fame, il freddo,
il caldo, la mancanza di sonno. Era di animo ardito, grande, liberale;
avea straordinaria abilità per trattare e condurre a fine gli affari più
scabrosi. Tal era prima che salisse il trono; poichè divenne re, cambiò
queste sue virtù in grandi vizi.
382 EBA E SESAIBUTO

Eba e Sesabuto, figli del detronizzato e morto Vitiza, erano stati


chiusi in carcere: scontavano quivi le colpe del padre loro. Riuscirono
a mettersi in salvo e a rifugiarsi in Africa. La storia non ci ha con
servato i particolari di quella fuga, che ebbe disastrose conseguenze
per la Spagna e per la civiltà Europea, avvegnachè i fuggiaschi, tro
vato un asilo in quelle regioni, eccitarono i Mori a passare in Spagna.
Un altro fatto ebbe pure un'influenza sulle nuove sorti di quel
paese. Un grande Goto, il conte Giuliano, che reggeva il mezzogiorno
della Spagna, aveva una sua figlia giovinetta e bellissima alla corte,
come damigella della regina Egilona. Il re vide la fanciulla, se ne in
vaghi e le fece forza.
Il padre della fanciulla, per vendicarsi di Rodrigo, chiamò gli stra
nieri contro il suo paese. I Mori, già sobbillati dai figli di Vitiza, si
decisero a prender l'impresa della guerra di Spagna, spinti dal conte
Giuliano. Vennero in sulle prime poco numerosi e in sembianza di
alleati e quasi di mercenari di un partito contro un altro: poscia
crebbe il loro numero e ritennero per se le fatte conquiste. Rodrigo
fu l'ultimo dei re Goti che dominarono tutta la Spagna. Sconfitto alla
battaglia di Xeres, disparve e, come fu creduto, annegò nel Guadalete.
Eba e Sesabuto non riebbero il trono; dovettero contentarsi della
restituzione dei beni paterni. Una loro sorella bellissima e scaltrissima
sposò uno dei capi Mori.
Gli spodestati figli di Vitiza e l'offeso conte Giuliano ebbero ven
detta del loro nemico, ma la Spagna cadde sotto il dominio straniero,
e secoli di lotta furono necessari per ristabilire l'indipendenza del
paese.

Fr3:
LIV

MAOMETTO

(622).

Come tutti gl'istitutori di nuove religioni , Maometto trovò fieri


avversari, nei primi tempi della sua missione, e fu esposto a gravi
pericoli. Le convinzioni religiose spingono gli uomini al fanatismo: le
religioni stabilite, come ogni altra istituzione che abbia avuto una
lunga durata, sono sostenute dagl'interessi di una classe potente che
dell'antico culto trae ricchezze, onori, influenza.
La famiglia dei Coreisciti traeva l'autorità sua dal custodire la
Kaaba. Maometto il quale predicava che non v'è altro Dio che Dio, e
voleva fondare la sua religione sopra la distruzione del politeismo, era
da loro considerato come un nemico. I meno accaniti degli avversari
del profeta tentavano con buone parole di dissuaderlo dalla sua im
presa. Ma egli rispose: se ponessero il sole nella mia destra, la luna
nella mia sinistra, non cesserei dal mio assunto.
I Coreisciti irritati risolsero di uccidere Maometto e i suoi seguaci.
Omar suo cugino era tra suoi avversari, ma letti alcuni capitoli del
Corano, si converti, e siccome era uomo prode e autorevole, la sua
adesione alla setta ne crebbe la forza. -

In generale i Meccani, i quali traevano ricchezze dai pellegrinaggi


alla Kaaba, erano acerbi avversari del nuovo profeta e delle sue pre
dicazioni. Era pur minacciata tutta la piccola chiesa che si accoglieva
384 MAOMETTO

intorno al novatore; onde Maometto acconsentì ai suoi di fuggire


(prima egira), e ottantatre uomini, diciotto donne e qualche fanciullo
ottennero ospitalità al di là del mar Rosso in Abissinia.
Aba Soforim, sceicco degli Ommiadi, fervoroso idolatra, non ces
sava di molestare Maometto all'orazione, alla mensa, allo studio.
Quando questi spiegava le sue dottrine, ne voltava in beffe le pa
role. Il profeta lo rimbeccava, e le cose erano giunte a tale che un
conflitto era inevitabile. In questo conflitto Maometto e i suoi, essendo
molto inferiori in numero agli avversari, avrebbero senza fallo avuto
la peggio.
Il profeta avea trovato fautori soprattutto a Yatreb, città impor
tante e ricchissima. Di là vennero i primi Ansariani, cioè ausiliari, i
quali promisero di usar anche la forza per sostenere Maometto e i suoi
discepoli. C'erano fra la Mecca e Yatreb antiche nemicizie massime per
cagione di rivalità commerciale.
Lieto di essersi assicurato un asilo, Maometto spedi i suoi fedeli
a Yatreb, rimanendo solo alla Mecca con Abu-bekr, di cui poscia di
venne suocero, ed Ali, cui diede in moglie la diletta sua figlia Fatima.
I Coreisciti aveano intanto deciso di uccidere Maometto. Perchè sopra
una sola tribù non cadessero l'odio e la vendetta, scelsero un uomo per
ciascuna, e fecero circondare la tenda del profeta. Questi adagia sul
proprio letto Ali colla sua vesta verde e, mentre gli assassini aspettano
che si alzi, egli con Abubekr trova modo di uscire e via pel deserto.
I nemici, tardi accortisi dell'inganno, non toccano Alì e si mettono
sull'orme del fuggiasco. Egli si nasconde nella caverna di Tur e,
poichè il suo compagno temeva, lo conforta colle parole del Corano:
« A che stai mesto ed accorato? Dio è con noi. » Come si favoleggia,
un ragno filò la sua tela traverso all'antro; le api vi lavorarono favi,
e un piccione vi depose le uova. I persecutori non pensarono nemmeno
a cercare colà dentro il fuggitivo.
Sbollita la prima furia, Maometto ed Abu-Bekr si rifugiarono a
Yatreb. Cinquecento cittadini vennero loro incontro: l'ingresso delpro
feta fu trionfale. Egli era seduto sopra una cammella: il suo turbante
svolto gli era portato innanzi a guisa di stendardo. Poi Ali e gli altri
fedeli lo raggiunsero, e la città donò loro una casa e una moschea.
Yatreb divenuta il centro della nuova fede, fu nominata Medinet al
Nabi, città del profeta, o Medina (la città) per eccellenza. Questa è la
egira (migrazione, fuga), era dei Maomettani, che comincia al primo
del mese di moharram, corrispondente al venerdì 16 luglio del 622.

--tsto

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 24


Oserai tu, sciagurato, uccidere Caio Mario ?
Pag. 394.
LV

ATTALO

(650)

Teuderico e Childeberto fecero alleanza, si promiserosotto giuramento


di non fare spedizioni guerresche uno contro l'altro e si diedero recipro
camente degli ostaggi per far meglio eseguire le loro convenzioni ver
bali. C'erano fra questi ostaggi molti figli di senatori. Ma i due re
franchi essendosi di nuovo disuniti, gli ostaggi furono ridotti in servitù:
quelli che li avevano ricevuti in custodia, li fecero schiavi. Tuttavia
alcuni di essi fuggirono e tornarono nel loro paese; un piccolo numero
solamente fu in servitù. Fra questi trovavasi Attalo, nipote
del beato Gregorio, vescovo di Langres. Venduto come schiavo dello
stato, fu destinato a guardare i cavalli e aggiudicato a un certo bar
baro che abitava il paese di Treviri.
Il beato Gregorio mandò in traccia di suo nipote dei servi, i quali
avendolo scoperto, offersero presenti al suo padrone: ma questi l
rifiutò, dicendo: costui che ha una si alta origine, deve pagare dieci
libbre d'oro per il suo riscatto.
Al ritorno dei messi, un certo Leone, che attendeva al servizio della
cucina del vescovo, gli disse: se tu mi dessi il permesso di andare in
traccia di Attalo, io sarei forse in caso di liberarlo e di ricondurlo
a te.

Il vescovo si rallegrò di questa proposta e Leone fu mandato


PUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 387

Treviri. Tentò in sulle prime di rapire secretamente il giovane, ma non


gli venne fatto. Allora, prendendo un uomo con lui, gli disse: vieni a
vendermi nella casa di quel barbaro, e il prezzo della vendita sarà
tutto per te. Io non voglio altro che avere il mezzo di eseguire più
facilmente quello ch'ho risoluto di fare.
Il mercato essendo stato concluso sotto giuramento, l'uomo andò,
lo vendette dodici scudi d'oro e si ritirò.
Il compratore s'informò di ciò che sapeva fare il suo nuovo schiavo,
e questi rispose: «io sono molto abile a preparare tutto ciò che deve
essere ammannito sulla tavola dei padroni, e non temo che alcuno possa
superarmi in questo. Quando tu volessi anche dare un banchetto al re,
io posso preparare un banchetto reale, e nessuno potrebbe farlo me
glio di me. »
Il padrone disse allora: «il giorno del sole s'avvicina – è così che
i barbari hanno il costume di chiamar la domenica. – Quel giorno io
inviterò a casa mia i miei vicini e i miei parenti: desidero che tu pre
pari un pranzo che ecciti la loro ammirazione. »
Quando apparve il giorno di domenica, lo schiavo apprestò un
lauto e squisito banchetto. Il padrone accordò il suo favore a quello
schiavo, e questi prese autorità soprattutto ciò di cui disponeva il suo
padrone.
Passato un anno, siccome il barbaro aveva piena fiducia in lui, Leone
se ne andò in un prato ch'era vicino alla casa, con Attalo, lo schiavo
guardiano dei cavalli; poi sdraiato a terra, lungi da esso e ciascuno
col dorso volto all'altro, perchè non si osservasse che parlavano
insieme, disse al giovane: «è tempo che noi pensiamo al nostro paese.
Ti avverto che questa notte, quando avrai condotto i cavalli alla scu
deria, tu non ti abbandoni al sonno. Ma quando ti chiamerò, si pronto
e partiamo. »
Il barbaro aveva invitato alla sua tavola molti de' suoi parenti
e inoltre suo genero. A mezza notte i convitati essendosi alzati di ta
vola per darsi al riposo, Leone segui il genero del suo padrone, e gli
presentò da bere.
Il genero gli rivolse la parola e gli disse:
- Dimmi dunque, tu che sei l'amico di mio suocero, supposto che
tu n'abbia il potere, quando avrai tu la volontà di prendere i suoi ca
valli e di andare nel tuo paese? – Egli diceva questo per ischerzo.
Leone facendo il medesimo, rispose ridendo e dicendo la verità: « è
quello che io intendo di fare stanotte, se Dio m'aiuta. »
- Voglia il cielo, riprese l'altro, che i miei servitori facciano
buona guardia, affinchè tu non mi porti via nulla di mio.
Cosi si separarono ridendo.
Mentre tutti dormivano, Leone chiamò Attalo e, sellati i cavalli 9

gli domandò se avesse una spada.


388 ATTALO

- Non ho altro che una piccola lancia, rispose.


Allora Leone, entrato nell'appartamento del suo padrone, prese il
suo scudo e la sua framea. Questi domandò chi era e che voleva.
– Sono Leone, il tuo servitore, rispose lo schiavo. Cerco Attalo,
perchè si levi presto e meni i cavalli al pascolo: è addormentato come
un ubbriaco.
– Fa come tu vuoi, rispose il padrone, e dicendo questo si addor
mentò.
Leone usci, forni d'armi il giovane e trovò aperte per grazia del
cielo le porte della corte che, per la sicurezza dei cavalli, erano state
chiuse sul far della notte con dei chiodi conficcati a colpi di martello.
Rendettero grazie a Dio e si allontanarono, conducendo seco gli altri
cavalli e portando la roba loro in una valigia.
Arrivati alla Mosella, furono arrestati dalla presenza d'alcune per
sone ed obbligati ad abbandonare i loro cavalli e i loro effetti: arriva
rono all'altra riva nuotando, stesi sui loro scudi, e, grazie all'oscurità
della notte, si nascosero in una foresta.
Era già arrivata la terza notte da quando camminavano senza
aver preso alcun cibo. Allora, grazie a Dio, avendo trovato un pruno
carico di frutta, mangiarono, e, un poco sostentati, presero la strada
della Sciampagna. In quella sentono uno scalpitar di cavalli. «Gettia
moci a terra, dissero, per non esser veduti dalla gente che viene. »
A un tratto scorsero una macchia di spine. Passarono al di là e poi
si gettarono a terra colla spada in mano per esser pronti a difendersi
nel caso che fossero scoperti.
Arrivati a quel luogo, i cavalieri si fermarono dinanzi alla mac
chia, e uno diessi prese a dire: «che peccato che quei miserabili si sal
vino e che non si possa trovarli ! Giuro che se mi vien fatto di prenderli,
farò appiccare uno di essi e farò in pezzi l'altro a colpi di spada. »
Era il barbaro, il loro padrone, che diceva questo. Veniva da Reims,
ov'era stato a cercarli, e li avrebbe certamente incontrati per via, se
la notte non lo avesse impedito.
I cavalieri si misero in marcia e si allontanarono.
Leone ed Attalo arrivarono a Reims la notte stessa. Quando ci furono
entrati, trovarono un uomo cui domandarono dov'era la casa del prete
Paulello. Quell'uomo la indicò loro. Mentre traversavano la piazza, la
campana sonò mattutino, perchè era una domenica. Picchiarono alla
porta del prete, entrarono in casa e Leone gli disse chi era il suo pa
drone.
– La mia visione si verifica, disse il prete, perchè questa notte
hoveduto due colombe venir volando a posarsi sulla mia mano; l'una
era bianca, l'altra nera.
- Che il Signore ci perdoni, riprese lo schiavo, di non osservare il
giorno santo (la domenica si mangiava solamente dopo la messa). Vi
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 389

preghiamo di darci qualcosa da mangiare,perchè già da quattro giorni


non abbiamo mangiato nè pane nè carne.
Il prete nascose i due giovani, diede loro del pane inzuppato nel
vino e se ne andò in chiesa a cantar il mattutino.
Anche il barbaro arrivò, cercando sempre i suoi schiavi, ma fu
ingannato dal prete, ch'era amico del beato Gregorio.
I giovani dopo essersi restaurati con un buon pranzo, restarono
due di nella casa del prete,poscia partirono e giunsero dal beato Gre
gorio.
Questi pieno di gioia al vederli, pianse sul collo di suo nipote At
talo. Quanto a Leone, lo liberò dalla schiavitù con tutta la sua fami
glia e gli diede in proprietà una terra, in cui visse il resto dei suoi
giorni con sua moglie e i suoi figli. (San Gregorio di Tours, Storia
ecclesiastica di Francia, tomo III, Cap. XV).
Attalo divenne poi conte di Autun.
ILVI

CATILINA

(62 av. Cristo).

La famosa congiura alla quale Catilina diede il nome, era com


posta dei più disparati elementi. I democratici sinceri,i quali temevano
che Pompeo da loro stessi fatto grande per contrapporlo al partito oligar
chico, tornato vincitore dall'Asia, esercitasse un potere assoluto nella
repubblica, costituivano il nucleo della cospirazione, n'erano la parte
onesta. Si erano aggiunti a questi gli arruffoni, i perpetui fautori di
disordini per pescare nel torbido, gli ambiziosi che non erano
riusciti alla meta, come appunto Catilina, gli scialacquatori carichi di de
biti,e gente manesca avvezza agli scandali e alle risse di sangue. I due
più influenti e capitali nemici di Pompeo, Crasso e Cesare, l'uomo più
ricco e il più indebitato di Roma, vi avevano mano: lo scopo loro era
soprattutto la rovina dell'abborrito rivale.
Gli uomini dell'ordine erano i partigiani di Pompeo e i ricchi
capitalisti che smungevano le provincie e accumulavano tesori; erano
quelli che, nella confusione di una rivoluzione avendo antiche colpe da
scontare, temevano per la loro vita e la loro libertà. Il capo di essi,
in cui avevano riposto tutta la loro fiducia, era un uomo nuovo, un fa
condo ed abile avvocato, avvezzo a barcheggiare tra i partiti, Marco
Tullio Cicerone.
Noi non vogliamo certo qui raccontare per filo e per segno la con
FUG PHIE ED EVASIONI CELEBRI 3) 1

giura di Catilina, seguendo Sallustio e gli altri storici del tempo, o i


moderni scrittori che sparsero nuova luce su quei fatti,sui motivi che
spingevano gli uomini e i partiti. Abbiamo voluto solamente far men
zione di Catilina, perchè la sua fuga da Roma è una delle più famose
di cui parli la storia.
Quale uomo anche di mediocre istruzione fornito non ha letto la
eloquente invettiva di Cicerone pronunciata in Senato contro di Cati
lina?. Chi non sa a mente le parole con cui comincia il famoso esordio
ex-abrupto « quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? E
fino quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza» con quel che segue.
Il console, uomo di toga e non d'armi, voleva, prima di servirsi della
forza per domare i ribelli, fare che si scoprissero da sè, che il Senato
potesse avere le prove per condannarli. E vero che fu questo un giu
dizio eccezionale, illegale, ma in ogni caso metteva in qualche modo
al coperto la responsabilità del console. Egli voleva soprattutto che il
capo della congiura fuggisse di Roma: entro le mura della città costui
era pericolosissimo; fuori non sarebbe stato, come fu, altro che un ri
belle facile da vincersi.
Catilina sgomento dagli attacchi del console, dall'odio del partito
nemico, lasciò infatti Roma e fuggi in Etruria. E Cicerone, che questo
appunto aveva voluto, potè dinanzi al popolo pronunciare quelle fa
mose parole: « abiit, excessit, evasit, erupit,» avvocatesca sovrabbon
danza di verbi per dire che Catilina era fuggito da Roma.

-co
ILVII

MI A RIO

(88 av. Cristo.)

Minacciato da Silla che marciava sopra di Roma, Mario inutilmente


cercò di sollevare in suo favore gli schiavi, e sapendo che non aveva
da aspettar alcuna pietà dal suo rivale, di cui aveva fatto perire diversi
amici, si vide costretto a cedere e prese la fuga. Appena era uscito di
Roma, essendosi dispersi quelli che lo accompagnavano, si trovò solo
nell'oscurità e si rifugiò a Solonio, una delle sue case di campagna.
Quindi mandò suo figlio a prender le provvisioni necessarie nelle terre
di Muzio suocero di esso, le quali non erano lontane. Egli intanto, si
recò verso Ostia, dove Numerio, uno de' suoi amici, gli teneva un le
gno preparato e, senza aspettare suo figlio, s'imbarcò con suo genero
Granio.
Il giovane Mario aveva fatto preparare le provvisioni, ma soprav
venne il giorno, e dei cavalieri di Silla, che avevano qualche sospetto,
arrivarono in quel luogo. L'intendente di Mario, avendoli veduti da
lontano, nascose il figlio di esso in un carro pieno di fave, attaccò i
buoi e andò in questo modo incontro ai cavalieri, conducendo il carro
verso la città. Il fuggitivo, trasportato nella casa di sua moglie, vi
aspettò la notte, poi s'imbarcò e giunse in Africa.
Il vecchio Mario aveva salpato dal porto e con un buon vento co
steggiava l'Italia, ma temeva Geminio, uno dei principali abitanti di
FUGEIE ED EVASIONI CELEBRI 393

Terracina, ch' era suo nemico, e ordinò ai marinai di allontanarsi di


là. Obbedivano a' suoi ordini, quando il vento si cambiò e cominciò
a soffiare verso l'alto mare. Si alzò una cosi furiosa tempesta, che fu
impossibile di restar più a lungo in mare; bisognò prender terra a
Circei, dove approdarono con gran fatica.
Erano a venti stadi (due miglia e mezzo) circa da Minturno, quando
videro una truppa di cavalieri che si avanzavano verso di essi, e per
caso due barche in mare. Si misero tutti a correre verso le barche, si
gettarono in mare e cominciarono a nuotare per giungervi. Granio
giunse ad una barca, e passò in un'isola situata in faccia di quel punto
della costa, che si chiama Enaria. Due schiavi sostennero con gran fa
tica sull'acqua Mario, che aveva allora settant'anni, e lo posero nel
l'altra barca, mentre già i cavalieri gridavano dalla riva ai marinai
di ricondurre la barca al lido, ovvero di gettar in acqua Mario e an
darsene poi dove volessero. Mario supplicava, piangeva; e la gente della
barca, dopo di avere in un momento cangiato più volte di risoluzione,
rispose ai cavalieri che non lo abbandonerebbero.
Appena i cavalieri si furono allontanati pieni di collera, i marinai
presero un'altra risoluzione e navigarono verso la costa. Gettarono
l'àncora alla foce del Garigliano, le cui acque formano una palude e
dissero a Mario di scendere in terra per rimettersi dal mal di mare e
prender cibo, sinchè si alzasse un buon vento, locchè doveva avvenire
a un'ora fissa, in cui la brezza di mare ordinariamente cala e le suc
cede una brezza di terra abbastanza forte per prender il largo.
Mario credette loro e segui questo consiglio. I marinai lo misero
in terra ed egli si sdraiò in un prato, ben lontano dal pensare ciò che
stava per succedergli. Intanto i marinai, tornati in barca, levarono
l'àncora e fuggirono credendo che fosse disonesto il consegnar Mario
ai suoi nemici e pericoloso per essi il salvarlo.
Così solo, abbandonato da tutti, restò lungo tempo sul lido senza
proferir parola. Fatto uno sforzo e poi levatosi, cominciò a camminare
a fatica sopra delle strade tracciate. Dopo di aver traversato delle pro
fonde paludi, il caso lo condusse alla capanna di un vecchio, il quale
viveva del suo lavoro. Mario si gettò ai piedi di esso e lo pregò che
lo salvasse, che soccorresse un uomo il quale, se potesse sottrarsi ai
pericoli presenti, potrebbe un giorno ricompensarlo al di là delle sue
speranze. Il vecchio rispose che, se aveva soltanto bisogno di riposarsi,
potrebbe entrar nella sua capanna; ma se andava errando per fuggire
ai suoi nemici, lo nasconderebbe in un luogo ove sarebbe più tranquillo.
Mario lo pregò di farlo; e il vecchio lo condusse nella palude, lo fece
entrare in essa e nascondersi in una cavità sulla riva del fiume, gettò
sopra di lui delle canne e lo coperse d'altre cose leggere che lo na
scondevano senza incomodarlo col loro peso.
Era così da poco tempo nascosto, quando senti del romore e delle
39 MARIO

voci che venivano dalla capanna. Geminio di Terracina aveva mandato


molta gente a dargli la caccia. Alcuni di quelli che lo cercavano, erano
per caso arrivati in quel luogo e procuravano di spaventare il vecchio,
gridando ch'egli avea raccolto e che nascondeva il nemico di Roma.
Mario si alzò dal suo nascondiglio e, spogliatosi de' suoi vestiti, entrò
nell'acqua fangosa della palude, il che lo fece scorgere da quelli che lo
cercavano. Lo trassero di là ignudo e coperto di fango e, condottolo
a Minturno, lo consegnarono ai magistrati.
Già s'era sparso in tutte le città il decreto che ordinava di perse
guitar Mario e di ucciderlo quando lo si potesse prendere. Tuttavia i
magistrati credettero dover deliberare e lo posero nella casa e sotto la
guardia di una donna chiamata Fannia, che si credeva mal disposta
verso di lui per una causa già antica.
Tuttavia Fannia in questa occasione non agi come una donna offesa.
Gli offerse ciò che aveva in casa, esortandolo a farsi coraggio. Egli la
ringraziò e l'assicurò ch'era pieno di fiducia, perchè aveva allora al
lora veduto un presagio favorevole. Poi volle riposar solo e ordinò
che si chiudesse la porta della camera.
Intanto i magistrati e i decurioni di Minturno avevano deciso di
farlo subito mettere a morte. Ma non si trovò nessun cittadino che
volesse incaricarsi dell'esecuzione. Allora un cavaliere, chi dice Gallo,
chi Cimbro di nascita, prese una spada ed entrò nella stanza di Mario.
Questa camera era oscura anzi che no. Si racconta che il Cimbro credette
vedere gli occhi di Mario gettar lampi e sentì una gran voce che gli
gridava dal fondo dell'oscurità: oserai tu, sciagurato, uccidere Caio
Mario? Il barbaro usci fuggendo, gettò il ferro e passando la soglia disse:
no, io non posso uccidere Caio Mario.
Tutti furono presi di stupore, poi di pietà e di pentimento: rim
proverarono a sè stessi di aver preso quella risoluzione crudele ed in
grata contro un uomo che aveva salvato l'Italia, e dissero: che vada
dove vuole, a subire il suo destino. Noi preghiamo gli Dei di perdo
narci di aver cacciato Mario dalla nostra città ignudo e privo d'ogni
soccorso. Entrarono allora in folla nella stanza e facendo corteggio al
proscritto, lo condussero verso il mare. Siccome ciascuno di essi dava di
buon grado tutto ciò che gli potesse servire, passò un tempo conside
revole. Frapponevasi tra essi e il mare unbosco che si chiamava Marica,
che hanno in grande venerazione; e si sarebbe perduto molto tempo a
girar intorno ad esso. Finalmente un vecchio sclamò che non c'era pas
saggio interdetto, quando si trattava di salvar Mario, e cominciò egli
stesso a camminar attraverso il bosco. Certo Beleo fornì a Mario un
naviglio che fu caricato di provvigioni d'ogni genere.
In seguito Mario fece rappresentare tutti questi fatti sopra un
quadro che pose, come offerta, nel tempio vicino al luogo dove si era
imbarcato con un vento favorevole (Plutarco, Vita di Mario).
LVIII

DEMETRIO SOTERO

(162 av. Cristo).

Demetrio era stato mandato a Roma come ostaggio da suo padre


Seleuco Filopatore. Antioco avendo assassinato Seleuco ed essendosi
fatto re di Siria, Demetrio domandò al Senato di rendergli la libertà
e il trono di suo padre. Ma, dice Polibio, i senatori, sebbene fossero
commossi dalle parole di Demetrio, giudicarono utile alla repubblica
di ritenere il principe a Roma e di riconoscere il figlio di Antioco
come erede del trono di Siria.
Qualche tempo dopo, Demetrio volendo far nuovi passi al Senato,
consultò Polibio, il quale gli disse:
– Non urtate per la seconda volta la stessa pietra: non isperate
che in voi stesso e col vostro ardimento. Mostratevi degno del trono.
Il giovane sperava da Polibio un consiglio conforme alle sue inten
zioni; quindi non segui quello che gli fu dato. Ma avendo veduto le
sue istanze rigettate una seconda volta, e riconoscendo che Polibio avea
ragione, attese a preparar la sua fuga. Diodoro, che l'aveva educato, giun
geva appunto dalla Siria e l'assicurò che, se si presentasse al popolo
quando anche avesse con lui un solo servitore, sarebbe subito procla
mato re.
Polibio, Diodoro ed alcuni altri amici del giovane principe si ado
peravano con tutte le forze loro a servirlo. Era all'imboccatura del
396 DEMETRIO SOTERO

Tevere un legno cartaginese: fu noleggiato per conto di Demetrio. Non


pare che la sorveglianza dell'autorità fosse molto rigorosa, perchè il
contratto fu concluso publicamente; come pure non si fece un mistero
coll'equipaggio per fissare il giorno della partenza.
Venuto quel giorno, Demetrio riunì i suoi amici in una taverna.
Alcuni di essi solamente erano partecipi del secreto e dovevano, a un
momento stabilito, recarsi al bastimento coi loro schiavi. Polibio, ch'era
ritenuto a letto da una malattia, temeva che il giovane si abbando
Inasse ai piaceri della tavola, e che il vino, che gli piaceva molto, non
gli facesse dimenticare l'ora della partenza. Gli mandò dunque, sul far
della notte, uno schiavo incaricato di presentarsi a lui, come per un
affare importante, e di consegnargli un biglietto per richiamarlo al
dovere.
Dopo di aver letto questo biglietto, Demetrio prese il pretesto di
essere turbato del vino, comefinivano quasi tutti i grandi banchetti di
quel tempo, e uscì coi suoi fidi. Tornato a casa, mandò i suoi servi ad
Anagni, ordinando loro di venirgli incontro due giorni dopo, con reti e
cani da caccia, fino al monte Circeo, dove ordinariamente dava la caccia
al cignale, locchè gli avea porto l'occasione di far relazione con Polibio.
I suoi amici per parte loro dettero i medesimi ordini ai loro servi,
e indicarono il medesimo luogo di appuntamento, e tutti insieme
si recarono ad Ostia. Si era annunciato al padrone del bastimento che
Demetrio restava a Roma, ma che mandava a suo fratello dei giovani
per portargli le sue istruzioni. Il padrone, che doveva ricevere tanto e
tanto il prezzo convenuto, si curò poco del resto, e verso la fine della
notte Demetrio e i suoi compagni s'imbarcarono. Allo spuntar del giorno
il legno salpò e prese l'alto mare. (Polibio, XXXI, frammento 12 e
segg.).
LIX

E GES IS TR A TO

(475 av. Cristo).

Mardonio aveva per indovino, secondo i riti greci, Egesistrato d'Elea.


Prima d'allora quest'uomo, fatto prigioniero dagli Spartani, a cui avea
fatto molto male, era stato caricato di ceppi e condannato all'ultimo
supplizio. Non ignorando che trattavasi non solo di perder la vita, ma
anche di soffrire prima della morte orribili tormenti, fece un'azione
incredibile.
Era ritenuto da un ceppo di legno. Fece col mezzo di un pezzo
ferro che si trovò, non si sa come, nella sua prigione l'azione, più co
raggiosa che conosciamo. Avendo misurato la parte del piede che po
teva far uscire dal ceppo, si tagliò il tarso. Quindi, siccome la pri
gione era custodita, fece un buco nel muro e fuggi a Tegea, cam
minando di notte e tenendosi nascosto di giorno ne' cespugli.
Giunge in questo modo a Tegea, la terza notte, sottraendosi
alle ricerche degli Spartani. Questi rimasero stupiti della sua audacia,
quando trovarono la metà del suo piede nella prigione senza poter tro
vare lui stesso. Quando fu guarito, si fece fare un piede di legno e
divenne accanito nemico degli Spartani.
Spinto del suo odio contro di essi e dal suo amore del lucro, servi
come d'indovino e sacrificatore i Persiani alla battaglia di Platea, gene
rosamente pagato da Mardonio. Ma il suo odio per gli Spartani gli
fece fare una cattiva fine, perchè fu preso da essi a Zacinto ove faceva il
mestiere d'indovino, e fu messo a morte. (Erodoto, IX, 37).
LX

A RIST O MI ENE
(Verso l'anno 684 av. Cristo)

Aristomene, generale dei Messeni, combattendo contro le truppe


spartane molto superiori in numero e comandate dai due re di Sparta,
ricevette, difendendosi coraggiosamente, diverseferite e tra le altre una
sassata alla testa.
Cadde semivivo. Gli Spartani lo presero con cinquanta dei suoi
soldati e lo condussero a Sparta, ove fu risoluto di gettarli tutti nella
Ceada. Era una profonda crepatnra del suolo, un abisso di cui si pre
cipitavano i condannati a morte.
Infatti Aristomene vi fu gettato coi suoi compagni d'arme. Questi
perirono nella caduta, Aristomene, fu salvo da un Dio.
Per un caso strano egli scoperseun'uscita da quella nera caverna.
Infatti, quando fu caduto in fondo, restò disteso, inviluppato nelle sue
vesti e aspettando la sua ultima ora che credeva vicina.
Erano già passati tre giorni da quando giaceva nell'abisso della
ceada, quando, avendo sentito qualche romore, si scoperse il volto e
scorse in una semi-oscurità una volpe che si avvicinava ai cadaveri
Comprendendo che doveva essere penetrata nella caverna per un pas
saggio qualunque, attese che la volpe fosse vicina a lui, poi la ghermi
in una mano, presentandole coll'altra la sua clamide da mordere quando
si volgeva verso di lui, seguendola nella sua corsa e facendosi trasci
nare nei giri del sotterraneo.
Finalmente scoperse un foro, ch'era appunto abbastanza largo per
lasciar passare una volpe e per cui penetrava un barlume. L'animale
lasciato da Aristomene diè un balzo e spari. Aristomene allargò colle
sue mani l'uscita della caverna, poi gli venne fatto di passare e rag
giungere i suoi concittadini. (Pausania, Descrizione della Grecia, IX, 18).

FINE
IN D I CE

I. Bazaine - Pag. 3 XXX. Duguay-Trouin Pag. 250


II. Rochefort, Grousset, Pain, XXXI. Bart e Forbin » 252
Jourde, Baillière e Granthille » 8 / XXXIII. Blanca Gamont . - » 256
III. Orsini - - - - - » l3 XXXIII. Carlo II , - - » 26l
IV. Pio IX. . - -
» 23 )XXXIV. Quisqueran de Beaujeu » 266
V. Piotrowski . - » 29 ) XXXV. Il cardinale di Retz . » 28S
VI. Luigi Napoleone . . -
» 4l ) XXXV. Beaufort . - - » 275
VII. Marrast, Guinard, G. Cavai XVl. Arnaud . - » 277
naC, eCC. . . . . » 47 XVII. Grozio - - » 27
VIII, Re . . . » 50 (XXXVlll Maria De' Medici . . . » 282
IX. Frignani . . . .. . . .. » 52 (XXXIX, Carlo di Guisa - » 284
X. Arrivabene, Ugoni e Scalvini » 55 XL. Enrico IV - - », 28
XI. Berchet, Arconati e Porro . » 58 XLI. De La Force - - » 292
XII. Morandi . - - - - » 63 XLII. Maria Stuarda. . » 298
XIlI. Lavallette - - - - » 67 XLIII. Benvenuto Cellini . - . » 30l
XIV. Napoleone I . - » 72 XLIV. Curione . - - » 326
XV. Richemont - - - » 78 XLV. Zizim - » 328
XVI. Pichegru e Barthélemy, De la XILVI. Giacomo V . - - xo 33S
Rue, ecc. - - - » S3 ( XLVII. Giacomo di Albany . . » 34l
XVII. Sidnev-Smith » 87 ( XLVIII. Francesco Terzo e Giacomo
XVIII. Caraffa . » 91 da Carrara . . - » 343
XIX. Chàteaubrun » 93 ) XLIX. Francesco Novello da Carrara » 348
XX. Luigi XVI » 94 L. Bimsi - - - » 357
XXI. Beniowski » 103 LI. Riccardo di Normandia . » 360
XXII. Latude . » 10S LII. Adelaide di Borgogna . » 362
XXIII. Casanova » 121 LIII. Eba e Sesebuto . - - » 381
XXIV. Trenck . » 175 LIV. Maometto - - - - » 383
XXV1. Carlo Edoardo » 232 LV. Attalo - - - » 386
XXVII. Stanislao Leczinski . » 237 LVI. Catilina . - -, » 390
XXVIII. Forster, Mac-Intosh, Roberto LVII. Mario - - - - » 393
di Keith, Nitisdale ed altri LVIII. Demetrio Sotero -, . , » 895
capi dell'insurrezione dei Gia LIX. Egesistrato . . --- » 397
cobiti . LX. Aristomene . “ » 398
XXIX. De Bucquoy . xo
Proprietà letteraria.

Fughe ed evasioni celebri. Disp. 25,

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