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In capo alla corda... un maresciallo di Francia... nel'a barca una bella Messica
(sua moglie) e un nipote di lei.
l’AG. 3.
NM | L_ A N CD
TIPOGRAFIA EDITRICE DANTE ALIGlIIERI
DI
ENRIC0 POLITTI
1874.
B A Z A IN E
(1874)
(s'ammazzò). Non so che cosa accadesse nel momento che segui: quando
riebbi i sensi, vidi il maresciallo nell'acqua, che ora nuotava, ora s'ag
grappava agli scogli. Rul gli gettò una corda che si trovava per caso
nella barca. Il maresciallo l'afferrò e potè avvicinarsi di più; ma, sic
come le forze gli venivano meno e seguitava a tener salda la corda
per non essere portato via dalle onde, tememmo che il suo peso avesse
da capovolgere la barca. Fu un momento terribile. Io mi misi dalla
parte opposta per bilanciare il suo peso. Finalmente Rul s'ingegnò ad
afferrare il maresciallo, a tirarlo su, a metterlo in barca. Il maresciallo,
anzi che entrarvi, vi rotolò dentro. Le sue prime parole furono: ah
miei figliuoli, come mi siete devoti! L'emozione gl'impedi di dire
di più I .
Si dice che tutto questo sia una romanzesca invenzione della bella
marescialla e di Rul, e che Bazaine sia uscito nottetempo dalla porta
del forte, per connivenza dei custodi, forse del governo stesso. Altri sono
d'opinione che questa ultima asserzione sia poco probabile, essendostato
il generale Chabaud-Latour, ministro della guerra, uno dei giudici che
condannarono a morte il Bazaine.
Checchè si sia, è certo che la marescialla, accompagnata dal fido
nipote, aveva noleggiato a Genova un vapore della compagnia Peirano,
detto il Ricasoli, a mille franchi al giorno per una corsa di piacere nel
Mediterraneo; che il vapore era nelle vicinanze dell'isola quando Ba
zaine si mise in salvo, e che raccolse il fuggitivo co' suoi compagni per
a Genova.
Come Bazaine aveva potuto procurarsi una corda, come eludere la
sorveglianza de' suoi custodi? Ben s'intende, queste domande ammettono
chesia vera la storia dell'evasione, come è raccontata dalla marescialla
e da' suoi compagni ed amici.
Ecco quello che raccontò la signora Bazaine su questo proposito.
« Avevo portato io stessa al maresciallo in prigione una cintola
munita di un gancio di ferro per attaccarvi la corda e sostenersi più
facilmente in aria. La corda lunga 27 metri era stata preparata alcuni
giorni prima, e messa intorno a dei bauli mandati al maresciallo. Av
vertito da me, ogni sera stava in vedetta dalla parte della baia.
Appena ci ebbe scorti, la sera del 9 agosto, andò ad attaccare la
corda nel luogo da lui predisposto. C'era nel muro del pian terreno
un foro per lo scolo dell'acqua: il maresciallo l'avea pulito col suo ra
strello da giardino. Vi fece passare la corda e ne assicurò il capo ad
una sbarra di ferro che attraversava il foro e la ricoperse di terra.
Durante questo tempo il signor De Marchi, governatore della fortezza,
era a tavola. S'alzò quindi e passeggiò col maresciallo e col colon
nello Villette; essi parlavano tranquillamente. Alle dieci meno un quarto
il maresciallo disse: sono stanco anzi che no; stassera andrò a letto
prima del solito. Il governatore si ritirò. Allora Bazaine si portò cam
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 7
R O C II E F O RT
(1874)
Non vogliamo qui fare la storia del Figaro, della Lanterne, della
Marseillaise, del Mot d'ordre, i più importanti giornali in cui scrisse Ro
chefort. Si mostrò nel primo sagace osservatore ed elegante scrittore;
nel secondo, coraggioso assalitore dell'uomo potentissimo che reggeva
allora i destini della Francia, servendosi contro di lui dell'arma terri
bile del ridicolo; nel terzo fu rivoluzionario ardente, sebbene al mo
mento dell'azione, per esempio ai funerali di Victor Noir, non mostrasse
la tempra del vero uomo di azione; finalmente nell'ultimo giornale
a vicenda attizzò le passioni e procurò di temperarle: uomo di penna
sovra ogni altra cosa, e sotto la veste del democratico socialista alla
fin fine ancora un poco aristocratico e conte. In un rivolgimenio avve
nire, in un cataclisma, che forse è meno lontano di quello che altri
non creda, e sarà molto più terribile di quello che altri possa immaginare,
Rochefort sarebbe in sulle prime un attivissimo promotore, quindi un mo
deratore; alla fine, travolto dalla corrente, finirebbe forse coll'essere vit
tima delle passioni politiche da esso accarezzate ed irritate.
Quante vicende nella vita di quest'uomo fornito d'ingegno di
stinto e di carattere nobile, generoso, e che ha una delle penne piùaffi
late che giornalista abbia mai avuto, di questo antico collaboratore (1865)
del Figaro diretto dal famoso Villemessant, e poscia autore della let
tera in quest'anno indirizzata al New York Herald, in cui il nome di
Villemessant è a ragione trascinato nel fango!. Una delle più strane
vicende della vita del conte Enrico di Rochefort è appunto la sua eva
sione dalla Nuova Caledonia, dove era stato deportato in compagnia
di molti altri superstiti alle stragi della reazione del 1871.
Di questa celebre evasione parlando, ci serviremo principalmente delle
parole dello stesso Rochefort nella sua lettera a quel giornale americano.
Diciamo prima qualche cosa dell'isola in cui furono trasportate più
migliaia d'insorti francesi condannati dai tribunali eccezionali di Ver
saglia.
La Nuova Caledonia è posta nell'emisfero Australe, all'est del
l'Australia, tra il 20 grado di latitudine sud ed il 22, 30, fra 161 ,
45 e 164, 31' di longitudine. E circondata da scogli madreporici, che
rendono difficilissima e pericolosissima la navigazione delle coste. E
traversata da alte montagne, le più delle quali nude, alcune boscose.
Ha parecchi fiumi, in generale non navigabili, e le cui foci sono
pericolose a cagione delle madrepore che le ingombrano. Dal mese
di maggio a quello di gennaio la temperatura è dolce e il tempo bello:
da gennaio a tutto aprile piove molto e imperversano venti impetuosi e
uragani. Parte del suolo è fertilissima:vi si trovano, a varie altezze sul
livello del mare, vegetabili delle zone calde e delle temperate; molti
altri potrebbero riuscir bene in quella fortunata regione, se ci fossero
piantati. La popolazione indigena sembra prodotta da “un incrociamento
di una razza negra con una di altro colore; ha belle forme di corpo, capelli
10 '. ROCHEFORT'
O RS IN I
(1855)
paglioni con vecchie coperte; il tutto con buona dose d'insetti. Quattro
individui a me del tutto ignoti mi facevano compagnia. »
Fu condotto dinanzi al capo della sezione politica degli stranieri
alla Direzione di polizia. Subi parecchi interrogatori. Confessò di es
sere italiano; disse che per domestiche amarezze aveva lasciato la To
scana sua patria e chiese di essere mandato ai confini austriaci e quivi
liberato. Il governo sapeva, gli fu detto, che egli era o Garibaldi o
Orsini; non aveva contravvenuto alle leggi durante il suo soggiorno
a Vienna, ma essendo un pericolosissimo rivoluzionario, invece di li
berarlo, gli si sarebbe assegnata per dimora una fortezza. Fu sorpreso
dell'umanità e della gentilezza di quel funzionario austriaco.
Il 4 di Febbraio 1855 ebbe il primo interrogatorio dal consigliere
Alborghetti, giudice processante presso il tribunale provinciale e cri
minale di Vienna, alla presenza di due testimoni e di due segretaritutti
italiani. Confessò ch'era Felice Orsini; dettò in succinto la sua vita
sino dal giorno del suo arresto in Hermanstadt, tacendo, com'è natu
rale, quello che doveva essere taciuto. Non si usavano contro di lui
minaccie o domande suggestive.Si persuase che nulla sapevano intorno
alla missione che aveva adempito in Lombardia. Gli furono fatte nuove
minutissime perquisizioni; gli fu portata via della stricnina, di cui s'era
provveduto per uccidersi nel caso che arrestato fosse stato battuto,
torturato.
Da Vienna fu condotto per la ferrovia a Lubiana, di là in carrozza
a Treviso e quindi, di nuovo per ferrovia, a Mantova, al Castello di
San Giorgio.
« Una volta domandai al commissario che mi accompagnava se le
Prigioni di Silvio Pellico erano proibite. – No di certo, rispose egli:
Silvio Pellico non fa che esporre la verità. – Indi toccando dell'Italia,
fece intendere essere la causa dell'indipendenza ben giusta, ma ch'era
inutile tentare una rivoluzione contro chi disponeva di 300.000 baionette.
« Salita la interminabile scala del Castello, mi trovai a fronte di
un uomo che mostrava di essere sui 55 anni, livido in volto, di
sguardo sinistro, con voce rauca. Era Francesco Casati milanese, capo
custode del Castello di San Giorgio.
Venne posto nella segreta N. 3, visitato dal medico delle carceri
e umanamente trattato. Vide il presidente del tribunale che si recava
a far la solita visita mensile.
Pei prigionieri non malati il vitto consisteva in dodici once di pane
nero, pasta e riso nell'acqua e niente vino. A chi aveva mezzi di fa
miglia, si concedeva di viver del suo. Orsini aveva ancora pochi soldi,
. faceva comperar un po' di pane. Quando non n'ebbe più, Casati lo ob
bligò a prender del pane e si mostrò meno tristo della sua fama.
Più tardi Orsini fu da amici suoi fornito di danaro.
Al tribunale militare di Mantova che aveva mandato alla forca
16 ORSINI
nove patrioti e alla catena parecchie centinaia, era succeduto allora per
giudicare i rei di stato il tribunale civile chiamato Corte speciale di
giustizia, che si componeva di Vicentini presidente e dei consiglieri
Pickler, Schuhmaker e Sanchez; quest'ultimo nato in Austria di padre
spagnuolo, educato in Italia, era il peggiore di tutti.
Dall'insieme delle domande che vennero fatte ad Orsini al primo
interrogatorio, si avvide che sapevasi qualche cosa della sua missione
di Milano. Infatti era tutto scoperto.
« Sanchez trasse un foglio da una scrivania vicina e me lo apri
sotto gli occhi, dicendo assai freddamente:
« Conosce questo carattere?
» Rimasi di gelo; erano le mie istruzioni date al Comitato di
Milano.
« Le volsi d'ambo i lati e con calma risposi;
« – Sono mie.
« Fuvvi silenzio per un istante: indi sentii nascere una forte rea
zione interna, gettai le istruzioni sulla tavola, e con isdegno proruppi
dicendo:
« Invece di spirare sopra un campo di battaglia, morrò impiccato.
E una volta! che fa? Doveva ben terminare cosi. Non importa. Sarà
finita per sempre. Saprò far vedere come si muore. »
De Giorgi ed altri membri del comitato milanese, cui erano state
consegnate quelle istruzioni, erano in potere del tribunale. Questo sa
peva, per delazione o per confessione di accusati, quali discorsi aveva
tenuto Orsini a Milano, quali consigli e promesse aveva dato.
Ricondotto alla sua segreta dopo quel terribile interrogatorio,
Orsini vi trovò il presidente del tribunale, che lo consigliò a fare rive
lazioni, promettendogli che, invece di essere condannato a morte,
avrebbe solo una condanna in vita. Rispose che non sapeva nulla, che
non commetteva viltà.
« Io mi trovavo in uno stato convulsivo. Morirò, diceva; stavolta
la non si fugge; si, morirò con coraggio, con dignità. Ma dunque non
farò più nulla per la libertà d'Italia? non vedrò più i miei vecchi e
i miei bimbi!. A questi pensieri mi gettava sul letto e meditava an
gosciato. »
A un secondo interrogatorio Sanchez gli chiese:
– Quante volte è ella stato arrestato?
- Cinque con questa, che sarà l'ultima.
– Oh! rispose egli, non si può mica sapere!
Infatti tutti sanno ora che non fu quella l'ultima volta che Orsini
fu arrestato, che non in quella, per cui veniva giudicato a Mantova, .
ma in altra audacissima impresa in Francia egli perdette libertà e
vita.
Nella segreta attigua a quella di Orsini era Calvi, uno dei più
illustri 1martiri italiani. I due patrioti si riconobbero e conversarono
tra loro, per quanto permetteva la sorveglianza delle guardie. Poco
tempo dopo Calvi era condotto al patibolo.
=====
Fuga di Rochefort e de' suoi compagni dalla Nuova Caledonia. PAG. 14.
fa di morire? Che cosa è mai la morte? per l'uomo che sente, altro
non è che la quiete del cuore. Dopo qualche istante cadevo spossato,
e, poggiati i gomiti sulla tavola, mi coprivo il volto colle mani e stavo
per lungo tempo in quell'attitudine, gridando: maledizione!. Poi ri
posavo o balzavo in piedi: il sangue mi saliva alla testa: me la ba
gnava a più riprese con l'acqua. Indi guardavo alle sbarre della
prigione, e mi pareva già di esser libero ed esclamava: mi bat
terò ancora per l'Italia; e se morirò, sarà almeno con un ferro in
II18IO,
Un Redaelli, che aveva svelato ogni cosa per render meno crudele
la sua sorte, aveva poi tentato di fuggire per il tetto. Preso e carico
di ferri era stato chiuso nella secreta attigua a quella di Orsini. Se
questo s'era fatto a un carcerato benemerito dei giudici, che si sarebbe
fatto all'Orsini, neo di morte, se si fosse scoperto che tentava di fuggire?
Ccmpiè il taglio degli otto ferri in 24 o 25 giorni. Con due chiodi
che avea potuto estrarre da una delle imposte della finestra, fece un
istrumento con un manico di legno da scavare il muro e il cemento
dalla parte estemma della seccnda inferriata. Tolse otto mattoni circa e
con molto terriccio li ripcse nel paglione.
, La notte del 28 febbraio 1855tagliò in istrisce le lenzuola sudicie e
gli asciugamani nascosti nel saccone del letto, e una parte degli altri; con
giunse le striscie col nodo detto alla marinaia; poscia con due chiodi
ruppe la grata esterna della finestra. Fece due involti separati che
racchiudevano camicie, scarpe, paletot, calzoni e sottovesti, e nelle
prime ore della notte seguente, destinata per l'evasione, li calò nella fossa
insieme con un suo manoscritto ed un libro.
« All'una e mezza dopo mezzanotte, ecco la visita. Io fingeva di
dormire. Terminata la visita, scesi dal letto. Perchè i lenzuoli trovas
sero maggior atto nello scorrere, mi posi i calzoni grossi che por
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 21
P I O I X
(1848)
Per narrare la fuga di Pio IX, sullo scorcio del 1848, da Roma,
dobbiamo prendere a guida l'autore dell'Ebreo di Verona. Ben s'intende
che, quanto al modo di giudicare i fatti, l'opinione nostra è tanto di
stante da quella del padre Bresciani, quanto il cielo dalla terra. Ma
siccome in nessun libro che possiamo avere a mano, troviamo, come
nell'opera di quel celebre gesuita, particolari minuti ed interessanti su
quella parte della vita di Pio IX, dall'Ebreo di Verona togliamo quanto
ha di più rilevante e più fa al caso nostro. Il prologhetto, le scarse os
servazioni di cui la narrazione sarà accompagnata, son nostri, e tali
che il Bresciani, se vivesse, e gli uomini della sua risma, se ci leggessero,
senza dubbio ci darebbero sulla voce e ci griderebbero anatema.
Alcuni particolari togliemmo pure dall'opera di Farini. « Lo stato
Romano dal 1815 al 180. »
Come Pio VII aveva, per ambizione e velleità di liberalismo, favorito
in sulle prime la carboneria, poi l'aveva maledetta e dato mano all'Au
stria nel perseguitarne gli adepti, cosi Pio IX, per vanità, per desiderio,
d'applauso e di fama, avea da principio favoreggiato il movimento nazio
male italiano, e poi sen'era chiarito accanito nemico.
I patrioti Romani, anzi tutti i veri liberali in Italia, perduto avevano
lasperanza, vana speranza efanciullesca invero (come possiamo giudicare
adesso, considerando quegli avvenimenti occorsi tanti anni sono) di
persuadere il pontefice ad essere buon italiano: tentavano di spin
gerlo, benchè riluttante, a lasciare che altri in suo nome operasse
italianamente. Indi la dimostrazione romana che tenne dietro all'ucci,
24 PIO X
vincoli di amicizia legata con Pio IX, donna di nobile animo e patrio
tici sentimenti, viveva quando il papa si mostrò disposto a favorire
il risorgimento italiano; che dopo la morte di lei, egli cambiò di lin
guaggio e di condotta; e che la moglie dell'uomo che meglio di qua
lunque altro rappresentava in Roma la reazione Europea e gl'interessi
de' più accaniti nemici d'Italia, fu consigliera e compagna della fuga
del papa. Anche qui lasciamo ai lettori i commenti e saltiamo di piè
pari lo scabroso argomento.
Alcuni cardinali, tra cui Lambruschini, aveano preceduto Pio IX
nel partire da Roma. Uno di costoro, racconta il Bresciani, pensò di
mettersi in arnese da cacciatore e sotto quella vista fuggire. Onde una
mattina per tempissimo, che non era ancora di chiaro, fatto capolino a
un usciuolo ch'era di dietro a un suo giardinuzzo e visto che la strada
era solitaria, si mosse con un suo cane bracco al guinzaglio verso
piazza Barberina. Aveva in gamba lunghi borzacchini di fustagno uli
vigno a tromba, un grosso farsettone a carniera indosso, un cappello
alla Bolivar in capo, una cintura colle cartuccette coperta d'un rovescio
di lontra, il zaino a rete e la sua torcigiona in spalla a due canne.
Come fu giunto alla fontanella della conchiglia, in sulla prim'alba, ec
coti un calessino con entrovi un giovinotto cacciatore inglese che dice:
amico, montate, è mattina da beccacce. Così uscirono dalla porta
(Salara) e furono di buon trotto oltre il ponte Salaro due buone mi.
glia, ove una carrozza attendeva il cardinale che per gli Abruzzi si fu
ricoverato a Napoli.
Un altro si vesti da boattiere di Sabina, all'antica foggia de' mon
tanari pelliti, coprendosi di pelli di caprà, si pose sopra le cosce due
gran femorali di pelle di becco ben lucignolata e folta, si mise in
ispalla un pellicciotto di capra, agli stinchi due gambiere di cuoio af.
fibbiate e in capo il berretto frigio di lana bruna, e cosi camuffato, gui
dando un biroccio che aveva portato corbone a Roma, usci di città sul
l'annottare.
Due altri eminentissimi si acconciarono al modo degli Ernici. Chiuse
le gambe in due pezze di tela grossa, messo in capo un cappello aguzzo
e tutto ornato di nastri con entrovi una pennuzza d'occhio di pavone,
preso in mano una mazza e postosi in ispalla un sacchetto di pane,
presero la via fuor di Porta Maggiore e fuggirono oltre il Liri a sal
vamentO.
(1846)
« Dopo aver lungamente riflettuto sulle diverse vie che gli si offri
32 - POTROVVSKI
città, avendo percorso, grazie alla rapidità della slitta, mille chilometri
dopo la sua partenza da Ekateirinski-Zavod.
«Ferma!... dov'è il vostro passaporto? - mi gridò la sentinella.
Per fortuna aggiunse subito a bassa voce: datemi venti kopek e tirate
dritto. Io soddisfeci subito alle esigenze della legge così opportunamente
modificate. » -
Dopo una notte passata a Irbite, Piotrowski lasciò senza por tempo
in mezzo quella città, ma le spese del suo viaggio e il furto di cui era
stato vittima, avevano ridotto il suo peculio a 75 rubli di carta (circa
80 franchi). Non poteva viaggiare che a piedi.
« L'inverno del 1846 fu straordinariamente rigido. Tuttavia la mat
tina in cui traversai Irbite, l'aria divenne più mite; ma la neve cadeva
cosi folta, che mi toglieva affatto la vista. Era molto faticoso di camminare
in mezzo a quelle masse candide, che si accumulavano ad ogni passo.
Verso mezzodi il cielo si rischiarò e il cammino divenne meno faticoso.
Schivava d'ordinario i villaggi, e quando doveva traversarne qualcuno,
camminava dritto, come se fossi dei contorni, e non aveva bisogno d'in
formazioni. Solamente arrivato all'ultima casa, mi arrischiava qualche
volta a fare delle domande, allorchè era molto incerto sulla direzione
da prendere. Quando avevo fame, tiravo fuori dal mio sacco un pezzo
di pane gelato, e lo mangiavo camminando o seduto a piedi di un al
bero in un luogo remoto della foresta. Se avevo sete, cercavo quei
buchi che gli abitanti del paese sogliono fare nel ghiaccio dei fiumi e
degli stagni per abbeverare le greggie; mi contentava qualche volta
della neve fusa nella mia bocca, quantunque in questa maniera non
potessi cavarmi la sete.
» Il mio primo giorno di cammino, uscito che fui d'Irbite, mi
stancò molto, e la sera mi trovai affatto sfinito. I pesanti vestiti che
portava, accrescevano la fatica del viaggio, eppure non osava disfarmene.
Sul far della notte, mi addentrai nel bosco e pensai a prepararmi un
luogo da passar la notte. Sapevo come fanno gli Ostiachi per ripararsi
durante il sonno nei loro deserti di ghiaccio: scavano un profondo
buco sotto una gran massa di neve, e vi trovano in questa maniera
un letto duro, ma molto caldo in paragone dell'aria esterna. Cosi feci
io pure, e potei prendere un riposo di cui aveva estremo bisogno. »
Il giorno seguente il povero fuggitivo si smarri, e dopo aver tutto il
giorno errato qua e là, si trovò la sera sopra una strada; fortunata
mente era la buona. Scorgendo una casupola vicina ad un villaggio,
si decide a domandarvi l'ospitalità. Si spaccia per un operaio che an
dava a cercar lavoro alle fonderie di Bohotole sull'Ural. Ma i paesani
credono che sia troppo ben fornito di biancheria per un operaio, e lo
svegliano dal primo sonno per domandargli il suo passaporto. Non si
perde di animo, e mostra loro il passavanti che gli restava. Per buona
fortuna la vista del sigillo bastò a quei gendarmi improvvisati, che gli
domandarono scusa di averlo preso per un forzato fuggitivo.
FUGHIE ED EVASONI CELEBRI 37
quattro ore. L'ospite ebbe affettuose cure per l'infelice, massime quando
seppe ch'era un pellegrino che andava all'Isola santa del Mar Bianco.
Infatti il fuggitivo si era spacciato per tale, si era trasformato in un
bohomolelz (adoratore di Dio), che andava a riverire le sante immagini
del convento di Solovetzk vicino ad Arcangelo. Il rispetto e la simpatia
che questo titolo sveglia nel paesano russo, agevolarono il viaggio di
Piotrowski, sin che giunse a Veliki-Ustiug. Quivi fu bene acc lo dai
suoi confratelli bohomoletz, i quali atten levano in gran numero che lo
sdiacciare permettesse loro di imbarcarsi sulla Dvina da quella città
per Arcangelo. Dopo essersi fermato un mese tra loro, avendo acqui
stato fama di buon pellegrino per l'esattezza con cui com,iva tutti i
suoi doveri religiosi, s'imbarcò sopra uno dei numerosi battelli che tra
sportavano colà i pellegrini. S'ingaggio col padron di barca come re
matore, per il prezzo usuale di quindici rubli in carta per tutto il
viaggio. Era appunto la somma che aveva speso per via da Isbite in
poi. Quindici giorni dopo arrivava ad Arcangelo: gli era parso mille
anni di porvi il piede, perchè sperava che uno di queitanti bastimenti
che frequentano quel porto, potesse dargli asilo e ricondurlo in Francia
o in Germania.
senza trascurare fe pratiche religiose che gl'imponeva il suo titolo
di pellegrino, e le precauzioni che non poteva omette e senza pericolo,
cercò indarno per due giorni quel bastimento salvatore. Sul ponte di
ogni legno stava giorno e notte una sentinella russa; sulla riva, lungo
il porto, per passare la linea delle sentinelle,bisognava dar spiegazioni
e mostrar carte che il fuggitivo dalla catorga non avrebbe potuto dare
e mostrare. Rinunciando dunque con un profondo scoraggiamento alle
sue care speranze, prese la strada di Onega, come un pellegrino che,
dopo di aver visitato le sante imagini di Solovetsk, andava a Kiew
« per fare le sue divozioni alle sante reliquie. » Dopo molti incontri
più o meno piacevoli, arrivò a Vyuiegra. Sulla rada un paesano si av
vicina ad esso e gli domanda dove va, e, dietro la sua risposta, gli
propone di condurlo nella sua barca a Pietroburgo. Piotrowski s'in
gaggia come rematore, parte, e durante il viaggio ha l'occasione di
rendere qualhe servigio ad una povera vecchia contadina che andava
pure a Pietroburgo. Giunti in porto, ecco il fuggitivo in grande imba
razzo per sapere come evitar la polizia, dove alloggiare, ecc. A un
tratto la buona vecchia sua protetta gli dice: restate meco: ho man
dato ad avvertir mia figlia, che verrà a prendermi e v'indicherà un
buon alloggio. Restava la questione del passaporto e della polizia: egli
temeva che l'albergatrice non fosse troppo esigente su questo punto;
ma avendola interrogata sulle formalità da adempiere, gli rispose che
non c'era bisogno, per due o tre giorni di soggiorno, di andare alla
polizia. Rassicurato a questo riguardo, il giorno dopo va a passeg
seggiare dalla parte del porto, leggendo alla sfuggita, perchè un pae
FUG ll E El) EVASIUNl CEL LIBRI 39
sano russo non deve saper leggere, gli affissi che si trovavano sui di
versi battelli a vapore per annunciar la loro partenza.
« A un tratto mi venne veduto un avviso sritto in grossi carat
teri, posto vicino all'albero di un vapore: quel bastimento partiva il
giorno dopo per Riga. Vedeva un uomo passeggiar sul ponte, colla
camicia rossa sopra il pantalone, alla russa, ma non osava di parlargli;
mi contentava di guardarlo molto fisso. Intanto il sole stava per tra
montare, quando a un tatto l'uomo della camicia rossa alzò la testa e
mi domandò: vorresti forse andar a Riga? allora vieni a prender posto
qui. – Certo ho bisogno di andar a Riga. Ma io sono un povero
uomo; come posso prendere il vapore? Deve costar molto caro: non è
fatto per noi altri poveretti. – E perchè no? vieni. A un mugik, come te,
non si domanderà molto. – E quanto? - Mi disse un prezzo che non mi
ricordo più, ma che mi fece su,ire, tanto era moderato. – Ti conviene
dunque? Perchè esiti ancora? – Sono arrivato solamente oggi, e bi
sogna che la polizia faccia il visto al mio passaporto. – Allora perde
rai tre giorni alla polizia: il vapore parte domattina. - Che far dun
que? – Che diavolo! partire senza visto. – Bah! se mi succedesse poi
qualche disgrazia? – Imbecille: ecco un mugik, che vuol insegnare a
me. Hai il tuo passapCrto in tasca? mostramelo – Io trassi dalla mia
tasca ilpassavanti accuratamente involto in una pezzola di seta, secondo
l'abitudine dei contadini rus; ma egli senza guardarlo mi disse: vieni
domattina alle sette. Se non mi trovi, aspettami. Ora vattene via
presto. »
« Tornai tutto contento all'albergo, e il giorno dopo fui esattissimo
all'ora indicata. Già si scaldava la macchina. Quell'uomo mi scorse e
mi disse solamente: dammi qua il danaro. Poi si allontanò, e tornò
a portarmi un biglietto giallo: io finsi di non capire che cosa fosse e
feci delle osservazioni. Taci tu, mugik, disse sgarbatamente l'altro, e
lascia fare. La campana sonò tre volte, i passeggeri accorsero, e quel
l'uomo con un buon pugno mi cacciò dietro di loro. Alcuni momenti
dopo il vapore era in cammino: io credeva di sognare. »
Da Riga Piotrowski, viaggiando a piedi, arrivò senza difficoltà alla
frontiera, avendo un poco modificato il suo costume, ma conservando
sempre i distintivi del ruski celoviek (uomo russo), cioè l'armiak o pic
colo burnus e la pelle di montone. Si spacciava per un mercante di
setole di porco, lo che gli permetteva di prendere in viagg o le infor
mazioni necessarie. Dpo essersi ben informato degli ostacoli che po
teva incontrare passando dalla Russia in Prussia, riuscì a traversar
la frontiera di giorno senza essere colpito da alcune fucilate che gli
tirarono le sentinelle. Si rifugiò in un bosco vicino e, tagliata la barba,
camuffatosi in altra maniera, si spogliò dei vestiti propri del pae
sano russo. Finalmente arrivò senza cattivi incontri a Königsberg. Ma
al mºmento in cui si credeva salvo, poco mancò che non fosse affatto
0 PIOTROWSKI
rovinato. Aveva risoluto di partire col vapore per Elbing: verso la sera
sedette presso ad una casa in rovine sopra un mucchio di pietre, fa
cendo conto di allontanarsi sul far della notte e andare a dormire nei
campi, sino all'ora della partenza. Sfinito dalla fatica si addormentò
e fu risvegliato da una guardia di notte che, poco soddisfatta delle
sue risposte, lo arrestò e lo condusse al corpo di guardia vicino. Alla
polizia si spacciò per un operaio francese, e disse che aveva per
duto il passaporto. Fu messo in prigione.
Un mese dopo, chiamato di nuovo alla polizia, il commissario gli
dimostrò che quanto egli diceva era falso e gli lasciò capire chiara
mente che cadevano sopra di lui i più gravi sospetti. Stanco di fin
gere, irritato sopratutto di passare per un malfattore che si nascon
desse, dichiarò chi era. Una recente convenzione tra la Prussia e la
Russia obbligava i due stati a consegnare l'uno all'altro i fuggitivi.
Ifunzionari prussiani furono costernati ricevendo la dichiarazione di
Piotrowski: era loro impossibile di eludere la convenzione. Tuttavia i
principali abitanti di Königsberg ed alcune persone alto locate essen
dosi adoperati in suo favore, l'autorità era disposta a cedere. Poco
tempo dopo Piotrowski fu avvertito che un ordine giunto da Berlino
prescriveva di consegnarlo ai Russi, ma che gli si lascerebbe tutto il
tempo di fuggire a suo rischio e pericolo. Aiutato da generosi amici,
il giorno dopo era sulla strada di Danzica.
« Avevo, dice, lettere per differenti persone nelle città tedesche
che dovea traversare: e per tutto trovai dei generosi che si adopera
rono con gran cura a facilitarmi il viaggio. Grazie all'appoggio che
non mi mancò in nessun luogo, ebbi presto traversata la Germania e
il 22 settembre 1846 mi trovava di nuovo a Parigi, che aveva lasciato
quattro anni prima » – Rufino Piotrowski, Memorie di un Siberiano. (1)
(l) Abbiamo tradotto la narrazione della fuga di Piotrowski, compilata sulle memorie di
esso, da un'opera francese, di P. Bernard, che tratta lo stesso argomento della nostra. A lb
biamo pure altre volte approfittato di quel libro. Si noti però che il nostro volume com
prende un numero di fughe ed evasioni quasi doppio di quelle che dà il Bernard. Inoltre per
quelle narrate anche nell'opera francese, quando abbiamo potuto trovare i libri su cui fu
eseguita la compilazione, abbiamo fatto lavoro nuovo. L'opera nostra, ha dunque una doppia
estensione della francese ed è per quasi due terui originale.
,
ca
VI
,
-
LUIGI NAPOLEONE
(1846)
(1) Si sa però che Luigi Napoleone non era vero figlio di Luigi fratello di Napoleone I. In
una lettera diretta dall'ex re d'olanda al papa Gregorio XVI, pubblicata nel 1872 a Parigi,
dice, dopo di aver parlato del principe Napoleone suo figlio, il quale avevo preso parte ai
noti del 1831, » Quanto a que l'altro, V. S. sa bene che non mi e nulla.
(2) Luigi Napoleone era stato difeso dinanzi alla camera dei Pari da Ferdinando Barrot,
ratello di odilon Barrot, e che 1 oi fu ministro in spagna.
* LUIai NAPoLEose
(1834)
RI
(1833)
FR I GN A N I
(1829)
singhe gli disse che gli altri prigionieri avevano rovesciato sopra di
lui ogni colpa, e che pagandoli della stessa moneta egli salverebbe se,
e avrebbe lode e premio dalla sovrana clemenza. A queste parole il
prigioniero acceso d'ira rispose: «cessate; serbate le vostre infami pro
ferte alle coscienze venali. Chi turberà l'innocenza mia? Non le calun
nie, non la debolezza altrui. Non credo però quel che mi dite.
segreti d'altrui non conosco; conoscendone, tacerei. Della clemenza so
vrana non so che me ne fare: ella può giovare al malvagio, non a
me. A ogni modo non io il sovrano, ma egli offende me, che sono de
stinato a rigenerare l'umanità: dunque spetta a me il perdonare, e non
a lui. Egli può mandarmi oro e proferte corrompitrici: io accoglierò
più volentieri il carnefice, suo dono anch'esso, ma meno infame ».
Questa intemerata fece credere al gendarme che il povero Frignani
avesse proprio perduto la ragione, e lo disse. Il prigioniero teneva
pure simili discorsi ai soldati di guardia e inveiva contro i pontefici,
dicendo cose vere ma arditissime, lo che sempre più convalidava l'opi
mione ch'egli fosse fuor di senno. Oltre dire le più stravaganti cose,
faceva le più strane pazzie. Un agitarsi continuo, un correre qua e là,
un fissar gli occhi in terra e stare immobile per lungo spazio. Non
mangiava, non dormiva; ora gridava orribilmente, ora sgangherata
mente rideva; ora dava in accessi che parevano di vero maniaco. Ai sol
dati che gli facevano la guardia prometteva premi e grandezze quando
avessero liberata l'Italia e stabilita la repubblica; poi si azzuffava con
loro; si strappava le vesti e i capelli, si graffiava la fronte. Una volta
finse di essere stato avvelenato; mandava orribili grida, scuoteva con
gran fracasso le porte del carcere. Alla fin fine fu posto in ceppi.
Intanto monsignor Invernizzi, che acquistò una trista fama in quei
processi di sangue, recatosi a Faenza e sentendo che il matto con
tinuava a farne delle sue, ordinò che fosse condotto colà per guarirlo
(diceva) mettendolo nelle carceri del Santo Uffizio. Sopra la porta era
l'epigrafe dell'inferno. « Lasciate ogni speranza, voi che entrate ». Il
Frignani nel suo nuovo carcere continuava a fare le più straordinarie
pazzie; sosteneva sempre la sua chimerica parte di liberatore e par
lava del modo con cui avrebbe organizzato il nuovo stato d'Italia.
Monsignor Invernizzi volle vederlo, e fu tanto spaventato dalle
parole e degli atti di lui, che fuggi subito, e ordinò che si chiamasse
un medico per curarlo. Andò tra gli altri a visitarlo il dottor Ander
tini, medico primario della città di Faenza, il quale sin dalla prima
visita si accorse della finta pazzia, e, valent'uomo com'era, stabilì di
aiutare l'infelice nella sua prova.
Per intercessione di lui il Frignani potè anche rivedere il padre e
i fratelli, a uno dei quali svelò l'enimma del suo artifizio. Traspor
tato nell'ospedale Faentino, continuò la commedia. Intanto la commis
sione che decideva qual destino dovessero avere gli accusati di crimenlese,
5 FRIGNANI
decretò che egli non fosse ricondotto in carcere prima di essere perfet
1amente guarito. Se fuggi alle branche del carnefice, ne fu debitore al
l'Anderlini, che lo secondò a tutto suo potere, e con altre pietose frodi
salvò pure altri infelici in quei tristi tempi.
Fu permesso al Frignani di recarsi a finire la convalescenza in
famiglia, ma ogni suo passo era continuamente spiato dai birri; per
ciò stabilì di non aspettare il termine prescritto e si dispose a fug
gire. Ebbe consigli e mezzi di fuga da Antonio Farini di Russi. Nel
settembre del 1829 si recò segretamente a Firenze, ove trovò modo di
aver un passaporto fingendosi servitore di un Corso. Condottosi a
Livorno, nell'atto d'imbarcarsi scrisse questa lettera a monsignor In
vernizzi:
« Domani porrò il piede in terra non libera, ma dove almeno la
dignità dell'uomo non è in tutto oltraggiata. Ivi aspetterò in pace il
risorgimento d'Italia, inevitabile, io spero, ancorchè mi sembri lontano.
Frattanto, s'egli è vero che il dolore scemi col narrarlo ad altrui, sof
frirò i mali a cui mi sottoponeste per avere amato la patria. Scoprirò
l'ipocrisia e la ferità vostra, degno satellite di re sacerdote. Voi vole
vate mandarmi alle forche: io vi dissi che Iddio mi aiuterebbe e mi
salverebbe. Voi vi beffaste di me, e Dio mi ha poi dato modo di libe
rarmi dalle mani vostre o di lasciarvi schernito. »
Di Corsica passò in Francia e sui primi tempi pati più mesi la
fame e condusse orribile vita a Marsiglia. Poscia a Aix si dette a far
i'artefice di lavori di ottone, e quindi l'orefice e cosi guadagnava un
pane onorato. Più tardi, quando potè, riprese l'esercizio delle lettere
e pubblicò un elegante e curioso libro in cui narrò le sue vicende e
i suoi patimenti, e le lunghe prove con cui gli fu dato di sottrarsi
alla morte (La mia pazzia nelle carceri, Memorie di Angelo Frignani,
Parigi 1839).
ARRIVA BENE, UGONI E sCALVINI
(1822
MI O R A N D I
(2821-1831)
XIII
LA VALETTE
(181)
per alcuni minuti, che mi sono necessari per allontanarmi. Intese bene
e tirò il campanello. Il carceriere si fece sentire, Emilia si lanciò dietro
il paravento; la porta s'aperse. Passai primo; mia figlia dopo; madama
Dutvit, (una vecchia serva della signora Lavalette) era l'ultima. Dopo
di aver traversato il corridoio, arrivai alla porta.
» Bisognava alzare il piede e nel medesimo tempo abbassar la testa,
perchè le piume del cappello non toccassero il disopra della porta. Vi
riusci, ma nel rialzarmi mi trovai in quello stanzone, in faccia a cinque
carcerieri seduti, appoggiati, in piedi, dove io doveva passare: mi te
neva il fazzoletto sugli occhi e aspettava che mia figlia si mettesse
alla mia sinistra, come eravamo convenuti. La fanciulla prese il mio
braccio sinistro, e il custode scendendo la scala della sua camera, ch'era
a dritta, mi si accostò e ponendomi la mano sul braccio, mi disse: vi
ritirate molto di buon'ora, signora contessa. »
» Pareva molta commosso, e pensava senza dubbio ch'ella aveva
dato un eterno addio a suo marito. Altri hanno detto che mia figlia
ed io mettevamo delle grida: la verità è che appena potevamo appena
respirare.
» Finalmente arrivai all'altro capo della stanza. Un secondino vi sta
giorno e notte in un seggiolone, in uno spazio abbastanza stretto da
aver le sue due mani poste sulle chiavi delle due porte, una con un
cancello di ferro e l'altra che è esterna e si chiama il primo sportello. Il
secondino mi guardava e non apriva: passai la mia mano destra fra
le sbarre per avvertirlo. Egli girò le due chiavi ed uscimmo. Ci sono
dodici scalini da salire per arrivare alla corte, ma al fondo di questa
scala è posto il corpo di guardia dei gendarmi. Una ventina di soldati,
coll'ufficiale alla loro testa, stavano ritti a tre passi lontano da me, per
veder passare la signora Lavalette. Finalmente arrivai lentamente
all'ultimo scalino, ed entrai nella portantina, ch'era a due o tre passi.
Ma non v'erano nè i portatori,nè il servo: mia figlia e la vecchia serva
stavano in piedi vicino alla portantina. La sentinella a dieci passi immo
bile e voltata verso di me. Alla mia meraviglia cominciò a mescolarsi
un principio di agitazione violenta: i miei sguardi erano fissi sul fucile
della sentinella, come quelli del serpente sulla sua preda. Io sentiva
per cosi dire quel fucile chiuso nelle mie mani. Al primo movimento,
al primo strepito, mi sarei gettato su quell'arma.
» Questa situazione terribile durò due minuti circa; miparve lunga
una notte intera. Finalmente sentii la voce di Bonneville, che mi disse
piano: uno dei portatori non si è fatto vedere, ma ne ho trovato un
altro. Allora mi sentii sollevato. La portantina traversò il gran cortile,
poi girò a destra nell'uscire. Andammo sino al quai degli Orefici, in
faccia alla piccola strada di Harley. Allora la portantina si fermò, si
aperse la porta; il mio amico Baudus, presentandomi il braccio, mi disse
a voce alta: Sapete, signora, che avete da fare una visita al presidente
0 LAvALErri:
Uscii dunque; egli m'indieò un calesse che stava pochi passi lontano
in quella strada oscura. Mi slanciai nella carrozza e il cocchiere mi
disse: datemi la mia frusta. La cercai inutilmente: era caduta. Che
cosa importa? disse il mio compagno. Una buona scossa di briglie fece
partire il cavallo di gran trotto. Passando vidi Giuseppina sul quai a
mani giunte: ella pregava Dio con tutta l'anima. Traversammo il ponte
di San Michele, la via della Harpe e arrivammo presto a quella di
Vaugirard dietro l'Odéon. Là solamente cominciai a respirare. Guar
dando il cocchiere del calesse, qual fu la mia maraviglia nel riconoscere
il conte di Chassenon! Oh siete voi? dissi. – Avete di dietro quattro paia
di pistole ben cariche: spero che ne farete uso. – No, in verità, non
voglio rovinarvi. – Allora ve ne darò l'esempio. Guai a chi si pre
senterà per arrestarvi. -- Andammo sino al baluardo di Montparnasse, al
canto della via Plumet. Là ci fermammo. Io mi era sbarazzato per via
di tutte le vesti da donna, di cui era camuffato: misi un carrick di
jockey e un cappello rotondo coi galloni. Presto arriva il signor Baudus.
Presi congedo dal signor Chassenon, e seguii modestamente il mio
nuovo padrone.
« Erano le ore di sera. La pioggia cadeva a torrenti. L'oscurità
era profonda e la solitudine completa in quella parte del sobborgo di
San Germano. Io camminavo con fatica dietro al signor Baudus che
andava avanti rapidamente. Perdetti una delle mie scarpe; eppure bi
sogna camminare. Incontrammo dei gendarmi che correvano di galoppo
e che non avevano il menomo sospetto che io fossi là; era io proba
bilmente ch'essi cercavano. Finalmente dopo un'ora di cammino, stanco
dalla fatica, con un piede calzato e uno scalzo, vidi il signore Baudus
fermarsi un momento nella via di Grenelle,vicino a quella di Bac. En
trerò, mi disse, in un palazzo; mentre parlo col portinaio, avanzatevi
nella corte. Troverete a sinistra una scala; salite sino all'ultimo piano;
prendete un corridoio oscuro a destra. In fondo è un mucchio di legna:
state là ad aspettarmi. Facemmo alcuni passi nella via di Bac, e una
specie di vertigine mi prese quando lo vidi battere alla porta del mi
nistero degli affari esteri. Entrò primo, e mentre egli parlava col por
tinaio che aveva la testa fuori del suo camerino, passai rapidamente.
Dove va quell'uomo? sclamò il portinaio. – E il mio servitore. – Sali
fino al terzo piano e arrivai al luogo indicato. Appena giunto sento il
fruscio di un abito di seta: mi sento prender con buona maniera per
il braccio. Fui condotto in una camera e la porta si chiuse dietro di me.
In quella stanza era accesa una stufa. Trovai sul tavolino un lume
e dei solfanelli: si poteva adunque senza pericolo accender il lume. Sul
canterale una carta portava queste parole: « non fate romore; non
aprite la finestra che di notte; mettetevi delle pantofole e aspettate
con pazienza. » Vicino alla carta c'era una buona bottiglia di eccellente
vino di Bordeaux, parecchi volumi di Molière e di Rabelais, e un bel
paniere che conteneva degli oggetti di toeletta molto eleganti. »
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 71
XIV
NAPOLEONE I
(1815)
,
RICHIEMONTI
(1809)
piena certezza che alla tal'epoca voi siete andato a Chesterfield a pren
dere il capitano X., che l'avete condotto via nella vostra carrozza, che
l'avete tenuto tanti giorni nascosto in casa vostra e poscia trasportato
al di là della Manica. Ora io ho cento belle lire sterline da offrirvi, e
di più la riconoscenza e l'amicizia di due uomini leali e di cuore,
« Quando si parla in questo modo, diss'egli prendendomi la mano
e scotendola forte, si è servito in tutti i paesi del mondo. Le vostre
maniere mi piacciono; c'è nelle vostre parole franchezza e risoluzione.
Siate il benvenuto; io sono l'uomo che fa per voi; conserverete buona
memoria del fatto mio. Non abbiate timore: siamo noi i padroni del
mare, e non già the ships of the royal navy (i bastimenti della marina
reale).
« È vero, gli dissi, stringendogli cordialmente la mano. E affare
conchiuso; ora bisogna intenderci per l'esecuzione.
« Allora gli feci sapere dove eravamo alloggiati, e che il più im
portante era di poter aspettare con sicurezza un tempo favorevole e
di provvedere a tutto durante il nostro soggiorno.
« Va bene, mi disse il valentuomo: tutto sarà fatto e ben fatto.
A tale ora di notte venite a prendermi qui, e vi condurrò in luogo
sicuro, ove potrete bere, fumare e dormire a vostro piacere, senza darvi
pensiero d'altro.
All'ora indicata ci recammo dal nostro contrabbandiere, che ci
aspettava. Gli misi in mano le cento sterline convenute, e gli disse che
doveva aspettare di veder affisso ai muri un avviso dell'ufficio dei tra
sporti, relativo a noi, con promessa di ricompensa a chi ci arrestasse.
« – Never mind (non vi date pensiero di nulla), soggiunse: anche
se gli offrissero la corona d'Inghilterra, non si potrebbe mai rimprove
rare a W. G. una viltà, un tradimento.
» Ci mettiamo in via ed entriamo in una casa di meschina appa
renza, vero ricovero di contrabbandieri, una casa con trentasei porte
od uscite. Se anche fossero venuti a pigliarci, avremmo potuto scappare.
Ci trovammo una donna di una certa età, che ci fu presentata come
nostra serva e cuoca: una credenza guarnita di molte stoviglie, una
buona provvista di carbone, tanto per il salotto che per la cucina al
l'inglese co' suoi fornelli di ferro fuso.
» Voi non avrete che a dare i vostri ordini, ci disse il signor W.
La dispensa è ben fornita: vi sono in abbondanza vino, porter e birra:
potrete sceglier quel che v'ha di meglio.
» Ci condusse in due camere, ciascuna delle quali aveva un letto,
una tavola ed alcune sedie. In una di queste camere c'era una scri
vania con calamaio e carta.
« Così installati e trattati con più riguardi che non chiedesse lo
stretto dovere di ospitalità, mentre noi non potevamo pretender altro
Fughe ed evasioni celebri, Disp. 5,
FUGIE ED EVASONI CEI,EIBIl 8
PICHIEGRU
(1797)
SIDNEY-SMITHI
(1778)
infame per la strage dei preti che v'erano custoditi nel settembre 1791;
poscia fu trasportato al Tempio, ove passato avevano gli ultimi giorni
della loro vita Luigi XVI e Maria Antonietta, in quella torre che poi
doveva essere testimone dei più tenebrosi episodi del Consolato, i sui
cidi di Pichegru e di Cadoudal, o piuttosto gli omicidi di questi due
famosi realisti.
Il Direttorio non aveva però creduto necessario di trattare l'illu
stre prigioniero con severità, con durezza. Non fu caricato di catene,
non chiuso in una muda, non cibato a pane ed ocqua. Gli fu dato il
più comodo appartamento che si potesse trovare nella torre, e gli fu
permesso di avere un cuoco, un cameriere e un domestico. Erano fran
cesi tutti e tre, ma quest'ultimo era quel conte Tergonac che era stato
preso col commodoro e che si spacciava per inglese e servitore di esso.
I pesci più rari, il pollame più scelto, le più care ghiottornie che
potevano trovarsi sul mercato di Parigi, tutto quanto insomma può so
leticare l'appetito di un delicato gastronomo, era imbandito sulla tavola
del prigioniero, a cui naturalmente non mancava il danaro. Il cognac,
lo sherry, il claretto facevano parte della cantina dei commodoro, il
quale erasi specialmente provveduto di uno stupendo vino di Porto
vecchio, corrubinato, delizia dei più solenni bevitori Inglesi. In quell'ozio
forzato, Sidney-Smith passava di lunghe ore a tavola in compagnia
del capitano Wright, altro Inglese detenuto al Tempio, ed era servito dal
finto cameriere Sparkes (questo era il nome sotto cui era conosciuto
il conte di Teogonae).Costui era burlone, epperò molto accetto agli uf
fiziali di servigio della prigione cosi per il suo buon umore, come per
la strampalata maniera con cui parlava e pronunziava il francese. Il
commodoro invitava spesso a tenergli compagnia il capo custode del
tempio, il cittadino Muzio Scevola. Costui rispondeva sulla sua testa
della persona di lui e dormiva colle chiavi della prigione sotto l'ori
gliere. Non era però tristo uomo, e le istruzioni che avea ricevuto dal
governo, erano di trattar bene il suo prigioniero.
Molti tentativi erano stati fatti dai realisti per liberare il commo
doro e i suoi due compagni. In quel tempo, non ostante la sanguinaria
severità del governo republicano, abbandonavano in Francia, e mas
sime a Parigi, secreti emissari delle potenze estere, noti come alar
misti, incettatori, ma più sotto il generico nome di agenti dello stra
niero, chiamati dal popolo agenti di Pitt e di Coburgo. Venivano da
Londra, da Vienna, da Berlino, da Amsterdam. Ce n'erano dell'esercito,
nella marina, nelle sale di conversazione, nei pubblici uffici, nelle an
ticamere dei ministri, fra le donne che aprono i palchi dei teatri, le
trecche del mercato, i fiaccherai. Erano tutti ben forniti di danaro, tutti
istancabili nel procacciarsi informazioni, nel fomentare tumulti e pro
muovere la fuga dei prigionieri politici: se l'intendevano coi reazionari
del paese, alcuni dei quali, i più astuti, si spacciavano per ardenti re
pubblicani.
FUGHE ED pVASIONI CELEBRI 89
CARAFFA
(1795)
NIX
CHATEAUBRUN
(1794)
LUIGI XVI
a)
giosi che la mala fede del clero aveva fatto nascere a proposito della
costituzione civile, spaventarono la sua coscienza ed allora pensò a
partire. Ne scrisse, verso la fine del 1790, al generale Bouillé suo fida
tissimo, il quale sulle prime resistette, poscia cedè, per non render so
spetto il suo zelo allo sventurato monarca. »
Mirabeau, che ancora favoriva gli interessi del re, aveva forse
concepito il progetto di fare che si allontanasse da Parigi, ma per re
carsi a Lione, non già al campo di Bouillé.
Intanto il re, non potendo più soffrire la violenza che gli era
imposta e le restrizioni di potere che l'Assemblea gli faceva subire,
non avendo alcun riposo di coscienza dopo i nuovi decreti sul clero,
aveva deciso di fuggire. Tutto l'inverno era stato consacrato ai prepa
rativi; si promettevano mari e monti a Mirabeau, se riuscisse a met
tere in libertà la famiglia reale. . ..
La morte improvvisa di Mirabeau tolse tutto il coraggio alla
corte. Nuovi avvenimenti precipitarono la decisione che il re avea già
preso. Il 18 aprile voleva andare a Saint Cloud; si diceva che
non volendo servirsi di uno dei preti che avevano prestato giura
mento alla costituzione per far la sua pasqua, egli avesse deciso d'al
lontanarsi da Parigi durante la settimana santa. Altri avevano sparso
voce che voleva fuggire. Il popolo si affolla intorno alla carrozza e
ferma i cavalli. Lafayette accorre e supplica il re di restar in
carrozza, assicurandolo che gli aprirà un passaggio. Tuttavia il re
scende e non vuol permettere alcun tentativo: era la sua antica poli
tica di far credere che non era libero. Per consiglio de' suoi ministri
si reca all'Assemblea a lamentarsi dell'oltraggio che avea ricevuto.
L'Assemblea lo accoglie colle sua solita premura, promettendo di fare
quando dipende da lei per assicurare la sua libertà. .. .. Il 23 aprile,
Luigi XVI fa scrivere dal signor Montmorin, ministro degli esteri, una
lettera ai suoi ambasciatori presso le corti straniere, in cui dichiara
ch'è falso ch'egli abbia intenzione di lasciare la sua residenza, come
altri supponeva; dichiara che ha prestato giuramento alla costituzione
e ch'è disposto ad osservarla e proclama suoi nemici coloro che voles
sero far credere il contrario. . . .
L'imperatore Leopoldo promise di far marciare 35.000 uomini in
Fiandra e 15.000 in Alsazia. Un numero eguale di Svizzeri dovevano
portarsi verso Lione; altrettanti Piemontesi sul Delfinato: la Spagna
doveva raccogliere 20.000 uomini. L'imperatore prometteva la coopera
zione del re di Prussia e la neutralità dell'Inghilterra. Doveva farsi
una protesta in nome della Casa di Borbone, sottoscritta dal re di Na
poli, dal re di Spagna, dall'infante di Parma e dei principi emigrati
(il Conte di Provenza e quello d'Artois). Era raccomaadato Luigi XVI
di non allontanarsi da Parigi.
Gli agenti secreti di Luigi XVI erano discordi su questo ultimo
punto; altri lo consigliavano a restare a Parigi, altri a fuggire.
96 LUIG1 XVI -----
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Un cospiratore, vestito da generale, mostra un falso ordine del Ministero per trasportare
Sidney-Smith in un'altra prigione. PAG. 89
medesimo, che la famiglia reale fosse stata rapita dai nemici del
paese. Questa rispettosa supposizione fu ammessa dall'Assemblea e
costantemente adottata dalle autorità. In quel momento il popolo am
mutinato rimproverava Lafayette di aver favorito l'evasione del re: al
contrario il partito aristocratico lo accusò più tardi di averlo lasciato
fuggire per arrestarlo, poi rovinarlo con questo vano tentativo. Tuttavia,
se Lafayette avesse voluto lasciar fuggire il re, avrebbe mandato, prima
di ricever ordini dall'Assemblea, due aiutanti di campo per inseguirlo?
E se, come hanno supposto gli aristocratici, l'avesse lasciato fuggire
solamente per riprenderlo poi, avrebbe permesso che la carrozza avesse
il vantaggio di una giornata intera? Il popolo fu presto disingannato e
Lafayette tornò nella sua grazia.
» L'Assemblea si riunì alle nove antimeridiane: la sua attitudine
era imponente, come nei primi giorni della rivoluzione. La supposi
zione convenuta fu che Luigi XVI fosse stato rapito. La più gran
calma e la più perfetta unione regnarono in tutta quella seduta: furono
approvate le disposizioni prese spontaneamente da Lafayette. Il popolo
aveva arrestato alle barriere i suoi aiutanti di campo: l'Assemblea fece
loro aprir le porte. Uno di essi, il giovane Romeuf, era latore del de
creto che confermava gli ordini dati dal generale, e comandava a tutti i
funzionari pubblici di opporsi alle conseguenze di questo ratto e d'im
pedire che si continuasse il viaggio. Come il popolo bramava, Romeuf
prese la strada di Chàlons, ch'era la vera; si sapeva ch'era passata
per di là una carrozza a sei cavalli. L'Assemblea fece quindi chiamare
i ministri e decretò che ricevessero ordini solamente da lei. Nel partire
Luigi XVI aveva ordinato al ministro della giustizia di mandargli il
sigillo dello Stato.
» L'Assemblea ordinò che il sigillo fosse serbato per apporlo ai suoi
decreti; decise che le frontiere si ponessero in istato di difesa, e che
il ministro degli esteri fosse incaricato di assicurare le potenze, che
le disposizioni della nazione francese non erano cangiate verso di esse.
» Fu sentito poi il signor De la Porte, intendente della lista civile.
Aveva ricevuto diversi messaggi dal re, fra cui un biglietto, che pregò
l'Assemblea di non aprire, ed una memoria che conteneva i motivi della
partenza. L'Assemblea, pronta a rispettare tutti i diritti, restituì senza
aprirlo il biglietto che il De la Porte non voleva render publico, e or
dinò la lettura della memoria, che fu ascoltata colla più gran calma.
L'impressione che produsse, fu quasi nulla: il re si lamentava con poca
dignità che fosse scemato il suo potere; pareva che gli spiacesse più
di esser ridotto a trenta milioni di lista civile, che di aver perduto
tutte le altre sue prerogative. Si ascoltarono i lamenti del monarca, si
compiansero le sue debolezze; si passò oltre.
» In quel momento pochi desideravano che Luigi XVI fosse arrestato.
Gli aristocratici vedevano nella sua fuga realizzato il più antico de'
FUGHE ED FVASION1 CELEBRI 99
famiglia reale. Era sparso e affisso per tutto un avviso che diceva:
chiunque applaudirà il re, sarà battuto; chiunque l'insulterà, sarà ap
piccato. L'ordine fu puntualmente eseguito, e non si sentirono nè ap
plausi nè insulti. La carrozza fece un giro per non essere obbligata a
traversar Parigi. Fu fatta entrare per i campi Elisi, che conducono di
rettamente alle Tuileries. Una folla immensa l'accolse in silenzio: tutti
avevano il cappello in testa. Lafayette, seguito da una guardia nume
rosa, aveva preso le più grandi precauzioni. Le tre guardie del corpo
che avevano aiutato la fuga, erano sedute a cassetto, ed esposte alla
vista ed alla collera del popolo; eppure non si usò loro alcuna vio
lenza. Appena arrivata al palazzo, la carrozza fu circondata. La famiglia
reale discese precipitosamente e traversò una doppia fila di guardie
nazionali destinate a proteggerla. La regina era rimasta l'ultima; i
signori de Noailles e d'Aiguillon, nemici della corte, ma generosi amici
della sventura, la presero nelle loro braccia e la misero in salvo. Ve
dendoli avvicinarsi, ebbe dapprima qualche dubbio sulle loro intenzioni,
poi si abbandonò loro e arrivò sana e salva al palazzo.
» Tale fu questo viaggio, la cui funesta fine non può essere attri
buita ad alcuno di quelli che l'aveano preparato. Un accidente lo fece
fallire; un accidente poteva farlo riuscire. Se per esempio Drouet fosse
stato raggiunto ed arrestato da quello che lo inseguiva, la carrozza ar
rivava a salvamento. Forse il re mancò di energia quando fu ricono
sciuto. -
BENIOVVSKI
(1771)
IL A TU D E
(1750-1784)
(1) Secondo una planimetria della Bastiglia, ch'è nel gabinetto delle stampe della grande
Biblioteca a Parigi, l'altezza delle torri dal parapetto fino al fondo del fosso era di 95 piedi,
ehe corrispondono a 30 metri e 85 centimetri.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 1 11
uscire dal fosso. Arroge a ciò che, s'io fossi pur giunto a procacciarmi
i materiali per costruirle, e' bisognava celarli a tutti gli sguardi, la
vorare senza far rumore, e deludere i custodi e le scolte.
« Io dovea indagare, pria d'ogni altra cosa, ove fosse un luogo atto
a nascondere i nostri materiali ed i nostri utensili ».
» Dopo d'aver lunga pezza fantasticato colsi un'idea che mi parve
propizia.
» Io aveva abitato già parecchie camere alla Bastiglia e m'era
accorto che in tutte le corrispondenti, sotto a' miei piedi come pure
sovra la mia testa, udiasi ogni più lieve romore. Tesi l'orecchio in
fatti e udi distintamente ogni suono, ogni fruscio che muovea dalla
stanza ch'era al di sopra, ma non mi fu dato quel giorno udire alcun
rumore che venisse dalla stanza ch'era al disotto di noi; eppure io
sapeva per fermo starsi in quella rinchiuso un prigioniero. A furia di
calcolo giunsi a scoprire che v'era un doppio tavolato, ed ecco il mezzo
da me posto in opera per accertarmene.
» V'era alla Bastiglia una cappella ove celebravasi una messa ogni
giorno e tre nei giorni festivi. Il permesso d'udir la messa era uno
speciale favore che ben difficilmente venia concesso. Il signor Berryer
l'imparti a noi, siccome pure al recluso nella stanza n. 3 ch'era appunto
sotto alla nostra. Risolsi quindi di profittare dell'istante in cui questi
non fosse ancor rinchiuso per lanciarvi un'occhiata al di dentro. In
dicai al d'Alègre il mezzo di rendermi agevole quell'ispezione, po
nendo il suo astuccio entro al fazzoletto e facendolo poi cadere e roto
lare giù per le scale, poi pregando il carceriere di raccorlo.
» Lo stratagemma riuscì a meraviglia. Mentre il porta-chiavi Da
ragon correva dietro all'astuccio, io salsi alla stanza del n. 3, aprii i
catenacci, misurai l'altezza del pavimento, e riconobbi che non era
che dieci piedi e mezzo; quindi rinchiusi la porta, e scorsi che fra
il tavolato della nostra stanza e il tetto di quella che ne stava di
sotto v'era un intervallo di cinque piedi e mezzo. Cotesto intervallo
non poteva essere colmato nè dalle pietre nè dalle travi, poichè il peso
ne saria stato gravissimo; laonde io m'indussi a credere che ci fosse
un vuoto di cinque piedi.
» Amico mio! sclamai allora volgendomi a d'Alègre, siam salvi !
Noi possiamo nascondere le nostre corde e le nostre scale !
» – Corde? rispos'egli? Scale? Istromenti? Materiali? E dove sono?
Ove mai trovarli?
» – Corde, ripres'io, ne abbiamo oltre al bisogno. Cotesto mio
baule contiene più di mille piedi di corda.
» – Il vostro baule? diss'egli. non ne contiene un sol pollice.
» - E non ho io forse de' pannilini, dodici dozzine di camicie,sal
viette,berretti da notte, calze? ne farem de' filacci e fabbricheremo delle
corde.
112 LATUDE
cendo dei mastietti e delle caviglie per innestarle le une nell'altre con
due buchi per ogni cerniera e passarvi il piuolo con due cavicchie affinchè
non tentennasse. A cotesta scala non abbiam fatto che un solo braccio
ponendovi 20 piuoli di 15 pollici l'uno. Il diametro del braccio era di
sarie per forare il muro, entro alle loro fodere per impedire che facessero
romore, e ci approvigionammo con una bottiglia di cognac per rifocil
larci, perchè n'era poi giocoforza di lavorare nell'acqua fino alle spalle
per ben nove ore.
« Poichè tutte quante le precauzioni furono prese, attendemmo l'ora
della cena, che, aspettata a lungo, giunse alla perfine. Io salsi primo su
pel camino.
« Era stato colto già da parecchi giorni da un reuma al braccio
sinistro: non badai nè punto nè poco al dolore che mi recava; ma ne
provai poscia uno più acuto. Non avendo io preso alcuna di quelle
precauzioni, che sogliono usare gli spazzacamini, poco mancò ch'io non
rimanessi soffocato dalla fuligine; i miei gomiti, i miei ginocchi si
scorticarono; il sangue sgocciolava giù per le membra, ed in sifatta
guisa malconcio giunsi sulla vetta del camino. Arrivato colassù, feci
scivolare un gomitolo che avea recato meco. D'Alègre avvinse all'estre
mità la cima d'una corda, cui aveva attaccata la mia valigia. Io la
trassi verso di me, la disciolsi e la gittai sulla piattaforma della Basti
glia. Nella guisa istessa noi tirammo su per il camino la scala di legno,
le due sbarre di ferro e finalmente la scala di corda, ond' io lasciai
cadere l'uno de' capi per facilitar la salita a d'Alègre mentr'io so
steneva l'altro con un grosso caviglio da noi preparato a bella posta.
il feci passare entro alla corda e lo posi in croce sovra il tubo del ca
mino. Per tal modo il mio compagno non ebbe le membra insangui
nate come le mie. Discesi poi dalla vetta del camino, ed ivi io era in
una postura oltre ogni dire incomoda. Alla fin fine giungemmo sulla
piattaforma della Bastiglia.
« Giunti che fummo colà, disponemmo tutte quante le cose nostre
e cominciammo a fare un rotolo della nostra scala di corda, che for
mava un volume di quattro piedi di diametro e d'un piede di grossezza,
e la femmo rotolare sulla torre detta del Tesoro; che ne apparve più
opportuna; poi attaccammo l'un dei capi della scala ad un cannone fa
cendola discendere pian piano giù per la torre, quindi vi attaccammo
la nostra muffola e vi passammo la corda lunga trecentosessanta piedi.
Io mi cinsi colla corda che avevam passato nella troclea e d'Alègre
l'andava sciogliendo mentr'io discendeva. Ciò malgrado ondeggiava per
l'aria ad ogni movimento. Il brivido cho cotesta sola idea fa scorrere
per l'ossa, può dar solo a divedere ciò ch'io dovetti provare in quell'or
ribile istante. Giunsi però, senza che verun sinistro ne sopravenisse
infino al fosso. D'Alègre tosto calò la valigia e tutti gli altri oggetti.
Per buona ventura mi abbattei in un rialto che dominava l'acqua,
ond'era pieno il fosso, ed ivi li deposi. Il mio compagno fece il mede
simo; ma egli ebbe un maggiore avvantaggio perchè io mi adoprava
con tutte le mie forze a tener fermo il capo della scala, ed egli non
vacillò. Giunti che fummo al basso ne dolea l'animo di non poter re
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 117
care con noi la nostra corda insieme cogli altri oggetti coi quali c'era
vamo procacciato lo scampo (1).
Non cadea la pioggia. Udimmo la scolta che andava su e giù ed
era lunge da noi circa quattro tese, laonde non potevamo salire sul
parapetto e fuggire attraverso al giardino del governatore. Deliberammo
adunque di porre in opera le nostre sbarre di ferro. Andammo diritti
verso il muro che separa il fosso della Bastiglia da quella della Porta
di Sant'Antonio e, senza por tempo in mezzo, ci accingemmo al lavoro.
Quivi era un picciol fosso largo circa una tesa ed avea un piede di
profondità, e ciò facea salir l'acqua. In qualsivoglia altra parte ne sa
ria salita fino all'anche; là v'eravamo immersi fino alle ascelle. Il ghiac
cio avea già da più giorni incominciato a rompersi e l'acque eran ri
piene di diacciuoli.
« Colà dentro restammo per ben nove ore. Il corpo era rifinito
dalla dura fatica, le membra assiderate. L'opera era incominciata, al
lorchè io vidi all'altezza di circa 12 piedi sopra il nostro capo avan
zarsi la gran scolta, la cui lanterna rischiarava il sito dove noi eravamo.
« Non ne rimanea più verun mezzo per non essere scoverti fuor
quello di fare un tonfo nell'acqua, e ne fu giocoforza rifarlo poi ogni qual
volta ricevevamo cotesta visita, lo che avveniva ad ogni mezz'ora. Dopo
nove ore di fatica e di spavento, dopo d'aver schiantate le pietre una ad
una, alla perfine eravam giunti a fare un buco largo abbastanza da
potervi passare, e questo in una muraglia grossa 4 piedi e mezzo; ed
entrambi ci trascinammo fuor di là.
» Le nostr'anime cominciavano ad abbandonarsi alla gioja, ma
corremmo in quella un rischio impreveduto e poco mancò che non vi
soccombessimo. Noi stavamo già per valicare il fosso di Sant'Antonio
e raggiungere la strada di Bercy. Avevamo percorso appena venticin
que passi, allorquando cademmo nell'acquedotto che stassi in mezzo e
avea dieci piè d'acqua al di sopra del nostro capo e due piè di melma:
non potevamo recarci sulla sponda dell'altro acquedotto, ch'è largo
soltanto sei piedi.
« D'Alègre si gittò tutto quanto addosso a me e mancò poco che
non mi facesse cadere. Se ciò fosse avvenuto, noi saremmo stati irremis
sibilmente perduti; poichè, non rimanendone più forze per rialzarci,
eravam dannati a perire entro a quella palude. Sentendomi afferrare,
io gli diedi un pugno violento così che lo costrinsi a lasciarmi, e nel
tempo istesso usciva fuori dell'acquedotto. Tuffai allora il mio braccio
nell'acqua, ghermi d'Alègre per la chioma e lo trassi verso di me,
quindi uscimmo dal fosso e, mentre scoccavano cinque ore, eravamo
già sulla strada maestra.
(1) Cotesti oggetti furono rinvenuti nel dì 15 di luglio, l'indomani della presa della Ba
stiglia. Le scale erano negli archivi insiem con un processo verbale che avea la data del
27 febbraio 1756 ed era firmato dal maggiore della Bastiglia e dal commissario Rochebrune
118 LATUDE
--
XXIII
C AS A N O V A
(1756)
è, agli occhi dei giudici, una macchina inutife, e la cui presenza non
è per nulla necessaria.
« Passai la notte dell'ultimo giorno di settembre senza poter chiuder
occhio: ardeva d'impazienza di veder arrivare il giorno seguente, per
suaso che, spirando in esso i poteri degli uomini spietati che mi ave
vano gettato nel carcere, doveva pure uscirne quel giorno stesso. Arrivò
alla fine: venne Lorenzo, come per solito, a portarmi la mia ra
zione, ma senza annunziarmi nulla di nuovo. Passai cinque o sei giorni
nella più violenta disperazione, e cominciai a credere che, per motivi
che mi era impossibile di spiegare, mi avevano condannato ad una
prigionia perpetua. Quest'orribile pensiero mi faceva però sorridere:
sapeva bene che non tarderei a fare dei tentativi, a rischiar tutto, la
vita stessa, per ricuperare la mia libertà. Se mi avessero ucciso, avrei
egualmente raggiunto il mio scopo; non sarei più stato prigioniero.
» Deliberata morte ferocior. Risolvetti verso il principio di novembre
di usar la violenza per uscire da un luogo ove per violenza era rite
nuto. Questo pensiero fu d'allora il solo che mi occupasse. Incominciai
a riflettere ai modi propri a compire un'impresa tentata già senza
dubbio anche prima di me, ma in cui nessuno era riuscito. Per ben
comprendere quali potevano essere i mezzi di fuggire da una prigione
come a mia, bisogna prima fare un'esatta descrizione dei luoghi.
» Le segrete destinate ai prigionieri di Stato sono poste sotto il
tetto del palazzo ducale, tetto che non è formato nè di ardesia nè di
tegole, ma di lamine di piombo di due piedi quadrati con una linea
di grossezza; quindi proviene il nome di Piombi che si dà a quelle
prigioni. Non si arriva che per la porta del palazzo, ovvero per le lun
ghe gallerie, che mi aveano fatto traversare; e salendo si passa vicino
alla sala del consiglio degl'Inquisitori. Il secretario solo ne ha le chiavi;
e il capocustode debbe consegnargliele ogni mattina dopo aver fatto il
suo giro delle prigioni. Sono state prese queste disposizioni, perchè il
Consiglio dei dieci si raccoglie più tardi in un locale vicino chiamato
Bussola, per impedire ai carcerieri di passare e di ripassare nel
luogo dove si recano le persone che hanno qualche cosa da fare con
quei magistrati.
» Le prigioni occupano i due lati opposti dell'edifizio: – tre di esse
e la mia era di questo numero – sono alll'ovest, e quattro all'est. Da
quel lato la grondaia corre lungo la corte interna, mentre dall'altro
segue il canale chiamato rio di palazzo: le carceri sono chiare da questa
parte, e vi si può star ritto. Non è così dalla parte dov'era io; queste
prigioni si chiamano trave, per cagione appunto della trave che copre
le finestre. ll pavimento della mia prigione doveva essere il soffitto
della sala degl'inquisitori; i quali si riuniscouo ordinariamente la sera,
dopo la seduta del Consiglio dei dieci, di cui formano parte.
palbi scende per un buco nel soffitto enti o il carcere di Casanova: stupore di Sorodac
che aspettava di veder scendere un angelo. PA G. l56.
ma che tutti volevano indovinarlo. Chi diceva che io aveva voluto fon
dare una nuova religione, chi credea che la signora Memmo m'avesse
accusato al Tribunale, dicendo che io corrompeva i suoi figli e li fa
ceva diventar atei. Altri pretendevano che Condulmer, inquisitore di
Stato, mi avesse fatto arrestare come perturbatore della pubblica tran
quillità, per aver fischiato una commedia del Chiari. Finalmente circola
vano altre differenti voci, ma tutte esagerate.
» La sera tirai fuori dal buco la mia lampada e non potei fare a
meno di ridere trovando il tovagliuolo tutto inzuppato d'olio. Quando
degli accidenti che minacciavano di avere tragiche conseguenze, fini
scono senza produr nulla d'importante, si ha il diritto di scherzarvi
sopra. Rimisi tutto in ordine e riaccesi la mia lampada, la cui storia
fece molto rider l'abate. Non dormimmo tutta la notte a cagione degli
insetti che non cessavano di tormentarci e anche perchè avevamo mille
cose da dirci. Il conte mi raccontò la storia della sua carcerazione.
Era stato veduto al teatro di Padova a parlare col ministro austriaco.
ra però cosa di nessuna importanza, onde la sua detenzione poteva
durare solamente pochi giorni, come infatti avvenne.
» La mattina dopo l'abate mi domandò perchè io non volessi far
spazzare la stanza: gli confidai il mio secreto. Fu molto stupito, poi
si sentì confuso di avermi in qualche modo obbligato a fargli questa
confessione e mi esortò a perseverare. Mi consigliò di terminare il la
voro l'indomani, affinchè egli potesse aiutarmi a scendere per l'aper
tura e ritirare in seguito la corda, dichiarando che poco gl'importava
che l'aiuto ch'egli voleva prestarmi, aggravasse poi la sua pena. Io gli
spiegai allora come i due capi della corda, passando per un anello che
c'era sul legno del mio letto, mi sarebbe facile il portarla via, perchè
era importante che Lorenzo non la scorgesse nella sala, traversandola
per andare alle prigioni: si sarebbe messo subito a cercarmi e m'a
vrebbe preso di nuovo. -
la mia impresa. Turai le due aperture con del pane, affinchè non si
vedesse il chiaro della lampada e qualche pezzo di legno non passasse
attraverso, lo che mi avrebbe fatto scoprire da quelli che traversavano
la sala del Consiglio.
» Per eseguire la mia evasione scelsi la notte che precede la festa
di Sant'Agostino. Quel giorno si radunava il Gran Consiglio, per con
seguenza la Bussola doveva restar vuota. Era situata allato alla stanza
per cui doveva fuggire.
» Ma il 25 agosto, nel pomeriggio, avvenne cosa la cui memoria
mi fa ancora rizzare i capelli. A un tratto si fa sentire lo strepito dei
catenacci. Mi prende uno spavento mortale; i battiti precipitati del mio
cuore mi scuotono tutto il corpo e cado quasi svenuto sulla mia sedia.
Lorenzo ancora nel corridoio mi dice con allegro piglio traverso la gri
glia: –vi porto una buona notizia. – Imaginai che volesse dirmi che
io doveva esser messo in libertà: era quello il mio unico pensiero. Mi
credetti perduto al momento di giungere in porto. Infatti, se si scopriva
il buco nel pavimento, potevo esser sicuro che tutto sarebbe messo in
questione.
» Lorenzo entra e mi dice di seguirlo. Voglio prima vestirmi; esso
mi risponde ch'è inutile, poichè mi è venuto a prendere solo per tra
sferirmi da quell'orribile secreta in una gran prigione nuova, che ri
ceveva il lume da due finestre, per cui vedrei la metà di Venezia, e
vnella quale potrei star diritto. Era fuori di me, sveniva.,domandai del
'aceto; gli dissi di ringraziare il secretario per la sua bontà e lo pre
gai in nome del cielo di lasciarmi dov'era. Lorenzo a quelle parole
proruppe in uno scoppio di risa, dicendomi: – siete diventato pazzo?
si vuol trarvi dall'inferno per mettervi in paradiso, e voi vi opponetel.
Andiamo, andiamo: bisogna obbedire. Alzatevi!. Vi darò il braccio e
farò portare le vostre robe e i vostri libri.
» Confuso da questo accidente e vedendo bene che non mi restava
piu nulla da dire, lasciai la mia camera tutto racconsolato nel sentir
Lorenzo raccomandare ad uno dei secondini di seguirci colla mia sedia
a bracciuoli. c'era dentro il mio stilo!... Tenni dietro a Lorenzo, ma
serbai sempre il ricordo della mia antica prigione.
» Appoggiato alla spalla del carceriere che procurava di rallegrarmi
coi suoi scherzi, traversai due lunghi corridoi; poscia, dopo di avere
salito tre scale, arrivai in una gran sala, all'estremità della quale, sulla
sinistra, era una porta che conduceva in un corridoio di dodici piedi
di lunghezza e due di larghezza. Per le due finestre ferrate che illu
minavano il corridoio, si scorgeva la più gran parte della città; ma
nella dolorosa situazione in cui mi trovava, io non era disposto a go
dere di una bella vista.
» La porta della prigione si trovava in un angolo del corridoio, e
l'apertura ch'era fatta nella porta medesima era appunto in faccia ad
138 CASANOVA
guasta e del pane duro come una pietra. Non si spazzò la mia prigione;
e quando pregai che si aprisse la finestra, non ebbi nemmeno risposta.
Uno dei secondini esaminò con una sbarra di ferro tutti i muri del
mio carcere, come pure il pavimento, sopratutto vicino al letto.
Vedevo con compiacenza che non si batteva il soffitto, perchè io pen
sava già a fuggirmene per il tetto. Ma, per eseguire questo progetto,
era necessario di aver con altri degli accordi che mi pareva impossibile
di poter formare. La mia stanza essendo stata restaurata di fresco,
tutto ciò che io vi facessi per avventura sarebbe continuamente esposto
agli occhi vigili de' miei custodi.
» Passai una giornata terribile. Verso mezzogiorno, il calore au
mentò a tal punto ch'io mi credetti come in una stufa: mi pareva di
soffocare. Non potei nè mangiare nè bere : tutto ciò che mi si portava,
era guasto. Il sudore che mi stillava dai pori, non mi permetteva di
leggere nè di far il più piccolo movimento. Il giorno dopo la carne e
l'acqua erano egualmente cattive e puzzolenti. Domandai a Lorenzo se
avesse ricevuto ordine di farmi morire di caldo e di puzza; si allontanò
senza rispondermi. Immollai un poco di pane nel vino di Cipro per
sostenermi e darmi abbastanza forza per piantare il mio stilo nel cuore
di quel mostro. Era deciso di commettere questo omicidio: ma quando
egli entrò il giorno dopo nella mia prigione, mi contentai di giurargli
che lo strangolerei subito che fossi messo in libertà. Rise di questa
minaccia e uscì senza dirmi nulla. Mi persuasi che la sua condotta era
la conseguenza di ordini emanati dal secretario del Tribunale, cui avea
scoperto il mio tentativo di evasione. La mia impazienza si accrebbe
colla mia disperazione e fui in procinto di perdere ogni energia.
» Otto giorni dopo, in presenza dei secondini, intimai a Lorenzo
con voce irata di rendermi i miei conti e lo trattai da boia. Promise
di portarmi l'indomani la mia nota. La finestra, che aveva aperto nel
l'arrivare, fu chiusa alla sua partenza ed egli rise de' miei gemiti. Come
il poco, che avea ottenuto da lui, non l'avea ottenuto che con cattive
maniere, risolvetti di continuare a servirmi di questo mezzo.
» Ma il mio furore si dileguò il giorno dopo. Lorenzo, prima di darmi
la sua nota, mi presentò una cesta di limoni che Bragadin mi aveva
mandato, una bottiglia d'acqua buona e un pollo. Uno dei secondini
aperse la finestra. Non esaminai nella mia nota ciò che restava di dif
ferenza e lo destinai alla moglie di Lorenzo, a eccezione di uno zecchino
che divisi tra i due secondini. Quando fummo soli, mi rivolse la pa
rola con molta calma e in questi termini :
«-Voi mi avete detto che sono stato io che vi ho fornito gli ar
nesi con cui siete riuscito a far quella grande apertura nel pavimento
della vostra prigione. Non ho dunque bisogno di parlarvene. Ma chi
vi ha dato il lume?... »
» - Voi stesso... Non mi avete dato dell'olio, dello zolfo e della
pietra focaia? Quanto al resto, l'avevo già ».
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 11
evasione. Tuttavia io non potea far alcun uso di quel prezioso arnese,
perchè ogni giorno si visitavano tutti gli angoli della mia prigione,
battendo i muri con una stanga di ferro, tranne il soffitto solo, Dumque
non poteva sperare di fuggire per il soffitto, se qualcheduno non vi
avesse fatto un'apertura al di fuori. Questi potrebbe allora salvarsi
meco per un altro foro, che si potrebbe fare la stessa notte sul tetto
del Palazzo Ducale. Ma mi era necessario un compagno per arrivare
sul tetto e veder insieme ciò che ci resterebbe da fare. Bisognava
dunque sceglierlo; e io non trovai più acconcio a favorire i miei di
segni che il Balbi, giovane monaco di ventisett'anni e fornito di cosi
poco giudizio. Risolvetti in conseguenza di comunicargli ogni cosa e di
fargli consegnare la mia preziosa sbarra di ferro.
» Gli domandai dunque, in una lettera, se desiderava sul serio di
ricuperare la libertà, e s'era pronto ad intraprendere tutto ciò che esi
geva da lui per procurargli i mezzi di fuggir meco.
» Rispose ch'egli ed il suo camerata erano pronti a tutto, ma che
era inutile di sforzarsi per una cosa impossibile. Questo tema gli diede
occasione di dettare quattro lunghissime pagine sugli ostacoli, sulle
difficoltà d'ogni genere, che dovevamo aspettarci d'incontrare.
» Gli scrissi che mi dava poco pensiero di considerazioni generali,
che il mio piano era stabilito, purch'egli impegnasse la sua parola d'o
nore di seguire appuntino le mie istruzioni: me lo promise.
» Allora gli parlai del mio stilo, che aveva l'intenzione di fargli
consegnare, perchè gli servisse per iscavare il pavimento della sua
prigione e per forare il muro, affine di cavarmi poi fuori per l'aper
tura.Aggiunsi che io m'incaricava di tutto il resto, e che avrei liberato
lui e il conte.
» Mi rispose che cavandomi fuori dal mio carcere verso di lui, io
sarei sempre prigioniero come prima, e che non avrei fatto che cam
biar di prigione. Ma io replicai che questo sapeva benissimo, e che il
mio disegno non era di fuggire per una porta. Gli ripetei che atten
deva da lui l'esatta esecuzione delle mie istruzioni e non delle obbie
zioni. Lo consigliai nel medesimo tempo di far comprare una cinquan
tina circa d'incisioni e di farne tappezzare i muri della sua prigione.
Aggiungevo che Lorenzo non avrebbe concepito alcun sospetto e che
gli servirebbero a nascondere il foro per cui saremmo fuggiti; perchè
a venire a capo di quel lavoro, basterebbero pochi giorni, e Lorenzo
non potrebbe accorgersi di nulla. Gli spiegai che m'era impossibile di
incaricare Lorenzo di comprar quelle imagini: io gli era divenuto so
spetto e mi riusciva malagevole il fargli credere che avessi della ve
nerazione per quei santi.
» Restava di trovar il modo di far che la mia sbarra di ferro ve
nisse consegnata a Balbi. Ecco nuovo tranello che inventai per questo.
Trenck stesso nelle sue Memorie così descrive i ferri di cui era carico:
« Collare di ferro da cui pendevano tutte le mie catene. Conveniva che lo sostenessi notte
e giorno con una mano, senza di che si sarebbe infranta la nuca per l'orribile peso.
» Due anelli al disopra dei gomiti uniti da una catena di dietro alle spalle, la quale an
dava pure a congiungersi al collare.
|||||||
||
–
|||||
» Largo cerchio di ferro che mi girava intorno al corpo sulla nuda pelle.
» Marette attaccate alle due estremità di una spranga di ferro della lunghezza di due
piedi e d'un pollice di diametro.
» Anello di ferro conficcato nel muro, al quale io era incatenato.
» Tre grosse catene che si riunivano ad un grande anello ond'era avvinto il mio piede
diritto.
» Sotto i miei piedi era scavata la mia tomba, coperta da una pietra con un teschio di
mort e sopra scritto il nome di Trenck. Doveva, dopo la morte, chiudere la mia spoglia.»
16 CASANOVA
Non avevo più alcun ostacolo da temere. Lorenzo mi aveva parlato della
partenza degl'Inquisitori e del secretario: non dovevo temere che si
conducesse nel mio carcere un nuovo prigioniero, e non avea più biso
gno di fingere con quell' infame di Sorodaci.
» Io debbo giustificarmi agli occhi dei lettori, che potrebbero per
avventura biasimarmi di essermi servito della religione per ingannare
un uomo tristo e imbecille. Io non poteva tacere alcuna circostanza
della mia evasione; non mi vanto di quel che ho fatto, ma non ne provo
alcun rimorso. Se si trattasse ancora di ricuperare la mia libertà,agirei
come ho fatto allora.
» La natura mi comandava di fuggire e la religione non me lo
proibiva: io non aveva tempo da perdere. Mi trovava con un mostro,
che il suo codice di morale autorizzava a tradirmi e a scoprir tutto a
Lorenzo. Bisognava o spaventare quello scellerato o strangolarlo, come
avrebbe fatto in luogo mio un più crudele di me. Avrei potuto facil
mente far questo e dir poi che Sorodaci era morto di morte naturale:
certo non si sarebbe fatto alcuna ricerca per verificarlo. Feci quello
che mi sembrava essere mio dovere. S'egli mi avesse seguito nella mia
fuga, confesso che al primo momento di pericolo, mi sarei sbarazzato
di quel miserabile, anche se avessi dovuto appiccarlo ad un albero.
Quando io gli giurava di assisterlo sempre, io sapeva benissimo che
la sua fedeltà durerebbe solamente quanto la sua esaltazione fanatica,
e che sarebbe sparita all'arrivo del monaco che io gli aveva annunziato
come un angelo: Non merta fe' chi non la serba altrui.
» Quando Lorenzo fu partito, dissi a Sorodaci che alle diecisette
precise l'angelo romperebbe il soffitto della nostra prigione e che por
terebbe un paio di forbici con cui egli dovrebbe farci la barba a tutti e
due. – Questo angelo ha dunque anche della barba. - Lo vedrete. Usci
remo per l'apertura fatta nel soffitto, dopo monteremo sul tetto del pa
lazzo, scenderemo in piazza di San Marco, e quindi ce n'andremo in Ger
mania ». Colui non rispose nulla e mangiò solo tutto il pranzo, perchè
io aveva l'animo troppo preoccupato per poter mangiare. Non potei
nemmeno addormentarmi. Finalmente suonano le diecisette, e compa
risce l'angelo. Sorodaci vuole inginocchiarsi, mettersi a pregare, ma gli
dichiaro ch'è cosa superflua. Nel medesimo istante il soffitto si sfonda;
io monto sulla mia sedia, stendo le braccia a Balbi. che scende. –Voi
avete compito la parte vostra, gli dico: tocca adesso a me di far la mia.
– Mi consegnò lo stilo e le forbici: detti queste a Sorodaci, ordinan
dogli di farci la barba a tutti e due. Io durava fatica a tener le risa
nel vedere con qual sorpresa quell'animale considerava Balbi, che aveva
l'aspetto piuttosto di un demonio che di un angelo. Ci fece benissimo
la barba a tutti due colle forbici.
» Impaziente di riconoscere la località, ordinai al monaco di restar
abbasso, perchè non volevo lasciar Sorodaci solo. Penetrai dunque, non
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 137
senza provare qualche difficoltà, nel carcere del conte Asquini, che ab
bracciai strettamente. Trovai in lui un uomo la cui costituzione fisica
non favoriva un'opera come la nostra; e quando gli comunicai il mio
piano di evasione, mi fece osservare ch'egli non aveva ali per lasciare
i tetti di piombo del palazzo. In secondo luogo mi confessò che non
aveva abbastanza coraggio da seguirci, che preferiva restar in prigione
e pregar Dio per il successo del nostro tentativo. Mi avvicinai allora
al tetto per esaminare col mio stilo le assi che erano coperte dalle la
mine di piombo. La maggior parte cedevano ad un solo colpo; e in
meno di un'ora riuscii a fare un'apertura abbastanza grande. Tornai
quindi nel mio carcere, lacerai le mie lenzuola, i tovagliuoli e le co
perte per farne una corda. Ne feci io stesso i nodi, perchè un solo nodo
difettoso poteva cagionare la caduta di quello che vi si sospenderebbe.
Ebbi in questa maniera cento braccia di corda. Poscia riuni in un
fardello il mio vesttio, il mio mantello di seta e un poco di bianche
ria. Andammo tutti e tre nella prigione del conte: quegli si rallegrò
con Sorodaci d'essere stato incarcerato meco e di poter cosi scappare.
Sorodaci vedeva bene ch'era stato burlato, ma non capiva come avessi
potuto mettermi in relazione coll'angelo, ch'era venuto a liberarmi. Le
parole del conte, il quale ci fece osservare che ci esponevamo a grandi
pericoli, gl'ispirarono dell'inquietudine; e, vile com'era, si decise a ri
nunciare a quel viaggio pericoloso. Dissi a Balbi di fare il suo fardello
intanto che io finirei il mio lavoro sul tetto. Fu terminato a due ore
di notte. Coll'aiuto di Balbi e del mio stilo riesci a staccare una la
mina in modo da poterla poi sollevare colle spalle. Guardando il cielo,
vidi con dispiacere che c'era chiaro di luna; il giorno dopo faceva il
primo quarto. Bisognava sopportare pazientemente questo impedimento
e aspettar mezzanotte, ora in cui la luna sarebbe tramontata, perchè
in una notte come questa, in cui tutto il bel mondo si raccoglie in
piazza di San Marco, importava molto ch'io non fossi veduto sui tetti.
La mia ombra avrebbe potuto stendersi sino in piazza, e allora tutti si
sarebbero messi a guardar da quella parte; questo spettacolo straordi
nario avrebbe attirato l'attenzione generale e particolarmente quella
del Messer grande e dei suoi sbirri, i soli che, durante la notte, ve
glino al riposo della gran città di Venezia. Decisi dunque che ci met
teremmo in cammino dopo il tramonto della luna. Mi posi ad invocare
l'assistenza di Dio, ma senza pregarlo di fare un miracolo in mio favore.
La luna doveva tramontare alle cinque, il sole alzarsi alle tredici: ave
vamo otto ore di una completa oscurità.
« Dissi a Balbi che passeremo quelle tre ore a discorrere col conte
Asquini, e lo consigliai di pregare il suo antico compagno di sventura
di prestarci una trentina di zecchini, che ci sarebbero non meno utili
del mio stilo per i bisogni avvenire. S'incaricò della commissione, e
Venne a dirmi alcuni minuti dopo che il conte volea parlarmi a quat
158 CASANOVA
Dissi a Balbi che si raccomandasse l'anima a Dio, perchè avevo intenzione di seppel
lirlo vivo. Pag. I70.
trascinandomi carpone e detti un gran colpo alla griglia col mio stilo,
coll'intenzione di levarla via tutta, e in capo a un quarto d'ora riu
scii a cavarne quattro sbarre. Staccai presto i vetri, senza far attenzione
alle ferite di cui erano coperte le mie mani.
» Risalii coll'aiuto del mio stilo sul colmo del tetto e tornai al
luogo dove era rimasto il mio camerata, che trovai furioso e dispe
rato. Mi malediva di averlo lasciato solo per due ore e si disponeva a
tornare alla sua prigione, persuaso che io fossi precipitato abbasso. Mi
domandò che cosa volessi fare. Le saprete presto, gli risposi, e nel
medesimo tempo presi i miei fardelli e gli dissi di seguirmi. Quando
fummo arrivati all'abbaino, gli spiegai ciò che aveva fatto e ciò che
aveva intenzione di fare. Mi domandò: come passeremo per l'abbaino?.
Per il primo, risposi, nulla di più facile, poichè il secondo terrebbe la
corda. Ma che farebbe alla sua volta il secondo? Saltando potrebbe
rompersi una gamba, perchè non sapevamo che altezza ci fosse dalla
finestra al pavimento.
» Balbi, a cui feci pacatamente queste osservazioni, mi disse che
avrei dovuto lasciarlo scender prima, e poi cercare il mezzo di rag
giungerlo. Io fui abbastanza padrone di me stesso, sentendo questa
proposizione, per moderare la mia indegnazione, camminando sempre
diritto verso il mio scopo. Gli attaccai una corda attorno al corpo, poi
lo lasciai scivolare lungo il tetto verso l'abbaino, dicendogli di appog
giarsi col gomito alla tettoia della finestra e di mettere i suoi piedi
nell'apertura. Poi mi avvicinai e mi inclinai sul dinanzi, gridandogli
di non temere, perchè io teneva fortemente la corda. Finalmente egli toccò
terra, si staccò e io ritirai la corda verso di me. Vidi che la distanza
dalla finestra al pavimento era dieci volte la lunghezza del mio brac
cio: un salto di quell'altezza era impossibile. Il monaco mi gridava di
gettargli la corda, ma io mi guardai bene di soddisfare una cosi stolta
richiesta.
» Tornai di nuovo sulla cima del tetto e scoprersi un'apertura con
due imposte, che non aveva ancora scorto. Ci trovai un secchio, della
calce, diversi utensili da muratore e una lunga scala. Quest'ultima par
ticolarmente fissò la mia attenzione: attaccata la corda attorno agli
scalini rimontai sul tetto e mi trassi dietro la scala. Era la scala ap
punto che mi faceva bisogno per scendere nella soffitta, perchè aveva
più di dodici volte la lunghezza del mio braccio.
» Ma il soccorso di Balbi mi mancò. Aveva calata la scala in modo
che coll'estremità inferiore si appoggiava alla grondaia e colla supe
riore alla finestra. La tirai di nuovo verso di me per farla entrare
nella finestra, ma non vi potei riuscire. Intanto il giorno si avvicinava
e Lorenzo poteva sorprenderci.
» Risolvetti dunque di lasciarmi scivolare fino alla grondaia per
poter dirizzar bene la mia scala. Questa grondaia, ch'era di pietra, mi
16 CASANOVA
Conte Asquini: sono diecisette lire. Voi arriverete dopo domani sera a
Borgo; io ci arriverò solamente ventiquattro ore dopo: ivi mi aspetterete
nel primo albergo a mano sinistra. Bisogna assolutamente ch'io dorma
questa notte in un buon letto, e il cielo me lo farà trovare. Finchè voi
sarete meco, sarò sempre inquieto. Senza dubbio siamo cercati da tutte
le parti. Siate sicuro che i nostri contrassegni sono stati mandati per
tutto con tanta esattezza, che sarebbe più che imprudente di entrare
insieme in un albergo. Vedete in che stato deplorabile mi trovo e
quanto ho bisogno di dormire almeno dieci ore di seguito. Addio dun
que: lasciatemi cercare in qualche luogo un asilo per questa notte.
» Io mi aspettava, rispose Balbi, tutto quello che mi dite. Non
vi risponderò altro che questo. Vi ricordate la promessa che mi avete
fatto, quando mi avete proposto di aiutarvi nella vostra fuga? Noi non
dovevamo separarci mai: dovevamo avere lo stesso destino. In questo
modo adempite un impegno cosi sacro? Credetemelo: col danaro ci
sarà facile di trovare per questa notte, non in un albergo, ma in altro
luogo, un asilo dove non correremo alcun pericolo.
» – Siete voi ben determinato a non seguire i consigli che vi
ho dato?
» – Si.
» – Ebbene ! ora la vedremo.
» A queste parole mi rialzo con fatica, prendo la misura della
lunghezza del corpo di Balbi e la segno sulla terra. Nello stesso tempo
cavo lo stilo di tasca e mi metto col più gran sangue freddo del mondo
a scavare una piccola fossa, senza rispondere a nessuna delle domande
che m'indirizzava il mio compagno. Quindi, in capo ad una mezz'ora
di lavoro, dico al monaco,gettando sopra di lui uno sguardo di pietà,
che da buon cristiano non poteva far di meno di consigliarlo che si
raccomandasse l'anima a Dio, perchè aveva l'intenzione di seppellirlo
vivo. Voi siete più forte di me, aggiunsi; voi potete forse farmi provar
la sorte che vi destino. Ecco dunque a che mi riduce la vostra ostina
zione. Finchè è tempo ancora, andatevene e siate sicuro che io non vi
correrò dietro.
» Balbi rimase muto a questa dichiarazione: io continuai il mio
lavoro. Già cominciava a temere che quell'imbecille non mi sforzasse
a spingere le cose all'estremo: quando, sia per paura, sia per rifles
sione, si gettò vicino a me. Non sapendo che ntenni avesse, gli
presentai la punta del mio stilo; ma io non aveva nulla da temere.
Mi dichiarò ch'era pronto a far tutto quello ch' io volessi. Allora lo
abbracciai, gli diedi tutto il mio bagaglio e gli rinnovai la promessa
di raggiungerlo in Valsugana. Non tenni neppure un soldo per me, seb
bene avessi due fiumi da passare; ma ringraziai il cielo di avermi li
berato da un tal compagno.
» Montando sopra una collina ch'era situata a poca distanza, scorsi
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 171
t1) Casanova, traversato il Tirolo, si recò a Monaco, quindi a Parigi. Fece raccomandar
Balbi a un canonico Bassi di Bologna, decano del capitolo di S. Maurizio in Augusta, il
quale lo accolse e lo trattò benissimo. Ma il Somasco fu ingrato e fuggì insieme colla
serva del canonico dopo averlo derubato. Poi caduto in miserna, per disperavo, si recò a
Brescia e si presentò al governatore. Questi lo fece mettere in prigione e poi lo mandò a
enezia ove fu di nuovo chiuso ai Piombi. Dopo una prigionia di due anni fu rimandato
al suo convento, ma fuggì e andato a Roma ottenne dal papa di depor l'abito di monaco
e restar semplice prete. Visse poveramente e morì nella miseria.
XXIV
TR E N C K
(1746-1763)
quanto dall'altra, erano quelli i primi amori. Essa mi amava con una
tenerezza senza pari, e per tutta la mia vita non potrò mai dimenti
carmi della bontà ch'ella ebbe verso di me. Il suo nome è un secreto
che debb'esser sepolto nella mia tomba. »
Il secreto di quegli amori non è però sceso con Trenck nella sua
tomba: è noto che quella gran dama era la principessa Amalia, sorella
di Federico II.
Questo amore il quale rese il barone Federico Trenck, come dice
egli stesso, il più felice uomo di Berlino, doveva poi costargli assai
caro ed essere principale cagione di tutte le sue disgrazie. Il re se ne
accorse, celò la sua ira, ma poi, quando l'inesperto giovane cadde nelle
reti di alcuni invidiosi e malvagi, lo puni crudelmente di aver osato
di amare una donna di grado tanto superiore al suo. Altri furono dinanzi
al mondo i pretesti della condanna, ma la prima cagione se ne debbe
cercare in quei secreti di famiglia.
» Sul principio del mese di Settembre 1744 scoppiò la guerra tra
l'Austria e la Prussia. Marciammo in tutta sollecitudine verso Praga,
attraversando la Sassonia, senza incontrare il minimo ostacolo. Il gene
rale Austriaco Harsch credette allora opportuno di venire a capitola
zione e si arrese dopo dodici giorni di resistenza: diecimila uomini ri
masero prigionieri di guerra.
» In questa campagna non vedemmo che da lungi il nemico; ma
le sue truppe leggere,tre volte più numerose delle nostre, c'impedivano
di foraggiare. I Panduri di Trenck c'erano sempre alle spalle e c'in
quietavano non poco, benchè non si avanzassero mai sino alla portata
del cannone. Tutta la nostra cavalleria aveva molto sofferto per man
canza di foraggi. Fummo obbligati ad abbandonar Praga con una
perdita considerevole: Trenck s'impadroni del Tabor, di Budweis e di
Frauenberg. »
La bella condotta di Federico Trenck durante la campagna, in cui
servì come aiutante del re, pareva aver placato l'animo di questo verso
il prode giovane, e infatti gli disse una volta: attenetevi ai miei con
sigli e statevi per sicuro che voglio far di voi un grande uomo.
» Arrivai verso la metà di dicembre a Berlino, ove fui ricevuto
dalla mia amica a braccia aperte. Io era meno prudente che nei miei primi
anni e forse più tenuto di vista. Un tenente della Guardia a piedi
avendo voluto scherzar meco intorno ai miei amori, venne da me sfi
dato a duello e ferito nel volto. Nella vegnente domenica, allorchè
dopo la parata mi presentai al re per fargli la mia corte, e' mi disse:
signore, il tuono va romoreggiando, e potrebbe piombarvi sul capo il
fulmine: guardatevi bene. »
Ecco come scoppiò il turbine sul capo dell'infelice.
» Mia madre in quell'inverno (1744) ricevette una lettera del mio
Fughe ed evasioni celebri. Disp. ll
FUGHE ED EVAS1ONI CELEIBRI 177
-
178 TRENCK
lora tutta la compagnia mi fece osservare esser cosa mal fatta il non
risponder nulla ad una lettera tanto obbligante, e che il meno che far
potessi, si era di ringraziarlo della sua buona disposizione, pregandolo
a volerla conservare e a continuarmi il suo affetto.
» Il nostro comandante soggiunse allora: scrivetegli di mandarvi
dei bei cavalli d'Ungheria per il vostro equipaggio, e date pure a me
la lettera, chè gliela farò tenere per mezzo del Signor Bossart, consi
gliere di legazione dell'ambasciatore di Sassonia, a condizione però
che mi abbiate a dare uno di quei cavalli. Cosifatta corrispondenza è
è un affare di famiglia, e non di stato; e poi io prendo il tutto sopra
di me.
» Dietro al parere del mio capo tosto mi accinsi a scrivere. Con
segnai la lettera aperta a Jaschinsky; egli stesso la suggellò e la
spedi. r
zione a Glatz era divenuta più penosa; i sospetti del re eransi avva
lorati, ed egli era meco irritatissimo per la fuga da me tentata.
» Vedendomi abbandonato a me solo, tutti i miei pensieri erano
rivolti o ad una presta libertà o alla morte.
» Aveva trovato modo di conciliarmi tutta la guarnigione. Sape
vasi che non mi mancava denaro, e quindi non v'era cosa che non
potessi intraprendere in mezzo di un reggimento povero, i cui uffiziali
erano tutti malcontenti, e la maggior parte tolti da altri corpi e posti
in questo quasi per castigo. Ecco qual fu il mio primo tentativo.
» Stavami in una torre allato della città, e la mia finestra era
a quindici braccia d'altezza sopra il livello del terreno. Non poteva dun
que uscire dalla cittadella senza passare in mezzo alla città, dove sa
rebbe stato necessario che almeno da principio avessi un asilo. Un
uffiziale s'incaricò di procurarmelo, e indusse infatti un lavandaio a
ricovrarmi. Allora con un temperino, a cui aveva fatto dei denti, tagliai
tre enormi sbarre della mia finestra. Un altro ufficiale mi procurò una
buona lima, che adoperai con estrema precauzione per non essere sen
tito dalle sentinelle.
» Finito il mio lavoro, divisi in istrisce il mio portamantello, ch'era
di cuoio, e avendole legate le une in capo alle altre, vi uni le mie
lenzuola, e mi calai felicemente da quell'altezza. Il tempo era piovoso
e la notte oscurissima, circostanze favorevoli per me; ma era mestieri
attraversare la fossa piena di fango prima di giungere alle città, al
che io non avea riflettuto prima. Trovavami immerso nella melma fino
al ginocchio, e dopo essermi a lungo dibattuto e aver fatto incredibili
sforzi, mi vidi costretto a chiamare in aiuto una sentinella, e dirle
di far sapere al comandante il misero stato in cui mi trovavo.
» La mia sventura in tale circostanza era tanto più atroce, che
avevamo allora per governatore il generale Fouquet, uomo inumano,
con cui mio padre erasi battuto in duello, ed al quale il Trenck au
striaco avea preso i bagagli nel 1744, dopo aver posto a contribuzione
la contea di Glatz. Egli era quindi giurato nemico del mio nome, e ben
me ne diede una prova singolarmente in quell'occasione, lasciandomi
sino al mezzogiorno nel fango, perchè servissi di ludibrio alla solda
teSCa.
» Alla fine ne venni cavato, ma per esser di nuovo rinchiuso, e
mi fu negato perfino un poco d'acqua da lavarmi. Il mio stato era or
ribile: esausto di forze, pieno di fango avrei potuto inspirar pietà a
tutt'altri fuorchè al generale Fouquet. Soltanto all'indomani fu permesso
a due prigionieri di venir a pulirmi; ma la mia prigionia divenne ec
cessivamente rigorosa, se non che per buona sorte aveva potuto con
servare ottanta luigi, che mi servirono poi a procacciarmi dei buoni
servigi.
» Otto giorni erano appena scorsi dopo la cattiva riuscita del mio
182 TRNCK
di dire che, essendo innocente, cassato a torto dal mio rango d'ufficiale
senza essere stato dichiarato reo da un consiglio di guerra, mi ricono
sceva perciò sciolto da qualunqne riguardo; e quindi non doveva sem
brare cosa strana che mi prevalessì della legge naturale che dà il di
ritto ad ogni uomo di difendere l'oltraggiato onor suo e di ricuperare
la perduta libertà: che questo era il solo scopo propostomi nei ripetuti
tentativi da me intrapresi, dai quali non avrei cessato giammai fino a
tanto che o fossi venuto a capo de' miei disegni o vi avessi perduto
la vita.
» Si presero contro di me tutte le precauzioni, risparmiandomi
soltanto i ferri, perchè in Prussia un ufficiale non può esser incatenato
prima di esser stato consegnato per qualche misfatto nelle mani del
carnefice, e questo non era il mio caso.
» Il peggio si era di trovarmi senza danaro: aveva dispensato
tutto quello che era in mia mano, con mia soddisfazione bensi, ma senza
alcun vantaggio, quando la mia buona amica di Berlino, nella quale
mi teneva in costante corrispondenza senza che alcuno l'avesse potuto
impedire, mi scrisse in questi termini:
» Vi compiango, mio caro. Il vostro male è senza rimedio. Ecco
l'ultima mia lettera, perchè non oso più di mettermi a rischio di man
darvene altre. Salvatevi, se potete. Io sarò per voi sempre la stessa,
qualora avrò la sorte di potervi esser utile. Addio, sventurato amico.
Ah siete ben degno di tutt'altra sorte ! ».
« Questo fu un colpo di fulmine per me.
» Mi accadde allora un'avventura, di cui non si ritrovano esempiº
negli antichi romanzi di cavalleria.
» Un certo tenente de Bach di nazione danese montava la guardia
ogni quattro giorni, ed era il terrore della guarnigione, attesochè, es
sendo valentissimo nel maneggio della spada, movea sempre delle con
tese co' suoi compagni per quindi sfidarli a duello, e ne feriva qual
cheduno quasi ogni giorno. Egli stavasi un giorno assiso sul mio letto
presso di me e mi raccontava di aver ferito in un braccio il tenente
Schell. Io gli risposi scherzando: se fossi libero e sciolto, son d'avviso
che durereste fatica a far altrettanto con me, perchè vi so dire che non
maneggio male la spada. Al momento s'accende di bile, e stacca due
lunghe schegge dell'estremità di una vecchia porta che mi serviva di
tavola; ce ne serviamo come di due fioretti, e al primo colpo gli meno
una botta dritta sul petto. Tutto turbato se n'esce senza parlare. Ma
quale stupore fu il mio, quando pochi istanti dopo lo veggo tornare con
due spade nascoste sotto i suoi abiti. Me ne presenta una e mi dice:
prova adesso ciò che sai fare, ciarlone. Io mi voglio scusare mostran
dogli il rischio cui si metteva, ma ciò non vale che a vieppiù inasprirlo.
Mi si scaglia addosso furiosamente e sono obbligato a ferirlo nel braccio
dritto. Allora getta a terra la spada: mi salta al collo, m'abbraccia strug
FUGEIE ED EVASIONI CELEBRI 185
restarci; che gli avevano offerto prima cinquanta e poi cento zecchini,
perchè permettesse loro di prenderci nel suo albergo e condurci legati
in Slesia, ch'egli aveva negato costantemente di aderire a tale pro
posizione, sebbene gli fosse stata promessa una ricompensa ancora mag
giore, e che finalmente gli avevano dato sei zecchini per farlo tacere.
» Sentito l'infame tradimento, io voleva nel primo impeto entrare
subito con una pistola in mano nella stanza de'miei nemici, ma Schell e
Lazzaro mi trattennero. Quest'ultimo mi fece inoltre le più vive istanze
di restare nel suo albergo finchè fosse arrivato il denaro di mia madre,
per poter continuare il viaggio con minor pericolo e maggiore comodità.
Ma tutto fu inutile: voleva andar io stesso a parlar a mia madre, non
sapendo qual effetto potesse far una mia lettera. Lazzaro mi assicurò
che saremmo stati senza dubbio attaccati per viaggio. Tanto meglio,
gli risposi, potrò così mandarli all'altro mondo e punirli quali assas
sini di strada.
» Quei signori partirono di buon mattino e presero la strada di
Varsavia.
» Volevamo partire noi pure, ma Lazzaro ci trattenne due giorni
quasi per forza, e ci diede i sei zecchini che aveva ricevuto dai Prus
siani. Con questa somma ci comprammo una camicia per uno, un altro
paio di pistole da tasca ed altre cose necessarie. Lasciammo il nostro
albergatore, dopo averlo teneramente abbracciato e fattogli sinceri rin
graziamenti per l'importante servigio che ci avea renduto.
» Lazzaro ci aveva avvertiti che i nostri nemici avevano un solo
fucile nel loro legno. Aveva un fucile anch'io, una buona sciabola, e
ciascuno di noi un paio di pistole.
» Il nove febbraio prendemmo la strada di Parsemechi. Avevamo
appena fatto una lega che scoprimmo sulla strada un legno. Ci avan
zammo e lo riconoscemmo per quello dei nostri nemici: pareva es
sersi fermato per le nevi, ed essi vi stavano all'intorno. Appena ci vi
dero accostare, si diedero a gridare: soccorso. Questa era l'insidia che
senza dubbio avevano disegnato di tenderci. Schell non era molto forte:
si sarebbero lanciati tutti addosso a me, e ci avrebbero rapiti facil
mente, perchè volevano averci vivi.
» Noi lasciammo adunque la riva e, scostandoci una trentina di
passi, rispondemmo che non avevamo tempo d'aiutarli. A queste pa
role saltarono tutti al loro legno, ne trassero delle pistole e si misero
a correre dietro di noi gridando: alto alto, fermatevi, canaglia. Noi ci
eravamo dati alla fuga; ma rivolgendomi tosto improvvisamente sca
ricai il mio fucile sopra quello che mi era più vicino e lo distesi morto
in terra.
» Schell fa fuoco colle sue pistole; i nostri persecutori fanno il
medesimo ed in questa scarica Schell riceve una palla nella testa. Mi
avanzo io, presento loro le mie pistole; uno di essi fugge, ed io tra-
192 TRENCK
appena imboccato la strada che conduce alla piazza degli Ebrei, quando
li sentii affrettare il passo e rivolgendomi ricevei nell'atto stesso una
stoccata al fianco sinistro nella parte ove mi facevano corazza le scrit
a cangiar parere, mi disse per ultimo: fate come volete. Io non voglio
saper nulla, e non ho altra risposta da darvi.
- Andai subito al mio squadrone, scelsi sei uomini, e li condussi
di nottetempo dirimpetto all'osteria prussiana, ove li feci nascondere
in un campo, con ordine di accorrere in mio aiuto coi fucili carichi, al
primo colpo che sentirebbero tirare, e di fermare quanti potrebbero co .
gliere, senza però far fuoco.
» Malgrado tutte queste precauzioni, stimai bene, per evitare una
sorpresa, d'informarmi di quanto facevano i miei nemici. Alle quattro
della mattina seppi dalle spie che avea messo in campagna, che i
residente prussiano Reimer era già uscito dalla città con cavalli di
posta.
» Io aveva cariche le mie pistole d'arcione e quelle del mio dome
stico, ne avea messo delle altre in saccoccia e presa meco la mia scia
bota turca. Alle sei della mattina entrò tutto ilare nella mia stanza il
tenente, esaltò la bellezza della giornata e mi promise scherzando una
graziosissima accoglienza presso la bella ostessa di Langfuhr. Io fui
subito pronto, montammo a cavallo ed uscimmo dalla città accompa
gnati dai nostri domestici. i
» Quando fummo vicini all'osteria, ov'era aspettato, l'amico m
propose di far quattro passi a piedi, facendo condurre i cavalli dalla
nostra gente. Aderi e smontando vidi gli occhi del traditore che bril
lavano di tripudio.
» ll residente Reimer era alla finestra dell'osteria. Appena mi vide,
gridò: buon giorno, signor capitano: entrate, entrate, chè la colazione
vi aspetta. Io sorrisi con ària sardonica e risposi che non aveva tempo;
ma il mio compagno, che assolutamente voleva obbligarmi ad entrarvi,
mi prese per un braccio e volle farmi una tal quale violenza. Allora
perdetti la pazienza, e dandogli un potentissimo schiaffo, corsi al mio
cavallo, come per volermi fuggire. Sul momento i Prussiani balzarono
fuori dall'osteria e mi corsero addosso con alte grida. Io sparai al
primo di loro, che mi corse addietro, e comparvero i miei Russi, diri
gendo la mira dello schioppo contro di loro. Si può pensare qual ter
rore assali i poveri Prussiani a tale sorpresa: tutti presero la fuga.
Io mi assicurai sul principio del tenente, e saltai nelia casa per fer
mare il residente; ma erasi trafugato per una porta di dietro e non
avea lasciato che una perrucca. I Russi frattanto aveano fatto quattro
prigionieri.
Ordinai che in pubblica strada si dessero ad ognuno cinquanta
bastonate. Snudai poscia la spada e rivoltomi al tenente gl'intimai di
difendersi, ma egli era così stordito che, dopo aver tratto la spada per
formalità, mi domandò perdono addossando tutta la causa al residente,
e non ebbe neppur forza di mettersi in guardia. Due volte feci saltar
in aria la sua spada, e vedendo che non ne potevo cavare alcuna sod
,96 TRENCK
una sola volta la metà del nutrimento che sarebbe stato necessario a
sostenerlo. Si crede generalmente che si possa avvezzarsi a mangiar
pochissimo: io però ne ho sperimento l'impossibilità. La mia fame an
dava sempre crescendo, e la costanza colla quale per undici mesi ho
tollerato cotesto martirio è a mio credere la maggior prova di corag
gio che io m'abbia dato in vita mia.
» A nulla servivano le suppliche e le rappresentanze; mi si ri
spondeva: è ordine del re; egli proibisce di darvi di più. Il generale
Borck, uomo duro e crudele giunse persino a dirmi un giorno, in cui
io lo supplicava di accrescere alcun poco la mia porzione: - Abba
stanza ti sei rangugiato i pasticci nel servizio d'argento che Trenck ha
rubato al re a... battaglia di Sorau. Ora mangia il nostro pane di mu
nizione nella tua maledetta tana. La tua imperatrice non ha mandato
danaro per mantenerti, e tu non meriti nè il pane che mangi nè le
spese che qui si fanno per te.
» Chiuse le tre porte, come dissi, ero abbandonato a me stesso:
ogni ventiquattro ore mi si portava verso il mezzodi pane ed acqua.
Le chiavi della porta erano depositate presso il comandante. Quella che
guardava nel carcere, aveva un piccolo pertugio, per il quale mi si
porgeva il cibo. Solamente al mercoledi si apriva la mia prigione, ed
allora vi entrava il comandante accompagnato da un maggiore per
farvi la visita, venendovi prima un prigioniero a ripulirla.
» Avendo osservato questo metodo per lo spazio di mesi, ed essen
domi assicurato che niuno veniva in altri tempi, intrapresi un'opera
alla quale aveva pensato più volte.
» Dalla parte dello scalino della porta, eravi un angolo nel pavi
mento di mattoni, che si stendeva sino alla muraglia, la quale divideva
il mio carcere dalla casamatta contigua ove non istava veruno. Siccome
davanti alla mia finestra montava una sentinella, trovai ben presto due
galantuomini i quali, malgrado ogni proibizione, s'indussero a par
larmi, e m'istruirono dei contorni e delle attinenze del mio tristo sog
giorno. Mi capacitai che sarebbe facile il fuggire, se avessi potuto pe
netrare nella casamatta, la cui porta non era chiusa, non restandomi
allora che l'Elba a guadare per giungere alle frontiere della Sassonia
lontano non più d'un miglio.
» Su tali scoperte io regolai il mio piano. Cominciai dunque a
distaccare i ferri che tenevano lo scalino della porta: avevano essi
quasi diciotto pollici di lunghezza, ed erano fermati con tre chiodi che
levai, conservandone la testa per rimetterli al loro luogo al momento
della visita.
» Poscia sollevai i mattoni del pavimento, e trovai la terra al di
sotto. Allora mi determinai a fare un buco, nel muro, che aveva
sette piedi di massiccio. Il primo rivestimento era di mattoni, a que
ati succedevano due grosse pietre vive. Contai il numero dei mattoni
FUGIE ED EVASIOI CELEBR1 20
che avea levato, tanto dal pavimento quanto dalla muraglia, per po
terli rimettere senza alterazione; e quando fui sicuro di riuscirvi, con
tinuai il mio lavoro.
» Il giorno precedente a quello della visita,tutto si trovò rimesso,
Avevo però già demolito tanto muro per un piede d'altezza; ma aveva
ancora avuto la diligenza di rimettere i mattoni al loro luogo e di co
rire le commessure con polvere di calce. Per ciò raschiava i muri
della mia carcere, che forse erano stati imbiancati cento volte. Avevo
fatto un pennello coi miei capelli, di cui mi servi per riattare la parte
SinnOSS3.
una tigre inferocita non mai s'avventò con tanto ardore sulla sua preda,
con quanto io mi gettai sopra il mio pane. Mangiava, divorava, mi
fermava tal volta un momento per meglio godere, ma ripigliava ben
presto con maggior avidità; trovava raddolcita la mia sorte; versava
lagrime di contentezza, mordeva un boccone dopo l'altro, e prima di
sera il mio pane era divorato.
» Oh natura, quale ineffabile diletto hai unito allo sfogo de' tuoi
bisogni, e quanto sarebbe felice un ricco, se aspettasse a mettersi a
tavola dopo ventiquattro o quarant'otto ore di digiuno !
» Ma il mio piacere durò poco, e presto ebbi a pentirmi del mio
eccesso. Lo stomaco indebolito dalla dieta, ne contrasse tale in
digestione, che mi si gonfiai tutto e votai il mio vaso d'acqua. Il gran
chio, la colica ed una sete insaziabile mi tormentarono sino all'indo
mani; e già io malediva quei che troppo mi avevan dato da mangiare,
come prima aveva maledetto quelli che me ne davano tanto poco. Se
non avessi avuto letto, la disperazione mi avrebbe sicuramente vinto
in quella notte: non era ancora avvezzo all'enorme peso de' miei ferri,
e non ancora aveva imparato, come feci in appresso, a portarli senza
grande stento. Questa dunque fu una delle notti più crudeli della vita
mia. Quelli che entrarono il giorno appresso nel mio camerotto, mi
rinvennero in uno stato orribile, ammirarono la mia voracità e mi
diedero un altro pane. Io lo ricusai, dicendo che non avrei avuto più biso
gno di pane. Non ostante me lo lasciarono, mi diedero un vaso d'acqua e
mi augurarono fortuna, giacchè secondo le apparenze non doveva sof
frire più a lungo, e chiusero le porte senza domandarmi se avessi bi
sogno d'altro soccorso.
» Passarono tre giorni prima ch'io potessi riprovarmi a mangiare,
ed in questo intervallo si affievoli anche il mio coraggio colle forze
fisiche, e mi determinai di togliermi la vita.
» Tuttavia, siccome non voleva precipitare cosa alcuna, ma pren
dere il mio partito a sangue freddo, stabili di aspettare ancora otto
giorni, dopo aver fissato irrevocabilmente il giorno 4 luglio per la mia
morte. Mi occupai in seguito a studiare se mi restasse mezzo alcuno
di fuggire, o almeno di morire sotto le baionette de'miei assalitori.
» Quando si aprirono nel giorno seguente le porte della mia pri
gione, vidi ch'erano semplicemente di legno, e mi venne in pensiero
che sarebbe forse possibile di sforzarne le serrature col coltello, che
mi era portato dalla cittadella; chè se questo progetto andava a vuoto,
ero allora in tempo di morire.
» Tentai se mi riusciva liberarmi da' miei ferri, e cavai felicemente
dalla manetta la mano dritta, ma non trovai per la sinistra la mede
sima facilità; però con un pezzo di mattone che staccai dal mio sedile,
lavorai tanto intorno la testa di un chiodo ribattuto, il quale chiudeva
la seconda manetta, che giunsi finalmente a levarlo e liberare anche
l'altra mano.
208 C
» Il cerchio che aveva intorno alla vita, non era attaccato alla
catena che con un pezzo di ferro ritorto; appoggiai i piedi alla parete
e facendo uno sforzo, l'obbligai ad aprirsi. Non restava più allora che
la catena la quale aveva ai piedi, ed anche questa finalmente ebbe
lo stesso destino, avendola ritorta per tanto tempo, che mi venne fatto
di spezzarla.
» Sgombro da'miei ferri, io mi credeva già libero; corsi alla porta
ricercai a tentone le punte dei chiodi che tenevano la serratura e
trovai che non avea da lavorar gran fatto per isforzarla. Impugnai
subito il mio coltello e feci un piccolo buco in fondo alla porta, quindi
scopersi che non aveva se non un pollice di grossezza, e che forse le
avrei potute sforzare tutte quattro in un giorno solo.
» Pieno di speranza ritornai alle mie catene per ripigliarle, ma
non v'ebbi a sudar poco. Rinvenni dopò molte ricerche l'anello che
aveva rotto,e lo nascosi. Fu mia fortuna che non avessero ancora visi
tati i miei ferri. Non li visitarono mai fino al giorno in cui volli ri
durre a termine la mia intrapresa, perchè non pareva che mi fosse in
alcun modo possibile di romperli. Ricongiunsi dunque le mie catene
con un pezzo di nastro della coda (dei miei capelli).
» Ma quando volli ricacciar la mano nella manetta che non era
aperta, provai le maggiori difficoltà per la gonfiezza cagionata dagli
sforzi fatti per liberarmene. Impiegai tutta la notte per aprire quella
manetta; ma era così bene ribattuta, che non vi riuscii. S'avvicinava
frattanto il mezzogiorno, ora della visita, e più pressante si faceva il
pericolo. Rinnovai gli sforzi, e dopo aver sofferto i più acuti dolori,
giunsi finalmente a rimetter la mano nella manetta, per lo che di
nulla si avvidero.
» Al 4 di luglio, fatta appena la visita, gittai le catene, e col mio
coltello m'accinsi a lavorare intorno alla prima porta che, avendo la
serratura in dentro, fu da me facilmente sforzata in meno di un'ora;
ma la seconda, chiusa in una direzione contraria, mi stancò a segno
che già disperava dell'esito.
» Aperta questa, vidi la luce dalla inferriata del vestibolo, e
quindi scopersi che il mio ridotto era costrutto nella fossa del primo
riparo. Vidi pure la strada che vi conduceva, la guardia cinquanta
passi discosta e l'alta palizzata che lo circondava e che bisognava sca
valcare prima di giungere al riparo. S'accrebbero allora le mie spe
ranze, e raddoppiai il lavoro per isforzare la terza porta che, chiusa
come la prima, fu da me aperta al tramontar del sole. Assali final
mente la quarta, ma sulla metà del lavoro si spezzò la lama del mio
coltello e il pezzo rotto cadde di là della porta.
• Qual divenni,gran Diol in quel terribile istante. No; alcuno non
si trovò giammai in tale stato di disperazione. Splendeva bellissima la
Fughe ed evasioni celebri, Disp. 13
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 209
dal tuo esempio ad imitarti! Sia dunque almeno immortalato ne' miei
scritti il tuo nome unito al mio infelicissimo, chè io non conobbi mai
anima più grande e più disinteressata della tua!
» Provveduto di danaro pensai ad eseguire il mio piano, ch'era di
fuggirmene per una strada sotterranea scavata sotto i fondamenti del
mio carcere.
» A tal fine mi era d'uopo cominciare col sciormi dalle mie ca
tene. Gefhard mi procurò due lime, di cui mi valsi così bene, che in
pochissimo tempo venni a termine di quest'opera. Disposi le cose in
maniera, che nelle ore della visita poteva riprendere le mie catene
senza che restasse a vedersi il minimo segno. In seguito mi accinsi a
staccare la grata di ferro ch'era nel muro della mia finestra e vi riuscii
egualmente; e siccome non si visitava mai questa parte della mia pri
gione, non aveva che a rimetterla la mattina al suo luogo. Così mi
stabili una libera comunicazione colle sentinelle; ebbi tutti gli ordigni
di cui poteva abbisognare, candele, esca ed acciarino. Affinchè non si
vedesse che aveva del lume, appendeva alla finestra la mia coperta e
poteva così lavorare senza timore di essere frastornato.
» Il pavimento della mia prigione era di grossi pezzi di rovere di
tre pollici, e ve n'erano tre uno sopra l'altro inchiodati con chiodi
lunghi un piede, di modo che restava l'altezza totale di nove pollici.
» Il traverso delle mie manette mi servi utilmente in questa oc
casione: me ne servi come di leva, e giunsi così a smuovere una ta
vola del primo strato. Ne tagliai un pezzo collo stesso traverso, che da
una estremità aveva aguzzato a guisa di forbice; e rimesso questo
pezzo al suo luogo, riempiendo la fessura con midollo di pane ed un
po' di polvere, sperimentai ch'era impossibile avvedersene. Assicurato
di questa prova, continuai il mio lavoro con minor precauzione e ri
mossi assai presto le tre tavole.
» Sotto trovai una sabbia finissima, sopra la quale era fabbricato il
forte della Stella; e non potendo andare più oltre senza ajuto esteriore,
il mio granatiere mi diede alcuni palmi di tela, colla quale feci dei
sacchetti lunghi sei piedi, che potevano passare per le sbarre della
finestra: questi riempiva di sabbia, e quando Gefhard era di guardia,
li cavava fuori e li vuotava.
» Alleggeritomi di una quantità di sabbia, mi procurai della mu
nizione, un paio di pistole da saccoccia, un coltello ed una baionetta,
che nascosi sotto il pavimento; ma dopo alcuni giorni di lavoro, mi
avvidi che i fondamenti erano profondi quattro piedi e non due soli,
come mi aveva detto Gefhard. Siccome egli non era di guardia che
ogni quattordici giorni, il lavoro era lentissimo: pure non ardivo ten
tare di corrompere un'altra sentinella per timore di essere tradito,
essendovi proibizione di parlarmi, e pena la corda. Soffri in questo
inverno un freddo eccessivo, non avendo stufa: pure stava allegro, so
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 215
tico! A che valgono i migliori servigi e le più pure virtù dove l'ar
bitrio regola ciecamente il vostro destino?
» Giunta la notte, venne il conte di Schlieben con una carrozza a
quattro cavalli di posta, e partimmo. La mia detenzione a Magdeburgo
era durata nove anni, cinque mesi ed alcuni giorni. Se vi si aggiun
gano i diciasette mesi che io sono stato a Glatz, si troverà che ho
passato in prigione undici anni della mia giovinezza, cioè, il più bel fior
della vita.
» Arrivai felicemente a Praga ai 7 di gennaio col conte di Schlie
ben; egli mi consegnò lo stesso giorno al duca di Dueponti, che n'era
governatore. Questo principe mi fece ottima accoglienza;pranzai da esso
due volte di seguito, e tutta la città era curiosa di conoscere un uomo
che avea sofferto una prigionia di dieci anni tanto crudele.
» Ma quale non fu la mia sorpresa, quando poco dopo vidi com
parire una stafetta da Vienna, che portava l'ordine di farmi partire
sull'istante verso quella capitale con una buona scorta!
« Mi si chiese la mia spada, ed il capitano conte de Wela accom
pagnato da due bassi ufficiali montò meco in una carrozza da me a
tale oggetto comprata e colà mi tradusse prigioniero. -
CARLO-EDUARDO
(1746)
STANISLAO LECZINSKI
(1734)
FORSTER, MAC-INTOSH
Roberto di Reith, Nithisdale ed altri capi dell'insurre
zione dei Giacobiti.
(1715)
-
-
Bianca Gamond caduta nel calausi gnu per la corda e assistita ualle compagne.
PAG. 258.
sti furono di bel nuovo arrestati nelle vie di Londra, perciuè non avean
saputo o potuto procacciarsi un asilo; Mac-Intosh però si ritrasse a
salvamento.
Un di que' fuggitivi era Roberto Hephurn di Keith, uomo dotato
di straordinaria vigoria di corpo. Era piombato addosso al portachiavi
e gli avea legate le braccia, indi uscito alla strada senz'essere inseguito
da alcuno. Ben sapea che la donna sua e la maggior parte de' suoi
amici teneansi pronti ad accorrere in suo aiuto. Ma in quale maiguisa
avrebbe potuto ritrovarli in quella vasta e popolosa città, ov'ei si ce
lavano probabilmente con finti nomi?
Mentr'egli errava all'avventura in preda a mille incertezze, non
osando interrogar chicchessia per tema d'assere discoperto, scorse sur
una finestra un vasetto d'argento, corredo della sua famiglia, al quale
erasi dato il nome di Keith.
Senza far motto il fuggitivo entra in quella casa ove certo dove
vano starsene la donna sua e i suoi figliuoli, sale ed è stretto fra le
loro braccia. Posti a parte del suo disegno, aveano preso stanza pro
pinqua alle prigioni, affinch'egli uscito fuora dalle carceri potesse tro
vare al più presto un rifugio; ma non avendo osato rivelare ad alcuno
la loro abitazione, avevano messo a bella posta sul davanzale della
casa codesto vaso d'argento, sperando che potesse colpire i suoi sguardi,
Hephurn di Keith riparò in Francia.
Carlo Radcliff e Lord Winton, condannati ambidue a morte, fuggi
rono anch'essi da quella prigione, o per la poca vigilanza dei custodi,
o per condiscendenza di taluni, che forse a disegno resero loro age
vole la fuga; ma l'evasione del conte di Nithisdale, condannato ei pure
all'estremo supplizio, destò nel pubblico la più alta meraviglia.
Personaggi alto-locati aveano fatte le più vive istanze per ottener
grazia a codesti signori, indarno.
Lady Nithisdale, sposa del condannato, donna devota e intrepida
ad un tempo, s'era prostrata ai piedi di re Giorgio per invocare la
sua clemenza; ma le sue preghiere furono vane.
Non rimanendole altro mezzo di sottrarre il marito a quella bar
bara sentenza, risolse di salvarlo colla fuga, e chiese la grazia di vi
sitarlo alla Torre di Londra seguita da due ancelle, cui aveva già
svelato il suo disegno. Una d'esse portava una veste doppia che poi
discinse e lasciò nella stanza del conte, quindi uscì dalla prigione.
L'altra ancella, vestito l'abito della compagna, diede il suo al prigioniero.
Avvoltosi quindi in un gran mantello e coprendosi gli occhi con un
fazzoletto a guisa di persona costernata dal dolore, egli passò attra
verso le scolte, usci dalla Torre e riparò in Francia. La contessa avrebbe
dovuto espiare col supplizio il suo eroismo; ma giunse anch'ella a
porsi in salvo.
Il cavaliere di San Giorgio giunto co' suoi al ponte di Montrose,
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 23
ID E- BUC Q U O Y
1700).1702
che tutti. Poichè ebbe udita l'infausta nuova, l'abate esortò i discesi
a seguire il suo piano; ma non giunse a persuaderneli, e per ciò prese
la sua deliberazione. Egli però avea previsto ogni cosa e tutto gli riuscì
mirabilmente.
Piantò la sua scala di corda attaccandola al parapetto e risalse il
fosso in quella che la scolta s'allontanava. Risalito il fosso, scalò il
muro, e giunse ad una grondaia, da dove spiccò un salto, ond'ei tro.
vossi nella via di Sant Antonio, ove stannosi i macellai; ma poco mancò
che un costoro uncino non gli spezzasse un braccio.
Prima però di gettarsi giù dalla grondaia su cui si era accovac
ciato, volle osservare ciò che avveniva de' suoi compagni; ed avendo
udito un grido e visto il fuoco d'un moschetto, credette ch'ei si fos
sero impadroniti della sentinella, siccome egli li avea consigliati, o,
sendo a ciò mancata loro la lena, discoverto il tentativo, la scolta avesse
tirato quel colpo. Non avendo udito più mai favellare de' suoi colle
ghi, serbò sempre in mente quel sospetto, e li pianse perduti.
Balzato ch'ei fu in via di Sant'Antonio, passò di là nella contrada
delle Turnelle, e dopo molti andirivieni giunse alla porta della Confe
renza, ove rinvenne i suoi amici che lo nascosero e il provvidero dei
mezzi necessari per riparare in paese straniero.
Questa volta ei non rimase a Parigi. Troppo caro l'avea pagato
altra volta quel soggiorno; ma traversò la Borgogna e scelse sicuro
asilo fra gli Svizzeri.
XXX
DUGUAY-TROUIN
(1694)
BART E FORBIN
Giovanni Bart era stato posto al comando d'un navile che com
poneasi di venti legni mercantili, mentre ei stava a bordo d'una fregata
che nomavasi la Railleuse.
Il cavaliere Forbin era suo luogotenente e comandava una fre
gata di 24 cannoni.
Ei furono assaliti da due vascelli inglesi, l'un dei quali era della
portata di 48 cannoni e l'altro di 42
Cotesti due prodi capitani immolarono se medesimi per salvare i
legni francesi. Giovanni Bart perdette quasi tutte le genti del suo
equipaggio e fu ferito al capo. Forbin riportò sei ferite dopo aver per
duto due terzi dei suoi marinari. Fu lor d'uopo di rendersi; ma il
naviglio dei mercadanti in questa guisa fu salvo, e in quello scontro eran
rimasti morti tutti gli ufficiali Inglesi e buon numero di soldati e uo
mini della ciurma.
Tradotti a Plymouth dal contro amiraglio inglese che aveva as
sunto il comando dei due vascelli britanni e dei due predati, Giovanni
Bart ed il cavaliere Forbin credettero di venire trattati siccome pri
gionieri di guerra sovra parola d'onore; ma il governatore della città
non volle accordar loro cotesto onore.
Ei furono rinchiusi in un albergaccio, onde le finestre erano tra
versate da sbarre di ferro a modo di prigioni, ed alle porte d'uscita
si posero delle scolte.
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 233
BIANCA GAMOND
(1687)
» Ed io risposi loro: poco mi cale che il mio corpo sia roso dai
pesci o dai vermi.
» Poichè ne ebbero lasciate sole, Susanna di Montelimart disse:
» Noi potremmo salvarci per quella finestra. Basta romperne le
sbarre.
258 IBIANCA GAMOND
in istretta di denti mi precipitai giù dal quarto piano, poi caddi sul
pavimento sclamando: Dio di misericordia! son morta o sono storpia!
» Tre sorelle m'attendevano laggiù e due di loro mi richiesero ove
io mi sentissi percossa. – In tutta la persona! risposi. Dio così volle. La
mia coscia è già rotta o dislogata ! Fasciatemela, ve ne prego, col
grembiale.
» Cosi trascinai la mia coscia e presi a braccetto le mie compagne,
che m'aitarono a camminare; ma giunte che fummo alla porta di Va
lenza, la trovammo chiusa. Elle mi aiutarono a salire le mura; ma
quando giunsi in sulla vetta e ne scorsi l'altezza: quest'è un secondo
precipizio! – sclamai, e non mi sento l'animo bastante di calare in giù.
Ite voi e lasciatemi, ve ne scongiuro.
» Le sorelle mi fecero allora a bistento scendere dalle mura e mi
lasciarono colà, poi con gran fatica ne tentarono la discesa.– Noi ce ne
andiamo, mi dissero, e vi lasciamo qui a contracuore. Dio vi salvi dalle
mani de' nostri nemici. Invochiamo sul vostro capo la benedizione del
cielo e vi preghiamo nel tempo stesso d'impartirne la vostra benedi
zione.
» Ma chi mi sono io? risposi loro; poss'io impartirvi una benedi
zione? La invoco da Iddio sul vostro capo. Lo pregherò con tutto l'ar
dore dell'anima mia affinch'ei vi ponga in salvo. Frattanto vi prego
d'andarvene al più presto! Io sola rimango esposta ai danni; ma ciò
è anche troppo!
» In tal guisa io rimaneva abbandonata in quella via in preda a'
dolori violenti che non mi lasciavano un istante di tregua.
» Il giorno non era spuntato ancora. Alzai il mio cuore a Dio, e
svenni.
» Accanto a me non v'era alcuno che mi porgesse un sorso d'ac
qua, per farmi riavere dal mio accidente, nè verun mortale per con
solarmi. Ciò malgrado, rinvenni e sclamai: Non abbandonarmi, Dio on
nipossente!
» Di quando in quando rimanea là senza moto, poi pensava che
allo spuntar del giorno non avrei certo potuto sottrarmi agli sguardi
della giustizia, che sarei trasportata di bel nuovo allo spedale,e diceva
tra me SteSSa:
» Grande Iddio! pon fine tu alle mie pene! Preferisco la morte!
Questo è troppo! Ricevi tu l'anima mia o eterno Padre ! O accordami
la grazia tua, ch'oggi io discenda nel sepolcro senz'entrare all'ospizio.
» Non ebbi la forza di rialzarmi per non lasciar travedere ai pas
santi ch'era storpia; ma potei soltanto coprirmi il volto col grembiale
per non essere veduta.
» Durante le mie preghiere sentiva atroci dolori.
» Un viandante mi disse che sarei stata molto meglio e più orre
volmente a casa mia, - Signore, ripresi, se sapeste chi mi son io, non
260 BIANCA GAMOND
C A R LO II
(1680)
tutta la giornata. Intanto che eravamo sul nostro albero, vedemmo dei
soldati andar e venire nel più folto del bosco per cercare coloro che
pensavano esservisi rifugiati, e di tempo in tempo guardar fuori del
bosco. » --
QUISQUERAN DE BEAUJEU
(1671)
IL CARDINALE DI RETZ
(1654)
Nel 1652, il cardinale di Retz, che aveva avuto una cosi gran parte
nei tumulti della Fronda, perdeva il suo tempo a negoziare coi mi
nistri, quando fu arrestato al Louvre il 19 dicembre. Chiuso prima a
Vincennes, fu obbligato a dimettersi dall'arcivescovato di Parigi, per
ottenere di essere trasportato al castello di Nantes, di cui era gover
natore Chalucet. Egli fuggi di là, ed ecco ciò che a questo proposito
racconta nelle sue Memorie.
» Il signor maresciallo de la Meilleraye e il primo presidente de
Bellièvre vennero a prendermi a Vincennes. Come il maresciallo era
tutto storpiato dalla gotta, non potè salire sino alla mia camera, lo
che diede al signor de Bellièvre il tempo di dirmi, nello scender le
scale, che io mi guardassi bene dal dare una parola che mi sarebbe
stata chiesta. Infatti il maresciallo ch'era rimasto al basso della scala,
mi chiese effettivamente che dessi la mia parola di non fuggire. Gli
risposi che i prigionieri da guerra facevano questo, ma che non aveva
mai sentito dire che lo si esigesse dai prigionieri di Stato.
» Il signor de Bellièvre prese la parola e disse: «voi non vi capite fra
voi. Il cardinale non rifiuta di darvi la sua parola, se volete fidarvi al
tutto di esso, e non mettergli niuna guardia. Ma se voi lo fate cu
stodire, a che serve questa parola? Ogni uomo ch'è custodito come
prigioniero, può violarla. »
» Il primo presidente giuocava a giuoco sicuro, perchè sapeva che la
regina aveva fatto promettere al maresciallo che mi farebbe sempre
guardare a vista. Io dissi al signor de Bellièvre: voi sapete se posso
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 269
» Vi rimasi nascosto più di sette ore, in uno stato che non posso
esprimere. Aveva la spalla destra slogata e rotta e una contusione
terribile: mi prese la febbre verso le nove di sera; e l'alterazione che
mi dava, era ancora accresciuta dal calore del fieno novello. Quantunque
fossi sulla riva del fiume, non osava di bere, perchè se Montel o io
fossimo usciti dalla bica, non ci sarebbe stato nessuno per accomodare
il fieno; si sarebbe veduto ch'era stato smosso; e per conseguenza, a
quelli che m'inseguivano, avrebbe potuto venir il pensiero di frugarvi
dentro. Sentivamo gente a cavallo che andava avanti e indietro. Il
272 IL CARDINALE DI RETZ
BEAUFORT
(1648)
Il duca di Beaufort, uno dei capi del partito della Fronda, accu
sato di aver voluto far assassinare il cardinale Mazarino, fu arrestato
al Louvre, per ordine della regina Anna d'Austria,e chiuso nella torre
di Vincennes. Dopo di esserci restato cinque anni, riuscì a fuggire
col soccorso de' suoi amici. Ecco come questa evasione è raccontata
nelle Memorie di madama de Motteville.
« Il giorno della Pentecoste, primo del mese di giugno 1648, il
duca di Beaufort, prigioniero da cinque anni a Vincennes fuggi dalla sua
carcere verso mezzogiorno. Trovò il mezzo, di rompere le sue catene
per l'abilità degli amici e di alcuni de' suoi che in questa oc
casione lo servirono fedelmente. Era custodito da un uffiziale e da
sette od otto guardie che dormivano nella sua camera e non lo lascia
vano mai, era servito da ufficiali del re, non avendo seco nessuno de'
suoi domestici; inoltre Chevigny, governatore di Vincennes, non era af
fatto suo amico.
» L'ufficiale che lo custodiva, chiamato La Ramée, aveva preso
con lui, pregato da un amico, un certo uomo il quale, sotto pretesto di
un duello che aveva avuto, mentre i duelli erano severamente proibiti
dagli editti reali, aveva chiesto un asilo in quel castello. È da cre
dere che gli amici del duca l'avessero fatto entrare colà, forse col
consenso dell'ufficiale; ma non posso assicurarlo e dico solamente che
c'era l'apparenza di questo.
» Quell'uomo sulle prime, per rendere dei servigi e mostrare che
non era inutile, s'ingeriva molto nella custodia del prigioniero; anzi
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 275
A RN A U D
(1635)
GR OZ I O
(1621)
(1619)
CARLO DI GUISA
191
E N RICO IV
(1573)
gli grattavano i piedi, come soleano fare per eccitargli il sonno, senza
che pensasse a mettersi a letto. Questa distrazione del re salvò la vita
a cuello che prendeva congedo da esso, perchè, quantunque il re avesse
dopo aver parlato dei benefizi che avea ricevuto dal re, disse a d'Au
bigné: andate a salvare il vostro padrone.
« Per riuscire in questo bisognò correr tosto alla stalla, dove da
tre settimane, per previdenza, si tenevano sempre dei cavalli pronti.
Gli scudieri veggono passare il prevosto dei mercanti, che il re Enrico III
avea mandato a chiamare per dargli l'ordine di non lasciar passar nulla
per le porte della città; ma avanti che l'ordine fosse dato, i cavalli
erano già usciti.
« Roquelaire fu avvertito di prender la porta e la strada di Senlis,
e non se lo fece dire due volte; poi avendo messo le mani addosso ad
alcuni scudieri, seppe da uno di essi che tutto era scoperto. Corse
tosto a portar questa notizia al re di Navarra, e dimostrargli la neces
sità di partire senza por tempo in mezzo, che poi altri gli avrebbe rac
contato i particolari del fatto.
» Enrico faceva la sua caccia, e aveva corso dal levar del sole ,
quando trovati i suoi cavalli al sobborgo di Senlis, chiese tosto: che c'è
di nuovo? D'Aubigné, rispose « Sire, il re sa tutto da Fervaques che me
l'ha confessato. Andando a Parigi, si va alla morte e all'infamia; in
qualunque altro luogo c'è la vita e la gloria. I luoghi più adatti sono
Sédan o Alençon. E tempo che vi liberiate dagli artigli dei vostri car
cerieri per gettarvi nelle braccia de' vostri veri amici. » - Basta,
basta, soggiunse il principe.
» Senz'altri discorsi si liberò da Saint Martin e da Spalungue. Due
dei suoi volevano ucciderli, ma egli preferi di servirsene per ritardare
gli ordini di Enrico III che gli fosse data la caccia. Chiamò prima
Saint Martin e gli ordinò di andar a dirgli che Roquelaire era venuto
ad avvertirlo che certe voci correvano alla corte sul conto suo; chie
deva che il re dicesse almeno una parola affine di smentire quelle
false voci, per continuare o smettere la sua caccia. Quando Saint
Martin fu partito, fece vista di voler andar a sentire dei comme
dianti che altri aveva fatto venire. Qualche tempo dopo, chiama Spa
lungue e gli dice che il re doveva andare a Beauvois-Nangis, che non
se n'era ricordato nel mandare Saint Martin, che andasse a Charen
tone, e, se per avventura il re non fosse già passato, lo vedesse e por
tasse a Parigi la conferma del primo messaggio.
» Queste precauzioni giovarono molto, perchè Saint Martin trovò
l'allarme al campo: si stava per ordinare alle compagnie di battere le
strade. Tutto fu allora sospeso, mentre Saint Martin andò a vedere il
re che s'alzava di letto. L'altro messo , lasciata la strada maestra, si
smarri verso San Mauro e arrivò solamente nel dopo pranzo.
» Quando la regina vide che si era, mandato un secondo messo,
non dubitò più della frode; ma gli avvisi vennero solamente in sul far
della sera, quando il re di Navarra, era già molto lontano. Egli aveva
scelto i suoi più fedeli, e condotto seco il conte di Grammont, Caumont
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 291
i
XILI
DE LA FORCE
(1574)
» Essendo giunto a casa del controllore, Born gli disse: Voi siete
mio amico. Vi prego, fatemi il piacere di tener qui questo giovinetto
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 297
MARIA STUARDA
(1568)
sua cameriera fuori della torre, mentre tutti dormivano, chiuse le porte
del castello dietro di loro per impedire che i fuggitivi fossero inseguiti,
mise la regina e la dama che l'accompagnava in un piccolo battello, e
remò a voga arrancata finchè ebbero afferrato l'altra riva, dopo di aver
avuto la precauzione di gettar nel lago le chiavi del castello.
Al momento di cominciare quel pericoloso viaggio, il giovanetto
fece un segnale convenuto, ponendo a una finestra un lume, che po
teva esser veduto dall'estremità più lontana del lago, per informare i
suoi amici che il piano era riuscito.
Lord Seaton e diversi membri della famiglia di Hamilton li atten
devano allo sbarco. La regina montò subito a cavallo e si diresse in
fretta a Niddry, residenza di Seaton, nel Lothian occidentale, onde si
recò, dopo alcune ore di riposo, al castello di Hamilton.
Colà fu ricevuta dall'arcivescovo di Sant'Andrea e da lord Claude,
che le era andato incontro con cinquanta cavalli.
La notizia di questa evasione, dice Walter Scott, si sparse in Iscozia
colla rapidità del lampo, e per tutto fu ricevuta con entusiasmo. Il po
polo si ricordava l'affabilità, la grazia, la bellezza e la sventura di
Maria; se si ricordava i suoi errori, diceva ch'erano stati abbastanza
severamente puniti.
Alla domenica Maria era ancora una infelice prigioniera, abbando
nata senza soccorso in una torre solitaria. Il sabato seguente si trovava
alla testa di una potente confederazione, per cui nove conti, otto lord,
nove vescovi e un gran numero di gentiluomini del più alto rango si
erano obbligati a difenderla e renderle la sua corona. Ma quel raggio
di speranza non durò che un momento.
Le chiavi gettate dal paggio nel lago furono trovate nel 1805 da
un pescatore e sono depositate a Kinross. Si chiama ancora Mary's
Knouve (collina di Maria) il luogo dove la regina fuggitiva sbarcò sulla
riva meridionale del lago.
XLIII
BENVENUTO CELLINI
(1535)
ebbe tanto per male che io non gli detti questa meschina vesta, che
lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze a casa sua. Io tutto
appassionato gli dissi, che mi faceva piacere a levarmisi dinanzi; e lui
giurò con grandissima passione di non mai più capitarmi innanzi.
Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del
castello. Avvenne che il castellano ancora lui passeggiava: incontran
doci appunto in Sua Signoria, Ascanio disse: Io me ne vo, e addio per
sempre. A questo io dissi: E per sempre voglio che sia, e così sia il
vero: io commetterò alle guardie che mai più ti lascin passare: e vol
tomi al castellano, con tutto il cuore lo pregai, che commettessi alle
guardie che non lasciassino mai più passare Ascanio, dicendo a Sua
Signoria: Questo villanello mi viene a crescere male al mio gran male;
e sicchè io vi priego, signor mio, che mai più voi lasciate entrar costui.
Il castellano gl'incresceva assai, perchè lo conosceva di maraviglioso
ingegno; appresso a questo egli era di tanta bella forma di corpo, che
pareva che ognuno, vedutolo una sol volta, gli fussi espressamente affe
zionato. Il ditto giovane se ne andava lacrimando, eportavane una sua
stortetta che alcune volte lui segretamente si portava sotto. Uscendo
del castello e avendo il viso cosi lacrimoso, s'incontrò in dua di quei
mia maggior nimici, che l'uno era quell'Ieronimo perugino sopradditto
e l'altro era un certo Michele, orefici tutt'a dua. Questo Michele, per
essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e nimico d'Ascanio, disse:
Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse gli è morto il padre? dico
quel padre di Castello. Ascanio disse a questo: Lui è vivo, ma tu sarai
or ora morto; e alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua colpi,
in sul capo tutt'a dua, che col primo lo misse in terra, e col secondo
poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli pure in sul capo. Quivi
restò come morto. Subito fu riferito al papa; e il papa in gran collera
disse queste parole: Da poi che il re vuole che sia giudicato, andategli
a dare tre di di tempo per difendere la sua ragione. Subito vennero e
feciono il detto ufizio che aveva lor commesso il papa. Quell'uomo dab
bene del castellano subito andò dal papa e fecelo chiaro come io non
ero consapevole di tal cosa, e che io l'avevo cacciato via. Tanto mira
bilmente mi difese, che mi campò la vita da quel gran furore. Ascanio
se ne fuggi a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse, chiedendomi
mille volte perdonanza, che conosceva avere auto torto ad aggiungnermi
dispiacere ai mia gran mali; ma se Dio mi dava grazia che io uscissi
di quel carcere, che non mi vorrebbe mai più abbandonare. Io gli feci
intendere che attendessi a imparare, e che se Dio mi dava libertà, io
lo chiamerei a ogni modo.
» Questo castellano aveva ogni anno certe infermità che lo traevano
del cervello affatto; e quando questa cosa gli cominciava a venire, e'
parlava assai, modo che cicalare; e questi umori sua erano ogni anno
diversi, perchè una volta gli parve essere un orcio da olio ; un'altra
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 307
viddi che non v'era altro rimedio, io gli dissi, presenti tutti e sua:
Serratemi bene e guardatemi bene, perchè io mi fuggirò a ogni modo.
Così mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa diligenza.
» Allora io cominciai a pensare il modo che io avevo a tenere a
fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava
la prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato sicura
mente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo
iscendere da quella grande altezza di quel mastio, che così si domanda
quell'alto torrione: e preso quelle mie lenzuole nuove, che già dissi
che io ne avevo fatte istrisce e benissimo cucite, andai esaminando
quanto vilume mi bastava a poter iscendere. Giudicato quello che
mi potria servire, e di tutto messomi in ordine, trovai un paio di ta
naglie, che io avevo tolto a un Savoino il quale era delle guardie
del Castello. Questo aveva cura alle botti ed alle citerne; ancora si
dilettava di lavorare di legname: e perchè aveva parecchi paia di ta
naglie, infra queste ve n'era un paio molto grosse e grande: pensando,
che le fussino il fatto mio, io gliene tolsi e le nascosi drento in quel
pagliariccio. Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io co
minciai con esse a tentare di quei chiodi che sostenevano le bandelle;
e perchè l'uscio era doppio, la ribattitura delli detti chiodi non si po
teva vedere; di modo che provatomi a cavarne uno, durai grandissima
fatica; pure di poi alla fine mi riuscì. Cavato che io ebbi questo primo
chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere che loro non
se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di rastiatura
di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del medesimo colore
appunto di quelli cappelli d'aguti che io avevo cavati; e con essa
cera diligentemeute cominciai a contraffare quei cappei d'aguti in sulle
lor bandelle: e di mano in mano tanti quanti io ne cavavo, tanti ne
contraffacevo di cera. Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e
da piè con certi delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi li
rimessi, ma erano tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che e' mi
tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima dificultà,
perchè il castellano sognava ogni notte che io m'ero fuggito, e però
lui mandava a vedere di ora in ora la prigione; e quello che veniva
a vederla, aveva nome e fatti di birro. Questo si domandava il Bozza,
e sempre menava seco un altro, che si domandava Giovanni per so
prannome Pedignone; questo era soldato, e il Bozza era servitore.
Questo Giovanni non veniva mai volta a quella mia prigione, che lui
non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era di quel di Prato, ed era
stato in Prato allo speziale: guardava diligentemente ogni sera quelle
bandelle e tutta la prigione, ed io gli dicevo: Guardatemi bene, perchè
io mi voglio fuggire a ogni modo. Queste parole feciono generare una
nimicizia grandissima infra lui e me, in modo che io con grandissima
diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se dire tanaglie, e un pugnale
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI “ 309
lievi presto, ed io ti donerò uno scudo d'oro; e messi mano alla mia
borsa, dove io ve ne avevo una buona quantità. Subito costui mi prese,
e volentieri me si misse addosso, e portommi sul ditto rialto delle
scalee di San Piero; e quivi mi feci lasciare, e disse che correndo ri
tornassi al suo asino. Subito presi il cammino così carpone, e me ne
andavo in casa la duchessa, moglie del duca Ottavio e figliuola dell'im
peradore, naturale, non legittima, istata moglie del duca Lessandro,
duca di Firenze, e perchè io sapevo certissimo che appresso a questa
gran principessa c'era di molti mia amici, che con essa eran venuti di
Firenze; ancora perchè lei ne aveva fatto favore, mediante il castellano;
che volendomi aiutare disse al papa, quando la duchessa fece l'entrata
in Roma, che io fui causa di salvare per più di mille scudi di danno
che faceva loro una grossa pioggia: per la qual cosa lui disse ch'era
disperato, e che io gli messi cuore, e disse come io avevo acconcio
parecchi pezzi grossi di artiglieria inverso quella parte dove i nugoli
erano più istretti, e di già cominciati a piovere un' acqua grossissima;
per la qual cosa cominciato a sparare queste artiglierie, si fermò la
pioggia, e alle quattro volte si mostrò il sole, e che io ero stato intera
causa che quella festa era passata benissimo, per la qual cosa, quando
la duchessa lo intese, aveva ditto: Quel Benvenuto è un di quei vir
tuosi che stavano con la buona memoria del duca Lessandro mio ma
rito, e sempre io ne terrò conto di quei tali, venendo la occasione di
far loro piacere: e ancora aveva parlato di me al duca Ottavio suo
marito. Per queste cause io me ne andavo diritto a casa di Sua Ec
cellenzia, la quale istava in Borgo Vecchio in uno bellissimo palazzo
che v'è; quivi io sarei stato sicurissimo che il papa non m'arebbe tocco;
ma perchè la cosa che io avevo fatta insin quivi, era istata troppo ma
ravigliosa a un corpo umano, non volendo Iddio che io entrassi in tanta
vanagloria, per il mio meglio mi volse dare ancora una maggior di
sciplina, che non era istata la passata; e la causa si fu, che in mentre
che io me ne andavo così carpone su per quelle scalee, mi ricognobbe
subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro; il qual cardinale
era alloggiato in palazzo. Questo servitore corse alla camera del cardi
Inale, e isvegliatolo, disse: Monsignor reverendissimo, gli è giù il vo
stro Benvenuto, il quale s'è fuggito di Castello, e vassene carponi tutto
sanguinoso: per quanto e' mostra, gli ha rotto una gamba, e non sap
piamo dove lui si vada. Il cardinale disse subito: Correte, e portatemelo
di peso qui in camera mia. Giunto a lui, mi disse che io non dubi
tassi di nulla: e subito mandò per i primi medici di Roma; e da quelli
io fui medicato: e questo fu un maestro Iacomo, da Perugia, molto
eccellentissimo cerusico. Questo mirabilmente mi ricongiunse l'osso, poi
fasciommi, e di sua mano mi cavò sangue; chè essendomi gonfiate le
vene molto più che l'ordinario, ancora perchè lui volse fare la ferita al
quanto aperta, uscì sì grande il furor di sangue, che gli dette nel viso, e
FUGIE ED EVASIONI CELEBRI 513
potrà attendere a guarire, e non se gli vieterà che tutti gli amici sua
lo vadino a vedere, e anche gli farò dar le spese, insin che ci passi
questo poco della fantasia. Il cardinale tornò a casa e mandommi su
bito a dire per quello che aspettava il vescovado , come il papa mi
rivoleva nelle mane; ma che mi terrebbe in una camera bassa nel
giardin segreto; dove io sarei visitato da ognuno, siccome io era in
casa sua. Allora io pregai questo messer Andrea, che fussi contento
di dire al cardinale, che non mi dessi al papa e che lasciassi fare a
me; perchè io mi farei rivoltare in un materasso e mi farei portare
fuor di Roma in luogo sicuro; perchè se lui mi dava al papa, certis
simo mi dava alla morte. Il cardinale, quando e' l'intese, si crede che
lui l'arebbe voluto fare; ma quel messer Andrea, a chi toccava il ve
scovado, scoperse la cosa. Intanto il papa mandò per me subito e fecemi
mettere, siccome e'disse, in una camera bassa nel sua giardin segreto.
Il cardinale mi mandò a dire che io non mangiassi nulla di quelle
vivande che mi mandava il papa, e che lui mi manderebbe da mangiare;
e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far di manco; e che
io stessì di buona voglia, che m'aiuterebbe tanto, che io sarei libero.
Standomi così, ero ogni dì visitato, e offertomi da molti gran gentil
uomini molte gran cose. Dal papa veniva la vivanda, la quale io non
toccavo, anzi mi mangiavo quella che veniva dal cardinale Cornaro, e
così mi stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco di
età di venticinque anni: questo era gagliardissimo oltramodo e giu
cava di spada meglio che ogni altro uomo che fussi in Roma: era pu
sillo d'animo, ma era fidelissimo uomo dabbene e molto facile al cre
dere. Aveva sentito dire che il papa aveva detto che mi voleva remu
nerare de' miei disagi. Questo era il vero, che il papa aveva detto tal
cose da principio, ma nell'ultimo da poi diceva altrimenti. Per la qual
cosa io mi confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: Fratello
carissimo, costoro mi vogliono assassinare, si che ora è tempo aiutarmi;
chè pensano che io non me ne avvenga, facendomi questi favori istra
sordinari, gli quali son tutti fatti per tradirmi? Questo giovane dab
bene diceva: Benvenuto mio, per Roma si dice che il papa t'ha dato
uno uffizio di cinquecento scudi di entrata; sicchè io ti priego di gra
zia, che tu non faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene.
E io pure lo pregavo con le braccia in croce che mi levassi di quivi,
perchè io sapevo bene che un papa simile a quello mi poteva fare il
molto bene, ma che io sapevo certissimo che lui studiava in farmi se
gretamente per suo onore di molto male; però facessi presto e cer
cassi di camparmi la vita da costui: che se lui mi cavava di quivi, nel
modo che io gli arei detto, io sempre arei riconosciuta la vita mia da
lui; e per lui venendo il bisogno, la ispenderei. Questo povero giovane
piangendo mi diceva: O caro mio fratello, tu ti vuoi pure rovinare,
ed io non ti posso mancare a quanto tu mi comandi; sì che dimmi il
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 317
modo, ed io farò tutto quello che tu dirai, sebbene e' fia contra mia
voglia. Così eramo risoluti, ed io gli avevo dato tutto l'ordine, che fa
cilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi per mettere in opera
quanto io gli avevo ordinato, mi venne a dire che per la salute mia
mi voleva disubbidire, e che sapeva bene quello che gli aveva inteso
da uomini che stavano appresso al papa e che sapevano tutta la ve
rità de' casi mia. Io che non mi potevo aiutare in altro modo, ne re
stai malcontento e disperato. Questo fu il dì del Corpus Domini nel
millecinquecentotrentanove.
Passatomi, tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino
alla notte, dalla cucina del papa venne un'abbondante vivanda: ancora
dalla cucina del cardinale Cornaro venne bonissima provvisione: ab
battendosi a questo parecchi mia amici, gli feci restare a cena meco;
onde io tenendo la mia gamba isteccata nel letto, feci lieta cera con
esso loro; così soprastettono meco. Passato un' ora di notte di poi si
partirno; e due mia servitori m'assettorno da dormire, di poi si mes
sono nell'anticamera. Io avevo un cane nero quanto una mora, di questi
pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo, e mai non
istava lontan da me un passo. La notte, essendomi sotto il letto, ben
tre volte chiamai il mio servitore, che me lo levassi di sotto il letto,
perchè e' mugliava paventosamente. Quando i servitori venivano, que
sto cane si gittava loro addosso per mordergli. Gli erano ispaventati,
e avevan paura che il cane non fossi arrabbiato, perchè continuamente
urlava. Così passammo insino alle quattr'ore di notte. Entrò al tocco
delle quattro ore il bargello con molta famiglia drento nella mia cahmera:
allora il cane uscì fuora e gittossi addosso a questi con tanto furore,
stracciando loro le cappe e le calze, e gli aveva missi in tanta paura, che
lor pensavano che fussi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello, come
persona pratica, disse: La natura de'buoni cani è questa, che sempre
s'indovinano e predicono il male che dee venire a'lor padroni: pigliate
dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e gli altri leghino Benvenuto
in su questa sieda, e menatelo dove voi sapete. Si come io ho detto,
era il giorno passato del Corpus Domini, ed era in circa a quattro ore
di notte. Questi mi portavano turato e coperto, e quattro di loro an
davano innanzi, faccendo iscansare quelli pochi uomini che ancora su
ritrovavano per la strada. Cosi mi portarono a Torre di Nona, luogo
detto così, e messonmi nella prigione della vita, posatomi in sur un
poco di materasso, e datomi uno di quelle guardie, il quale tutta notte
si condoleva della mia cattiva fortuna, dicendomi-: Oimè! povero Ben
venuto, che hai tu fatto a costoro? Onde io benissimo mi avvisai quel
che mi aveva a intervenire, si per essere il luogo cotale,e anche per
chè colui me lo aveva avvisato. Istetti un pezzo, di quella notte col
pensiero a tribolarmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi co
tal penitenzia; e perchè io non la ritrovavo, forte mi dibattevo. Quella
318 BENVENUTO CELLINI
ora da loro s'è messa questa mala usanza, fa ancora tu il peggio che
tu puoi, chè di nulla mi curo al mondo. Questo povero uomo cominciò
olto forte a gridare, dicendo: Oime! oimè! costui non si cura nè di
vivere nè di morire, ed è più ardito che quanto egli era sano: mette
telo là sotto il giardino, e non mi parlate mai più di lui, chè costui
è causa della morte mia. Iofui portato sotto un giardino in una stanza
oscurissima, dove era dell'acqua assai, piena di tarantole e di molti
vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra,
e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro parte:
cosi istetti insino alle diciannove ore il giorno seguente. Allora mi fu
portato da mangiare: ai quali io domandai che mi dessino alcuni di
quei miei libri da leggere: da nessuno di questi non mi fu parlato,
ma riferirno a quel povero uomo del castellano, il quale aveva domani
dato quello che io dicevo. L'altra mattina poi mi fu portato un mio
libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro dove eran le Cronache
di Giovan Villani. Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io
non arei altro, e che io avevo troppo di quelli. Così infelicemente mi
vivevo in su quel materasso tutto fradicio, chè in tre giorni era acqua
ogni cosa; onde io stavo continuamente senza potermi muovere, perchè
io avevo la gamba rotta; e volendo andare fuor del letto per la neces
sità de' miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per
non far lordura in quel luogo dove io dormiva. Avevo un'ora e
mezzo del dì d'un poco di riflesso di lume il quale m'entrava in quella
infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del
tempo leggevo, e'l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio
pazientemente, non mai fuor de' pensieri di Dio e di questa nostra fra
gilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir
quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio che io
potevo, da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dis
piacere e' mi saria istato, nel passare della vita mia, sentire quella
inistimabil passione del coltello; dove istando a quel modo io la pas
savo con un sonnifero, il quale mi s'era fatto molto più piacevole che
quello di prima: e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a tanto
che la mia buona complessione si fu accomodata a quel purgatorio. Di
poi che io senti'essersi lei accomodata ed assuefatta, presi animo di
comportarmi quello inistimabil dispiacere in sino a tanto quanto le l
stessa me lo comportava. » -
,
-
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 325
CU RI O N E
(1530)
Z I Z I MI
(1482)
anni, dodici meno del fratello; era robusto di costituzione, feroce d'a
spetto; aveva dense sopracciglia, naso aquilino, capelli biondi: era nato
da una principessa Serba. Era di corpo pingue anzi che no, ma ben
complesso; molto destro al salto, al nuoto, alla caccia, ai tirar
d'arco, per solito triste e cogitabondo, cultore dei buoni studi e valente
poeta.
Appena ricevuta la notizia della morte di suo padre, Zizim si di
resse con alcune truppe ragunaticcie verso Brussa, per mettersi in pos
sesso dell'antica capitale dell'impero turco. Il primo scontro fra le truppe
di Baiazet e quelle di Zizim avvenne nei contorni di quella città. I
gianizzeri furono sconfitti e Aias Pascià loro comandante fu fatto pri
gioniero.
La città accolse allora Zizim, che entrovvi in trionfo e s'impadroni
dei tesori racchiusi nel castello. Fu fatta la preghiera del venerdì nelle
moschee in nome del sultano Gem, legittimo sovrano degli Osmani, e
col suo nome si coniò anche la moneta.
Quando Zizim intese che Baiazet si avvicinava con un grosso eser
cito, gli mandò un'ambasciata a proporgli di dividere tra loro il do
minio d'Asia e d'Europa. Ma Baiazet rispose laconicamente col detto
arabo « che non v'è affinità di sangue fra i re », e continuò la sua
marcia per Brussa.
Baiazet avea promesso a Jacob, uno dei grandi delle corte di Zizim,
di accordargli il governo dell'Anatolia, se invece di promuovere la ri
tirata delle truppe del suo principe nella Caramania, dinanzi all'eser
cito di Baiazet, ch'era molto più forte, lo inducesse a farlo scendere nella
pianura di Jeniscer. Gem seguì questo cattivo consiglio, e vi trovò il
fratello con un grosso esercito, rinforzato anche da nuove truppe che
gli avea condotto Abdullah suo primogenito. La battaglia decisiva fu
data il 20 giugno 1481 sulla sponda sinistra del fiume di Jeniscer.
Le truppe di Zizim erano in parte battute dalla cavalleria asiatica,
quando il traditore Jacob decise la giornata conducendo il fiore delle
sue soldatesche sotto le bandiere del sultano. Allora la fuga dei
Turcomani, dei Caramani, dei Toghudi, di cui era composto l'esercito di
Zizim, divenne generale.
Zizim vinto e ferito fuggì dal campo di battaglia. Aveva per
duto tutto il bagaglio, e per giunta i Turcomani al passo di Ermeni
gli tolsero i pochi cavalli da soma che aveva seco condotto, cosicchè il
suo ciambellano Sinanbeg dovette prestargli la sua sopraveste per ri
pararlo dall'umidità della notte.
Baiazet, lasciato il campo di battaglia, aveva seguito le orme del
fuggitivo fratello. Giunto al passo di Ermeni, gli sì presentarono i Tur
comani della contrada, pregandolo che gli esentasse dalle imposizioni
e dalle gabelle in ricompensa di quanto aveano operato contro Zizim,
togliendogli il resto de' suoi averi e facendo quasi lui stesso prigio
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 331
ammesso all'udienza del papa per mezzo del gran priore d'Auvergna
e dell'ambasciatore francese. Il papa lo ricevette in pieno concistoro
dei cardinali, seduto in trono. Il principe non volle però scoprirsi il
capo, nè piegare il ginocchio. Senza neppur inchinarsi, andò diretta
mente verso il papa e baciollo sulle spalle, lo stesso facendo poi coi
cardinali. Con parole brevi ed altiere si raccomandò alla protezione del
capo della Chiesa, e lo pregò di accordargli un colloquio secreto. Gli
raccontò in questo le pene sofferte nelle sua prigionia di sette anni, la
sua separazione dalla madre, dalla moglie, dal figlio, che ardentemente
bramava rivedere e per cui domandava di partire per l'Egitto.
Le lagrime dell'infelice principe commossero il papa sino a ver
sarne egli pure; ma gli rappresentò non potersi per allora combinare
il suo viaggio per l'Egitto col desiderato possedimento del trono, e ag
giunse che il re d'Ungheria bramava di averlo seco al confine della
Rumelia; gli consigliò prima di tutto che si convertisse alla religione
cristiana. Rispose Zizim che con questo giustificherebbe la sentenza di
morte dei suoi dottori; che non cambierebbe la sua fede per tutto l'im
pero ottomano, neppure per il dominio del mondo intero. Innocenzo
allora desistette e il congedò con parole consolanti.
Baiazet aveva mandato a Roma un suo ministro per trattare col
papa relativamente alla custodia del prigioniero. Offriva 40,000 zecchini
all'anno e, per giunta sulla derrata, diverse reliquie, nientemeno che
la canna e la spugna con cui si dette da bere a Cristo, e la lancia con cui
fu trafitto in croce.
Zizim stanco della sua cattività, tentò di tornare in grazia col fra
tello, e disse all'ambasciatore turco che stava per tornare a Costanti
nopoli, che era disposto a sottomettersi e restargli sempre fedele. Ma
non sembra che si sia nulla concluso.
Durante la malattia mortale d'Innocenzo, il prigioniero fu custodito
in Castel Sant'Angelo ; ma tosto che il nuovo papa Alessandro VI sali
sul trono, ritornò al Vaticano.
Alessandro VI spedi un ambasciatore al sultano e propose di custo
dire il prigioniero per 40,000 zecchini annui, e di ucciderlo quando
gliene fossero contati 300.000 in una volta sola.
Sceso Carlo VIII re di Francia in Italia nel 1494, ed entrati i Fran
cesi in Roma, Alessandro VI si era chiuso in Castel Sant'Angelo ed
avea condotto seco il principe turco. Segnata poi la pace tra il papa
e il re di Francia, una delle condizioni fu che il principe fosse con
segnato al re per potersene servire per la esecuzione di altri più estesi
piani di conquista. Da Roma Zizim segui Carlo VIII a Velletri e a
Napoli. Baiazet aveva mandato in Italia un altro ministro con danari;
ma questi fu ritenuto e spogliato da Giovanni della Rovere governa
tore di Sinigaglia.
Alessandro, perduta cosi la somma già scaduta pel mantenimento di
336 ZIZIM
Concordano gli storici italiani e i turchi nel fatto d'un lento avve
lenamento, ma non nel modo con cui il veleno fu somministrato. Vogliono
i primi che avvenisse per mezzo di una polvere bianca frammischiata
allo zucchero, come Borgia avvelenò poscia alcuni dei suoi cardinali.
Ma i secondi pretendono che si fosse introdotto nel suo sangue un
lento veleno mediante una piccola scalfittura fattagli con un rasoio av
velenato. Gli Osmani dicono che il barbiere di Zizim fosse un Mu
stafà, rinegato greco; il quale seppe poi mettersi in grazia di Baiazet
e divenne gran visir.
Quando Zizim giunse a Napoli, era già tanto debole, che non potè
nemmeno leggere la lettera ricevuta dall'Egitto da sua madre. Si
vuole che l'ultima sua preghiera sia stata: Allah! se i nemici della
fede si debbono servire della mia opera per effettuare dei piani dan
nosi all'Islam, non mi far arrivare a quel giorno e prenditi il mio spi
rito. Egli lo esalò infatti il 24 febbraio 1495, in età di trentasei anni.
Il re di Francia ne pianse sinceramente la morte, mandò droghe
per imbalsamarne il corpo e lo fece seppellire a Gaeta. Fece avere l'ere
dità dell'infelice principe a sua madre in Egitto, col mezzo di Nassuh,
uno dei più fedeli servi del defunto. Ma sia che fossero contrari i venti,
sia che questi pure tradisse il suo signore, fatto sta che la nave entrò
nel porto di Costantinopoli invece che in quello di Alessandria.
Baiazet volle soddisfare all'ultima volontà di suo fratello,ch'era da
essere sepolto in terra dell'Islam. Un ambasciatore turco spedito al re
Federico d'Aragona ne prese il cadavere, che fu trasportato a Brussa
e sepolto vicino a quello del sultano Murad II. Così mori questo infe
lice principe, dopo tredici anni di prigionia, dopo di essere stato vit
tima specialmente della slealtà e della cupidità del gran maestro del
l'Ordine di Rodi e di Alessandro VI.
Le poesie di Zizim furono raccolte e messe in ordine da Saadi suo
defterdar(secretario). È a desiderare che vengono presto o tardi in luce.
GIACOMO V
(1528)
DUCA DI ALBANY
(1475)
GIACOMO DA CARRARA
(1402)
mani di Facino Cane? chè, per lo corpo di Cristo! s'egli va alla pre
senza del duca di Milano, non torna mai più a Padova. E certo, s'egli
volesse, io avrei il modo di trarlo da questa terra e condurlo a salva
mento sino sul Ferrarese. Nè a ciò mi muove se non la pietà che io
ho di lui, e l'amore ch'io porto a tutta la casa da Carrara ed al
signor suo padre, perchè già stetti nella sua corte per maniscalco dei
suoi cavalli, ed ebbi da lui grandi favori. E certo io farei ogni cosa
per avere la grazia di quel signore. »
Piacquero molto al barbiere padovano queste parole, e gli rispose:
dimmi che modo avresti di cavarlo di qui, e come il condurresti fuori
di questo territorio in luogo sicuro? »
Al quale Giovanni da Parma rispose: Io te lo mostrerò. – E mena
tolo alle mura della città, e montato sul muro, disse: « noi verremo qui
e ci caleremo giù, perchè questo muro è basso, come tu vedi, e pas
seremo questa fossa, la quale è con poca acqua; poscia entreremo in
un bosco qui vicino, nel quale io so molto bene la via per cui voglio
poi condurre il suo signore in luogo sicuro. Confortalo all'impresa, e
fa che tu mi porti la risposta, chè io ti aspetterò in piazza.»
La cosa piacque molto a Francesco. Il barbiere parlò la sera
con Giovanni da Parma, il quale preparò quanto era necessario per la fuga.
Venuta l'ora di andar a riposare, Francesco andò a letto, a canto a
Rigo Galletto, altro prigioniero padovano, con cui sempre dormiva; e,
fingendo di dormire, stette sino all'ora determinata a partire. Indi si
levò quietamente e, vestitosi dei panni di un suo famiglio, tolse un'in
guistara in mano, ed il barbiere innanzi andava cantando. Usciti fuori
dall'albergo, con passi veloci si recarono al luogo concertato ed ivi
trovarono Giovanni da Parma che gli aspettava. Presto tutti e tre an
darono al muro all'ora quinta di notte, e il 7 di luglio con buona
ventura montarono sopra il muro e poi si calarono tutti e tre abbasso.
Primo Giovanni da Parma montò nella fossa; dopo lui Francesco terzo
e finalmente il barbiere; poi tutti e tre velocissimamente cominciarono
a camminare e poco lontano entrarono in un bosco, dove il giorno si
teneano nascosti e la notte camminavano con gran paura, perchè molte
volte sentivano strepito di gente che gli andava cercando.
Giunsero finalmente sul territorio di Nicolò da Este, cognato di Fran
cesco. Questifece subito sapere il suo arrivo alla marchesana sua sorella,
pregandola che gli mandasse cavalli e panni da vestire, chè tosto vo
leva essere a Padova. La marchesana, subito avuta la nuova, montò
a cavallo con alquanti della sua famiglia e andò ad incontrare il fra
tello; e, così trovatisi insieme, strettamente si abbracciarono.
Dipoi Francesco si rivesti coi panni portati dalla sorella, e montò
a cavallo coi suoi due compagni e cavalcò verso Padova. Entrò nella
città il 15 luglio con grandissima festa ed allegrezza di tutto il popolo,
e fu dal padre e dalla madre degnamente ricevuto; e per molti giorni
FUGHIE ED EVASIONI CELEBRI 345
FRANCESCO NOVELLO
DA CARRARA
(1390)
che sì il faceva per non aggravarli più, acciocchè, se tempo venisse mai,
ricordandosi di questo benefizio, gliene rendessero merito.
Mentre i primi cittadini di Padova, vinti da paura, o secretamente
intesi col Visconti, davano a Francesco Novello pusillanimi consigli,
altro linguaggio teneva la moglie di lui, Taddea, figlia del marchese
d'Este, che dagli storici padovani è lodata come donna « di gentile e pudi
cissimo animo e piena di cordiale amore verso il marito sì nella pro
sperità come nell'avversità, vero esempio di virtù e di puro matrimonio. »
Queste sono le nobilissime parole che, secondo Gataro, ella disse al
marito in quei terribili momenti di crisi: «Signor mio, io stimo più santa
cosa e laudabile essere il morir liberi che vivendo languire in brutta
servitù e massime de' suoi nemici; io però lodo il parer vostro di pigliar
prima un partito, che questi vostri tristi consiglieri vi conducano alla
misera servitù. »
Senonchè il Carrarese, vedendo che i cittadini erano stanchi della
sua famiglia e che poteva far poco assegnamento sulla fedeltà delle
milizie, piuttosto che perir combattendo, come la sua valente donna il
consigliava difare, od anzichè cedere la città e lo stato, propose al coman
dante delle truppe del Visconti, che gli desse un salvacondotto per andar
con tutti i suoi a Pavia da Gian Galeazzo a patteggiare direttamente
con esso, e ottenne quanto chiedeva. Si riservava nella capitolazione
di tornar liberamente a Padova e ripigliarne la signoria, nel caso che
non avesse potuto intendersi col Visconti. Intanto il castello sarebbe
stato consegnato al Dal Verme, ma questi si obbligava a restituirlo
quando Francesco tornasse a Padova. Durante il suo soggiorno in Lom
bardia le ostilità sarebbero sospese; nessun soldato dei Visconti avrebbe
dovuto entrare nella città o nelle fortezze, neppure se la città andasse
a romore e alcuna delle parti chiamasse in aiuto i Milanesi. Il Dal
Verme, d'accordo anche coi provveditori veneziani che accompagnavano
le truppe della Republica, ch'era alleata del Visconti, promise e nelle
mani del Carrarese giurò di attendere ed osservare tutto quello che
aveva promesso.
Francesco Novello, posti entro a barche insieme colla moglie e tutta
la famiglia sua i panni, le argenterie e i danari, li fece partire, quindi
uscì dalla terra e andò a Monselice, che trovò ribellato, come pure Este.
Erano insorti anche i villani di quelle campagne per derubare il fuggi
tivo, ma furono dispersi colla forza. A Verona lo raggiungevano la moglie
e la famiglia, ch'erano venuti sempre per acqua: lasciatili quivi, s'avviò
a Brescia, quindi a Milano, ove fu accolto con onore ed alloggiato nel
palazzo dell'arcivescovo. Quivi s'era sparsa la novella che il conte di
Virtù era disposto a trattar bene e grandemente onorare Francesco
Novello da Carrara e quello avere come proprio figliuolo e far a lui
siffatta utilità che fosse al mondo universalmente manifesta: onde
Francesco concepì buone speranze. Intanto però il Visconti restava as
sente e s'impediva alla famiglia da Carrara di lasciare Verona.
350 FRANCESCO NOVELLO DA CARRARA
che questi gli aveva inviato, che gli sarebbe data per stanza sua e della
famiglia il castello di Cortezzone nel territorio di Asti; e che avrebbe
messo a Genova in deposito 60.000 ducati, i quali sarebbero pro
prietà di Francesco, ma non potrebbe levargli di là, ricevendone solo
l'interesse.
Era quel castello di Cortezzone tutto rotto e dirupato. Francesco e
i suoi si persuasero che era mandato colà solamente perchè fosse uc
ciso dagli uomini di quel paese, ch'erano micidiali e fieramente, come
ghibellini, avversi al nome Carrarese ch'era guelfo. Onde il messo di
Francesco, Paolo Lioni, disse al conte di Virtù, che queste cose vili
non erano da dare al Carrarese, che questa non era quella proferta
che gli era stata fatta in Milano. e ch'era mal esempio agli altri che
volessero darsi alla signoriadi lui. Il conte si scusò dicendo che questa
era decisione del suo Consiglio, e che, se fosse contento di Francesco,
gli accorderebbe in seguito condizioni migliori.
Mancatagli la speranza che aveva di tornare a casa sua con pace e
benevolenza del conte di Virtù, come pure quella di fare di lui vendetta,
Francesco, vedendo che, se si fosse opposto, avrebbe potuto di leg
geri essere ucciso, deliberò d'infingersi e di accettare quello che gli
era offerto, e poi trovar nuovo partito per ricuperare lo stato. Or
dinò dunque a Lioni di andare a Pavia a ringraziare il Conte e diman
dargli in grazia, che per alcun tempo potesse con la sua famiglia stare
in Asti, tanto che avesse fatto racconciare Cortezzone. Licenziato il nu
meroso seguito che aveva condotto seco da Padova, Francesco, ritenuta
seco solamente la famiglia, col consenso di Gian Galeazzo, si recò in
Asti, allora governato in nome del re di Francia. Rimasto pochi giorni
in Asti, andò a Cortezzone.
Quivi, per ingraziarsi gli abitanti, dichiarò pubblicamente che, per
l'autorità concessagli dal conte di Virtù, liberava il castello, il paese
e gli uomini da ogni gravezza e fazione reale e personale per dieci
anni, eccetto che voleva dal comune legname ed opere per racconciare
il castello.
Intanto che si eseguivano i lavori ordinati per render abitabile il
castello, Francesco tornò colla famiglia in Asti. Quivi fu dal governa
tore e da altri avvisato che si avesse guardia, perchè il conte di Virtù
voleva farlo pigliare ed ammazzare.
Intanto Francesco Novello cominciò a pensar di fuggire dalle
branche del Visconti e di andarsene con tutta la famiglia a Firenze,
considerando di potervi stare comodamente e bene per molti benefizi
che quella città e comune dei Fiorentini avea ricevuto da' suoi anteces
sori Carraresi e specialmente da suo padre.
Interpose per questo alcuni suoi amici Fiorentini e, avuta favore
vole risposta, cominciò a pensare qual via dovesse tenere per recarsi
a Firenze. Parsegli più presta la via di Genova; ma, dubbioso perchè
352 FRANCESCO NOVELLO DA CARRARA
il doge Antonio Adorno era amico del conte di Virtù, non osava
pigliar quel partito per non esporre a pericoli la sua famiglia. Si
mandarono dal Carrarese a' suoi amici di Firenze, diramati Pacino
Donati e Francesco Allegri, e da questi a lui, come segnatili dei dati rotti.
Decisero dunque di trovarsi tutti a Genova, e Francesco si mise in
cammino nel marzo del 1390.
Egli aveva ottenuto dal governatore di Asti di avere una scorta di
gente d'arme sino al confine di quel territorio e di lasciar colà in tutta
sicurezza i suoi figliuoli e la sua numerosa famiglia. Intraprese il disa
stroso viaggio solo con sua moglie, Giacomo e Ugolino da Carrara, suoi
fratelli naturali, e alcuni domestici. Arrivato nel Monferrato, scrisse di
là al conte di Virtù, che se ne andava con la sua donna ed altri della
sua famiglia a Sant'Antonio di Vienna (nel Delfinato) per soddisfare un
suo voto, e poi ad Avignone dal papa per impetrare qualche benefizio
per i suoi figliuoli e fratelli bastardi; che il resto di sua famiglia avea
lasciato in Asti, e la raccomandava a sua Signoria.
Per Torino e Susa andato a Vienna, Francesco di là, si recò a Santo
Spirito, ove montò in una barca sul Rodano, e quindi passò ad Avignone,
ove fu bene accolto da papa Clemente. A Marsiglia ebbe ospitalità dal
vescovo, ch'era stato pur vescovo di Padova, ma parti presto di là perchè
seppe che il capitano di Marsiglia voleva metterlo in carcere per trarne
denari.
Partito da Marsiglia Francesco Novello e navigando con Madonna
Taddea e con la famiglia, fu la nave da grandissimo vento as
salita e corse gran pericolo. La donna, ch'era gravida, sofferse
molto in quella fortuna e pregò il marito che smontasse a terra, di
cendo ch'ella voleva piuttosto camminare a piedi che sulla nave sog
giacere a tanti pericoli. La compiacque Francesco, sebbene molto più
pericoloso fosse per lui il viaggiar per terra, chè molti dei signori
e castellani dei luoghi per cui doveva passare, erano amici del suo ne
mico, il conte di Virtù. Smontò dunque in terra con la moglie, lasciando
una gran parte della famiglia nella barca con suo fratello Giacomo e le
robe, dando ordine al padrone ove la barca dovesse approdare.
Camminando a passo lento arrivarono a Grimaldo, ove furono ri
tenuti prigioni. Ma mostrate le lettere che avea del re di Francia,
Francesco fu subito liberato, e la notte alloggiò coi suoi in quel
luogo, dati al signor del paese quattrocento ducati. La mattina se
guente, tolto un somaro a nolo, vi fece montar sopra Madonna Tad
dea, ed egli con la famiglia le tenne dietro a piedi. Arrivati a un luogo
che apparteneva alla famiglia Fieschi, furono bene accolti dal castellano
e, trovata quivi la barca, c'entrarono tutti di nuovo. Dopo una fiera
burrasca, sbarcarono a Monaco e di là partiti giunseroa Turbia. Colà
furono riconosciuti da un Nicolò Spinola, che li avverti del pericolo
Pag 363
33 FRANCESCO NOVELLO DA CARRARA
Il Carrarese con tutta la sua famiglia e le robe sue entrò nel pali
schermo ch'era stato mandato per lui da Genova, e intanto Nozio tornò
indietro per terra. Ma assaliti da una fortuna di mare dovettero i
viaggiatori smontare a Savona, ove trovarono Pacino Donati, lo Spinola
e Nozio che li aspettavano. Questi vennero tutti spaventati all'osteria ove
la famiglia fuggitiva avea cercato ricovero, gridando che si levassero
subito di là, ch'erano in pericolo d'esser presi, che era arrivato a Ge
nova un messo del conte di Virtù, e che i Del Carretto ed altri d'ac
cordo col Visconti li cercavano per metter loro le mani addosso. Ma
donna Taddea tutta turbata disse quasi piangendo « quanto ci è contra
ria la fortuna! Ora ch'eravamo giunti in parte ove credevamo avere si
curezza, ne conviene fuggir di nuovo! Io mi credeva questa notte ripo
sare delle passate notti, chè abbiamo sempre dormito sopra la terra
da poi che ci partimmo d'Asti. »
Tutta la famiglia perseguitata montò dunque di nuovo in barca. Pas
sata Genova durante la notte, andarono a dormire in una chiesa.
Fatta l'alba, Francesco travestito a modo di romeo entrò con la sua
donna pur travestita in Genova, e con alquanti famigli camuffati an
ch'essi da romei si rifugiò in una taverna, poi andò a Capoano ove
trovò l'amico Donati. Insieme col famiglio del Doge passò per mezzo
a Genova e, montato coi suoi in un legno, andò per l'alto mare verso
Porto Venere, poi verso Montrone: quivi dette licenza al famiglio, lar
gamente ricompensandolo e incaricandolo di ringraziare il Doge in
SU1O IOIO6,
(1280)
sero ad entusiasmo alcuni Europei che visitarono una volta quel paese,
il quale era di difficile accesso, quanto è ancora il centro dell'Africa. I
Ragiaputi hanno fattezze fiere, espressive, di grande bellezza ed apparte
nenti completamente alla fisonomia ariana. Le donne sono alte, ben fatte
e talvolta bellissime: quelle dei nobili vivono rinchiuse nel genanah o
gineceo; le altre sono libere ed escono a faccia scoperta. Portano un
costume graziosissimo e, come le donne di tutte le razze dell'India,
sfoggiano una quantità prodigiosa d'ornamenti d'oro e d'argento: sono
molto stimate ed influenti. I costumi di quei paesi ricordano i tempi
della cavalleria in Europa. Ancora oggi una donna ragiaputa ch'abbia
un insulto da vendicare, manda un braccialetto al guerriero che scelse
per difenderla, e questo semplice segno l'obbliga ad abbracciare la
causa della donna. La storia del Ragiaputan abbonda di tratti d'eroi
smo da parte delle donne del paese.
Una delle città ragiapute più famose nella storia della lotta contro
i Mongoli, è Sciattore, ora in gran parte rovinata, ma in cui tuttavia si
ammirano maravigliosi monumenti di architettura, che attestano il suo
antico splendore. Nel 1280 Dehli era caduta in mano degli invasori,
ma Scittore tuttavia resisteva e i Mongoli non aveano ancora potuto
mettervi il piede.
Vi regnava il giovane re Lakumsi, il cui zio e reggente, durante la
sua minorità, il principe Bimsi, aveva sposata la figlia di un nobile
di Ceylan, Pudmani, donna di maravigliosa bellezza e di magnanimi
spiriti, ancora celebrata nelle canzoni popolari del paese.
L'Imperatore mongolo Ala-Udin, avendo udito vantare le grazie di
Pudmani, era venuto a porre l'assedio a Scittore con la sola intenzione
d'impadronirsi di lei; ma tutti i suoi sforzi furono vani. « Come av
vien che per fama non s'innamori », il Mongolo era invaghito della
bellissima ragiaputni; e prima di levar l'assedio, chiese almeno che gli
fosse permesso di contemplarne le sembianze. La sua richiesta fu bene
accolta, ed egli potè (« oh gran bontà dei cavalieri antiqui ! ») entrare
sicuramente in Scittore sotto la fede dei Ragiaputi, e soddisfare il suo
desiderio di vedere la vaghissima donna. Bimsi non volendo mostrare
minor fiducia del Mongolo, l'accompagnò fuori delle palizzate; ma Ala
Udin gli avea teso un'imboscata: un drappello scelto di Mongoli si gettò
sopra l'imprudente principe ragiaputo e, fattolo prigioniero, lo con
dusse al campo musulmano.
Il giorno dopo il Mongolo sleale dichiarò che non avrebbe restituito
la sua preda, che quando gli fosse consegnata in cambio la principessa.
Pudmani non esitò,ed annunciò a tutti la sua intenzione di darsi nelle
mani del sultano; ma riuni in consiglio i suoi parenti e loro sottopose
il progetto che aveva concepito per salvare il suo sposo e tornare ella
stessa in Scittore senza essere insozzata dalle carezze del sultano dei
Mongoli.
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 359
---tect c--
LI
RICCARDO DI NORMANDIA
(952)
ADELAIDE DI BORGOGNA
(951)
il frutto dei suoi amori. Quella nobile e forte anima doveva essere pro
vata dalla sventura per arrivare alla grandezza per cui ella rimase un
modello alle donne delle più tarde età.
A guisa di fulmine, la morte ruppe la felicità dei due giovani sposi.
Dovette parere un terribile sogno alla povera Adelaide, dopo di avere,
appena un'ora prima, lasciato il suo Lotario sano e fiorente assiso a
festivo banchetto e circondato dai suoi commensali, di esser chiamata
al suo letto di morte, ov'egli non potè, prima di spegnersi, far altro che
pronunciare con pieno affetto il nome di lei e stringerle la mano per
per dare un eterno addio alla sua sposa diletta.
Ma non Adelaide soltanto, tutta Milano fu sbigottita da questa
morte inaspettata. Il bello e buon Lotario era molto amato. e la sua
spoglia fu accompagnata alla tomba con sincero dolore per la tragica
sorte del giovane sventurato e della sua vedova sposa.
Appena cessati i funebri rintocchi delle campane alle esequie di Lota
rio, si dovette nominare un nuovo re. L'astuto Berengario seppe approfit
tare dello spavento generale e della mobilità del popolo. Seppe capacitarlo
che, in tempi cosi gravi come quelli, non si poteva affidare lo scettro
reale ad una debole mano di donna. Siccome, anche durante la vita di
Lotario, egli era stato il vero signore del paese, ottenne l'adesione
del popolo, perchè, malgrado i diritti della regina vedova, si ponesse
la corona d' Italia sul capo di suo figlio Adalberto.
Ci furono però taluni a cui quella elezione non piacque, e strane
voci corsero quà e là per il popolo. Ma Berengario seppe dominarle,
e farle tacere; atterri gli uni, seppe guadagnarsi il favore degli altri
colla sua energia. In questo modo gli venne fatto che il giorno ch'era
cominciato con lamenti e canti funebri, finisse con grida di gioia; e la
tomba di Lotario fu il gradino per cui, in grazia a un delitto, altri si
assise sul trono d'Italia.
II.
La luna spandeva gli argentei suoi raggi sul tetto della magione
reale per cui era passata la morte, producendo un così spaventevole
cambiamento di cose. La giovine vedovella sedeva nella sua camera
solitaria, appoggiando la bella testa a una mano, cogli occhi aperti e
fissi dinanzi a se.
Dietro un cortinaggio giaceva la piccola Emma, la sua bella figliuo
lina, dormendo tranquillamente nel suo letto. Ma neppur quella cara
vista, neppure la fanciullina che quietamente respirava, nulla potea
togliere la dolente madre alla sua tristezza e porle dinanzi serene
FUGHE ED EVASIONI CELEBRI 365
imagini. Ella aveva allontanato tutti i suoi servi, voleva star sola per
meditare. Ella aveva veduto portar via il cadavere del suo giovane sposo,
aveva sentito romoreggiare intorno a lei tutte le pompe di un regio
funerale, come un sogno da cui a fatica poteva destarsi.
Non era solamente il dolore per la perdita del diletto compagno
della sua gioventù, del padre della figlia sua, che l'aveva cosi profon
damente scossa. Ella avrebbe potuto consolarsi colla fede, gettando uno
sguardo a quell'esistenza felice che oltre la tomba attendeva il suo
Lotario. Ma un non so che di tenebroso e d'ignoto l'angustiava, a guisa
di spettro ch'entra a passi leggeri, e si avvolge intorno; era il sospetto
che aveva concepito al letto di morte di suo marito, ch'egli fosse morto
avvelenato. Si sentiva sola nel mondo, ella cosi giovane, così tenera.
Come in un tratto avrebbe potuto trovare la forza di guardare tran
quilla nell'oscuro abisso della vita che le appariva dinanzi?
Il silenzio della sua stanza diventava sempre più cupo, e qnasi
con gioia senti nell'anticamera dei passi a lei noti. La porta si aperse
ed apparve un uomo vestito da monaco. Era il cappellano di casa della
giovane principessa, chiamato fra Martino, che nella sua fanciullezza
le aveva insegnato la santa parola di Dio e poscia era divenuto suo
confessore ed il suo più fedele servo ed amico. Era un uomo semplice,
di carattere leale, di quelli che fanno così poco romore nella vita
che appena si osservano. Nei giorni della prosperità sono messi da
parte, dimenticati; ma nelle avversità ponno diventare consolazione e
guida delle anime afflitte.
La faccia magra e pallida del monaco, così piena di dolcezza, che
appariva fuor della cocolla, con due occhi scuri e malinconici, parve re
care un raggio di consolazione alla giovane regina nella sua triste
solitudine. Ella gli andò incontro gridando:
- Martino, caro Martino. grazie a Dio, ti vedo finalmente.
E correndo verso di lui, come una fanciulla che cerca soccorso,
gli aperse le braccia.
- Calmatevi, nobile principessa, le rispose il monaco: mostratevi
in questi tempi difficili degna figlia del vostro eroico padre; non per
dete il coraggio, che vi difenderà ancora dall'ingiustizia e dall'iniquità.
Adelaide guardò l'amico e,» dimmi, gli rispose, che pensi? Io leggo
nel tuo volto che mi porti cattive notizie. Tu vieni dalla città: che
hai veduto o sentito? Come ha accolto il popolo la notizia di quella
terribile morte?. Mi sembra di aver udito grida di gioia. Parla... io
sono all'oscuro di tutto: dammi il modo di veder chiaro. »
Il fedele Martino guardò tristamente la giovane principessa. » Non
vi siete ingannata, le disse, il popolo è passato rapidamente dai la
menti al giubilo. Berengario, per volontà del popolo, ha posto la co
rona d'Italia sull'indegno capo di Adalberto. »
Adelaide si scosse come avesse toccato un serpente.
366 ADELAlDE DI BORGOGNA
III.
IV.
Adelaide aveva passato il primo tempo del suo lutto in una pro
fonda solitudine e riavuto in questo modo il riposo e la forze
della sua nobile anima. Villa non l'avea giudicata male: ella agognava
al potere. Sentiva ch'era nata non per servire, ma per dominare: che Dio
le avea dato bellezza, spirito e forza di carattere per acquistare il regno,
e compire grandi cose. Amava la sua bella patria con tutte le forze di
un caldo e nobile cuore, e si attristava per la decadenza a cui deboli
signori e tristi tiranni l'aveano condotta. Essa aveva diritto alla corona
d'Italia non solamente per il suo matrimonio, ma anche per la sua na
scita; imperocchè suo padre, il prode Rodolfo di Borgogna aveva go
avete rapito e che non accetterò mai come un dono dalle vostre mani.
Volete che io diventi consorte di vostro figlio. Io non potrei vivere
nella casa del peccato e del vizio. Ecco la mia risposta. La notte e il
giorno potranno stare insieme piuttosto che questo connubio si compia.
Voi avete tolto ciò che non vi apparteneva: è scritto nel libro di Dio
il delitto che avete commesso per ottener questo fine.
La voce della principessa era divenuta sempre più ardita e quelli
che la circondavano erano stupiti delle sue parole. Berengario le sentì
penetrare come una spada tagliente, sentì che non gli rimaneva altra
scelta che una lotta mortale con quella donna.
– Voi avete pronunciato ardite parole, rispose irosamente. Avete
voi pensato a chi erano dirette? Sapete voi che io sono il padrone del
l'Italia e che la vostra vita e la vostra libertà sono nelle mie mani?
Avete dimenticato che io ho punito il vostro indegno suocero e liberato
il popolo dalla sua tirannide?. Ricordatevi, bella regina, soggiunse
frenandosi e moderando la sua voce, che in questo momento avete so
lamente una scelta da fare. Io vi ho mostrato la via della pace; se
guitela e tutto sarà dimenticato e perdonato. Ma se non accettate le
mie offerte, io saprò punire il vostro orgoglio, spezzarlo come fragile
C3II3,
VI,
Adelaide contava molti amici tra i migliori del paese, i quali ave
vano fedelmente conservato la memoria del suo magnanimo padre e
riconoscevano il duritto dei discendenti del re di Borgogna alla corona
d'Italia. Ma Berengario aveva guadagnato la maggioranza del popolo
coll'astuzia e colla gza, sapeva adescarlo con feste e divertimenti,
372 ADELAIDE DI BORGOGNA
VII.
Fra gli amici di Adelaide ve n'era uno solo, che non credeva che
ella fosse morta: era fra Martino. Egli conosceva la perfidia dei ne
mici di lei, e comprendeva che il loro scopo era di farla dimenticare.
Non aveva altro pensiero che di cercarla, anche se avesse dovuto an
dare sino in capo al mondo: non c'erano ostacoli per la sua fedeltà.
Egli sapeva che la piccola Emma era al sicuro. Cominciò, secondo il
costume di quei tempi, a viaggiare di luogo in luogo, pregando e pre
dicando. Non portava bagagli seco; non aveva che il suo bastone di
pellegrino e il suo breviario in mano, e si contentava di quello che
gli davano i suoi uditori.
Intanto raccoglieva d'ogni parte informazioni, visitava ogni castello,
ogni torre, ogni muraglia, a somiglianza del cane fedele che fruga e
fiuta per tutto cercando il suo padrone. Aveva la prudenza di non pro
nunciar mai il nome della sua diletta regina. Dovunque si recava, era
bene accolto e ben trattato. Sentiva di tanto in tanto dei discorsi che
lo consolavano: la povera Adelaide era compianta dal popolo e si ma
lediceva alla tirannia di Berengario.
Si trovava una volta in un villaggio chiamato Garda, che diede ap
punto il suo nome al famoso lago. Andava, secondo il suo costume, gi
rando e osservando. Non c'erano in quel tempo le splendide ville e i bei
giardini che adesso abbelliscono quelle rive, ma la natura era in quei
luoghi come adesso, incantevole. Era nel mese di Maggio; gli effluvi
dell'erbe e dei fiori imbalsamavano l'aria. Quanto più ammirabile era
la bellezza della natura intorno al buon Martino, tanto più tristi erano
i suoi pensieri, tutti rivolti ad un solo oggetto.
A un tratto scorse un castello con un'altissima torre che sorgeva
sulla riva solitaria. Era circondato da rupi scoscese e da una fitta bo
scaglia. Martino, il quale vedeva dietro ad ogni muro l'imagine della
sua regina prigioniera, si sentì commosso. Il cuore gli batteva, men
tre egli avvicinavasi a quel forte e lo considerava da tutte le parti.
Tutto era silenzio, come se nessun mortale abitasse fra quelle rustiche
0Ulr8,
Alla fin fine stanco, dopo aver lungo tempo girato, sedette a piedi
della torre sopra un macigno e si abbandonò ai suoi melanconici pen
sieri. Il sole tramontava e gettava una luce rossastra su quelle grosse
muraglie, che colle loro piccole finestre alte e sbarrate rassomigliavano
ad una prigione.
A un tratto senti una voce e senti cadersi ai piedi un oggetto che
37 ADELAIDE DI BORGOGNA
egli raccolse: era un libro. Tutto rientrò nel silenzio. Qual fu la sua
maraviglia, quando riconobbe il libro dei salmi che aveva scritto egli
stesso e che aveva quella sera, dopo la morte di Lotario, donato alla
povera Adelaide! Teneva con mani tremanti il caro libro; credeva di
scorgere sopra di esso le traccie delle lagrime della sua diletta regina.
Osservava ch'erano sottolineate queste parole del salmista. « Io veglio
e sono come un uccello solitario sul tetto. I miei nemici m'insultano,
mi beffano. Io mangio la cenere come pane, e le lagrime sono miste
alla mia bevanda ».
Anche le lagrime di Martino caddero su quelle parole. «O mia po
vera regina, sclamò, quanto hai sofferto e quanto soffri anche in
questo momento, mentre il tuo servo fedele ti è vicino e non può pe
netrare nel tuo carcere !
Per timore di essere scoperto, Martino si addentrò nel bosco, e cre
dette di non dover fare quel giorno altre ricerche. Tornato alla sua dimora,
il giorno dopo egli prese informazioni rispetto agli abitanti del soli
tario castello sulla riva del lago. Gli fu detto che apparteneva a Beren
gario; che questi e sua moglie lo visitavano di tanto in tanto; che or
dinariamente era abbandonato e che ci abitavano solamente i cu
stodi, che nella torre erano incarcerati dei grandi colpevoli. Non si
sapeva nulla di Adelaide. -
VIII,
laide. La buona Annina una volta si era confidata con Fra Martino,
il quale era riuscito a farne un'alleata, ed ambedue si adoperavano
in secreto per far fuggire Adelaide.
Nottetempo, quando tutti dormivano, fra Martino armato di una
zappa, entrava nella macchia che copriva il muro, e lavorava come una
talpa, tutta la notte, per scavare un cunicolo per cui la sua signora
potesse fuggire.
Siccome Martino poteva lavorare solamente nelle notti oscure e
verso il mattino dovea far sparire tutte le traccie del suo lavoro, così
passò un certo tempo prima ch'egli potesse compire l'opera sua.
Berengario era un giorno venuto improvvisamente al castello accom
pagnato da suo figlio, per poter esaminare egli stesso lo stato di salute
e le intenzioni della prigioniera. Con gran maraviglia la trovò comple
tamente ristabilita dalla sua malattia, e negli abboccamenti ch'ebbe
con lei indarno procacciò di persuaderla ad acconsentire a' suoi dise
gni. Ella fu più che mai ferma ne' suoi rifiuti, ed egli l'avea lasciata
furioso, dopo di averle fatte nuove e terribili minaccie. -
Scorto il monaco che alla solita ora era venuto a far la preghiera
con lei, guardandolo biecamente, gli disse: le vostre preghiere hanno
prodotto uno strano frutto. Invece d'indurre la vostra penitente ad
umiliarsi e ad obbedire, l'hanno resa ancor più altera ed ostinata.
– Non è in mia mano, rispose Martino tranquillamente e seria
mente, di piegar l'animo degli uomini ad obbedire ai potenti della
terra. Io insegno loro solamente a conoscere la volontà del Signore
che regna nei cieli. Io ho esortato la povera prigioniera ad essere umile,
paziente, costante nelle sue avversità, ed ho trovato ch'ella è divenuta
un vero modello di queste virtù e, per quanto è possibile a una de
bole mortale, un angelo in veste umana ».
- Ora compite l'opera vostra, soggiunse ironicamente Berengario.
E vostro ufficio di preparare alla morte l'eroina che avete educato, in
caso che domattina ella non abbia fatto senno.
Martino fu spaventato da queste parole del tiranno: ma ringraziò
Iddio in secreto, che il cunicolo fosse già finito e che gli fosse data
ancora una notte, per approfittarne a salvare la sua regina. Intanto Be
rengario mandò il monaco a visitarla e parti per la caccia in compa
gnia di Adalberto e di altri.
Martino trovò Adelaide molto commossa, ma coraggiosa e magna
nima come sempre. Egli doveva per ordine di Berengario prepararla
alla possibilità di una morte violenta. Non sapeva di certo se i suoi
sforzi per salvar la principessa avrebbero un esito felice, e stendendo le
mani sul capo della sventurata la esortò a mettere la sua vita nelle
mani di Dio.
Il monaco dette poscia ad Annina il segnale da lungo tempo con
venuto per la fuga in quell'istessa notte. Ella era decisa a non sepa
378 ADELAIDE DI BORGOGNA
IX.
EBA E SESABUTO
(712).
Fr3:
LIV
MAOMETTO
(622).
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ATTALO
(650)
CATILINA
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ILVII
MI A RIO
DEMETRIO SOTERO
E GES IS TR A TO
A RIST O MI ENE
(Verso l'anno 684 av. Cristo)
FINE
IN D I CE