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Il presente libro “Storia della fisica e del pensiero scientifico” può essere copiato,
fotocopiato, a patto che il presente avviso non venga alterato, e che la proprietà del
documento rimanga di Vincenzo Pappalardo. Il presente documento è pubblicato sul
sito: www.liceoweb.webnode.it
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Ai tre quarks:
Gina, Raffaella e Pietro,
fondamenta del mio universo.
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6 Prefazione
8 Introduzione
92 CAPITOLO 4 - IL MEDIOEVO
La profonda crisi della civiltà occidentale - Il salvataggio dell’antica sapienza e la
riscoperta del passato – La scienza araba - Il pensiero scolastico - Declino dell’influenza
di Aristotele – La ricerca scientifica medievale
663 Conclusioni
665 Appendice: Biografie - Il Processo a Galileo Galilei - Il Progetto Manhattan
727 Bibliografia
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sempre nuovi di ripensare il mondo. La forza del pensiero scientifico non consiste nelle
certezze raggiunte, anzi è nella sua continua ribellione al sapere del presente e a tutte
quelle certezze che appaiono ovvie. La ricerca della conoscenza non si nutre di
ciò che non sappiamo e dalla messa in discussione di ciò che crediamo di sapere. La
natura del pensiero scientifico è critica, ribelle, insofferente a ogni concezione a priori,
momento della storia, la descrizione del mondo che abbiamo è la migliore. Le risposte
scientifiche non sono mai definitive, sono semplicemente le migliori risposte di cui
disponiamo. La credibilità della scienza poggia sulla certezza che nulla è definitivo.
La scienza, però, in quanto elemento di civiltà, non sta isolata dagli altri aspetti
della cultura e come tale è connessa col modo di vivere e di pensare, con i rapporti
natura.
umano, dei continui cambiamenti delle visioni del mondo, dalle prime civiltà, in
particolare quella greca, con i vari filosofi come Anassimandro, Platone, Aristotele e
Copernico, Galileo e Newton fino alla rivoluzione relativistica con Einstein e a quella
proporre nuove tesi rispetto a quelle esposte da autorevoli studiosi di storia della fisica,
di filosofi della scienza e del pensiero scientifico in generale. Anzi, interi passi di questo
libro sono stati tratti dalle opere riportate nella bibliografia. Se un merito deve avere
questo libro è quello di rappresentare una sintesi di storia della fisica sullo sfondo della
filosofia della scienza, al fine di offrire a tutti coloro che si avvicinano allo studio della
fisica, uno strumento per indagare sul faticoso cammino delle idee per giungere alla
momento storico. In più, vuole sfatare il mito che le teorie scientifiche siano il frutto del
anzi di secoli di avventura del pensiero umano, che trovano il loro compimento, l’atto
Einstein
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principi. Per la mentalità del cittadino ateniese o romano questo era un compito
riservato agli schiavi ed agli artefici di bassa estrazione sociale. E nessuno spirito nobile
brama d'essere Fidia o Policleto, poiché propria dell'uomo liberale è la contemplazione
delle idee, non l'osservazione dei fatti, ne l'utilità dei risultati.
In un ambito intermedio, la scienza, nel prescindere dalla conoscenza ontica e dai
principi in sé stessi intelligibili, cerca d'inquadrare i dati fenomenici osservati in leggi
sempre più generali, le quali servano a prevedere nuovi fatti fenomenici. Il criterio
filosofico di verità è sostituito dal criterio scientifico. Quello stabilisce la verità di una
proposizione, se la si può logicamente dedurre partendo da alcuni principi in se stessi
intelligibili. Il criterio scientifico, invece, afferma che un'ipotesi o una teoria è credibile
se da essa si deducono risultati comprovati dalla verifica sperimentale o
dall'osservazione.
Come già san Tommaso aveva giustamente osservato, il criterio scientifico di
verità è relativo, poiché la verifica sperimentale non assicura la verità della teoria.
Accade talvolta che una nuova teoria spieghi ugualmente bene, o addirittura meglio, i
fenomeni osservati. Le teorie scientifiche sono, infatti, sostituite costantemente da altre
nuove. Così avvenne con le teorie intese a spiegare il moto degli astri: dalla teoria delle
sfere celesti dei pitagorici si pervenne a quella tolemaica degli epicicli; quindi
all'eliocentrismo circolare di Copernico e, infine, alle orbite ellittiche di Keplero.
A distinguere la filosofia dalla scienza non è soltanto la finalità. Anche il
rispettivo metodo è differente. Punto di partenza della filosofia è la ragione, la quale
fissa i principi intelligibili, in accordo con il senso comune e con l'esperienza volgare, in
alcuni casi, o anche prescindendo assolutamente dall'esperienza, in altri. La fiducia
nella ragione come fonte di conoscenza superiore ed anche indipendente dall'esperienza
è retaggio di Parmenide, per il quale il pensiero e l'essere sono un'unica cosa. Per
questo, Aristotele stabilisce il principio, fondamentale per il suo sistema, secondo cui
tutto ciò che si muove, è mosso da altro. E lo stabilisce come deduzione razionale dal
fatto che, quando cessa la causa, cessa anche l’effetto. Così, infatti, gl'insegna
l'esperienza comune: un oggetto cessa di muoversi quando cessa l'atto di spingerlo. E
Zenone non può fare a meno di negare l'esperienza stessa del moto, poiché la ragione
non sa risolvere l'aporia della divisibilità infinita della traiettoria da percorrere.
Un testo di Aristotele riassume perfettamente questo metodo deduttivo, o
discendente, che va dall'universale al particolare: “Chi preferisce il puro conoscere,
sceglierà massimamente quella che è scienza al massimo grado, e tale è, appunto, la
scienza di ciò che è conoscibile nel grado più alto; e sono conoscibili nel grado più alto i
primi principi e le cause, giacché mediante questi e in base a questi sono conosciute le
altre cose, e non questi sono conosciuti mediante le cose che da essi dipendono “.
Aristotele, utilizzando esclusivamente il metodo deduttivo costruì quel modello
complesso e articolato della natura, ma in gran parte sbagliato, che influenzerà il
pensiero scientifico per circa duemila anni.
Spetterà a Galileo Galilei, attraverso il metodo induttivo (o meglio ancora
attraverso le sensate esperienze e le dimostrazioni matematiche) ribaltare il metodo di
indagine della natura e quindi distruggere l'intero edificio del sapere costruito dai
filosofi greci nell'antichità, metodo che ispirerà Newton a formulare le leggi della
dinamica, Maxwell a realizzare la prima grande unificazione della fisica con
l’elettromagnetismo, Einstein a rivedere i concetti di spazio e di tempo e gli interpreti
della meccanica quantistica a descrivere il mondo microscopico con leggi nuove e in
conflitto con il senso comune. La scienza moderna, da Galileo in poi, segue quindi un
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impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondar sulla propria vittoria un
durevole possesso”.
Agli inizi del secolo XX gli scienziati cominciano a distanziarsi dalla visione
meccanicistica newtoniana dell'universo in conseguenza di certi fenomeni che
avvengono nel mondo dell'estremamente piccolo (l'atomo) e dell'estremamente grande
(le galassie), e che non trovano una spiegazione congrua nella meccanica classica, dando
vita, così, alle due grandi e rivoluzionarie teorie del Novecento: la relatività e la
meccanica quantistica. Sorvolando sui contenuti specifici di tali teorie, che saranno
approfonditi nel corso del libro, ci limiteremo a menzionare quegli aspetti concettuali e
logici che hanno avuto un carattere autenticamente rivoluzionario sotto diversi punti di
vista, dal momento che non riguardavano più l'impossibilità di "visualizzare" il mondo
fisico, ma addirittura quello di pensarlo impiegando le categorie che il senso comune
utilizza per intendere il mondo e che, in particolare, sono state precisate ed elaborate in
seno alla tradizione filosofica dell'Occidente. Si pensi, per esempio, al fatto di dover
conciliare continuità e discontinuità nell'interpretazione del mondo microfisico, alla
dualità della rappresentazione corpuscolare e ondulatoria delle particelle elementari,
all'indeterminatezza di principio nell'attribuzione simultanea di valori a grandezze
coniugate a livello microfisico, alla necessità di considerare la massa e le dimensioni
spaziali di un corpo non più come le sue proprietà più inalterabili e intrinseche, ma
come variabili in funzione della sua velocità, per non parlare delle interdipendenze fra
due entità concettualmente tanto distinte come lo spazio e il tempo e, per finire, della
conversione da una concezione deterministica a una probabilistica delle leggi naturali,
con la correlata riconsiderazione del principio di causalità.
Daremo ora solo qualche breve cenno per mostrare come queste difficoltà siano
venute dipanandosi e connettendosi l'una all'altra in modo irresistibile. Per il senso
comune e per la fisica classica il concetto di simultaneità di due eventi ha un valore
assoluto (essi sono tali se hanno luogo nel medesimo istante temporale). Einstein ha
però chiarito che questo concetto ha un reale significato fisico solo se possiamo
precisare come stabilire tale simultaneità, e la sua analisi ha condotto a riconoscere che
essa dipende dal sistema di riferimento e può risultare sussistente o non sussistente a
seconda del moto relativo dei sistemi di riferimento. Tale simultaneità intrinseca ai due
eventi può essere affermata dal senso comune solo con riferimento implicito a un tempo
assoluto, ma questo è stato eliminato dalla teoria della relatività, la quale ha anche
operato un mutamento più radicale, mostrando che spazio e tempo sono
interdipendenti, per non accennare ad altre peculiarità, come i concetti di spazio a
quattro dimensioni o di spazio curvo.
Passiamo ora ad altre proprietà che il senso comune considera come intrinseche e
invariabili per un dato corpo, come la massa e la lunghezza di un corpo rigido. La
relatività mostra che esse dipendono dalla velocità di traslazione di quel corpo la quale,
a sua volta, è relativa ai sistemi di riferimento. Per di più la massa può convertirsi in
energia e viceversa, cosicché la vecchia legge di conservazione della massa deve esser
riformulata in una più complessa formula di conservazione dell'energia (o della massa-
energia). Si noti che, anche così, la vecchia concezione dell'uniformità della natura,
espressa dalle leggi fisiche, non è stata abbandonata, poiché la teoria della relatività è
un grande sforzo per trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante
rispetto alla relatività delle misure possibili nei diversi sistemi di riferimento.
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Passando alla fisica quantistica, basti ricordare che essa pone un limite teorico (e
non solo pratico) alla possibilità di determinazione esatta e simultanea delle grandezze
coniugate di un sistema microfisico (come, per esempio, posizione e velocità di una
particella), secondo quanto stabilito nelle relazioni di indeterminazione di Heisenberg e
ciò si riflette anche sulla possibilità di precisione esatta consentita dalle leggi fisiche (che
assume un carattere soltanto statistico). Tutto ciò è anche conseguenza del fatto che nei
procedimenti di misura si deve realizzare una preparazione che rende impossibile una
netta separazione fra osservatore (o apparecchio di misura) e oggetto osservato,
togliendo una delle caratteristiche più spontanee che il senso comune (e la fisica
tradizionale) sottendevano per una conoscenza oggettiva del mondo. Finalmente,
perfino le due visioni rivali (corpuscolare e ondulatoria) sono obbligate a convivere,
non già in campi separati della fisica, come accadeva in precedenza, ma nella
descrizione del comportamento di una medesima entità, secondo il cosiddetto principio
di complementarietà enunciato da Bohr.
Possiamo fermarci qui e chiederci come mai gli scienziati accettino teorie tanto
strane per il senso comune e gli stessi intelletti delle persone colte. La risposta è che esse
non solo hanno ricevuto molte conferme sperimentali inoppugnabili e permesso
applicazioni tecnologiche di grande rilievo, ma anche che relatività e fisica quantistica
non hanno incontrato una sola smentita sperimentale e debbono esser considerate come
verificate ancor più di quanto lo fosse, nel suo campo, la fisica classica. Proprio queste
conferme sperimentali e queste riuscite applicazioni tecnologiche costituiscono un certo
ritorno verso il senso comune, anche se sono venute meno quasi tutte le possibilità di
rappresentazione di senso comune di cui godeva abbastanza ampiamente la vecchia
fisica e che, ben inteso, possono esser tentate con strumenti più complessi anche per la
nuova fisica.
Questi fatti ben noti hanno alimentato, sin dai primi decenni del Novecento,
dibattiti filosofici vasti e approfonditi sulla fisica, in cui sono intervenuti i maggiori
scienziati del tempo, ma anche filosofi forniti di una sufficiente competenza scientifica;
dibattiti che hanno riguardato temi di filosofia della conoscenza, di ontologia e
metafisica, di filosofia della natura, di metodologia delle scienze e nei quali sono emerse
le più diverse posizioni. Tutto ciò sta a confermare che una filosofia della fisica si
sviluppò robustamente a partire dalla crisi dei fondamenti della fisica, non meno di
quanto i dibattiti sui fondamenti della matematica e i risultati inattesi delle ricerche di
logica matematica abbiano innervato una filosofia della matematica. Entrambe poi
hanno contribuito notevolmente alla costituzione della filosofia della scienza come
nuova branca ormai specializzata della filosofia.
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Einstein
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1.2 Le cosmogonie
inondate dal fertile limo del Nilo erano promesse di nuova vita per un nuovo anno
agricolo.
Presso i Babilonesi la creazione di un universo ordinato venne attribuita alla
vittoria di Marduk, il dio babilonese per eccellenza, su Tiamat, la divinità del caos.
Ancora una volta all'origine della creazione troviamo, come nella Teogonia di Esiodo,
una battaglia titanica tra forze divine opposte, un dramma cosmico tra il caos e
l'intelligenza ordinatrice. In questo mito si cela, forse, la lotta dell'uomo primitivo
contro le periodiche inondazioni della Mesopotamia, interpretata come conflitto
primordiale tra le forze del caos e quelle dell'ordine che producono la vita.
Contemporaneamente alle
credenze religiose politeistiche del
resto del bacino mediterraneo si
sviluppò nel popolo ebraico,
soprattutto per merito di Mosè,
una fede intransigentemente
monoteistica.
Secondo la cosmogonia
ebraica dio è creatore di tutte le
cose, ed il mondo che può apparire
ingiusto e malvagio ha in realtà
una sua profonda moralità e tende
ad un alto fine religioso.
La situazione nella vicina civiltà dell’Egitto era comparabile con quella del
bacino mesopotamico. Nonostante le colossali costruzioni di tombe e monumenti, come
le piramidi, la geometria egiziana era molto elementare, ed al pari di quella babilonese,
aveva uno scopo prettamente pratico e non teorico. Il sistema numerico egiziano era più
rudimentale di quello babilonese, e i metodi di calcolo davvero elementari.
Diversamente dai babilonesi, gli egizi mostrarono uno scarso interesse per gli eventi
astronomici anche se usarono calendari lunari e solari e potrebbero aver comparato i
due al fine di determinare l’errore in lunghi cicli di tempo.
Anche se alcune fondamentali nozioni scientifiche, come la concatenazione di
causa ed effetto, furono conquista già della tecnica più primitiva, e nonostante l’uso
magistrale delle più sofisticate tecniche, sia gli egizi che i babilonesi mancarono di
curiosità nel comprendere perché queste tecniche funzionassero. In nessuna fase
cominciarono a speculare sulla natura, a costruire un sistema di pensiero, e cercarono
per i più appariscenti fenomeni, come il moto delle stelle o dei pianeti, le fasi della luna
o le eclissi, spiegazioni mitologiche. La civiltà mesopotamica ed egiziana influenzarono
i greci, loro successori, tecnicamente ma non concettualmente.
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Dante
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I Greci, e primi fra essi gli ionici dell’Asia Minore, oltre a una vastità di dati
empirici, soprattutto astronomici, ereditarono il furore matematico dei popoli
mesopotamici e la tecnica geometrica degli egiziani. L’eredità venne accolta da spiriti
nuovi che tendevano al raziocinio più che all’osservazione minuta, alla speculazione
filosofica sull’origine e sui principi di tutte le cose più che al semplice computo. È vero
che le convinzioni religiose che avevano animato l’indagine scientifica nell’Oriente non
vennero meno neanche durante il periodo della fioritura della scienza greca, solo che
adesso sorgono degli accesi contrasti di idee le cui conseguenze risulteranno
fondamentali per lo sviluppo della scienza nel mondo occidentale.
La scienza dei Greci che si venne delineando attraverso un lento e faticoso
processo di ricerca tra i secoli VI e V a.C., non si deve intendere come separata dalla
filosofia né dalle tecniche, che proprio in quei secoli acquistavano grande importanza. Il
termine greco téchne (tecnica), infatti, comprendeva fra i suoi significati non solo quello
di arte della manipolazione del mondo fisico, ma anche della sua conoscenza (scienza,
nel nostro linguaggio odierno). Inoltre, l'arte o téchne era vista in funzione dell'utilità e
del beneficio che poteva assicurare all'uomo. Nel concetto greco di téchne sono, dunque,
contenute sia l'idea della conoscenza o epistème che quella dell'abilità pratica nella
produzione di un oggetto.
Nella società greca arcaica, almeno fino a Platone, il sapere non si presenta
parcellizzato in tanti compartimenti stagni; pertanto, colui che aveva conoscenza
profonda delle cose, padroneggiava contemporaneamente anche l'arte del fare, era cioè
esperto nell'utilizzo tecnico di esse. Significativo, a tal proposito, il seguente aneddoto
che Aristotele ci tramanda su Talete e che evidenzia la stretta interazione tra
conoscenza, téchne e utilità per l'uomo. Si diceva - ci riferisce Aristotele - che la gente
rinfacciasse a Talete l'inutilità del suo sapere, dal momento che egli era povero. Ma
Talete, avendo previsto, in base ai suoi calcoli astronomici, un abbondante raccolto di
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olive, ancora in pieno inverno si accaparrò tutti i frantoi di Mileto e di Chio, pagandoli a
prezzo irrisorio, dal momento che non ce n'era richiesta alcuna. Quando giunse il tempo
della raccolta, poiché erano molti a ricercare i frantoi, egli li noleggiò al prezzo che volle
e così, ricavatene molte ricchezze, dimostrò che per i sapienti era facile arricchirsi, anche
se non era questo il loro obiettivo. L'aneddoto mette in risalto come la scienza, lungi
dall'essere inutile, poteva essere fonte di arricchimento, anche se non a questo badavano
principalmente i primi filosofi.
Lo sforzo di descrizione, di
coordinazione, di spiegazione e
di previsione dei fenomeni
naturali, primo nucleo attorno al
quale nel corso dei secoli si
formerà la fisica (dal greco
physis=natura), cominciò dunque
in Grecia nel VI secolo a.C.,
favorito dall’ambiente politico-
sociale-culturale e da un
linguaggio già affinato da una
lunga tradizione letteraria. Però
quando si parla della Grecia
antica, non dobbiamo pensare
soltanto alla penisola che
costituisce oggi lo stato greco, bensì a tutto il bacino del Mar Egeo e dello Ionio,
comprendente da un lato le coste dell’Asia Minore, e dall’altro quelle della Sicilia e
dell’Italia Meridionale, colonizzate dai Greci.
L’evoluzione della scienza greca si suole dividere in quattro periodi:
1. l’età ellenica (dal 600 al 300 a.C.), che corrisponde allo sviluppo libero delle città
greche;
2. l’età ellenistica (dal 300 all’inizio dell’era volgare), che riguarda l’ellenizzazione
di tutto il mondo orientale;
3. l’età greco-romana, che occupa i primi tre secoli dell’era volgare;
4. il periodo dei commentatori o della decadenza (dal 300 al 600 d.C.), che non reca
ulteriore sviluppo scientifico, ma solo una riduzione dell’antico materiale, nella
forma di riferimenti e di notizie.
stesse della ricerca scientifica del sapere. E nasce un’idea nuova della conoscenza: la
conoscenza razionale. Questa è una conoscenza dinamica, che evolve, che è
continuamente discussa e messa alla prova. L’autorità del sapere viene soprattutto dalla
capacità di convincere gli altri della giustezza delle proprie affermazioni e non dalla
tradizione, dal potere, dalla forza o dall’appello a verità immutabili. La critica alle idee
acquisite non è temuta; al contrario, è auspicata: è la sorgente stessa del dinamismo,
della forza di questo pensiero.
Questo nuovo metodo d’indagine avvicina la scienza greca alla nostra. I Greci,
staccandosi decisamente dalle pratiche magiche e sottoponendo a severa critica ogni
ricorso alle spiegazioni mitiche dei fenomeni naturali, tracciarono per primi la via (il
metodo) della ricerca scientifica, consistente soprattutto nel congiungere l'esperienza e il
ragionamento, i dati sensibili ottenuti tramite l'attenta osservazione dei fenomeni e la
sistemazione teorica.
2.2 La physis
Aristotele chiama "fisici" e "fisiologi" i primi pensatori greci. Nel suo linguaggio,
la "fisica" (cioè la scienza studiata dai "fisici” ) ha come oggetto quella parte del Tutto
che è la realtà diveniente (sia essa realtà corporea, o biologica, o psichica), oltre la quale
esiste la realtà immutabile di Dio. La "fisica" aristotelica (e, a maggior ragione, la fisica
moderna) non è scienza del Tutto. Anche se questa interpretazione di Aristotele della
nascita della filosofia è spiegabile in relazione al modo in cui si configura la filosofia
aristotelica, tuttavia il rendersi conto che nei primi pensatori greci la cura della verità è
insieme un rivolgersi al Tutto, richiede che non si possa accettare la tesi aristotelica
secondo la quale la filosofia al suo inizio è semplicemente una "fisica". Poiché la parola
"metafisica" sarà usata, nel linguaggio filosofico successivo, per indicare il rivolgersi
della filosofia al Tutto, oltrepassando il sapere limitato al mondo fisico, è più aderente
alla situazione reale dire che i primi pensatori greci sono dei “metafisici” e anzi i primi
metafisici. Questo, qualora la parola "metafisica” (usata inizialmente da Andronico,
editore delle opere di Aristotele, nel I secolo a.C., per indicare gli scritti che,
nell'edizione, venivano "dopo" quelli destinati alla fisica) sia appunto intesa come il
rivolgersi al Tutto, andando oltre quella dimensione particolare del Tutto che è
costituita dalla realtà diveniente.
Il termine "fisica" è costruito sulla parola physis, che i latini hanno tradotto con
"natura". Se si sta alla definizione aristotelica di "fisica"—dove physis appunto è la realtà
diveniente—allora tradurre physis con “natura” è del tutto legittimo, perché nel termine
latino natura risuona innanzitutto il verbo nascor ("nasco", "sono generato"), si che la
"natura" è appunto il regno degli esseri che nascono (e quindi muoiono), ossia di ciò
che, appunto, diviene. Ma quando i primi filosofi pronunciano la parola physis, essi non
la sentono come indicante semplicemente quella parte del Tutto che è il mondo
diveniente. Anche perché è la parola stessa a mostrare un senso più originario, che sta al
fondamento di quello presente ad Aristotele. Physis è costruita sulla radice indoeuropea
bhu, che significa “essere”, e la radice bhu è strettamente legata (anche se non
esclusivamente, ma innanzitutto) alla radice bha, che significa "luce" (la parola saphes).
Nascendo, la filosofia è insieme il comparire di un nuovo linguaggio, ma questo
linguaggio nuovo parla con le parole vecchie della lingua greca e soprattutto con quelle
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che sembrano più disponibili ad essere dette in modo nuovo. Già da sola, la vecchia
parola physis significa “essere” e “luce” e cioè l’essere, nel suo illuminarsi. Quando i
primi filosofi chiamano physis ciò che essi pensano, non si rivolgono a una parte o a un
aspetto dell'essere, ma all'essere stesso, in quanto esso è il Tutto che avvolge ogni parte
e ogni aspetto; e non si rivolgono all'essere, in quanto esso si nasconde e si sottrae alla
conoscenza, ma all'essere che si illumina, che appare, si mostra e che in questa sua
luminosità è assolutamente innegabile. In questo rivolgersi alla physis, cioè al Tutto che
si mostra, la filosofia riesce a vedere il Tutto nel suo esser libero dai veli del mito, ossia
dai tratti alteranti che questo velamento conferisce al volto del Tutto. Per la filosofia,
liberare il Tutto dal mito significa che il Tutto non è ciò che resta suscitato dalla forza
inventiva del mito, bensì è ciò che da sé è capace di mostrarsi e di imporsi, proprio
perché riesce a mantenersi manifesto e presente. E il Tutto non mostra di contenere ciò
che il mito racconta (le teogonie e le vicende degli dèi e del loro rapporto con gli
uomini), bensì mostra il cielo stellato e il sole e la terra e l'aria, e l'acqua, e tante altre
cose ancora, che il filosofo si trova davanti e si propone di penetrare e comprendere. La
filosofia (la "cura per il luminoso") si presenta sin dall'inizio come il lasciar apparire
tutto ciò che è capace di rendersi manifesto e che pertanto si impone (e non è imposto
dalla fantasia mitica), ossia è verità incontrovertibile: physis.
L’affermazione di Aristotele che la scienza dei primi pensatori è una "fisica" può
essere espressa anche dicendo che tale scienza è una "cosmologia", cioè una scienza del
"cosmo". Si è già accennato che, come la parola chàos, anche la parola kòsmos ha un
significato originario che illumina il senso della presenza di tale parola nel più antico
linguaggio filosofico. Quando si intende kòsmos come "ordine" e "cosmo" (cioè mondo
ordinato, in contrapposizione al disordine del chàos), ci si trova già oltre quel significato
originario. Anche qui è la radice indoeuropea di kòsmos a dare l'indicazione più
importante. Tale radice e kens. Essa si ritrova anche nel latino censeo, che, nel suo
significato pregnante, significa "annunzio con autorità": l'annunziare qualcosa che non
può essere smentito, il dire qualcosa che si impone. Ci si avvicina al significato
originario di kòsmos, se si traduce questa parola con "ciò che annunziandosi si impone
con autorità". Anche l'annunziarsi è un modo di rendersi luminoso. Nel suo linguaggio
più antico, la filosofia indica con la parola kòsmos quello stesso che essa indica con la
parola physis: il Tutto, che nel suo apparire è la verità innegabile e indubitabile.
Si può così comprendere perché la filosofia non abbia tardato a chiamare se
stessa epistéme. Se noi traduciamo questa parola con "scienza", trascuriamo che essa
significa, alla lettera, lo "stare" (stéme) che si impone "su" (epì) tutto ciò che pretende
negare ciò che "sta": lo "stare" che è proprio del sapere innegabile e indubitabile è che
per questa sua innegabilità e indubitabilità si impone "su" ogni avversario che pretenda
negarlo o metterlo in dubbio. Il contenuto di ciò che la filosofia non tarda a chiamare
epistéme è appunto ciò che i primi pensatori (ad esempio Pitagora ed Eraclito) chiamano
kòsmos e physis.
Come la fisica moderna (ma già la "fisica" aristotelica) non ha più a che fare col
senso della physis alla quale pensano i primi filosofi—appunto perché la scienza
moderna procede dall'assunto metodico di isolare dal suo contesto quella parte della
realtà che essa intende studiare e controllare—così l'epistéme alla quale si riferisce la
moderna epistemologia non ha a che fare col senso filosofico dell'epistéme.
L’epistemologia è la riflessione critica sulla scienza moderna, ossia su quel tipo di
conoscenza che ha progressivamente rinunciato a porsi come verità incontrovertibile e
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più soltanto immaginate. In tal modo la spiegazione dei modi di apparire delle cose fu
ricercata nel che cosa esse sono, cioè nella loro natura o essenza, e nelle cause che le
pongono in essere. Venivano così poste esplicitamente a tema, accanto alle esigenze
dell'empiria, anche quelle del logos.
In questa ricerca di ragioni generali al posto di spiegazioni ad hoc escogitate caso
per caso, e di un metodo dimostrativo per stabilirle, possiamo riconoscere i tratti
distintivi che separano il sapere prescientifico da quello scientifico. Pertanto possiamo
osservare che (come già si è detto) Babilonesi ed Egizi conoscevano parecchi esempi
pratici di soluzione corretta per problemi aritmetici e geometrici, ma soltanto i Greci
hanno fornito la dimostrazione delle proprietà generali dei numeri e delle figure di cui
quegli esempi non erano che casi particolari, e con ciò fornirono anche la ragione della
loro correttezza. Dovrebbe pertanto esser chiaro in quale senso, pur riconoscendo senza
esitazione che parecchie conoscenze che oggi chiamiamo scientifiche erano state
acquisite da varie civiltà, nessuna di queste era pervenuta alla creazione della scienza in
senso vero e proprio. Questa creazione è un evento storico rivoluzionario di enorme
portata che incomincia a prodursi agli inizi della civiltà greca ma che, proprio per il
fatto di aver inaugurato una nuova forma di sapere e di pensare, è rimasto come
caratteristica costante di tutta la civiltà occidentale che a partire da essa si è sviluppata.
Un fatto di capitale importanza è che le caratteristiche indicate in precedenza
come requisiti specifici della scienza greca non emergono come risultato di un'analisi
compiuta dai posteri, e in particolare dai filosofi della scienza, bensì furono pienamente
enunciate e riconosciute proprio dai filosofi greci dell'epoca, i quali misero in risalto la
differenza che sussiste fra il semplice possesso della verità e l'autentico sapere. Non si
tratta di un'analisi di poco conto. Infatti è del tutto spontaneo identificare il sapere con il
possesso della verità, e in particolare far consistere il sapere in una collezione di
conoscenze, ossia di proposizioni vere. In sostanza la scienza è sapere pieno, in cui la
verità è affermata con l’ostensione delle sue ragioni. Tutto questo chiarisce pertanto che,
secondo il modello di conoscenza esplicitamente teorizzato dalla filosofia greca, il
sapere autentico si raggiunge solo quando, dopo aver appurato una verità, si è anche in
grado di darne la ragione, ossia di darne il perchè.
In che consiste il “dare le ragioni", il "mostrare perché"? I Greci diedero a queste
domande una risposta precisa: significa offrire una dimostrazione. Il sapere autentico è
un sapere dimostrativo, ossia argomentato e fondato in base a ragionamenti corretti. In
questa scelta si radica quel razionalismo greco che è poi rimasto il carattere distintivo,
anche se non esclusivo, dello stile intellettuale dell’Occidente. Tuttavia questa
impostazione lascia aperte, o addirittura pone, alcune domande: in che consiste una
dimostrazione? Ossia una concatenazione logica (cioè conforme alle esigenze del logos)
di ragionamenti? E in che modo può una dimostrazione garantire la verità della
conclusione di tale catena? Una dimostrazione o ragionamento corretto, consiste in una
concatenazione di proposizioni nella quale la verità delle premesse si trasmette
necessariamente anche alle conclusioni. Utilizzare lo strumento dimostrativo per "dare
la ragione" di una proposizione vera, pertanto, significava trovare alcune premesse vere
da cui questa potesse esser dedotta come conseguenza logica necessaria, ma è chiaro
che in tal modo si ripresenta il problema di come garantire la verità di tali premesse,
problema che non si risolve né regredendo all'infinito, né muovendosi in circolo, poiché
allora non si potrebbe garantire la verità di nessuna proposizione. Pertanto ogni
dimostrazione deve partire da premesse indimostrate e indimostrabili e, se a questa
=5! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
condizione formale aggiungiamo l’ulteriore requisito che una dimostrazione non vuole
essere soltanto una deduzione formale, bensì il modo per fondare un sapere e garantire
la verità dei suoi contenuti, si dovrà anche dire che le premesse primitive e
indimostrabili debbono essere vere di per sé, ossia, come pure si dice, evidenti. Esse
devono apparire tali alla nostra intuizione intellettuale e, per distinguerle dalle
premesse assunte in modo soltanto ipotetico, sono spesso chiamate principi. In
conclusione: per i Greci un sapere autentico è quello che si fonda su principi evidenti,
universali e necessari, dai quali sono dedotte con ragionamenti corretti conclusioni vere,
e se capita che le conclusioni dedotte rigorosamente dai principi entrino in collisione
con quanto attestato dall'esperienza, non saranno mai i principi a essere smentiti, ma
semmai il valore di verità delle risultanze di osservazione. Tuttavia la strada feconda,
come vedremo in particolare per Aristotele, sarà quella di trovare interpretazioni dei
dati di esperienza che si accordino con i principi.
Quello qui abbozzato in modo intuitivo è il metodo assiomatico-deduttivo,
presentato come struttura canonica del sapere. In un dato ambito di ricerca si tratta di
organizzare le conoscenze in modo che, individuati alcuni enunciati primitivi (chiamati
assiomi o postulati), le rimanenti proposizioni risultino rigorosamente dimostrabili a
partire da essi. La scelta di tali enunciati primitivi si basa sulla loro evidenza. In forza di
questa struttura, un'autentica scienza (ossia un autentico sapere) risulta dotata di
universalità, necessità e certezza. L'applicazione più celebre di questo modello del
sapere è costituita dagli Elementi di Euclide, ed ha costituito la spina dorsale della
costruzione della matematica occidentale fino ai nostri giorni, ma ha trovato ampia
applicazione anche nelle scienze fisiche. Per esempio, è stato adottato nei Principia di
Newton ed è usato in diverse presentazioni di altre teorie fisiche attuali, quali la teoria
della relatività e la meccanica quantistica. Ma forse ancor più essenziale è il fatto che,
anche quando si lasciano cadere i requisiti dell'evidenza e persino della verità (come
accade nelle epistemologie contemporanee), le teorie scientifiche continuano a esser
concepite come costrutti ipotetico-deduttivi aventi il fine di spiegare, ossia di "dar
ragione" dei fenomeni che esse studiano.
Analizziamo a questo punto grandezza e limiti della scienza greca. Le scienze nel
mondo greco raggiunsero altezze sbalorditive in certi campi e conseguirono progressi
piuttosto modesti in altri. Paradossalmente, la ragione di questo fatto risiede
nell’eccesso di perfezione cui si ispirava il modello della ricerca di un sapere
assolutamente certo, universale e necessario, sicuro nei suoi fondamenti grazie a un
impianto rigorosamente deduttivo. Un ideale del genere finiva col precludere la strada
a quelle che noi oggi chiamiamo scienze sperimentali. Ciò accadeva perché, come si è
visto, tra l'empiria e il logos esso finiva col privilegiare in misura troppo cospicua il
secondo, anche a discapito della prima. La cosa si può cogliere facilmente analizzando il
ruolo svolto dalla deduzione logica nello schema classico del sapere e in quello delle
scienze empiriche moderne. Nel primo, il compito della deduzione era quello di partire
dalle proposizioni più evidentemente vere, per farne poi discendere la verità alle
proposizioni dedotte, che trovavano nelle prime il loro fondamento e avevano, in
genere, un carattere subordinato. Nel caso delle scienze empiriche quali oggi le
riconosciamo, invece, il cammino è inverso: in esse le proposizioni che si possono
ritenere immediatamente vere e meglio garantite sono quelle che descrivono singoli
fatti d'esperienza. Quando poi vogliamo spiegarle, è ben vero che escogitiamo ipotesi e
cerchiamo di mostrare deduttivamente che da esse discendono come conseguenze
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In questo clima culturale effervescente, all’inizio del VI secolo a. C., Talete (c.
640/624 a.C; 547 a.C.), il fondatore della scuola ionica e rappresentante del primo punto
di passaggio fra la scienza dell’antico Oriente e la nuova sapienza greca, cominciò una
tradizione filosofica e scientifica. Aristotele attribuisce a Talete l’affermazione: “L’acqua
è la causa materiale di tutte le cose”. L’affermazione che il mondo sia fatto di acqua (o a
partire dall’acqua), non va inteso nel senso puramente materiale, ma che l’acqua
rappresenta l’elemento primordiale o principio costitutivo di tutte le cose, e questo
implicò un nuovo e rivoluzionario rivolgimento concettuale. Primo, l’esistenza di un
problema circa la causa materiale di tutte le cose; secondo, l’esigenza che a questa
domanda si debba rispondere in conformità alla ragione, senza ricorso ai miti, o al
misticismo; terzo, il postulato che in definitiva sia possibile ridurre ogni cosa ad un
principio unico.
L’affermazione di Talete era la prima formulazione dell’idea d’una sostanza
fondamentale, di cui tutte le altre cose fossero forme transitorie. Pur facendo diversa
scelta del principio unico, tale principio costituisce il tratto caratteristico e l’elemento
comune al pensiero dei più antichi filosofi ionici (l’apeiron per Anassimandro, l’aria per
Anassimene o il fuoco per il pitagorico Ippaso). Per tutti questi pensatori, non è dubbio
che la materia sia qualitativamente unica, perché tutte le specie diverse si vedono
trasformarsi l’una nell’altra. L’unità risulta per loro da un principio razionale di
permanenza implicitamente accettato, per cui l’intima natura delle cose persiste
invariata attraverso l’apparenza dei cambiamenti. Ed il presupposto fa parte ancora
della nostra logica scientifica: in tutte le trasformazioni chimico-fisiche, noi cerchiamo
ciò che rimane invariato (per esempio la massa) e che riteniamo attinente alla sostanza
delle cose, persuasi che attraverso il cambiamento nulla si crei o si distrugga. Motivo
per cui attraverso un ciclo conveniente di trasformazioni, ogni materia possa essere
ricostruita (per esempio l’acqua, se vengono prima separati e poi ricongiunti i suoi
costituenti, l’idrogeno e l’ossigeno).
Talete fu, dunque, il primo a propugnare l’idea che per comprendere il cosmo
fosse necessario conoscere la sua natura (physis donde fisica) e che questa natura
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dovesse essere concepita in termini materiali. Egli fu perciò il fondatore della tradizione
filosofica materialista, che cercava di trovare la costituzione definitiva del mondo
attraverso la determinazione della materia di cui era costituito. E, nella ricerca della
costruzione basilare dell’universo, Talete, e quindi i suoi discepoli, accettarono non solo
il fatto che l’universo fosse costituito da qualcosa di semplice, ma anche che la sua
complessità risultasse da mutamenti dai quali l’elemento materiale di base (acqua) era
diversificato per formare la materia che costituiva l’universo. Un'ipotetica ricostruzione
dell'origine dell'universo secondo Talete potrebbe essere la seguente: all'inizio esisteva
il grande oceano, poi si formarono la Terra e i corpi celesti. L’intero cosmo, secondo
questa teoria, è trasportato sul mare come una nave, mossa e guidata dall'acqua stessa,
che ha gli attributi della divinità. Per Talete, dunque, l'acqua è principio divino e ha al
suo interno la forza generatrice e regolatrice del cosmo, che probabilmente tornerà ad
essere acqua quando avrà finito i suoi giorni. La rassomiglianza con il mito babilonese è
evidente, ma è, altresì, significativa la differenza: Talete, eliminando la personificazione
dell'acqua in potenze mitiche, la rende un principio materiale e naturale, appartenente
cioè all'ordine delle cose fisiche. È il primo passo verso una considerazione scientifica
dell'universo. E’ vero che Talete pensava che la Terra fosse un disco galleggiante
sull’acqua, ma è di enorme rilievo che egli speculasse su tali argomenti, per cui
introdusse elementi astronomici nella cosmologia che in precedenza erano a carattere
magico e religioso.
Talete fu il primo ad occuparsi di elettricità e magnetismo, avendo notato che
l’ambra, una resina fossile, opportunamente strofinata, era in grado di attrarre oggetti
leggeri come piccoli semi o pezzetti di paglia, e affermando che il magnete fosse vivo
perchè in grado di far muovere le cose (infatti attrae il ferro) e che avesse un'anima.
Anassimandro (ca. 610 a.C.– ca. 546 a.C.) come il suo maestro Talete, è alla ricerca
di un principio di tutte le cose, ma la sua sostanza prima non è un elemento materiale,
come l’acqua per Talete, ma l’àpeiron (l’indeterminato o l’infinito, e letteralmente “senza
perimetro”). Simplicio (490 a.C.-560 a.C.), commentando il passo e rifacendosi alle, per
noi perdute, Opinioni dei fisici di Teofrasto (371 a.C. – 287 a.C.), scrive che per
Anassimandro “principio ed elemento degli esseri è l'infinito, avendo egli per primo
introdotto questo nome di principio (archè). E dice che il principio non è né l'acqua né
un altro dei cosiddetti elementi, ma un'altra natura infinita, dalla quale provengono
tutti i cieli e i mondi che in essi esistono [...] e l'ha espresso con parole alquanto poetiche.
È chiaro che avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi [acqua,
aria, terra, fuoco], ritenne giusto di non porne nessuno come principio, ma qualcosa
d'altro. Secondo lui la nascita delle cose non avviene per alterazione del principio
elementare, ma avviene per il distacco da quello dei contrari a causa dell'eterno
movimento”.
Nella designazione di Anassimandro, àpeiron è un aggettivo sostantivato che
designa una certa proprietà della sostanza primitiva, e che tale materia prima è ritenuta
infinita e infinitamente diffusibile, cioè suscettibile di espandersi dappertutto
identificandosi con lo spazio. Quindi, ápeiron inteso anche come "non definito",
"indeterminato". Essendo indeterminato, non identificandosi con nessun specifico
elemento (stoichéion) - acqua, aria, terra o fuoco – resta determinato dall'unica qualità
che gli appartiene derivante dalla sua stessa definizione, ossia una materia
indifferenziata, della quale nulla possa dirsi se non infinita e irriducibile a ogni
determinazione.
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I filosofi naturalisti della Ionia, impressionati dal fenomeno del nascere, del
mutare e del morire di tutte le cose, ne ricercano la causa: l’acqua per Talete e l’aria per
Anassimene. Ma Anassimandro vede che i fenomeni si producono ovunque e l'ovunque è
per sua stessa natura indefinito proprio perché, essendo il Tutto, è privo di
individuazione al di fuori di sé stesso, non è spiegabile attraverso la determinazione di
qualcosa di altro, dal momento che questo qualcosa rientrerebbe già nel Tutto. Allo
stesso modo, se nell'ápeiron sembrerebbe che vi debba essere una forza – “l'eterno
movimento” di cui parla Simplicio – che faccia nascere, trasformare e morire le cose,
questa forza, proprio in virtù dell'indefinibilità del Tutto, è resa definibile solo come essa
stessa ápeiron, indissolubilmente legata, non scindibile e non distinguibile da esso,
altrimenti il Tutto, nuovamente, non sarebbe più tale, avendo altro da sé, e come le cose
nascono dall'ápeiron, così lì devono trasformarsi e morire, perché non c'è
un altrove dove trasformarsi e morire.
Anassimandro, che usò per primo il termine archè, infatti, introduce l’idea che ci
possa essere una base comune di tutte le cose e che è all’origine dell’universo, che
chiama appunto àpeiron, una sostanza universale, eterna, immutabile, illimitata,
impercettibile e non propriamente materiale, come l’acqua per Talete o l’aria per
Anassimene, dalla quale derivava ogni materia tramite una selezione di attributi o
proprietà. Egli intuisce che per arrivare a rendere conto della molteplicità delle cose e
dei fenomeni dobbiamo essere pronti ad introdurre oggetti nuovi, sostanze nuove, che
non vediamo direttamente, ma che ci aiutano ad organizzare e comprendere.
Anassimandro compie un passo decisivo verso una interpretazione globale della realtà,
abbandonando l'idea che a fondamento di essa possa esserci un elemento determinato e
rivelando una capacità di astrazione fino ad allora sconosciuta. Ma perché non accettare
un elemento materiale terrestre come principio di tutte le cose e scegliere come tale
l’infinito (o l’indeterminato)? Perché, interpreta Aristotele, tutte le cose hanno un
principio: “ma di questo (cioè dell’infinito) non c’è principio, ed esso sembra essere principio degli altri,
e tutti abbracciarli e governarli tutti… e questo è il divino immortale, infatti, e indistruttibile, come dice
Anassimandro”. Ragioni di questo genere, che rimandano alla divinità, origine di tutte le
cose, e perciò non spiegano nulla dal punto di vista fisico, sono per lo più confacenti ad
Aristotele che non al fisico Anassimandro. Pertanto, stando ai recenti studi ed alle
attuali interpretazioni, il filosofo ionico abbia voluto alludere ad una materia prima
infinita e infinitamente diffusa. L’intuizione geniale è che per spiegare la complessità
del mondo sia necessario postulare, immaginare, l’esistenza di qualcosa che non è
nessuna delle sostanze del mondo diretto della nostra esperienza, ma possa fungere da
elemento unificante di spiegazione per tutte queste.
Nel postulare l’apeiron, Anassimandro non fa altro che aprire la strada a quello
che la scienza continuerà poi a fare per secoli, con straordinario successo: immaginare
l’esistenza di “entità” che non sono direttamente visibili e percepibili, ma la cui
esistenza è postulata per organizzare e rendere conto in maniera unitaria, organica e
naturalistica, della complessità dei fenomeni osservabili. Con questa interpretazione
l’àpeiron diventa l’antenato di tutti gli oggetti introdotti dalla fisica: l’atomo, il campo
elettromagnetico, il campo gravitazionale, lo spaziotempo, la funzione d’onda, i campi
quantistici, le particelle elementari.
Un’interpretazione diversa, isolata, ma consistente con la precedente lettura
naturalistica dell’apeiron del fisico Carlo Rovelli, è quella del filologo Giovanni
Semeraro, secondo il quale ápeiron, che deriverebbe dal semitico apar, («polvere»,
«terra»), accadico eperu equivalente del biblico 'afar, sarebbe stato utilizzato da
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centro, in egual posizione rispetto agli estremi, non ha da muoversi né in su, né in giù,
né dalle parti. Non essendo possibile che compia movimenti in versi opposti,
necessariamente sta ferma”. Anassimandro, in questo modo, ridisegna completamente
il quadro concettuale della comprensione umana dello spazio, della Terra, della gravità.
Non più lo spazio diviso in due, un sopra (cielo) e un sotto (terra) e gli oggetti che
cadono dal sopra al sotto, bensì uno spazio fatto di cielo, all’interno del quale sta
sospesa la Terra.
Senza esagerare, tale rivoluzione concettuale è più profonda di quella di
Copernico. Infatti, mentre Copernico si avvale di un immenso lavoro concettuale e
osservativo svolto dagli astronomi alessandrini e arabi, Anassimandro si appoggia solo
sulle prime razionali domande sul funzionamento del cosmo e sulle prime imprecise
speculazioni del suo maestro Talete. Su questa base così esigua di elementi scientifici
compie quella che Popper ha definito “una delle più audaci, una delle più
rivoluzionarie e delle più portentose scoperte dell’intera storia del pensiero umano”.
Ma come ha fatto Anassimandro a capire
che sotto la Terra c’è ancora cielo? Partiamo dal
presupposto che con Anassimandro nasce l’idea
che è possibile comprendere i fenomeni, le loro
relazioni, le loro cause, il loro concatenarsi, senza
fare ricorso agli dei. In sostanza spiegare il mondo
in termini delle cose del mondo. Quindi, gli indizi
non mancavano per giungere a questa
straordinaria idea, come osservare il movimento
delle stelle circumpolari. Appare chiaro ad
Anassimandro che sotto l’orizzonte ci deve essere dello spazio vuoto affinchè le stelle
possano completare i loro cerchi. Alla domanda: se la Terra è sospesa nel nulla, perché
la Terra non cade? La risposta di Anassimandro è perentoria e sconvolgente, ed è
contenuta nel De Caelo di Aristotele: “Alcuni, per esempio Anassimandro fra gli antichi,
dicono che la Terra mantiene la sua posizione per indifferenza. Perché una cosa che si
trovi nel centro, per la quale tutte le direzioni siano equivalenti, non ha ragione per
muoversi verso l’alto o il basso o lateralmente; e siccome non può muoversi in tutte le
direzioni insieme, deve necessariamente restare ferma. Questa idea è ingegnosa …”. La
Terra non cade perché non ha nessuna direzione particolare verso cui cadere se non
verso se stessa. Alla luce della nostra comprensione della natura, la risposta di
Anassimandro è esatta; anzi, rappresenta uno dei momenti più importanti del pensiero
scientifico di tutti i tempi.
Nella nuova immagine del
mondo proposta da Anassimandro, i
concetti fondamentali di “alto” e
“basso” vengono profondamente
modificati, e non sono più quelli
della nostra esperienza quotidiana.
Le nozioni di alto e basso non
costituiscono una struttura assoluta e
universale del reale. Non sono un’organizzazione a priori dello spazio, ma sono relativi
alla presenza della Terra. “Verso il basso” non indica più una direzione assoluta del
cosmo, ma una direzione particolare verso la quale cadono i corpi: verso la Terra.
Dunque è la Terra che determina cosa sia l’alto e il basso. E’ la Terra stessa che
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determina la direzione verso cui cadere. In sintesi, alto e basso non sono assoluti ma
relativi alla Terra. In questo modo Anassimandro cambia il modo di comprendere non
solo l’immagine del mondo, ma la struttura stessa dello spazio, che per secoli era stato
inteso come la direzione privilegiata (assoluta) verso la quale le cose cadono. La
rivoluzione di Anassimandro ha molto in comune con le altre grandi rivoluzioni del
pensiero scientifico: come fa a muoversi la Terra se all’evidenza la Terra è ferma?
Completando la rivoluzione copernicana, Galileo comprende che non esistono stati o
moti assoluti. E Einstein, con la relatività ristretta, scopre che la “simultaneità”, cioè la
nozione di “adesso” non è assoluta, ma relativa allo stato di moto dell’osservatore.
Un’altra radicale novità della cosmologia di Anassimandro è quella di
considerare il mondo immerso in uno spazio esterno aperto. Infatti, la volta del cielo era
sempre stata vista come la chiusura superiore del mondo. I vari corpi celesti (Sole,
Luna, stelle, pianeti) come entità che si muovevano su una stessa volta celeste, tutti alla
stessa distanza da noi. Con Anassimandro, per la prima volta, si introduce la possibilitò
che i corpi celesti siano a distanze diverse da noi.
Qualunque fosse il motivo che animava le ricerche di Anassimandro, non si può
certo dire che l’insieme delle idee e dei risultati raggiunti dal filosofo milese,
costituiscano un corpus scientifico nel senso della scienza moderna. Infatti mancano
diversi aspetti essenziali di quanto oggi chiamiamo scienza. In particolare è del tutto
assente l’idea di cercare leggi matematiche che possano soggiacere ai fenomeni naturali.
Questa idea comparirà, ad opera della scuola pitagorica, nella generazione successiva
ad Anassimandro. E manca completamente l’idea di esperimento, nel senso della
riproduzione artificiale di situazioni fisiche per comprendere le leggi che governano la
natura. Questa idea, almeno nella sua forma più matura e consapevole, comparirà
duemila anni più tardi con Galileo.
Con l'approfondirsi della ricerca da parte dei filosofi successivi, quello che era
stato prima l'ambito della speculazione mitologica nella spiegazione dei fenomeni
naturali cedette sempre più il posto all'analisi razionale, che cercherà di trarre le sue
conclusioni sulla base dell'osservazione empirica dei fatti. Si costruirà, allora,
gradatamente un'immagine razionale dell'universo, che sarà il frutto dello sviluppo
della scienza.
Nel solco di questa visione del mondo si inserisce Anassimene (ca. 586 a.C.– 528
a.C.), il quale sostituisce l’acqua di Talete e l’apeiron di Anassimandro con l’aria. La
scelta dell’aria come principio unico delle cose è il tentativo, riuscito, di affrontare una
difficoltà evidente nelle dottrine di Talete e Anassimandro. Se il tutto è fatto di acqua o
di apeiron, come è possibile che possano assumere forme e consistenze così diverse,
come quelle che appaiono nella varietà delle sostanze della natura? Come può una
sostanza primitiva assumere caratteristiche diverse? Anassimene cerca invece un
meccanismo più ragionevole che permetta a una singola sostanza di assumere
apparenze diverse. Con notevole sagacia, individua questo meccanismo nella
compressione e rarefazione. Egli ipotizza che l’acqua sia generata dalla compressione
dell’aria, che a sua volta si può riottenere per rarefazione dell’acqua; la Terra è generata
per ulteriore compressione dell’acqua e così via per le altre sostanze. Simplicio, nel suo
Commento alla Fisica di Aristotele testimonia: “Anassimene figlio di Euristrato di Mileto
diceva che la materia originaria è una e illimitata. Ma, diversamente da
Anassimandro, non pensava che non fosse specifica, ma che lo fosse, e che si trattasse
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della aria. Ma essa appare diversa nei diversi oggetti, secondo la sua condensazione e
rarefazione. In forma rarefatta origina il fuoco, mentre nella forma più densa produce
il vento da cui provengono le nuvole e l’acqua, e da questa a sua volta si genera la
terra, e da questa le pietre, e da queste ultime tutte le altre cose”. Anassimene insomma
cerca di spiegare come, mediante condensazione e rarefazione, elementi di diversa
densità possano essere ricondotti ad uno solo, riducendo le differenze qualitative a
differenze quantitative, e poiché l’aria è sempre in movimento, il mutamento è una
possibilità sempre presente. E’ un passo avanti verso una descrizione più ragionevole
della struttura del mondo.
Anassimene definì chiaramente l’approccio materialistico, ossia che il cosmo
potesse essere spiegato nei termini della materia di cui era formato, in base ad un
processo localizzato nello spazio e nel tempo; infatti, il suo concetto più originale è
quello di una volta celeste cristallina su cui sono infissi “come chiodi” gli astri, visione
che qui appare per la prima volta e che avrà la consacrazione con Aristotele e che
durerà fino al termine del medioevo. Come già per Anassimandro il modello che
chiarisce la generazione del cosmo, e i suoi moti rotatori, è offerto dalla presenza di
opposte azioni: centrifughe per i corpi leggeri, centripete per quelli pesanti. In virtù di
questo modello cosmologico, il moto di un immenso vortice ha spinto la Terra verso il
centro del mondo. Dice Aristotele: “Tutti ammettono questa causa (l’immenso vortice)
desumendolo da ciò che accade nei liquidi e nell’atmosfera. In entrambi i casi i corpi
più pesanti vanno verso il centro del vortice”. Anassimene pensava che le parti ignee
(sfera del fuoco) fossero così state respinte nelle parti periferiche di questo vortice
universale. L’impulso del vortice spezzò poi la sfera del fuoco in tanti anelli avvolti di
aria e vapori, e le aperture rimaste in tali involucri sono i corpi celesti che vediamo
ruotare intorno alla Terra. “Dio separò la luce dalle tenebre”. “Dio separò le acque sotto
il firmamento, da quelle che erano sopra il firmamento”. La scienza dell’antico Oriente
non riusciva a dire di più quando tentava di affrontare aspetti del problema
cosmogonici. Gli ionici, invece, muovevano alla ricerca di cause fisiche, consistenti,
naturali.
Quando Pitagora diceva che il cosmo era composto di numero, invocava una
complessa serie di idee correlate. In primo luogo, tutti i numeri interi potevano essere
costruiti dall’unità: così equiparò il cosmo all’unità. Inoltre pensava che uno fosse il
punto, due una linea, tre un triangolo e quattro una piramide. Questo sembrava
mostrare che i corpi solidi potessero esser costruiti con i numeri. Pitagora non voleva
soltanto intendere che il mondo fosse governato da leggi matematiche, ma che il
numero, e non gli oggetti materiali, erano i costituenti del mondo reale.
La scoperta che proporzioni semplici sono nascoste dietro a fenomeni diversi, per
esempio corde musicali in rapporti di lunghezza semplici producono suoni in armonia
fra loro, porta Pitagora a promuovere una ricerca delle armonie nascoste nel mondo,
esprimibili in termini di numeri, cioè di matematica. Ossia la matematica acquista la
funzione di mediatrice tra la fisica e la musica, e più in generale fra la natura e l’uomo.
A tale scopo egli usò il cosiddetto strumento monocorde, cioè una sola corda di
lunghezza variabile soggetta a differenti tensioni per l’azione di un peso. Usando
sempre lo stesso peso tensore e variando invece la lunghezza della corda Pitagora
osservò che la produzione di coppie di note armoniche si aveva soltanto quando le
lunghezze della corda stavano tra loro come numeri interi. Il rapporto 2:1 tra le
lunghezze corrispondeva alla produzione di quella che chiamiamo un’ottava, il
rapporto 3:2 a una quinta, il rapporto 4:3 a una quarta. Questa scoperta fu molto
probabilmente la prima formulazione matematica di una legge fisica.
I pitagorici sostennero per primi la sfericità della Terra e dei corpi celesti in
genere, in quanto la sfera, la più perfetta tra le figure solide, è l’immagine stessa
dell’armonia. Ma essi ebbero anche altre geniali intuizioni, come quella di Filolao
(verso il 400 a.C.), il primo pitagorico del quale ci sia pervenuto qualche frammento, che
fu l’autore del primo sistema astronomico non geocentrico.
Filolao, abbandonò l’ipotesi che la Terra fosse il centro fisso del mondo e ammise,
invece, che la Terra stessa e tutti gli altri corpi celesti si muovessero intorno a un fuoco
centrale, la divina Hestia. Intorno ad esso stanno dieci sfere: la più lontana quella delle
stelle fisse, poi Saturno, Giove, Marte , il Sole, Venere, Mercurio, la Luna, la Terra, ed
infine l’Antiterra. Il Sole, illuminato dal fuoco centrale, riflette sulla Terra la luce
ricevuta. In 24 ore la Terra compie una rivoluzione completa attorno al fuoco centrale,
ma l’emisfero abitato è costantemente rivolto dalla parte opposta di Hestia, sicché
questa è sempre nascosta a noi, e nascosta resta anche l’Antiterra che si muove sempre
in modo sincrono rispetto alla Terra medesima. Così resta spiegato, come moto
apparente, il sincronismo di tanti corpi (Luna, Sole, pianeti, stelle) che compiono la loro
rivoluzione diurna rispetto alla Terra (relatività del movimento). Il Sole, a sua volta, si
muove in una propria orbita, e ciò spiega il suo movimento annuo lungo l’eclittica. Tale
orbita, al pari di quelle della Luna e dei pianeti, è inclinata rispetto all’orbita terrestre, e
questo offriva una veduta geometrica semplice e coerente dei fenomeni di moto
osservati da tempo e dell’alternarsi delle stagioni. Egualmente naturali risultano gli altri
fenomeni come le eclissi e le fasi lunari. Tale spiegazione coerente è il vero merito del
sistema. Inoltre per la prima volta veniva assegnato ai corpi celesti un ordine esatto,
conservato sostanzialmente fino ad oggi.
Fortunatamente gli errori della dinamica aristotelica che resero così difficile il
cammino a Copernico e a Galileo non erano stati ancora codificati in questa infanzia
della scienza, e perciò pur senza possedere il principio d’inerzia, Filolao potè procedere
alla propria costruzione libero da ogni condizionamento sul terreno della dinamica.
Quanto all’Antiterra è vero che essa richiamava la tetraktys (completava il numero dieci
delle sfere) e sapeva di misticismo pitagorico, ma quasi certamente serviva anche a
spiegare certe caratteristiche delle eclissi, inesplicabili per chi ignori la rifrazione della
luce. L’ipotesi della sfericità della Terra e l’esigenza di dare ordine geometrico e
armonia al mondo hanno rappresentato la prima visione dell’immensità dell’universo.
Ai pitagorici è da attribuire anche lo studio su problemi di ottica, in particolare
ad essi va ricondotta la più antica teoria della visione. Secondo la scuola pitagorica la
visione avviene per mezzo di raggi di un “fuoco” invisibile che esce dall’occhio e
attraverso l’aria o l’acqua raggiunge gli oggetti e li va a “toccare”, restituendo
all’osservatore, in qualche modo non precisato, la superficie dei corpi, che i pitagorici
chiamavano croma, cioè colore. Questa teoria prevede l’occhio di un osservatore (che
partecipa attivamente alla visione) e un oggetto (che svolge un ruolo passivo) ma non
prevede l’esistenza di ciò che chiamiamo “luce” e che collega l’oggetto visto con l’occhio
che vede. Come altre antiche dottrine della visione (quella stoica e quella atomista) la
dottrina pitagorica non pone una relazione esplicita tra visione e luce. Platone sarà il
primo pensatore a introdurre esplicitamente la luce solare nel processo della visione.
Una seconda osservazione è che nella teoria pitagorica la percezione visiva è realizzata
da qualche flusso che viene emesso dall’occhio. Le teorie che prevedono un flusso
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Ai due estremi geografici del mondo greco, quello orientale e quello occidentale,
la riflessione ionica e quella pitagorica erano dunque venute, lungo tutto l’arco del VI
secolo a.C., sollevando e dibattendo i grandi temi della realtà e dell’interpretazione che
di essa la conoscenza umana poteva dare sul piano scientifico. Al tempo stesso
pitagorici e ionici divergevano sempre più marcatamente negli esiti assunti da questi
loro tentativi: i primi, attraverso l’interpretazione numerica della realtà e la sua
elaborazione aritmo-geometrica, tendevano a creare schemi logico-razionali di
interpretazione; i secondi si orientavano verso uno spiccato naturalismo, che faceva
sempre più larga parte ai dati dell’osservazione e alle leggi fisiche che li connettevano, e
credeva di poter rinunciare, data la loro apparente autosufficienza, a più consapevoli
interventi della ragione e delle sue proprie leggi.
Entrambi questi punti di vista contenevano in sé un profondo nucleo di verità;
entrambi richiedevano però, affinchè il pensiero scientifico e filosofico potesse compiere
senza incertezze un più risoluto passo avanti, di essere chiariti nei loro presupposti
fondamentali, spogliandosi delle proprie ambiguità. A questo compito di
radicalizzazione e di chiarimento assolsero, tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, le
grandi speculazioni sull’essere e sul divenire, condotte rispettivamente dalla scuola
eleatica e da Eraclito.
In questo clima speculativo è singolare la figura di Senofane (570-475 a. C.), che
era stato personalmente in contatto sia con gli ionici che con i pitagorici, e che rispetto
ad entrambi condusse una preziosa opera critica, volta a mettere in luce il fondamentale
problema dei limiti e del valore della conoscenza umana. Secondo le testimonianze di
Platone e di Aristotele, l’indirizzo che fu proprio della scuola eleatica era stato iniziato
da Senofane, che per primo affermò l’unità dell’essere, ed in un suo frammento si può
rinvenire la premessa metodologica del passaggio da una visione mitica ad una
razionale del mondo: “Gli dèi non rivelarono agli uomini tutte le cose fin dall'inizio, ma
gli uomini con la loro ricerca trovano nel corso del tempo ciò che è meglio”. Il punto di
partenza di Senofane è una critica risoluta dell’antropomorfismo religioso e sostiene che
c’è una sola divinità, “che non somiglia agli uomini né per il corpo né per il pensiero”,
che si identifica con l’universo, è un dio-tutto, ed ha l’attributo dell’eternità: non nasce e
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non muore ed è sempre la stessa. Difatti se nascesse, ciò significherebbe che prima non
era; ma ciò che non è, neppure può nascere né può far nascere nulla. Senofane afferma
in forma teologica l’unità e l’immutabilità dell’universo. In Senofane si trovano anche
spunti di ricerche fisiche: egli ritiene che ogni cosa ed anche l’uomo sia formato di terra
ed acqua; che dalla terra vien tutto e tutto ritorna alla terra; ma questi elementi di un
grossolano materialismo poco si collegano con il suo principio fondamentale.
Il fondatore dell’eleatismo è Parmenide (515 a.C.– 450 a.C.), che ritiene illusione e
inganno dei sensi il perenne mutare: il mutamento ed il movimento sono illusori e che
la sostanza sola è veramente. Quindi, il tema originale della filosofia parmenidea è il
contrasto tra la verità e l’apparenza: “Due sole vie di ricerca si possono concepire. L’una
è che l’essere è e non può non essere; e questa è la via della persuasione perché è
accompagnata dalla verità. L’altra, che l’essere non è ed è necessario che non sia; e
questo, ti dico, è un sentiero sul quale nessuno può persuaderci di nulla”. Perciò: “un solo
cammino resta al discorso: che l’essere è”. Ma questo cammino non può non essere
seguito che dalla ragione, giacché i sensi invece si fermano all’apparenza e pretendono
testimoniarci il mutare delle cose, il nascere ed il perire, cioè insieme il loro essere e il
loro non essere. Parmenide vuole così allontanare l’uomo dalla conoscenza sensibile e
costringerlo a giudicare solo con la ragione. Ora la ragione dimostra subito che non si
può pensare né esprimere il non essere. Non si può pensare senza pensare qualcosa; il
pensare a nulla è un non pensare, il dir nulla è un non dire. Il pensiero e l’espressione
devono in ogni caso avere un oggetto e questo oggetto è l’essere. Parmenide determina
con tutta chiarezza quel criterio fondamentale della validità della conoscenza che
doveva dominare tutta la filosofia greca: il valore di verità della conoscenza dipende
dalla realtà dell’oggetto, la conoscenza vera non può essere che conoscenza dell’essere.
Tale è il significato delle affermazioni famose di Parmenide: “La stessa cosa è il pensiero
e l’essere” e “La stessa cosa è il pensare e l’oggetto del pensiero; senza l’essere nel quale il
pensiero è espresso tu non potresti trovare il pensiero, giacché niente altro c’è fuori
dell’essere”.
Per comprendere bene da dove nasce l’idea dell’Essere (Esistente) e del Non Essere
(Niente), bisogna ricordare che Parmenide scrive sulla natura delle cose, cioè sul
problema della materia primitiva. Secondo la tradizione ionica, egli assume una
sostanza originaria unica, soggiacente alle diverse qualità fenomeniche. Ma dai
pitagorici ha imparato che tale sostanza deve essere priva di qualità. Che cosa le rimane
dunque? Soltanto la propietà di esistere, e di occupare uno spazio. Pertanto l’esistente è
qualcosa che si afferma esistere in senso corporeo, cioè come materia estesa. Con questa
chiave le parole di Parmenide diventano chiare. Le due ipotesi che si mettono di fronte
l’una all’altra sono l’ipotesi che tutto sia pieno o che esista il vuoto. Parmenide
propende per la materia estesa impenetrabile che deve riempire lo spazio, e identificarsi
con esso, perché il vuoto, cioè il non esistente, è inconcepibile. Tale è in sostanza la
concezione di Cartesio, duemila anni dopo. Per un solo aspetto l’esistente parmenideo
differisce dallo spazio cartesiano: l’eleate non sa concepirlo come illimitato e gli
attribuisce la forma d’una sfera perfetta. In effetti, Parmenide sentiva il bisogno di
concepire il mondo come qualcosa di perfetto in se stesso, e perciò respingeva l’idea di
pensarlo infinito. Questa incongruenza sarà risolta da Melisso più tardi.
All’essere che è oggetto del pensiero, Parmenide attribuisce gli stessi caratteri che
Senofane aveva riconosciuto al dio-tutto. Ma questi caratteri sono da lui ricondotti ad
un’unica modalità fondamentale, che è quella della necessità. “L’essere è e non può non
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essere” è la tesi principale di Parmenide: tesi che esprime quello che è per lui il senso
fondamentale dell’essere in generale e costituisce il principio direttivo dell’indagine
razionale. Anzi, Parmenide è il primo vero razionalista che si affacci nella storia del
pensiero: la verità è da scoprire non guardando alle cose come sono fatte, ma attraverso
l’idea che di esse ci formiamo. Ecco quindi che la teoria della materia primitiva, il
principio unico, non è fondata, come avviene per gli ionici, su delle analogie sensibili,
ma sopra un concetto razionale della materia stessa.
A differenza di Senofane, l’eternità non è intesa da Parmenide come durata
temporale infinita ma come negazione del tempo: “L’essere non è stato mai né mai sarà
perché è ora tutto insieme, uno e continuo”. Parmenide ha elaborato per primo il
concetto dell’eternità come presenza totale. L’essere non può nascere né perire, giacché
dovrebbe derivare dal non essere o dissolversi in esso, il che è impossibile perché il non
essere non è. L’essere è indivisibile perché è tutto uguale e non può essere in un luogo
più o meno che in un altro; è immobile perché risiede nei propri limiti; è finito perché
l’infinito è incompiuto e l’essere non manca di nulla. L’essere è compiutezza e
perfezione, ed in questo senso appunto finito. Come tale, è paragonato da Parmenide ad
una sfera omogenea, immobile, perfettamente uguale in tutti i punti: “Poiché vi è un
limite estremo, l’essere è perfetto da ogni parte, simile alla massa arrotondata di una
sfera uguale dal centro a ogni sua parte”. Perciò pure l’essere è pieno, in quanto è tutto
presente a se stesso e in nessun punto mancante o deficiente in sé; esso è
autosufficienza. Non si può tuttavia negare che la sfericità ora accennata vada accolta
con la massima cautela; se infatti la interpretassimo alla lettera, cadremmo in
contraddizione con tutto l’insegnamento di Parmenide, perché saremmo costretti ad
ammettere l’esistenza di un non-essere (o vuoto), che è al di là dell’essere sferico, e lo
limita. Essa va intesa come identità e assolutezza dell’essere lungo tutte le direzioni. In
sostanza, la sfera di Parmenide è più simile allo spazio curvo einsteniano che al solido
euclideo che siamo portati a raffigurarci.
A quali conseguenze conduce la visione parmenidea in relazione al problema
delle trasformazioni del mondo? Parmenide vorrebbe spiegare il processo o il divenire
del mondo come effetto di cause che debbono dar ragione degli avvenimenti. Ma il
mondo è pieno di una sostanza materiale, uniformemente distribuita, sicchè le azioni
reciproche delle parti di questa, cioè della materia sulla materia, possono costituire le
sole cause possibili di ogni avvenimento. D’altronde, la causa della diminuzione di
temperatura di un corpo la ricerchiamo nel passaggio di calore da un corpo più caldo a
uno più freddo; oppure la causa del movimento di liquido in due vasi comunicanti è la
differenza di altezza del liquido nei rispettivi vasi. In questi fenomeni, e in tanti altri, ci
sono sempre due corpi che agiscono l’uno sull’altro per effetto di una differenza di
qualche grandezza fisica. Pertanto, non ci sembra una ragione sufficiente del
cambiamento un’azione prodotta tra cose uguali (almeno a partire da un primitivo stato
di quiete). Dunque, Parmenide non poteva trovare nel suo universo la spiegazione di
un cambiamento o di un divenire qualsiasi.
Tuttavia, secondo la tradizione ionica, il moto di rotazione del mondo
(l’apparente rivoluzione della sfera celeste) era considerato come una prova evidente
del processo cosmico, cui si connette, più o meno consapevolmente, l’idea di forze, quali
sono le forze centrifughe. Parmenide poteva cercare in questa visione le ragioni del
cambiamento o del divenire cosmico, pur rispettando l’omogeneità della materia.
Invece egli rifiuta questa soluzione dichiarando che il mondo “è immobile nei limiti dei
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saldi legami”. Allora Parmenide negava il movimento? Il moto non significa nulla di
per sé, ma soltanto variazione della posizione delle cose. Questa interpretazione è
avvalorata dal seguente passo di Parmenide, in cui non parla del moto dei corpi ma del
mondo nella sua interezza: “Lo stesso e nello stesso rimanendo è in quiete rispetto a se
stesso, e in tal guisa è anche (assolutamente) immobile”. Parmenide, avendo compreso il
senso relativo del moto, non può conferire significato al moto di rivoluzione del mondo,
e perciò si chiude l’unica possibilità che lo possa condurre ad abbracciare l’idea del
divenire delle cose: dal primitivo stato iniziale d’una materia estesa omogenea e in
quiete, non vi è modo di passare ad un altro stato di moto. Nel linguaggio di Parmenide
significa che il divenire del mondo non è verità razionale, ma soltanto apparenza
sensibile. Il sensibile non ha valore di scienza. La sola scienza vera, conforme a ragione,
è la scienza della materia estesa, che ha carattere necessariamente statico.
Il discepolo prediletto di Parmenide, Zenone di Elea (495 a.C.– 430 a.C.), con una
serie di paradossi del moto, oltre a darci una veduta relativistica del moto, farà delle
osservazioni che risulteranno preziose per lo sviluppo della matematica.
Esaminiamo i famosi quattro argomenti di Zenone sul moto. Il primo argomento
dice che il moto è impossibile perché per andare dal punto A al punto B, bisogna
passare per il punto medio C del segmento AB, e poi per il punto medio del segmento
CB, e così di seguito, all’infinito. Il secondo argomento, il più famoso, riguarda
l’impossibilità di raggiungere la tartaruga, da parte di piè-veloce Achille, che parte con
un piccolo vantaggio. Achille non può raggiungere la lentissima tartaruga che fugga
davanti a lui, perché nel tempo che Achille è arrivato là dove si trova ora la tartaruga,
questa si è spostata un po' avanti; e quando Achille sarà arrivato a questo secondo
punto, la tartaruga sarà un tantino avanti, e così all'infinito. Molti vedono in questi due
paradossi la negazione del movimento. Altri, e a ragione, deducono una riduzione
all’assurdo della tesi monadica dei pitagorici, e una dimostrazione della continuità della
linea. Quindi, in questi paradossi è contenuta una scoperta veramente preziosa per gli
sviluppi della matematica: la continuità dello spazio, ossia la divisibilità di esso
all'infinito. Ciò significa l'impossibilità di rappresentare lo spazio come somma di parti
discrete: da questo punto di vista l'analisi zenoniana completa, con altro metodo, la
scoperta pitagorica della irrazionalità dello spazio. La concezione dello spazio come
continuo sarà il fondamento del quale si servirà Archimede per elaborare quel famoso
metodo di esaustione che fornirà ai matematici del secolo XVII d.C. l'idea per la
creazione del moderno calcolo infinitesimale.
Il terzo argomento è quella della freccia: una freccia che vola in aria occupa in
ogni istante un certo spazio. Quindi in ogni istante è in quiete. Ma una somma di stati di
quiete come può produrre uno stato di moto? Si potrebbe rispondere dicendo che la
freccia sta sempre passando da un punto a un altro. Ma allora cambia posizione anche
entro l’istante, e questo andrà suddisviso, ai fini della rappresentazione, in più istanti
successivi. La discontinuità del tempo si risolve in continuità. In
questo terzo argomento, come lo spazio non è discreto ossia
composto da punti successivi, nemmeno il tempo è composto
d’istanti ossia di tempuscoli elementari.
Nel quarto argomento (lo Stadio) abbiamo il pieno
riconoscimento della relatività del moto. Si confrontino tre file
parallele di punti materiali allineati a distanze uniformi. La fila A
è immobile, e le file B e C si muovono in senso contrario con la
5<! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
stessa velocità V. Quale sarà la velocità di un punto materiale della serie C? Essa si
ottiene considerando il tempo in cui un punto della serie passa davanti a due successivi
punti della serie A. Ma se il movimento viene riferito invece alla serie B, la stessa
velocità, che era V, diventa 2V.
Alla scuola eleatica si collega un terzo personaggio, Melisso di Samo (470 a.C.;...).
I frammenti che di lui rimangono, illustrano in modo suggestivo la tesi di Parmenide, in
particolare uno di essi (fr. 8) contiene una bellissima critica delle sensazioni, che sembra
quasi preludere alla concezione atomica. In un punto caratteristico Melisso si allontana
da Parmenide: il pieno non è limitato a forma di sfera, ma si estende nello spazio
all’infinito, risolvendo così l’incongruenza parmenidea. Tale correzione si accorda bene
con la negazione del moto di rivoluzione del cosmo, perché è impossibile immaginare
un moto che si estenda all’infinito.
Chi non accetta di escludere, con Parmenide, ogni rapporto tra essere e non-
essere, deve ammettere l’esistenza di uno stadio intermedio che partecipi entro certi
limiti della natura di entrambi: questo stadio intermedio è il divenire. L’importanza del
divenire, posizione rigorosamente antitetica a quella parmenidea, fu sostenuta con
grande energia da Eraclito (535 a.C.– 475 a.C.), contemporaneo di Parmenide, che
concepisce la materia come tutto indeterminato divenire pantha rei (tutto scorre).
L’universo diviene, si trasforma, scorre; ma questo trasformarsi, questo variare, non è
segno di irrazionalità; anzi, è l’attuazione della sua più profonda razionalità. La
sostanza, che è il principio del mondo, deve spiegare il divenire incessante di esso con
la propria estrema mobilità, ed Eraclito riconosce tale principio nel fuoco, elemento
irrequieto, distruggitore e trasformatore perpetuo della materia. Il fuoco dunque è
principio e fine, e il divenire è ciclico: tutto si trasforma ma perennemente ritorna a
essere quello che era prima per poi tornare a trasformarsi. In sostanza: ogni cosa è
costantemente in mutamento, che il mutamento è la sola realtà, per cui non è possibile
indagare il mondo materiale. Ma il fuoco nella dottrina di Eraclito perde ogni carattere
corporeo e diventa principio attivo, intelligente e creatore: “Questo mondo, che è lo stesso
per tutti, nessuno degli dèi e degli uomini l’ha creato, ma fu sempre, è e sarà fuoco
eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne”. Il
mutamento è quindi un’uscita dal fuoco o un ritorno al fuoco: “Col fuoco si scambiano
tutte le cose e il fuoco si scambia con tutte, come l’oro si scambia con le merci e le merci
con l’oro”. Le affermazioni che questo mondo è eterno e che il mutamento è un
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interessanti, che riflettevano le critiche dei razionalisti. All’incirca dal 450 a. C.,
troviamo per la prima volta cosmologie che sono chiaramente basate su una qualche
conoscenza del numero e della natura dei corpi celesti, ed una considerevole
consapevolezza della differenza tra mondo animato ed inanimato.
Il secolo V, così come vede la massima fioritura della democrazia nelle città
greche, vede anche fiorire una vera e propria scienza della natura. Si tratta di tentativi
che sorgono in varie parti del mondo greco, per opera di pensatori di origine e
mentalità diverse, ma che agiscono tutti nel senso di fondare una concezione scientifica
della natura del tutto svincolata da miti religiosi. Con la filosofia della natura del V
secolo siamo nel crogiuolo dei grandi problemi che occuperanno la riflessione umana
per lunghi secoli a venire e le impostazioni che essa giunse a forgiare fornirono la
materia prima a tutto il posteriore pensiero filosofico e scientifico. Infatti, Bacone e
Galileo ne intuiranno la fecondità di alcune intuizioni come base di uno sviluppo
propriamente scientifico.
Questi fisici pluralisti, in quanto ritengono che i principi della natura siano
molteplici (come gli atomi per Democrito), cercano di conciliare due opposte
affermazioni: l’idea dell’eterno Divenire delle cose di Eraclito e il concetto dell’Essere
immutabile di Parmenide, ossia dell’eternità e immutabilità della natura. Questi filosofi
risolvono genialmente il problema distinguendo tra composti (mutevoli) ed elementi
(immutabili); infatti, ritengono che le cose del mondo siano costituite di elementi eterni,
come gli atomi, che unendosi tra di loro danno origine alla nascita e disunendosi
provocano la morte. In tal modo essi giungono alla comprensione di uno dei principi
fondamentali della fisica, il principio di conservazione dell’energia: in natura nulla si
crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Inoltre, per nessuno di questi pensatori è concepibile una distinzione a priori fra
pensiero (o soggettività) e realtà (o oggettività) come due sfere autonome e sussistenti di
per sé. Per essi il pensiero, in quanto vero, è pensiero del reale, e il reale a sua volta è il
pensabile per eccellenza. Da tale presupposto fondamentale scaturivano due
conseguenze importanti: in primo luogo non era pensabile una concezione della logica
come scienza formale del discorso parlato e scritto che prescindesse dal rapporto di tale
discorso con la realtà sul quale esso verteva, nel senso che la verità di qualsiasi discorso
non poteva essere commisurata se non alle realtà che esso asseriva; in secondo luogo,
non era ancora pensabile una distinzione tra i fenomeni che si presentano all’esperienza
ed un eventuale sostrato oggettivo di questi fenomeni, quale verrà più tardi
cristallizzato nelle nozioni di sostanza o di materia e che come tale dominerà per lunghi
secoli il pensiero occidentale. Per i fisici pluralisti il mondo fisico si presentava come
una essenziale unità in cui era inconcepibile contrapporre l’apparenza dei fenomeni alla
realtà di una sostanza di base, e dall’impossibilità di pensare la materia in sé conseguiva
l’impossibilità di pensare l’immateriale come esistente di per sé.
Ciò premesso, si capisce perché questi pensatori venissero comunemente definiti
dai loro contemporanei non come filosofi ma come fysiològoi (studiosi di fysis), o più
semplicemente come fisici. Fysis era ai loro occhi il sistema del mondo di cui l’uomo è
una parte, al pari degli astri, degli esseri animati e inanimati, un mondo che ha una sua
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storia e un suo destino. Un mondo di cui occorre stabilire la pensabilità ma che non è
pensiero, un mondo che è reale ma non è sostanza o materia, un mondo, infine, al di
fuori del quale non si danno verità né realtà.
Il primo di questi fisici pluralisti è Empedocle (ca. 492 a.C.–ca. 430 a.C.) che visse
in Sicilia, e quindi si trovò nelle migliori condizioni per essere a perfetta conoscenza
delle filosofie razionalistiche sia di Pitagora che di Parmenide. Empedocle è
consapevole dei limiti della conoscenza umana. I poteri conoscitivi dell’uomo sono
limitati e conosce solo ciò in cui per caso si imbatte. Ma appunto per questo non può
rinunciare a nessuno dei suoi poteri conoscitivi ed è necessario che si serva di tutti i
sensi ed anche dell’intelletto per vedere ogni cosa nella sua chiarezza.
Empedocle presentò le sue idee in forma di un poema, Sulla Natura, e a causa
della forma dell’esposizione, le spiegazioni restano spesso nascoste nel linguaggio
poetico, ma il loro significato è profondamente razionale. Secondo Empedocle, la realtà,
nel suo presentarsi alla nostra osservazione, appare indefinitamente diversa eppure
connessa da ritmi, da cicli, da permanenze che ne formano la struttura unitaria; così
come accade per l’organismo vivente, mutevole eppure un o, la realtà appare un tessuto
variegato di poche sostanze semplici, un divenire scandito dal ciclo delle stagioni, della
generazione, degli astri. Il mondo concepito, dunque, come un organismo unitario
vivente e senziente, del quale nessuna parte poteva venire arbitrariamente amputata e
tutte dovevano avere una loro profonda giustificazione. Se questo punto di vista
ilozoico doveva trovare una spiegazione non mitica, una più universale
razionalizzazione, occorreva infondervi i requisiti del vero; occorreva, una volta reso
molteplice l’uno, trovare un’armonia tra questo vero molteplice e la molteplicità
dell’esperito. Da questa esigenza nasce il sistema cosmico di Empedocle, una delle più
potenti sintesi teoriche del pensiero greco.
Alla base del sistema stanno i quattro elementi, o piuttosto radici come li chiama
Empedocle stesso con un termine che meglio corrisponde alla sua visione vitalistica del
mondo: la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria (o meglio l’etere). Ad ognuna di queste quattro
radici veniva attribuito lo status dell’uno: l’infinità e l’immutabilità nello spazio e nel
tempo, l’essere ingenerati e imperituri, e di conseguenza l’assoluta realtà e intelligibilità.
Ciò non significava tuttavia negare la realtà degli infiniti altri oggetti dell’esperienza:
ogni singolo ente è il risultato di una mescolanza delle radici, la sua nascita è la
formazione della mescolanza e la sua morte ne è lo scioglimento; benchè in tali
mescolanze le radici entrino sotto forma di porzioni frazionali, neppure nella minima di
esse perdono alcuna delle loro proprietà
In principio, secondo Empedocle, vi era un universo sferico riempito con le
quattro “radici delle cose”, che sono sempre esistite e da cui hanno origine tutte le cose
create. Insieme con questi elementi vi erano le due forze, amore, che unisce le cose, e
odio che invece le separa. L’amore è leggermente più forte, ma l’odio è necessario
perché vi sia mutamento. L’opposizione di amore e odio divise successivamente i
quattro elementi e questi, a loro volta, produssero la notte ed il giorno, i corpi celesti e
l’universo come lo conosciamo. Dal punto di vista fisico è notevole, nel sistema di
Empedocle, oltre la pluralità degli elementi, l’introduzione di due forze, che oggi
diremmo di attrazione e di repulsione, come causa dei fenomeni e del divenire del
mondo.
Empedocle introdusse un ampio numero di considerazioni di carattere
astronomico: la luce della Luna proviene dal Sole; il Sole e la Luna girano intorno alla
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Terra, entrambi fatti girare da una sfera che li circonda; le eclissi avvengono quando la
Luna, di forma lenticolare, passa tra il Sole e la Terra; la volta celeste è una sfera
cristallina, sebbene l’universo abbia la forma di un uovo, il cui movimento conserva la
Terra immobile nel centro. Secondo Empedocle, l’aria è un corpo, come risulta dal fatto
che l’acqua non entra nella brocca immersavi con l’apertura in giù, che è impedita
dall’aria compressa. La luce è una sostanza fluente, che, emessa dalla sorgente
luminosa, raggiunge progressivamente i corpi interposti, insomma la luce è di natura
corpuscolare e si muove con velocità finita. Essa può attraversare i corpi, perché s’infila
nei pori presenti in questi corpi per la costituzione granulare della materia. I pori,
invisibili a causa della loro piccolezza, non sono completamente vuoti, perché non esiste
il vuoto in natura. Empedocle introduce, così, nella scienza una delle ipotesi destinate a
maggiore fortuna: la concezione corpuscolare, secondo la quale i corpi che noi vediamo
non sono semplici, ma formati di aggregati di particelle elementari, ciascuna delle quali,
presa per sé, è eterna, immutabile, senza movimento o parti al suo interno. Questi
corpuscoli Empedocle li chiama stoicheia (elementi), e sono di quattro specie o rhizomata
(radici). Dall'aggregarsi e dal liberarsi di queste particelle hanno origine tutti i
fenomeni: la nascita e la morte delle cose, le loro trasformazioni quantitative, i fenomeni
meteorologici, ecc. Fondandosi sulla veduta della struttura porosa della materia,
Empedocle cerca anche di spiegare l’attrazione magnetica: i pori sarebbero i ricettacoli
delle influenze reciproche che i corpi esercitano l’uno sull’altro, per via degli effluvi che
da essi emanano.
Plutarco nelle sue Questioni Naturali dice: “Secondo Empedocle tute le cose create
emettono emanazioni … Così ogni cosa è consumata lentissimamente dal flusso continuo
che emana”. Così il ferro è attratto dalla calamita perché entrambi producono
emanazioni, e perché le dimensioni dei pori della calamita corrispondono perfettamente
alle emanazioni del ferro, per cui ogni volta che le emanazioni del ferro si avvicinano ai
pori della calamita vi si adattano per forma ed il ferro è trascinato dalle emanazioni e
quindi attratto. Ciò che è importante non è, naturalmente, la teoria in sé, ma piuttosto lo
sforzo che viene compiuto per spiegare razionalmente i fenomeni entro una prospettiva
unificata.
Empedocle accettò anche la teoria pitagorica della visione, ma approfondendola
per quanto riguarda il colore. Partendo dai quattro elementi primi e immutabili che
compongono il mondo, ammise che l’interno dell’occhio è fatto di fuoco e di acqua
mentre l’ambiente esterno è costituito di terra e aria. La visione avviene per mezzo di
“corridoi” dell’acqua e del fuoco. Attraverso quelli del fuoco si riconosce il bianco,
attraverso quelli dell’acqua si riconosce il nero. I corridoi dell’acqua e del fuoco sono
intrecciati e i vari colori si formano dalla mescolanza dei due elementi e quindi dalla
mescolanza di bianco e di nero. Come gli elementi anche i colori sono quattro: bianco,
nero, rosso, giallo. Empedocle raggiunge una buona visione di quello che sarebbe il
punto di vista scientifico e separa nettamente il piano della rivelazione religiosa da
quello della scienza. Il primo si fonda sulla rivelazione, riservata ai soli iniziati, di verità
arcane trascendenti la possibilità di comprensione dei comuni mortali; il secondo,
invece, sulle testimonianze dei sensi. Date queste premesse, la teoria empedoclea si
presenta come un tentativo di spiegazione sistematica dei fenomeni sensibili, qualcosa
come un’ipotesi, nel senso che la parola acquisterà nella scienza moderna.
Il sistema cosmico costruito da Empedocle, una delle più affascinanti ipotesi
scientifiche mai elaborate, fu rifiutato dal miglior pensiero filosofico-scientifico del V
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secolo (vedi Anassagora), che vedeva nel dogmatismo dell’esperienza, nel rifiuto di
ogni strumento razionale di tipo logico-metodologico il più mortale pericolo per un
libero progresso della ricerca. Eppure, tale sistema apparve a lungo come l’unico che
potesse garantire una sicura base speculativa alle scienza nascenti, dalla biologia alla
fisica, l’unico che ne assicurasse l’universalità. Così all’inizio del IV secolo la dottrina
dei quattro elementi, la concezione organicistica dell’universo (che presto significò
anche visione finalistica), il prevalere della qualità sulla quantità, finirono per trionfare
e passarono in gran parte al platonismo e all’aristotelismo. Tramite questi canali, e sia
pure con aggiustamenti progressivi, tali vedute percorsero un lunghissimo cammino,
fino ad affacciarsi al rinascimento e alle soglie dell’età moderna. Qui tornarono a
scontrarsi con il meccanicismo di tipo democriteo, e risultarono questa volta
soccombenti senza però lasciar del tutto il passo.
Meno grandiosa, meno poetica, ma assai più chiara, è invece la concezione del
mondo di Anassagora di Clazomene (500/497 a.C.-428 a.C.). Al contrario di quanto
abbiamo visto per Empedocle, non v’è da attendersi in Anassagora un approccio
globale alla realtà né un sistema esaustivo di essa. Al contrario, sono proprio la
semplicità del suo modo di porsi di fronte al mondo, il suo rifiuto di imboccare la via
che più direttamente lo conducesse al segreto della spiegazione e dell’unificazione
universale, ad assegnargli un ruolo decisamente innovatore nel pensiero greco del V
secolo. Occorreva lucidità filosofica per dichiarare mal posto il problema della
semplificazione della realtà in pochi elementi o principi primordiali, per rifiutare la
riduzione del molteplice all’uno e la deduzione del molteplice dall’uno.
Anche per Anassagora i corpi sono costituiti di particelle eterne (dette semi),
invisibili, immutabili, senza parti né moto interni; solo che, invece di quattro, le radici
(che da Anassagora pare che fossero chiamate «omeomerie») sono in numero indefinito,
tante quante sono le materie, come ossa, legno, ferro, eccetera, che sminuzzate il più
possibile non mostrano di mutare di qualità (le particelle anassagoriane, dunque,
piuttosto che gli atomi della chimica moderna richiamerebbero le molecole: omeomerie
sarebbero, in termini di oggi, tanto elementi quanto composti). Queste radici od
omeomerie si possono mescolare: anzi, normalmente, ogni corpo è un miscuglio, ma
prende il nome dalla sostanza predominante. Anche qui, nascita, morte, trasformazione
dei corpi, e fenomeni di tutti i generi hanno origine dall'unirsi, in aggregati e miscugli
vari, e dal liberarsi delle particelle.
Quindi, la prima caratteristica dei semi od omemeorie è la loro infinita
divisibilità; la seconda caratteristica è la loro infinita aggregabilità. In altri termini, non
si può, secondo Anassagora, giungere con la divisione dei semi a elementi indivisibili,
come non si può giungere con l’aggregazione dei semi a un tutto massimo, di cui non
sia possibile il maggiore. Il piccolo è, in un certo senso, grande quanto il grande, la parte
è uguale al tutto, e questo paradosso che la logica moderna pone alla base della teoria
dell’infinito, si trova in Anassagora a fondamento della teoria della materia: “Non c’è un
grado minimo del piccolo ma c’è sempre un grado minore, essendo impossibile che ciò
che è, cessi di essere per divisione. Ma anche del grande c’è sempre un più grande. Ed il
grande è uguale al piccolo in composizione. Considerata in se stessa, ogni cosa è insieme
piccola e grande”. Come si vede, quella infinita divisibilità che Zenone assumeva per
negare la realtà delle cose, viene assunta da Anassagora come la caratteristica stessa
della realtà. L’importanza matematica di questo concetto è evidente. Da un lato, la
nozione che si possa raggiungere sempre, per divisione una quantità più piccola di ogni
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quantità data, è il concetto fondamentale del calcolo infinitesimale. Dall’altro lato, che
ogni cosa possa essere detta grande o piccola a seconda del processo di divisione o di
composizione in cui viene coinvolta, è un’affermazione che implica la relatività dei
concetti di grande e piccolo. Poiché non si giunge mai ad un elemento ultimo e
indivisibile, non si giunge mai neppure a un elemento semplice, cioè a un elemento
qualitativamente omogeneo che sia, per esempio, soltanto acqua o aria: in ogni cosa vi
sono semi di ogni cosa e la natura di una cosa è determinata dai semi che prevalgono in
essa. Appare oro quella nella quale prevalgono le particelle di oro, sebbene ci siano in
essa particelle di tutte le altre sostanze. Rispetto all’antica ricerca dell’archè questa teoria
segna un affinamento, per cui alla considerazione della materia si aggiunge quella dello
spazio e della sua infinita divisibilità, secondo una concezione che, in qualche modo,
prelude all’atomismo.
L'effettivo progresso sta nel modo in cui viene concepita la causa di questo moto
dei corpuscoli, riportato non più a cause mitiche, ma a precise forze meccaniche: la
forza centripeta e centrifuga che si sviluppano dal moto rotatorio di cui è animato il
Tutto. Infatti, l’idea fondamentale di Anassagora nel suo modello cosmogonico è quella
del vortice, della conseguente presenza di forze opposte, che oggi chiamiamo centrifuga
e centripeta, che separano qualità opposte, come il denso e il rarefatto. La stessa discesa
dei corpi pesanti verso il centro del vortice, cioè dell’universo, viene connessa alle
azioni centripete e centrifughe che, anche se in forma rudimentale, prelude al tentativo
compiuto da Huygens per spiegare la gravitazione. L’idea del vortice, come abbiamo
già visto, era stata avanzata da Anassimandro e Anassimene, ma per i due milesi il
problema di una causa generale del moto vorticoso dell’universo non esisteva, e il moto
appariva come un attributo naturale, inerente alla sostanza primitiva. Anassagora
invece solleva lo spinoso problema dell’origine del vortice primitivo, ma non può
risolverlo, naturalmente, e ricorre all’ipotesi dell’azione di un intelletto (nous): “ … E
tutto quanto un tal moto domina l’intelletto (nous), e ad esso diede principio. E da
prima cominciò questo moto vorticoso dal piccolo, ma lo estende via via maggiormente,
e lo estenderà sempre più … E si separa il denso dal raro, e dal freddo il caldo, e
dall’oscuro il luminoso, e dall’umido il secco … Il denso e l’umido, il freddo e l’oscuro si
riunirono dov’è ora la terra, mentre il raro, il caldo, il secco si portarono verso la
regione esterna dell’etere … Così le cose si muovono e si separano per la forza e per la
rapidità. La rapidità loro non somiglia alla rapidità di alcuna delle cose che sono ora
fra gli uomini, ma è molte volte più veloce”.
Il nous, l’intelligenza, è un principio che svolge essenzialmente tre funzioni:
ordinamento, comprensione e controllo della realtà. Ma la sua caratteristica innovatrice
sta nella sua separazione dalla realtà: “Le altre cose partecipano delle parti di tutto,
l’intelligenza invece è illimitata e libera delle proprie leggi e a nessuna cosa è commista,
ma sola essa in sé si costituisce. Se non fosse costituita in sé, ma commista ad altro,
parteciperebbe di tutte le cose, a qualsiasi fosse commista … e le cose commiste le
impedirebbero di prevalere su tutte le cose come fa invece sola essendo in sé costituita.
È infatti la più sottile e la più pura di tutte le cose, e ha intera conoscenza di tutto e
potenza grandissima: e tutto quanto ha un’anima, e il maggiore e il minore, tutto
domina l’intelligenza”.
Va detto che questo nous così separato non crea il mondo e non ha senso al di
fuori del suo rapporto con il mondo; quello che Anassagora scopre è la necessità di
un’alterità rispetto al mondo perché il mondo stesso possa essere compreso e
controllato. Anassagora, invocando l’intervento del nous all’origine della sua ipotesi
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fisica, come punto d’inizio del vortice, e poiché tale vortice dava luogo al processo
rettilineo di separazione e individuazione delle cose del mondo, ecco che il nous
significava anche facoltà analitica e discriminante del conoscere; e il progressivo
ordinamento del mondo in un cosmo, operato dal nous, significava anche ricostruzione
di un mondo via via più trasparente nelle sue leggi e nei suoi significati. In definitiva, il
dominio del nous sul mondo significava capacità di trasformazione fondata sulla
comprensione di fysis.
Platone ed Aristotele videro immediatamente nel nous la causa efficiente della
realtà, e rimproverarono ad Anassagora di non averne saputo fare anche la causa finale,
pur riconoscendogli il merito di aver per primo introdotto nel mondo un principio
immateriale. Al di là delle critiche, il merito di Anassagora sta invece nell’aver fatto del
nous il principio di spiegazione delle leggi della realtà e non legge esso stesso. Sebbene
l’idea di una intelligenza che ordina e domina i fenomeni naturali fosse presente nelle
religioni, si può dire che ora per la prima volta un principio mentale occupa un posto
definito in un sistema scientifico, e questa è una svolta importante, giacché tale
principio tenderà ad assumere proporzioni sempre maggiori specialmente per i filosofi
interpreti della scienza, da Platone ad Aristotele, durante tutto il medioevo e fino ai
metafisici dell’Ottocento.
Naturalmente non vi è contraddizione fra Anassagora filosofo del nous e
Anassagora fisico. Avendo assegnato a fysis ed alle scienze i ruoli che rispettivamente
competevano loro, poteva egli stesso dedicarsi all’indagine scientifica senza incorrere in
trasposizioni indebite. Così egli riprendeva dalla tradizione ionica la legge fisica di
condensazione e rarefazione che gli serviva a spiegare un gran numero di fenomeni;
così, contro quella stessa tradizione, tentò di dimostrare la non esistenza del vuoto e che
l’aria è un corpo fisico come gli altri, ricorrendo all’esperienza della brocca di
Empedocle, osservando che gli otri riempiti di aria offrono resistenza alla pressione; alla
stessa maniera non esitava ad asserire la natura fisica dgli astri e le leggi meccaniche che
presiedevano al loro moto.
Un esempio della mentalità scientifica di Anassagora è riportato da Plutarco:
“Una enorme pietra cadde dal cielo su Egospotami; mentre gli abitanti del Chersonesco
presero a venerarla, si dice che Anassagora sostenne che questa pietra proveniva da
uno dei corpi celesti sui quali si era verificata una frana o un terremoto, così che
questa pietra era stata divelta ed era precipitata su di noi”. Altri notevoli concetti di
Anassagora circolavano probabilmente da tempo negli ambienti filosofici della Ionia
come il principio di conservazione della materia: nulla si crea e nulla si distrugge che noi
riteniamo del tutto moderno ma che egli esprime già con tanta concisione: “Niente
nasce e niente perisce … E così rettamente si dovrebbe dire il nascere riunirsi, e il
perire separarsi. Il tutto non è mai né in minor quantità, né in maggiore, chè non è
possibile ci sia più del tutto; ma è sempre uguale”.
È importante notare che in tutte queste ricerche le vedute filosofiche di
Anassagora fungono da ipotesi generali, arricchite via via dai portati dell’indagine
empirica e dell’esperienza accumulata dalle scienze speciali. Ma il nous in se stesso non
è mai oggetto della ricerca, né come causa né come sostanza, giacchè veniva
immediatamente inteso come garanzia della possibilità della ricerca, e poi articolato
come metodo della ricerca stessa. In nome di questa concezione prettamente meccanica
della natura, Anassagora inizia quella metodica demolizione delle superstizioni
religiose che poi verrà proseguita dai sofisti e, forse, da Socrate: prodigi, segni celesti e
simili, vengono ricondotti a fenomeni fisici prodotti da un concorso eccezionale di cause
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naturali. Quando Socrate verrà accusato di aver negato la divinità dei corpi celesti,
affermando che erano cose materiali e naturali (pietre arroventate o qualcosa del
genere), potrà rispondere ironicamente al suo accusatore: “Par che accusi Anassagora”.
Quelle dottrine erano ormai luogo comune in Atene. Sotto molti aspetti Anassagora
appare come un pensatore profondo, quasi moderno in certe sue concezioni; infatti il
suo discepolo Euripide dice: “Beato l’uomo che ha conquistato la sapienza nata dallo
studio della natura; non reca male ad alcuno, azioni ingiuste non compie, ma esamina
l’ordine immutabile della immortale natura, studia di che cosa è composta, come e
perché. Non vi è posto nel suo cuore per azioni ingiuste.”
La crisi metodologica delle scienze a partire dal tardo platonismo, il rifluire
dell’eredità pitagorica ed empedoclea, un nous che non aveva la consistenza né della
cosa né dell’idea, che non giustificava il mondo né a priori, come creatore, né a
posteriori, come causa finale, il fatto che il metodo deduttivo pareva alle stesse scienze
fisiche infinitamente più solido delle indicazioni ipotetiche e di metodo formulate dal
maestro di Clazomene, e, non ultimo, la consolidata identificazione fra stato e religione
mal tollerava lo spregiudicato empirismo del filosofo del nous,, fecero sì che la figura di
Anassagora si eclissasse piano piano.
Fra le più antiche idee filosofiche che hanno cercato di dare una risposta alla
domanda riguardante gli elementi fondamentali della materia, la teoria atomistica è
certamente la più importante poiché, pur essendo priva di una base empirica al pari
delle teorie antagoniste del tempo, con la sua geniale intuizione della discontinuità della
materia rappresenta una sorprendente prefigurazione dei futuri sviluppi della fisica
moderna. Gli atomisti, rispetto alle idee di Empedocle ed Anassagora, propongono una
nuova soluzione: la materia non ha qualità, è omogenea, impenetrabile, indistruttibile e
discontinua, cioè formata da parti non più divisibili dette atomi (dal greco non
divisibili), di forma e grandezza diverse, separate dal vuoto assoluto. Mentre,
concordano con il principio fondamentale dell’eleatismo che solo l’essere è; ma
intendono riportare questo principio all’esperienza sensibile e servirsi di esso per
spiegare i fenomeni. Così intendono l’essere come il pieno, il non essere come il vuoto e
ritengono che il pieno e il vuoto sono i principi costitutivi di ogni cosa. Ma il pieno non
è un tutto compatto, ma è formato da un numero infinito di elementi indivisibili.
L’atomismo rappresenta la riduzione naturalistica dell’eleatismo. Dell’eleatismo
ha fatto propria la proposizione fondamentale: l’essere è necessario; ma ha inteso tale
proposizione nel senso della determinazione causale. Parmenide esprimeva
poeticamente il senso della necessità ricorrendo, per esempio, al fato. L’atomismo
identifica la necessità con l’azione delle cause naturali. Dall’eleatismo, l’atomismo
desume anche l’antitesi tra realtà e apparenza; ma quest’antitesi stessa viene portata sul
piano della natura e la realtà di cui si parla è quella degli elementi indivisibili della
natura stessa. Il risultato di queste trasformazioni, che va al di là delle intenzioni degli
stessi atomisti, è l’avviamento della ricerca naturalistica a costituirsi come disciplina a
sé e a distinguersi dalla ricerca filosofica come tale. La costituzione di una scienza della
natura a disciplina particolare, quale appare in Aristotele, è preparata dall’opera degli
atomisti, che hanno ridotto la natura a pura oggettività meccanica, con
l’esclusione di qualsiasi elemento mitico o antropomorfo.
filosofo debba cercare di raggiungere la realtà autentica delle cose, conscio che la verità
dimora nel profondo della natura. In Democrito esperienza e ragione si trovano in un
rapporto di reciproca continuità e implicanza, infatti, la conoscenza parte dalla
constatazione delle cose attraverso i sensi, si sviluppa mediante un’autonoma
elaborazione intellettuale e logica dei dati, infine, si perviene ad una teoria in grado di
spiegare ciò che i sensi si limitano a mostrare. Questo non significa che in Democrito vi
sia già lo schema metodologico della scienza moderna. Come in tutti i Greci, anche negli
atomisti il momento puramente razionale della ricerca sopravanza il momento
sperimentale, in quanto in essi manca la nozione galileiana di esperimento e di verifica.
Con gli atomisti abbiamo una sorta di “fisicizzazione” del binomio di essere e non-
essere, in quanto essi identificano l’essere con il pieno e il non-essere con il vuoto. Il
pieno è la materia, il vuoto è lo spazio in cui essa si muove.
Sviluppando un motivo già introdotto da Leucippo (V sec a.C.), Democrito cercò
il fondamento materiale del cosmo in un indefinito numero di atomi invece che in un
finito numero di elementi. Anche se molto originale, la teoria atomistica di Democrito
può dirsi frutto maturo tanto della filosofia ionica, nelle omeomerie di Anassagora,
come quella italica, nella dottrina pitagorica delle monadi.
Ma come si è giunti all’idea di atomo? Non certo su base sperimentale in senso
moderno, essendo gli atomisti privi di strumenti scientifici appropriati. Il loro concetto è
il frutto di una deduzione razionale, che discende da una riflessione sulla problematica
della divisibilità sollevata da Zenone. Contro tale affermazione gli atomisti sostengono
che la divisibilità vale solo in campo logico-matematico, ma non in quello reale, in
quanto non è assolutamente possibile pensare di dividere all’infinito la realtà materiale
manifestata dai sensi, perché altrimenti, la realtà si dissolverebbe nel nulla e quindi
dalla materia si passerebbe alla non-materia. Ma se al fondo della natura vi fosse il
nulla, non si capirebbe come dal nulla possa derivare la realtà concreta e materiale dei
corpi. Di conseguenza, secondo Democrito, se si vuole spiegare razionalmente ciò che
appare, bisogna teorizzare l’esistenza di costituenti ultimi della materia, ossia particelle
indivisibili che rappresentano l'ultimo limite dove si arresta ogni possibile divisione dei
corpi materiali. Pertanto, la genesi della materia va ricercata in questi enti primordiali
eterni, immutabili e indistruttibili. Però va chiarito che, secondo Democrito, l’atomo non
è tale per la sua piccolezza, ma proprio per la sua indivisibilità. Infatti, Democrito
riteneva che esistessero anche alcuni atomi grandissimi, anzi “un atomo grande come
un mondo “. Nulla vieta di pensare, per via geometrica, ad una infinita divisibilità,
come facevano Anassagora e Zenone, ma l’atomo è tale propter soliditatem, come diceva
Cicerone, cioè per la sua indivisibilità fisica. Il numero delle forme atomiche può essere
infinito, “perché non v’è ragione che un atomo abbia una forma piuttosto che un’altra”.
Forme diverse potrebbero render conto di varie proprietà chimiche o fisiche.
Gli atomi di Democrito sono anche qualcosa di nuovo rispetto ai punti-unità di
Pitagora; questi punti-unità erano infatti dei puri concetti geometrici, mentre gli atomi
sono delle nozioni fisiche. E fisico è pure il concetto dello spazio in cui Democrito li
considera immersi: esso è il vuoto, cioè il non-essere di Parmenide, interpretato non più
come la negazione metafisica di ogni essere, ma come la “mancanza di atomi”, la
mancanza cioè di materia. Ma cosa significa che l’atomo è una nozione fisica? Non
ovviamente che l’atomo fosse percepibile dai sensi, perché Democrito affermava che gli
oggetti da noi percepiti sono aggregati di atomi; e nemmeno che l’atomo fosse
raggiungibile con strumenti fisici, dato che la nozione di “strumento fisico”, capace di
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accrescere la potenza dei nostri sensi, mancava quasi completamente ai greci del V
secolo. Per dare un senso alla fisicità degli atomi democritei, non resta che un unico
mezzo, inquadrarla nella generale esigenza razionalistica del nostro pensatore.
L’osservazione ci fornisce sempre oggetti che possono essere suddivisi. Su questa base
empirica, la ragione può compiere due postulazioni: o affermare che la divisibilità è
proseguibile all’infinito, o affermare che incontra un limite. Le due postulazioni sono
entrambe ragionevoli, tanto è vero che Democrito stesso non teme di far ricorso alla
prima nelle sue indagini puramente matematiche. La prima, però, ci conduce a
concepire l’essere come somma di infiniti zeri, e quindi fa assurdamente scomparire
l’insuperabile barriera che nella realtà divide l’essere dal non-essere. Per evitare questa
gravissima conclusione, questa illusoria riduzione dell’essere al non-essere, la ragione
non ha che una via: respingere la prima postulazione e accogliere la seconda. L’atomo è
il frutto di questa postulazione, e come tale è garantito da un complesso di argomenti
rigorosamente razionali.
Per Democrito vi erano, dunque, due realtà: gli atomi ed il vuoto. Gli atomi sono
insecabili a causa della loro durezza, non della piccolezza, formati tutti di eguale
sostanza, e variano per la forma e le dimensioni e, nel raggrupparsi, per l’ordine. In che
modo gli aggregati di atomi producono in noi le percezioni sensibili? Sulla base di
ipotesi già espresse da Empedocle, ogni percezione è dovuta a contatto. Per esempio, la
percezione di un corpo con la vista è dovuta ad un effluvio di atomi che partono da quel
corpo e giungono agli occhi; ciò che esiste è soltanto questo urto; il colore non è che un
effetto secondario dell’urto sull’organo sensoriale. In altri termini la forma e la
grandezza degli atomi esistono per natura, per cui il peso e la durezza sono qualità reali
dei corpi, cioè oggettive; le qualità sensibili della nostra esperienza (caldo, freddo,
colore, suono, ecc.) sono soggettive, affezioni dell’individuo che le avverte e dipendono
dalla forma degli atomi che in ciascun corpo prevalgono. In particolare la percezione
dei suoni, grazie alla nuova concezione dell’aria “composta di particelle minute” che
sorge con Democrito, veniva interpretata come vibrazioni dell’aria interposta fra la
sorgente sonora e l’orecchio. Nonostante le loro benemerenze nel campo dell’acustica, i
pitagorici non erano giunti a quella teoria della propagazione del suono, a cui
Democrito perviene in base alla sua concezione atomica dell’aria, secondo una
autorevole testimonianza (Ezio, Frammenti): “Democrito dice che l’aria è costituita da
particelle di forme simili, e viene messa in movimento ondulatorio assieme ai
frammenti di aria che provengono dalla voce”. Democrito spiegava il vario peso
macroscopico dei corpi con la diversa mescolanza in essi di atomi e di vuoto, e, pare,
attraverso una difficile interpretazione di qualche frammento scritto che ci è pervenuto,
che intervenisse nella spiegazione anche il diverso peso degli atomi costituenti i corpi.
La diversa durezza era spiegata con la diversa distribuzione degli atomi, per cui nel
linguaggio moderno, diremmo che la durezza era una proprietà collegata con la
struttura reticolare dei corpi. L’esistenza del vuoto, quell’assoluto non essere che
Parmenide aveva dichiarato impensabile, diventa elemento necessario in questa visione
e descrizione del mondo, altrimenti gli elementi della materia non potrebbero
distinguersi l'uno dall'altro e formerebbero un tutto unico e continuo: "... non esistono
che gli atomi e lo spazio vuoto: tutto il resto è opinione".
Nel concetto di Leucippo e Democrito, l’ipotesi atomica è necessaria per spiegare
non soltanto le proprietà fondamentali della materia, ma anche per fornire una teoria
cinetica del mondo e del suo divenire: il processo cosmico è originato dal moto degli
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atomi nel vuoto e dai loro urti. E in tale sistema cinetico tutto dipende da ragioni
meccaniche, per cui il mondo è regolato dal più rigido determinismo.
Democrito, tenendo salda la geniale intuizione di Anassimandro, per cui l’alto e
il basso hanno un significato relativo, rispetto alla Terra, pensa al vuoto come ad uno
spazio geometrico, piuttosto che fisico, senza alto, né basso, né centro, in cui gli atomi
sono dotati di movimento casuale ed eterno, ma, nonostante questo, il simile cerca il
simile, così alcune combinazioni sono favorite rispetto ad altre. Ogni corpo, più o meno
stabile e durevole, si origina e si disgrega a causa dell'aggregazione e della separazione
delle particelle in collisione. Nella disgregazione, poi, nulla va perduto degli elementi
reali (atomi) che compongono la materia. Una porzione, sia pur piccola, di spazio vuoto
separa sempre due atomi distinti, anche allorchè sembrano inscindibilmente legati in un
corpo solido. La rottura di tale corpo in due parti non è altro che l’accrescimento dello
spazio vuoto interposto fra gli atomi che compongono le due parti. Il movimento degli
atomi provoca inoltre le sensazioni fisiologiche: per esempio, la visione è provocata da
particolari specie atomiche, dette "immagini", che uscendo dagli oggetti, dove esiste
luce, passano attraverso l'organo della vista fino a interagire con gli atomi ignei
dell'anima.
Gli atomisti riescono a superare la critica relativistica di Parmenide e Zenone
definendo il moto in sé come moto “rispetto al luogo”. Aristotele nella Metafisica ci parla
di questo movimento degli atomi rispetto al vuoto, affermando che gli atomisti hanno
postulato che il vuoto ha una realtà al pari del pieno: “Leucippo e il suo seguace
Democrito dicono essere elementi il pieno e il vuoto, dicendo l’uno l’essere, l’altro non-
essere (dunque in polemica con Parmenide): il pieno e solido chiamano essere, il vuoto e
inconsistente chiamano non essere; perciò dicono anche che il non-essere è altrettanto
reale quanto l’essere, perché il vuoto non è meno reale del corpo”. Questa è un’idea che
richiama lo spazio assoluto di Newton, le susseguenti concezioni di un etere che lo
riempie, infine l’attuale concetto di spazio o campo metrico, come realtà fisica. Ma come
è possibile spiegare il movimento degli atomi? A questo scopo Democrito non ritiene di
dover ricorrere a qualche causa o principio esterno agli atomi stessi, come era per
esempio il nous di Anassagora. Preferisce concepire il movimento come uno status
naturale degli atomi, status che non necessita di spiegazioni ma serve invece a spiegare
la formazione degli aggregati di atomi, cioè dei corpi, e le loro proprietà. Questo moto
naturale degli atomi implica una prima veduta del principio di d’inerzia, che sarà
formulato da Galileo nel XVII secolo (questo principio afferma, infatti, che il moto
rettilineo uniforme non richiede la presenza di alcuna causa che lo provochi; solo dove
si ha accelerazione deve esserci una causa che la produce). Aristotele, incapace di
accogliere questa concezione vi ripugna, ma proprio lui nella Metafisica mostra
chiaramente il pensiero di Democrito: “In quanto al moto, donde e come si trovi negli
enti, anche costoro, non molto diversamente dagli altri, con leggerezza tralasciarono di
indagare”. E ancora nella Fisica: “Inoltre (nel caso del vuoto) non vi sarebbe ragione
perché un corpo in movimento debba fermarsi piuttosto qui che lì. Perciò o resterà
immobile o si muoverà all’infinito, a meno che non sia impedito da un ostacolo più
forte”. Questa sembra ad Aristotele una confutazione indiscutibile basata sul principio
di ragion sufficiente (se un corpo si muove nel vuoto di moto uniforme, sia pure per un
tempo brevissimo, per quale ragione non dovrà poi continuare all’infinito a muoversi
così?). E invece non è altro che il principio d’inerzia: egli lo ha sotto gli occhi, ma non
riesce ad afferrarne la verità.
Il caotico movimento degli atomi, simile al moto del pulviscolo atmosferico,
6=! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
origina "gli infiniti mondi e tutte le cose", differenziate dalla qualità, tipo, forma e
dimensione, e dalla quantità delle particelle materiali, che popolano lo spazio vuoto;
pertanto Democrito ritiene che vi siano infiniti mondi che perpetuamente nascono e
muoiono, intuizione grandiosa, ripresa poi da Giordano Bruno. Esisteranno mondi
senz’acqua, oppure mondi con più soli o con più lune, ma anche mondi analoghi al
nostro. Anche l’universo, preso nella sua totalità, risulta spazialmente infinito, poiché
non è pensabile un limite oltre il quale non si possa procedere. Eterna come il
movimento è pure la sostanza complessiva dell’universo, che non può né aumentare né
diminuire, perché implicherebbe una creazione dal nulla o una dissoluzione nel nulla,
per cui gli atomisti fanno proprio il postulato di origine eleatica secondo cui nulla viene
dal nulla e nulla torna al nulla.
Che non vi siano cause finali, ma solo una pura necessità meccanica che governa
i fenomeni naturali, è una filosofia che Aristotele non cessa di rimproverare a
Democrito, e che sembrerà irrazionale per secoli, finché non diverrà criterio metodico
fondamentale della scienza moderna. Comunque è chiaro che Democrito tendeva a
sopprimere le cause finali, e perciò le spiegazioni teleologiche, in ogni campo. Alla
domanda “perché”? egli pensava che si dovesse rispondere non specificando a quale
scopo accade un certo fatto, ma piuttosto “come” accade, ossia quali sono le cause
meccaniche che lo hanno prodotto. Gli atomi in moto sono, secondo la teoria
democritea, la totalità della natura pensabile, per cui, non solo non è necessario chiarire
la causa di tale moto, come pretendeva Aristotele, ma, dal punto di vista della pura
logica, è assurdo richiederla, ed è ciò che voleva dire Democrito quando asseriva che
“non si dà principio (cioè causa) dell’eterno e dell’infinito”. In virtù di questo insieme
intercollegato di teorie, l’atomismo rappresenta a tutti gli effetti una filosofia
materialistica, in quanto la materia, insieme al vuoto, costituisce l’unica sostanza e
l’unica causa delle cose. Ritenendo che le uniche realtà del mondo siano la materia, il
movimento e le loro leggi, gli atomisti sono i primi a voler interpretare la natura con la
sola natura, contrapponendo la necessità meccanica alla volontà degli dèi, per cui parte
integrante di tale materialismo è il meccanicismo, per il quale tutto ciò che avviene
nell’universo presuppone un sistema ben preciso di cause che lo abbia prodotto
(casualismo). Un noto frammento di Leucippo recita: “nulla si produce senza ragione,
ma tutto avviene per un motivo ed in forza della necessità”.
Tuttavia, poiché alla base del mondo non esiste nessuna forza intelligente e
ordinatrice e nessun progetto, l’universo degli atomisti può dare l’impressione di essere
sospeso al caso. Democrito stesso, affermando che tutto ciò che esiste è frutto del caso e
della necessità, intende dire, molto probabilmente, che il cosmo, pur essendo il frutto di
cause naturali ben precise, opera al di fuori di ogni programmazione o
predeterminazione qualsiasi. Attesta Simplicio: “Secondo Leucippo, Democrito ed
Epicuro il mondo non è animato, né retto dalla provvidenza, ma è composto di atomi di
una natura priva di ragione”. Da questa panoramica visione del mondo di Democrito
si nota la tendenza a unificare nella logica degli atomi ogni conoscenza (unità del
sapere). Dai fenomeni naturali a quelli biologici, dall'astronomia all'etica tutto deriva
dagli atomi. Forse, proprio questa teorizzazione riduzionistica rappresenta il motivo
principale della forte opposizione contro le idee atomistiche. Per diversi secoli infatti la
teoria di Democrito fu incessantemente contestata non solo dalle scuole filosofiche
antagoniste (a cominciare dai platonici che la tradizione vuole abbiano fatto bruciare le
opere di Democrito), ma anche da molti maestri delle singole discipline scientifiche,
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gelosi della specificità delle proprie ricerche e intolleranti che da un'unica matrice
potesse nascere ogni conoscenza.
Nel momento in cui fiorivano nelle città greche le forme più libere di governi
popolari, la scienza non poteva conservare quel carattere aristocratico che aveva avuto
nei primi secoli della civiltà ellenica. Non basta più che il filosofo comunichi a una
piccola schiera di discepoli i risultati delle proprie investigazioni sulla natura delle cose.
Il popolo, sempre di più coinvolto nella vita pubblica delle proprie città, vuole attingere
anche alle fonti del sapere. E la scienza diventa una potenza sociale, un momento
decisivo della politica. Ecco, quindi, che lo sviluppo di una forma di governo
democratica attrasse ad Atene, nella prima metà del quinto secolo, un buon numero di
matematici, molti dei quali erano ex membri della setta pitagorica, ora dispersa. Essi
furono chiamati “sofisti” (ossia dotti o professori) poiché insegnavano ai propri allievi,
dietro pagamento, come argomentare per affermarsi in un dibattito, usando gli
argomenti logici della matematica. Ora, se i sofisti erano maestri e divulgatori di
scienza, non è da aspettarsi di trovare in essi una filosofia o una dottrina uniforme; le
più svariate idee potevano esprimersi nella loro propaganda intellettuale. Comunque,
nel primo periodo, i sofisti più rappresentativi sono filosofi empiristi, antagonisti del
razionalismo parmenideo.
Per uomini come Protagora (ca. 485-411 a.C.), Gorgia (ca. 485-376) e Prodico (ca.
460-380 a.C.), i maggiori esponenti della prima sofistica, la logica è una premessa, se
non un indirizzo, necessaria per la formazione di un linguaggio filosofico e scientifico
esatto, quale apparirà poi in Platone ed Aristotele. Per i sofisti ad ogni logos si
contrappone un logos, e questi due logoi sono ben più che un semplice esercizio
didattico, ma rappresentano la base dell’esame, dell’analisi di ogni situazione reale, lo
spirito del ragionare che è sempre un dialogare, un perseguire, attraverso il discorso,
non già il vero (non esiste un vero dato oggettivamente una volta per tutte), ma ciò che
risulterà più alto, migliore, entro l’ambito di una ricerca sempre perfettibile. Forse
impressionato dalla mutevolezza delle prospettive scientifiche del secolo precedente,
Protagora, ponendo l’uomo al centro del proprio universo che fa dell’uomo “la misura
di tutte le cose”, si professa “relativista”, per cui concepisce la verità come una forma di
conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo rapporto
con l'esperienza. Non esiste un'unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di
opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate
comunque valide ed equivalenti. Questo relativismo investe tutti gli ambiti della
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conoscenza, dall'etica alla politica, dalla religione alle scienze della natura. Questa
posizione filosofica ha un riscontro nel pensiero moderno, in particolare nella posizione
di Berkeley. Infatti la formula berkeleyana esse est percipi, si riduce in ultima analisi al
concetto protagoreo dell’homo mensura.
Molti hanno avvicinato i sofisti ai positivisti ed empiristi del XIX secolo, e i
moderni positivisti logici, al grido di “viva i fatti e abbasso la metafisica”, hanno
combattuto la stessa battaglia: la verità metafisica che pretende di superare e
contraddire il giudizio dei sensi.
La critica dei sofisti si esercitava anche nei confronti delle credenze morali e
religiose e sugli istituti tradizionali della società greca. La discriminazione tradizionale
fra “natura” e “apparenza” delle cose, trasferita dall’ordine fisico all’ordine sociale,
acquista un nuovo significato, cui risponde una nuova antitesi: “per natura” e “per
convenzione”. Agli occhi dei custodi della morale e della fede, o dei conservatori in
genere, siffatte critiche minacciano di dissolvere ogni autorità e quindi la vita dell’intera
società. Il turbamento morale portato dalla critica sofistica doveva suscitare la reazione
più forte e decisiva nei centri tradizionalistici e conservatori di Atene, dove la scienza
demolitrice era stata diffusa con l’educazione della gioventù nelle pubbliche
discussioni. La divulgazione della scienza e della critica provocava la seguente reazione:
l’indirizzo della filosofia veniva piegato verso i bisogni spirituali e morali del popolo.
Socrate (469 a.C.–399 a.C.) esprime questa reazione, ed è uno degli ateniesi più
avversi ai sofisti, anche se con essi condivideva l’abilità nella discussione. Egli si
interessò dei problemi relativi alle argomentazioni, ma più nel tentativo di scoprire
come trovare se la conclusione di un’argomentazione sia vera, piuttosto che trovare se
sia convincente. Paradossale fondamento del pensiero socratico è il "sapere di non
sapere", un'ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, e
quindi movente fondamentale del desiderio di conoscere. Il non sapere socratico, l’idea
che la conoscenza scientifica non è episteme, sapere certo, ma doxa, sapere congetturale,
che lo scienziato è cercatore non possessore della verità, sarà la tesi del fallibilismo di
Popper.
Socrate non si interessò del mondo fisico, ma del mondo della società umana, per
cui le sue idee ebbero poco a che fare con la scienza. Lo studio della fisica non lo
interessava perché non aiutava nella comprensione dei concetti etici e di ciò che egli
credeva fosse la realtà ultima; anzi rimproverava i naturalisti di spiegare i fenomeni
“con aria, etere, acqua ed altre simili cose strane”, anziché cercare lo scopo di tutto ciò
che è o accade. Comunque Socrate era propenso a prendere in considerazione una
concezione meccanicistica della natura al fine di ricondurre a cause naturali i fenomeni
fisici, se non altro per contrastare la visione magica e superstiziosa degli avvenimenti
naturali. Si sa, però, che fu molto interessato al pensiero di Anassagora ma se ne
allontanò per la teoria del Nous (Mente) che metteva ordine nel caos primigenio degli
infiniti semi. Infatti, Socrate pensava che questo principio ordinatore dovesse essere
identificato con il sommo principio del Bene, un principio morale alla base
dell'universo, ma quando invece si accorse che per Anassagora il Nous doveva invece
rappresentare un principio fisico, una forza materiale, ne fu deluso e abbandonò la sua
dottrina. Con questo spirito teleologico, combattendo la spiegazione naturaluistica,
Socrate si contrappone, più che alla particolare filosofia sofistica, alla scienza medesima.
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Platone ammette anche una conoscenza sensibile che presenta due gradi: uno
inferiore (la congettura), e uno un po’ più elevato (la credenza). Ma con questo
rimaniamo sempre nell’illusorio mondo dei sensi, che è quello della “caverna” e delle
ombre. La scienza è posta al di sopra di tutto ciò, come conoscenza intellettuale. Anche
la conoscenza intellettuale ha due gradi, esattamente come quella sensibile. Il grado
inferiore è rappresentato dalla intelligenza, quello superiore dalla ragione. Questa
distinzione ha grande importanza per comprendere il concetto che Platone si faceva
della matematica: “Coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, e di altre
discipline del genere, suppongono certe ipotesi come cose evidenti a tutti. Prendono le
mosse da tali presupposti, e procedono poi, nei loro ragionamenti, da una proposizione
all’altra, e giungono così alla dimostrazione che si propongono”.
Se la matematica deve essere qualche cosa di più che un complesso di ipotesi, noi
dobbiamo esser certi della esistenza di queste figure perfette, e questa certezza è
raggiunta solo dalla ragione, svincolata da ogni suggestione del mondo sensibile, la
quale vede queste figure, esistenti realmente in un mondo superiore, ultrasensibile: “La
geometria, e le scienze che vi si connettono, sognano, rispetto all’esistente, ma è
impossibile che lo vedano ad occhi aperti, finché debbono valersi di postulati, e tenerli
per certi, senza tuttavia poterne rendere conto”. È colta la presenza di un processo
ipotetico-deduttivo della matematica, ed è posto il problema del valore conoscitivo di
tale scienza e del suo compito di mediatrice fra il mondo dei sensi e quello della pura
ragione.
Una volta riconosciuta nella teoria delle idee l’importanza della matematica per
la sua intrinseca purezza, Platone doveva, tuttavia, negare ogni valore scientifico alla
fisica in quanto concepita come studio dei fenomeni nel loro fluire empirico, e quindi
manterrà la sua polemica e intransigenza contro tutte le ricerche compiute dai
naturalisti greci del V secolo. E va notato che tali ricerche vengono da lui combattute
proprio in ciò che, per la scienza moderna, esse hanno di più positivo, cioè nel loro
presentarsi come tentativi di spiegare il corso dei fenomeni per mezzo di cause
puramente fisiche e meccaniche. Alle ricerche meccaniche dei fisici, Platone
contrappone una spiegazione matematico-finalistica della natura, che da sola permette
di scoprire la ragione dei fenomeni in quella assoluta realtà che costituisce la loro
essenza profonda, cioè l’archetipo cui essi devono sempre più approssimarsi. Da questo
punto di vista l’antagonismo Platone-Democrito assume il carattere di un vero dramma
del pensiero umano, e su di esso si innesterà anche la fisica aristotelica, anche con
schemi diversi da quella platonica, ma con lo stesso odio contro ogni spiegazione
puramente meccanicistica.
In questa separazione, tra il mondo dei sensi e quello delle idee, sta tutta la forza
e la debolezza del platonismo visto sotto l’aspetto del pensiero scientifico. Forza, perché
proprio da esso, a partire da Leonardo e continuando con Galileo, trarrà giustificazione
il processo di idealizzazione astraente dei fisici-matematici, quel processo che consiste
nel risolvere la natura nell’azione di alcune grandi leggi descriventi non pure e semplici
estrapolazioni induttive, ma fenomeni standard, ridotti a condizioni e rapporti di ideale
esattezza matematica, rispetto a cui le misure delle verificazioni empiriche
rappresentano soltanto rozze approssimazioni. Sì che proprio dal platonismo trarrà
origine uno degli aspetti più efficienti della scienza moderna, la costruzione di
un’immagine ideale del mondo come trama e tessuto di relazioni matematiche astratte.
Ma immensa debolezza scientifica, anzi vero e proprio atteggiamento antiscientifico, in
quanto, perduto di vista, anzi deliberatamente negato, il carattere artificiale e funzionale
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di questa trama di rapporti puramente discorsivi, una volta deificato il discorso stesso,
esso diviene un preteso vero dischiuso ai soli iniziati, di fronte al quale il mondo
concreto dei fatti empirici decade a ombra e congettura, a opinione o a mito.
Vi sono aspetti della cosmologia di Platone, anche se apparentemente lontani
dalla scienza, che furono della massima importanza per lo sviluppo del pensiero
scientifico. Platone, nella sua lotta contro il materialismo e l’ateismo derivante dalla
filosofia degli ionici, vuole sostituire le divinità olimpiche, di origine troppo popolare e
ingenua e condannate dal progresso e incapaci di vivere nel nuovo clima intellettuale di
Atene, con altre divinità atte a sfidare i progressi della scienza. Naturalmente occorreva
dimostrare che i corpi celesti hanno un’anima, e un’anima divina; ma questo risultava
facile per i voli metafisici per il fondatore dell’Accademia. Poiché solo i viventi hanno
una capacità di auto-movimento, mentre la materia inanimata, in contrasto con
Democrito, non era capace di ciò ed aveva bisogno di essere mossa da qualcosa che
fosse fuori di lei. Inoltre, “la mole immensa” degli astri, unita alla regolarità dei loro
movimenti, era una prova dello loro “intelligenza”: “… ciò che agisce sempre nello stesso
modo, uniformemente e sotto l’influsso delle stessa cause, dovrebbe proprio per questo
essere considerato come dotato di intelligenza, e ciò si applica specialmente agli astri …
Che cosa potrebbe fare sì che una massa così grande (il Sole) si muova lungo la propria
orbita, nell’esatto intervallo di tempo in cui essa compie regolarmente il suo percorso?”
E ancora, in tarda vecchiaia, quando la propaganda culturale dell’Accademia
aveva ottenuto il suoi effetti, Platone poteva affermare: “Oggi accade tutto il contrario
di quando si riteneva che i corpi celesti fossero senz’anima, benché già allora si
provasse una certa meraviglia nel considerarli, e, da parte di tutti coloro che li
studiavano attentamente, si sospettasse ciò che oggi si ritiene come cosa certa, cioè il
fatto che corpi inanimati, privi di intelligenza, non potrebbero mai attenersi con tanta
esattezza a calcoli meravigliosi”.
Infine, le relazioni che le stelle hanno con la musica, cioè le conclusioni cui erano
giunti i pitagorici, sono assunte da Platone come ultime prove sicure del fatto che vi è
un’intelligenza negli astri.
Platone, ovviamente ignorava il principio d’inerzia e le leggi meccaniche che
sono alla base del moto dei corpi celesti, conoscenze che avranno compimento nel XVII
secolo, da un’attenta osservazione dei fatti che appartengono al mondo sensibile,
proprio quel mondo che Platone disprezzava. Nella sua opera, il Timeo, Platone espone
questa sua visione cosmologica e tentando di risolvere la dicotomia tra il mondo
dell’essere ed il mondo del divenire, trovando l’anello di congiunzione, quindi,
nell’Anima del mondo. Questa è stata posta dal creatore (il demiurgo) nel mezzo di un
universo sferico. L’Anima del mondo, mossa da se stessa, ha allora creato il cosmo eterno
e lo ha dotato di un movimento perfetto, il
movimento circolare. All’estremità circolare del
cosmo vi è la perfezione, al suo centro la Terra,
imperfetta. Dalla materia, originata dall’Anima del
mondo, combinata con le idee è derivata la
sostanza. Platone riconobbe come validi i quattro
elementi di Empedocle ma li credeva composti da
solidi regolari: il fuoco da piramidi, la terra da
cubi, l’aria da ottaedri e l’acqua da icosaedri.
Questi solidi sono tutti scomponibili in triangoli,
che sono formati da linee, che a loro volta sono formati da punti derivanti da numeri i
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quali sono simili alle idee. Platone fu anche il primo a sostenere l’opportunità di trovare
un modello geometrico dell’universo fisico, un metodo che si doveva rivelare
estremamente fecondo nello sviluppo dell’astronomia matematica.
Nel campo dell’ottica Platone ammise che dagli oggetti parta un fluido speciale
che s’incontra con la “mite luce del giorno” che “liscia e densa” sgorga dalle nostre
pupille. Se i due fluidi sono simili, incontrandosi “s’uniscono strettamente” e l’occhio
riceve la sensazione visiva; ma se “la luce degli occhi” incontra un fluido dissimile, si
estingue e più non riporta la sensazione all’occhio. Una conquista importante dovuta
alla scuola platonica è la geometrizzazione dei fenomeni dipendenti dalla luce riflessa:
per la prima volta troviamo esplicitamente affermata l’identità fra l’angolo di incidenze
e quello di riflessione.
ad ammettere una natura intelligente, fu una pietra angolare della sua visione
scientifica dell’universo, ma anche il suo limite, tale da limitare la portata e la fecondità
della sua indagine scientifica; infatti, la nascita della scienza moderna richiederà proprio
l’abbandono completo della via platonico-aristotelica.
Aristotele accetta la teoria empedoclea dei quattro elementi (terra, acqua, aria,
fuoco), interpretandoli però non tanto come corpi, quanto come modi di essere, e cerca
poi di giustificare con argomenti a priori perché essi debbano essere proprio quattro. La
terra è l’elemento freddo-secco, che tende verso il basso; essa deve essere
controbilanciata dal suo elemento contrario, il fuoco, che è caldo-secco, e tende verso
l’alto. Fra essi devono esistere altri due elementi con funzioni mediatrici: l’acqua,
fredda-umida, e l’aria, calda-secca. Anche l’acqua tende verso il basso, ma meno della
terra, visto che una pietra affonda. L’aria invece tende in alto, ma meno del fuoco, visto
che una fiamma, pur stando nell’aria, tende sempre a salire. La terra ha il proprio luogo
attorno al centro del mondo, coincidente con il centro del globo terrestre; il luogo
dell’acqua è intorno al luogo della terra; poi viene il luogo dell’aria e attorno a questo il
luogo del fuoco. L’insieme dei quattro luoghi forma il mondo sublunare. Sopra il luogo
del fuoco si trova il cielo, formato dal quinto elemento, l’etere, un elemento perfetto,
purissimo, imperituro, non trasformabile e non generabile. L’aggiunta di questo quinto
elemento (quintessenza), viene giustificata da Aristotele in base ad un complesso di
considerazioni molto generali sul moto, pertanto occorre accennare alla teoria
aristotelica del moto.
La scienza aristotelica del moto, che dopo aver dominato la fisica per parecchi
secoli, fu combattuta dal Rinascimento in poi e infine superata da Galileo. Il moto di
Aristotele ha un’accezione molto più ampia di quella che, da Galileo in poi, ci è abituale.
Aristotele intende per moto qualunque variazione quantitativa o qualitativa per cui un
fenomeno si realizza, e per questa ampia accezione egli poteva dire che nella natura
tutto è movimento e le sostanze in movimento, che sono percepibili con i sensi,
costituiscono l’oggetto della fisica: l’essere in movimento è l’oggetto proprio della fisica
e tale scienza diventa essenzialmente una teoria del movimento e le sostanze fisiche
vengono distinte e classificate secondo la natura del loro movimento.
Nella Metafisica Aristotele afferma: “La fisica è una scienza che si occupa di un
certo genere di essere (essa ha infatti per suo oggetto quel genere di sostanza che ha in
sè stessa il principio del movimento e della quiete…); la fisica non potrà essere se non
attività contemplativa, ma contemplativa di quel genere di essere che ha la possibilità
di muoversi, e di una sostanza che ha per lo più una sua forma, ma che, soltanto, non è
separabile dalla materia” .
Aristotele ammette quattro tipi di movimento: il movimento sostanziale (cioè la
generazione e la corruzione), il movimento qualitativo (cioè il mutamento o
l’alterazione), il movimento quantitativo (cioè l’aumento e la diminuzione), il
movimento locale (cioè il movimento propriamente detto inteso come variazione di
posizione di un corpo rispetto ad altri al variare del tempo) al quale si riducono tutti gli
altri movimenti. Il moto locale si distingue in moti naturali e quelli contro natura o
violenti. Il moto naturale può essere: moto verso il basso o l’alto, che è caratteristico dei
quattro elementi e moto circolare, caratteristico degli astri. Il moto verso il basso o l’alto
ha in sé qualcosa di imperfetto, tendendo a seguire un cammino rettilineo che è figura
meno perfetta del cerchio (perché il segmento rettilineo non rientra in sé, ma è
delimitato da un punto iniziale e uno finale), e viene realizzato da quegli elementi
(terra, acqua, aria, fuoco) che compongono le cose terrestri o sublunari e che possono
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dal passaggio del proiettile, imprimendo così un moto al proiettile stesso. Ne risulta una
dinamica molto diversa dalla nostra. Nella dinamica aristotelica un corpo in moto è
sempre sotto l’azione di una forza applicata al tempo e inversamente proporzionale alla
resistenza del mezzo. Ne segue che nel vuoto, risultando nulla la resistenza del mezzo,
la velocità sarebbe infinita, ossia il corpo avrebbe il dono dell’ubiquità. È una
conseguenza talmente contraria al senso comune che Aristotele conclude essere
impossibile il vuoto in natura.
“Se dunque il motore A ha mosso B lungo uno spazio C in un tempo D, allora nello stesso tempo la
stessa forza A muoverà ½ B per uno spazio doppio in C, ed in ½ D muoverà ½ B per l’intero
spazio C”.
Che l’effetto di una forza sia per Aristotele una velocità, lo si deduce pure quando afferma che la
velocità di caduta di un grave è proporzionale alla sua pesantezza: “se un certo peso percorre uno
spazio in un certo tempo, un peso maggiore percorrerà lo stesso spazio in un tempo più breve, e il
rapporto che hanno tra loro i due pesi sarà anche quello che avranno fra loro i due tempi; per
esempio, se la metà peso copre una distanza in un tempo x, l’intero peso la coprirà in ½ x”.
Ad Aristotele era ben noto anche che la velocità di un grave durante la caduta va aumentando e
interpretava questo fatto sostenendo che i corpi man mano che si avvicinano al loro luogo naturale si
muovono più velocemente.
Gli argomenti che Aristotele porta a sostegno della tesi secondo cui lo spazio
vuoto non esiste sono vari. Infatti, posto che l’essenza dei luoghi naturali consista
nell’alloggiare gli elementi, lo spazio non è concepibile come realtà a sé stante,
indipendente dai corpi. Questa teoria dello spazio porta a negare non solo il vuoto
intracosmico, cioè il vuoto fra oggetto e oggetto, ma anche il vuoto extracosmico, ossia il
vuoto che ospiterebbe l’universo. Infatti, dal punto di vista aristotelico, se ha senso
chiedere dove si trovi un oggetto, non ha senso chiedere dove si trovi il mondo. In altre
parole, tutte le cose sono nello spazio, ma non l’universo. Infatti l’universo non è
contenuto in alcunché, poiché esso è ciò che tutto contiene (dottrina che può sembrare
astrusa ma che presenta affinità con il modello di universo proposto da Einstein).
Queste speculazioni sullo spazio e sul vuoto differenziano Aristotele dagli atomisti, i
quali avevano sostenuto che senza il vuoto non c’è movimento in quanto gli atomi non
si potrebbero muovere se fossero pressati insieme senza intervalli vuoti. Aristotele
ritiene invece che il movimento nel vuoto non sia possibile. Difatti nel vuoto non ci
sarebbe né un centro, né un alto, né un basso; per conseguenza non ci sarebbe motivo
per un corpo di muoversi in una direzione piuttosto che in un’altra e i corpi
rimarrebbero fermi. In tutte queste argomentazioni, Aristotele, si avvale continuamente
della teoria dei luoghi naturali, fondata sulla classificazione dei movimenti, e va tanto
oltre da portare come argomento contro il vuoto quello che noi oggi chiamiamo
principio d’inerzia. Nel vuoto, egli dice, un corpo o resterebbe in riposo o continuerebbe
il suo movimento, finché non gli si opponesse una forza maggiore. Questo dovrebbe
essere un argomento contro il vuoto, ma in realtà dimostra soltanto che Aristotele
ritiene assurdo quello che è il primo principio della dinamica, cioè il principio d’inerzia.
Per quanto riguarda il tempo, Aristotele afferma che esso si definisce solo in relazione al
concetto di divenire, poiché in un ipotetico universo di entità immutabili la dimensione
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tempo non esisterebbe. Sebbene il cosmo aristotelico sia più scientificamente fondato di
quelli elaborati dai presocratici, vi è una marcata affinità, che consiste nel fatto che
Aristotele completò le lacune e risolse i problemi posti da essi prima di lui. L’horror
vacui sarà un cardine della fisica aristotelica e la polemica tra vacuisti e pienisti si
protrarrà fino al Rinascimento scientifico.
La polemica di Aristotele contro il vuoto è uno dei cardini della sua fisica, ma,
per quanto fondamentale, non ci dà tuttavia un’idea completa dell’opposizione tra la
sua fisica e quella di Democrito. Tale opposizione si estende a tutti i più importanti
problemi intorno alla natura: da quello del moto, alla molteplicità o meno dei mondi,
dalla somiglianza o differenza tra mondo celeste e sublunare al problema di ridurre le
differenze qualitative a differenze quantitative. Alla radice di tutte queste opposizioni
di carattere scientifico stava però un’opposizione di carattere filosofico: mentre
Democrito pretendeva di spiegare il mondo mediante l’uso di sole cause meccaniche
(cioè con moti e urti di atomi), Aristotele attribuiva invece una funzione prevalente,
nella spiegazione razionale, alla causalità finale. Per Democrito il fine resta
necessariamente un problema, per Aristotele è invece principio di spiegazione.
Sebbene la dinamica aristotelica risulta sbagliata secondo le leggi della meccanica
classica, ha comunque rappresentato il primo tentativo di costruzione di una teoria in sé
coerente e generalizzata, ed esagerando un po’, ha rappresentato il punto di partenza
da cui nascerà la fisica galileiana e newtoniana.
Più aderenti ai risultati moderni sono le ricerche di statica: vi è enunciata la legge
di equilibrio di una leva, con un accenno a quello che sarà il principio dei lavori virtuali,
e vi sono descritte la bilancia e la puleggia. Negli scritti di Aristotele, si trovano, inoltre,
cenni all’energia cinetica, idee corrette sulla propagazione del suono attraverso l’aria,
spiegazione dell’eco come fenomeno di riflessione, osservazioni sulla propagazione
della luce. Nella spiegazione dei fenomeni visivi Aristotele non seguì né la teoria
pitagorica dell’estromissione, né quella democritea dell’intromissione, ed alcuni storici
interpretano un passo oscuro dell’opera De anima come un accenno a una teoria di
propagazione della luce basata sulla modificazione del mezzo posto tra l’occhio e
l’oggetto visto. È un complesso di idee e riflessioni che conferma come la fisica
aristotelica fosse fondata sull’osservazione, e in parte sull’esperimento, seppur lontani
dal significato che assumeranno nella fisica galileiana.
Aristotele formulò una cosmologia scientifica destinata a fornire la
rappresentazione dell’universo per i successivi duemila anni. L’universo fisico, è,
secondo Aristotele, unico, chiuso su stesso, limitato nello spazio ed illimitato nel tempo
(Aristotele giustamente sottolineò che era una contraddizione logica immaginare, come
aveva fatto Platone, che il mondo potesse essere creato ed eterno; deve invece o essere
creato e destinato alla distruzione e, come credeva, essere sempre esistito ed eterno) ed
è diviso in due regioni obbedienti a leggi fisiche diverse: i cieli formati dall’etere,
inalterabili e incorruttibili, soggetti al moto circolare, il più perfetto dei moti, e dove la
causa della regolarità e dell’eternità del moto degli astri va ricercata nel primo motore
immobile che imprime il moto a tutte le sfere in cui sono incastonati gli astri e dove il
Sole, le stelle, i pianeti, composti della quintessenza, splendono perché il moto delle loro
sfere produce attrito con l’aria, quindi luce e calore; il mondo sublunare, il mondo del
divenire, formato dai quattro elementi, nel quale le cose nascono, si corrompono e
periscono e dove il moto degli oggetti è rettilineo o violento. Poiché nessuna cosa reale
può essere infinita perché ogni cosa esiste in uno spazio, e ogni spazio ha un centro, un
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basso, un alto e un limite estremo e quindi nessuna realtà fisica è realmente infinita, la
sfera delle stelle fisse segna i limiti dell’universo, limiti al di là dei quali non c’è spazio,
per cui non possono esistere altri mondi al di là del nostro.
L’universo aristotelico è un meccanismo ingegnosamente costruito. Esso è
costituito da una serie di sfere concentriche, la più esterna delle quali, il “primo
mobile”, è fissa, mentre le sfere interne sono mosse dal “primo mobile”, salvo quelle
vicino al centro, che sono di nuovo immobili. Queste sfere erano oggetti concreti, solidi,
quelle che sarebbero diventate le sfere cristalline nel Medioevo, composte di sostanza
perfetta, pura ed incorruttibile.
Ciò che mancò alla fisica aristotelica furono l’elaborazione analitica, la critica e la
prudenza nella generalizzazione. Si potrebbe dire che la scienza moderna sperimenta
con avvedutezza critica, e la scienza aristotelica sperimentava con ingenuità.
Concretamente, la meccanica aristotelica non seppe fare astrazione e la fisica non intuì
che nello studio dei fenomeni qualche artificio, diremmo oggi modello, può talvolta
svelarci cose che la pura osservazione non ci consente di cogliere. Questi rilievi non
sono ovviamente una spiegazione dell’insuccesso aristotelico nello studio della fisica,
ma una constatazione dell’insufficienza dei suoi metodi di ricerca. Spiegare, invece,
perché Aristotele e la sua scuola non abbiamo saputo o voluto astrarre e intuire, è
ancora un problema irrisolto.
Alla luce delle nostre leggi fisiche (moto dei gravi di Galileo e leggi della
dinamica di Newton), queste teorie non sono adeguate a spiegare il moto dei corpi, anzi
Aristotele avrebbe considerato il nostro punto di vista troppo platonico perché vicino
ad una trattazione del movimento come sarebbe potuta avvenire nel perfetto mondo
delle idee. E per la stessa ragione Aristotele minimizzò il ruolo della matematica nella
scienza fisica, perché la matematica si occupa della pura forma, mentre nel mondo fisico
la forma è sempre congiunta con la materia.
Teofrasto (372 a.C.-287 a.C.), successore di Aristotele nella direzione del Liceo,
impresse alla scuola un carattere prettamente scientifico, e mosse le prime serie
obiezioni alla fisica aristotelica come al finalismo, ossia gli oggetti in natura non
obbediscono alla tendenza verso un fine, alla natura dei moti celesti e terrestri, alla
teoria degli elementi.
Per gli eleati, come Parmenide, non si dà scienza razionale del sensibile, ma
soltanto di una realtà intelligibile o verità soggiacente ai fenomeni, immutabile ed
estranea al loro processo. Vi è quindi una sola scienza, la geometria, che contempla i
rapporti invariabili della materia estesa. All’opposto i sofisti Protagora e Gorgia,
rivendicano il significato proprio della realtà precepita dai sensi, negando che esista al
di là di questa una verità trascendente. La pretesa sostanza o natura delle cose è solo
una vuota finzione dell’intelletto, priva di valore scientifico. Per superare questo netto
contrasto tra razionalismo ed empirismo, bisogna accordare il razionale con il sensibile,
il pensabile con il fenomenico, spiegandoli come apparenze di un mondo riconosciuto
dal pensiero. Ogni costruzione razionale della scienza deve fare i conti con questa
nuova esigenza. Democrito e Platone cercano di soddisfarla in maniera diversa.
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Democrito trova la ragione nel mondo perché gli elementi primi della realtà, gli
atomi che si muovono nel vuoto, sono pure forme geometriche. Spiegare i fenomeni e
conoscerne le vere cause, significa ridurli al meccanismo degli atomi mobili e urtantisi
fra loro. L’oggetto della scienza, dunque, non è più la verità razionale che trascende la
conoscenza sensibile, come per Parmenide, e nemmeno la semplice opinione, come
suggerito da Protagora. Ma quella opinione che deve essere spiegata e dimostrata e
rispondente a quella verità di cui esprime l’apparenza. L’idea che la scienza abbia per
oggetto “l’opinione vera” si affaccia e viene discussa in diversi dialoghi di Platone,
come nel Teeteto, dove si dice che: “la scienza è opinione vera accompagnata da
ragione”. Con grande verosomiglianza, questa formula appartiene anche a Democrito,
ed il concetto è assai vicino al “razionalismo sperimentale” che, nel pensiero moderno,
si è elaborato attraverso la scuola di Galileo. A dire il vero, il nostro concetto include la
possibilità di creare sperimentalmente il fenomeno in accordo con la previsione teorica,
ed anche correggere le ipotesi adottate se sono in contrasto con l’esito dell’esperimento.
Ma questo è soltanto uno sviluppo del motivo originale, e almeno per quanto riguarda
la correzione o ricostruzione induttiva delle ipotesi dai fenomeni, non si può escludere
che l’idea facesse parte della logica democritea. Ad una visione logica induttiva accenna
Aristotele negli Analytica Posteriora, ove confuta coloro che attribuiscono alla
dimostrazione un carattere relativo, ritenendo che i principi possano dimostrarsi dalle
conclusioni, come queste da quelli. Riflettendo sullo spirito della fisica-matematica
democritea, è assai plausibile che Aristotele criticasse proprio Democrito.
In Democrito il motivo razionalistico parmenideo, il pensiero criterio
dell’esistenza, assume un significato più espressivo: ciò che è pensato deve esistere
come parte della realtà universale. Quindi, nello spazio e nel tempo infinito debbono
prodursi tutte le condizioni, e tutti gli ordini di fenomeni razionalmente possibili, così
come tutte le forme geometriche dovranno trovarsi realizzate negli atomi. Così
esisteranno “mondi con più soli e lune” e “atomi grandi come un mondo”. Questo
passaggio dal pensiero alla realtà può sembrare ingenuo e meraviglioso, ma esprime la
poesia dello spirito matematico: ciò che il matematico costruisce nella sua mente non
deve essere pura astrazione, bensì rappresentazione di cose che corrispondono nella
realtà; ritrovare nella natura le forme matematiche.
Alessandro Magno moriva nel 323 a.C. ancora giovane, ma il suo programma
politico di ellenizzazione del suo vasto impero era stato raggiunto. Il trionfo di questa
nuova civiltà universalistica coincise con la frantumazione delle forme istituzionali
della Grecia classica e con la crisi definitiva delle sue città-stato. La Grecia della polis e
della democrazia assembleare decade e la nuova realtà politica è costituita da una serie
di monarchie assolute: al cittadino dell’età classica è ora subentrato il suddito dell’età
ellenistica. Un mondo sociale del genere tende ovviamente a produrre una cultura a sua
immagine e somiglianza, per cui i sovrani, per ragioni di prestigio e di dominio, amano
atteggiarsi a mecenati del sapere. L’esempio più significativo è Alessandria d’Egitto, che
sotto la sfarzosa dinastia dei Tolomei assurge a nuovo centro della cultura al posto di
Atene. Ciò avviene soprattutto per opera del ministro Demetrio Falareo che invita ad
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Alessandria Stratone di Lampsaco che porta con sé parte del materiale e della biblioteca
del Liceo.
Stratone (ca. 335 a.C.–ca. 269 a.C.) tentò di conciliare la fisica di Aristotele con
l'approccio meccanicistico di Democrito, che negava l'esistenza di entità divine o
spirituali, allo scopo di escludere la metafisica dal campo dell'indagine scientifica, per
cui scrisse un trattato, Sul movimento, in cui studiò il fatto che: la velocità di un corpo
che cade aumenta nel tempo e sembra farlo uniformemente durante la caduta
(affermazione praticamente identica alla legge dei gravi di Galileo).
Nel trattato Problemi meccanici affrontò il problema se sia più facile muovere un
corpo già in movimento o uno immobile, e problemi di statica. Stratone faceva uso della
regola del parallelogramma delle forze o della velocità, in maniera piuttosto esplicita.
Nella sua trattazione sul moto dei proiettili, non solo pone dei dubbi alla teoria di
Aristotele, è presente una intuizione che un oggetto scagliato debba offrire una
resistenza nella direzione da cui viene la spinta (oggi diremo che la forza di attrito si
oppone al movimento creato d una forza motrice). Nel trattato De vacuo, pur negando il
vuoto infinito di Democrito, ossia che lo spazio vuoto non si estendesse all’infinito
all’infuori dei confini del mondo, ammette, contro Aristotele, la presenza di piccoli
spazi vuoti entro la materia, il cosiddetto vuoto disseminato (vacuum intermixtum). Non
accetta la teoria atomica, ma critica anche la teoria degli elementi di Aristotele; in
particolare critica la teoria dei luoghi naturali degli elementi e la conseguente idea di
leggerezza e peso assoluti: ogni corpo, anche il fuoco, pesa, e l’ascesa dei leggeri non è
dovuta a una tendenza naturale, ma alla spinta dell’aria. Con una critica più radicale di
quella di Teofrasto, Stratone si oppone al finalismo aristotelico, proclamando che i
fenomeni fisici sono soggetti a cause meccaniche, non a cause finali.
Per fare di Alessandria il centro gravitazionale dei migliori intelletti dell’epoca,
soprattutto scienziati e tecnici, Demetrio concepisce un progetto ambizioso, quello di
riunire in un grande istituto per la cultura, sul modello dell’Accademia e del Liceo, tutto
il materiale bibliografico reperibile in Grecia e in Asia. Nasce in tal modo la Biblioteca,
che con i suoi settecentomila volumi-papiro, rappresenta la più grandiosa raccolta di
libri del mondo antico. Per dare la possibilità agli scienziati di dedicarsi in maniera
proficua agli studi, sorge accanto alla Biblioteca il Museo, una sorta di centro di studi e
di ricerche, il quale contiene, tra l’altro, un osservatorio astronomico. Gli scienziati-
professori della Biblioteca e del Museo sono stipendiati dallo stato e possono quindi
dedicarsi con tranquillità alle loro investigazioni. Queste circostanze determinano una
grande fioritura e un grande progresso delle discipline scientifiche, tra cui l’astronomia,
la fisica e la matematica. Tutto questo rigoglio di discipline particolari si accompagna ad
una forma di specializzazione, ossia alla divisione del sapere in una molteplicità di
branche coltivate con competenza. Tuttavia, il mondo della scienza nell’età ellenistica
presenta dei limiti: ha perduto la ricchezza e la complessa problematicità dell’età
classica; vi è un evidente tendenza a sviluppare unicamente l’aspetto teorico della
scienza, disprezzandone invece il momento teorico-applicativo; il sapere, non solo
scientifico, tende ad estraniarsi completamente dai rapporti sociali e si
rivolge solo a cerchie ristrette di intellettuali o di aristocratici colti.
PRINCIPIO DI ARCHIMEDE
Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto uguale al peso del
volume del liquido spostato.
Ma, quale sia stato il procedimento seguito da Archimede, è certo che il principio
d’idrostatica fu da lui scoperto sperimentalmente, sebbene nella sua opera d’idrostatica
a noi pervenuta la trattazione sia condotta more geometrico, senza alcun accenno
all’esperienza che l’ha preparata.
Un concetto assolutamente nuovo che compare nella sua opera sull’idrostatica e
ignorato dai suoi predecessori, forse per l’influenza della fisica aristotelica, è il concetto
di peso specifico relativo. Esso è così introdotto: ”Un corpo solido che ha eguale peso ed
eguale volume di un liquido, immerso nel liquido, s’immergerà in esso in modo che
nessuna parte della sua superficie emergerà dal liquido, né esso si abbasserà
ulteriormente”. Nell’opera, Sui galleggianti, Archimede tratta le condizioni di
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Ancora più tormentante è la storia di Aristarco da Samo (ca. 310 a.C.–ca. 230
a.C.), contemporaneo di Archimede, il quale non attribuì movimento alle stelle fisse e al
Sole, ma affermò che la Terra gira intorno al Sole percorrendo un’orbita circolare, e,
presumibilmente, pensava anche che la Terra ruotasse quotidianamente sul suo asse.
Aristarco scrisse un libro su questa ipotesi, come Archimede la chiamò: “La sua
ipotesi è che le stelle fisse e il Sole rimangano immobili, che la Terra giri attorno al Sole
seguendo la circonferenza di un cerchio, e che il Sole giaccia nel centro di tale orbita”
ma è andato perduto. Non conosciamo gli argomenti con cui Aristarco arrivò alla sua
ipotesi eliocentrica, ma dall’altra sua opera in nostro possesso vediamo tuttavia che egli
procede con metodo rigorosamente scientifico, scindendo le proposizioni base del
proprio ragionamento dalle deduzioni che ne discendono: le prime ricavate
dall’osservazione, le seconde dedotte per via matematica. Lo scarso interesse per
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e della luminosità dei pianeti, particolarmente sensibile per Venere e Marte. Equivalente
da un punto di vista geometrico è la teoria degli epicicli, vista già a proposito di
Apollonio.
offrire una spiegazione fisica del loro moto. Tolomeo non si pose mai il problema della
realtà fisica delle sue costruzioni geometriche.
Tolomeo diede dei contributi importanti anche nell’ottica geometrica, attraverso
l’opera l’Ottica, sulla scia della tradizione euclidea, ma a differenza di Euclide non si
limita alla trattazione matematica ma descrive anche i processi fisici della visione e delle
conseguenti illusioni ottiche. Come Euclide, però, anche Tolomeo segue la teoria
platonica della visione. Di particolare importanza è lo studio della rifrazione della luce
per i mezzi aria-acqua, aria-vetro, acqua-vetro, attraverso esperimenti realizzati con una
apparecchiatura sostanzialmente uguale a quella elementare moderna. Tolomeo indica
che la rifrazione avviene sempre, nel passaggio da un mezzo all’altro più denso, alla
superficie di separazione dei due mezzi ed enuncia in maniera corretta la prima legge
della rifrazione: il raggio incidente e quello rifratto si trovano in un piano
perpendicolare alla superficie rifrangente (o al piano tangente nel punto d’incidenza).
Sperimentalmente, poi, egli determina l’angolo di rifrazione in corrispondenza a vari
angoli d’incidenza con risultati molto vicini a quelli oggi ottenuti. Secondo alcuni
studiosi, la legge immaginata da Tolomeo per tali calcoli è la seguente: ρ=ai–bi2 dove ρ
indica l’angolo di rifrazione, a e b sono costanti relative ai mezzi in esame.
Secondo Tolomeo l’immagine data per rifrazione è vista dall’occhio
nell’intersezione del prolungamento del raggio incidente con la normale alla superficie
rifrangente condotta dal punto-oggetto. Altro contributo importante all’ottica è lo
studio accurato della rifrazione astronomica, e Tolomeo deduce correttamente che per
tale effetto le stelle sono sopraelevate apparentemente, per cui saranno visibili
all’orizzonte stelle che ancora non si sono levate e si vedranno stelle che sono già
tramontate.
uno stato di tensione. Quando questa aria viene illuminata dal sole viene stabilito un
contatto con l’oggetto visibile. L’anima esercita una “pressione” sulla pupilla attraverso
il pneuma e l’aria si allarga a forma di cono fino all’oggetto. Ricorda Diogene Laerzio:
“Secondo Crisippo la vista è dovuta al fatto che la luce si estende a cono fra
l’osservatore e l’oggetto osservato. così il segnale viene trasmesso all’osservatore per
mezzo dell’aria in stato di tensione, proprio come un bastone”. La teoria emissionistica è
qui rifiutata, e quantunque una concezione diversa sia appena accennata, si può dire
che comincia già il conflitto fra opposte vedute sulla natura della luce, che avrà tanta
parte nello sviluppo della fisica moderna.
In definitiva, lo stoicismo, nonostante le sue geniali intuizioni fisiche,
rappresentò una specie di pervertimento della scienza, non diversamente dal tardo
platonismo, che doveva fare del misticismo dei numeri la chiave di una esperienza
mistica.
l'ipotesi della casualità degli incontri atomici finiva per introdurre, nella realtà, un
elemento di indeterminazione e di spontaneità, conciliabile (almeno così sembrava) con
l'agire libero e spontaneo dell'uomo.
Come gli Stoici, Epicuro afferma che tutto ciò che esiste è corpo perché solo il
corpo può agire o subire un'azione. D'incorporeo, egli non ammette che il vuoto, ma il
vuoto non agisce né patisce alcunché ma solo permette ai corpi di muoversi attraverso
se stesso. Tutto ciò che agisce o subisce è corpo e ogni nascita o morte non è che
aggregazione o disgregazione di corpi. Epicuro, perciò, ammette con Democrito che
nulla viene dal nulla e che ogni corpo è composto di corpuscoli indivisibili (atomi) che
si muovono nel vuoto. Nel vuoto infinito, gli atomi si muovono eternamente urtandosi
e combinandosi tra loro. Le loro forme sono diverse; ma il loro numero, per quanto
indeterminabile, non è infinito. Il loro movimento non ubbidisce ad alcun disegno
provvidenziale, ad alcun ordine finalistico. Gli Epicurei escludono esplicitamente la
provvidenza stoica e la critica a tale provvidenza costituisce uno dei temi preferiti della
loro polemica. Eliminata dal mondo l'azione della divinità, non rimangono, per spiegare
l'ordine di esso, che le leggi che regolano il movimento degli atomi. A queste leggi nulla
sfugge, secondo gli Epicurei; esse costituiscono la necessità che presiede a tutti gli
eventi del mondo naturale.
Un mondo è, secondo Epicuro, “un pezzo di cielo che comprende astri, terre e
tutti i fenomeni, ritagliato nell'infinito”. I mondi sono infiniti; essi sono soggetti a
nascita e a morte. Tutti si formano in virtù del movimento degli atomi nel vuoto
infinito. Ma poiché Epicuro ritiene che gli atomi, in virtù del loro peso, cadano nel
vuoto in linea retta e con la stessa velocità, in virtù dei loro urti e deviazioni casuali si
aggregano e si dispongono nei vari mondi. Questa deviazione degli atomi è l'unico
evento naturale non sottoposto a necessità. Essa, come dice Lucrezio, «spezza le leggi
del fato», ed introduce nella natura stessa un fattore che nel linguaggio della fisica
moderna si direbbe un “principio di indeterminazione”, e ciò consente di sfuggire ad un
rigoroso determinismo delle leggi naturali, e a fondare quel libero arbitrio che consente
di rispondere alla domanda: perché mai abbattere gli dèi e il fato, se dobbiamo poi farci
schiavi di una dura necessità fisica che annulla la nostra libertà?
Diversamente da Democrito, Epicuro non aveva un preminente interesse per la
ricerca naturalistica e, tanto meno, matematica, però, nella storia del pensiero scientifico
Epicuro ci interessa soprattutto per lo sviluppo che dette all’idea di scienza come
aspetto fondamentale della cultura. Per lui la scienza comincia a manifestare tutto il suo
valore proprio per via di quegli aspetti che molti scienziati considerano meno
importanti: la possibilità di formare una retta coscienza umana, di liberare lo spirito da
superstizioni, di fornire una visione del mondo nella sua totalità, forse soltanto
approssimata, ma penetrante e significativa. Per Epicuro è più importante la
spiegabilità di un fenomeno che non la sua spiegazione.
Un empirismo ancora più rigido è quello degli scettici, che, svolgendo una libera
critica dei criteri della verità, si oppongono a tutte le scuole dogmatiche dell'epoca,
affermando che non si può in alcun caso sorpassare l'ordine dei fenomeni. L'unica
conoscenza possibile è quella che registra connessioni costantemente verificabili tra cose
sensibili, senza pretendere di risalire con ciò a realtà prime. Fondatore dello scetticismo
fu Pirrone di Elide (ca. 365-275 a.C.), del quale Diogene Laerzio dice: “Riguardo a ciò
che i dogmatici stabiliscono con il ragionamento, pretendendo di conoscere con
certezza, noi ce ne asteniamo, dichiarando che tutto ciò non è manifesto a noi, e quanto
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conosciamo sono solo le nostre impressioni … che questo ci appaia bianco lo diciamo
come espressione di un nostro sentire, ma senza affermare che esso sia tale in realtà …
Affermiamo ciò che a noi appare, non ciò che è l’essere in se stesso … essi (gli stoici) si
attengono ai fenomeni, in quanto appaiono”. L’atteggiamento è quello di un positivista
che si limita a registrare dei “protocolli” di ricerca, il principio è quello del “dubbio
metodico” previsto dal metodo cartesiano.
Il massimo esponente dello scetticismo fu Carneade da Cirene (ca. 214-119 a.C.),
pensatore lucido, che ha importanza notevole nella filosofia della scienza per aver
enunciato una dottrina della scienza stessa come conoscenza probabile. Ogni
dimostrazione logica deriva necessariamente da certe premesse. Per darle un
fondamento indiscutibile, dovremmo risalire di premessa in premessa, ma si avrebbe,
così, un regresso all’infinito, altrimenti occorrerebbe ammettere che le premesse
possono essere dimostrate dalle conseguenze, e si cadrebbe in un circolo vizioso. La
conseguenza, osserva Carneade, è che non possiamo mai avere una certezza, ma vi sono
fatti più probabili di altri.
La corrente del neoplatonismo interessa alla storia della scienza per il suo
concetto della natura, e per il modo impareggiabile di esprimere “le bellezze del mondo
sensibile, le sue proporzioni, la sua regolarità”. I misticheggianti neoplatonici hanno un
vivo senso della maestà della natura che li induce a cercare ansiosamente “la Bellezza
da cui proviene questa bellezza”. Il massimo esponente del neoplatonismo è Plotino
(204-270 d.C.). Tutta la sua visione morale è determinata dalla assoluta trascendenza
platonica della vera realtà, che egli rinnova. Questa realtà divina si espande, si riversa
sul mondo sensibile inferiore per emanazione, come il calore, la luce, il suono o l’acqua,
che emanano dalla sorgente. L’intelletto emana dall’Uno (il Dio di Plotino), e
nell’intelletto il mondo esiste come mondo delle idee, in senso platonico. L’anima
emana a sua volta dall’intelletto, ed è l’unità di tutte le forze vitali che reggono
l’universo concreto. Infine questa solida realtà, la natura, sorge dalla mescolanza della
oscura materia conn le emanazioni dell’anima e dell’intelletto. La materia è la cupa
prigione, priva di bontà e di realtà. Il compito dello spirito umano è quello di salire
verso l’Uno attraverso i gradi ascendenti della virtù, della bellezza, della sapienza
filosofica, dell’estasi.
L'Uno è la prima realtà sussistente. Esso non può contenere alcuna divisione,
molteplicità o distinzione; per questo è al di sopra persino di qualsiasi categoria di
essere. Il concetto di "essere" deriva infatti dagli oggetti dell'esperienza umana, ed è un
attributo di questi, ma l'infinito trascendente Uno è al di là di tali oggetti, quindi al di là
dei concetti che ne deriviamo, per cui Plotino pone l’Uno al di sopra dell'Essere a
differenza non solo di Parmenide, ma anche di Aristotele e Platone. L'Uno “non può
essere alcuna realtà esistente” e non può essere la mera somma di tutte queste realtà
(diversamente dalla dottrina stoica che concepiva Dio immanente al mondo), ma è
“prima di tutto ciò che esiste”. All'Uno quindi non si possono assegnare attributi. Ad
esempio, non gli si possono attribuire pensieri perché il pensiero implica distinzione tra
il pensante e l'oggetto pensato. Allo stesso modo, non gli si può attribuire una volontà
cosciente, né attività alcuna. Se questa concezione conduce Plotino a vedute paradossali,
come “Alcuni mali, ad esempio la povertà e la malattia, giovano a quelli che li
subiscono”, è vero anche che infonde un senso maestoso alla natura, le cui bellezze sono
anima e pensiero immanenti nella materia.
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A tanta raffinatezza, e dopo gli studi recenti possiamo anche dire modernità, di
queste scuole filosofiche nel campo logico e metodologico, non corrisponde
praticamente nulla nel campo della conoscenza scientifica della natura. La fisica stoica,
estremamente composita ed eclettica, costruita sulla base di un apriorismo e di un mate-
rialismo di dubbia lega, nei secoli successivi si corromperà al punto di farsi fondamento
piuttosto della superstizione magica ed alchimistica che non della scienza. La fisica
epicurea mostra mescolate stranamente volgari superstizioni e felici intuizioni
scientifiche (per esempio, che il tuono e il fulmine sono due aspetti dello stesso
fenomeno, ma vengono percepiti distintamente a causa delle diverse velocità del suono
e della luce) ed il suo merito maggiore consiste nell'aver riproposta, e salvata per la
posterità, la teoria atomica di Democrito.
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La decadenza dello spirito scientifico è l’aspetto più rilevante della crisi della
cultura greco-romana, soprattutto perché palesa con la massima evidenza l’elemento
più caratteristico di tale crisi: l’abbandono dell’atteggiamento razionale verso la realtà.
Il processo di decadenza ha un andamento lento e progressivo e inizia all’incirca nella
seconda metà del II secolo a.C. e raggiunge la piena maturazione nel IV e V secolo. Si
assiste in questo periodo ad un impoverimento della ricerca originale, che si sposta
verso altri campi (magia, alchimia, astrologia) in cui gli elementi fideistici e mistici
prevalgono su quelli razionali. La ricerca scientifica subisce una stasi notevole e
predomina un tipo di letteratura manualistica ed enciclopedica che tende più che altro a
volgarizzare i dati conseguiti nelle varie scienze.
Durante il periodo ellenistico, i romani non si interessarono molto della scienza,
intesa come strumento per capire la natura, ma delle sue applicazioni pratiche. Il greco
rimase la lingua della parte orientale dell’impero, e anche nella parte occidentale il
greco fu la lingua della cultura. Pertanto, il contributo specifico recato da Roma alla
scienza greca-alessandrina è stato pressoché nullo. Catone, che faceva parte di quel folto
gruppo di conservatori romani che avversavano l’introduzione a Roma della cultura
greca, nei suoi celebri Precetti al figlio, scriveva: “E’ si bene avere notizie delle lettere
greche, ma non studiarle a fondo. Razza cattivissima ed indocile è quella dei Greci, e fa
conto che sia un profeta che ti dice questo: se, quando che sia, codesta gente ci darà la
scienza, manderà tutto in rovina”.
Le cause dello sfacelo del pensiero scientifico durante l’impero romano vanno
ricercate nella storia sociale stessa dell’impero, ossia in quella struttura schiavistica
dell’economia che fa il vuoto tra il ceto dei contadini affamati ed analfabeti e il ceto
degli alti funzionari dell’amministrazione civile e dell’esercito. Viene a mancare, quindi,
quella classe agiata che coltivava la cultura come ad Alessandria o Atene. Inoltre, la
plebeizzazione dell’impero avrà conseguenze culturali particolarmente gravi.
Lentamente le vecchie classi aristocratiche scompaiono a tutto vantaggio di nuove forze
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sociali e politiche, spesso di origine servile e a volte barbarica. Si tratta di uomini che
non hanno vocazioni culturali, e né i tempi turbinosi e né la perenne instabilità
economica e politica, permettono il formarsi di una nuova classe sociale aperta al
rinnovamento culturale. Anzi, quando guardano alla cultura, sentono più il richiamo
delle religioni, delle superstizioni magistiche che della scienza. Così, in una società in
pieno sfacelo che preannuncia il medioevo, la scienza aveva perduto ogni rigore di
analisi, veniva a confondersi con la superstizione. Nel frattempo, è vero, sarà sorta una
nuova classe sociale, quella degli ecclesiastici, e in seguito dei monaci, capace di
assumere la tutela e cultura del sapere; ma tale funzione verrà assunta troppo tardi,
dopo che era avvenuta un’irreparabile distruzione del patrimonio culturale.
Però non si può dire che, preso complessivamente, l’atteggiamento del mondo
romano sia stato ostile alla cultura greca, anzi l’impero sentì il dovere di sostituirsi ai
sovrani ellenistici di Pergamo e di Alessandria mantenendo in vita le istituzioni
culturali da questi fondate, e schiavi greci furono i precettori dei ricchi ragazzi romani.
Attraverso queste istituzioni la cultura greco-ellenistica si diffonde in tutto l’occidente
europeo divenendo, da allora e per tutti i secoli successivi, la cultura europea. Il
contributo dei romani alla scienza in senso stretto, però, fu scarsissimo, assolutamente
sproporzionato alla loro importanza politica.
In questa età di ristagno, dedita alla pratica, ma con gli occhi volti al passato,
senza vere possibilità creatrici, i romani scrissero libri sull’agricoltura, sui macchinari,
come fece Vitruvio (80/70 a.C.–23 a.C.) la cui opera Sull’architettura (tardo I sec a.C.)
deriva soprattutto da fonti greche; ma, soprattutto, pullulò di dossografi e
commentatori, come Diogene Laerzio (180-240 d.C.), i quali lasciarono molte
testimonianze sui grandi pensatori del passato, testi preziosi per lo storico della scienza.
I romani amavano le enciclopedie, agili compendi che fornissero facili sintesi di
conoscenza greca. Queste enciclopedie non sono che centoni di notizie scientifiche non
sempre criticamente vagliate e con l’aggiunta di poche osservazioni personali. Testi
importantissimi come fonti storiche ma privi di interesse diretto. Uno dei più influenti
fu quello di Varrone (circa 50 a.C.), i cui Nove libri sulle discipline contenevano sintesi
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delle sette arti liberali (grammatica, retorica, logica, geometria, musica, aritmetica e
astronomia).
Il più grande e senza dubbio il più famoso di tutti gli enciclopedisti romani fu
Plinio il Vecchio (23 d.C.–24 agosto 79 d.C., durante l’eruzione del Vesuvio). La sua
Naturalis Historia è una vasta compilazione che va dall’astronomia, alle invenzioni
meccaniche, alla medicina, e non di rado le testimonianze in essa presenti sono
preziose per conoscere le opinioni di autori greci le cui opere sono perdute. Purtroppo,
però, in questa storia naturale manca quasi sempre ogni discernimento scientifico: il
vero o il probabile si mescola all’inverosimile, e molto spesso non sono comprese le
dottrine degli antichi che si pretende di riferire. Plinio, più un curioso di cose naturali
che un vero indagatore, rappresenta bene la mentalità del tempo, che tende ad
affrontare sempre più in modo letterario i problemi scientifici, limitandosi per lo più a
riportare dati ed osservazioni altrui. La massa di notizie sugli argomenti più disparati
risulta sempre più essere un mero affastellamento quantitativo che si accompagna ad
una valutazione generica e non ben determinata. L’esaminare da vicino un problema
particolare per analizzarlo nei suoi elementi e per collegarlo, mediante rapporti precisi,
con schemi concettuali generali, che era stata la caratteristica essenziale della scienza
greca, è un atteggiamento che tende ormai a scomparire. La mancanza di una vera
cultura scientifica dell’autore non significa che la sua opera colossale sia priva di
importanza; anzi occorre osservare che il suo enciclopedismo divulgativo rispondeva
ad un bisogno sentito da uomini di limitate possibilità, e, per questo, dominò il
medioevo fino all’inizio dell’età moderna.
greca che significa “messi in fila”, o in “serie”, e indica gli “elementi ultimi” della
materia. In sintesi gli “atomi” da cui tutto ha origine: “E’ per te che esporrò il supremo
sistema celeste. Per te spiegherò i principi della Natura che regolano la nascita, la
crescita, il sostentamento, la morte e la dissoluzione di tutte le cose. Per te parlerò di
‘materia generatrice’, di ‘semi delle cose’, di ‘corpi primordiali’: in breve, degli ‘atomi’
da cui tutto ha origine”. Se l’obiettivo del riduzionismo è la classificazione di questi
“elementi ultimi” e di come essi si combinino per dar luogo a tutte le cose, esso viene
condiviso da Lucrezio e dalle scienze moderne. A seconda dei casi, dunque, gli
“elementi ultimi” di Lucrezio possono essere interpretati come le macromolecole della
biologia, le molecole della chimica, gli atomi della fisica atomica e nucleare o le
particelle della fisica subatomica.
I primi due libri del De rerum natura trattano della materia, dello spazio e del
vuoto, secondo la teoria atomistica degli epicurei; il terzo libro si occupa dello spirito e
dell’anima, formati anch’essi di piccoli atomi; il quarto libro tratta della teoria delle
sensazioni, dovute a piccole immagini che si staccano dai corpi; il quinto libro si
interessa di cosmologia, come la formazione del nostro mondo e la sua fine; infine, nel
sesto libro troviamo la spiegazione di vari fenomeni meteorologici, come il fulmine, le
nuvole, la pioggia, i terremoti, ecc. Accanto a molte osservazioni interessanti dal punto
di vista scientifico, ce ne sono altre che anche la scienza moderna ha stentato ad
acquisirle: il tempo non esiste in sé, ma noi ne deriviamo il concetto dal susseguirsi
degli eventi; gli atomi, anche se di peso diverso, debbono cadere nel vuoto con uguale
velocità; e lo stesso argomento che porta a tale conclusione (sono l’aria o l’acqua che
producono il ritardo dei corpi più leggeri nella caduta) si estende anche a corpi
qualsiasi: “Non può per contro, lo spazio vuoto impedire a nessuna cosa, in nessun
momento, per nessun verso, che seguiti a cadere giù come chiede la sua natura, e per
questo debbono gli atomi tutti nel vuoto immobile, se anche sono disuguali di peso,
muoversi con la stessa velocità”. L’attrazione fra due corpi si può spiegare con la
formazione di un certo vuoto fra i corpi stessi, per modo che la massa d’aria posta, per
così dire, sulle loro spalle, li sospinge: “In effetti l’aria che sta loro intorno flagella tutte
le cose”. Allo stesso modo, aggiunge Lucrezio, si spiegano i fenomeni comunemente
osservati allorché tende a formarsi uno spazio vuoto: “Subito i più vicini fra gli atomi
son trascinati nel vuoto, perché sospinti dagli urti di altri”. Contrariamente all’idea
dell’horror vacui, tanto diffusa nell’antichità, questa spiegazione che troviamo per la
prima volta in Lucrezio si richiama al concetto di una pressione esterna, e prelude, in un
certo senso, le vedute del Torricelli sulla pressione atmosferica.
Dunque, non sono solo le generalità, le considerazioni filosofiche, oggi diremmo
epistemologiche, a essere moderne in Lucrezio. Lo è anche una lunga lista di specificità,
che costituiscono vere e proprie anticipazioni di alcuni momenti salienti dello sviluppo
della scienza: lo spazio infinito e i mondi innumerevoli di Giordano Bruno, il principio
d’inerzia di Cartesio, l’esperimento sul vuoto di Torricelli, la teoria cinetica dei gas di
Maxwell, solo per citarne qualcuna. E fu lo stesso Maxwell a scrivere, in una lettera del
1866: “Le sue parole sono una così buona illustrazione della teoria moderna, che sarebbe
un peccato che significassero qualcosa di diverso”. Per mostrare un esempio
sorprendente riportiamo i seguenti versi del De rerum natura: “ E’ bene prestare
attenzione ai corpuscoli che vedi agitarsi nei raggi del Sole: perché quel turbinio ti
suggerisce che ci sono più cose al mondo, di quante ne appaiono a prima vista ai nostri
sensi. Lì vedrai, infatti, un moto casuale di aprticelle che vanno da tutte le parti, ora
qua e ora là, e questo moto visibile deve essere prodotto dagli urti degli atomi
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Uomini come Macrobio (V sec.) o Marciano Capella (ca. 365-440), che amavano i
libri e la cultura, si sforzarono pateticamente di impedire la totale dispersione delle
conoscenze in loro possesso che, del resto, erano già spurie. Pappo (circa 300 d.C.)
compilò una Collezione matematica, resoconto sistematico della matematica e della
meccanica, con alcuni contributi originali, e Proclo (410–485), che insegnò
nell’Accademia ad Atene, scrisse un commento su Euclide, un misto di storia e filosofia
della matematica con analisi di problemi matematici, e fu anche autore degli Elementi
delle ipotesi astronomiche, che è un’introduzione alle opere di Ipparco e di Tolomeo, con
interessanti dettagli matematici.
Il profondo rispetto per gli antichi portò a preservare la conoscenza del passato, e
dovevano trascorrere molti secoli prima che nuovi scienziati potessero portare qualche
grande contributo alla scienza o ristabilire la tradizione di progresso scientifico. Gli
scienziati greci dell’era cristiana avevano garantito la conservazione della conoscenza,
rinchiusa nell’idioma greco, ma disponibile per chiunque desiderasse fare lo sforzo di
tradurla.
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La Grecia è stata veramente la culla della filosofia e della scienza. Per la prima
volta, nel mondo occidentale essa ha intesa e realizzata la filosofia come indagine
razionale: cioè come indagine autonoma, che riceve solo da sé il fondamento e la legge
del suo sviluppo. La filosofia greca ha dimostrato che la filosofia non può essere che
ricerca e che la ricerca non può essere che libertà. La libertà implica che la disciplina, il
punto di partenza, il termine e il metodo della ricerca siano giustificati e posti dalla
ricerca stessa, non già accettati indipendentemente da essa.
Il prevalere del cristianesimo nel mondo occidentale determinò un nuovo
indirizzo della filosofia. Ogni religione implica un insieme di credenze, che non sono
frutto di ricerca perché consistono nell'accettazione di una rivelazione. La religione è
l'adesione a una verità che l'uomo accetta in virtù di una testimonianza superiore. Tale è
infatti il cristianesimo. Ai Farisei che gli dicevano: “Tu testimoni di te stesso, quindi la
tua testimonianza non è valida”, Gesù rispose: “Io non sono solo, ma siamo io e Colui
che mi ha mandato” (Gv, VIII, 13, 16), fondando così il valore del suo insegnamento
sulla testimonianza del Padre. La religione sembra perciò escludere nel suo stesso
principio la ricerca e consistere anzi nell'atteggiamento opposto, dell'accettazione di una
verità testimoniata dall'alto, indipendente da qualsiasi ricerca. Tuttavia, non appena
l'uomo si chiede il significato della verità rivelata e si domanda per quale via può
veramente intenderla, l'esigenza della ricerca rinasce. Riconosciuta la verità nel suo
valore assoluto, quale viene rivelata e testimoniata da una potenza trascendente, si
determina immediatamente l'esigenza, per ogni uomo, di avvicinarsi ad essa e di
comprenderla nel suo significato autentico, per vivere veramente con essa e di essa. A
questa esigenza solo la ricerca filosofica può soddisfare. La ricerca rinasce, dunque,
dalla stessa religiosità per il bisogno dell'uomo religioso di avvicinarsi, per quanto è
possibile, alla verità rivelata. Rinasce con un compito specifico, impostole dalla natura
di tale verità e dalle possibilità che essa può offrire alla comprensione effettiva da parte
dell'uomo; ma rinasce con tutti i caratteri che sono propri della sua natura e con tanta
più forza quanto maggiore è il valore che si attribuisce alla verità in cui si crede e che si
vuole far propria.
Dalla religione cristiana è nata così la filosofia cristiana, la quale si è assunto il
compito di portare l'uomo alla comprensione della verità rivelata da Cristo, e gli
strumenti indispensabili per questo compito li trovò già pronti nella filosofia greca. Le
dottrine dell'ultimo periodo, prevalentemente religioso, della speculazione ellenica si
prestavano ad esprimere in modo accessibile all'uomo il significato della rivelazione
cristiana; e a tale scopo furono infatti utilizzate nella maniera più ampia.
Però il cristianesimo non è sorto come una filosofia e forse il suo ispiratore, Gesù
di Nazaret nato sotto l’imperatore Augusto e morto al tempo dell’imperatore Tiberio,
non voleva neanche fondare una nuova religione. I suoi discepoli dovevano aspirare
non tanto a crescere nella conoscenza, quanto piuttosto a concepire la fede in lui.
Ragione e fede: due disposizioni interiori destinate a escludersi reciprocamente, o
in grado di integrarsi? Il cristianesimo intendeva davvero offrire all’uomo e alle sue
domande sulle realtà ultime delle risposte soddisfacenti, senza chiedergli come
contropartita la rinuncia all’esercizio delle facoltà conoscitive? La stessa sapienza greca
non ne aveva accettato la complementarietà?
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Chi, con particolare intensità, avvertì i dilemmi collegati al rapporto fra ragione e
fede fu San Paolo (5-10 d.C.; 64-67 d.C.), che, in qualche momento della sua
predicazione, sembrò convinto di poter contare sulla ragione umana per convertire le
“genti”, in particolare, durante la missione ad Atene. Ma i risultati furono deludenti, tali
da far scrivere nella Prima lettera ai Corinzi: ” … Io venni in mezzo a voi in debolezza e
con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono
sulla sapienza di discorsi persuasivi, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua
potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla saggezza umana, ma sulla
potenza di Dio.” Secondo queste parole, la fede non solo nulla avrebbe in comune con la
ragione, ma ad essa si contrapporrebbe. Eppure, nel momento in cui “l’apostolo delle
genti” progetta di evangelizzare l’Occidente, si riaffaccia nei suoi scritti il tema della
ragione come strumento valido per giungere fino a Dio. Lo si desume dalla Lettera ai
Romani: “Ciò che di Dio si può conoscere è palese, avendolo Dio stesso manifestato. Sì, gli
attributi invisibili di lui, l’eterna sua potenza e la sua divinità possono intuirsi dalla
creazione del mondo, attraverso le sue opere, purché ci si faccia attenzione. Tutti sono
dunque inescusabili. Pur conoscendo Dio, infatti, non gli hanno dato gloria, né gli
hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è
ottenebrata la loro mente ottusa. Nel momento stesso in cui si dichiaravano sapienti,
sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine
e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi, di rettili.” In queste parole si
può individuare l’impianto di quella che verrà chiamata la prova cosmologica
dell’esistenza di Dio, e si afferma una volta di più come San Paolo abbia posto con
chiarezza la grande questione: come definire il rapporto fra ragione e fede?
Una volta postosi sul terreno della filosofia, il cristianesimo tenne ad affermare la
propria continuità con la filosofia greca ed a porsi come l’ultima e più compiuta
manifestazione di essa. Giustificò questa continuità con l’unità della ragione (logos), che
Dio ha creata identica in tutti gli uomini di tutti i tempi e alla quale la rivelazione
cristiana ha dato l’ultimo e più sicuro fondamento; e con ciò affermò implicitamente
l’unità della filosofia e della religione. Era naturale che si tentasse da un lato di
interpretare il cristianesimo mediante concetti desunti dalla filosofia greca e così di
riportarlo a tale filosofia, dall’altro di ricondurre il significato di quest’ultima allo stesso
cristianesimo. Questo duplice tentativo, che in realtà è uno solo, costituisce l’essenza
dell’elaborazione dottrinale che il cristianesimo subì nei primi secoli dell’era volgare,
periodo che va sotto il nome di patristica.
Sotto questo punto di vista, la dottrina fondamentale di Giustino (nato nel primo
decennio II secolo e morto tra il 163 e 167) è che il cristianesimo è “la sola filosofia sicura
ed utile” e che esso è il risultato ultimo e definitivo al quale la ragione deve giungere
nella sua ricerca. Mentre per Ireneo (130-202) la vera conoscenza, o meglio la gnosi, è
quella tramandata dagli apostoli. Ma questa conoscenza non ha la pretesa di superare i
limiti dell’uomo. Dio è incomprensibile ed impensabile. Egli è intelletto, ma non è simile
al nostro intelletto. È luce, ma non è simile alla nostra luce: “E’ meglio non saper nulla,
ma credere in Dio e rimanere nell’amore di Dio, anziché rischiare di perderlo con
ricerche inutili”.
sono i “patriarchi degli eretici”. La verità della religione, quindi, si fonda sulla
tradizione ecclesiastica. “Se si cerca per trovare e si trova per credere, si pone termine,
con la fede, ad ogni ulteriore ricerca e ritrovamento. Ecco il limite che il risultato stesso
della ricerca stabilisce”. La ricerca esclude dunque il possesso e i possesso esclude la
ricerca. In realtà Tertulliano era incapace di fermarsi sui problemi e di esaminarli in
profondità. Il lavoro paziente e rigoroso della ricerca che nasca e si alimenti dalla fede,
come si incarnerà in S. Agostino, non era nelle sue intenzioni, o forse nelle sue
possibilità, per cui svaluta la ricerca di fronte alla fede. Tertulliano sfiora i problemi
assumendo le posizioni più semplici ed estremiste, con suprema indifferenza verso ogni
cautela critica e ogni esigenza di metodo. Nei confronti del criterio di Tertulliano, S.
Agostino risulterebbe un eretico.
L’elaborazione dottrinale del cristianesimo, iniziata dagli apologisti per difendere
la comunità ecclesiastica contro persecutori ed eretici, viene continuata e approfondita
nei secoli successivi per una necessità interna. In questa successiva elaborazione domina
l’esigenza di costituire la dottrina cristiana in un organismo unico e coerente, fondato su
una solida base logica. La parte della filosofia diventa perciò sempre maggiore, per cui
il cristianesimo si presenta come la filosofia autentica che assorbe e porta alla verità il
sapere antico, del quale può e deve servirsi per trarre elementi e motivi della propria
giustificazione. Il periodo che va dal 200 al 450 circa è decisivo per la costruzione
dell’intero edificio dottrinale del cristianesimo.
Per Basilio il Grande (ca. 331-379) la fede precede l’intelletto “Nelle discussioni
intorno a Dio deve essere assunta come guida la fede, la fede che spinge all’assenso più
fortemente della dimostrazione, la fede che non è causata da necessità geometrica ma
dall’azione dello Spirito Santo”. Per quanto riguarda le diverse fasi della creazione del
mondo, Basilio utilizza le dottrine scientifiche dell’antichità, specialmente di Aristotele.
Come suo fratello Basilio, Gregorio di Nissa (335-395 ca.) afferma la distinzione
tra la fede e la conoscenza e la subordinazione della seconda alla prima. La fede poggia
sulla rivelazione divina e non ha bisogno della logica e delle sue dimostrazioni. Essa è il
criterio di ogni verità e deve essere assunta come la misura di ogni sapere. Dal suo
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canto, la scienza deve fornire alla fede le conoscenze naturali preliminari, quelle che nel
Medioevo si chiameranno preambula fidei. In particolare, la dialettica fornisce il metodo
per sistemare il contenuto della fede e costituisce lo strumento mediante il quale i
principi della fede possono essere fondati e si può progredire verso la gnosi, se anche
ciò va fatto con grande cautela ed in forma ipotetica. Gregorio mette in pratica questo
procedimento di ricerca nella misura più estesa, come solo Origene prima aveva fatto, e
continuamente fa appello, oltre che alla testimonianza della tradizione, a principi e
dimostrazioni razionali. Il suo Discorso catechetico come il dialogo Sull’anima e sulla
resurrezione sono interamente condotti con ricerca puramente razionale, e dove il dubbio
viene assunto come un aiuto metodico della ricerca.
Gregorio rappresenta, con Origene, l’espressione massima della speculazione
cristiana dei primi secoli. Il cristianesimo ha raggiunto con essa la sua prima
sistemazione dottrinale, sul fondamento di un incontro sostanziale con la filosofia greca.
La speculazione teologica in S. Agostino (354–430), per la
prima volta, cessa di essere puramente oggettiva, come si era
conservata anche nelle più potenti personalità della patristica greca,
per saldarsi all’uomo stesso che la istituisce. Per S. Agostino, il più
colto di tutti i Padri latini della chiesa, la ricerca trova nella ragione la
sua disciplina e il suo rigore, ma non è esigenza di pura ragione. Tutto l’uomo ricerca,
ogni parte o elemento della sua natura muove verso l’Essere che solo può dargli
consistenza e stabilità. S. Agostino ripresenta alla speculazione cristiana l’esigenza della
ricerca con altrettanta forza di quella con cui Platone l’aveva presentata alla filosofia
greca. Ma a differenza di quella platonica, la ricerca agostiniana si radica nella religione,
e attribuisce a Dio la sua iniziativa. Dio solo determina e guida la ricerca umana sia
come speculazione sia come azione; e così la speculazione è nella sua verità fede nella
rivelazione e l’azione è, nella sua libertà, grazia concessa da Dio. In sintesi la fede è al
termine della ricerca, non al suo inizio. Certamente la fede è la condizione della ricerca,
che non avrebbe né direttiva né guida senza di essa; ma la ricerca si rivolge verso la sua
condizione e cerca di chiarirla con l’approfondimento incessante dei problemi che
suscita. Perciò la ricerca trova il fondamento e la guida nella fede e la fede trova il
consolidamento e l’arricchimento nella ricerca. La ricerca agostiniana si impone una
disciplina rigorosa: non si abbandona facilmente a credere, non chiude gli occhi davanti
ai problemi e alle difficoltà della fede, non tenta di evitarli e di eluderli, ma li affronta e
li considera incessantemente, ritornando sulle proprie soluzioni per approfondirle e
chiarirle. La razionalità della ricerca non è, per S. Agostino, il suo organizzarsi a
sistema, ma piuttosto la sua disciplina interiore, il rigore del procedimento che non si
arresta di fronte al limite del mistero, ma fa di questo limite e dello stesso mistero un
punto di riferimento e una base. L’entusiasmo religioso, lo slancio mistico verso la
verità non agiscono in lui come forze contrarie alla ricerca ma rinvigoriscono la ricerca
stessa, le danno un valore e un calore vitale. Di qui deriva l’enorme potenza di
suggestione che la personalità di Agostino ha esercitato non solo sul pensiero cristiano e
medievale, ma anche sul pensiero moderno e contemporaneo.
In questa ricerca rigorosa e puntuale Agostino affronta il tema del tempo, uno dei
concetti fondanti e più importanti della fisica. Alcuni padri della chiesa, per esempio
Origene, ritenevano che la creazione del mondo fosse eterna non potendo essa implicare
un mutamento nella volontà divina. Il problema si presente anche ad Agostino. Lo
spunto per la riflessione sull’universo, sulla sua origine, sul tempo, è suggerito proprio
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dalla Bibbia nel libro del Genesi, che comincia raccontando la nascita dell’universo: «In
principio, Dio creò il cielo e la terra». «Ma come creasti il cielo e la terra?», si chiede
Agostino. In polemica con il manicheismo e con la filosofia classica, che sostenevano
l'eternità della materia, egli risponde: «Non avevi fra mano un elemento da cui trarre
cielo e terra: perché da dove lo avresti preso, se non fosse stato creato da te per creare
altro? Esiste qualcosa, se non perché tu esisti? Dunque tu parlasti, e le cose furono
create; con la tua parola le creasti». Sottolineando il termine "parola", Agostino vuole
indicare che Dio ha prodotto l'universo dal nulla (ex nihilo), con un atto intelligente e
libero: la parola, infatti, è frutto della ragione e della volontà. L'indicazione biblica «in
principio» non ha, secondo Agostino, valore di connotazione temporale. Indica
piuttosto lo strumento di cui il Creatore ha voluto servirsi per dare l'esistenza a cielo e
terra. Ormai, la categoria "tempo" è chiamata in causa, e tale concetto diviene acuto
come non lo era stato nell’antichità classica, ad eccezione di Lucrezio per il quale il
tempo non è nulla in sé ed è solo un’impressione suscitata dal succedersi degli eventi.
Ed ecco la domanda successiva: «Che cosa faceva Dio prima di creare cielo e terra?». In
effetti, più che di una domanda si tratta di un'obiezione, proveniente dai sostenitori
dell'eternità dell'universo, neoplatonici compresi. Essa metteva in questione un punto
nevralgico della dottrina cristiana: il dogma dell'immutabilità di Dio; ammesso un
"prima" e un "dopo" rispetto alla creazione, nel passaggio da un momento all'altro il
Creatore avrebbe dovuto necessariamente cambiare. Il punto debole del ragionamento
"vecchio", secondo Agostino, consisteva nel non aver ben compreso «come nasce ciò che
nasce da Dio e in Dio», ossia il concetto di creazione. In realtà, Dio è l’autore non solo di
ciò che esiste nel tempo, ma del tempo stesso. Prima della creazione non c’era tempo,
non c’era dunque un prima e non ha senso domandarsi cosa mai facesse Dio prima
della creazione. L’eternità è al di sopra di ogni tempo: in Dio nulla è passato e nulla è
futuro, perché il suo essere è immutabile e l’immutabilità è un presente eterno in cui
nulla trapassa.
Agostino, mettendo in ridicolo l’idea di un Dio che aspetta per un tempo infinito
in attesa del momento opportuno per creare l’universo, afferma quindi che: il mondo e
il tempo hanno entrambi un unico inizio e che il mondo fu creato non nel tempo, ma
insieme al tempo. Sono riflessioni che anticipano i risultati della moderna cosmologia:
cosa c’era prima del big bang? La risposta è che non c’era nessun prima in quanto il
tempo (e lo spazio) ha avuto inizio con il big bang. Sono riflessioni tanto più che
notevoli se si pensa alle idee sul tempo del tutto erronee che vigevano ai tempi in cui
Agostino viveva. Stranamente, questa profonda interpretazione della creazione venne
in seguito rifiutata dalla Chiesa, che solo con il IV Concilio Laterano (1215) dichiarò
erronea l’idea aristotelica dell’eternità dell’universo e stabilì il dogma dell’inizio
temporale dell’universo. È a questo punto che si affaccia la questione centrale: “Non ci
fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, perché il tempo stesso l'hai
fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, perché tu sei stabile, mentre un tempo che
fosse stabile non sarebbe tempo…” Ma che cosa è il tempo? Certamente, la realtà del
tempo non è nulla di permanente. Il passato è tale perché non è più, il futuro è tale
perché non è ancora; e se il presente fosse sempre presente e non trapassasse
continuamente nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità.
L’ultima grande figura della patristica è il papa Gregorio Magno (ca. 540-604),
che cercò di conservare, in un periodo di decadenza totale della cultura, le conquiste dei
secoli passati. Il tempo in cui visse sembrava la distruzione della cultura e di ogni civiltà
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e preannunziare la fine del mondo: “Le città sono spopolate, i villaggi travolti, le chiese
bruciate, i monasteri di uomini e donne distrutti, i campi abbandonati dagli uomini
sono privi di chi li coltivi, la terra è deserta nella solitudine e nessun proprietario la
abita, le bestie hanno occupato i luoghi che prima erano affollati di uomini. Io non so
quello che accade nella altre parti del mondo. Ma nella terra in cui viviamo, la fine del
mondo non solo si annunzia, ma già si mostra in atto”. La desolazione di una civiltà
infranta e crollata non si poteva descrivere meglio.
Gli accesi dibattiti e controversie circa il problema di Dio, del tempo, della
salvazione e del peccato, costituiscono, comunque, una prova incontrovertibile della
grande vivacità di pensiero della patristica. Il discutere animatamente un problema,
sviscerandone le più recondite difficoltà, il non accontentarsi delle soluzioni già
possedute, ma cercarne altre sempre nuove, originali e più sottili, sono altrettanti segni
di effettivo interesse culturale, di serio impegno di studio. Però si ha il più completo
silenzio di fronte ai problemi connessi con le scienze naturali. Ciò non proviene affatto
dal possesso sicuro dei risultati di tali scienze, ma dall’indifferenza di fronte ad essi;
indifferenza che porterà a dimenticare via via le stesse conquiste del passato in questo
genere di studi. Nelle Confessioni, Agostino afferma di voler conoscere soltanto Dio e
l’anima ed assolutamente nulla di più. Questo pensiero esprime un atteggiamento
generale dei padri della chiesa, e spiegano la sterilità scientifica di un movimento di
pensiero per latri lati vivacissimo e non certo privo di originalità e di gusto per le
sottigliezze. Qualche padre si occupa di filosofia della natura per combattere l’empio
atomismo; qualche altro per commentare il racconto biblico della creazione. Ma il
processo naturale, in sé, non presenta per loro alcun interesse: cercare le cause fisiche di
un fenomeno fisico significa limitarsi alle alle “cause seconde” di questo fenomeno,
fermarsi cioè a metà strada nella sua spiegazione, e quindi compiere un lavoro inutile,
potendosi subito salire alla “causa prima”. È stata la completa svalutazione delle “cause
seconde” a rendere impossibile, nella patristica, una scienza della natura, a svuotare di
interesse ogni discussione che uscisse dall’ambito teologico-filosofico.
3.3 Conclusioni
L’accusa nei confronti della ragione fu più comune tra i Padri della chiesa latini
che non tra i Padri della chiesa greci, sebbene non fosse ignota anche all’Est. Questo è
da attribuirsi soprattutto alla differenza del clima intellettuale tra la parte orientale
dell’impero e quella occidentale. Mentre, infatti, la parte occidentale produceva
enciclopedie di livello sempre più basso, ognuna più lontana della precedente dalle
fonti originali, l’oriente produsse opere di livello piuttosto elevato, anche se il clima di
declino non risparmiò neanche il mondo greco, come testimoniato da Erone e Tolomeo.
Nei primi tre secoli dell’era cristiana, quando l’impero romano sembrava esser
così forte, era già diffuso uno spirito completamente alieno dalla ricerca intellettuale,
uno spirito di misticismo e di disperazione. La maniera per raggiungere la tranquillità
d’animo non fu più considerata il vivere in armonia con la società, ma il vivere in
maniera tale che la propria anima potesse trovare la felicità eterna nella vita
ultraterrena. In questo clima il cristianesimo, che aveva contribuito a formarlo,
dapprima è nettamente ostile al pensiero pagano in generale, ed ha avuto la sua parte di
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Date importanti sono il 596 quando papa Gregorio Magno invia in Gran Bretagna
l’abate Agostino con quaranta monaci e gli avvenimenti che ruotarono attorno all’abate
assunsero un significato fondamentale nella storia culturale dell’Europa medievale e il
669, quando papa Vitaliano pensò che fosse opportuno inviare in Inghilterra uomini
forniti di un’elevata preparazione dottrinale. La lingua e la dottrina della chiesa di
Roma, centro della cristianità, erano coltivate sul suolo inglese più e meglio che altrove,
e proprio lassù, ai margini dell’Europa, ci si preoccupava di mettere in salvo quello che
rimaneva del patrimonio della cultura classica. Se fino al IV secolo i Padri della chiesa
s’erano chiesti che cosa fare per mantenere viva la fede cristiana nel contesto della
cultura pagana trionfante, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476),
nell’età dei regni romano-barbarici (secoli V-VIII), un altro problema s’imponeva agli
uomini di cultura: quali erano le opere da salvare e come custodire i tesori dell’antica
sapienza? Troppo spesso l’ingenuità aveva preso il posto dello spirito critico e la
mitologia il posto della scienza. Fu veramente un’avventura uscire da questa prigione
d’ignoranza, tracciare il pensiero all’indietro e, da alcuni incerti frammenti, ripristinare
lo specchio che riflettesse lo splendore dell’antichità.
Bisanzio, anche se non aveva molto migliorato la propria eredità, almeno l’aveva
conservata. Aristotele, Euclide e Tolomeo non furono dimenticati. Le loro opere ancora
esistevano, se solo l’occidente avesse potuto imparare a leggerle. La distanza e la
frattura teologica tra la chiesa cattolica d’occidente e quella orientale ortodossa
impedirono un libero scambio culturale. L’ignoranza linguistica e la povertà di sviluppi
intellettuali resero l’Europa del tempo di Carlo Magno, e anche di molto tempo dopo,
completamente incapace di recuperare ciò di cui mancava e che desiderava
profondamente. Comunque, per fortuna, cominciarono a sorgere e presto si
moltiplicarono i soggetti che dovevano rendersi protagonisti di questo salvataggio.
Benedetto da Norcia (480-547), tra i vari principi dettati nella sua Regola, pilastro
del monachesimo occidentale, è inserito il lavoro nello scriptorium, dove pazientemente
si trascrivevano i codici. E’ vero che i monaci, di regola, trascrivevano i libri in funzione
della lectio divina (Bibbia, testi dei Padri della Chiesa, scritti agiografici e ascetici, decreti
conciliari), ma escludere dalle biblioteche dei monasteri i classici della filosofia, della
letteratura e delle scienze matematiche e fisiche sembrava eccessivo. Infatti, Aldelmo di
Malmesbury (c. 639-709), vescovo di Sherborne, enumera in una lettera tra le materie da
lui studiate l’aritmetica e l’astronomia.
tempo non esiste, concepire un Dio che esiste prima dell’universo è assurdo, dato che
non esiste né un prima né un dopo. Pertanto, secondo Boezio, Dio esiste al di fuori dello
spazio e del tempo: esiste per così dire sopra la natura, e non prima di essa.
Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia (ca. 560–636) creò con le sue Etimologie,
un’enciclopedia di venti libri, un modello di molti compendi medievali di scienza, quasi
fosse il distillato dell’antica sapienza, e la cultura occidentale deve considerarsi in
debito verso il vescovo di Siviglia per la conservazione e la trasmissione del sapere
antico. La stessa natura hanno gli scritti di Beda il Venerabile (674-735), che ha fornito al
cattolicesimo inglese lo stesso armamentario intellettuale che Isidoro aveva fornito a
quello spagnolo. Dal punto di vista filosofico Beda si ispira a S. Agostino, ed in
particolare ritiene che la materia del mondo contenga i semi di tutte le cose e che da
essi, come da cause primordiali, si sviluppino nel corso del tempo tutti gli esseri del
mondo. Beda è un altro anello della catena attraverso la quale la cultura antica si
trasmette al Medioevo.
I più importanti commenti su Aristotele furono scritti nel VI sec d.C. da
Simplicio (ca. 490–ca. 560) e da Giovanni Filopono (490–570). Il commento di Simplicio
fu letto moltissimo nell’Europa del XIII e XIV sec, e le sue opinioni su ciò che intendesse
Aristotele furono spesso accolte come assolutamente autorevoli. Egli produsse anche
una dettagliata trattazione del sistema astronomico a sfere concentriche e registrò lo
sviluppo storico di vari aspetti della scienza aristotelica. Filopono, autore del primo
abbozzo di uno dei concetti centrali della scienza moderna, fu più originale e meno
incline di Simplicio a seguire Aristotele. Le sue opere furono meno conosciute, ma le
sue idee sul movimento ebbero una profonda influenza sulla fisica del tardo Medio Evo.
Se il moto è intrattenuto dal mezzo, come può un corpo ruotare su se stesso, dal
momento che non si muove attraverso un mezzo? E come possono più sfere dotate di
moto di rivoluzione avere un movimento ora più rapido, ora più lento? Con questi
argomenti Filopono respinse le idee di Aristotele sul vuoto e sul movimento,
soprattutto la spiegazione del moto violento. Egli negò che il mezzo fosse responsabile
della continuazione del movimento dopo l’impulso iniziale. Al contrario, egli credeva
che il motore imprima al proiettile una certa forza o potenza di movimento, differente
secondo la maggiore o minor velocità. La forza di movimento, chiamata impeto, va via
via esaurendosi nel moto, talché, cessa il moto. Inoltre, sempre contro Aristotele, e
invocando l’esperienza, Filopono nega anche che i corpi di maggior peso cadano più
rapidamente di quelli più leggeri. Filopono criticò anche l’accento posto da Aristotele
sulla necessità di un mezzo perché vi sia movimento e sostenne che il movimento è
possibile anche nel vuoto.
Filopono può essere considerato il più grande meccanico tra Archimede e
Buridano, e le sue idee erano talmente originali per l’epoca in cui visse e anticipatrici
della meccanica seicentesca, che è stato considerato, con una certa esagerazione, un
precursore di Galileo.
La prima possibilità di rifornire gli sprovvisti scaffali delle librerie dei monasteri
fu offerta dall’Islam, portatrice di uno spirito nuovo e ponendosi come intermediaria fra
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la cultura classica e il mondo moderno. E’ vero che nel 641 gli arabi del califfo Omar
incendiarono la grande biblioteca di Alessandria, ma questo atteggiamento di ostilità
alla cultura non durò a lungo; a mano a mano che i musulmani venivano a contatto con
paesi di grande e antica civiltà, come Bisanzio, la Persia e l’Egitto, la loro civiltà
cresceva. Feconda fu soprattutto la conquista della Persia, dove si erano incontrati ed
avevano convissuto gli ultimi filosofi delle scuole pagane cacciati da Giustiniano,
cristiani di correnti eterodosse, rappresentanti della vecchia sapienza asiatica, persiana e
indiana.
Intellettualmente, l’Islam, come l’Europa, cercava la propria eredità in Grecia, il
cui ricco patrimonio fu rielaborato in centri di ricerca sorti a Baghdad, Samarcanda,
Cordova, per cui sorge un grande fervore per gli studi e tutti i libri di cui riescono a
venire in possesso vengono letti e studiati avidamente, commentati, posti a confronto,
tradotti in arabo, lingua che diviene, in tal modo, insieme al greco bizantino, una delle
lingue dotte del Mediterraneo nel medioevo e maggior veicolo di scienza. Così dalla
Persia alla Spagna si viene a formare e diffondere una nuova grande cultura, composita
nelle sue origini, vivacissima di polemiche e di contrasti, ma nel complesso unitaria,
destinata a divenire soffio vivificatore della morente civiltà europea. Il ceppo è ancora
quello greco o greco-alessandrino e i grandi pilastri che reggono questa cultura sono
Aristotele, Euclide, Tolomeo, che vengono letti e rielaborati. Così nella scienza araba
finiva il pensiero scientifico antico e si preannunziava quello moderno.
La principale ragione del perché la scienza ebbe questa particolare fioritura nel
mondo arabo, va ricercata nel sostegno che le fu dato dai califfi. Il califfo al-Mamun
(786-833) inviò a Bisanzio una missione per ottenere manoscritti originali e fondò una
Casa della Scienza, un’istituzione che era dotata di un osservatorio astronomico. Anche al
Cairo vi era un’accademia simile, fondata nel 966, sostenuta dall’astronomo e califfo
Hakim, e dove nel suo osservatorio lavoravano alcuni dei più famosi astronomi e fisici
dell’impero islamico. Il califfo di Cordova, al-Hakam, fu uno dei maggiori uomini di
cultura del medioevo, e si racconta che la sua biblioteca contenesse quasi mezzo milione
di volumi.
L’astronomo al-Nairizi (m. 922) scrisse un trattato sui fenomeni atmosferici; al-
Razi (m. 923) introdusse l’uso della bilancia idrostatica per la determinazione dei pesi
specifici; al-Biruni (973-1048), matematico e astronomo, determinò con notevole
accuratezza il peso specifico di diciotto corpi e a lui si deve la spiegazione dei pozzi
artesiani attraverso l’uso del principio dei vasi comunicanti. Al-Khazini (nato tra il 1115
e il 1121) scrisse un notevole trattato di fisica medievale, che contiene tavole di pesi
specifici di solidi e liquidi, esperienze sulla gravità dell’aria, osservazioni di capillarità,
l’uso di aerometri per la misura della densità dei liquidi.
Contemporaneo di al-Biruni fu il più grande scienziato arabo, Avicenna (980-
1037). Nelle teorie fisiche in generale segue Aristotele, dal quale però si discosta in
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qualche punto fondamentale, come nella teoria dei moti violenti. Con diversi argomenti
egli rigetta la teoria aristotelica del moto intrattenuto dal mezzo, e, secondo Avicenna, il
proicente imprime al mobile una forza, allo stesso modo come il fuoco imprime
all’acqua il calore, e durante il moto la forza va gradualmente scemando sino ad
annullarsi e così cessa il moto. Ma, mentre Filopono ammette la possibilità del vuoto,
Avicenna, seguendo Aristotele, la nega, adducendo la ragione che, in assenza
dell’ostacolo del mezzo, il moto nel vuoto persisterebbe indefinitamente, e la forza
impressa dal motore al mobile non varierebbe e non si annullerebbe mai. Per parecchi
secoli ancora il principio d’inerzia apparirà un assurdo. In ottica Avicenna, contro
Euclide, spiega la visione sostenendo che il raggio luminoso va dall’oggetto all’occhio, e
se la luce è dovuta all’emissione di particelle da parte della sorgente, diremmo oggi che
ha una natura corpuscolare, la sua velocità può essere finita.
per la rifrazione egli ricorre a modelli meccanici: se si lancia una palla di ferro contro
tavolette sottili, in modo da perforarle, si vede la traiettoria della palla, dopo la
perforazione, avvicinata alla normale.
nei secoli XII e XIII non era la scienza dell’antichità, ma quella araba, con i pregi ed i
difetti che quattro secoli di pensiero islamico avevano innestato sul tronco greco.
L’Europa fu capace di offrire nel giro di tre secoli (1050–1350) i tre centri, nel
mondo, più intellettualmente stimolanti: Bologna, Oxford, Parigi. Fu un fantastico
risultato culturale, più grande ancora di quello dell’Islam. Tuttavia, nonostante tutto
questo, l’Europa medievale era ancora assai lontana dalla Grecia.
In primo luogo la Scolastica non è, come la scienza greca, una ricerca autonoma
che affermi la propria indipendenza critica di fronte ad ogni tradizione o autorità. La
tradizione religiosa è, per essa, il fondamento e la norma della ricerca. La verità è stata
rivelata all’uomo attraverso le Sacre Scritture e le definizioni dogmatiche che la Chiesa
ha posto a fondamento della sua vita storica, per cui per l’uomo si tratta soltanto di
accedere a questa verità e di comprenderla. In questo compito, naturalmente, l’uomo
non può affidarsi alle sue sole forze, ma deve essere aiutato dalla tradizione religiosa,
fornita dagli organi della chiesa, che è guida illuminatrice e garanzia contro l’errore, per
cui l’orientamento intellettuale era per forza finalizzato verso la conoscenza religiosa.
Nella Scolastica, dunque, l’autorità acquistò un peso tale da condizionare in misura
determinante la ricerca. Le ragioni sono facilmente intuibili. Lo stesso Figlio di Dio,
sapienza infinita, s’era fatto Parola, e quella Parola, che si identificava con la “verità
tutt’intera”, era raccolta nelle Sacre Scritture. Ispirate dall’alto, esse erano affidate al
magistero ecclesiastico perché le custodisse integre e le interpretasse autenticamente.
In secondo luogo lo scopo della Scolastica è quello di intendere la verità già data
nelle rivelazione, non quella di trovare la verità. Perciò, come assume dalla tradizione
religiosa la norma della ricerca, così assume dalla tradizione filosofica gli strumenti e il
materiale della ricerca stessa. Essa vive sostanzialmente a spese della filosofia greca;
prima la dottrina platonico-agostiniana, poi quella aristotelica le forniscono gli
strumenti e il materiale della speculazione. La filosofia, come tale, è dunque per essa
soltanto un mezzo, ancilla theologiae. Naturalmente, le dottrine e i concetti che vengono
adoperati per questo scopo subiscono una trasformazione, non intenzionale, più o meno
radicale del loro significato originario, e il più delle volte non ne ha neppure coscienza.
Dottrine e concetti vengono tolti di peso dai complessi storici di cui fanno parte e
considerati indipendenti dai problemi cui rispondono e dalla personalità autentica del
filosofo che li ha elaborati.
In questa struttura formale del pensiero scolastico, e quindi di quello medievale,
si riflette la stessa struttura sociale e politica del mondo medievale, che si afferma a
partire dall’VIII secolo, quando, con la sparizione quasi completa degli scambi
economici e culturali e la decadenza, o scomparsa, delle città, rimane in piedi
un’economia rurale poverissima e chiusa. Questo è un mondo costituito come una
gerarchia rigorosa sorretta da un’unica forza che dall’alto ne dirige e determina tutti gli
aspetti. Il mondo è un ordine necessario e perfetto nel quale ogni cosa ha il suo posto e
la sua funzione ed è mantenuta in questo posto e in questa funzione dalla forza
infallibile che determina e guida il mondo dall’alto. Tutto ciò che l’uomo può e deve
fare è conformarsi a quest’ordine. Le istituzioni fondamentali del mondo medievale,
l’Impero, la Chiesa, il Feudalesimo, si presentano come i guardiani dell’ordine cosmico
e gli strumenti della forza che lo regge. In un mondo siffatto, la ricerca scientifica, e
filosofica in generale, non può desumere i suoi principi e la sua disciplina che dalle
stesse gerarchie e leggi in cui si concreta l’ordine universale. In più, la scienza era
guardata con sospetto, non soltanto perché attinta da fonti religiosamente sospette
(musulmane e pagane), non soltanto per i pericoli di eresia che sembrava implicare a
ogni passo, ma soprattutto perché minacciava di operare come elemento
eminentemente dinamico, e quindi disturbatore dell’ordine costituito.
Ora, una gerarchia culturale così rigida e totalizzante comportava tre ordini di
conseguenze:
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interessante notare che questo pensatore eterodosso, più volte censurato come eretico,
poteva trasmettere a lontani posteri una luce di sapienza custodita faticosamente in
un’epoca oscura.
scienze. Ricorrere alla dialettica significa ricorrere alla ragione; e chi non ricorre alla
ragione, per la quale l’uomo è immagine di Dio, abbandona la sua dignità e non rinnova
in sé di giorno in giorno l’immagine divina.
cosa da prodursi, cioè una forma, similitudine o regola di essa. Deve cioè esserci, nella
mente divina, il modello o l’idea della cosa prodotta, come nella mente dell’artefice
umano c’è il concetto dell’opera da prodursi: con la differenza che l’artefice ha bisogno
di una materia esterna per effettuare la sua opera e Dio no, e che il primo deve ricavare
dalle cose esterne il concetto stesso dell’opera, mentre Dio crea da sé l’idea esemplare.
La creazione dal nulla è appunto questa articolazione interiore della parola
divina. Senza l’attività creatrice di Dio, nulla è nulla dura; Dio non solo porta all’essere
le cose, ma le conserva e le fa durare continuando la sua azione creatrice. La creazione è
continua. Da ciò segue che Dio è e deve essere dappertutto; dove egli non è, nulla è e
nulla sta in piedi. Questo non vuol dire, certo, che egli sia condizionato dallo spazio e
dal tempo. In lui non c’è un alto né un basso, né un prima, né un dopo; ma Egli è tutto
in tutte le cose esistenti e in ciascuna di esse e vive di una vita interminabile che è tutta
insieme presente e perfetta.
noiose dispute, cui dette luogo. Del realismo si può fare uso teologico e cosmologico,
del nominalismo no. Perciò le correnti della scolastica che si ispirarono al realismo
furono quelle intese a difendere la teologia e la concezione teologica del mondo. Quelle
che si ispirarono al nominalismo si schierarono, in generale, contro la teologia e
assunsero posizione critica nei confronti della concezione teologica del mondo,
spingendosi talora fino a innovazioni ardite che costituiscono l’annuncio o la
preparazione di nuove concezioni della natura e dell’uomo. S’intende quindi perché, sul
finire della scolastica, il nominalismo ebbe la prevalenza: i problemi della teologia,
respinti nel dominio della fede, non interessavano più la filosofia, che si volgeva ad altri
campi, in cui si potevano ritenere più adatti e più efficaci i poteri razionali dell’uomo.
il progresso delle idee scientifiche nel periodo della tarda scolastica (secolo XIV),
spingendo all’esame di vedute eterodosse, come lo stesso atomismo, e suggerendo di
confrontare certe spiegazioni di Aristotele, ad esempio nel campo della fisica, con altre
eventualmente meno autorevoli. Così, anche se ancor lontani dal darci una scienza
moderna, tuttavia il nominalismo e il probabilismo concorreranno ad un risveglio della
curiosità e delle discussioni su problemi scientifici nel secolo XIV. Furono questi
orientamenti generali che portarono Abelardo alla condanna da parte del concilio di
Soissons nel 1121, e vent’anni dopo, da quello del concilio di Sens. Però, la linea indicata
da Abelardo, nel lungo periodo, risulterà vincente, tanto da portare alla grande stagione
del tomismo.
Il soffio della prima rinascita agricola e artigianale, che anima una rinnovata
curiosità verso la natura, insieme ai contatti con la cultura araba e le vedute di
Aristotele, determinano un fatto nuovo nella storia della cultura medievale: il risorgere
dell’interesse per le scienze particolari, così evidente nella scuola di Chartres, prima
ancora che alla corte di Federico II. Nello sfondo stanno anche le nuove vedute
nominalistiche, anche se gli chartriani sono prevalentemente platonici, inclini al
realismo, tuttavia il concettualismo di Abelardo, e la sua dottrina dell’astrazione, non
potevano essere dimenticati. Aristotele e altri naturalisti erano studiati più dello stesso
Platone e il loro platonismo era nuovo, giacché metteva capo alla ricerca di particolari
cause e ragioni fisiche, non meramente ideali, e talvolta giungeva addirittura fino a
confondersi con vedute di naturalisti presocratici. Dunque il secolo XII ci offre, con la
scuola di Chartes, l’esempio di un nuovo interesse per il mondo della natura,
riconoscendo addirittura una certa autonomia della natura nei confronti del suo stesso
creatore. I temi di filosofia naturale, dunque, che i filosofi di Chartres preferirono, si
riconnettono col tentativo di Abelardo di inserire il Timeo platonico sul tronco della
teologia cristiana. Abelardo aveva identificato la platonica Anima del mondo con lo
Spirito Santo. A questa identificazione i maestri di Chartres identificarono pure l’Anima
del mondo con la Natura stessa. Con ciò, la natura diventa la forza motrice, ordinatrice
e vivificatrice del mondo; e in questa azione acquista una dignità ed una potenza
autonoma. La natura è detta la forza universale (vigor universalis) che non solo fa essere
ogni singola cosa ma la fa essere quella che in particolare essa è. Quindi, riconoscendo
alla natura questa dignità e autonomia, si rende così possibile spiegare la natura con la
natura; e i filosofi di Chartres, utilizzando le fonti classiche e patristiche, ricorrono
spesso e volentieri a dottrine epicuree e stoiche per le loro spiegazioni cosmologiche.
Naturalmente l’utilizzazione di dottrine così eterogenee dà luogo a costruzioni
concettuali confuse e poco rigorose che hanno scrso valore scientifico. Ma l’importanza
di questi tentativi non è nei loro risultati, bensì piuttosto nell’indirizzo filosofico che
delineano: un indirizzo deciso a tenere sempre in maggiore considerazione la natura e
l’uomo, anche se la natura e l’uomo vengono concepiti, non in opposizione al
trascendente, ma come manifestazioni del trascendente medesimo. L’indirizzo che trova
nella scuola di Chartres la sua più ricca espressione filosofica era stato preparato, sin dal
secolo precedente, da una certa ripresa delle conoscenze scientifiche dovuta soprattutto
ai contatti con gli Arabi.
nani, ma se, facendo tesoro della loro scienza, saliamo sulle loro spalle, vedremo ciò che
essi non videro.
Giovanni di Salisbury (ca. 1110-1180) attraverso le sue opere offre un quadro
vivace della cultura del tempo: “Il senso corporeo, che è la prima forza e il primo
esercizio dell’anima, getta i fondamenti di tutte le arti, e genera i primi principi delle
scienze”. L’intera dottrina di Giovanni è animata da uno spirito autenticamente critico, il
suo scopo è quello di stabilire chiaramente i limiti e i fondamenti delle possibilità
conoscitive umane, e ritiene che la ricerca, il più delle volte, si debba accontentare del
probabile: “… in tutte le cose che possono essere per il filosofo oggetto di dubbio, non
giuro affatto che è vero ciò che dico: ma, vero o falso che sia, mi contento della sola
probabilità”. In sintesi, Giovanni preferisce dubitare intorno alle cose singole, piuttosto
che esprimersi con certezza su ciò che è ignoto o rimane nascosto. Questo prudente
atteggiamento viene giustificato da Giovanni con la limitazione propria della scienza
umana, alla quale si sottraggono le cose future: “So con certezza che la pietra o la saetta
che lancio verso le nuvole dovrà ricadere a terra, perché così esige la sua natura; ma
tuttavia non so se essa possa soltanto ricadere in terra e perché: potrebbe infatti sia
ricadere, sia no. Anche l’altra alternativa è vera, sebbene non necessariamente, come è
vera quella che so che si verificherà … Di ciò che non è ancora, non c’è scienza, ma
soltanto opinione”. Da ciò deriva che tutte le affermazioni che implicitamente ed
esplicitamente concernono il futuro hanno valore probabile, non necessario, la loro
probabilità è fondata sulla indeterminazione del loro oggetto ed è perciò ineliminabile.
Tuttavia la conoscenza umana non può rimanere chiusa nel cerchio del probabilismo,
per cui le sue limitate certezze devono pur poggiare su qualche punto fermo, che,
secondo Giovanni, è rappresentato dai sensi, oltre che dalla religione e dalla fede. In
germe, egli è dunque uno dei primissimi rappresentanti dell’empirismo che
predominerà nel pensiero scientifico, filosofico, e nella mentalità inglese.
La rinascita filosofica del XII secolo è anche una rinascita del misticismo. Più
precisamente, quella rinascita rende possibile il riconoscimento della mistica come di
una via autonoma per elevarsi a Dio, una via che in qualche caso è alternativa o rivale
della ricerca razionale. Il misticismo fu inteso, quindi, da Bernardo di Clairvaux (1090-
1153) come arma di combattimento contro ogni forma di filosofia, e tra i punti salienti
della sua dottrina troviamo proprio la negazione del valore della ragione. Su questo
punto Bernardo si pronuncia senza riserve contro la scienza. Il desiderio di conoscere
gli appare “una turpe curiosità” e le discussioni dei filosofi come “loquacità piena di
vento”.
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Le due vie, quella mistica e quella della ricerca razionale, invece, in Ugo da San
Vittore (1096-1141) si fondono armonicamente. Per Ugo la suprema ascesa mistica
appare come il coronamento della paziente ricerca scientifica e filosofica. Infatti il suo
atteggiamento di fronte alla scienza è decisamente opposto a quello di Bernardo. Nulla
c’è di inutile nel sapere: “Impara tutto, vedrai poi che nulla è superfluo”. La stessa
scienza profana è utile alla scienza sacra, alla quale è subordinata, e perciò, nella sua
opera Didascalion, tratta delle nozioni scientifiche conosciute al suo tempo; e quindi,
invece di contrapporle tra loro, cerca di stabilire un equilibrio armonico e di coordinarle
in un unico sistema. In che modo? Le vie della ragione son date dalla natura, le vie della
rivelazione dalla grazia. Per Ugo la scienza è anche la sola conoscenza necessaria, e
questa necessità viene dalla logica che è il suo strumento indispensabile. Le scienze
sperimentali, come la fisica, presuppongono le scienze puramente logiche, come la
logica stessa e la matematica; giacchè l’esperimento è fallace e soltanto nella pura
ragione è la garanzia indiscutibile della verità.
Notevole è il fatto che la matematica e la fisica sono considerate scienze fondate
sull’astrazione, ciò che ci avvicina ad un punto di vista nominalistico più che non
platonico. La matematica considera distintamente gli elementi che nelle cose naturali si
trovano confusi insieme; e così mentre in realtà la linea non c’è mai senza la superficie
ed il volume, la ragione considera, nella matematica, la linea in se stessa, prescindendo
dalla superficie e dal volume. Ciò perché la ragione spesso considera le cose, non come
sono, ma come possono essere create, cioè non in loro stesse, ma in riferimento a se
stessa. Allo stesso modo anche la fisica distingue l’uno dall’altro, per astrazione, gli
elementi che, in realtà, si trovano mescolati nel mondo reale: terra, acqua, aria e fuoco; e
giudica ogni corpo come un prodotto della composizione e della forza di tali elementi.
Al pari degli antichi presocratici, egli ammette il principio di conservazione della
materia, ma più importante è il fatto che ammette la composizione atomica dei quattro
elementi, come molti rappresentanti della scuola di Chartres, ed è così uno dei primi, in
Occidente, a richiamare l’attenzione su quella antica teoria, che, combattuta aspramente
da pensatori ortodossi, sarà decisiva per la rinascita della scienza.
In questo fermento di rinascita filosofica non possiamo non considerare la
reazione delle autorità ecclesiastiche verso la rinnovata conoscenza di Aristotele
durante il secolo XII. La traduzione dei libri sconosciuti della Logica, della Fisica e della
Metafisica, congiunta ai commenti e alle interpretazioni degli arabi, specie di Averroè e
Avicenna, recavano un fermento di idee che facilmente conduceva a pericolose
tendenze di pensiero, ad affermazioni temerarie, o addirittura a vere e proprie eresie.
Mentre la diffusione della scienza araba, come abbiamo già trattato, produce un
notevole allargamento della cultura scientifica medievale, gli effetti della diffusione
dell’aristotelismo sono assai più profondi, in quanto fornirono i quadri mentali, i
metodi logici e le categorie per tentare di sistemare, e quindi connettere, porre in
relazione le une con le altre, disporre in ordine logico le varie scienze dell’epoca, in una
vasta sintesi che andava dalle scienze empiriche della natura alla logica e fino alla
metafisica. Finalmente, di fronte al misticismo e al simbolismo dominante nei periodi
precedenti, l’empirismo di Aristotele costituiva un elemento di reazione ed un’apertura
verso una mentalità più scientifica. La reazione delle autorità ecclesiastiche si manifesta
attraverso numerose condanne, il cui scopo è di stabilire con precisione i confini fra il
lecito e l’eretico nel campo del pensiero, ma che, specie in un primo momento,
tendevano a gettare il discredito su tutta la dottrina dello Stagirita. Bisognerà aspettare
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il XIII secolo affinché l’aristotelismo venga considerato come uno dei fondamenti del
dogma cristiano. Questa rivoluzione, come vedremo dopo, sarà opera soprattutto di
Tommaso d’Aquino.
Averroè aveva una fiducia nella concordanza fra scienza e fede, e sosteneva che
quest’ultima esprime, in modo più immediato e direttamente accessibile, ciò stesso che
la filosofia spiega con metodo più elaborato, secondo le lunghe vie dell’esperienza e del
ragionamento logico. Il patrimonio delle concezioni dogmatiche cristiane è, però,
profondamente diverso da quello delle islamiche. Ad esempio il concetto di eternità
dell’universo ha ben altro rilievo agli occhi di credenti il cui testo sacro è il Genesi.
Perciò Sigieri deve trasformare le vedute di Averroè sui rapporti fra scienza e fede,
sostenendo non già un semplice e fiducioso parallelismo, ma piuttosto una specie di
convivenza pacifica fra conoscenza razionale e dogma. Si perviene, pertanto, alla teoria
della doppia verità: come cattolico Sigieri ammette la preminenza indiscutibile, la verità
assoluta del dogma, ma come filosofo ritiene di poter discutere a fondo ogni problema
sulla natura e sul cosmo, cercando di raggiungere conclusioni in accordo con il
raziocinio e con l’evidenza dei fatti, senza preoccuparsi delle affermazioni dogmatiche
che conservano la loro propria validità, sorrette dalla fede.
immagini particolari e non può intendere nulla se non volgendosi alle immagini stesse,
esso conosce indirettamente anche le cose particolari, alle quali le immagini
appartengono. Da queste considerazioni deriva che la conoscenza umana si svolge per
atti successivi, che si seguono nel tempo, e questo procedere è il ragionamento, e la
scienza che si viene così costruendo per successivi atti di affermazione o di negazione è
la scienza discorsiva. La conoscenza umana è dunque conoscenza razionale, e nel suo
carattere raziocinativo sta anche la possibilità dell’errore.
In conclusione, ogni conoscenza trova, secondo Tommaso, un adeguato
fondamento nell’essere, e ciò accade anche per la stessa matematica, che pur è il frutto
di un’astrazione particolarmente spinta. Anche ai concetti di tale scienza corrisponde
infatti qualcosa di reale; per esempio, ai concetti geometrici di cerchio e triangolo
corrisponde un’effettiva forma circolare o triangolare dei corpi.
Comunque, Tommaso, nelle sue argomentazioni, sia filosofiche che teologiche,
utilizza una rigorosità scientifica notevole che ci permette di cogliere una straordinaria
apertura mentale, tipica dello scienziato moderno, con tutti i limiti storici e temporali.
Con riferimento alla scienza fisica, però, Tommaso non portò alcun nuovo contributo
anche se si sforzò di renderla un sistema coerente con la filosofia. A questo fine egli
preparò commenti su quattro trattati scientifici di Aristotele, compresa la Fisica. Per
quanto riguardava la scienza, la sintesi tomista fu naturalmente una sintesi puramente
logica che non migliorò sotto nessun aspetto la descrizione dell’universo. Così la grande
autorità dell’Aquinate confermò la tendenza medievale ad assimilare la filosofia
naturale alla metafisica e alla teologia, e rendere lo studio della natura un puro esercizio
intellettuale, condotto con appropriati strumenti logici. In realtà, il suo eccezionale
risultato fu di rimuovere le ultime discrepanze tra la concezione cristiana del mondo e
quella della scienza aristotelica.
L’effetto dell’introduzione dell’aristotelismo nella scolastica dimostrò la chiara
delimitazione dei campi rispettivi della ragione e della fede. La ragione è il dominio
delle verità dimostrate, perciò delle dimostrazioni necessarie e dei principi evidenti che
sono a fondamento di esse; la fede è il dominio delle verità rivelate, prive di necessità
dimostrativa e di evidenza immediata. Questa distinzione verrà mantenuta saldamente
in tutta la storia ulteriore dell’aristotelismo. Ma l’opera di Tommaso non si era fermata
al riconoscimento di questa distinzione, aveva avuto anzi la pretesa di procedere molto
al di là di essa, stabilendo nel contempo l’impossibilità di un qualsiasi contrasto tra i
due campi d’indagine: “Poiché solo il falso è contrario al vero, come appare evidente, a
vista, dalle loro stesse definizione, è impossibile che la verità della fede sia contraria a
quei principi che la ragione naturalmente conosce”.
Dopo Tommaso, l’altra svolta della scolastica è dovuta a Giovanni Duns Scoto
(1265-1308). Si tratta di una svolta decisiva, che doveva rapidamente condurre la
scolastica alla fine del suo ciclo e all’esaurirsi della sua funzione storica. Anche questa
svolta è determinata dall’aristotelismo, ma in questo caso l’aristotelismo è lo spirito di
un sistema, non un sistema. Per Tommaso l’aristotelismo è una dottrina che bisogna
correggere e riformare, per Duns Scoto è la filosofia stessa, che bisogna riconoscere e far
valere in tutto il suo rigore per circoscrivere in giusti limiti il dominio della scienza
umana. Per Tommaso si tratta di far servire l’aristotelismo alla spiegazione della fede
cattolica, per Duns Scoto si tratta di farlo valere come principio che restringe la fede nel
suo proprio dominio, che è quello pratico. L’ideale di una scienza assolutamente
necessaria, cioè interamente fondata sulla dimostrazione, e il procedimento critico,
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clamorosa rottura sul tema fondamentale del rapporto fra ragione e fede, fino a
proclamarne l’incompatibilità. Questa scelta lo portò a una critica del sapere
tradizionale, in particolare della grande sintesi di Tommaso, quindi alla formulazione di
tematiche nuove che resteranno al centro del dibattito durante l’età moderna e oltre.
Il problema fondamentale, dal quale la scolastica era sorta e della cui incessante
elaborazione aveva vissuto, l’accordo tra la ricerca filosofica e la verità rivelata, viene da
Ockham per la prima volta dichiarato impossibile e svuotato di ogni significato. Con ciò
la scolastica medievale chiude il suo ciclo storico; la ricerca filosofica diventa
disponibile per la considerazione di altri problemi, primo fra tutti quello della natura,
cioè del mondo al quale l’uomo appartiene e che può conoscere con le sole forze della
ragione. Il principio di cui Ockham si è servito per portare a compimento la
dissoluzione della scolastica, iniziata comunque già con Duns Scoto, è il ricorso
all’esperienza posta come fondamento di ogni conoscenza e a rigettare al di fuori di
ogni conoscenza tutto ciò che trascende i limiti dell’esperienza stessa. Il valore
dell’esperienza era stato riconosciuto dalla tradizione francescana e aveva trovato, come
vedremo in seguito, affermazioni solenni in Grossatesta e in Ruggiero Bacone; ma
Ockham si rifà, oltre che a questa tradizione, alla scienza del suo tempo e soprattutto
all’ottica di Alhazen, dalle cui opere desume l’impostazione fondamentale del suo
empirismo. Come Duns Scoto si era servito dell’ideale aristotelico della scienza come di
una forza limitatrice e negatrice del problema scolastico, così l’empirismo, pur noto ed
accettato da molti scolastici, solamente con Ockham diviene la forza che determina il
crollo della scolastica. All’empirismo, che è il fondamento della sua filosofia, Ockham
giunge muovendo da una esigenza di libertà che è il centro della sua personalità: “Le
asserzioni precipuamente filosofiche, che non concernono la teologia, non devono essere
da nessuno condannate o interdette solennemente, giacchè in esse chiunque deve essere
libero di dire liberamente ciò che gli pare”.
Lo stesso empirismo conduceva Ockham ad una considerazione approfondita
della natura, giacchè la natura non è che l’oggetto dell’esperienza sensibile. Ockham
considera la natura come il dominio proprio della conoscenza umana; l’esperienza cessa
di avere il carattere iniziatico e magico che ancora conservava nella maggior parte delle
menti dei pensatori medievali e diventa un campo di indagine aperto a tutti gli uomini,
in quanto tali. Questo atteggiamento gli consente la massima libertà di critica di fronte
alla fisica aristotelica. Attraverso tale critica si aprono numerosi spiragli verso la nuova
concezione del mondo, che la filosofia del Rinascimento doveva difendere e far sua. Le
possibilità che Ockham scopre diventeranno nel Rinascimento affermazioni risolute e
costituiranno il fondamento della scienza moderna. Egli fu anche un forte sostenitore
dell’unità della natura, un principio al quale faceva spesso ricorso Newton, da cui
deriva che effetti uguali richiedono cause uguali. Partendo da tale principio, Ockham
mette in discussione la differenza di sostanza tra i corpi celesti e i corpi sublunari, e
quindi l’esistenza di una fisica celeste e una terrestre, stabilita dalla fisica aristotelica.
Contro Aristotele, Ockham ammette e difende la possibilità di più mondi.
L’argomentazione di Aristotele che, se ci fosse un mondo diverso dal nostro, la terra di
esso si muoverebbe naturalmente verso il centro e si congiungerebbe con la nostra, e
così tutti gli altri elementi si ricongiungerebbero alla propria sfera formando un unico
mondo, è combattuta da Ockham con una negazione delle determinazioni assolute
dello spazio ammesse da Aristotele. Un mondo diverso dal nostro avrebbe un altro
centro, un’altra circonferenza, un alto e un basso diversi, i movimenti degli elementi
sarebbero dunque diretti verso sfere diverse e non si verificherebbe la congiunzione
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Prima di Occam, come dopo di lui, vi furono altri filosofi che avanzarono critiche
più radicali alla scienza peripatetica, negandone la teoria del movimento. Il principio
indispensabile di Aristotele, che nessun essere non vivente può muoversi da solo, non
sembrava vero per oggetti già in movimento. Aristotele aveva spiegato queste
discrepanze considerando il mezzo (aria o acqua) come motore, ma queste spiegazioni
erano state considerate sempre insoddisfacenti e rappresentavano il punto debole della
fisica aristotelica.
Le intuizioni fisiche di Ockham, che sono il punto di partenza della meccanica e
dell’astronomia moderne, vengono riprese da un certo numero di seguaci. Le due
principali figure dell’occamismo, di questo movimento di critica della fisica peripatetica
furono entrambi francesi: Giovanni Buridano (1290/?1300–1360 ca.) e Nicola Oresme
(1323 – 1382) ed entrambi possono essere considerati precursori della fisica moderna.
Nelle loro mani, la teoria dell’impeto, cioè del movimento continuato, demolì le tesi di
Aristotele, ed essi la estesero anche al movimento delle sfere celesti. Essi argomentarono
che il Primo Motore dell’universo (la nona e ultima sfera) che la teoria di Aristotele
richiedeva per muovere le otto sfere che portavano i corpi celesti osservabili, era
sovrabbondante, poiché se queste sfere erano state poste in rotazione al momento della
creazione e non incontravano nessuna resistenza, il loro impeto le avrebbe spinte a
ruotare per sempre.
In questo, come in altri contesti, Buridano sostenne sempre che l’impeto fosse
distrutto solo dalla resistenza e dall’attrito con i corpi in movimento normalmente
incontrati. Altri, invece, supposero che l’impeto si dissipasse spontaneamente come il
calore, al quale era paragonato. Era generalmente riconosciuto che l’impeto di un dato
corpo fosse proporzionale sia alla sua velocità iniziale sia al suo peso. Vi fu un’altra
applicazione della teoria dell’impeto che ebbe grande importanza. La fisica aristotelica
non aveva mai indicato una chiara ragione del perché un corpo che cade aumenti la sua
velocità, sebbene il fenomeno fosse ben noto. Qui vi era un altro caso di movimento
senza un motore apparente, un caso posto da Aristotele nella classe dei fenomeni
naturali provocati dalla disposizione di alcuni oggetti a ritornare liberamente ai loro
luoghi. Ma non era chiaro perché la natura costante di un corpo dovesse esser la causa
di un effetto che varia l’accelerazione di caduta, giacché questa sembra contravvenire al
principio che ogni effetto è proporzionale alla sua causa, ogni velocità, come pensava
Aristotele, alla forza motrice applicata. La teoria dell’impeto spiegava l’accelerazione in
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una maniera nuova, meccanica: nel primo breve istante di tempo la sua natura spingeva
un corpo pesante libero a muoversi un po’; alla fine di questo istante, esso avrà
acquistato un impeto che lo spingerà a muoversi durante il secondo istante alla stessa
velocità, ma poiché la sua natura lo spinge a cadere, esso cadrà ora più velocemente che
nel primo istante, e così via.
Questo è il punto in cui la trattazione medievale del movimento si avvicinò di
più all’affermazione che una forza costante produce un’accelerazione costante. Poteva
un tal moto accelerato esser descritto matematicamente, proprio come è possibile
descrivere in questa maniera un moto uniforme? La trattazione dei corpi in movimento
non uniforme era una nuova impresa che richiedeva la trattazione matematica di una
quantità che variava in maniera continua. Buridano espone le obiezioni alla fisica di
Aristotele, e la dottrina dell’impetus, con una ricchezza, anche di argomenti
sperimentali, ignota ai suoi predecessori. Eccone qualche esempio: “La prima
esperienza è quella della trottola o del tornio del fabbro; questo corpo gira a lungo,
eppure non esce affatto dal luogo che occupa, sicché l’aria non si sposta per riempire
qualche spazio che esso lascia vuoto”. “Seconda esperienza: si lanci un giavellotto che
abbia all'estremità posteriore una punta acuta come quella dell'estremità anteriore.
Esso si muove come un giavellotto comune, avente una sola punta; eppure l'aria che lo
segue non potrebbe certo spingerlo con forza, dato che la punta posteriore tende
anch'essa a tagliare l'aria”. “Terza esperienza: una barca spinta rapidamente contro la
corrente di un fiume, non si arresta mai di colpo, e continua a muoversi per un bel
tratto anche quando si cessa di spingerla. Eppure il barcaiolo che vi sta sopra, in piedi,
non si sente affatto spinto posteriormente dall'aria, anzi sente che l'aria fa resistenza al
moto del suo corpo... Con la vostra mano vuota voi potete muovere l'aria molto più
velocemente che se voi teneste in mano una pietra che vi ripromettete di gettare:
supponiamo dunque che quest'aria, grazie alla velocità del suo moto, abbia impeto
bastante per muovere rapidamente un sasso: allora spingendo quest'aria verso di voi
con la stessa velocità io dovrei darvi una spinta assai impetuosa e sensibile; ma ciò non
si verifica affatto... “.
A Oresme si deve dare merito per avere adoperato per la prima volta una
rappresentazione grafica corrispondente al nostro uso delle coordinate, costruendo il
diagramma della velocità in funzione del tempo. Questo diagramma gli consente di
stabilire che nel moto uniformemente vario con velocità nulla lo spazio percorso è
uguale a quello che nello stesso tempo percorrerebbe un corpo dotato di moto uniforme
con la velocità acquisita dopo il tempo t/2. Appartengono ad Oresme anche alcune
interessanti considerazioni geometriche su una serie di moti uniformi..
Nicola d’Oresme esaminò anche il tema del movimento della Terra, trattandolo
alla stregua di una questione ipotetica e fece notare che se ruotasse su se stessa tutti i
fenomeni astronomici avrebbero potuto venir spiegati altrettanto bene che nel modo
tradizionale, cioè con la Terra ferma al centro dell’universo; tuttavia respinse questa tesi
per la ragione decisiva che la Bibbia parla della Terra come immobile. Data la
concezione medievale che la ragione poteva indurre in errore, quale era la miglior
difesa contro il cadere in tali errori in quelle questioni sulle quali Dio non aveva detto
nulla? Una usuale risposta moderna a questa domanda è: fare esperimenti. Anche se nel
medioevo la sperimentazione non fu trascurata, ma di fatto il filosofo naturale nel
medioevo fu per la maggior parte meno interessato ai particolari dell’universo che a
concezioni generali di esso. Non è esagerato dire che il medioevo studiò la scienza come
se fosse teologia e la Fisica di Aristotele come se fosse la Bibbia. Il fatto di base è che
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l’Europa del XII secolo era assolutamente carente di uomini in grado di criticare la
scienza di Aristotele come vorrebbe uno scienziato moderno. Non mancò invece del
tutto di validi filosofi che, di fronte alla scienza aristotelica, si chiedevano non “E’
vera?”, ma piuttosto “Queste teorie sono coerenti?”. Il tentativo di rispondere a queste
domande aveva prodotto, verso la fine del medioevo, una vasta mole di commenti, e
anche un po’ di scienza.
successivi destini della dinamica è quello della velocità di caduta di un grave, problema
che sarà risolto pienamente solo da Galileo. Alberto di Sassonia (1316-1390) presenta
due ipotesi tra le quali rimane incerto: che la velocità di caduta sia proporzionale al
tempo della caduta oppure che essa sia proporzionale agli spazi percorsi. Nicola
d’Oresme propendeva per la prima, quella che attraverso l’opera di Galileo si imporrà
nella fisica moderna.
Contemporanea e rivale della scuola di Parigi, i cui maggiori rappresentati
furono Buridano e Oresme, fu la scuola di Oxford. Appena fondata, siamo nel 1209, fu
chiamato a insegnarvi Roberto Grossatesta (ca. 1168–1253), considerato da molti il vero
introduttore in Occidente di Aristotele, che unì ai suoi interessi logici un più sviluppato
empirismo. La sua originalità consiste nell’aver affermato il principio secondo il quale
lo studio della natura deve essere fondato sulla matematica, principio che sarà
affrontato da Galileo con maggior rigore e profondità e che costituisce il fondamento
della scienza moderna: “L’utilità dello studio delle linee, degli angoli, delle figure è
grandissima, giacchè senza di esse è impossibile conoscere nulla della filosofia naturale.
Esse valgono assolutamente in tutto l’universo e nelle parti di esso”. In queste parole
sembrano riecheggiare quelle di Galileo, espresse qualche secolo più tardi nel suo
lavoro Il Saggiatore:“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente
ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'Universo), ma non si può intendere se prima
non s'impara intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto
in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, cd altre figure geometriche,
senza i quali mezzi impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un
aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”. Inoltre Grossatesta esprime esattamente
la legge di economia che regola i fenomeni naturali, quale sarà poi affermata da Galilei:
ogni operazione della natura si verifica nel modo più determinato, più ordinato, più
breve che ad essa è possibile.
Dobbiamo a lui anche il primo sforzo per orientare la ricerca filosofica verso la
scienza, per trovare un principio unico di spiegazione dell’universo fisico, che secondo
Grossatesta va ricercato nella lux, che erroneamente pensa si propaghi con velocità
infinita in tutte le direzioni, se non incontra ostacoli. Ne deduce matematicamente la
forma sferica dell’universo e giunge ad identificare la luce con lo spazio stesso.
Quantunque privi, naturalmente, dei concreti significati scientifici che oggi li
accompagnano, le sue idee sono curiosamente vicine a quelle della relatività e della
teoria dei campi. Come conseguenza della identificazione fra spazio e quella forma
prima della materia prima che è la lux, Grossatesta giunge alla conclusione, molto
suggestiva per lo sviluppo della scienza fino a Galileo, che lo studio geometrico dello
spazio possa offrire lo strumento atto a penetrare i più intimi segreti della natura.
La particolare rilevanza di Grossatesta è legata anche al suo profondo interesse
per il controllo delle teorie scientifiche. Soltanto quando tali proposizioni si fossero
dimostrate vere sarebbe stato possibile conoscere le vere cause delle cose. Così egli
riconobbe il carattere formale delle dimostrazioni in fisica matematica, cioè derivazioni
da appropriate definizioni e assiomi. Tuttavia, nella scienza, tutte le proposizioni non
hanno questa verità formale, di conseguenza Grossatesta sostenne che tali proposizioni
dovevano esser verificate in rapporto all’esperienza. Grossatesta precisò ulteriormente
che le proposizioni dovrebbero anche essere sottoposte alla prova di falsificazione da
parte dell’esperienza, metodo d’indagine che Popper nel XXI secolo svilupperà in
profondità e che diventerà strumento indispensabile per la ricerca scientifica. Sebbene
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fornisse pochi esempi pratici dell’uso delle sue idee sul metodo scientifico, egli scrisse
un libro sull’arcobaleno in cui avanzava l’ipotesi che l’arco colorato potesse esser
provocato dalla rifrazione della luce solare in una nuvola.
Roberto Grossatesta si può considerare come l’iniziatore del movimento che,
contro l’influenza dell’aristotelismo, si fa promotore di un risoluto ritorno al platonismo
agostiniano, e che avrà come suo carattere costante l’interesse per il mondo naturale,
fatto oggetto di una ricerca che non si appaga dei testi aristotelici, ma intende
procedere, in piena autonomia, con il ragionamento e con l’esperienza.
Tractatus proportionum egli tenta di dare una formulazione matematica della legge
aristotelica del moto uniformemente accelerato, sostituendo la legge del moto di
Aristotele:
V ∝F/R con una nuova: V ∝ log(F / R)10
Contemporaneamente agli sviluppi del pensiero scientifico teorico, dal secolo XII
in poi si vengono sviluppando varie forme di ricerca le quali, o perché già formalmente
scientifiche o per gli orizzonti che apriranno alla fisica, hanno comunque un notevole
rilievo per gli sviluppi successivi.
Una scienza in particolare, oltre alla matematica, si affaccia sulle soglie della
scienza moderna, ed è la meccanica, distaccata dalla cultura universitaria e fiorisce a
contatto immediato con bisogni pratici e non sente minimamente l’influsso delle grandi
correnti filosofiche. È giunto fino a noi un corpus di scritti medievali di meccanica,
costituito da un gruppo di manoscritti del secolo XIII e da due edizioni a stampa del
secolo XVI, che sono dovuti non a filosofi o professori universitari ma a tecnici
preoccupati soprattutto di problemi inerenti alla scienza delle costruzioni. Il problema
fondamentale è la traduzione in sede tecnica di un problema largamente discusso nelle
università commentando la fisica aristotelica: il problema della gravità. Da un punto di
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vista tecnico riguardava l’equilibrio dei pesi e dello scarico degli stessi nel caso di masse
pesanti gravanti su costruzione date. Tale problematica era particolarmente legata
all’architettura dell’epoca nel trapasso dall’arte romanica all’arte gotica. Con ciò
venivano poste le basi di un importante capitolo della meccanica razionale, la teoria del
moto e dell’equilibrio dei gravi lungo un piano inclinato.
Il precursore di Leonardo (XIII secolo) (anonimo autore di un trattato di
meccanica utilizzato da Leonardo da Vinci nelle sue speculazioni meccaniche) trova in
proposito un’importante relazione matematica, che, perfezionata nei secoli seguenti,
costituirà uno dei princìpi fondamentali della statica moderna: due pesi, i quali
scendono da bande opposte di due piani inclinati formanti tra loro un certo angolo, si
fanno equilibrio quando sono proporzionali alle lunghezze dei piani inclinati stessi.
Questo materiale di osservazione, elaborato alla luce della nuova matematica, costituirà
il primo capitolo della fisica moderna.
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Einstein
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5.2 L’Umanesimo
L’aspetto più notevole dell’Umanesimo è il culto dei classici, sia latini che greci,
che, rispetto al Medioevo, si fa più esteso dal punto di vista quantitativo e più intenso e
fervido, per non dire entusiastico e perfino fanatico, dal punto di vista qualitativo. Per
gli umanisti la conoscenza degli antichi era più elevata di quella da loro posseduta, ed il
progresso corrisppondeva ad un risveglio, una rinascita, del sapere classico.
La filologia è la scienza sovrana degli umanisti, e penetra quasi tutti i campi della
cultura, e si configura come uno strumento di indagine capace di liberare il rigoroso
discorso dei grandi esponenti della scienza antica dalle alterazioni della Scolastica,
anche se si corre il rischio di risolversi in un’opera di esercizio filologico sui testi della
scienza classica. Gli umanisti, opponendo la retorica e l’eloquenza alla logica formale
pura dell’ultima scolastica, danno origine al problema che da Bacone arriverà fino a
Newton, e cioè di ottenere al posto di un discorso meramente formale che si esauriva
interamente sul piano del linguaggio, forme di aggregazione che più direttamente
portassero sulle cose e permettessero quindi un discorso che, fondato sull’esperienza,
potesse da questa giungere alla formulazione di verità generali non astrattamente
metafisiche o formalmente logiche, ma tali da garantire possibilità all’intervento attivo
dell’uomo nella natura.
Gli umanisti, però, non furono passivi ripetitori della sapienza antica e fu
presente, nei loro scritti, una costante polemica non solo contro la “barbarie” degli
Scolastici, ma anche contro i pericoli della ripetizione e del classicismo. La
contrapposizione della aemulatio alla imitatio divenne il grido di battaglia di molti
intellettuali europei da Angelo Poliziano (1454-1494) a Erasmo da Rotterdam (1469-
1536). Nella cultura umanistica è in realtà presente un forte contrasto fra “la
venerazione per gli antichi” (che conduce al classicismo) e una difesa della eguaglianza
dei “moderni” che anticipa alcune delle tesi avanzate, nel corso del Seicento, nella
disputa sugli antichi e sui moderni. I testi riscoperti dagli Umanisti, nel corso del loro
grandioso ed esaltante lavoro di ritrovamento, di raccolta, di commento, non si
configuravano come semplici documenti. Quegli antichi testi contengono conoscenza:
sono direttamente utili alla scienza e alla sua pratica. La diffusione di edizioni fatte
direttamente sugli originali greci, di traduzioni non più fondate (come nel Medioevo) su
traduzioni arabe di opere greche, ebbe effetti decisivi sugli sviluppi del sapere
scientifico.
5.3 Il Rinascimento
richiederebbero una nuova fisica, che sarà costruita solo alcuni decenni dopo la morte
di Telesio. La sede del calore è il Sole, mentre la sede del freddo è la Terra. Sole e Terra
vengono ad essere così i due corpi elementari che non mutano, mentre tutti gli altri
corpi sono soggetti al divenire. Su questo punto è evidente il legame di Telesio con la
concezione tradizionale del cosmo, e, diversamente da ciò che farà Bruno, non abbraccia
ancora la concezione copernicana né si rende conto della sua importanza scientifica e
filosofica. Anche la matematica, secondo Telesio, deve fondarsi sull’esperienza, e non
venire pensata come una costruzione aprioristica di concetti che l’intelletto imporrebbe,
dall’alto, ai dati empirici.
Sarebbe vano cercare notevoli scoperte scientifiche nelle opere di Telesio,
piuttosto, notevole per l'indirizzo culturale e metodologico che le ispira è la polemica
antiaristotelica, la tendenza a risalire ai naturalisti presocratici, ad affermare che il
conoscere deve fondarsi sulla esperienza, e che non dobbiamo andare in cerca di cause
finali, di ragioni teleologiche tratte dal di fuori del mondo fisico. Questa critica
all’aristotelismo investe tutti i punti, anche quelli fondamentali. Aristotele aveva
considerato Dio come il motore immobile del cielo. Telesio ritiene che l’azione di Dio
non possa essere ristretta a spiegare un fatto determinato o un determinato aspetto
dell’universo. Deve essere invece riconosciuta come assolutamente universale e
presente in tutti gli aspetti dell’universo, come fondamento o garanzia di quell’ordine
che assicura la conservazione di tutte le cose. Dio dunque non può essere invocato come
causa diretta e immediata di un qualsiasi evento naturale; è semplicemente il garante
dell’ordine dell’universo. E come tale la sua azione si identifica con quella delle forze
autonome della natura. Telesio da un lato mantiene fermamente il principio
dell’autonomia della natura contro la stessa dottrina aristotelica del primo motore;
dall’altro, come farà Cartesio, vede nell’azione divina la garanzia dello stesso ordine
naturale.
Risultati specificatamente scientifici raggiunti o accettati da Telesio sono: il moto
come fondamento dei fenomeni naturali; l’ammissione che nulla si crea e nulla si
distrugge; eliminazione delle intelligenze motrici; opposizione all'idea aristotelica
dell'orrore del vuoto, sostenendo che lo spazio è un essere di per sé stante (assoluto),
distinto dalla materia, e identico in ogni suo punto sicché è da respingere la fisica di
Aristotele che spiega gli accadimenti naturali mediante una tendenza degli elementi al
loro luogo naturale; e ciò è assurdo perché ogni luogo dello spazio si comporta
indifferentemente verso ogni materia: “il luogo... rimane perpetuamente il medesimo, ed
è in grado di accogliere senza il minimo indugio tutti gli oggetti che vanno ad
occuparlo”.
A questo punto è necessario dare uno sguardo alle scuole di pensiero, o dir si
voglia filosofie, del Rinascimento. Dal secolo XIV al XVI le due filosofie che tengono il
campo sono l’aristotelismo e il rinascente platonismo; il primo diffuso prevalentemente
nelle università sia ecclesiastiche che laiche, il secondo, invece, in ambienti
eminentemente laici come le accademie.
L’aristotelismo umanistico e rinascimentale, che ha il suo principale centro a
Padova, però, per il suo dogmatismo ed eccessivo formalismo dialettico, l’idolatria per
;4=! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
Aristotele, rispetto alla scienza, rappresenta un grande ostacolo al progresso del sapere
scientifico. All’aristotelismo rinascimentale faceva difetto quel riconoscimento della
naturalità dell’uomo e dei suoi mezzi di conoscenza, che è la condizione necessaria e
indispensabile di ogni indagine sperimentale della natura. Sotto questo aspetto,
l’aristotelismo non poteva fornire alla scienza alcun impulso innovatore. Solo la
ribellione rinascimentale potè realizzare il mutamento radicale di prospettiva da cui
nacque l’indagine scientifica e la nuova concezione del mondo. Questa concezione, alla
quale contribuirono ugualmente platonici come Cusano, filosofi naturalisti come Telesio
e Bruno, scienziati come Copernico e Galileo, è l’antitesi precisa di quella aristotelica. Il
mondo non è una totalità finita e conclusa ma un tutto infinito e aperto in ogni
direzione. L’ordine di esso non è quello finalistico ma quello causale: non consiste nella
perfezione del tutto e delle parti ma nella concatenazione necessaria degli eventi. La
conoscenza umana del mondo non è un sistema fisso e concluso, ma il risultato di
tentativi sempre rinnovati che devono continuamente essere sottoposti a controllo. Lo
strumento di questa conoscenza non è una ragione soprannaturale e infallibile, ma un
insieme di poteri naturali fallibili e correggibili.
Tuttavia, l’aristotelismo ha avuto indubbi meriti scientifici. Gli aristotelici,
vedendo nell’aristotelismo il modello della scienza naturalistica e quindi la rinascita
dell’indagine della natura, di fronte alle superstizioni e all’irrequieta anarchia degli
empiristi platonici, hanno avuto il merito di aver elaborato una concezione della natura
come un complesso di eventi e fenomeni tenuto insieme da un’interna razionalità tale
da inquadrare in uno schema razionale la molteplicità degli aspetti.
altri fatti particolari, che possano fornire la prova delle ipotesi stesse. Ne sia o meno
consapevole lo Zabarella, questo è anche un ritorno alla intuizione democritea della
circolarità del metodo. In questa sintesi di induzione e deduzione (o induzione
dimostrativa come dice Zabarella), non occorre esaminare all'infinito i casi particolari
“giacché il nostro intelletto, esaminati alcuni casi, scorge subito il nesso essenziale, e
trascurando molti altri casi secondari, forma l’universale”. Il fine del momento
induttivo e l'inventio, la scoperta dei principi fondamentali, delle leggi universali. La
vera conoscenza teoretica, la scientia, è raggiunta attraverso il completamento del
circolo, che ci riconduce nuovamente ai fatti, assunti quali prove di quelle leggi,
riscattati dalla loro empirica frammentarietà, coordinati nella universalità propria del
pensiero. Questa inductio demonstrativa di Zabarella è il massimo vertice che la critica
interna di Aristotele raggiunge dal punto di vista metodologico.
Gli esempi con cui Zabarella cerca di chiarire il suo discorso del metodo sono
tratti dalla metafisica o da testi di Aristotele; solo occasionalmente dalla ricerca
scientifica. Sarà invece il grande fisico toscano, Galileo, che trasformerà nella sua intima
essenza il metodo dell'induzione dimostrativa e che lo renderà fecondo connettendolo
alle esatte misure, al potere illuminante della logica cognizione geometrica. Zabarella
ignora queste possibilità, a cui dobbiamo la vera nascita della scienza moderna, anche
se le sue intuizioni di teorico sono ammirevoli, come quando giunge a rilevare, in parte,
il momento “economico “ della scienza, messo in luce solo grazie ai teorici di fine
ottocento, come Mach, in poi: “Il criterio grazie al quale si ordina ogni scienza o
disciplina, non è tratto dalla natura stessa delle cose di cui esse si occupano, ma è
stabilito, piuttosto, in modo che la nostra conoscenza risulti più certa e facile. Invero
noi ordiniamo una scienza in questo o in quel modo non perché tale sia il naturale
ordine delle cose da indagare, cioè l'ordine che esse hanno in sé, indipendentemente dal
pensiero. Il nostro scopo è, invece, che tale scienza possa venire appresa meglio, e più
facilmente, da tutti”.
definitivamente distrutta da Cusano. Egli infatti non può riconoscere a nessuna parte
del mondo il privilegio della perfezione assoluta: tutte le parti del mondo hanno lo
stesso valore e tutte si avvicinano più o meno alla perfezione, ma nessuna la raggiunge
perché essa è propria e soltanto di Dio.
Come Ockham stesso, rifiuta la assolutezza delle determinazioni spaziali, e
l'esistenza di un centro dell'universo, giungendo anch'egli ad affermare l'infinità. Anche
qui siamo alla coincidenza degli opposti come relatività dello spazio. La Terra non è
dunque al centro dell’universo, perciò non può essere priva di movimento. Il nostro
pianeta si muove, come altri corpi “anche se noi non ce ne avvediamo, perché il moto
[che è relativo] non può essere avvertito altro che mediante il confronto con altri
corpi”. Il movimento che la anima è circolare sebbene non sia, perfettamente circolare,
nel senso tende alla circolarità, giacchè la circolarità perfetta non è presente nelle cose
create. La Terra non è sferica sebbene tenda alla sfericità, per le stesse ragioni addotte
per il suo movimento. Ma questo non implica che essa non sia una nobile stella, che ha
luce, calore, influenza diversa da quella delle altre stelle. La generazione e la corruzione
che si verificano sulla Terra, si verificano probabilmente anche negli altri astri, che,
forse, sono abitati da esseri intellettuali di una specie diversa dalla nostra. Il Sole non è
diverso dalla Terra da un punto di vista fisico. Secondo Cusano, se un uomo si trovasse
al di fuori della Terra, la vedrebbe risplendere come il Sole. I movimenti che si
verificano sulla Terra, come in ogni altra parte dell’universo, hanno lo scopo di
salvaguardare e garantire l’ordine e l’unità del tutto. In vista di questo scopo, i corpi
pesanti tendono alla terra, i corpi leggeri verso l’alto, la terra tende alla terra, l’acqua
all’acqua, l’aria all’aria, il fuoco al fuoco, il movimento del tutto tende per quanto è
possibile al movimento circolare. Qui è forse la prima formulazione del principio di
gravità
Sempre pronto ad afferrare promettenti novità scientifiche, Cusano accoglie, e
cerca di sviluppare, la teoria dell'impeto che i filosofi della scuola occamistica, come
Buridano, avevano formulato per spiegare il movimento dei cieli e quello dei proiettili,
negando il principio aristotelico che il motore deve accompagnare il mobile nella sua
traiettoria, e riconoscendo così quella legge d’inerzia, esplicitata in maniera rigorosa e
formale da Galilei più tardi, che è uno dei fondamenti della meccanica moderna.
La concezione del mondo usciva completamente rinnovata dall’opera di Cusano,
e molte delle sue idee furono riprese da Leonardo per fondare la meccanica.
Così, mentre l’organicismo aristotelico non permette una visione articolata del
divenire della natura che possa risolversi in concrete ricerche e spiegazioni
sperimentali, il platonismo e il naturalismo che lo continua non riescono a immaginare
un vero e proprio sistema della natura concepito come reticolato di cause fisiche. In
queste due correnti la ricerca si frammenta in un fecondissimo caos di ricerche, ipotesi,
invenzioni, ma anche pregiudizi scientifici, ma che sarà ricca di spunti per la
rivoluzione scientifica che sta per venire.
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Einstein
"(#,!.%"/1!%&-#0*!-&)!2!*(##
6.1 Introduzione
indagine scientifica utilizza molto materiale che gli proviene dal medioevo, come i testi
di Buridano o di Alberto di Sassonia, ma a differenza dei pensatori medievali,
Leonardo, uomo del rinascimento, non muove più dal generico empirismo, bensì da un
deciso orientamento sperimentalistico, per il quale la “sperienzia” è divenuta ricerca
attiva ed operativa, un progettare e lavorare con macchine e strumenti per produrre gli
effetti previsti e correggere le previsioni mediante gli effetti realmente conseguiti.
Secondo la sua concezione, la scienza si basa su due pilastri essenziali ed ineliminabili:
l’esperienza e la ragione. “Sapienzia è discepola della sperienzia” e “intendi ragione e
non ti bisogna sperienzia”.
Lo studio della natura muove dalle esperienze alle loro ragioni, cercando di
cogliere nelle ragioni il dinamismo motore e creatore della natura. Considerazioni e
valutazioni che sono già le premesse delle moderne dottrine metodologiche nel campo
scientifico. Per Leonardo la matematica è il fondamento di ogni certezza, per cui fa suo
l’autentico spirito di Platone: “Non mi legga, chi non è matematico, nelli mia principi”.
E quindi l’esperienza ed il calcolo matematico rivelano la natura nella sua oggettività,
cioè nella semplicità e nella necessità delle sue operazioni. La natura si identifica con la
stessa necessità del suo ordinamento matematico: “La necessità è tema e inventrice
della natura, è freno e regola eterna”. In queste parole è riconosciuta chiaramente
l’essenza ultima dell’oggettività della natura: quella necessità che ne determina l’ordine
misurabile e si esprime nel rapporto causale tra i fenomeni. Proprio questa necessità
esclude ogni forza metafisica o magica, ogni interpretazione che prescinda
dall’esperienza e che voglia sottoporre la natura a principi che le sono estranei. Questa
necessità infine si identifica con la necessità propria del ragionamento matematico, che
esprime i rapporti di misura costituenti le leggi. Intendere la “ragione” della natura
significa intendere quella proporzione che non si trova solo nei numeri e nelle misure,
ma anche nei suoni, nei pesi, nei tempi, negli spazi e in qualunque potenza naturale. Fu
appunto l’identificazione della natura con la necessità matematica che condusse
Leonardo a fondare la meccanica e a metterne in luce i principi: “O mirabile e stupenda
necessità, tu costringi con la tua legge tutti li effetti, per brevissima via, a partecipare
delle lor cause e con somma e irrevocabile legge ogni azione naturale con la brevissima
operazione a te obbedisce”.
Leonardo ha un concetto dell’esperienza già molto vicino a quello di Galileo,
però delle ragioni ha idee ancora vaghe e confuse, per non dire approssimative, avvolte
nelle nebbie del platonismo. Ragione ora significa ratio, ossia rapporto matematico che
sottende gli aspetti sperimentalmente misurabili dei fenomeni; ora invece significa un
modello e paradigma ideale, che regge la natura dal di fuori come un “timone”; ora
forse una qualità occulta (poiché egli afferma esistere infinite ragioni che “non furono
mai in sperienzia”); ora un’anima o spirito, o una causa finale antropomorficamente
concepita. Inutile dire poi che non si trova nessuna intuizione del modo come si
possano metodicamente connettere e intercambiare “esperienze” e “ragioni”, per cui
bisogna aspettare Galileo. Una cosa è certa, Leonardo arriva più vicino al pensiero
scientifico moderno di quanto vi si avvicinarono grandi naturalisti del tardo
Rinascimento come Telesio e Bruno.
Leonardo è considerato il più grande inventore che la storia ricordi, e a lui si
devono invenzioni in tutti i campi della tecnica, dall’idraulica, alla meccanica, all’ottica,
alla pneumatica, all’acustica. Ma quali sono le idee di Leonardo nel campo della fisica
teorica? In idrostatica conobbe il principio dei vasi comunicanti con liquidi di diversa
densità e il principio fondamentale d’idrostatica, detto oggi principio di Pascal. A
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Leonardo dobbiamo la teoria del moto ondoso del mare, anzi considera il moto
ondulatorio il più diffuso moto naturale, per cui questo rappresenta il più universale
concetto fisico che abbia elaborato. Per Leonardo luce, suono, colore, magnetismo,
odore e persino il pensiero si propagano per onde: “il moto è causa d’ogni vita”.
Attraverso lo studio del volo umano, la sua più superba scoperta, Leonardo
riconosce che la compressione dell’aria sotto le ali produce la forza che noi oggi
chiamiamo sostentatrice, studia la resistenza dell’aria e l’importanza dinamica del
centro di gravità; ed è questo consapevole metodo d’indagine scientifica il massimo
merito di Leonardo. Gli studi di meccanica conducono Leonardo a occuparsi dei centri
di gravità di figure piane e solide, trovando così il centro di gravità di un tetraedro, e
quindi di una qualunque piramide. Anzi, a questa scoperta aggiunge un elegante
teorema: le congiungenti i vertici di un tetraedro con i centri di gravità delle facce
opposte passano per uno stesso punto, centro di gravità del tetraedro, che divide ogni
congiungente in due parti di cui quella verso il vertice è tripla dell’altra. È questo il
primo risultato che la scienza moderna aggiunge alle ricerche baricentriche di
Archimede.
Leonardo apprese la scienza meccanica da varie fonti, Aristotele, Archimede,
Erone, ed era a conoscenza delle teorie cinematiche e dinamiche della scuola di Oxford
e Parigi; ma andò oltre ampliando il concetto di momento di una forza rispetto a un
punto, scoprendo in due casi particolari il teorema di composizione dei momenti e
applicandolo alla risoluzione di problemi di composizione e scomposizione delle forze.
Dal cosiddetto “precursore di Leonardo” impara le condizioni di equilibrio di un copro
appoggiato su un piano inclinato, ma li supera scoprendo il teorema: un copro
appoggiato su un piano orizzontale è in equilibrio se il piede della verticale condotta
per il suo baricentro è interno alla base di appoggio. Infine, è il primo a studiare
l’influenza dell’attrito sulle condizioni di equilibrio.
Più discutibili sono i contributi di Leonardo alla dinamica, ed è poco convincente
la tesi secondo cui abbia intravisto il principio d’inerzia nel seguente pensiero: “Ogni
moto attende al suo mantenimento, overo ogni corpo mosso sempre si move in mentre
che la impressione de la potentia del suo motore in lui si riserva”. Infatti, le prime due
frasi, se fossero in sé compiute, esprimerebbero il principio d’inerzia, ma l’ultima frase,
che è parte integrante del pensiero, riduce fortemente la generalità delle affermazioni
precedenti e sembra ricondurre il pensiero di Leonardo alla teoria dell’impeto di
Buridano.
Sostanzialmente la dinamica leonardesca è aristotelica, sia pure completata dalla
teoria dell’impeto: in particolare aristotelica è la relazione tra forza e moto e la
conseguente proporzionalità tra peso e velocità di caduta dei corpi. Non ci sono dubbi,
invece, sul fatto che Leonardo intuì il principio di azione e reazione in alcuni casi
particolari, senza assurgere alla generalità di enunciazione che avverrà solo con
Newton. Ne fanno fede alcune citazioni dal Codice atlantico: “Tanta forza si fa colla cosa
in contro all’aria, quanto l’aria contro alla cosa”; “Tanto fa il moto dell’aria contro alla
cosa ferma, quanto il moto del mobile contro all’aria immobile”. L’ultimo pensiero
dimostra che Leonardo intuì anche la relatività del moto.
Leonardo, che aveva lunga pratica della bilancia, scoprì non solo il peso dell’aria,
ma anche la variazione di pressione atmosferica. Interessandosi di ottica, dette la prima
descrizione ricca di particolari della camera oscura e osservò il rovesciamento delle
immagini, concludendo: “E così fa dentro la popilla”. Inoltre, scoprì il fenomeno di
persistenza delle immagini e osservò che ciascuno dei due occhi vede un’immagine
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sostenevano, per contro, che la rapida corsa del proiettile impedisce alla gravità di
agire, la annulla, per così dire. Da Aristotele in poi nessuno aveva osato mettere in
discussione il principio, secondo cui un proiettile lanciato orizzontalmente con grande
velocità non risente l'azione della gravità, finché la velocità dura, giacché la stessa
violenza del moto gli impedisce di cadere. Solo quando il moto si “illanguidisce” il
corpo cade per azione del proprio peso, e ciò appare conforme ai risultati di una
esperienza (superficiale) la quale dimostra che la traiettoria è sensibilmente curva solo
verso la parte finale. Il fatto che “l'azione di una forza è indipendente dallo stato di
quiete o di moto del corpo su cui la forza agisce” fa parte oggi del cosiddetto secondo
principio fondamentale della dinamica, ma si riscontra già, anche se in forma non così
generale, nel Tartaglia. Come dimostra una facile riflessione questo principio si connette
anch’esso al principio di relatività, e, per conseguenza, all’idea del moto della Terra. Da
ciò l’importanza di questo contributo del Tartaglia.
geometrici, per cui l’unico linguaggio atto ad esprimerla è quello rigoroso della
matematica.
Con il termine Rivoluzione scientifica intendiamo alludere a quella profonda
trasformazione concettuale che si verificò in Occidente nel Seicento, in relazione al
modo di studiare la natura e di intendere la funzione della scienza. Tale Rivoluzione,
pur preceduta durante il Rinascimento da significative innovazioni nel campo della
tecnica e da una mutata prospettiva di pensiero, tuttavia si realizzò pienamente nel
Seicento, in particolare tra il 1543, anno di pubblicazione del capolavoro copernicano De
revolutionibus, e il 1687, anno in cui Newton pubblicò i Principia mathematica. Nel
Seicento, inoltre, operarono i cosiddetti padri fondatori della scienza moderna: Keplero,
Galileo, Bacone, Cartesio, Newton. Nel Seicento si sono poste le basi per lo sviluppo
non solo di alcune scienze particolari come la fisica e l’astronomia, ma anche della
nuova immagine del mondo e della funzione sociale della scienza. Essa, infatti, prima
mise in crisi e, poi, fece crollare definitivamente quel grandioso edificio di teorie che per
due millenni, a partire da Aristotele, aveva assicurato all’uomo dei solidi punti di
riferimento, fissi e immodificabili. Proprio la radicale messa in discussione delle
conoscenze tradizionali, della mentalità ad esse sottesa e la lenta sostituzione con un
nuovo modello conoscitivo, sperimentale e rigoroso allo stesso tempo, rappresenta il
cardine attorno cui ruota la Rivoluzione scientifica.
Il teatro privilegiato in cui la Rivoluzione scientifica mosse i primi significativi
passi, prima di passare a Londra e a Parigi, fu Padova, nella cui università, di
ispirazione aristotelica, insegnarono sia Copernico che Galileo.
Prima di analizzare nel dettaglio gli aspetti salienti della Rivoluzione scientifica,
dobbiamo delineare lo schema concettuale che sta alla sua base e chiarire la funzione
che essa ha svolto nella storia della cultura e della civiltà. Dalla Rivoluzione scientifica
in generale emergono i seguenti punti, che sono in rapporto soprattutto con il nuovo
modo di intendere la natura e il suo studio:
1. la concezione della natura come ordine oggettivo e casualmente strutturato di
relazioni governate da leggi, svincolata del tutto da ipoteche di carattere
metafisico:
a) La natura è un ordine oggettivo, poiché essa, scientificamente parlando, costituisce
un oggetto i cui caratteri non hanno niente a che fare con la dimensione
spirituale, e quindi con i fini, i bisogni e i desideri dell'uomo. L'universo della
scienza si configura come un ordine programmaticamente spogliato di ogni
attributo, valore o qualità umana; infatti, solo spersonalizzando la natura, e
quindi espellendo l'uomo dalla fisica, risulta possibile studiare scientificamente
la realtà effettiva del mondo circostante.
b) La natura è un ordine casuale, poiché in essa nulla avviene a caso, ma tutto è il
risultato di cause ben precise, intendendo per causalità, secondo le precisazioni
di Galileo, un rapporto costante e univoco fra due (o più) fatti, dei quali dato
l'uno (o gli uni) è dato anche l'altro (o gli altri) e tolto l'uno (o gli uni) è tolto
anche l'altro (o gli altri). Tuttavia, delle quattro cause riconosciute da Aristotele
(formale, materiale, efficiente, finale), l'unica scientificamente ammessa è quella
efficiente. Infatti alla scienza non interessa (o non è dato conoscere) il perché
finale o lo scopo dei fatti, ma solo la loro causa efficiente ossia le forze che li
producono.
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Nel corso del Seicento, come abbiamo rilevato, furono messe in discussione
alcune delle idee su cui si era retta la scienza antica e che per millenni erano state alla
base delle credenze degli uomini. L'epicentro della crisi si localizzò nel campo
dell'astronomia. Copernico, Keplero, Galileo e Newton attaccarono il principio secondo
cui la Terra era immobile al centro dell'universo, ipotesi che faceva da sfondo, ad
esempio, all'immagine dell'universo di Dante nella Divina Commedia, immagine
dell'universo che aveva mutuato dalle dottrine dell'astronomo Tolomeo che agli inizi
dell'era cristiana aveva sistematizzato, seguendo la fisica di Aristotele, le conoscenze
circa la struttura dell'universo. Il suo sistema, definito geocentrico perché poneva la
Terra al centro dell'universo, presentava un indubbio fascino sia teorico che estetico: in
esso, tutto rispondeva ad un ordine perfetto. La centralità della Terra assumeva, inoltre,
un significato metafisico, in quanto esprimeva la dignità e la grandezza dell'uomo. Tra
Cinquecento e Seicento, grazie alla nuova mentalità sperimentale e all'impiego di più
rigorosi calcoli matematici, si giunse a dover riconoscere che l'errore consisteva nel
modello stesso, incapace di spiegare i fenomeni astronomici.
Gli esiti del processo di demolizione del vecchio sistema geocentrico possono
così sintetizzarsi:
a) la Terra non viene più ad occupare la posizione centrale nell'universo, né risulta
essere immobile;
b) la distinzione aristotelica tra una fisica celeste, caratterizzata dal movimento
circolare dei corpi, ritenuto perfetto, e una terrestre (o sublunare), caratterizzata dai
movimenti imperfetti, viene abbandonata, in quanto priva di fondamento. Galileo
poteva puntare il suo cannocchiale al cielo senza il timore di violare la sacralità
delle sfere celesti, e poteva osservare, ad esempio, che la luna presentava una
superficie non liscia né uniforme né perfettamente sferica, ossia una natura proprio
come la Terra;
c) una volta abbandonata la teoria secondo la quale il mondo era racchiuso in un
orizzonte limitato dalle stelle fisse, l'universo veniva ad assumere i caratteri
dell'infinità, proprio come era apparso a Giordano Bruno.
Con l'affermarsi della nuova fisica, si fa strada nel Seicento una visione del
mondo che viene definita, con un termine desunto dalla lingua greca, “meccanicismo”
(in greco mechanè=macchina). Con l'espressione meccanicismo si indica, in primo luogo,
la dottrina che considera la natura come una macchina. Il modello di macchina ritenuto
più perfetto dagli scienziati del Seicento era l'orologio, che, per la sua meccanica di
movimento, rappresentava la metafora per descrivere e interpretare il mondo fisico.
Cartesio dice chiaramente che l’ universo fisico (compresi il corpo animale e quello
umano) può essere paragonato ad una grande macchina, priva di anima, governata
dalle leggi dei corpi (=estensione) che sono in movimento. Schematizzando al massimo,
possiamo affermare che la concezione meccanicistica della natura, diametralmente
opposta all’antica concezione finalistica di Aristotele, poggia sui seguenti presupposti:
a) la natura non è né un organismo vivente né l'immagine di Dio: essa è materia,
cioè estensione (res extensa). A tal proposito, Cartesio è estremamente chiaro: “Col
termine natura non intendo affatto qualche divinità o qualche tipo di potenza
immaginaria; ma mi servo di questa parola per indicare la materia stessa”;
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richiamare alla mente i punti essenziali di quel millenario “sistema del mondo” che va
sotto il nome di universo aristotelico-tolemaico, alla cui distruzione dettero contributi
decisivi Copernico, Brahe, Keplero, Galilei, Bruno.
La cosmologia greco-medioevale concepiva il mondo come sostanzialmente:
unico, chiuso, finito, fatto di sfere concentriche, geocentrico e diviso in due parti
qualitativamente distinte, soggette a leggi fisiche diverse. L'universo aristotelico-
tolemaico è unico in quanto pensato come il solo universo esistente, e ciò soprattutto in
virtù della teoria dei luoghi naturali secondo cui ogni materia possibile deve trovarsi
concentrata in un determinato posto; chiuso poiché immaginato come una sfera limitata
dal cielo delle stelle fisse (cui, in seguito, era stato aggiunto il nono cielo e il primo
mobile), oltre il quale non c'era nulla, neanche il vuoto, poiché Aristotele riteneva che
ogni cosa è nell'universo, mentre l'universo non è in nessun luogo, potendoci essere
luogo e spazio solo in relazione ai corpi. Fuori del cosmo si trovava soltanto Dio,
secondo la teologia cristiana che aveva fatto proprio tale sistema astronomico. Essendo
chiuso, l’universo era anche finito, in quanto l'infinito, aristotelicamente parlando,
appariva soltanto un'idea e non una realtà attuale. Tale universo era fatto di sfere
concentriche, intese non come puri tracciati matematici, in senso moderno, ma come
qualcosa di solido e di reale, le cosiddette sfere cristalline, su cui erano incastonate le
stelle e i pianeti. Si avevano così, oltre alla sfera delle stelle fisse, i cieli di Saturno,
Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna. Al di sotto di quest’ultima stava la zona
dei quattro elementi, con la Terra immobile e al centro di tutto (geocentrismo). Il mondo
aristotelico-tolemaico era inoltre pensato come “qualitativamente differenziato in due
zone cosmiche distinte soggette a leggi fisiche diverse”: una perfetta e l'altra imperfetta.
La prima era quella dei cieli del cosiddetto “mondo sopralunare”, formato di un
elemento divino, l’etere, incorruttibile e perenne, il cui unico movimento era di tipo
circolare e uniforme, senza principio e senza fine, eternamente ritornante su se stesso.
La seconda zona era quella del cosiddetto “mondo sublunare”, formato dai quattro
elementi (terra, acqua, aria e fuoco), avendo ognuno un suo luogo naturale e dotato di
un moto rettilineo (dal basso verso l’alto o viceversa), che avendo un inizio e una fine
dava origine ai processi di generazione e corruzione.
Questa visione astronomica appariva conforme non solo al senso comune, e alla
sua quotidiana constatazione dell’immobilità della Terra e del moto dei cieli, ma anche
alla mentalità metafisica prevalente, portata a concepire il mondo come un organismo
gerarchico e finalisticamente ordinato e disposto. La teologia patristica e quella
scolastica avevano poi ulteriormente cristianizzato e sacralizzato questa cosmologia,
intrecciandola con le dottrine della creazione, dell'incarnazione e della redenzione, che
presupponendo la Terra come sede privilegiata della storia del mondo e l'uomo come
fine della creazione (antropocentrismo) ben si conciliavano con la centralità spaziale
riconosciuta alla Terra (geocentrismo). La testimonianza dei sensi, l’autorità di
Aristotele, i teoremi della metafisica e la parola divina della Bibbia avevano quindi
finito per convergere in una comune attestazione della validità assoluta del sistema
aristotelico-tolemaico.
Semplificando molto le cose, è possibile tentare di elencare i presupposti che fu
necessario abbattere e abbandonare per costruire una nuova astronomia e una nuova
fisica:
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1. La distinzione di principio tra una fisica del mondo celeste e una fisica del
mondo terrestre, che risultava dalla divisione dell'universo in due sfere, l'una
perfetta, l'altra soggetta al divenire.
2. La convinzione (che conseguiva da questo primo punto) del carattere
necessariamente circolare dei moti celesti.
3. Il presupposto dell'immobilità della Terra e della sua centralità nell'universo che
era confortato da una serie di argomenti dall'apparenza irrefutabile e che trovava
conferma nel testo stesso delle Scritture.
4. La credenza nella finitezza dell'universo e in un mondo chiuso che è legata alla
dottrina dei luoghi naturali.
5. La convinzione, strettamente connessa alla distinzione fra moti naturali e
violenti, che non ci sia bisogno di addurre nessuna causa per spiegare lo stato di
quiete di un corpo, mentre, al contrario, ogni movimento deve essere spiegato o
come dipendente dalla forma o natura del corpo o come provocato da un motore
che lo produce e lo conserva.
6. Il divorzio, che si era andato rafforzando, fra le ipotesi matematiche
dell'astronomia e la fisica.
Nel corso di circa cento anni (all'incirca fra il 1610 e iI 1710) ciascuno di questi
presupposti venne discusso, criticato, respinto. Ne risultò, attraverso un processo
difficile (a volte tortuoso), una nuova immagine dell'universo fisico destinata a trovare
il suo compimento nell'opera di Newton. Ma si trattò di un rifiuto che presupponeva un
radicale rovesciamento di quadri mentali e di categorie interpretative, che implicava
una nuova considerazione della natura e del posto dell'uomo nella natura.
Agli inizi del XVI secolo furono proposti diversi sistemi nuovi, ma
quello che doveva dare inizio alla rivoluzione scientifica, all’atto di nascita
di una nuova età e di una rivoluzione intellettuale, era il sistema eliocentrico
proposto da Nicolò Copernico (1473–1543). Il prete polacco, che aveva
studiato a Padova, Ferrara e Bologna, era un acuto matematico, più che un
astronomo, e la sua forza stava nella padronanza della geometria celeste, e su questa
padronanza egli basò le proprie tesi. La gran parte della sua opera, il De Revolutionibus,
è astronomia tolemaica capovolta. Su di uno sfondo platonicheggiante, affermava
l’armonia generale della natura e quindi la necessità che questa ottenesse i suoi effetti
mediante le vie più semplici, per cui riteneva la dottrina tolemaica troppo complessa e
artificiosa per descrivere correttamente il moto degli astri per cui comprese che quella
sfera assegnata da Tolomeo a ogni pianeta e al Sole non faceva altro che riflettere il reale
movimento della Terra. Da questo cambio, che fu per lui di carattere essenzialmente
geometrico, Copernico credeva che derivasse una teoria plausibile, poiché era valida,
coerente e ordinata, al contrario dei sistemi geocentrici, che apparivano incoerenti, non
armoniosi e disordinati, e quindi falsi. Dopo tanti secoli l’eliocentrismo, già proposto
dai pitagorici e Aristarco da Samo, tornava ad imporsi, ma questa volta definitivamente
e spazzando via la secolare cosmologia aristotelica.
La teoria eliocentrica è una delle più sconcertanti scoperte nella storia della
scienza perché è in conflitto con l’esperienza quotidiana ed ha messo in crisi la stessa
nozione di conoscenza basata sui sensi e ha aperto un nuovo modo di interpretare il
mondo, fondato sul ragionamento matematico. Questo è il perché il 1543, l’anno in cui
comparve l’opera di Copernico De Revolutionibus Orbium Coelestium (Sulle rivoluzioni
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delle sfere celesti), è assunto come la data in cui l’umanità varcò la soglia della
Rivoluzione Scientifica.
Malgrado la eccezionale importanza della sua audace supposizione sulla
immobilità del Sole, Copernico fece soltanto il primo passo verso una rivoluzione
scientifica. E come Copernico, molti altri furono guidati da una rinnovata concezione di
un ordine del mondo di stampo platonico invece che aristotelico, caratterizzato
dall’armonia e fondato su ordinate relazioni matematiche. Gli astronomi medievali,
arabi e cristiani, si consideravano soddisfatti di qualsiasi modello geometrico che
potesse “salvare i fenomeni”, mentre Copernico affermava che tutti questi modelli
erano artifici in quanto la vera geometria dei cieli si sarebbe riconosciuta per
“l’inalterabile simmetria delle sue componenti”.
Le sette petitiones che dovevano dar luogo ad una nuova astronomia sono:
1) Non esiste un solo centro di tutti gli orbi celesti o sfere (ci sono, a differenza che
in Tolomeo, due centri di rotazione: la Terra che è il centro di rotazione della
Luna, il Sole che è al centro della rotazione degli altri pianeti);
2) Il centro della Terra non coincide con il centro dell'universo, ma solo con il centro
della gravità e della sfera della Luna (questa petitio riapriva il problema di una
spiegazione della gravità);
3) Tutte le sfere ruotano attorno al Sole (che è dunque eccentrico rispetto al centro
dell'universo);
4) Il rapporto fra la distanza Terra-Sole e l'altezza del firmamento è minore del
rapporto fra il raggio terrestre e la distanza Terra- Sole. Quest'ultima è pertanto
impercettibile in rapporto all'altezza del firmamento (se l'universo ha così grandi
dimensioni, non avverrà che il moto della Terra dia luogo ad un moto apparente
delle stelle fisse);
5) Tutti i moti che appaiono nel firmamento non derivano da moti del firmamento,
ma dal moto della Terra. Il firmamento rimane immobile, mentre la Terra, con gli
elementi a lei più vicini (l'atmosfera e le acque della sua superficie) compie una
completa rotazione sui suoi poli fissi in un moto diurno;
6) Ciò che ci appare come movimenti del Sole non deriva dal suo moto, ma dal
moto della Terra e della nostra sfera con la quale ruotiamo attorno al Sole come
ogni altro pianeta. La Terra ha, pertanto, più di un movimento;
7) L'apparente moto retrogrado e diretto dei pianeti non deriva dal loro moto, ma
da quello della Terra. Il moto della sola Terra è sufficiente a spiegare tutte le
disuguaglianze che appaiono nel cielo (i moti retrogradi dei pianeti diventano
moti apparenti, dipendenti dal moto della Terra).
l’aumento dei periodi di rivoluzione, diventò: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove,
Saturno. Credendo che l’equante di Tolomeo fosse un artificio perché rendeva i moti
circolari non uniformi rispetto al centro geometrico, Copernico fu indotto a introdurre
un certo numero di sfere più piccole per render conto delle apparenti variazioni nella
velocità del pianeta quando viene visto dal centro della sua sfera.
Ma Copernico era convinto che il suo sistema corrispondesse alla realtà?
Certamente il libro venne letto come se sostenesse una concezione realistica e venne
inevitabilmente respinto dai più. Il copernicanesimo fu soffocato dall’indifferenza di
dotti e ignoranti, e quindi da una tradizione della fisica, come una teoria che postulasse
una pura assurdità.
Tuttavia, questa nuova visione prospettica del cosmo, pur essendo di per sè
rivoluzionaria, non scalzava dalle fondamenta la vecchia immagine dell'universo, in
quanto il cosmo di Copernico rimaneva simile a quello degli antichi. L'astronomo
polacco, ad esempio, concepiva ancora l'universo come sferico, unico e chiuso dal cielo
delle stelle fisse. Inoltre accettava il principio della perfezione dei moti circolari
uniformi delle sfere cristalline, pensate ancora come entità reali e incorruttibili. Il
motivo stesso per cui, secondo Copernico, il Sole è al centro dell'universo ricorda le
spiegazioni aprioristiche della scienza antica: dovendo illuminare il cosmo, è soltanto
dal centro di questo che il sole può svolgere nel miglior modo la sua funzione. Eppure, i
vari elementi di conservazione ancora presenti in Copernico non eliminano la portata
oggettivamente innovatrice della sua opera e il suo coraggio di uomo pronto a sfidare,
in nome della scienza, dottrina e pregiudizi secolari. Però, il suo sistema astronomico
richiedeva una nuova cosmologia e una nuova fisica, perché il movimento della Terra
sconvolgeva le categorie di Aristotele e il suo intero sistema. La dicotomia tra i corpi
celesti perfetti e la regione sublunare corrotta andò distrutta quando la Terra stessa
divenne un pianeta, e fu cambiata la natura stessa del movimento. Fu assai meno
significativo il fatto che la dimora dell’uomo cessasse di essere il centro dell’universo
rispetto allo scardinamento di quell’intero ordine intellettuale. Non è chiaro quanto
Copernico percepisse di questa situazione. Egli non s’impegnò molto per adattare la
cosmologia e la fisica al nuovo sistema. Soltanto quando parlò della gravità aggiunse
qualcosa di più: “la gravità non è altro che una tendenza naturale immessa dal
Creatore nelle parti dei corpi al fine di fonderle insieme in forma di sfera, e di
contribuire così alla loro unità e integrità. E noi possiamo credere che questa proprietà
sia presente anche nel Sole, nella Luna e nei pianeti …”. Copernico non giustificò né
spiegò questa affermazione, decisamente antiaristotelica e antiscolastica, così
importante per il futuro, da attribuire a tutta la materia una misteriosa tendenza o forza
intrinseca. Tuttavia, senza questo principio, che colloca Copernico tra i pensatori
moderni, il suo sistema sarebbe stato un’assurdità.
A smorzare l'effetto dirompente della nuova dottrina contribuirono però alcuni
fattori. Innanzitutto, il teologo luterano Andreas Osiander (1498-1552) premise al
capolavoro di Copernico, senza il consenso del suo autore, una prefazione anonima dal
titolo Al lettore sulle ipotesi di quest'opera. In essa Osiander sosteneva la natura puramente
ipotetica e matematica della nuova dottrina astronomica, affermando che essa era un
puro strumento di calcolo atto, come si disse, a “salvare le apparenze o i fenomeni”,
senza alcuna pretesa di rispecchiare la realtà autentica del mondo. Ovviamente questa
posizione, che venne scambiata come propria di Copernico, attutiva di parecchio la
nuova ipotesi e tradiva il vero pensiero dell'astronomo polacco, persuaso, per quel che
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ne sappiamo, che la sua teoria non fosse una semplice, sia pur funzionale, ipotesi
matematica, ma la riproduzione fedele della struttura reale del cosmo, ossia non uno
dei tanti modelli possibili dell'universo, ma il sol vero. In secondo luogo, la teoria
copernicana stentò ad affermarsi perché la supposta semplicità di essa nei confronti di
quella tolemaica non era sempre tale, anzi in qualche caso essa risultava persino
matematicamente più complessa e incapace di dar ragione di alcuni movimenti celesti.
Inoltre, essa si scontrava con ardue questioni di fisica, che la scienza del tempo non era
preparata a risolvere e che sembravano quindi irrimediabilmente a sfavore della nuova
teoria.
Tipici, in questo senso, taluni quesiti anticopernicani messi a punto dagli
Aristotelici: 1) se la Terra si muove, perchè essa non provoca il lancio di tutti i suoi
oggetti mobili lontano dalla superficie terrestre?; 2) se la Terra si muove, perchè non
solleva un vento così forte da scuotere cose e persone?; 3) se la Terra si muove da ovest
a est, un sasso lanciato dall'alto di una torre dovrebbe cadere ad ovest di essa, poiché la
torre durante la caduta deve per forza essersi spostata ad est. Ma perché ciò non si
verifica e il sasso continua a cadere approssimativamente ai piedi della perpendicolare
della torre? Questi e altri argomenti verranno risolti scientificamente soltanto da
Galileo. Gli ostacoli maggiori al successo del copernicanesimo non proverranno tuttavia
dal settore scientifico, bensì dal settore religioso e filosofico.
Tycho per cercare una traiettoria non circolare per Marte e che lo condurrà alla sua
legge sulle orbite ellittiche dei pianeti.
Verso la fine del secolo XVI avvenne un mutamento. I seguaci del sistema
copernicano avevano cominciato a sostenere che se la fisica di Aristotele ostacolava il
sistema eliocentrico, allora questa doveva venire rimpiazzata da una fisica che fosse più
in accordo con esso.
Giovanni Keplero (1571-1630), assistente di Brahe, non si chiese se il sistema
copernicano potesse esser vero, ma cosa più importante, cercò di scoprire perché
dovesse esser vero. La ricerca di Keplero fu una strana combinazione di speculazione
platonica di origine pitagorica e fisica. Egli desiderava trovare nell’architettura dei cieli
sia una chiara armonia matematica, sia una spiegazione fisica del perché esistesse una
tale armonia. Così Keplero fu insieme l’ultimo degli astronomi puramente matematici
che cercavano di definire i movimenti celesti con linee e curve, e il primo a ideare una
meccanica celeste che non fosse una semplice ipostatizzazione della geometria.
Tuttavia, nel suo primo libro, Il Mistero cosmografico (1596), è il primo tema a esser
dominante. In tale opera esaltava liricamente la bellezza, la perfezione e la divinità
dell'universo e vedeva in esso l'immagine della trinità divina. Al centro del mondo
starebbe il Sole, immagine di Dio Padre, dal quale deriverebbero ogni luce, ogni calore e
ogni vita. Il numero dei pianeti e la loro disposizione intorno al Sole obbedirebbero ad
una precisa legge di armonia geometrica. I cinque pianeti costituirebbero infatti un
poliedro regolare e si muoverebbero secondo sfere inscritte o circoscritte al poliedro
delineato dalla loro posizione reciproca. In quest’opera egli attribuiva il movimento dei
pianeti ad una loro anima motrice o all'anima motrice del Sole. Una concezione
piuttosto stravagante, tuttavia l’idea che vi fosse una qualche correlazione tra le
grandezze di queste orbite era fondata.
Ma lo stesso sforzo di trovare nelle osservazioni astronomiche la conferma di
questi “filosofemi” pitagorici o neoplatonici lo condusse ad abbandonarli. Nei suoi
scritti astronomici e ottici, al posto delle intelligenze motrici pose forze puramente
fisiche; ritenne il mondo necessariamente partecipe della quantità e la materia
necessariamente legata ad un ordine geometrico. Rimase però sempre fedele al
principio in base al quale l'oggettività del mondo è nella proporzione matematica
implicita in tutte le cose. Era questo lo stesso principio che aveva animato Leonardo.
Venti anni dopo, nel libro Armonia del mondo (1619), Keplero enunciò la legge:
D3 ∝ T2
Da questa legge seguiva che sarebbero stati possibili molti sistemi solari, e non
uno soltanto come egli pensava nel 1596. Da allora il suo pensiero era maturato ed era
entrato in possesso delle osservazioni di Ticho Brahe. Cominciò a lavorare sul classico
problema dell’astronomia: la determinazione delle orbite. Avendo fortunatamente
cominciato con Marte, la cui orbita è la più eccentrica di tutte eccettuato Mercurio,
Keplero trovò per prima cosa che i piani di tutte le orbite passavano per il Sole,
confermando la sua attribuzione di un significato fisico ad esso come centro del sistema,
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mentre per Copernico il Sole non aveva questa proprietà. Allora, considerando le
velocità di un pianeta in punti diversi dell’orbita, scoprì la sua seconda legge:
Fino a questo punto, Keplero, da buon pitagorico e come tutti i suoi predecessori,
aveva concepito le orbite come circolari, ed un’altra ipotesi era inconcepibile. Cercando
ora di definire questo cerchio, e in particolare di trovare un centro di moto uniforme al
suo interno, trovò che la sua seconda legge, l’orbita circolare e i dati osservativi erano
reciprocamente inconciliabili. Dopo anni di vani calcoli egli si imbattè nella risposta, la
cosiddetta prima legge:
tracciato nel De Revolutionibus non solo l'universo continua a fare tutt'uno con il sistema
solare, pensato con un suo centro intorno al quale ruotano sfere solide e reali, ma risulta
limitato dall’ultima sfera del mondo “contenente se stessa e tutte le cose”. Di
conseguenza, sebbene Copernico dica in un passo di lasciare “alle discussioni dei
filosofi” il problema dell'infinità del cosmo, di fatto il suo universo è ancora finito, anche
se egli ha notevolmente ampliato il cielo delle stelle fisse, affermandone
l'incommensurabilità e immensità. Pertanto, la rivoluzione copernicana avrebbe
rischiato di fermarsi a metà strada senza l'ulteriore apertura del cosmo.
Come sappiamo, l'idea della pluralità dei mondi e dell’infinità del Tutto ebbe
origine presso i Greci, in particolare fu postulata da Democrito e difesa
appassionatamente da Lucrezio nella sua opera De Rerum Natura. Ma la scienza greca
aveva accettato il modello aristotelico di un mondo finito ed aveva respinto le
concezioni infinitistiche degli atomisti, mentre nel Medioevo, il rigetto totale
dell'atomismo e la sua assimilazione a filone eretico della cultura, avevano decretato la
definitiva sconfitta di ogni immagine astronomica alternativa a quella sanzionata dalla
chiesa.
I primi dubbi intorno alla cosmologia finitistica greco-cristiana si possono
ritrovare nell'ultima Scolastica, nell'occamismo, in Nicola Cusano ed in due studiosi del
Cinquecento, Stellato Palingenio (ca. 1500-1543) e Thomas Digges (1546-1595).
Bruno, riprendendo Lucrezio e forzando in maniera creativa Cusano, giunge ad
una nuova visione dell'universo, che, si badi bene, non deriva da osservazioni
astronomiche o calcoli matematici, in cui il filosofo fu poco versato e tecnicamente poco
competente, bensì da una intuizione di fondo del suo pensiero, quella circa l'infinità
dell'universo, alimentata dal copernicanesimo. L'idea che l'astronomo polacco fa
balenare dinnanzi alla fervida immaginazione di Bruno, dando corpo alla sua
preesistente intuizione dell'infinito, è la seguente: se la Terra è un pianeta che gira
attorno al Sole, le stelle che si vedono nelle notti serene e che gli antichi immaginarono
attaccate all'ultima parete del mondo, non potrebbero essere tutte, o almeno in gran
parte, immobili soli circondati dai rispettivi pianeti? Per cui l’universo, anziché essere
composto da un sistema unico, il nostro, non potrebbe ospitare in sè un numero
illimitato di stelle-soli, disseminate nei vasti spazi del firmamento e centri di rispettivi
mondi? Di fronte a questi interrogativi Bruno, pur ammettendo che “non è chi l'abbia
osservato”, conclude razionalmente che: “Sono dunque soli innumerabili, sono terre
infinite, che similmente circuiscono quei soli, come veggiamo questi sette circuire questo
sole a noi vicino”. Tuttavia questa convinzione, sebbene tragga la sua forza dal
copernicanesimo, di cui il filosofo vuole sprigionare tutta la portata rivoluzionaria,
viene immediatamente trasportata dal piano astronomico a quello metafisico. Infatti,
nella mente vulcanica di Bruno, immaginazione, astronomia e filosofia formano un
tutt'uno, da cui scaturisce la medesima conclusione dell'infinità dell'universo, che viene
dedotta dal principio teologico, già presente nell'ultima Scolastica, secondo cui il
mondo, avendo la sua causa in un Essere infinito, deve per forza essere infinito. In altre
parole, la creazione, per essere perfetta e degna del Creatore, deve essere, essa stessa,
infinita e straripante di vita. Da questa asserzione-chiave Bruno deriva il nuovo quadro
dell'universo.
Le tesi cosmografiche rivoluzionarie dell’età moderna presenti in Bruno si
possono così sintetizzare:
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La prima tesi è l’idea madre che sta alla base di tutte le altre e implica la
distruzione dell'idea secolare dei confini del mondo, cui lo stesso Copernico, come si è
visto, era rimasto fedele, perché l'universo è aperto in ogni direzione e le supposte stelle
fisse si trovano disperse in uno spazio senza limite; un universo incostante e in eterno
divenire dove vi è la negazione dell’armonia delle sue componenti a cui, invece,
restarono sempre legati sia Galileo che Keplero. È anche l'idea prediletta di Bruno,
quella che lo infiamma di un'ebbrezza filosofica, che lo riempie di entusiasmo e di
passione, portandolo a ritenere l'universo senza limiti dai caratteri divini: infinito lo
spazio, infiniti i mondi, infinite le creature, infinita la vita e le sue forme, ecc. Dalla
Ceneri delle ceneri: “... il mondo essere infinito, e però non essere corpo alcuno in quello,
al quale semplice mente convenga esser nel mezzo, o nell'estremo, o tra quei due
termini. […] Cotal spazio lo diciamo infinito, perché non v’è ragione, convenienza,
possibilità, senso o natura che debba finirlo. [...] La terra dunque non è assolutamente in
mezzo de l’universo [...] Cosi si magnifica l'eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza
dell’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in Soli innumerevoli; non in una terra, in
un mondo, ma in duecentomila, dico in infiniti”.
La seconda tesi, connessa alla prima, implica la moltiplicazione all'infinito dei
corpi che "corrono" per il cielo, ossia il concetto di una pluralità illimitata di sistemi
solari, che Bruno ritiene popolati da creature viventi, senzienti e razionali.
La terza tesi, già presente negli atomisti e in Cusano, implica il superamento del
dualismo astronomico tolemaico fra mondo sopralunare e mondo sublunare e
l'unificazione del cosmo in una sola, immensa regione. Infatti si sbaglia, dice Bruno, a
voler distinguere fra una parte più nobile e una meno nobile dell'universo, poiché
procedendo tutto dall'unica mente e dall'unica volontà di Dio resta preclusa ogni
discriminazione gerarchica fra le varie zone del creato.
La quarta tesi, strettamente intrecciata alla terza, considera lo spazio come
qualcosa di unico e di omogeneo, ossia di fondamentalmente simile a sé stesso in tutto
l'universo: “Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo
liberamente vacuo”. Per Bruno la sede più naturale dell'universo copernicano è infatti il
vuoto infinito di Democrito e di Lucrezio, immaginato come un immenso contenitore,
ripieno soltanto di etere, che “alloggia” le cose. Da qui la geometrizzazione dello spazio,
che sostituisce quello aristotelico, finito e gerarchicamente differenziato di luoghi
naturali, con uno spazio di tipo euclideo, omogeneo e infinito. In quanto tale, lo spazio
del mondo è acentrico, poiché in esso non esiste alcun punto assoluto di riferimento
(sopra, sotto, destra, sinistra, ecc.), essendo i riferimenti sempre relativi fra astro e astro.
È facile riconoscere in queste tesi, seppur giustificate teologicamente e prive di
riscontro sperimentale, l'universo secondo la visione moderna e, sebbene sia stato e
continui ad essere comunemente associato al nome di Copernico, sia in realtà opera di
Bruno. Da un lato ciò può sembrare un paradosso: Bruno usa un armamentario
concettuale del passato e parte da intuizioni extrascientifiche per approdare a risultati
radicalmente nuovi e proiettati verso la scienza del futuro. Dall'altro lato, tutto questo
conferma pienamente la già citata tesi dei filosofi e degli storici della scienza odierni: e
cioè che le novità rivoluzionarie, nella scienza, derivano talora da complessi mentali e
da intuizioni extrascientifiche, che diventano scientifiche quando trovano una
legittimazione sperimentale, così come avverrà più tardi per le tesi bruniane.
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Ciò nonostante, queste tesi apparvero soltanto il frutto di una mente esaltata.
Anche i più grandi astronomi del tempo, Tycho Brahe, Keplero e Galileo, le accolsero
freddamente o le rifiutarono in gran parte, respingendo soprattutto l'idea della pluralità
dei mondi e dell'infinità dell'universo. Ciò non avvenne soltanto per ragioni di
correttezza metodologica, ossia perchè le tesi di Bruno trascendevano il campo
dell'astronomicamente affermabile (per quei tempi), ma anche perché le tesi del filosofo
apparivano oggettivamente troppo rivoluzionarie per i padri stessi dell'astronomia
moderna.
Ben più netta fu la reazione degli ambienti legati alla religione e alla vecchia
cultura, che fin dalla comparsa del capolavoro di Copernico erano apparsi preoccupati
dalle nuove idee astronomiche e ci volle un certo arco di tempo affinché si percepissero
chiaramente le novità implicite nelle nuove dottrine astronomiche. Infatti, le idee
copernicane prima e quelle di Bruno dopo, non coinvolgevano soltanto la massima
autorità filosofico-scientifica del passato (Aristotele), ma anche la parola di Dio (la
Bibbia). Infatti non era difficile appellarsi a numerosi passi delle Scritture in cui era
evidente il presupposto geocentrico. Ad esempio, nell'Ecclesiaste (1,4-5) si legge: “Una
generazione va e una generazione viene/eppure la terra rimane sempre al suo posto”;
nel Giosuè (10,12) si trovano le celebri parole: “Fermati, o Sole … “ e nei Salmi (104) sta
scritto: “Sulle sue basi fondasti la terra, / e starà immota negli evi degli evi”.
La chiesa cattolica, all'inizio, non si mosse. Forse perché alle prese con i problemi
ben più urgenti derivanti dal dilagare dell'eresia protestante. Forse perché l'universo di
Copernico, presentato da Osiander come pura ipotesi, a parte l'eliocentrismo era ancora
il cosmo degli antichi e poteva anche essere conciliato—vedi Tycho Brahe—con quello
di Tolomeo. O forse, più profondamente, perché essa non si rese subito conto delle
gigantesche potenzialità rivoluzionarie contenute nel copernicanesimo. Difatti è
soltanto dopo che Bruno avrà tratto tutte le sue radicali conclusioni cosmologiche che la
chiesa, preoccupata, giungerà a mettere all'indice le opere di Copernico (1616),
iniziando il duro scontro con Galileo. Infatti, il passaggio copernicano da un sistema
geocentrico ad uno eliocentrico appariva assai meno grave e foriero di problemi del
passaggio bruniano da un sistema eliocentrico ad uno acentrico e da un mondo chiuso
ad un universo infinito.
In particolare, la teoria di una pluralità di mondi abitati tendeva a suscitare delle
difficoltà in relazione al dogma di tutti i dogmi: l'Incarnazione. La seconda persona
della Trinità si era dunque incarnata di volta in volta su infiniti pianeti? Vi erano
dunque tanti cristianesimi quanti i mondi? E inoltre non si era sempre detto, Bibbia alla
mano, che i cieli sono stati fatti per l'uomo? Quindi se l'ipotesi della molteplicità e
abitabilità dei mondi era esatta, alcune verità bibliche dovevano per forza essere
abbandonate o essere interpretate in altro modo. Questa serie di interrogativi, o altri
analoghi, possedevano in realtà, nell'Europa cristiana del tempo, una forte valenza
emotiva e intellettuale, che spiega resistenze e reazioni del mondo religioso contro i
propugnatori di una visione cosmologica che aveva oggettivamente i tratti dell’eresia, e
di cui il bruciato vivo Giordano Bruno era il demoniaco emblema.
Eppure, nonostante reazioni e scossoni vari, la nuova cosmologia finì per
affermarsi, e ciò non accadde certo grazie alla scienza, che per lungo tempo non
possedette adeguati strumenti di verifica del nuovo quadro cosmologico, ma per uno
dei tanti paradossi di cui è piena la storia, e quella visione che aveva suscitato odio e
disprezzo per Bruno finì per affermarsi proprio grazie agli argomenti teologici già
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delineati dal Nolano. Infatti, l'angoscia cosmica e le difficoltà religiose furono superate
in virtù dell'idea secondo cui un universo infinito risultava più adatto a rispecchiare
l'infinita potenza di Dio. Se i cieli e la terra narrano la gloria del loro Creatore, che cosa
meglio di un cosmo infinito si prestava a celebrarla e magnificarla in tutta la sua
grandezza? Tramite l'opera di filosofi, scrittori e poeti tale convinzione finì per radicarsi
nella mentalità comune e per costituire l'asso vincente dei fautori della nuova
astronomia.
L'eresia bruniana si era dunque capovolta in convincente ortodossia, spianando
la strada al suo completo assorbimento nella cultura ufficiale. Si noti tuttavia come la
chiesa, nonostante tutto ciò, abbia continuato per circa due secoli a diffidare del
copernicanesimo (nel 1757 venne ritirata la condanna contro gli scritti copernicani, nel
1822 venne permessa la stampa dei libri insegnanti il moto della Terra e nel 1835 venne
tolto l'indice al De Revolutionibus).
I cinque schemi cosmografici che abbiamo trovato in Bruno più tardi hanno finito
per essere convalidati, almeno in parte, anche sul piano scientifico. L'inesistenza delle
muraglie celesti, la pluralità dei mondi, l'identità della struttura fra cielo e Terra e
l'omogeneità dello spazio cosmico saranno assunte nel corpo dell'astronomia scientifica,
della quale rappresenteranno la cornice di fondo e la base per ulteriori scoperte.
Nonostante la mancata certificazione scientifica della tesi dell'esistenza di altri esseri
viventi e dell'infinità spaziale dell'universo, la visione bruniana dell'universo fu
accettata in blocco entrando a far parte, implicitamente o esplicitamente, della mentalità
moderna, celebrando i suoi maggiori trionfi nell'Ottocento. Un colpo decisivo a questo
quadro cosmologico verrà soltanto dalla fisica del Novecento, in particolare da Einstein,
che è tornato a riproporre l'idea di un universo finito attraverso la possibilità
dell’energia-materia di incurvare lo spazio-tempo per cui il mondo sarebbe illimitato
ma finito. Sul problema dell'infinità del mondo la scienza contemporanea è dunque
paradossalmente tornata a proporre un modello che appare più vicino a quello di
Aristotele e Tolomeo che a quello di Bruno, anche se la questione deve tuttora ritenersi
scientificamente aperta.
veniva in ultima analisi a dire che i fenomeni del cosmo si studiano con gli stessi metodi
che valgono per i fenomeni di scala umana.
Ma la parte dell'opera che sembrò allora più rivoluzionaria fu l'ultima, il libro VI,
nella quale non solo Gilbert dà la sua piena adesione al sistema copernicano, ma tenta
di dimostrare la rotazione della Terra intorno al proprio asse con argomenti magnetici.
L'atteggiamento risolutamente copernicano di Gilbert ebbe una profonda influenza
sulla formazione di molti contemporanei, come Galileo e Keplero. Ma quando Gilbert
tentò di dare una teoria del magnetismo, si abbandonò a congetture di filosofia naturale
e, partendo dall’esperienza da lui compiuta che il ferro portato ad alta temperatura
perde il potere di calamita, fece dipendere l’attrazione magnetica dal freddo in
confronto del caldo dei corpi non magnetici. Egli, dopo una lunga e oscura
disquisizione, concluse che non gli sembrava affatto assurda l'opinione di Talete, che
concesse un'anima al magnete, mostrando in questa occasione di non essersi ancora
liberato dai concetti magici. Da questo miscuglio di rozza filosofia naturale e di raffinata
mentalità sperimentalistica emergono alcuni concetti di fondamentale importanza:
intanto l’idea stessa di una fisica terrestre; e poi l’idea di un campo di forza in generale e
della possibilità di determinarne le strutture; e finalmente l’idea dell’attrazione e di
forze attrattive che, già largamente diffusa nel Medioevo per opera di alchimisti, fisici e
maghi naturali, acquista qui per la prima volta dignità scientifica.
Con Gilbert ha origine la scienza elettrica, praticamente rimasta sino al Seicento
alle conoscenze di Talete, cioè al fatto che l'ambra strofinata attira le pagliuzze. Ci si può
chiedere come mai una proprietà così comune sia stata attribuita per tanti secoli
soltanto all'ambra. Una delle ragioni fondamentali dev'essere stata il fatto che
l'elettrizzazione per strofinio degli altri corpi è talmente debole che l'effetto sfugge,
senza l'aiuto di qualche dispositivo sensibile che ne consenta il rilevamento. Forse intuì
questo fatto un nostro celebre poeta scienziato, Fracastoro, che nel suo De sympathia et
antipathia rerum, descrisse un dispositivo costituito da una sbarretta sospesa a una punta
a mo' d'ago magnetico, col quale egli constatò che l'ambra non attira soltanto i fuscelli e
le pagliuzze, ma anche l'argento.
Ma se Fracastoro non andò più oltre nella sua indagine sperimentale, Gilbert capì
l'aiuto che gli sarebbe venuto dal dispositivo di Fracastoro, che senz'altro fece proprio e
usandolo nelle sue sistematiche ricerche, descritte nel secondo capitolo del libro del De
magnete. Con l'impiego di questo primo elettroscopio, Gilbert provò che attira non
soltanto l'ambra strofinata, ma anche il diamante, lo zaffiro, il carbuncolo, l'opale,
l'ametista, il berillo, il cristallo, il vetro, lo zolfo, la ceralacca, il salgemma, la pietra
speculare, ecc. E ciascuno di questi corpi chiamò “corpo elettrico”.
Dopo così abbondante messe sperimentale, Gilbert tenta una teoria
dell'attrazione dei corpi elettrici. Egli rigetta le due spiegazioni che si davano nel XVI
secolo per l'attrazione dell'ambra. L'una affermava che il calore ha la proprietà d'attrarre
e che l'ambra attira perché è riscaldata dalla frizione. Ma già Benedetti aveva dimostrato
che proprietà del calore è il rarefare e il condensare, non l'attrarre. Gilbert ripete le
considerazioni di Benedetti, aggiungendo che se proprietà del calore fosse l'attrazione,
tutti i corpi riscaldati dovrebbero attrarre, e non soltanto l'ambra. L'altra teoria aveva
una tradizione illustre, perché era stata professata da Lucrezio: gli effluvi emessi
dall'ambra strofinata producono la rarefazione dell'aria, onde le pagliuzze sono spinte
dall'aria più densa nel vuoto parziale prodotto dagli effluvi. Ma se fosse così, osserva lo
scienziato inglese, anche i corpi caldi e le fiamme dovrebbero attrarre e un corpo
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elettrizzato dovrebbe attrarre la fiamma d'una candela cui fosse vicino, mentre non solo
non la piega, ma in sua presenza perde la sua virtù.
La critica di Gilbert è senza dubbio acuta, ma la teoria che egli propose non si
presentava più verosimile di quelle che egli combatteva. Secondo Gilbert, tutti i corpi
deriverebbero da due soli elementi primi, l'acqua e la terra; quelli che derivano
dall'acqua hanno proprietà d'attrarre, perché l'acqua emette effluvi speciali che “simili a
braccia distese” afferrano il corpo e lo portano alla fonte della loro emissione, e,
avendolo compenetrato e quasi uncinato, lo trattengono abbracciato, finché non
s'illanguidiscono e, snervati, abbandonano la preda; e così via con discorsi di questo
genere negli altri casi, e stupisce che lo scienziato inglese, mentre bandisce il fluido
magnetico, ricorra poi a un fluido elettrico. Nello stabilire la distinzione tra l'attrazione
magnetica e quella elettrica (distinzione gia posta da Cardano, mentre anteriormente i
due fenomeni si ritenevano della stessa natura), Gilbert osserva un altro fatto
importante: difficilmente si riescono a elettrizzare con lo strofinio i corpi umidi, mentre
l'umidità non impedisce l'attrazione del magnete.
Per concludere, dalle mani di Gilbert la scienza elettrica, anteriormente limitata a
un unico fatto curioso, esce arricchita di numerosi fenomeni nuovi, di osservazioni
preziose, di una tecnica strumentale che per sé stessa è un nuovo capitolo di scienza:
Gilbert meriterebbe il titolo di “padre dell'elettricità”.
religiosa sono quindi soltanto apparenti (Galilei rifiuta esplicitamente la teoria della
doppia verità) e vanno risolti rivedendo l'interpretazione della Bibbia, che è stata scritta
in un linguaggio antropomorfico e relativo alle cognizioni del popolo ebraico di
millenni prima; in più la Bibbia non contiene principi che riguardano le leggi di natura,
che seguono un corso inesorabile e immutabile, senza doversi piegare alle esigenze
umane, ma verità che si riferiscono al destino ultimo dell'uomo, premendo ad essa
d'insegnarci “come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”.
In conclusione, se la Bibbia è arbitra nel campo etico-religioso, la scienza è arbitra
nel campo delle verità naturali, in relazione alle quali non è la scienza che deve adattarsi
alla Bibbia, ma l'interpretazione della Bibbia che deve adattarsi alla scienza. L'errore dei
teologi consiste dunque nella pretesa che la Scrittura faccia testo anche riguardo alle
conoscenze naturali, dimenticando che in questo campo “ella dovrebbe esser riserbata
nell'ultimo luogo”, e che quando la Bibbia appare in contrasto con la scienza, essa va
adeguatamente reinterpretata, andando al di là del “nudo senso delle parole”. Si noti
come la posizione galileiana, che inizialmente non poteva non apparire eretica, è
convergente con la tesi protestante del “libero esame”, abbia finito per imporsi non solo
alla cultura laica, ma alla chiesa stessa, che con il tempo è pervenuta a riconoscere
l'autonomia operativa della scienza nel campo delle conoscenze naturali, dimostrandosi
eventualmente disposta a reinterpretare la lettura dei testi biblici in conformità con la
scienza.
Indipendente dall'autorità religiosa della Bibbia, la scienza deve esserlo
altrettanto nei confronti di quella culturale di Aristotele e dei sapienti del passato.
Galileo mostra grande stima per Aristotele, che assegnava all’esperienza un ruolo
basilare per la conoscenza umana, e per gli altri scienziati antichi, per cui il suo
disprezzo colpisce piuttosto i loro infedeli discepoli, soprattutto gli Aristotelici
contemporanei, che, anzichè osservare direttamente la natura e conformare ad essa le
loro opinioni, si limitano a consultare i testi delle biblioteche, vivendo in un astratto
“mondo di carta”, con la convinzione che “il mondo sta come scrisse Aristotile e non
come vuole la natura”.
Un altro risultato storicamente importante dell'opera di Galileo, che fa di lui il
padre della scienza moderna, è l'individuazione del metodo della fisica, ossia del
procedimento che ha spalancato le porte ai maggiori progressi scientifici dell'umanità,
da Newton ad Einstein fino ai giorni nostri. Tutta l’opera di Galileo è stata guidata da
una forte consapevolezza metodica, grazie alla quale il sapere assume un carattere
aperto e progressivo, non un patrimonio definito, chiuso entro l’armatura di un sistema
dove per correggere un errore occorre mettere in crisi tutto il sistema, ma un conoscere
che cresce su se stesso, indefinitamente passibile di modificazioni, correzioni e
ampliamenti con il crescere dell’esperienza e il crearsi di nuovi strumenti per l’indagine
della natura. E quando si dice che Galileo fu il fondatore del metodo sperimentale, non
bisogna intendere che a lui si debba l'introduzione dell'esperimento come mezzo
d'indagine, perché la pratica dell'esperimentazione non s'era mai spenta dall'antichità
classica a lui. Ma in Galileo la sperimentazione si arricchisce di alcuni aspetti peculiari,
che la fanno apparire nuova. Essi sono: il ripudio del principio d'autorità (vedi
Aristotele); lo studio fenomenico, cioè descrittivo della natura, con l'analisi del come i
fenomeni avvengono, senza chiedersi perché accadano; l'abbandono d'ogni causa
occulta e dell'interpretazione antropomorfa della natura; la fede nella semplicità della
natura che segue semplici leggi matematiche.
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Tuttavia, in Galileo, non vi è una teoria organica del nuovo metodo scientifico,
poiché egli, tutto preso dalle sue ricerche concrete di fisica e astronomia, applica il
metodo, più che teorizzarlo filosoficamente. Ciò nonostante, nelle sue opere si trovano
disseminate talune preziose osservazioni metodologiche e alcuni tentativi di scandire o
sintetizzare il procedimento della scienza. Ad esempio nel Saggiatore, nel Dialogo e nei
Discorsi, Galileo tende ad articolare il lavoro della scienza in due parti fondamentali:
1. il momento risolutivo o analitico che consiste nel risolvere un fenomeno complesso
nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili, formulando un'ipotesi
matematica sulla legge da cui dipende;
2. momento compositivo o sintetico che risiede nella verifica e nell'esperimento,
attraverso cui si tenta di comporre o riprodurre artificialmente il fenomeno, in
modo tale che, se l'ipotesi supera la prova, risultando quindi verificata, essa venga
accettata e formulata in termini di legge, mentre, se non supera la prova, risultando
smentita o falsificata, venga sostituita da un'altra ipotesi.
che sia tolta anche l'azione frenante dell'aria e di altri possibili “impedimenti esterni ed
accidentarii”, come pensiamo si comporterà? Ovviamente: “ella continuerebbe a
muoversi all'infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano e con movimento
accelerato continuamente; che tale è la natura dei mobili gravi, che vires acquirant
eundo [acquistano forza muovendosi]: che quanto maggior fusse la declivita, maggior
sarebbe la velocità”. Sostituendo poi la superficie inclinata con una orizzontale, si potrà
anche dedurre che la medesima palla “perfettissimamente rotonda”, se fosse spinta sul
medesimo piano “esquisitamente pulito”, continuerebbe indefinitamente il suo moto,
ammesso che lo spazio “fosse interminato” e che non intervenisse una forza esterna a
variarne o arrestarne il moto. Procedendo teoricamente e giustificando tramite un
esperimento "ideale" una propria intuizione, Galileo è quindi pervenuto ad una basilare
scoperta fisica.
La compresenza, nella visione metodologica di Galileo, delle “sensate
esperienze” e delle “necessarie dimostrazioni” ha fatto sì che nella storiografia del
passato Galileo sia stato presentato talora come un sostanziale "induttivista", cioè come
un ricercatore che dall'osservazione instancabile dei fatti naturali perviene a scoprire le
leggi che regolano i fenomeni; oppure, al contrario, come un convinto "deduttivista",
più fiducioso nelle capacità della ragione che in quelle dell'osservazione. In realtà
Galileo è tutte e due le cose insieme. Certo, in Galileo vi è talora, sia nella prassi
concreta della scoperta scientifica, sia nella sua consapevolizzazione metodologica,
un'innegabile prevalenza del momento sperimentale, osservativo-induttivo, oppure di
quello teorico, ipotetico-deduttivo. Ma questa alternata prevalenza dell'induzione
sperimentale sulla deduzione teorica o viceversa, che si può riscontrare nei testi di
Galileo, esprime il legame indissolubile dell’induzione e della deduzione nella scienza
galileiana. Innanzitutto, le “sensate esperienze” presuppongono sempre un riferimento
alle “necessarie dimostrazioni”, in quanto vengono assunte e rielaborate in un contesto
matematico-razionale e quindi spogliate dei loro caratteri qualitativi e ridotte alla loro
struttura puramente quantitativa. In secondo luogo esse, sin dall'inizio, sono “cariche di
teoria”, in quanto illuminate da un'ipotesi che le sceglie e le seleziona, fungendo, nei
loro confronti, da freccia indicatrice e setaccio discriminatore. È vero, ad esempio, che
Galileo scoprì ignoti fenomeni astronomici basandosi sul senso della vista, potenziata
dal telescopio, ma la decisione stessa di studiare i cieli e di puntare il cannocchiale su
determinati fenomeni e di interpretarli in un certo modo deriva dalla preliminare
accettazione dell'ipotesi copernicana. Anche le “certe dimostrazioni” presuppongono
sempre un loro implicito od esplicito richiamo alle “sensate esperienze”. Innanzitutto
l'esperienza fornisce la base e lo spunto per le ipotesi, poiché le stesse intuizioni geniali
non nascono nel vuoto, ma a contatto con l'osservazione e lo studio dei fenomeni. In
secondo luogo, intuizioni e ipotesi, che costituiscono il momento teorico delle scienze,
acquistano validità solo per mezzo della conferma sperimentale.
Certo, non sempre è possibile una verifica diretta di un principio, tuttavia, risulta
pur sempre possibile una verifica indiretta delle conseguenze che vengono dedotte
dall'accettazione del principio. In altre parole, non è necessario che tutte le proposizioni
della teoria risultino aderenti ai fatti; è necessario invece che tutti i fatti del campo di
fenomeni studiati risultino inquadrabili nella teoria. Per esempio, il principio di inerzia,
sebbene non sia constatabile empiricamente, spiega con esattezza i movimenti che si
constatano in natura. Si aggiunga inoltre che, tramite opportuni accorgimenti, risulta
possibile, in laboratorio, avvicinarsi indefinitamente alla sua verifica.
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matematico] vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che
diffalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si
riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici”. In tal modo, lo
scienziato è costretto a trovare condizioni su misura, che spesso non sono mai presenti
nella realtà immediata, ma solo in un laboratorio scientifico, e talora neanche in un
laboratorio reale, ma solo in uno ideale (come succede ad esempio per il principio di
inerzia). Da ciò il ricorso ai celebri esperimenti mentali, consistenti nel fatto che Galileo,
non avendo talora la possibilità di effettuare la verifica delle proprie teorie, soprattutto
per mancanza di strumenti tecnici adeguati, è costretto a ricorrere ad una sorta di fisica
ideale, non solo per formulare le ipotesi, ma anche per verificarle. Egli suppone, infatti,
l'assenza di forze, immagina piani perfettamente levigati, si raffigura il movimento nel
vuoto, ecc. Esperimenti mentali che saranno lo strumento straordinario per Einstein per
elaborare la sua rivoluzionaria teoria della relatività.
Ciò che si è detto sinora serve a far risaltare ancora di più i limiti della scienza
antica rispetto a quella galileiana. Se da un lato gli antichi erravano per eccesso di teoria
e di deduttivismo in quanto pretendevano di spiegare i fenomeni concreti partendo da
principi generali astratti, dall'altro lato sbagliavano per troppa aderenza alla realtà, cioè
per una passiva accettazione dei fenomeni come appaiono a prima vista, senza
sottoporre l'esperienza ad una approfondita critica teorica. Inoltre, la scienza antica di
tipo aristotelico non faceva uso della matematica e lo stesso platonismo, cui va
riconosciuto il merito di aver tenuto viva l'idea di una costituzione matematica
dell'universo, si fondava più su una matematica magico-metafisica, consistente nel far
corrispondere simbolicamente numeri e figure geometriche a determinati fenomeni, che
su una matematica scientifica, basata sulla misurazione e sul calcolo dei dati. Ma il
limite più grave della scienza antica risiedeva nella mancanza del controllo
sperimentale. Infatti, non sottoponendo le proprie teorie e induzioni a quella prova del
fuoco che è il "cimento" di tipo galileiano, essa non poteva mai verificare le proprie
affermazioni, rimanendo obbligata a muoversi perennemente sul piano dell'astratto e
del non controllabile, senza riuscire a trovare la via di quella feconda compenetrazione
fra ragione ed esperienza che costituisce la forza del metodo galileiano, la cui originalità
più grande consiste proprio nell'aver saputo riunire in sè il momento osservativo e
induttivo della ricerca, rappresentato dalle “sensate esperienze”, con quello teorico e
deduttivo, rappresentato dalle “necessarie dimostrazioni”, e nell'aver saputo
sintetizzare in modo mirabile ragione e sensi, osservazione e raziocinio, teoria ed
esperimento, induzione e deduzione, matematica e fisica.
Con il suo metodo Galileo perviene a quella struttura concettuale che costituisce
lo schema teorico della scienza moderna: la natura è un ordine oggettivo e causalmente
strutturato di relazioni governate da leggi e la scienza è un sapere sperimentale-
matematico intersoggettivamente valido. In particolare, contro ogni considerazione
finalistica e antropomorfica del mondo, Galileo afferma che le opere della natura non
possono essere giudicate con un metro puramente umano, cioè sulla base di ciò che
l'uomo può intendere o di ciò che a lui torna utile. Pertanto, non dobbiamo cercare
perché la Natura opera in un certo modo (causa finale), ma solo come opera (causa
efficiente). Analogamente, contro ogni fisica essenzialista che pretenda di spiegare i fatti
in base alle essenze, o alle virtù, (l'essenza del moto, la virtù del calore, ecc.), Galileo
ribatte che lo scienziato deve esclusivamente occuparsi delle leggi che regolano i fatti,
ossia delle verificabili costanti di comportamento attraverso cui la natura agisce.
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(che la luce si propaghi a velocità finita fu stabilito dal Romer nel 1676) lo rende molto
esitante ad attribuirle natura corpuscolare, o comunque materiale, sebbene intuisca
chiaramente questa dottrina, perciò la fisica della visione gli riesce oscura e poco
scientifica. Comunque, attraverso questa fisica delle sensazioni la distinzione tra qualità
vere e qualità soggettive, che in Democrito (almeno cosi come ci e pervenuta) rischiava
di essere addirittura contraddittoria, diventa plausibile. Ma resta comunque una
dottrina metafisica, fondata sull'assunzione della realtà ontologica di un piano ideale
della natura.
La credenza nella validità del rapporto causale e delle leggi generali scoperte
dalla scienza, basate sul principio che a cause simili corrispondano necessariamente
effetti simili, viene suggerita e avvalorata dalla persuasione dell'uniformità dell'ordine
naturale, che seguendo un corso sempre identico a se stesso risulta necessario e
immutabile come una verità geometrica. La fiducia nella verità assoluta della scienza
viene confortata mediante la teoria secondo cui la conoscenza umana, pur differendo da
quella divina per il modo di apprendere e per l'estensione di nozioni possedute, risulta
simile per il grado di certezza. Infatti, mentre Dio conosce intuitivamente, cioè in modo
immediato, la verità, l'uomo la conquista progressivamente attraverso il ragionamento
discorsivo. Inoltre, Dio conosce tutte le infinite verità, mentre l'uomo solo alcune di
esse. Tuttavia, per quanto riguarda le dimostrazioni matematiche, la qualità della
certezza è identica. Queste giustificazioni filosofiche poggiano, a ben vedere, su
un'unica credenza di base, che sta a monte del lavoro scientifico di Galileo e di ogni suo
tentativo di legittimazione teorica: la corrispondenza fra pensiero ed essere, ossia la
conformità fra ciò che la scienza sostiene e il mondo qual è veramente: l'accordo
generale fra matematica e natura, l'armonia fra il pensiero e la realtà è per lui una
convinzione soggettiva, anteriore ad ogni riflessione filosofica.
Il contributo scientifico di Galileo alla fisica e all’astronomia è vastissimo e
determinante, per cui, trascurando i lavori meno importanti, cominciamo ad esaminare
il problema centrale della fisica a cui si dedicò sin dall’inizio della sua vita da scienziato:
il moto dei gravi. Nel suo lavoro giovanile il De Motu, Galileo mutua dal Benedetti la
teoria dell’impeto, rigettando così la teoria aristotelica dei moti violenti. Ma già in
questa prima scrittura, Galileo nega che i corpi abbiano leggerezza in sé, che tendono
alla quiete, che l’aria, nonché resistere, coadiuva al moto; pertanto adotta in maniera
definitiva l’ipotesi che la gravità è indipendente dalla natura dei gravi stessi,
contrariamente alla teoria aristotelica dove la gravità dipendeva dal luogo naturale del
corpo e quindi fosse inerente all’essenza o natura del corpo stesso (pesante o leggera) e
che rappresenta un’accelerazione costante applicata in misura uguale a tutti i corpi in
caduta libera, sebbene in Galileo non venga ancora menzionata la parola accelerazione.
Una certa connessione con la teoria atomica è invece introdotta nell’opera
Discorso sulle cose che stanno in sull’acqua sul galleggiamento dei corpi in liquidi, dove,
riprendendo l’opera di Archimede, critica la concezione peripatetica per cui i corpi
galleggiano o no a seconda che siano pesanti o leggeri, e analizzando questi concetti
mostra come siano privi di qualunque senso fisico; e a questa contrappone la dottrina
archimedea per cui il galleggiamento dipende dal peso dell’acqua spostata dal
galleggiante, e quindi dalla forma geometrica e dal peso specifico. Con questi teoremi
sulla gravità Galileo inizia l’era della fisica moderna. Non si tratta soltanto della
raggiunta soluzione di annosi problemi, peraltro intravista già nel tardo Medioevo, ma
perché quello di veramente e radicalmente nuovo che entra in gioco è il concetto
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PRINCIPIO D’INERZIA
Un corpo tende a conservare indefinitamente il suo stato di quiete o di moto rettilineo
uniforme, sicché non intervengono forze esterne a modificare tale stato
Galileo ritiene di potersi fidare del nuovo strumento, ma ritiene le sue indicazioni più
obiettive delle nostre sensazioni. Insomma, egli insegna che la fisica ha bisogno di
strumenti, e questa concezione è veramente rivoluzionaria rispetto alla filosofia
peripatetica del tempo.
Ma le scoperte che dovevano renderlo più celebre ai suoi tempi e impegnarlo in
una battaglia culturale di vasto respiro sono quelle astronomiche. Infatti, le nuove
scoperte astronomiche gettavano lo scompiglio in un mondo di credenza filosofiche e di
visioni cosmologiche tradizionali. In particolare, proiettavano ombre dense sulla base
metafisica di quelle credenza e di quelle visioni cosmologiche, poiché demolivano la
concezione del mondo che la maggior parte dei commentatori di Aristotele sosteneva
come vera nei libri e nelle università.
Nel Saggiatore Galileo scrive che, venuto a conoscenza del fatto che un olandese
aveva presentato un “occhiale” mediante cui “le cose lontane si vedevano così
perfettamente come se fossero state molto vicine”, ne aveva costruito uno per proprio
conto molto più potente. La grandezza di Galileo non consiste tanto nell’aver costruito
il cannocchiale per primo oppure no, ma nell’averlo usato scientificamente, ossia
puntandolo verso il cielo lo ha trasformato in uno strumento primario dell’osservazione
astronomica, facendo, grazie ad esso, le sensazionali scoperte divulgate nel Sidereus
nuncius. La Via Lattea si risolveva in una indefinita quantità di stelle, la Luna rivelava le
sue montuosità, il Sole presentava delle macchie scure sulla sua superficie, Venere
presentava delle fasi, ma soprattutto scopriva i quattro satelliti di Giove. Per capire
l’importanza, non solo strettamente scientifica, ma più generalmente filosofica di queste
scoperte si pensi a quante idee tradizionali esse venivano a distruggere: con la scoperta
dei satelliti di Giove si ammetteva che fossero possibili movimenti intorno ad altri
pianeti e veniva a cadere l’idea che soltanto la Terra, essendo immobile, fosse il centro
di moti astrali e che un corpo in movimento nello spazio non potesse costituire un
nucleo di movimento per altri corpi; veniva abbattuto il concetto della perfezione, e
quindi dell’incorruttibilità e del non divenire, dei corpi celesti; la Terra non era l’unico
corpo opaco illuminato dal Sole e privo di luce propria, ma anche Venere, con la
scoperta delle sue fasi, riceveva la luce dal Sole girandovi attorno. Galileo distrusse,
così, il cosmo aristotelico: la Luna, il Sole ed i pianeti furono ridotti allo stato di corpi
fisici come la Terra. Il mondo sublunare e il cosmo furono praticamente unificati. Per la
prima volta si affermava chiaramente che l’intero universo e ogni parte di esso sono
soggetti alle stesse leggi. L’universo galileiano è costituito soltanto di materia e
movimento ed è numericamente strutturato.
Il Saggiatore (1623) è un gioiello della nostra letteratura polemica, e fra i
capolavori di Galileo è il più povero di contenuto scientifico. E tuttavia la sua
importanza fu notevolissima per l'evoluzione del pensiero scientifico in quanto assume
quasi il valore di un manifesto del nuovo metodo sperimentale matematico, di una
dichiarazione di guerra al principio d'autorità. Nel Saggiatore si toccano quasi tutti i
problemi della ricerca fisica del tempo, come l’importanza della matematica nella
ricerca delle leggi fisiche; l'ingrandimento dei cannocchiali; la necessità di definizioni
esatte dei termini, che eviti l'indeterminatezza di alcuni vocaboli del linguaggio
comune; il concetto di causa; la relazione tra l'altezza dei suoni delle canne d'organo o le
corde dell'arpa e la loro lunghezza; la natura del calore; la distinzione tra qualità
primarie e secondarie, che, come abbiamo visto, sono un carattere distintivo della fisica
galileiana. E per spiegare meglio il concetto, Galileo passa subito agli esempi delle
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sensazioni tattili che sono in noi e non nel corpo che ci tocca; e il “calore”, è per Galileo
un fantasma dei sensi: “… che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il
caldo, le quali noi chiamiamo con nome generico fuoco, siano una moltitudine di
corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali,
incontrando il nostro corpo, lo penetrino per la lor somma sottilità, e che il lor
toccamento, fatto nel lor passaggio nella nostra sostanza e sentito da noi, sia l'affezione
che noi chiamiamo caldo, grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o
maggiore di essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando”. Non siamo ancora alla
teoria cinetica del calore, perché per Galileo i “corpicelli minimi” sono le particelle di
fuoco e non le molecole dei corpi, ma rappresenta un primo e importante passo.
Nel Saggiatore Galileo elabora gli elementi di una vera e propria teoria della
conoscenza. La natura, secondo Galileo, ha una intrinseca e infinita ricchezza “nel
produr suoi effetti con maniere inescogitabili da noi”. Occorre pertanto, nello studio dei
fenomeni, avere sempre in mente questa ricchezza e ricordare, di conseguenza, quanto
sia vana “la forza dell’umane autorità sopra gli effetti della natura, sorda ed
inessorabile a i nostri vani desideri”. Galileo, quindi, ha sempre creduto che la scienza
non si fonda, vuoi in sede sperimentale, vuoi per mezzo di dimostrazioni matematiche,
su verità assolute e incontrovertibili, bensì sia una via privilegiata verso la verità, a
condizione però che si accetti che anche i fenomeni più semplici non siano spiegabili in
modo completo e una volte per tutte. L’astronomia e la fisica procedono dunque verso
la verità ma non la raggiungono mai in forme immodificabili. Il sapere scientifico cresce
di scoperta in scoperta e non si assesta su sistemi dogmatici. Nelle lettere sulle macchie
solari, per esempio, Galileo aveva sottolineato come, a suo avviso, fosse inutile e
dannoso per il sapere ogni tentativo di imporre alla natura una qualche forma di
soggezione o dipendenza dai nostri concetti. Non si trattava di piegare la natura alle
nostre idee, ma di modificare incessantemente queste ultime, perché “prima furon le
cose, e poi i nomi”. Con il linguaggio gli esseri umani descrivono ciò che i sensi riescono
ad afferrare quando esplorano il mondo esterno, e la descrizione attribuisce alle cose
che stanno nel mondo certi insiemi di proprietà. Esiste dunque un rapporto tra le
descrizioni linguistiche delle cose e ciò che i sensi fanno. Il che vuol dire che le
informazioni che ciascuno di noi riceve attraverso gli organi sensoriali dipendono
fortemente da come essi sono fatti e non dipendono soltanto da come sono fatte le cose.
Ebbene, questo rapporto fra il linguaggio, i sensi e gli oggetti è necessariamente tale da
costringerci a prestare molta attenzione quando diciamo che una cosa possiede una data
proprietà: quest’ultima, infatti, potrebbe essere una caratteristica dovuta unicamente al
funzionamento di un nostro organo di senso. Si aveva pertanto bisogno di un criterio
grazie al quale un essere umano potesse distinguere tra la realtà e l’apparenza. La
questione era ovviamente della massima importanza. Poteva infatti accadere che i nostri
ragionamenti sulle cose fossero fallaci in quanto si rivolgevano non alla realtà, ma ad
apparenze che dipendevano, per esempio, solo “dalla vista de’ riguardanti”: apparenze
che ci spingevano erroneamente a parlare di cose mentre, per la verità, si trattava di
“simulacri” o illusioni che svanivano una volta eliminata la percezione visiva.
Era indispensabile, secondo Galileo, tracciare un confine tra quelle proprietà che
erano realmente possedutedalle cose esterne e quelle che, invece, si realizzavano
soltanto negli organi di senso. A quel confine corrispondeva un confine interno al
linguaggio, in quanto esistevano nomi che erano veri perché indicavano proprietà reali
dei corpi, e nomi “puri” che erano invece riferiti al funzionamento dei sensi e non
indicavano alcuna reale qualità degli oggetti esterni. La scienza aveva il compito di
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ineteressarsi delle sole qualità alle quali corripondevano nomi veri: dalle descrizioni
scientifiche dei fenomeni erano pertanto banditi tutti gli altri nomi, che parlavano
soltanto dell’osservatore. A questo punto è necessario riportare un passo del Saggiatore,
nel quale Galileo traccia le linee essenziali di una vera e propria teoria della conoscenza
umana: “Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco
una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di
questa o di quella figua, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in
questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o
non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione
posso separarla da queste condizioni”. Erano queste, insomma, le vere proprietà degli
oggetti reali: geometriche, disposizioni nello spazio, stati di movimento e numero di
parti costituenti i corpi. Queste proprietà o qualità erano talmente vere da risultare
indifferenti alla nostra immaginazione, nel senso che quest’ultima non poteva
artificiosamente separare la materia dalle sue proprie e intrinseche qualità oggettive. La
conoscenza doveva pertanto essere indipendente dalle operazioni del “corpo sensitivo”,
e quindi dalla struttura sensoriale degli osservatori, per rivolgersi solo a ciò che
realmente caratterizzava il mondo esterno. L’autore del Saggiatore poneva in rilievo non
tanto il diffuso punto di vista secondo cui l’intero universo era fondato su “grandezze,
figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci”. Ma che, essendo questa l’architettura
oggettiva dell’universo, solo la scienza aveva la capacità di fare scoperte lungo il
cammino verso la verità.
Nel 1632 Galileo pubblica il capolavoro scientifico-
letterario che è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in
cui, dietro il pretesto di voler presentare imparzialmente i due
maggiori modelli cosmologici della storia, espone in realtà
argomenti decisivi a favore del copernicanesimo. La
pubblicazione del Dialogo è un evento memorabile nella storia del
pensiero umano. Esso non è propriamente un trattato
d'astronomia o di fisica, ma un'opera pedagogica volta a
combattere l'aristotelismo e ad abbattere il principio d'autorità;
un'opera di propaganda culturale a favore della nuova immagine
del mondo portata dal copernicanesimo, cornice entro la quale si svolgerà la ricerca
scientifica del secolo.
Per presentare la teoria geocentrica, Galileo sceglie Simplicio, un pedante dalla
mentalità conservatrice e tradizionalista, attaccato all'autorità di Aristotele. Per
difendere la teoria copernicana sceglie Salviati che incarna l'intelligenza chiara, rigorosa
anticonformista del nuovo scienziato. Nella parte di neutrale moderatore viene posto
Sagredo che rappresenta un tipo di personalità non oppressa dai pregiudizi, e quindi
tendenzialmente portata a simpatizzare con le dottrine recenti.
Il Dialogo è diviso in quattro giornate, nella prima delle quali si pone sotto accusa
la distinzione aristotelica fra il mondo celeste, ingenerabile e incorruttibile, e quello
terrestre, sede del divenire, con argomenti tratti soprattutto dalle osservazioni
astronomiche divulgate nel Sidereus nuncius dai suoi studi di meccanica dei movimenti.
La seconda giornata, la più vivace, è dedicata alla confutazione degli argomenti
tipici antichi e moderni contro il moto della Terra, valendosi delle leggi della nuova
meccanica, come il principio d’inerzia, la composizione dei moti simultanei, il principio
di relatività e la legge di caduta dei gravi. Contro chi sostiene ad esempio che la Terra,
ruotando davvero su se stessa, solleverebbe un vento tale da trasportare tutti gli oggetti,
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Galileo, per bocca di Salviati, risponde che l'aria partecipa dello stesso movimento della
Terra, e quindi in rapporto ad essa è ferma, come risulta fermo un individuo su di una
nave in moto. Contro chi obietta che, se la Terra si muovesse davvero da ovest ad est, le
nuvole dovrebbero apparirci continuamente in moto da est ad ovest, oppure il volo
degli uccelli non potrebbe tener dietro al velocissimo spostamento del nostro pianeta,
Galileo risponde, per analogia, che l'aria partecipa del moto della Terra. Al noto
argomento, uno dei prediletti dagli Aristotelici, secondo cui, se la Terra si muovesse
davvero da ovest ad est, i gravi dovrebbero cadere obliquamente, cioè più verso ovest
essendosi la Terra nel frattempo spostata verso est. Galileo ribatte affermando che il
grave partecipa del moto da ovest verso est e quindi, muovendosi insieme alla Terra,
cade perpendicolarmente. Tanto è vero che un sasso, lasciato cadere dalla cima
dell'albero di una nave in moto rettilineo uniforme, si ferma ai piedi dell'albero, proprio
come se la nave stesse ferma. Lo stesso avviene all'interno di quel sistema più vasto che
è la Terra. Queste geniali contro-argomentazioni di Galileo, che oppongono il pensiero
scientifico al senso comune e ai pregiudizi culturali del passato, si ispirano tutte al
cosiddetto principio della relatività galileiana, secondo cui risulta impossibile decidere,
sulla base delle esperienze meccaniche compiute all'interno di un sistema chiuso, cioè
senza possibilità di riferirsi a qualcosa di esterno, se esso sia in quiete o in moto
rettilineo uniforme:
PRINCIPIO DI RELATIVITA’
Le leggi della fisica sono sempre della stessa forma nei sistemi di riferimento inerziali
più naturale sistema di meccanica celeste entro la nuova intuizione meccanicistica della
natura e dello spazio fisico che i teoremi fondamentali della fisica galileiana venivano
mettendo in rilievo nei sui caratteri fondamentali. Nell’assoluta omogeneità dello
spazio perdevano ogni senso le distinzioni tra cielo e terra, alto e basso; in tutto lo
spazio vigeva fondamentalmente lo stesso schema geometrico-meccanico del moto,
fondato sui principi d’inerzia e relatività classica. E la gravità in questo schema che
ruolo assume? Galileo, attraverso Salviati, ammette la propria ignoranza sulla sua
natura ma, nello stesso tempo, intuisce che rappresenta lo stesso principio che faceva
muovere i pianeti, la sfera stellata e “le parti della Terra in giù”. E così cadeva la grande
barriera metafisica che nei secoli aveva separato il nostro mondo sublunare dal resto
dell’universo. Nel Dialogo era stata così indicata la direzione da seguire per giungere a
una teoria unificata che comprendesse in se stessa la fisica terrestre e l’astronomia
kepleriana. Il problema resterà insoluto fino a Newton, il quale estenderà a tutto lo
spazio fisico l’azione della gravità.
Nella quarta giornata Galileo espone la sua dottrina delle maree, ed
erroneamente credette che costituissero la prova più sicura dei moti della Terra.
Supponiamo, dice, una nave cisterna che trasporti acqua dolce a Venezia. Se la velocità
della nave varia, l'acqua in essa contenuta scorrerà, per inerzia, innalzandosi verso
poppa o verso prora: la Terra è come la nave cisterna, il mare è come l'acqua in essa
contenuta, la disuniformità di moto è dovuta alla composizione dei due moti della
Terra, diurno e annuo.
Nell'opera scientifica più matura di Galileo, Discorsi e Dimostrazioni matematiche
sopra due nuove scienze, vengono affrontati due temi classici della meccanica: la teoria
della coesione e quella del moto dei proietti. La prima si riportava alla dottrina
dell'equilibrio, la seconda si apriva invece sulla nuova scienza-base della fisica, la
dinamica. Galileo ha costantemente la precisa sensazione di rappresentare una nuova
cultura, anti-feudale ed anti-accademica, e questa consapevolezza è giunta al suo apice:
l’astrazione matematica, tanto tipica della scienza galileiana e pure legata ad una sua
concezione platonica del mondo, si rivela la più tecnicamente efficace, fondata com'è
sulle operazioni fondamentali del misurare. Tuttavia, a differenza delle grandi opere
precedenti qui Galileo è giunto anche ad una chiara coscienza dell'universalità del
nuovo sapere che sta creando: per questo, riservando il volgare per un commento
sciolto ed empirico delle dottrine presentate, usa il latino per esporre, entro il modello
euclideo di sistema matematico, le dottrine stesse. L'opera, con la quale nasce
ufficialmente la meccanica razionale moderna, presenta varie caratteristiche degne di
rilievo. La prima è la risoluzione della statica nella dinamica. Finora la prima disciplina,
tra l'altro assai antica, era stata trattata indipendentemente dalla dinamica: le condizioni
dell'equilibrio erano state ricercate fuori di una teoria generale del moto; se mai, anzi, la
dinamica era stata studiata da un punto di vista prevalentemente statico. Galileo
rovescia la situazione: le condizioni di equilibrio (e di coesione) sono date
dall'applicazione delle medesime leggi dinamiche che spiegano anche il moto dei
proietti, e cioè dalla legge di gravità formulata matematicamente (spazi proporzionali ai
quadrati dei tempi) e dalla grande legge della composizione dei moti che Galileo espone
con grande precisione nelle sue modalità geometrico-quantitative. I corpi si muovono
descrivendo una data curva (che per i proietti dei cannoni è una parabola), la quale
risulta componendo i moti (quello impresso dal motore, per esempio dal cannone, con
quello determinato dalla gravità); stanno in equilibrio quando nella composizione i moti
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correttezza del sistema copernicano, e convinto quindi che la Terra sia un pianeta come
gli altri, allora, se i movimenti nel cielo seguono precise leggi matematiche, allora anche
sulla Terra devono esistere le stesse precise leggi matematiche che governano il moto
degli oggetti. Fiducioso in questa razionalità profonda della natura, nella sensatezza del
sogno pitagorico-platonico che la natura sia comprensibile con la matematica, Galileo
decide di studiare come si muovono i corpi sulla Terra quando sono lasciati liberi di
cadere, e di cercarne la legge matematica attraverso un’esperimento, fatto nuovo nella
storia della scienza. L’esperimento è semplice: lascia cadere dei corpi lungo un piano
inclinato, cioè lascia loro seguire quello che per Aristotele doveva essere il loro
movimento naturale, e cerca di misurare con precisione a che velocità cadono. Il
risultato è clamoroso: i corpi non cadono a velocità costante, ossia non c’è
proporzionalità tra velocità di caduta e spazio percorso, come si era sempre pensato, ma
la velocità aumenta in modo regolare nel corso della caduta. Galileo scopre, così, che la
velocità è proporzionale al tempo di caduta. Quella che è costante non è la velocità ma
l’accelerazione. Anzi, tale accelerazione è la stessa per tutti i corpi (g=9,81 m/s2). E nei
Discorsi il moto uniformemente accelerato viene così definito: “in tempi eguali si
facciano eguali additamenti di velocità”. Galileo procede, costruendo il grafico tempo-
velocità e mediante una famosa integrazione grafica, spesso ancor oggi ripetuta nei libri
di fisica, dimostra che in un moto uniformemente vario lo spazio percorso è eguale a
quello percorso nello stesso tempo da un moto uniforme che abbia velocità metà della
velocità finale del moto accelerato, donde scaturisce immediatamente la proporzionalità
dello spazio al quadrato del tempo:
1 2
LA LEGGE DI CADUTA DEI GRAVI S= gt
2
La legge oraria spiega una classe di infiniti fenomeni osservabili. Essa, infatti,
riunisce in una sola regolarità tutti i fatti che riguardano la caduta libera di un oggetto
qualsiasi nel campo gravitazionale della Terra e che, in precedenza, erano invece
interpretati invocando una tendenza spontanea delle cose pesanti a trovare, cadendo
verso il basso, il loro luogo naturale. Il cosiddetto “moto naturale” è dunque ricondotto,
da Galileo, a una legge fisica che precisa la forma del moto naturalmente accelerato,
senza cercarne le cause nel regno ideale della metafisica né negli elenchi di citazioni
bibliografiche o nei commenti eruditi all’opera di Aristotele.
La natura segue queste leggi o sono semplici deduzioni matematiche? Bisogna
ritenere che le segua, risponde Galileo introducendo un nuovo concetto filosofico nella
ricerca fisica, soprattutto se le conseguenze matematiche dedotte sono confermate
dall'esperienza. Sebbene Galileo abbia ripreso la concezione atomica sulla struttura
della materia, e sebbene tale concezione dovesse avere come evidente corollario quello
della uguaglianza della velocità di caduta dei gravi (potendosi ogni corpo in caduta
libera considerare come un’insieme di atomi in caduta ognuno dei quali sollecitato
individualmente da una identica accelerazione di gravità), tuttavia pare che le sue
conclusioni si fondassero su esperimenti mentali su corpi in movimento lungo piani
inclinati. Infatti, la verifica sperimentale era impossibile con le apparecchiature
dell'epoca, perché il fenomeno è troppo rapido. Galileo allora ebbe un'idea geniale:
rallentare il moto, pur non alterandone la natura, in pratica riprodurre il moto
uniformemente accelerato su un piano inclinato.
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Galileo formula ancora un altro postulato: i mobili che cadono su differenti piani
inclinati di eguale elevazione acquistano, alla fine della discesa, eguali velocità. E
ancora: nella discesa o nell'ascesa, sia verticale sia per piani inclinati, la forza costante
applicata al corpo (cioè il suo peso o una componente del suo peso) produce un moto
uniformemente vario, cioè un'accelerazione costante. Si può pertanto ritenere, come
ritenne Newton, la seconda legge della dinamica una scoperta di Galileo, sebbene la
formulazione generale della legge non si trovi mai negli scritti dello scienziato.
Verso la fine del 1637 Galileo cominciava a stendere quelle sue mirabili
Operazioni astronomiche, nelle quali addita agli astronomi futuri il grande lavoro di
revisione da compiere mediante due strumenti che ben si può dire gli fossero propri, il
cannocchiale e il pendolo, “mercè delle quali invenzioni si ottengono nella scienza
astronomica quelle certezze che sin ora con i mezzi consueti non si sono conseguite”.
Galileo morì l’8 gennaio del 1642, lasciando in eredità al mondo della scienza e a
quello della cultura in generale, un immenso patrimonio di scoperte ed un nuovo modo
di fare ricerca, ma soprattutto l’esempio di una vita condotta contro ogni forma di
dogmatismo, sia esso religioso che scientifico-filosofico, e caratterizzata da una libertà
di pensiero e di azione.
Però lo sviluppo della fisica galileiana era condizionato dal perfezionarsi della
interpretazione fisico-matematica dello spazio euclideo, in particolare connessione con i
problemi inerenti al continuo. Per quanto lo stesso Galilei e meglio ancora Torricelli
avessero intuito il concetto geometrico-meccanico dell’integrale come spazio totale
percorso da un punto moventesi di moto continuo in un intervallo di tempo ad una
data velocità, tuttavia lo sforzo di costruire, sulla base delle nozioni euclidee, uno
spazio adeguato a questa meccanica venne compiuto da un altro discepolo di Galileo,
Bonaventura Cavalieri (ca. 1598-1647). Questi nelle sue opere Geometria indivisibilibus
continuorum nova … promota e Excercitationes geometricae sex, fonda l’aritmetica degli
indivisibili che si può considerare come l’embrione dell’analisi infinitesimale, con lo
scopo di fondare una teoria matematica dello spazio che rendesse interpretabili
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Nonostante il genio di Galileo e l’azione dei suoi discepoli, la sua opera e il suo
pensiero erano destinati a dare frutti molto scarsi in Italia, che nel Seicento perde
irrimediabilmente il primato scientifico, che passa ad altri paesi. La verità è che ormai in
Italia si facevano sentire pesantemente gli effetti della crisi provocata da una parte dal
blocco del Mediterraneo per opera dei Turchi, dall’altra dallo sviluppo della borghesia
mercantile e coloniale di paesi come l’Olanda, l’Inghilterra, la Francia. L’Italia, ridotta
economicamente ad una provincia periferica dell’Europa e politicamente caduta nella
asfissiante atmosfera della Spagna controriformistica, gradatamente viene estromessa
dallo sviluppo della civiltà moderna. Soprattutto manca in Italia la formazione dello
stato nazionale, che non può essere sopperito dal principato, che, per la sua struttura
politica e sociale, non può assumere la funzione di guida nazionale per il benessere
collettivo. Invece altrove l’accentramento statale e l’idea dello stato come comunità
porta i suoi frutti anche nella scienza, alla quale, da una parte, si garantisce quasi
ovunque una certa libertà, mentre dall’altra lo stato interviene per incoraggiare e
finanziare la ricerca scientifica, in quanto è funzionale, attraverso le sue applicazioni
pratiche nella tecnica, allo sviluppo economico del paese.
Non meno dei discepoli italiani contribuirono alla diffusione del pensiero galileiano
molti scienziati francesi, nonostante che la facoltà di teologia della Sorbona, per volere
del potente cardinale Richelieu, condannò, dichiarandola falsa, la dottrina del moto
della Terra.
scire per causas (sapere attraverso le cause) aristotelico un sapere interamente collegato
all’esperienza, e cioè un sapere che parte da essa e rimanga in essa: “Se dici poi che
l’intelletto può, a partire dalle cose che cadono entro l’esperienza o appaiono ai sensi,
ricavarne altre molto più interne, risponderò che ragionando non può giungere al di là
di cose che risultino ancora esperibili o di cui risulti possibile esibire una qualche
apparenza”.
Proprio questo legame ininterrotto con l’esperienza gli fa respingere con pari
energia il canone metodologico propugnato dall’indirizzo magico-occultista, consistente
nel cercare la spiegazione dei fenomeni in essenze occulte e artificialmente inventate,
come pure la pretesa di alcuni teologi che volevano scorgere ovunque, nella natura,
l’intervento miracoloso della volontà divina. Ciò che Gassend oppone ad essi, e cioè il
ricorso sistematico ad una spiegazione meccanica del mondo fisico, non vuole tanto
essere una tesi di filosofia generale, quanto un metodo efficace per eliminare
definitivamente dai nostri discorsi l’appello al fantastico e all’irrazionale, e di
conseguenza spingerci a ricerche concrete e feconde di risultati.
Gassend fece accurate osservazioni astronomiche; nel 1640 verificò
sperimentalmente il principio classico di relatività, facendo cadere dall'alto dell'albero
di una nave in corsa una pietra e verificando che essa arrivava ai piedi dell'albero, come
se la nave fosse ferma. Lo avvicinano a Galileo anche la dottrina della soggettività delle
sensazioni e la teoria atomistica, da lui più approfondita di quanto avesse fatto Galileo.
Gassend crede nell'esistenza di una materia unica, comune a tutti i corpi, divisa in
atomi, tra loro separati dal vuoto, insecabili, la cui forma (tonda, allungata, appuntita
ecc.) causa l'apparente diversità dei corpi della natura, i quali sono pesanti non per
intrinseca virtù, ma per un'azione di attrazione della Terra sugli atomi. Gassend non
intese accogliere l’atomismo di Epicuro come una verità assoluta, di carattere
metafisico, bensì come una teoria molto probabile, particolarmente utile a spiegare con
rigore scientifico i fenomeni fisici. Il ragionamento cui faceva appello per difendere la
concezione atomistica era incentrato sulla difficoltà di concepire i mutamenti fisici se
non si postula l’esistenza in essi di qualcosa che permane: tali sarebbero, appunto gli
atomi, che nessuna forza fisica risulterebbe in grado di suddividere o di alterare. Le
scoperte operate in quegli anni dalla microscopia gli parvero inoltre costituire una seria,
seppur non diretta, convalida dell’atomismo. Molto interessante, a questo proposito, è
la netta suddivisione che Gassend fece tra gli atomi (minima naturae), i punti matematici
(minima mensurae) e i più piccoli oggetti percepibili con il microscopio (minima sensus):
questi ultimi non si identificherebbero con gli atomi potendone contenere parecchi, e gli
atomi a loro volta non si identificherebbero con i punti matematici poiché il più piccolo
atomo può contenere infiniti punti. Coerentemente a questa posizione, Gasend sostenne
che la matematica, che opera nel regno dell’astrazione, non va confusa con la fisica, che
opera nel regno della materia.
La concezione atomistica viene infine utilizzata da Gassend non solo per spiegare
i mutamenti che si producono nel mondo dei fenomeni fisici, ma anche per spiegare gli
stessi procedimenti conoscitivi. Ogni conoscenza deriverebbe dai sensi e sarebbe
prodotta da atomi che si staccano dagli oggetti conosciuti per giungere all’organo del
senso. Ma gli atomi non sono soltanto causa delle nostre sensazioni; risultano invece
essi stessi forniti di sensibilità, onde si conclude che l’anima vegetativa e sensitiva,
presente negli esseri viventi, sarebbe per l’appunto costituita da atomi.
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mentre per gli empiristi le matematiche (geometria ed analisi) non sono altro che un
linguaggio chiaro, universale, maneggevole, ma pur sempre avente un valore soltanto
strumentale, pratico, e non ontologico e metafisico, per i razionalisti rappresentano
l'essenza della natura, o per lo meno la struttura assiomatico-deduttiva della geometria
è immagine della struttura del cosmo e modello obiettivo del sapere.
Molto importante è la diversa concezione dello spazio: i razionalisti adottano in
generale la primitiva concezione galileiana, per cui lo spazio è interamente risolto nei
rapporti tra gli enti geometrici, rapporti fra i quali vengono annoverati anche i rapporti
di movimento, sì che meccanica razionale e geometrica euclidea si risolvono
interamente l'una nell'altra. Ma in questo modo devono negare lo spazio vuoto,
ripetendo apparentemente il dogma aristotelico per cui il vuoto non esiste: in realtà il
vuoto non esiste perché non esiste quello spazio astratto, informe, mero fondamento dei
moti, che postulavano i sostenitori del vuoto; lo spazio viene a identificarsi con la
materia prima e fondamentale (l’etere e la luce), ossia con ciò ai cui movimenti, intesi
come rapporti geometrici, si deve ridurre tutta la realtà del mondo fisico. Da questa
concezione neppure gli empiristi riescono totalmente a liberarsi; ma gli esperimenti sul
vuoto compiuti da Torricelli e ripetuti da Pascal e da Boyle, la decisiva adozione della
teoria atomica, l'intuizione meccanico-cinematica prevalente su quella puramente
geometrica nella fondazione del calcolo infinitesimale, li porterà alla fine, con Newton,
a sostenere la concezione di uno spazio assoluto, informe e vuoto, sullo sfondo del
quale avvengono i fenomeni fisici, riducibili a movimento.
Nel Seicento, comunque, sono meccanicisti gli empiristi come i razionalisti, ma lo
sono in modo diverso. Per gli empiristi il meccanicismo è un'ipotesi e un metodo, per i
razionalisti un dogma. Per questi ultimi la natura è spazio, e lo spazio è movimento
analiticamente rappresentabile, e fuori dei modelli analitici di movimento non esiste
possibile spiegazione, e rappresentazione nozionale, dei fenomeni della natura. Non
così per gli empiristi, per i quali la natura è variopinto mondo di qualità e proprietà,
che, ove sia possibile, si devono far dipendere dalla struttura atomica dei corpi e dai
mutamenti che il moto delle particelle introduce in questa stessa struttura. Ma le
delicate strutture dei corpi, le delicate leggi e le forze in gioco nel mondo subatomico
non possono essere fissate in maniera assoluta secondo modelli meccanici microscopici,
quali l'urto delle palline o il propagarsi del moto ondoso nei fluidi oppure il movimento
d'orologeria (questi infatti erano i modelli della meccanica razionalistica).
In particolare, come la questione del moto, così li divide la correlata questione
della actio in distans (azione a distanza): lo studio delle forze di attrazione tra corpi
distanti tra i quali è il vuoto presuppone la possibilità che un corpo possa agire su di un
altro con cui non è a contatto né diretto né indiretto (essendoci in mezzo lo spazio
vuoto); cosa che già Galileo, e con più energia ancora i meccanicisti cartesiani, non
potevano ammettere, ricorrendo per questo alla concezione di moti trasmessi attraverso
lo spazio pieno (etere), il che non sempre permetteva una spiegazione fisico-matematica
dei fatti osservabili. Donde le polemiche: i cartesiani rimproveravano agli empiristi (e in
particolare ai newtoniani) di ripristinare la concezione prescientifica di virtutes occulte e
non risolubili analiticamente insite nei corpi stessi; gli empiristi, respingendo questa
accusa, la rintuzzavano accusando gli avversari di dogmatismo, come quelli che
preferivano rinunciare alle evidenze empiriche piuttosto che ai loro principi filosofici.
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uno dei fenomeni e la sua separabilità dagli altri; e perciò consente di riconoscere la
causa vera del fenomeno. L'intero processo dell'induzione tende, secondo Bacone, a
stabilire la causa delle cose naturali.
In sostanza, Bacone ritenne che il principale compito prima di far scienza fosse di
abbandonare ogni teoria e compilare enciclopedie di fatti che riguardassero ogni sorta
di fenomeni. Soltanto quando si fossero conosciuti tutti i fatti, cosa possibile eseguendo
tutte le osservazioni e tutti gli esperimenti possibili, sarebbe valsa la pena di tentare di
dare forma a delle idee generali. Però Bacone fu consapevole che questo mettere in
evidenza sulla base del materiale empirico poteva suggerire ulteriori esperimenti che
rafforzassero o confutassero un’ipotesi, ma per lo più egli suppose che le teorie
adeguate potessero essere ottenute per generalizzazioni immediate dei fatti.
Bacone attribuì poca importanza allo sviluppo matematico delle idee, o
all’immaginazione scientifica o anche alla ragione che non fosse diretta da una stretta
applicazione del metodo induttivo, ed ignorò o rifiutò l’originale opera dei suoi
immediati predecessori, come Copernico, o contemporanei. Forse anche per questo
motivo, Bacone ha esercitato una scarsa influenza sugli sviluppi teorici della scienza, la
quale è stata interamente dominata dalle intuizioni metodologiche di Leonardo,
Keplero e Galilei. In realtà lo sperimentalismo scientifico non poteva essere innestato
sul tronco dell'aristotelismo; e la teoria dell'induzione baconiana doveva fallire in
questo tentativo. Lo sperimentalismo scientifico aveva già trovato la sua logica e con
essa la sua capacità di sistemazione. Questa logica era, come si è visto, la matematica. Il
tentativo baconiano di fornire una logica della scoperta scientifica fallì, in quanto
nessuno, nemmeno Bacone, fece, o ha fatto, una scoperta o avanzato un’ipotesi nuova
seguendo questo metodo, né tantomeno la metodologia della scienza moderna passa
attraverso la sua dottrina. Però è anche vero che Bacone aveva perfettamente ragione a
sostenere che lo sviluppo della scienza non avviene soltanto attraverso la brillante
teorizzazione, matematica o no, ma è anche il frutto di un interminabile lavoro dedicato
all’acquisizione di dati; in più, è un merito l’aver colto e teorizzato il significato umano
e sociale della nuova scienza rispetto alla nuova umanità sviluppatasi in seguito alla
rivoluzione monarchica e borghese.
Bacone fu il prototipo dell’intellettuale democratico e quindi pose l’accento sullo
sforzo collettivo degli scienziati per poter giungere alla comprensione della natura,
molto complessa perché un uomo solo potesse padroneggiarla; infatti previde l’utilità di
istituzioni di ricerca scientifiche. Le prime società scientifiche nazionali, coma la Royal
Society (Londra, 1662) e l’Accademia delle Scienze (Parigi, 1666) riconobbero tale merito.
Thomas Hobbes (1588-1679), discepolo di Bacone ma assai indipendente dal
maestro, è assai più importante come filosofo politico che non come pensatore
scientifico, tuttavia alcune sue concezioni logiche, metodologiche e metafisiche hanno
esercitato un certo influsso sulla storia della scienza moderna.
Strettamente empirista, sottolinea energicamente il carattere simbolico e
linguistico delle idee: queste non sono che sensazioni, le quali però sostituiscono e
richiamano (quindi, in qualche modo, rappresentano) intere serie di sensazioni. Per
questa sua funzione, il linguaggio rende possibile il ragionamento, inteso come
processo meramente astratto e algoritmico, che a differenza di Bacone, rappresenta il
modello più semplice e perfetto di discorso scientifico, che si riduce ad una
combinazione tautologica, in modo che questo procedimento astratto non avrà altra
garanzia che la sua finale concordanza con i fatti empirici. Ma questo tipo di
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ragionamento mette in luce la causa di qualche fatto, e poiché la scienza è basata tutta di
dimostrazioni di questo genere, ogni discorso scientifico non fa che dimostrare la
connessione per la quale da una causa determinata si genera un effetto determinato.
Questo accade specificatamente nelle scienze che hanno per oggetto cose, di qualsiasi
natura, prodotte dall’uomo; appunto perché prodotte dall’uomo, l’uomo stesso può
conoscere la causa di tali cose: questa causa è infatti una sua operazione.
Le cose naturali, invece, sono prodotte da Dio e non dagli uomini, perciò gli
uomini non ne conoscono le cause, cioè il modo in cui esse sono generate o prodotte.
Per esse, quindi, una dimostrazione necessaria, che vada dalla causa all’effetto, non è
possibile. Si può risalire soltanto dagli effetti, cioè dai fenomeni che vediamo in natura,
alle loro cause supposte, ma poiché uno stesso effetto può essere prodotto da cuse
diverse, si raggiungono così conclusioni probabili ma non necessariamente vere.
La ragione e la scienza possono rivolgersi con successo solo ad oggetti di cui si
può conoscere, a priori o a posteriori, la causa produttrice, quindi a oggetti generabili.
Quando si tratta di oggetti non generabili come Dio, e in generale tutte le cose
incorporee, la ragione non ha modo di esercitarsi e la scienza non è possibile. Poiché i
soli oggetti generabili, che in quanto tali hanno una causa conoscibile delle loro genesi,
sono i corpi, gli oggetti estesi o materiali sono i soli oggetti possibili della ragione. In
questa tesi consiste il materialismo meccanicistico di Hobbes, che in un certo senso
riproduce la dottrina degli stoici, i quali affermavano che solo il corpo esiste perché solo
il corpo può agire o subire un’azione. Pertanto, secondo Hobbes, il corpo è l’unica
realtà, cioè l’unica sostanza che esista realmente in sé stessa; e il movimento è l’unico
principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali, giacchè ad esso si riducono anche i
concetti di causa, di forza e di azione.
Nel campo della filosofia della natura Hobbes sviluppa e completa
sistematicamente gli spunti materialistici e meccanicistici che si trovano già nel pensiero
di Bacone. Tutta la realtà è materia, con gli attributi fondamentali dell'estensione e della
forza: ed ogni fenomeno (apparente, soggettivo) si riduce veramente a movimenti della
materia sottile, a moto delle parti. E qui il pensiero di Hobbes si riallaccia ad una vasta
corrente, diffusasi in Italia, e che, nonostante l'autorità di cui per tutto il Seicento
godettero Cartesio e i cartesiani, che come vedremo erano legati al vacuismo, era
destinata ad imporsi nella scienza moderna: l'atomistica.
La critica democriteo-galileiana alle qualità essenziali della fisica aristotelica,
ridotte allo status di mere sensazioni soggettive di contro alle qualità vere o prime
consistenti nelle forme, dimensioni e moto delle particelle elementari (atomi), era stata
largamente diffusa da Gassend, la cui influenza era stata fortissima in tutta l'Europa e in
Inghilterra e appunto, sul pensiero di Hobbes. Gassend aveva esposto sistematicamente
la filosofia epicurea, in realtà la filosofia di Democrito scientificamente rinnovata da
Galileo. Vi ritroviamo le note dottrine: soggettività delle sensazioni, riduzione della
reale essenza dei corpi agli atomi, i quali hanno tra loro differenze soltanto geometrico-
quantitative (forma e dimensioni) e sono capaci di moto. Quest'ultimo è sempre e
soltanto moto locale, spostamento di atomi i quali sono per sé, naturalmente, in quiete,
e si spostano soltanto in virtù di urti che ricevono. Hobbes negli Elementorum
philosophiae sectio prima De Corpore (1655) sviluppa per l'appunto una concezione del
genere, con la sola differenza che, aderendo alla negazione della possibilità del vuoto
fatta da Bacone nell'ultima fase del suo pensiero, fa muovere le particelle minime,
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anziché nel vuoto, in un fluido etereo: concetto per il quale manifesterà qualche
propensione (peraltro non senza perplessità) anche Newton.
Infine, Hobbes introduce il concetto, che poi sarà largamente ripreso e sviluppato
da Leibniz, della quiete come movimento virtuale o potenziale (conatus)
controbilanciato da altre forze che lo impediscono, donde una tensione (nixus) che
permetta di risolvere la statica in dinamica, gli stati di quiete ed equilibrio in stati di
tensione dinamica tra forze antagoniste, che era un'interpretazione filosofica di un
punto di vista che oramai dominava nella meccanica razionale.
Se il mondo è simile a una macchina, nella natura non sono più presenti
gerarchie, come quando ci si serviva dell'immagine di una piramide che aveva alla base
le cose meno nobili e al vertice l'uomo simile a Dio. Tutti i fenomeni, così come tutti i
pezzi che servono al funzionamento della macchina, sono egualmente necessari ed
hanno (rispetto al fine rappresentato da quel funzionamento) lo stesso identico valore.
La macchina che funziona nel meccanicismo come modello esplicativo può essere una
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macchina reale o una macchina pensata come possibile. In ogni caso essa appare come
l'immagine più adeguata di una realtà nella quale ogni elemento (ogni pezzo della
macchina) adempie una funzione che dipende da una determinata forma, da
determinati movimenti e velocità di movimenti. Conoscere la realtà vuol dire rendersi
conto dei modi in cui funzionano le macchine che operano all'interno della più grande
macchina del mondo. E le macchine possono sempre, almeno in teoria, essere smontate
nei loro singoli elementi per essere poi, pezzo per pezzo, ricomposte.
All'immagine platonica del Dio geometra si accompagna l’immagine del Dio
meccanico e orologiaio, costruttore della perfetta macchina del mondo. La conoscenza
delle cause ultime e delle essenze, negata all'uomo, è riservata a Dio in quanto creatore
e costruttore della macchina del mondo. Il criterio del conoscere come fare o della identità
fra conoscere e costruire (o ricostruire) vale non solo per l'uomo, ma anche per Dio. Ciò
che davvero l'uomo può conoscere è solo ciò che è artificiale. Nei limiti in cui la natura
non è concepita come artificiale, essa si presenta come una realtà inconoscibile. La tesi
della limitazione della conoscenza al piano dei fenomeni si congiunge all'antica tesi del
carattere sempre e necessariamente ipotetico e congetturale della fisica. Scrive
Marsenne: “E’ difficile incontrare delle verità nella fisica. Appartenendo l'oggetto della
fisica alle cose create da Dio, non c'è da stupirsi se non possiamo trovare le loro vere
ragioni... Conosciamo infatti le vere ragioni solo di quelle cose che possiamo costruire
con le mani o con l'intelletto”. Nel momento stesso in cui la tesi della identità fra
conoscere e fare dava luogo ad una rinuncia alla possibilità di una comprensione delle
essenze o delle cause ultime della natura, nel momento stesso in cui veniva utilizzata
come un riconoscimento dei limiti del sapere scientifico, essa finiva per investire il
mondo della morale, della politica, della storia.
I maggiori filosofi naturali del Seicento che si fecero sostenitori e propagandisti
del meccanicismo ammiravano Lucrezio e gli antichi atomisti perché avevano costruito
un'immagine del mondo di tipo meccanico e corpuscolare. Ma dalle conseguenze empie
o ateistiche che si potevano ricavare dalla tradizione del materialismo intendevano
mantenersi, nella grandissima maggioranza dei casi, accuratamente lontani rifiutando le
posizioni che ascrivevano l'origine del mondo al caso e al fortuito concorso degli atomi.
L'immagine della macchina del mondo implicava per essi l'idea di un suo Artefice e
Costruttore, la metafora dell'orologio rinviava al divino Orologiaio. Lo studio accurato e
paziente della grande macchina del mondo era la lettura del Libro della Natura, da
affiancare a quella del Libro della Scrittura. Entrambe le indagini tornavano a gloria di
Dio. I filosofi dai quali prendere le distanze, innumerevoli volte respinti e condannati,
sono Hobbes e Spinoza. Il primo ha esteso il meccanicismo all'intera vita psichica, ha
concepito il pensiero come una sorta di istinto un po' piu complicato di quello degli
animali, ha ricondotto al movimento tutte le determinazioni e trasformazioni di una
realtà intesa esclusivamente come corpo. Facendo dell'estensione un attributo di Dio,
Spinoza ha empiamente negato la millenaria distinzione fra un mondo materiale e un
Dio immateriale, ha negato che Dio sia persona e che possa avere scopi o disegni. Ha
affermato che questi sono solo la grossolana proiezione in Dio di esigenze
antropomorfiche. Ha affermato la inseparabilità di anima e di corpo. Ha visto
nell'universo una macchina eterna, priva di senso e di scopi, che espressione di una
causalità necessaria e immanente.
Gassendi, anche se pone gli atomi creati da Dio, apparve a molti pericolosamente
vicino alle posizioni dei libertini. Mersenne riteneva che esistesse una radicale
incompatibilità fra cristianesimo e naturalismo, che il meccanicismo potesse essere
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conciliato con la tradizione cristiana e che la tesi del carattere sempre ipotetico e
congetturale delle conoscenze lasciasse il necessario spazio alla dimensione religiosa e
alla verità cristiana. Anche Boyle ha preoccupazioni di questo tipo. Nel momento in cui
esalta l'eccellenza della filosofia corpuscolare o meccanica egli si preoccupa di tracciare
due linee di demarcazione. La prima deve distinguerlo dai seguaci di Epicuro e di
Lucrezio, da tutti coloro che ritengono che gli atomi, “incontrandosi insieme per caso in
un vuoto infinito siano in grado da sé stessi di produrre il mondo e i suoi fenomeni”. La
seconda serve a differenziarlo dai meccanicisti moderni (vale a dire dai cartesiani). Per
questi ultimi, supposto che Dio abbia introdotto nella massa totale della materia una
quantità invariabile di moto, le varie parti della materia, in virtù dei loro propri
movimenti, sarebbero in grado di organizzarsi da sole in un sistema. La filosofia
corpuscolare o meccanica della quale Boyle si fa sostenitore non va pertanto confusa né
con l'epicureismo né con il cartesianesimo. Nel meccanicismo di Boyle il problema della
“prima origine delle cose” va tenuto accuratamente distinto da quello del “successivo
corso della natura”. Dio non si limita a conferire il moto alla materia, ma guida i
movimenti delle singole parti di essa in modo da inserirle nel “progetto di mondo” che
avrebbero dovuto formare. Una volta che l'universo è stato strutturato da Dio e che Dio
ha stabilito “quelle regole del movimento e quell'ordine fra le cose corporee che siamo
soliti chiamare Leggi di Natura”, si può affermare che i fenomeni “sono fisicamente
prodotti dalle affezioni meccaniche delle parti della materia e dalle loro reciproche
operazioni secondo le leggi della meccanica”. La distinzione fra origine delle cose e
successivo corso della natura è molto importante: coloro che indagano sulla prima
elaborano ipotesi sull'origine dell'universo, hanno l'empia pretesa di “dedurre il
mondo”, di costruire ipotesi e sistemi. Gli epicurei e i cartesiani rappresentano la
versione atea e materialistica della filosofia meccanica.
Per Cartesio, la scienza è in grado di dire qualcosa non solo su cosa è il mondo,
ma anche sul processo della sua formazione. L'alternativa con Boyle è, su questo punto,
radicale. Le leggi di natura, aveva scritto Cartesio, “basteranno a far sì che le parti del
Caos arrivino a districarsi da sè, disponendosi in bell'ordine, così da assumere la forma
di un mondo perfettissimo”. Le strutture del mondo presente, nella prospettiva
cartesiana, sono il risultato della materia, delle leggi della materia, del tempo.
Di fronte a queste dottrine e a queste soluzioni, la posizione di Newton non sarà
lontana da quella che aveva assunto Boyle: “Se affermiamo, con Cartesio, che
l'estensione è corpo, non apriamo forse la via all'ateismo? Ciò per due ragioni: perché
l'estensione risulta increata ed eterna, e perché in certe circostanze potremmo
concepirla come esistente e insieme immaginare la non esistenza di Dio”.
La presa di distanza dai possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo
assumerà in Newton forme diverse, ma resterà un tema dominante. Un “cieco destino”
non avrebbe mai potuto far muovere tutti i pianeti allo stesso modo in orbite
concentriche e la meravigliosa uniformità del sistema solare è effetto di “un disegno
intenzionale”. I pianeti continuano a muoversi nelle loro orbite per le leggi della gravità,
ma “la posizione primitiva e regolare di queste orbite non può essere attribuita a queste
leggi: la ammirevole disposizione del Sole, dei pianeti e delle comete può essere solo
opera di un Essere onnipotente e intelligente”. La distinzione avanzata da Boyle fra
origine delle cose e regolare corso della natura veniva ripresa in questo contesto. Se è
vero che “le particelle solide furono variamente associate nella prima creazione per il
consiglio di un Agente intelligente” se è vero che esse sono “state messe in ordine da
Colui che le ha create”, allora “non v'è ragione di ricercare una qualche altra origine del
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mondo o pretendere che esso possa essere uscito fuori da un Caos, ad opera delle mere
leggi di natura”. Le leggi naturali cominciano ad operare solo dopo che l'universo è
stato creato. La scienza di Newton è una descrizione rigorosa dell'universo così come
esso è: in quanto è compreso fra la creazione del mondo narrata da Mosé e il finale
annichilimento previsto da San Giovanni. Newton e i newtoniani non accetteranno mai
l'idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche.
artificioso, capace, è vero, di provare la verità dei singoli risultati ma non di rivelarne
l’origine profonda né farci scoprire nuove verità.
Il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico, cioè deve
condurre a saper distinguere il vero dal falso, ma anche e soprattutto in vista dell'utilità
e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. Il metodo che cercò fin da
principio e che ritenne d'aver trovato è una guida per l'orientamento dell'uomo nel
mondo. Esso deve condurre ad una filosofia “non puramente speculativa, ma anche
pratica, per la quale l'uomo possa rendersi padrone e possessore della natura”. Cartesio
è francamente ottimista sulla possibilità e sui risultati pratici di una simile forma di
sapere.
Nel formulare le regole del metodo, Cartesio si avvale soprattutto delle
matematiche. Ma non si tratta soltanto di prendere coscienza di questo metodo, cioè di
astrarlo dalle matematiche e di formularlo in generale, per poterlo applicare a tutte le
altre branche del sapere. Si tratta anche di giustificare il metodo stesso e la possibilità
della sua universale applicazione, riportandolo al suo fondamento ultimo, cioè all'uomo
come soggetto pensante o ragione. Cartesio doveva dunque: 1) formulare le regole del
metodo tenendo soprattutto presente il procedimento matematico nel quale esse già
sono in qualche modo presenti; 2) fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e
universale di questo metodo; 3) dimostrare la fecondità del metodo nelle varie branche
del sapere. Tale fu infatti il compito filosofico di Cartesio.
Sul primo punto, la seconda parte del Discorso sul metodo (1637) ci dà la
formulazione più matura e semplice delle regole del metodo.
Esse sono quattro:
1. “Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza;
cio evitare diligentemente la preoccupazione e la prevenzione; e non
comprendere nei miei giudizi niente di più di ciò che si presentasse cosi
chiaramente e cosi distintamente al mio spirito che io non avessi alcuna
occasione di metterlo in dubbio”. Questa era per Cartesio la regola fondamentale:
l'evidenza, l'intuizione chiara e distinta di tuffi gli oggetti del pensiero e
l'esclusione di ogni elemento sul quale il dubbio fosse possibile.
2. “Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti
possibili e necessarie per meglio risolverla”. È la regola dell'analisi, per la quale
un problema viene risolto nelle parti più semplici da considerarsi separatamente.
3. “Condurre i miei pensieri ordinatamente, cominciando dagli oggetti più semplici
e più facili a conoscersi per risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle
conoscenze più complesse; supponendo che vi sia un ordine anche tra gli oggetti
che non precedono naturalmente gli uni agli altri”. È la regola della sintesi, per
la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente,
presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.
4. “Fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere
sicuro di non omettere nulla”. L'enumerazione controlla l'analisi, la revisione la
sintesi. Questa regola offre così il controllo delle due precedenti.
Trovare il fondamento di un metodo che deve essere la guida sicura della ricerca
in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il
sapere già dato. Bisogna sospendere l'assenso ad ogni conoscenza comunemente
accettata, dubitare di tutto e considerare almeno provvisoriamente come falso tutto ciò
su cui il dubbio è possibile. Se persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si
giungerà a un principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà
essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di fondamento a tutte le altre
conoscenze. In questo principio si troverà la giustificazione del metodo (dubbio
metodico).
Ora, Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al
dubbio. Si può, e quindi si deve, dubitare delle conoscenze sensibili sia perchè i sensi
qualche volta ingannano e quindi possono ingannarci sempre, sia perchè si hanno nei
sogni conoscenze simili a quelle che si hanno nella veglia senza che si possa trovare un
sicuro criterio di distinzione fra le une e le altre. Ci sono bensì conoscenze che sono vere
sia nel sogno che nella veglia, come le conoscenze matematiche, ma neppure queste
conoscenze si sottraggono al dubbio, perchè anche la loro certezza può essere illusoria.
Difatti, finché nulla si sappia di certo intorno noi e alla nostra origine, si può sempre
supporre che l'uomo sia stato creato da una potenza maligna che si sia proposta di
ingannarlo facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. In tal modo,
il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale (dubbio iperbolico).
Ma proprio nel carattere radicale di questo dubbio si presenta il principio di una prima
certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi
possibili; ma per ingannarmi o per essere ingannato io debbo esistere. La proposizione
io esisto è dunque la sola assolutamente vera perché il dubbio stesso la riconferma: può
dubitare solo chi esiste. Io non esisto se non come una cosa che dubita cioè che pensa
(cogito ergo sum).
La certezza del mio esistere concerne soltanto tutte le determinazioni del mio
pensiero: il dubitare, il capire, il concepire, l'affermare, il negare, il volere, il non volere,
l'immaginare, il sentire. Può ben darsi che ciò che io percepisco non esista ma è
impossibile che non esista io che penso di percepire un determinato oggetto. Su questa
certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque
fondata ogni altra conoscenza.
Il principio cartesiano ripete il movimento di pensiero che già si è trovato in
Agostino; ma lo ripete nell'orizzonte di un altro problema. Non si tratta, come in
Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell'interiorità
dell'uomo. Si tratta invece di trovare nell'esistenza del soggetto pensante, il cui essere è
evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e
l'efficacia dell'azione umana sul mondo. Non bisogna dimenticare che Cartesio ha
elaborato la sua metafisica come fondamento e giustificazione della fisica: ha voluto
cioè ritrovare nella stessa esistenza dell'uomo in quanto io o ragione, la possibilità di
una conoscenza che consenta all'uomo di dominare il mondo per i suoi bisogni.
Secondo Cartesio, la giustificazione metafisica delle certezze umane è Dio. Ma
come è possibile allora l’errore? L’errore dipende unicamente dal libero arbitrio che Dio
ha dato all’uomo e si può evitare soltanto attenendosi alle regole del metodo.
Accanto alla sostanza pensante, che costituisce l’io, si deve ammettere una
sostanza corporea, divisibile in parti, quindi estesa. Tale sostanza estesa non possiede
però tutte le qualità che noi percepiamo di essa. Cartesio fa la sua distinzione già
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movimento, la grandezza, la forma e l'organizzazione delle sue parti. Res cogitans e res
extensa appaiono realtà rigidamente separate. La natura non ha nulla di psichico e non
può essere interpretata con le categorie dell'animismo: “Col termine natura non intendo
affatto qualche divinità o qualche tipo di potenza immaginaria, ma mi servo di questa
parola per indicare la materia stessa, in quanto dotata di tutte le qualità che le ho
attribuito, intese tutte insieme, e sotto la condizione che Dio continui a conservarla
nello stesso modo in cui l'ha creata “. Per il fatto che Dio continui a conservarla, i diversi
mutamenti che in essa avvengono non potranno essere attribuiti all'azione di Dio, ma
alla stessa natura: “le regole secondo le quali tali mutamenti avvengono le chiamerò
leggi della natura”.
L'unico motore della grande macchina del mondo è costituito dall'originaria
quantità di moto, che può distribuirsi in modi differenti tra i corpi attraverso gli urti. Il
che significa che viene bandita ogni forza, attrattiva o repulsiva, segnatamente quelle
forze che debbono manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali, o
di qualsivoglia altra natura. Non era, d'altronde, del tutto ingiustificato questo ripudio
delle forze esplicantisi a distanza, che richiamavano il finalismo aristotelico, l'astrologia,
l'animismo. Come può, infatti, un corpo esercitare un'azione là dove non è? Galileo
stesso le aveva in sospetto, al punto da respingere come farneticazione astrologica
l'antica tesi che riconduceva il fenomeno delle maree all'influenza della Luna. Due sole
leggi dominano l'universo fisico cartesiano: il principio di inerzia, e il principio della
conservazione della quantità di moto. Nel cosmo di Cartesio, quindi, non vi è nessuna
degradazione entropica, perché la “quantità di moto” (prodotto della velocità per la
massa) è perpetuamente costante.
Come in ogni prospettiva meccanicistica, Cartesio fa uso di modelli per
l'interpretazione della natura: il mondo delle idee non è affatto lo specchio del mondo
reale e non c'è alcuna ragione di credere (anche se normalmente tutti ne siamo convinti)
“che le idee contenute nel nostro pensiero siano del tutto simili agli oggetti dai quali
derivano”. Come le parole, nate da convenzione umana, “bastano a farci pensare cose
alle quali non somigliano affatto”, così la natura ha stabilito “segni” che ci danno
sensazioni pur non avendo in sé nulla di somigliante a quelle sensazioni.
La materia si riduce per Cartesio ad estensione e si identifica con essa. Fra la
materia e lo spazio occupato dalla materia si dà come unica differenza la mobilità: nel
senso che un corpo materiale è una forma dello spazio che può essere trasportata da un
luogo ad un altro senza perdere la propria identità: “la stessa estensione in lunghezza,
larghezza e profondità, che costituisce lo spazio, costituisce il corpo; e la differenza che
c'è fra essi non consiste se non in questo, che noi attribuiamo al corpo un'estensione
particolare, che concepiamo cambiare di luogo con lui tutte le volte che esso è
trasportato”.
Se spazio e moto costituiscono il mondo, l'universo di Cartesio è la geometria
realizzata. La Geometria costituisce la più importante delle tre appendici del Discorso sul
metodo ed è in qualche modo l'atto di nascita della geometria analitica, la quale si colloca
storicamente come punto di incontro dei progressi dell'algebra realizzati nel corso del
'500 e del contemporaneo lento recupero della geometria classica. Cartesio ritiene
pertanto possibile unificare la geometria degli antichi con l'algebra dei moderni; ma
questa operazione richiede una revisione di ambedue le scienze. La geometria degli
antichi, malgrado i suoi incontestabili successi, è inficiata dal suo procedere episodico,
che costringe per ogni costruzione a ricercar una dimostrazione ad hoc e non riesce a
cogliere i rapporti nella loro universalità e a sollevarsi al livello di generalità necessario
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degli spigoli. I cubi assumono forma diversa e diventano delle piccole sfere. Le
infinitesimali particelle prodotte dalla “raschiatura” costituiscono il primo elemento
“luminoso la cui agitazione è la luce”. Questo primo elemento “è come un liquido, il più
sottile e penetrante che ci sia al mondo”; le sue parti non hanno forma e grandezza
determinata ma “cambiano forma ad ogni istante per adattarsi a quella dei luoghi in
cui entrano”. Non ci sarà di conseguenza un passaggio così stretto, né un angolo così
piccolo che queste particelle non possano esattamente riempire. Il moto di questa
materia è paragonato al corso di un fiume che si diffonde direttamente dal Sole
causando la sensazione della luce. Se il primo elemento (paragonabile al Fuoco) è la
luce, il secondo elemento trasmette la luce: e “luminifero” ed è l'etere che forma i cieli.
Le sue particelle sono tutte “press'a poco sferiche e unite insieme, come granelli di
sabbia o di polvere”. Esse non si possono stipare né comprimere fino a far scomparire
quei piccoli intervalli nei quali “il primo elemento riesce a scivolare facilmente”. Il terzo
elemento deriva anch'esso dalle “raschiature” che si riuniscono in particelle a forma di
vite e provviste di scanalature. Tali particelle si saldano assieme dando origine a tutti i
corpi terrestri ed opachi. Le parti del terzo elemento sono “così grosse e talmente unite
insieme che hanno la forza di resistere sempre al movimento degli altri corpi”. Le
particelle dell'acqua sono invece “lunghe, levigate e liscie come piccole anguille, che, per
quanto si congiungano e intreccino insieme, non s'annodano né si attaccano mai in
modo tale che non sia possibile staccarle facilmente l'una dall'altra”.
La materia sottile che compone i cieli esercita nella fisica cartesiana funzioni
decisive: è a fondamento della rarefazione e condensazione, della trasparenza e opacità,
della elasticità, della stessa gravità. In un universo pieno il moto si configura
necessariamente come spostamento o risistemazione e, in queste condizioni, ogni
movimento tende a creare un turbine o vortice. Tutti i movimenti che avvengono al
mondo sono in qualche modo circolari: “vale a dire che quando un corpo lascia il suo
posto, va sempre in quello di un altro, che va nel luogo di un terzo, e così di seguito fino
all’ultimo, che occupa allo stesso istante il posto lasciato dal primo, di modo che non si
ha più vuoto fra loro, mentre si muovono, di quanto non se ne abbia quando sono
fermi”.
Poiché nel mondo non esiste il vuoto “non è stato possibile che tutte le parti
della materia si siano mosse in linea retta, ma essendo all'incirca eguali e potendo venir
tutte deviate quasi con la stessa facilità, esse hanno dovuto assumere tutte insieme un
certo movimento circolare “. Poiché fin dall'inizio Dio le ha mosse in modi diversi, esse
si sono messe a girare “non attorno a un unico centro, bensì
intorno a molti centri diversi”. Le particelle globulari del
secondo elemento hanno formato larghi vortici ruotanti. A
causa della forza centrifuga le particelle del primo elemento
sono state spinte verso il centro. Il Sole e le stelle fisse sono
ammassi (a forma di globo) di particelle del primo elemento.
Sia il primo sia il secondo elemento circondano, a guisa di
vortici liquidi, il Sole e le stelle. In questi vortici “galleggiano” i
pianeti che vengono trascinati attorno al Sole dal moto del vortice minore. Le comete
non sono fenomeni ottici, ma corpi celesti reali che viaggiano senza fine alla periferia
dei vortici passando da un vortice all'altro. Nell’universo indefinitamente grande
l'espansione dei vortici è impedita dai vortici confinanti. I vortici, finalmente, generano
le forze che trattengono i pianeti nelle loro orbite. Questa dottrina non dava conto dei
dettagli tecnici dell'astronomia planetaria (Cartesio non menziona le leggi di Keplero)
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tipo geometrico, in cui tutte le cose sono concatenate logicamente fra loro e quindi
deducibili sistematicamente l'una dall'altra: “ordo et connexio idearum idem est ac ordo
et connexio rerum (l’ordine e la connessione delle idee, è identico all’ordine e alla
connessione delle cose).” Pensare rettamente significa adeguare lo svolgimento del
pensiero a questa realtà razionale, perciò l’unica forma corretta della trattazione
filosofica deve ricalcare il procedimento matematico di cui Euclide offre il modello.
Uno dei primi assiomi dell’Ethica è che ogni cosa nel mondo deve essere spiegata
mediante la propria natura, o mediante un più ampio disegno, una più larga natura
delle cose, la quale la costringe ad essere ciò che realmente è. Una cosa è spiegata
allorché noi riusciamo a conoscere perché essa deve essere ciò che è. In altri termini, in
questo molteplice ed enigmatico mondo di apparenze e di fenomeni che incuriosiscono
il ricercatore, tutto ciò che non contiene direttamente la propria spiegazione, deve far
parte di un più ampio disegno, di una più profonda natura delle cose, che lo spiega, e,
perciò, lo costringe ad essere ciò che è. Così tutto il mondo di questo pensatore è un
essere unico di necessità rigidamente matematiche, nel quale cause e spiegazioni
coincidono. Partendo da queste premesse, Spinoza conclude che deve esservi alcunché
di superiore che da nulla è condizionato, e che implica la spiegazione di ogni singola
cosa. L’universo è una realtà unica, e perciò tutto quanto in esso esiste deve esser parte
di un unico ordine autoproducendosi di una “sostanza unica”.
Spinoza, andando oltre Cartesio, si propone di sviluppare, con la massima
coerenza, tutte le implicanze logiche della nozione di sostanza. Spinoza intende per
sostanza: “ciò che è in sé e per sé si concepisce, vale a dire ciò il cui concetto non ha
bisogno del concetto di un'altra cosa da cui debba essere formato”. Con la prima parte
della formula egli intende dire che la sostanza, essendo da sé (in sé=da sé), in quanto
deve unicamente a sé stessa la propria esistenza, rappresenta una realtà autosussistente
e autosufficiente, che per esistere non ha bisogno di altri esseri. Con la seconda parte
della formula Spinoza intende dire che la nozione di sostanza, essendo concepibile
soltanto per mezzo di sé medesima, rappresenta un concetto che per essere pensato non
abbisogna di altri concetti. Come tale, la sostanza gode di una totale autonomia
ontologica e concettuale, poiché si identifica con una realtà che non presuppone, ma è
eventualmente presupposta da ogni altra possibile realtà, e con un concetto che non
presuppone, ma è eventualmente presupposto da ogni altro possibile concetto. Da
questa definizione di sostanza Spinoza deriva una serie di proprietà di base che la
caratterizzano: 1) la sostanza è increata, in quanto per esistere non ha bisogno di altro,
essendo, per natura, causa di sé, cioè un ente la cui essenza implica l'esistenza; 2) la
sostanza è eterna perché essa possiede, come sua nota costitutiva, l'esistenza, che non
riceve da altro; 3) la sostanza è infinita perché se fosse finita dipenderebbe da
qualcos'altro (contraddicendo il primo punto), e perché la sua essenza non ha limiti; 4)
la sostanza è unica, poiché “nella natura non si possono dare due o più sostanze della
medesima natura ossia del medesimo attributo”.
Questa sostanza increata, eterna, infinita, unica (e quindi anche indivisibile) non
può essere che Dio o l'Assoluto. Spinoza con questa posizione si stacca nettamente da
gran parte della metafisica occidentale, e in particolare dal filone ebraico-cristiano, in
quanto ritiene che Dio e mondo non costituiscano due enti separati, ma uno stesso ente,
poiché Dio non è fuori dal mondo, ma nel mondo, e costituisce, con esso, quell'unica
realtà globale che è la Natura. Spinoza perviene a questo principio-chiave del suo
pensiero fondandosi, di fatto, sull'unicità della Sostanza. Infatti, se la Sostanza è unica,
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essa sarà come una circonferenza infinita che ha tutto dentro di sé e nulla fuori di sé, per
cui le cose del mondo saranno per forza la Sostanza o la manifestazione in atto di tale
Sostanza. In tal modo, Spinoza perviene ad una forma di panteismo che giunge ad
identificare Dio o la Sostanza con la Natura, considerata come realtà increata, eterna ,
infinita e unica, da cui derivano e in cui sono tutte le cose. La Natura è una potenza
dinamica e procreante e tende ad identificarsi con l'ordine necessario e razionale del
Tutto.
In altre parole, il Dio-Natura di Spinoza è, in ultima analisi, l’ordine geometrico
dell'universo, cioè il Sistema o la Struttura globale del tutto e delle sue leggi. Come tale,
la Natura spinoziana non è il puro insieme o la semplice somma delle cose, ma il
Sistema o l'Ordine intrinseco che le regola e struttura secondo precise e immutabili
concatenazioni. La concezione di Dio come ordine geometrico dell'universo pone
Spinoza in antitesi a quella millenaria visione finalistica del mondo che si era espressa
nella metafisica greca e nella dottrina ebraico-cristiana di un Dio che crea liberamente il
mondo secondo progetti implicanti la subordinazione intenzionale delle cose all'uomo
(=finalismo antropocentrico). Secondo Spinoza, ammettere l'esistenza di cause finali è
un pregiudizio dovuto alla costituzione dell'intelletto umano.
Parlando della Sostanza o di Dio, Spinoza non intende nessuna delle figure
metafisiche tradizionali, bensì l'ordinamento complessivo dell'essere e la Struttura
geometrica del cosmo. Di conseguenza il panteismo (=Dio è in tutto) e il panenteismo
(=tutto è in Dio) sono, in Spinoza, una forma rigorosa di naturalismo, ripensato alla luce
della rappresentazione scientifica e moderna della realtà. Anzi, da un certo punto di
vista, lo spinozismo può essere reputato una traduzione metafisica del modo galileiano
di considerare la Natura. Come sappiamo, per lo scienziato italiano quest'ultima non è
più l'essenza o la potenza generatrice delle cose, bensì l'insieme delle leggi che
governano i fenomeni. Analogamente, per Spinoza la Natura non è più l'Anima o
l'energia intrinseca della materia, bensì il sistema o l'ordine strutturale delle relazioni fra
le cose, ovvero il complesso delle leggi universali dell'essere.
Spinoza, rifiuta il modello creazionistico, perché la creazione supporrebbe
intelletto, volontà, arbitrio, scelta, tutte cose che non hanno senso riferite al Dio-Natura.
Ma l'esclusione della dottrina della creazione significa che egli abbia accettato la
dottrina dell'emanazione? Non c'e traccia, nella dottrina di Spinoza, di questa
accettazione, che avrebbe fatto della sua dottrina la ripetizione esatta della dottrina di
Bruno. Ma tra Spinoza e Bruno ci sono Galileo, Cartesio e Hobbes: vi è la prima
formazione della scienza, interamente polarizzata intorno al concetto della natura come
ordine oggettivo e matematicamente strutturato. Da ciò l'originalità dello spinozismo di
fronte a tutte le forme di emanatismo.
La Sostanza spinoziana non è l'Unità ineffabile dalla quale scaturiscono le cose
per emanazione, secondo l'antica dottrina neoplatonica. Non è neppure la natura
infinita che per la sua sovrabbondanza di potenza genera infiniti mondi, secondo il
naturalismo di Bruno. Essa è piuttosto un Ordine cosmico o un Teorema eterno da cui le
cose scaturiscono in modo necessario. Di conseguenza, nell'universo spinoziano non vi
è nulla di contingente, poiché in esso tutto ciò che è possibile si realizza
necessariamente, esattamente come in geometria le verità implicite degli assiomi si
esplicitano necessariamente nei teoremi, per cui possibilità e realtà sono nient'altro che
necessità in potenza o necessita in atto.
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compiuti nel campo della fabbricazione dei vetri e delle lenti, nonché gli sviluppi della
nuova astronomia, portavano ad attaccare i problemi della luce dal punto di vista fisico.
Ora, la natura materiale della luce era stata sostenuta già dall'antichità, e
presunta da tutti i fondatori della scienza moderna, ma ora, nel fatto stesso che se ne
potesse stabilire la velocità finita, se ne aveva una riprova: se un ente impiega del
tempo, sia pure piccolissimo alla scala delle nostre velocità terrestri, per andare da un
luogo ad un altro, questo ente si può senz'altro ritenere materiale. Così si accentuò la
tendenza ad interpretare in questo senso la natura della luce, ma già prima, da Cartesio
in poi, l'ipotesi che la luce si dovesse concepire come movimento della materia sottile
era entrata nel dominio della fisica.
Come abbiamo visto, Cartesio aveva considerata la luce come moto vorticoso
della materia sottile; Huygens prosegue su questa strada, cercando però di dare alla
dottrina cartesiana un senso fisico mediante una serie di importantissime ricerche
sperimentali sulla luce, in particolare sui fenomeni di rifrazione attraverso il cristallo di
Islanda. Attraverso questi esperimenti egli arriva a stabilire molte peculiarità della
rifrazione, i fenomeni di interferenza e polarizzazione, e finalmente il fenomeno della
doppia rifrazione. Sulla base di tali ricerche e risultati egli formula la teoria secondo la
quale la luce è un moto ondulatorio orizzontale che si propaga in un mezzo ipersottile,
l’etere, presente anche là dove diciamo essere il vuoto. La teoria del moto ondoso spiega
abbastanza bene i fenomeni già sperimentalmente noti, e quelli scoperti dallo stesso
Huygens; ma, com'egli stesso ebbe a confessare francamente, resta in scacco davanti alla
doppia rifrazione. Di contro a lui Newton sosterrà la teoria corpuscolare della luce.
Nella breve prefazione del suo Traité de la lumiére (1690), Huygens ci informa che
egli aveva completato il trattato nel 1678 e nello stesso anno lo aveva comunicato
all'Académie des sciences di Parigi. Però nel 1678 erano già comparse le memorie
fondamentali di Newton, rifuse poi nell'Ottica, e il pensiero di Huygens ne fu
influenzato. Il trattato si apre con una critica delle teorie di Cartesio e di Newton: se la
luce è costituita da corpuscoli, come è possibile che si propaghi rettilineamente nella
materia senza esserne influenzata? E come è possibile che due fasci di luce, cioè due
sciami di corpuscoli, s’incrocino senza disturbarsi coi reciproci urti? Qual è il mezzo che
propaga il moto? Huygens, istituito ancora una volta il paragone tra suono e luce,
osservato che il mezzo non può essere l'aria, perchè la macchina pneumatica aveva
dimostrato che, a differenza del suono, la luce si propaga anche nel vuoto, postula
l'esistenza di una sostanza eterea, che riempie l'universo, compenetra i corpi, è
estremamente sottile tanto da sfuggire a ogni analisi ponderale, e molto dura e molto
elastica. Le particelle d'etere sono corpuscoli elastici (di forma forse non sferica) che
propagano il moto, pur senza assumere moto traslatorio. Insomma, il modello
meccanico assunto a rappresentazione del moto ondoso portava a supporre onde
longitudinali.
Huygens parte dall'esempio di una fiamma: ogni punto della
fiamma comunica il moto alle particelle d'etere tutt'attorno, emette cioè
un'onda e ogni particella d'etere raggiunta dall'onda diventa essa
stessa centro di un'altra minuscola onda. Il moto così si propaga da
particella a particella per azioni sferiche secondarie, allo stesso modo
come si propaga un incendio. Ciò che può apparire strano e quasi
incredibile è che ondulazioni prodotte da movimenti e corpuscoli così
piccoli possano estendersi a così grande distanza, come quella che
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PRINCIPIO DI HUYGENS
Ogni punto di un fronte d'onda può essere considerato come una sorgente secondaria di
onde sferiche, aventi la stessa frequenza della sorgente originaria dell'onda. Il nuovo
fronte d'onda è l'inviluppo delle onde secondarie, cioè la superficie tangente ai fronti
d'onda di tutte le onde secondarie.
raggio di luce nei due mezzi sembra spezzato, è in realtà il più veloce possibile, dati gli
indici di rifrazione diversi.
PRINCIPIO DI FERMAT
Un raggio tra due punti segue il percorso a cui corrisponde il minor tempo di percorrenza.
ondulatoria gli consente di spiegare qual è la modificazione della luce produttrice dei
colori. A sostegno della teoria ondulatoria Grimaldi porta molti argomenti, in
particolare l’analogia coi suoni, la cui varia altezza, come aveva insegnato Galileo,
dipende dalle varie ondulazioni dell’aria. Comunque, aggiunge Grimaldi, qualunque
teoria si preferisca “i colori non sono qualche cosa distinta dalla luce”.
Nella sua opera Grimaldi, sulle orme di Gilbert, dedica oltre trenta pagine al
magnetismo, descrivendo esperimenti vecchi e nuovi e tentandone la spiegazione con
l’ipotesi, d’ispirazione cartesiana, di un fluido magnetico sostanziale unico che scorre
tra un polo e l’altro di una calamita e le opposte direzioni di flusso produrrebbero gli
effetti apparentemente opposti. Ogni corpo magnetico non magnetizzato, come il ferro,
contiene il fluido disordinato, per cui la calamita lo ordina e induce quindi nel copro la
proprietà magnetica. La teoria di Grimaldi, anche se derivata da quella cartesiana, ha
una caratteristica, cioè quella di introdurre il fluido unico e non fa ipotesi sulla forma
delle sue particelle costitutive.
interesse e considerazione per il sapere esatto, Pascal è convinto che la scienza presenti
taluni limiti strutturali, sia in sé medesima, sia in relazione ai problemi dell'uomo.
Il primo limite della scienza è l'esperienza. Sebbene questa rappresenti da un lato
un motivo di forza (Pascal è galileianamente e anticartesianamente un fautore del
metodo sperimentale), dall'altro lato è pur sempre qualcosa con cui la ragione deve fare
i conti, ossia che frena e circoscrive i suoi poteri, che non sono mai assoluti, come invece
tendevano a credere, nel loro deduzionismo aprioristico, Cartesio e i Cartesiani. La cosa
importante è, per Pascal, che lo scienziato il quale si occupa di fisica, sappia
concretamente interrogare la natura con accurati e precisi esperimenti e inoltre sappia
leggere le risposte che essa fornisce, risalendo dai dati particolari ai principi semplici
che regolano il corso dei fenomeni. Egli ha senza dubbio, anzi il dovere, di formulare
ipotesi, ma a patto di non confonderle con la verità. Se in un momento qualunque
un’ipotesi venisse contraddetta dai fatti, dovremmo essere immediatamente disposti ad
abbandonarla. Nessuna dimostrazione a priori può valere più dei fatti. L’elaborazione
teorica, per quanto importante, non può venire anteposta all’evidenza dei dati
sperimentali.
Il secondo limite della scienza è costituito dalla indimostrabilità dei suoi primi
principi. Infatti, le nozioni che stanno alla base del ragionamento scientifico (lo spazio, il
tempo, il movimento, ecc.) sfuggono al ragionamento stesso, poiché nel campo del
sapere, come avevano già notato i filosofi antichi, non risulta mai possibile una
regressione all'infinito dei concetti, per cui ci si deve per forza arrestare a dei termini
primi, che rappresentano il limite oltre il quale non si può procedere, ma dal quale è
costretta a partire la catena deduttiva dei ragionamenti. Tipico, in questo senso, il caso
delle matematiche. Se i dogmatici, tentando di fondare tali principi, non vi riescono, gli
scettici, cercando di confutarli, falliscono ancor più clamorosamente, poiché essi sono
evidenze intuitive e istintive, più sicure di qualsiasi ragionamento. Nello stesso dominio
che le è proprio, la scienza incontra dunque dei limiti. Tuttavia, nell'ambito di essi, la
ragione scientifica è arbitra. Di conseguenza, Pascal respinge dal dominio delle
conoscenze naturali ogni intrusione metafisica o teologica e ogni principio di autorità.
La polemica di Pascal contro la scienza è dovuta al fatto di essere considerata
incapace di autentica certezza. Lo scienziato, secondo Pascal, non può pervenire alla
certezza assoluta perché non può attingere gli elementi primi della realtà; lo stesso
perenne accrescersi della scienza ci conferma il carattere incompleto e provvisorio delle
sue conquiste. In più la scienza ci porta a riconoscere la presenza dell’infinito,
facendocelo ritrovare nella stessa struttura dell’edificio che veniamo gradualmente
costruendo, ma è un infinito che essa non potrà mai raggiungere: “Così, vediamo che
tutte le scienze non conoscono termine nell’estensione delle loro ricerche: perché chi può
mettere in dubbio, per esempio, che la geometria non comprenda un numero infinito di
proposizioni? Le scienze sono infinite altresì nella moltitudine e nella sottigliezza dei
loro principi: perché chi non vede che quelli che vengono proposti per ultimi non si
reggono da sé, ma ne presuppongono altri, i quali, presupponendone a loro volta altri
ancora, non ne ammettono nessuno che sia l’ultimo? Ma noi ci comportiamo con i
principi che la ragione conosce per ultimi come con le cose materiali: dove chiamiamo
punto indivisibile quello di là dal quale i nostri sensi non percepiscono più nulla,
sebbene sia divisibile all’infinito, e per sua natura.” Merita di venire sottolineata
l’esattezza del brano citato: è indubbiamente vero che la struttura del sapere scientifico
non può ammettere limiti né relativamente all’ambito degli argomenti trattati, né
relativamente ai principi invocati nelle spiegazioni. L’epistemologia moderna
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mineraria era all'ordine del giorno anche dal punto di vista tecnico-pratico. E, in questo
campo di ricerche, si deve a Pascal il principio che porta il suo nome:
PRINCIPIO DI PASCAL
La pressione nei fluidi si trasmette uniformemente in tutte le direzioni
Come Galileo e molti altri, Pascal ricorse agli “esperimenti mentali” come metodo di
ragionamento.
Connesse in qualche modo agli sul vuoto sono varie esperienze che vengono fatte
in varie parti di Europa: ricordiamo quella fatta nel 1643 a Magdeburgo dal
borgomastro di quella città, Otto von Guericke (1602-1686), con i celebri emisferi di
Magdeburgo; esperimento che permise di misurare la pressione dell'aria su di una
superficie sferica. Ma il borgomastro costruì anche la prima macchina elettrostatica per
la rivelazione dei fenomeni elettrici.
Nel corso del XVII secolo, via via che aumentava il prestigio della scienza nella
società del tempo, ne aumentava anche il numero di cultori. L'Italia perdeva il suo
primato, che passava successivamente alla Francia, all'Inghilterra, all'Olanda.
La maggiore apertura sociale della scienza, l'introduzione di nuovi vocaboli per
esprimere idee nuove, la necessità d'un linguaggio più sciolto e più popolare atto a
travalicare la chiusa cerchia dei dotti spingono all'uso di lingue nazionali nei trattati
scientifici, che diventa sempre più frequente nel corso del XVII secolo e del successivo,
sino a divenire quasi generale all'inizio del XIX secolo. Parallelamente comincia a essere
usato il francese come lingua internazionale. I centri propulsori di questo nuovo
atteggiamento mentale non sono più le università. Strettamente legate ai pubblici poteri,
le università, salvo qualche rara eccezione italiana (Padova, Bologna), tornano
all'intolleranza delle origini. A causa di questa chiusura mentale, grandi scienziati del
secolo come Cartesio, Fermat, Pascal, Huygens, Leibniz, si tennero lontani dalle
università del tempo, divenute centri di conservazione della vecchia scienza. Tra i nuovi
strumenti di ricerca e di diffusione della nuova scienza, furono caratteristici del secolo
le accademie e i periodici scientifici.
I primi cultori di scienze naturali sentirono vivo il bisogno di una più intima
collaborazione tra di loro, di periodici scambi d'idee, di comunicazioni a viva voce di
tecniche sperimentali, di presentazione di esperimenti. Cominciava così a cadere
gradualmente il mito del segreto, cioè della scienza privata, per far posto al
convincimento che lo scambio d'informazioni facilita la ricerca personale. Sotto la spinta
di questa esigenza, sorsero, a somiglianza delle accademie letterarie, le accademie
scientifiche.
L'Accademia dei Lincei, fondata nel 1603, aveva come scopo lo studio e la
diffusione della conoscenza scientifica del mondo fisico, inteso nel senso più ampio del
termine. L'accademia doveva essere costituita da case, dette licei, sparse nelle quattro
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parti del mondo ed ebbe come insegna la lince, cui si attribuiva vista tanto penetrante
da vedere dentro gli oggetti.
geniali intuizioni chimiche connesse ad una sua importante versione della teoria
atomica. Egli pensava i corpi composti di particelle minime, o atomi; ma, sebbene non
usasse questa terminologia, raggiunse già il concetto della distinzione tra molecola ed
atomo, senza tuttavia porsi il problema (che invece si porrà Newton) di quali forze di
coesione tengano uniti gli atomi semplici del composto. Sulla base di questa
fondamentale teoria e di moltissimi esperimenti chimici, egli nel Chemista Scepticus
(1661) critica le teorie correnti (sia quella aristotelica sia quella alchimistica) degli
elementi, notando come nelle reazioni chimiche certe sostanze rimangano invariate.
Avanza quindi questa teoria: essere elementi quelle sostanze la cui molecola fosse
composta di atomi omogenei, composti quelle sostanze la cui molecola fosse composta
di atomi eterogenei; miscugli (di cui riconobbe chiaramente il diverso comportamento
chimico rispetto ai composti) le sostanze composte di molecole eterogenee (e quindi in
genere separabili con mezzi fisici). In questo modo rompeva la concezione democriteo-
galileiana-gassendiana della omogeneità qualitativa di tutti gli atomi, introducendo
(come si farà poi nella chimica moderna) atomi, o meglio famiglie di atomi,
qualitativamente distinti. Però, per mancanza di chiari concetti sull'analisi volumetrica e
ponderale, la sua teoria non dava luogo a criteri operativi, sicché in pratica Boyle non
seppe isolare gli elementi, pur essendo chimico molto valente. Per questi motivi, e
nonostante il fatto che fossero in seguito riprese e sostenute dal grande Newton, le
teorie chimiche e atomistiche boyliane tarderanno di un secolo ad affermarsi.
Comunque, Boyle diede un imponente contributo alla meccanizzazione dell’universo
estendendo alla chimica le teorie meccanicistiche.
Altre interessanti applicazioni furono fatte da Boyle alla teoria del calore, che
egli interpretò come vivace agitazione molecolare (onde gli effetti chimici del calore
stesso), nonché alla determinazione del concetto di massa, interpretato teoricamente
come quantità di materia in dato volume, e praticamente come peso dell'unità di
volume. Da ricordare anche i suoi studi sull'aria, che egli compì in parte con la
collaborazione di Hooke; e con quest'ultimo egli perfezionò la pompa pneumatica
inventata da Otto von Guericke, e con l'aiuto di essa studiò la natura fisica dell'aria,
giungendo alla conclusione che essa è una entità materiale come tutte le altre, dotata
cioè di peso e di volume. Stabilì inoltre l'importante legge, scoperta anche in maniera
indipendente dal francese Edme Mariotte (1620-1684) che recita:
LEGGE BOYLE-MARIOTTE
In condizioni di temperatura costante la pressione di un gas perfetto è inversamente
proporzionale al suo volume, ovvero che il prodotto della pressione del gas per il volume da
esso occupato è costante:
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secolo prima la chimica ad assestarsi su quelle basi scientifiche per le quali invece
dovette aspettare fino a Lavoisier.
Hooke fece anche esperienze di diffrazione analoghe a quelle di Grimaldi, senza
però aggiungere niente di nuovo. Di ben diversa importanza furono, invece, gli
esperimenti e gli strumenti descritti nella sua opera Micrographia (1665), tra cui un
rifrattometro con il quale Hooke verificò la legge dei seni e trovò che non sempre alla
maggiore densità di un copro corrisponde una maggiore rifrangibilità. Inoltre, con lo
studio sulle lamine sottili, confutò la teoria dei colori di Cartesio, secondo il quale la
rotazione dei corpuscoli luminosi, causa della sensazione colorifica, s’iniziava al
momento della rifrazione e si annullava per una successiva rifrazione in senso
contrario. Nelle lamine sottili avvenivano due rifrazioni in senso contrario, ma il colore
permaneva.
Alla teorie cartesiana Hooke contrapponeva una teoria vibratoria. A suo parere,
la luce è provocata da uno scuotimento di un mezzo; lo scuotimento si trasmette
mediante pulsazioni perpendicolari alla direzione di propagazione. La velocità di
propagazione è grandissima ma non infinita, eguale in tutte le direzioni di un mezzo
omogeneo, come avviene per le onde generate alla superficie dell’acqua dalla caduta di
un sasso. Quando un’onda incontra un mezzo diverso da quello in cui si sta
propagando, cambia velocità. Ne segue, secondo un ragionamento alquanto confuso
dello scienziato, che la pulsazione da perpendicolare alla direzione di propagazione
diventa obliqua ed è appunto l’obliquità che causa la sensazione colorifica,
precisamente: “Il blu è un’impressione sulla retina di un’obliqua e confusa pulsazione di
luce, la cui parte più debole precede e quella più forte segue. E il rosso è un’impressione
sulla retina di un’obliqua e confusa pulsazione di luce, la cui parte più forte precede e
la più debole segue”. Gli altri colori sorgono dalla combinazione di questi due
fondamentali.
Gli esperimenti sulle lamini sottili di Hooke chiudono un periodo storico di quasi
un trentennio, durante il quale l’opinione scientifica più progressista seppe demolire la
millenaria credenza dei colori infissi nei corpi o risultati da mescolanze varie di luce e
ombra, sostituendola con la concezione che i colori sono modificazioni (sostanziali o
cinetiche) della luce pura, cioè della luce bianca. Spetterà a Newton arrivare alla
conclusione che il colore non è una modificazione della luce, ma esso stesso luce.
Gli scienziati di Parigi avevano preso l'abitudine di riunirsi in giorni fissi per
scambiarsi informazioni e discutere le questioni scientifiche d'interesse comune. Verso il
1666 Colbert, il ministro di Luigi XIV, sull'immediato esempio della costituzione della
Royal Society, capì il vantaggio e il prestigio che poteva venire allo stato, se la società
privata di scienziati che di fatto si era formata fosse stata riconosciuta ufficialmente.
Nacque così, nel corso del 1666, l'Academie des sciences, che contò dapprima ventun
membri, tra i quali ricorderemo Huygens e Mariotte. Sparita la generazione dei grandi
scienziati francesi - Cartesio, Fermat, Pascal - l'attività della nuova accademia scientifica
fu nei primi tempi modesta di quantità e d'originalità, aumentando, per contrasto, il
prestigio della Royal Society.
XIII e XIV secolo. Ai concorsi banditi dalle accademie partecipano i maggiori scienziati,
ai quali la vittoria conferisce un prestigio internazionale paragonabile al prestigio oggi
dato dalla vincita di un premio Nobel. L'esempio delle accademie francese e inglese,
centri di propulsione della ricerca e della diffusione scientifica, si va rapidamente
estendendo in Europa nel XVIII secolo, dall'Olanda alla Germania, alla Scandinavia,
all'Austria, alla Russia. Degne di nota sono: l’Accademia di Berlino, fondata nel 1700 su
un progetto di Leibniz e l’Accademia di Pietroburgo, istituita nel 1724 da Pietro il
Grande.
sfondare una porta aperta, come oggi si può ritenere. La diffidenza verso lo studio delle
scienze sperimentali era ancora grande, fomentata da interessi privati, come il
mantenimento delle tradizionali cattedre universitarie. Si accusava la scienza
sperimentale d'introdurre novità non necessarie, di corrompere i giovani spingendoli a
indagare e a discutere su tutto, d'indurre alla disobbedienza verso i governi, di
danneggiare le università, di essere pericolose per la religione cristiana e per le Chiese, e
via di questo passo. Oggi si può riconoscere che i timori non erano infondati: la scienza
sperimentale ebbe davvero una funzione liberatrice per l'uomo, sia pure con un'azione
molto lenta protrattasi nei secoli.
Principia dovevano pertanto inserirsi, secondo il loro autore, in un solco già tracciato da
lungo tempo: Newton sosteneva infatti che il compito che egli si prefiggeva era quello
di “coltivare la matematica per quella parte che attiene alla filosofia”, dove il termine
“filosofia” indicava la filosofia naturale, e cioè l'indagine fisica sul mondo. I Principia
sono organizzati in sezioni. All'inizio vengono enunciate alcune definizioni relative alla
quantità di materia, alla quantità di moto e alle forze, nonché alcune considerazioni che
fanno parte di uno Scolio dedicato ai concetti di spazio, di tempo e di moto. Secondo
Newton occorre distinguere tra lo spazio assoluto: “per sua natura senza relazione ad
alcunché di esterno” e “sempre uguale e immobile” e lo spazio relativo. Quest'ultimo è la
“misura dello spazio assoluto”, il risultato di un'operazione realizzata dagli uomini.
Considerazioni analoghe valgono per il tempo. Ne segue che quando si usa la parola
“moto”, bisogna distinguere tra un moto assoluto e uno relativo: il primo è infatti “la
traslazione di un corpo da un luogo assoluto in un luogo assoluto”, mentre il secondo
riguarda la traslazione da un luogo relativo ad un altro.
Sorge un problema: è possibile distinguere un moto assoluto da un moto
relativo? Supponiamo di prendere in considerazione un corpo collocato su una nave in
movimento. Secondo Newton ha senso parlare di “moto vero ed assoluto” di quel corpo,
intendendo quel movimento che nasce “in parte dal moto vero della Terra nello spazio
immobile, in parte dai moti relativi sia della nave sulla Terra, sia del corpo sulla nave”.
È comunque necessario stabilire il moto vero della Terra nello spazio assoluto, e per far
ciò è indispensabile un punto di riferimento preciso, ovvero un luogo immobile. Scrive
in proposito Newton: “I moti totali e assoluti non si possono definire che per mezzo di
luoghi immobili... Ma non esistono luoghi immobili salvo quelli che dall'infinito per
l'infinito conservano, gli uni rispetto agli altri, determinate posizioni; e così rimangono
sempre immobili, e costituiscono lo spazio che chiamo immobile”. La difficoltà di questa
definizione non risiede soltanto nel linguaggio newtoniano, ma nella natura stessa del
problema. Newton è perfettamente consapevole che “nelle cose umane“ è lecito far
riferimento a luoghi e a moti relativi. Ma, aggiunge subito, “nella filosofia occorre
astrarre dai sensi”, e cioè eliminare ogni riferimento a ciò che è legittimo utilizzare nella
vita di ogni giorno. In altre parole, occorre legare i nostri ragionamenti sui moti a luoghi
assoluti e a tempi assoluti, anche se, negli esperimenti e nelle misure sugli spostamenti
compiuti dai corpi reali, non possiamo fare altro che ragionare su dati relativi. A questo
punto appare allora necessario introdurre una sottilissima analisi che riguarda “gli
effetti per i quali i moti assoluti e relativi si distinguono gli uni dagli altri”.
L'analisi prende in considerazione i moti circolari, e si basa sul celebre
esperimento del secchio rotante attorno al proprio asse. Il punto centrale è: quanto ci
può dire la fisica su una questione importante e fondamentale come quella della natura
intrinseca dello spazio e del tempo? Spazio e tempo esistono di per sé,
indipendentemente dagli oggetti di cui è popolato il mondo fisico (concezione assoluta
di Newton), o esistono solo in quanto relazioni di tipo spaziale o temporale tra questi
oggetti (concezione relativa di Leibniz)? Dunque per Newton, il vero tempo e il vero
spazio sono quelli assoluti “senza relazione ad alcunchè con l’esterno”, per cui non possono
essere osservati con i sensi, da cui la necessità di considerare nella pratica, le loro
“misure sensibili”, cioè lo spazio e il tempo relativi. L’impossibilità di osservare il tempo
e lo spazio assoluti è di fatto il punto critico, e in quanto tale messo in discussione da
Leibniz, della concezione newtoniana: perché postulare l’esistenza fisica di qualcosa che
non si può osservare e che non ha, apparentemente, effetti sul mondo materiale?
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Newton è consapevole del problema e cerca un modo per giustificare, tramite effetti che
siano invece osservabili e quindi misurabili, la necessità dell’esistenza di quantità
assolute. La sua soluzione è usare effetti dinamici (i cosiddetti effetti inerziali), quali “le
forze di allontanamento dall’asse del moto circolare”, come nell’esperimento del secchio
rotante, dove è appeso ad un filo, ed è fatto ruotare attorno al proprio asse sino a che il
filo non si trovi in uno stato di grande torsione. Si susseguono tre situazioni: all’inizio,
sia il secchio che l’acqua sono fermi (non c’è moto relativo tra secchio e acqua); poi, il
secchio comincia a ruotare, ma il moto ancora non si è comunicato all’acqua, la cui
superficie rimane piana(c’è un moto relativo del secchio rispetto all’acqua); infine, il
moto di rotazione si è comunicato all’acqua, la cui superficie s’incurva per effetto della
forza centrifuga “l'acqua comincerà a ritirarsi a poco a poco dal centro e salirà verso i
lati del vaso, formando una figura concava”, fino alla completa stabilizzazione della
figura concava (il moto relativo tra secchio e acqua è di nuovo nullo). E allora, alla fine
del moto rotatorio, si può dire che, in quel momento, l'acqua compie le “sue rivoluzioni
insieme al vaso in tempi uguali”: tra acqua e vaso si ha quindi una “quiete relativa”.
La conclusione di Newton dal confronto delle tre situazioni è che il moto relativo
dell’acqua rispetto al secchio non può giustificare l’effetto inerziale dell’incurvamento
della superficie dell’acqua (visto che il moto relativo è nullo e compatibile sia con la
superficie piana sia con la superficie curva dell’acqua). A parere di Newton la salita
dell'acqua “indica lo sforzo di allontanamento dall'asse del moto, e attraverso tale
sforzo si conosce e viene misurato il vero e assoluto moto circolare dell'acqua”. In
definitiva ne segue che l’effetto inerziale è dovuto a un moto non relativo, e quindi a un
moto rispetto allo spazio assoluto. Lo scienziato, pertanto, non è limitato dalle
esperienze a considerare solamente i moti relativi. Egli, attraverso lo studio dei moti
circolari e delle forze agenti, può anche conoscere dei moti assoluti. Newton commenta
il risultato raggiunto con una osservazione: “E’ difficilissimo in verità conoscere i veri
moti dei singoli corpi e distinguerli di fatto dagli apparenti: e ciò perché le parti dello
spazio immobile, in cui i corpi veramente si muovono, non cadono sotto i sensi. La cosa
tuttavia non è affatto disperata”. Questo modo di argomentare era errato, in quanto
mancava ancora una concezione matura del principio d’inerzia che permettesse di
indagarne criticamente i fondamenti (moto uniforme e rettilineo rispetto a quale sistema
di riferimento?), e si aveva il torto di ipostatizzare la forza centrifuga, considerandola
quasi come un ente a sé, distinta dall’inerzia. Si dovrà attendere fino a Mach, nella
seconda metà dell’Ottocento, per raggiungere un chiarimento definitivo dal quale
appare che le forze centrifughe sono originate da una rotazione relativa alle stelle fisse,
in quanto se non si ha rotazione relativa a tali stelle, siffatte forze non esistono.
Comunque, nel suo ragionamento, Newton procede come se la forza fosse qualcosa di
estraneo alle strutture metriche dello spazio fisico, e perciò un quid di reale, che opera
nello spazio, ma non è in sé spaziale: questo per lo meno nei riguardi dello spazio vero,
cioè dello spazio assoluto. Per Newton, quindi, la forza è un ente primitivo irriducibile
allo spazio e al tempo.
Le critiche alla concezione newtoniana non si fecero attendere. Berkeley, filosofo
empirista del settecento, osservava che se in tutto lo spazio esistesse un solo corpo, non
avrebbe significato dire che esso ruota o si muove a destra o a sinistra, in alto o in basso.
Più approfondite sono le ragioni filosofiche che a Newton oppone il suo rivale Leibniz,
per il quale i fenomeni di moto vanno considerati rispetto alla totalità dei corpi
costituenti l’universo; per Leibniz, infatti, lo spazio è l’ordine delle cose che coesistono e
il tempo l’ordine delle cose che si succedono. È doveroso osservare che, mentre
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Newton dice di voler fondare la sua filosofia sull’osservazione e l’esperimento, pone poi
a base della sua costruzione uno spazio e un tempo assoluti, enti astratti,
completamente sottratti alla nostra percezione sensibile. Essi gli appaiono come
attributi divini, capaci di spiegare, da un punto di vista più alto, la realtà fenomenica.
Dunque, sebbene Newton introduca moto, tempo e spazio assoluti come limiti, tuttavia
come risultato viene a proiettare il mondo fisico sullo sfondo di un tempo e spazio
assoluto nel quale sono i fenomeni, e quindi non è soltanto l’ordine dei fenomeni come
tali (come invece sarà per la teoria leibnitziana e kantiana). Sul che si innesta il suo
contingentismo: il mondo potrebbe essere spostato nello spazio, e Dio lo ha messo qui e
non altrove unicamente perché ha voluto così (dottrina, come ha osservato giustamente
Leibniz, del tutto priva di senso).
Va tenuto presente che lo Scolio newtoniano sullo spazio, il tempo e il moto è un
documento basilare da due punti di vista. In primo luogo esso contiene argomenti che,
secondo Newton, debbono essere considerati come fondamenti (insieme alle definizioni
di cui già s’é detto) della filosofia naturale. In secondo luogo esso implica una
concezione dell'assoluto e del relativo che per più di due secoli rimarrà pressoché
inalterata. Solo le critiche di Mach e le riflessioni di Einstein riusciranno ad andare oltre
quella concezione, nei travagliati anni compresi tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del
Novecento. Dopo le definizioni e lo Scolio, Newton introduce un gruppo di assiomi o di
leggi del movimento, quelle che oggi vanno sotto il nome di Principi della dinamica:
SECONDO PRINCIPIO
In ogni istante l'accelerazione di un corpo è determinata dalla forza non equilibrata che
agisce su di esso: l'accelerazione ha la stessa direzione e lo stesso verso della forza, il suo
modulo è proporzionale alla forza e inversamente proporzionale alla massa del corpo:
!
! ! !
dp massa
F= → F = m⋅ a
cos tan te
dt
TERZO PRINCIPIO
Se su un corpo agisce una forza, allora esiste un altro corpo su cui agisce una forza uguale e
contraria. Ovvero, ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria.
superfici piane) rappresentano una traiettoria standard, detta la più breve (per
definizione, in quanto tutti gli strumenti della fisica sono costruiti presupponendo
appunto come più brevi la retta e il piano euclidei). Questa, come abbiamo visto, era
anche la concezione cartesiana. Tuttavia il più schietto empirismo e strumentalismo
newtoniano turba questa concezione matematica dello spazio fisico, sollevando
problemi di interpretazione che probabilmente non sono solubili. Quanto al terzo
principio, Newton non sostiene di essere lo scopritore, ma tuttavia è il primo ad
enunciarlo in forma così generale, ed interessanti sono gli esperimenti, ideali e reali, che
egli fornisce. Supponiamo che due corpi che si attraggono mutuamente giungano a
toccarsi. Se la forza dell’uno superasse quella dell’altro, il sistema complessivo sarebbe
soggetto ad una forza risultante pari alla differenza fra le due forze attrattive. Tale
sistema, perciò, in base alla seconda legge, dovrebbe muoversi all’infinito di moto
uniformemente accelerato, e questo è evidentemente impossibile. Dunque le due forze
con cui si attraggono reciprocamente due corpi, che possono essere due masse nello
spazio o una calamita e un pezzo di ferro, debbono essere assolutamente uguali. Altro
esempio con le parole di Newton: “Se si pongono il ferro e la calamita su due vascelletti
in acqua stagnante, e se questi vascelletti si toccano, nessuno dei due si muoverà, ma
per l’uguaglianza delle loro attrazioni essi sosterranno gli sforzi reciproci e trovandosi
in equilibrio rimarranno in quiete”.
Il gruppo di assiomi è seguito da alcuni corollari, quali ad esempio quello che
riguarda il cosiddetto parallelogramma delle forze: “Un corpo spinto da forze
congiunte, descriverà la diagonale di un parallelogramma nello stesso tempo nel quale
descriverebbe separatamente i lati”. Newton non dimostra che le tre leggi sono vere. Le
presenta al lettore come se fossero assiomi e, in uno Scolio collocato dopo i corollari,
scrive semplicemente quanto segue: “Fin qui ho riferito i principi accolti dai
matematici e confermati da numerosi esperimenti”. Ad esempio Newton sostiene, nello
Scolio, che Galilei conosceva le due prime leggi e i due primi corollari, e ne fece uso per
ricavare la legge di caduta dei gravi e la legge sui moti parabolici dei proiettili.
Il mondo della meccanica di Newton è abbastanza semplice: particelle che si
muovono nello spazio, nel corso del tempo, attirandosi per mezzo di forze. E’ il mondo
democriteo che si combina con la matematica, ossia con l’eredità pitagorica e la grande
tradizione della fisica matematica. Il mondo di Newton è il mondo di Democrito
matematizzato:
UNIVERSO DI NEWTON
quanto quest'ultima non aveva gli apparati teorici capaci di prendere effettivamente in
considerazione il comportamento di un corpo che si muove in un mezzo resistente ma
era spesso obbligata a esaminare solamente dei casi ideali di moto nel vuoto; la seconda
consiste invece nell'impulso che questa parte dei Principia fu in grado di imprimere alle
ricerche sull'idrodinamica.
Va altresì detto che il secondo libro è stato spesso giudicato come una parte del
capolavoro newtoniano che non si inseriva armoniosamente nel complesso dei Principia,
se non in quanto esaminava problemi la cui soluzione si prestava ad essere messa in
gioco come arma critica nei confronti della fisica di Cartesio. Questa valutazione è solo
in parte giusta. La fisica cartesiana dei vortici era un ostacolo che Newton intendeva
abbattere, e una buona teoria dei fluidi rappresentava in tal caso un ottimo strumento
critico. Tuttavia la teoria newtoniana dei fluidi non si riduce a questo solo aspetto. Essa
è parte integrante della meccanica se si ammette una delle implicazioni più profonde
della teoria matematica di Newton, e cioè l'implicazione per la quale è possibile
unificare in una sola teoria la fisica del moto terrestre galileiana e la fisica dei moti
planetari. Sotto il profilo dell'unificazione, la teoria dei fluidi è una parte essenziale
della meccanica. Ciò non toglie che la teoria dei fluidi sia davvero una potente arma
contro la fisica cartesiana. Nello Scolio che chiude il secondo libro quest'arma porta
Newton a dichiarare, senza mezzi termini, che “l'ipotesi dei vortici urta totalmente
contro i fenomeni astronomici, e conduce non tanto a spiegare quanto ad oscurare i
moti celesti”. Il lettore dei Principia è infatti invitato a tenere presente che solo i teoremi
del primo libro permettono di capire “in qual modo questi moti si effettuino negli spazi
liberi indipendentemente dai vortici”. In tal modo Newton stabilisce un rapporto tra i
primi due libri e il terzo, che è dedicato espressamente al “sistema del mondo” e nel
quale si discute di astronomia.
Il terzo libro inizia con la seguente considerazione: “Nei libri precedenti ho
trattato i Principi della Filosofia, non filosofici tuttavia, ma soltanto matematici, a
partire dai quali, però, si può discutere di cose filosofiche”. Dati i principi, e cioè il
gruppo delle definizioni, degli assiomi, dei teoremi e delle dimostrazioni, “rimane da
insegnare l'ordinamento del sistema del mondo”, intendendo che questo ordinamento si
può ricavare dai principi stessi”.
Per il passaggio dai principi al sistema del mondo Newton pensa sia necessario
fissare alcune regulae philosophandi, viste come guide per chi desidera andare dalla
geometria del primo libro ai moti del sistema solare, ossia giustificare l’unità delle leggi
meccaniche e la loro validità in tutto l’universo. È quanto mai opportuno, allora, citare
le quattro regole newtoniane, attraverso la rielaborazione nella seconda edizione dei
Principia.
1. Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che
sono vere e bastano a spiegare i fenomeni.
2. Perciò, finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad effetti
naturali dello stesso genere.
3. Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e quelle che
appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile impiantare esperimenti, devono
essere ritenute qualità di tutti i corpi. (La terza regola mette in discussione il
significato delle qualità dei corpi).
4. Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni,
devono, nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere, o rigorosamente
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o quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali
o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni. (La quarta regola
prende in considerazione il problema dell’induzione).
verificazione; qualunque discussione sulla sua verità o falsità è pertanto priva di senso.
L’hypotheses non fingo sarà destinato a divenire, nel Settecento, l’insegna della filosofia
sperimentale: è anche possibile che la gravitazione non sia una legge ultima della
natura, che si possa ricondurre a cause meccaniche e quindi risolvere analiticamente
nelle idee di spazio e moto, ma la philosophia experimentalis deve procedere per
induzione dai fatti osservati, per generalizzazioni successive, e non oltrepassare mai il
piano dell'osservazione sensibile e dell'esperimento, per ora non si può riportare la
gravitazione ad alcuna causa meccanica. Proprio in base a questa considerazione,
l’hypotheses non fingo venne interpretato nell’Ottocento come la più tipica espressione
della metodologia positivistica, e cioè come il severo richiamo a non confondere
l’autentica scienza con la creazione di spiegazioni dei fenomeni, ossia l’invito ad
accogliere nel patrimonio delle conoscenze scientifiche soltanto ciò che la natura stessa,
opportunamente interrogata, è in grado di suggerirci.
Un più attento e realistico esame dell’opera di Newton ci conduce tuttavia a
conclusioni alquanto più caute. Non si vuole certo negare che il senso profondo del
canone newtoniano vada proprio cercato nel richiamo all’esperienza, intesa come
controllo indispensabile di ogni affermazione che intenda venire accolta nella scienza
fisica; si vuole però sottolineare che la tecnica di questo controllo non risulta affatto
precisata dall’anzidetto richiamo. È del resto ben noto che tale precisazione costituisce
ancora oggi un problema tutt’altro che risolto dagli epistemologi.
Bisogna d’altro canto aggiungere che lo stesso Newton lo interpretò, quando ciò
gli tornava utile, con la massima libertà, segno che in esso vi scorgeva soltanto
un’indicazione molto generica, e non una prescrizione da intendersi alla lettera (non
certo una condanna di ogni uso delle ipotesi in fisica e tanto meno una condanna di
ogni idealizzazione dei fenomeni operata dalla matematica). A conferma di ciò basti
ricordare che egli stesso introdusse nella meccanica alcune nozioni, come quelle di
spazio e di tempo assoluto, tutt’altro che riducibili ai semplici dati dell’esperienza, e che
non ebbe affatto timore di fare ricorso all’ipotesi corpuscolare per fornire una
spiegazione scientifica dei fenomeni luminosi. Possiamo dunque affermare che il rifiuto
newtoniano delle ipotesi non può venire inteso, come pretendevano i positivisti
dell’Ottocento, quale affermazione che tutto il lavoro dello scienziato debba esaurirsi
nella pura e semplice sperimentazione. Al contrario, Newton comprese molto bene che
l’idealizzazione matematica dei fenomeni, che contiene in sé sempre qualcosa di
ipotetico, è altrettanto importante, per lo scienziato, quanto l’interrogazione della
natura. L’essenziale è che tale idealizzazione non resti uno schema puramente teorico,
ma dia luogo a conseguenze verificabili nell’esperienza e quindi possa fungere come
guida per l’impostazione della ricerca fisica. Da questo punto di vista il rifiuto delle
ipotesi esprime soltanto la giusta preoccupazione che il risultato ottenuto in sede
ipotetico-matematica non venga accolto come automaticamente vero anche in sede
fisica; interpretarlo, invece, come una mitizzazione del puro sperimentalismo
significherebbe travisare la metodologia newtoniana, significherebbe perdere di vista la
sua intrinseca apertura sia verso l’esperienza sia verso l’elaborazione teorica, da attuarsi
con precisi strumenti matematici.
Lo Scolio, tuttavia, non termina con la dichiarazione metodologica dell’hypotheses
non fingo, ma prosegue con alcune righe dedicate all'etere, che Newton definisce come:
“quello spirito sottilissimo che pervade i grossi corpi e che in essi si nasconde”. È l’etere,
ammette Newton, che con la sua forza e le sue azioni fa sì che le particelle interagiscano
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tra loro a brevi distanze, che si manifestino le interazioni tipiche dei corpi elettrizzati,
che siano osservabili i fenomeni luminosi e che sia possibile la sensazione stessa, dovuta
alle “vibrazioni di questo spirito”. Conclude Newton: “Ma queste cose non possono
essere esposte in poche parole; né vi è sufficiente abbondanza di esperimenti mediante i
quali le leggi delle azioni di questo spirito possano essere accuratamente determinate e
mostrate”.
Le considerazioni sull’etere pongono necessariamente due riflessioni ancora
sull’hypotheses non fingo. Se è vero il canone metodologico secondo il quale non ci sono
nella fisica di Newton concezioni e leggi che non siano necessariamente poste dai dati
dell’esperienza, allora le teorie di Newton non avrebbero mai dovuto richiedere delle
modificazioni o potuto contenere implicite delle conseguenze che gli esperimenti non
confermano, poiché, in un caso del genere, ogni conseguenza sarebbe altrettanto
indubitabile e definitiva come lo sono i fatti sperimentali. Nel 1885, tuttavia,
l’esperimento di Michelson-Morley rivelò un fatto (la non esistenza dell’etere,
contrariamente a quanto sosteneva Newton) che non avrebbe dovuto sussistere se gli
assunti teoretici di Newton fossero stati assolutamente veri. Ciò rese evidente che la
relazione tra i fatti sperimentali e le supposizioni teoriche è del tutto diversa da quella
eventualmente concepita da Newton. In altri termini, ciò significa che la teoria fisica
non è né una semplice descrizione di fatti sperimentali né qualcosa di deducibile da tale
descrizione. Invece, come Einstein metterà in rilievo, si perviene ad una teoria fisica
attraverso mezzi puramente speculativi. La deduzione, nel suo procedimento, non va
dai fatti alle ipotesi teoriche ma da queste ai dati sperimentali. Di conseguenza le teorie
debbono essere proposte in linea speculativa e sviluppate deduttivamente rispetto alle
loro molteplici conseguenze, in modo da poterle sottoporre a prove sperimentali
indirette. In sintesi, ogni teoria fisica costruisce sempre un numero di supposizioni
fisiche e filosofiche maggiore di quello che i semplici dati sperimentali fornirebbero o
implicherebbero.
La seconda riflessione riguarda la possibilità di conciliare la regola dello Scolio
Generale che vieta di fare ipotesi e che invita gli studiosi ad accettare una teoria per la
quale “è sufficiente che la gravità esista di fatto”, con la conclusione dello Scolio stesso,
nella quale il lettore è rinviato allo “spirito sottilissimo”? Non è agevole trovare una
risposta, se non nelle riflessioni fatte in precedenza. Come molti storici hanno ormai
dimostrato, Newton evitava quasi sempre le occasioni di discutere sulle ipotesi, in
quanto desiderava rimanere estraneo, nei limiti del possibile, alle dispute. Ciò
evidentemente crea difficoltà di ogni genere nell'interpretazione delle pagine
newtoniane, anche perchè è ormai noto che, nella sua pratica scientifica, Newton
violava con notevole frequenza le regole filosofiche e metodologiche pubblicate nei
Principia. La lettera inviata a Boyle, nella quale l'etere appariva come un mezzo le cui
proprietà fisiche avrebbero potuto spiegare l'attrazione tra i corpi, non è per fortuna il
solo documento che Newton ci abbia lasciato. Sono particolarmente interessanti, per
quanto riguarda le ipotesi sulla gravitazione, le quattro lettere che Newton inviò a
Bentley tra il dicembre del 1692 e il febbraio del 1693. Nella seconda lettera si può
leggere come Newton fosse desideroso di allontanare da sé ogni sospetto e ogni critica a
proposito della causa della gravità: “Voi parlate a volte della gravità come essenziale e
inerente alla materia. Vi prego di non attribuirmi una simile nozione; infatti la causa
della gravità è ciò che io non pretendo di conoscere”.
La terza lettera era ancor più esplicita: “E’ inconcepibile che la materia bruta e
inanimata possa, senza la mediazione di qualcosa di diverso che non sia materiale,
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operare ed agire su altra materia senza contatto reciproco, come dovrebbe appunto
accadere se la gravitazione nel senso epicureo fosse essenziale o inerente alla materia
stessa. E questa è la ragione per cui desidero che non mi si attribuisca la gravità come
innata. Che la gravità possa essere innata, inerente e essenziale alla materia, così che
un corpo possa agire su un altro a distanza e attraverso un vuoto, senza la mediazione
di qualcosa grazie a cui e attraverso cui l'azione e la forza possano essere trasportate
dall'uno all'altro, ebbene, tutto ciò è per me un'assurdità così grande, che io non credo
che un uomo il quale abbia in materia filosofica una capacità di pensare in modo reale,
possa mai cadere in essa. La gravità deve essere causata da un agente che agisca
sempre secondo certe leggi; e ho lasciato alla considerazione dei miei lettori il problema
se quell'agente è materiale o immateriale”.
Questo passo deve far riflettere. Chi legge i Principia nella prima e nella seconda
edizione, infatti, non ha elementi sufficienti per capire l'effettiva posizione di Newton
nei confronti dell'etere e della gravità. Non a caso la diffusione del newtonianesimo
passò attraverso una lettura dei Principia nella quale svolgevano un ruolo di primissimo
piano le argomentazioni contenute nello Scolio Generale: per circa due secoli,
generazioni di intellettuali nutrirono l'opinione che al centro del metodo trionfante di
Newton stesse il celebre motto Hypotheses non fingo. Eppure, nel cuore stesso delle
ricerche realmente svolte da Newton, le ipotesi, ivi comprese le ipotesi sull'etere,
svolsero un ruolo fondamentale. La terza lettera a Bentley, se non altro, sta a
testimoniare come Newton fosse lontano da quella immagine della gravitazione che nel
Settecento e nell’Ottocento fu invece coltivata come una genuina raffigurazione della
scienza dei Principia. Nessuno fu più antinewtoniano di Newton, se essere newtoniani
significa, come significò per generazioni di studiosi, credere che l'azione gravitazionale
sia un'azione a distanza che si esercita nel vuoto.
Più tardi, nelle grandi Questioni che chiudono l'Opticks, Newton, supponendo lo
spazio pieno di etere, tenterà di spiegare la gravitazione mediante una pressione di
questo etere; e poiché l’etere è lo spazio stesso in quanto spazio materiale, fisico, ciò
equivale ad un tentativo (peraltro presentato in forma dubitativa, come mera ipotesi,
anzi come argomento di ricerca) di ricondurre la gravitazione ad una struttura dello
spazio fisico in sé. Ma nei Principia, a proposito delle forze centrali attrattivo-repulsive
in generale, Newton dichiara esplicitamente che considera tali forze come semplici
fictiones matematiche, cioè come modelli mediante i quali si ottiene una buona
spiegazione-previsione dei comportamenti fisici, non come qualche qualità o virtù
intrinseca nei corpi stessi. Si deve intendere questo soltanto per le forze centrali che
implicano qualche actio in distans, oppure si deve estendere in generale al concetto di
forza? Alla luce dei testi e dell'intera struttura del sistema della fisica newtoniana è
difficile dare una risposta.
Sebbene storicamente meno importante, l'Opticks (1704) è, ai fini della
comprensione della filosofia, cioè del pensiero scientifico, di Newton, l'opera di gran
lunga più importante, soprattutto per le Questioni in cui l'autore presenta una serie di
importanti ipotesi speculative sulle strutture ultime della materia come temi di future
ricerche per chi vorrà intraprenderle. Nell’Ottica, Newton dice: “Il problema
fondamentale nella filosofia naturale è di procedere dai fenomeni, senza fare uso di
false ipotesi, e di dedurre le cause dagli effetti, fino a che si arriva ad una Causa Prima
che certamente non è meccanica... E non risulta forse proprio dai fenomeni stessi che
esiste un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente, che nello spazio infinito,
come nel proprio sensorio, vede le cose intimamente, le percepisce profondamente, e le
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plurimolecolare) c’è il vuoto: gli atomi sono tenuti insieme da forze attrattive di tipo
gravitazionale, per quanto però Newton sospetti che siano matematicamente diverse, in
quanto l'attrazione deve essere inversamente proporzionale a potenze della distanza
superiori alla seconda, ossia cubica o biquadratica, cioè deve essere assai forte per
distanze molto piccole, ma debolissima non appena quelle distanze sorpassino una
certa misura. Con questa ipotesi Newton spiegava molti e diversi fenomeni naturali:
oltre quelli ottici, come abbiamo visto, e molti comportamenti chimici, anche per
esempio interpretava il calore come movimento disordinato delle particelle (quindi un
movimento anticoesivo, che spiegherebbe come mai la maggior parte delle dissociazioni
e sostituzioni chimiche avvengano a caldo).
Nel complesso, l’opera di Newton è forse il più compiuto modello che abbia mai
avuto la fisica di armonica fusione di fatti sperimentali e considerazioni teoriche e chi
legge le opere di Newton non può che rendersi conto di quanti problemi fossero rimasti
insoluti accanto a quelli risolti, e di come Newton stesso fosse cosciente della ampiezza
dell'ignoto e delle difficoltà che dovevano ancora essere superate per garantire la
validità delle soluzioni date al sistema del mondo. Se si tiene anche conto dei
trionfalismi di un certo newtonianesimo di maniera, assai diffuso nel Settecento e
nell'Ottocento, credo che non vi sia conclusione migliore di quella che appare dalle
seguenti parole di Einstein: “Newton stesso era ben più cosciente della debolezza insita
nel suo edificio intellettuale di quanto non lo fosse la generazione di dotti scienziati che
gli seguì. Questo fatto ha sempre destato la mia più profonda ammirazione”.
prodotte dalle varie combinazioni delle qualità primarie come il colore, il sapore, il
suono, ecc.
Le idee semplici costituiscono i materiali della conoscenza, quelle di cui
possiamo avere certezza, perché intuitivamente apprese in base al criterio dell'evidenza
sensibile; proprio per questo le idee semplici rappresentano la vera essenza delle cose,
esse sono anche il suo limite. L'intelletto non è però solo passivo; ha il potere, infatti, di
combinare e comparare le idee semplici creando una infinità di idee complesse. Tra le
molteplici idee complesse particolarmente importanti sono le idee complesse di
sostanza. Le idee complesse di sostanza sono quelle combinazioni di idee semplici che
spingono l'intelletto a rappresentarsi l'idea di un che di sussistente per se stesso, al
quale tutte quelle idee semplici possono essere riferite (ad esempio: l'uomo, l'albero, la
sedia). Tali idee hanno origine dalla consuetudine che la mente ha di considerare un
certo numero di idee semplici costantemente insieme, ma non sono affatto certe, ma
solo altamente probabili. Pertanto le idee complesse non sono conoscibili poiché esse
possono essere risolte sempre a partire dalle idee semplici che ineriscono in essa. Per
Locke, quindi, la sostanza è qualcosa di oscuro e indeterminato quel quid che senza le
idee semplici si dissolve nel nulla.
Il limite della conoscenza umana viene così fissato con chiarezza: l'uomo non ha
alcuna conoscenza dell'essenza delle cose perché è privo delle facoltà di raggiungerla.
L'intelletto umano per Locke non può andare oltre l'ambito dei fenomeni.
sono “cose relative”; per cui, per esempio, non ha senso dire, come diceva Newton, che
Dio avrebbe potuto collocare il cosmo astronomico (che a quel tempo veniva pensato
finito) più a destra o più a sinistra di dove lo ha collocato, perché, osserva Leibniz, un
cosmo collocato più a destra o più a sinistra dell'attuale, tutto il resto rimanendo
identico, ne risulterebbe al tutto indiscernibile, quindi sarebbe ad esso identico.
Resta il problema del moto. Non più proiettato contro lo sfondo di uno spazio
assoluto, cessa di essere qualcosa di estrinseco ai mobili, per divenire (un principio
fondamentale della filosofia leibniziana secondo cui non esistono denominazioni
puramente estrinseche) denominazione intrinseca. Anche qui la mera traslazione
spaziale è il fenomeno, l'apparenza sulla quale può operare il sapere intellettuale, ma
che rappresenta soltanto un'impalcatura provvisoria. In realtà ogni mutamento è il
prodotto di un'energia interna alla sostanza individuale semplice (o monade, di cui
l'energia cinetica è la manifestazione fisica più adeguata), per cui essa passa attraverso
una serie di mutamenti (percezioni) derivanti dalla legge costitutiva della monade
stessa (e appunto per questo, che esse derivano sempre e soltanto da tale legge
costitutiva, tutte le denominazioni sono intrinseche). L’introduzione del concetto di
monade segna per Leibniz la raggiunta possibilità di estendere al mondo fisico il suo
concetto dell'ordine contingente e di unificare perciò il mondo fisico e il mondo
spirituale in un ordine universale libero.
Il termine monade vuol sottolineare l’inconfondibilità delle sostanze singole con
gli atomi materiali: “Gli atomi non sono che l’effetto della debolezza della nostra
immaginazione, la quale, per trovare riposo, volentieri arresta a un dato punto le sue
divisioni e le sua analisi”.; le monadi, invece, sono indivisibili in se stesse e non per la
pigrizia del soggetto nel proseguire la propria analisi. La monade è atomo spirituale,
una sostanza semplice, senza parti, e quindi priva di estensione o di figura e
indivisibile. Come tale, non si può disgregare ed è eterna: soltanto Dio può crearla o
annullarla. Ogni monade è diversa dall'altra: non vi sono in natura due esseri
perfettamente uguali, cioè che non siano caratterizzati da una differenza interiore.
Leibniz insiste su questo principio che egli chiama della identità degli
indiscernibili. Due cose non possono differire solo localmente o temporalmente, ma è
necessario sempre che interceda fra esse una differenza interna. Due cubi uguali
esistono solo in matematica, non in realtà. Gli esseri reali si diversificano per le qualità
interiori; e anche se la loro diversità consistesse soltanto nella loro diversa posizione
nello spazio, questa diversità di posizione si trasformerebbe immediatamente in una
diversità di qualità interne e non rimarrebbe quindi una semplice differenza estrinseca.
Anche la materia è costituita di monadi. Essa non è veramente nè sostanza corporea nè
sostanza spirituale, ma piuttosto un aggregato di sostanze spirituali. Questo si collega
con la teoria della materia e in particolare con il giudizio di Leibniz sulla teoria atomica.
Il modello dell'atomo, particella materiale indivisibile e inerte che si muove del tutto
estrinsecamente sullo sfondo di uno spazio assoluto vuoto, è cosa che Leibniz non può
accettare. In primo luogo perché non c'è propriamente spazio, tanto meno quindi spazio
vuoto; in secondo luogo perché non si può pensare la materia come inerte e il moto
come estrinseco; finalmente perché se la materia è, cartesianamente, estensione, essa è
divisibile all'infinito. Tuttavia, riconosce Leibniz, in molti campi della meccanica il
modello atomico rende ottimi servigi, per cui esso ha una sua verità. Non bisogna però
attribuire a Leibniz una specie di pragmatismo ante litteram, neppure sul tipo di quello
che pochi decenni dopo si svilupperà in seno alla scuola newtoniana (Hume). Il fatto
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che l'ipotesi atomica è uno strumento di lavoro è segno che il concetto di atomo è un
simbolo, inadeguato e parziale, sì, ma valido nel mondo fenomenico, di una realtà più
profonda: la realtà dell'atomo metafisico, la monade, inestesa, semplice e sorgente di
energia. Di qui il tentativo, che fa di Leibniz il massimo pensatore scientifico di questo
periodo, di inserire nella propria visione complessiva anche i risultati della biologia,
superando i limiti della fisica-matematica entro i quali era rimasto tutto il pensiero
scientifico del Seicento.
L’universo di Leibniz costituito da sostanze individuali o monadi, assimilabili a
punti matematici o ad atomi, ma di essenza spirituale, dotate di quella forza che si
manifesta ovunque, è certamente una visione metafisica in contrasto con la concezione
atomica sia di Newton che di Cartesio, eppure sembra quella più moderna alla luce dei
successivi sviluppi della fisica. Infatti, all'inizio dell'ottocento alcuni fisici teorici, come
Ampere e Cauchy, sottolineranno che, specie con il progredire della fisica anche nei
campi dell'elettricità e del magnetismo, gli atomi tendevano sempre più a divenire
semplici centri o portatori di forze, che nulla avrebbe vietato di concepire come semplici
punti privi di estensione, in quanto centri da cui irradiano le forze medesime. Anche la
fisica moderna, quando si rivolge alle particelle elementari, è tutt'altro che aliena da
concezioni del genere. È naturale che, partendo da queste premesse, Leibniz possa
facilmente confondere, e talvolta anche in modo intenzionale, la forza nel suo concetto
più ampio, o addirittura puramente spirituale, e la forza come concetto della meccanica.
Non si tratta però di semplice confusione, giacché i suoi brani sull'argomento sono
ricchi di intuizioni suggestive, che talvolta si troveranno sviluppate poi da altri
pensatori: come in una progressione aritmetica ogni termine risulta individuato dal
precedente e dalla legge che regola la progressione stessa, così come ogni successivo
istante nell'infinito divenire di questo universo di monadi, è contenuto nel presente, e in
una suprema legge logico-matematica che lo governa. Questo pensiero lo ritroveremo,
un secolo più tardi, in un passo famoso di Laplace: se ci fosse consentito di esprimere
con una formula sintetica una proprietà essenziale di questo universo, potremmo allora
dedurre da essa tutti gli stati successivi di ogni singola parte dell'universo, in
qualunque istante desiderato. Pertanto, le monadi, che alla nostra mente raziocinante
appaiono materia e forza, hanno ciascuna una propria vita intima e progrediente che le
porta a esplicarsi, ad essere, in ciascun istante, diverse da ciò che erano prima; per cui
questo divenire è generato da ciò che la fisica, e l'intuizione comune, dicono forza, ma
che, guardata dal punto di vista filosofico, non è estrinseca alla monade: rappresenta,
piuttosto, “lo stato attuale del divenire, in quanto tende a, o preinvolve, il seguente,
onde ogni presente è gravido del futuro”.
Leibniz si attiene ad un principio di continuità e di permanenza del reale,
evidentemente suggerito dal suo sistema: i vari istanti dell'universo si equivalgono, non
c’è nessuno che possa contenere più realtà dell'altro. Perciò la stessa equivalenza deve
sussistere fra istante precedente e istante seguente, fra causa ed effetto. Da ciò il
fondamento metafisico della sua famosa legge di conservazione della forza viva. Lo
studio dell'urto dei corpi elastici o anelastici era da tempo all'ordine del giorno, e
Cartesio ne aveva tratto la sua legge della conservazione della quantità di moto anche
per lui connessa ad un principio metafisico. Entrambi questi principi di conservazione,
ispirati a visuali metafisiche, anche se esprimono una concezione troppo limitata e
quindi erronea, avviano tuttavia verso il principio più ampio della conservazione
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7.1 Introduzione
Il secolo XVIII segna il culmine dello sviluppo della scienza moderna prima che
essa subisse la grande trasformazione, e la conseguente crisi che, iniziatasi nell'epoca
romantica, ha caratterizzato la scienza contemporanea. Il programma baconiano di
procurare il dominio dell'uomo sulla natura e con esso il benessere per la società umana
mediante il sapere scientifico, in questo secolo non appare un sogno utopistico, bensì
uno scopo non solo storicamente attuabile, ma anzi in rapida via di attuazione, donde
l'ottimismo circa le sorti del genere umano, e soprattutto circa le possibilità che a questo
possono derivare dallo sviluppo della ragione e della scienza.
Ma quello che più caratterizza la posizione del pensiero scientifico nel Settecento
è la centralità che viene assegnata alla scienza in tutta quanta la cultura, dalla politica
fino all'arte e alla religione. Il progresso delle scienze, i nuovi orizzonti che in virtù di
tali progressi esse vengono ad aprire facendo vaste brecce in tutti i campi della cultura
tradizionale, l'autorità di cui esse godono fanno sì che tutti i campi della cultura
vengano permeati di spirito scientifico e di fiducia in tale spirito. La scienza viene così a
costituire non solo e non tanto il fondamento materiale, quanto con una ripresa
dell'ideale cartesiano che va ben al di là dei limiti storici del cartesianesimo, un modello
da imitare. La mente umana ravvisa nella ragione scientifica la base della propria
sicurezza e della propria libertà il fondamento su cui edificare un sapere che la svincoli
dai terrori dell'aldilà e dai pregiudizi tradizionali. E questo atteggiamento sarà detto
Illuminismo e verrà assunto a definire non solo la cultura del Settecento ma un aspetto
ricorrente della civiltà occidentale di tutte le epoche e di tutte le nazioni.
Il Settecento, pur non annoverando, sul piano strettamente scientifico, figure
eccezionali e contributi originali come quelli dovuti nel Seicento a Galileo, Cartesio,
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Fermat, Newton, Huygens, Leibniz, è, però, nel Settecento che si consolida una vera e
propria cultura scientifica e si plasma in maniera definitiva il volto della civiltà
moderna, così come del resto accade sul terreno politico (dopo la preparazione del
Cinquecento, nel Seicento si consolidano le forme degli stati moderni, ma solo nel
Settecento si compie la rottura definitiva con le strutture medioevali e le loro eredità e
sorgono gli stati veramente moderni). E questo è dovuto certamente allo straordinario
contributo dell’Illuminismo, con la sua celebrazione della ragione come strumento
d’indagine libera e scevra da dogmatismi. Proprio per questo suo ruolo centrale in una
civiltà, quello che più interessa nella scienza settecentesca non è tanto la quantità di
progressi tecnici da essa realizzati, quanto lo sforzo che tutti gli scienziati esercitano per
dare un assetto il più possibile rigoroso alle loro discipline attraverso un paziente
lavorio di sviluppi analitici, di esposizioni sistematiche, spesso anche di
volgarizzamenti della scienza che appunto mira a metterne in rilievo i valori culturali
attraverso il tentativo di raggiungere un certo rigore. E perciò la stessa opposizione tra
empirismo e razionalismo si viene attenuando, degrada sempre più verso sfumature,
oscilla in conciliazioni eclettiche, finchè il genio di Kant non riesce a superare
l'opposizione stessa in una nuova e ardita posizione filosofica con la quale si apre il
pensiero contemporaneo, chiarendo in maniera definitiva le caratteristiche di un
autentico sapere. Non senza dimenticare i contributi di Berkeley e Hume soprattutto in
relazione alla loro influenza su Einstein (Hume) e sulle interpretazioni della meccanica
quantistica (Berkeley).
Cartesio, Galileo, Bacone, Newton: sul piano della scienza e della filosofia la
cosiddetta età della modernità fu indubbiamente l'epoca di un profondo riassestamento
concettuale. Astronomia, fisica e cosmologia da un lato, metodo di ricerca filosofica
dall'altro, furono solidali e costanti nel procedere secondo una sola direzione, quella che
avrebbe portato a concepire il Mondo come un'unica grande macchina, il cui
meccanismo poteva rivelarsi banale a un'indagine condotta more geometrico, usando cioè
le costruzioni e le procedure tipiche della matematica. Galileo, inoltre, riteneva che la
descrizione del mondo dovesse attuarsi passando per una riduzione di tutte le sue
caratteristiche a quelle solamente che fossero quantificabili e misurabili. In questa
tendenza al riduzionismo lo seguivano Bacone con il suo metodo induttivo e assai più
da vicino Cartesio, con il suo dubbio metodico.
Con Cartesio la certezza della scienza fu sinonimo di chiarezza ed evidenza, il
probabile e l'oscuro vennero spazzati via, nel nome ovviamente di una
matematizzazione della conoscenza, di una geometrizzazione del sapere. La costruzione
della nuova immagine dell'universo in Cartesio fu essenzialmente la costruzione di una
macchina, un meccanismo perfetto al pari di un orologio, che rispondesse e vivesse
armonicamente in virtù dell'adeguata disposizione delle sue parti. Fu sempre il
riduzionismo a trionfare, la certezza matematica ebbe ragione anche dell'imponderabile
e dell'irrazionale.
Ma fu con Newton che l'immagine dell'universo-macchina, dell'ideale
riduzionista, ebbe il suo trionfo. Egli realizzò il sogno di Cartesio e sviluppò una
completa formulazione matematica della visione meccanicistica della natura. L'universo
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Per comprendere lo sviluppo delle ricerche fisiche nel Settecento occorre senza
dubbio collegarle alla grande eredità scientifica lasciata da Newton. La diffusione del
newtonianesimo nell’Europa continentale fu uno dei fatti più rilevanti della cultura
dell’epoca, ricco di riflessi in tutti campi del sapere, tenuto conto dell'ostacolo più
arduo che fu costretto a superare, il cartesianesimo, che s'era radicato nelle menti di
molti scienziati, anche inglesi. L’adesione al newtonianesimo assunse, però, due
significati alquanto diversi secondo che nel far proprie le teorie del grande pensatore
inglese, si intendeva porre in primo piano l’una o l’altra delle due fondamentali
esigenze metodologiche presenti nella sua opera: l’esigenza di inquadrare i fenomeni
naturali entro costruzioni generalissime rigorosamente elaborate in precise formule
matematiche, o quella di fondare le conoscenze fisiche su di una scrupolosa
sperimentazione, evitando il ricorso a gratuite ipotesi esplicative. Newton era riuscito
ad armonizzare con indubbia maestria queste due esigenze, scrivendo opere che
potevano venire considerate come esemplari da entrambi i punti di vista. È
incontestabile, però, che tali istanze indicavano due direttrici di ricerca tutt’altro che
coincidenti tra loro. Non deve pertanto stupirci se, nel Settecento, si delineano fra gli
stessi scienziati di origine newtoniana tendenze diverse, una delle quali accentua
soprattutto la necessità di sistemare il sapere scientifico in astratte teorie di carattere
matematico, mentre l’altra sottolinea principalmente la necessità di basare la fisica sopra
un’esatta descrizione dei fenomeni.
Se si volesse fare un bilancio sintetico dei progressi della fisica nel XVIII secolo, si
potrebbe forse dire: si afferma la meccanica di Newton che si trasforma nel corso del
secolo da geometrica in analitica; accanto e in un certo senso in conseguenza della
meccanica celeste, sorge in questo secolo la fisica matematica; si perfeziona la
termometria e si fonda la calorimetria; si assimila l'ottica di Newton senza sensibili
progressi; nella seconda metà del secolo sorge una nuova scienza, l’elettrologia.
L'Illuminismo è quel movimento culturale che si sviluppa nel XVIII secolo nei
maggiori paesi d'Europa e che, pur non coprendo tutta l'area filosofica del Settecento,
rappresenta la voce più importante e significativa del secolo. Infatti, con l'Illuminismo ci
troviamo di fronte ad una svolta intellettuale destinata a caratterizzare in profondità la
storia moderna dell'Occidente. Prima di identificarsi con questo o quell'insieme di
dottrine, l'Illuminismo consiste anzitutto in uno specifico modo di mettersi in rapporto
con la ragione. Si afferma spesso che la sostanza di esso risiede in una esaltazione dei
poteri razionali dell'uomo. Ciò è senz'altro vero, ma non è ancora sufficientemente
caratterizzante, se non si aggiunge subito che l'Illuminismo è l’impegno di avvalersi
della ragione in modo libero e pubblico ai fini di un miglioramento effettivo del vivere.
Gli Illuministi ritengono infatti che l'uomo, pur avendo per natura quel bene prezioso
che è l'intelletto, non ne abbia fatto, nel passato, il debito impiego, rimanendo in una
sorta di minorità che lo ha reso preda di un insieme di forze irrazionali, da cui ha il
dovere di emanciparsi.
Pertanto, usare la ragione liberamente e pubblicamente, traducendo in concreto
l'oraziano sapere aude (abbi il coraggio di conoscere), significa quindi, per gli Illuministi,
assumere un atteggiamento problematizzante nei confronti dell'esistente e di ogni tesi
preconcetta, facendo valere il proprio diritto di analisi e di critica. Da ciò la battaglia
contro il pregiudizio, il mito, la superstizione e contro tutte quelle forze che hanno
ostacolato il libero e critico uso dell'intelletto, soffocando le energie vitali degli
individui: la tradizione, l'autorità, il potere politico, le religioni, le metafisiche, ecc. Da
ciò lo sforzo di sottoporre ogni realtà al “tribunale della ragione” e al vaglio
dell'intelletto, per distinguere il vero dal falso e per individuare ciò che può essere di
giovamento alla società. Questo concetto della ragione come organo di verità e
strumento di progresso, ossia, per usare una metafora cara agli Illuministi, come lume
rischiaratore delle tenebre dell'ignoranza e della barbarie, implica una mutata
interpretazione dell'intellettuale e del suo compito tra gli uomini. Per gli Illuministi il
filosofo, intendendo con questa espressione non solo il pensatore in senso stretto e
tecnico, ma l'intellettuale in genere, non è più il sapiente avulso dalla vita e dedito alle
speculazioni metafisiche, ma un uomo in mezzo agli altri uomini, che lotta per rendere
più abitabile il mondo e che si sente utile al consorzio civile.
L'esaltazione della ragione e della libertà, il rifiuto del dogmatismo e
dell'autoritarismo, la critica del presente e la denuncia delle istituzioni oppressive del
passato, l'impegno nelle riforme, lo sforzo verso il progresso e la diffusione della cultura
costituiscono dunque per gli Illuministi, altrettante manifestazioni concatenate di un
unico atteggiamento globale di fronte al mondo.
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scienza (vista solo nei suoi aspetti positivi e non anche in quelli potenzialmente
negativi) e la lotta aperta contro tutte le forze che potrebbero ostacolarla: i pregiudizi,
l'autorità delle metafisiche, i dogmi delle religioni, ecc. Da ciò l'ideale di estendere il
baconiano “sapere è potere” dalla natura alla società, mediante la costruzione di una
scienza dell'uomo in grado di comprendere e dominare a proprio vantaggio i
meccanismi economici, politici e morali. Programma razionalistico e programma
scientifico, appello alla ragione e richiamo alla scienza, divengono quindi, per gli
Illuministi, una cosa sola, poiché nel sapere positivo essi, vedono il frutto principale
della ragione e la concretizzazione vivente del suo potere nel mondo e fra gli uomini.
L'Illuminismo è anche l'erede delle due grandi scuole filosofiche dell'età
moderna: il razionalismo e l'empirismo. Quando Cartesio, nel Discorso sul metodo,
stabilisce che si debba accettare per vero solo ciò che appare alla mente in modo
evidente, dà avvio al razionalismo, ma nel contempo pone le basi dell'Illuminismo e
della sua idea di un esercizio autonomo e spregiudicato dell'intelletto. Tuttavia, nei
confronti del razionalismo, l'Illuminismo appare contrassegnato, in primo luogo, da una
rigorosa autolimitazione della ragione nel campo dell'esperienza. Infatti, la ragione
cartesiana aveva subìto, per opera di Locke e della metodologia scientifica di Newton,
un ridimensionamento, che l'aveva trasformata da deposito infallibile di idee innate in
un semplice strumento di acquisizione metodica di nuove conoscenze. In virtù di
questo ridimensionamento, la ragione non può fare a meno dell'esperienza, perché è
una forza che si nutre di essa e che funziona solo all'interno del suo orizzonte, fuori del
quale non sussistono che problemi insoluti o fittizi. L'Illuminismo fa sua questa lezione
di modestia e polemizza contro il dogmatismo e contro la presunzione della ragione
cartesiana.
Dall'altro lato, pur essendo fortemente influenzato dall'empirismo, il concetto
illuministico di ragione si distingue da quest'ultimo sia per una maggior fiducia nei
poteri intellettivi dell'uomo (si pensi agli esiti scettici del filosofare humiano), sia per
un'accentuazione della loro portata pratica e sociale. Una ragione operante all'interno
dell'esperienza e criticamente rivolta ad approfondire ogni aspetto dell'esistenza umana
ai fini del progresso sociale: ecco la ragione illuministica e il suo inconfondibile e
irriducibile tratto di originalità.
significa che tali idee sono percepite dalla mente. Si tratta di comprendere che:
“l'esistenza di un'idea consiste nell'esser percepita”. Tutti riconoscono che le idee
presenti nei nostri pensieri non possono esistere senza la mente; ma anche tutte le
sensazioni e tutte le cose sensibili sono idee, e dunque non possono esistere se non in
una mente che le percepisce. Dire che il tavolo su cui scrivo esiste, significa che lo vedo
e lo sento, cioè lo percepisco; e se io mi trovassi in un'altra stanza, direi che questo
tavolo esiste: “intendendo con ciò che se io fossi nel mio studio lo potrei percepire o che
qualche altro spirito attualmente lo percepisce”. Ebbene, affermare che delle cose non
pensate esistono in sé stesse, assolutamente, cioè senza alcuna relazione al loro essere
percepite, implica una manifesta contraddizione. Sembra che non vi sia nulla di più
facile che pensare case, montagne, fiumi e insomma tutte le cose della natura, senza che
vi sia alcuno a percepirli. Ma questo pensare non è altro che formare nella mente certe
idee, omettendo l'idea di qualcuno che le percepisce, e cioè dimenticando che ci siamo
qui noi a percepirle e a pensarle. Per poter concepire che gli oggetti della nostra mente
esistono al di fuori della mente: “è necessario che voi possiate concepire che essi esistono
non concepiti, o non pensati; la qual cosa è una contraddizione manifesta”. Cioè “la
mente, non accorgendosi di sé stessa, si illude, pensando, di poter concepire che esistano
corpi non pensati dalla mente o fuori di essa”.
Se l'affermazione dell'esistenza di cose al di là della mente e non percepite è una
contraddizione manifesta, l'esistenza delle cose percepite dalla mente, e tali cose sono
appunto le idee, consiste nel loro essere percepite. “Il loro esse [essere] è percipi [essere
percepite]”. Anche per Cartesio e tutti i filosofi moderni che precedono Berkeley, l'esse
delle idee è il loro percipi. La novità di Berkeley consiste nell'escludere, e più
precisamente nel modo in cui si esclude, che al di fuori di questo esse (cioè al di fuori
dell'essere mentale) vi siano delle cose materiali che agiscono sulla mente e che sono i
modelli di cui le idee sono copie più o meno fedeli. Si tratta della negazione più
radicale dell'esistenza della materia; ma si deve anche dire che questa è la materia dei
filosofi, e cioè la res extensa, non è la materia in cui si imbatte ogni giorno il senso
comune degli uomini. Segue, da quanto si è detto, che per Berkeley non può esistere
altra sostanza che quella spirituale ("spirito", "anima," "io", "mente") e che le qualità
sensibili non possono avere come substratum una sostanza materiale o corporea (che da
Cartesio a Locke è intesa appunto come una cosa esterna alla mente).
Il fondamento del sapere rimane per Berkeley l'indubitabilità dell'esistenza
dell'io e di tutto ciò che è percepito dall'io, l'indubitabilità che Cartesio ha posto a
fondamento dell'episteme. Ma né la ragione né i sensi, per Berkeley, possono condurre
all'affermazione dell'esistenza della materia esterna: non la ragione, perché gli stessi
difensori di questa sua funzione escludono che esista una connessione necessaria tra i
corpi e la mente; non i sensi, perché “la testimonianza del senso non può essere portata
come prova dell’esistenza di qualcosa che non è percepito dal senso”.
Che cosa può essere allora considerato reale, visto che non possiamo sperare di
paragonare le nostre percezioni ad un mondo esterno? Reale è, secondo Berkeley, ciò
che viene da noi percepito secondo una certa uniformità, costanza e regolarità; reali
sono quei gruppi di sensazioni che, a differenza dei prodotti vaghi e continuamente
mutevoli della fantasia e del sogno, si presentano alla percezione come immutabili,
omogenei, costanti, uniformi. Il criterio di realtà non è quindi nelle cose, bensì in noi, in
un canone del loro venire percepite da parte della nostra coscienza. Non solo, questa
costanza e uniformità del reale non può essere basata su argomentazioni razionalistiche,
ma esclusivamente sull’esperienza. E tuttavia non è l’esperienza da sola che ci fa dire
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che cosa sia reale e cosa no; è un criterio ideale, o meglio coscienziale: l’uniformità e la
costanza con cui percepiamo. Questa coincidenza tra criterio di realtà e criterio di
uniformità porta Berkeley, per tanti versi antinewtoniano, ad un giudizio molto vicino a
quello che Newton aveva dato della legge scientifica. Anche per Berkeley, reale è ciò che
è possibile di una legge scientifica universale e necessaria; anche per Berkeley, la
spiegazione di un fatto risulta così ridotta ad una sua correlazione rigorosa con i fatti
che l’hanno preceduto e con quelli che lo seguono, senza che abbia luogo la pretesa di
conoscere la causa ultima, il substrato ultimo dei fenomeni.
Per Berkeley l'immaterialismo rafforza la nuova scienza della natura, liberandola
da quelle oscurità che ne compromettono lo sviluppo. Ne risulta una concezione
singolarmente moderna della scienza, in particolare della fisica (si pensi alla
interpretazione della meccanica quantistica). Per quanto riguarda la fisica, Berkeley
rileva che mediante l'osservazione possiamo scoprire le leggi generali della natura che
però non hanno valore assoluto, perché non si può essere certi che “l’autore della
natura operi sempre conformemente”. Tali leggi non indicano "cause", ma "segni". “Il
fuoco che io vedo [cioè il fuoco come fenomeno ottico] non è la causa del dolore che
soffro avvicinandomi ad esso, ma è il segno che mi previene di questo fatto”. L'aspetto
visibile, in quanto visibile, non può essere la causa di un'impressione tattile; e d'altra
parte, che il fuoco visibile sia quello stesso oggetto che produce calore è solo un'ipotesi,
e l'ipotesi avanzata appunto dal segno che indica l'esistenza del calore. La natura non
appare come un nesso di cause e di effetti, ma piuttosto come un linguaggio che va
interpretato.
È chiaro inoltre che per Berkeley è inaccettabile la distinzione di Newton tra
tempo e spazio assoluti (o "matematici", o "puri") e tempo e spazio relativi (o
"apparenti"): appunto perché tempo e spazio assoluti (e il concetto correlativo di "moto
assoluto") sono "assoluti", proprio perché sono intesi come non percepiti e non
percepibili, e quindi implicano quell'assurdità che è propria del concetto di una realtà
non percepita. Ma Berkeley ritiene che la fisica non abbia bisogno di tali entità
metafisiche. È la concezione della scienza che risulterà vincente nell'ambito della
epistemologia contemporanea.
Infine, a differenza di Locke, Berkeley, anticipando Hume, critica il principio di
causalità mostrando che tra le idee non può esistere un rapporto causale. Ma anche
Berkeley, come Locke e Cartesio, ritiene che le idee attualmente percepite dai sensi, le
idee che "impressionano" i nostri sensi, siano l'effetto di un'azione esercitata sulla mente
da parte della realtà esterna. L'innovazione di Berkeley è che questa realtà esterna non
può essere altro che una mente, e precisamente la Mente infinita di Dio.
sono costruite dalla mente; e ci si spiega quindi perché, per Hume, il pensiero e le idee
non appartengono all' esperienza.
Dunque: tra le percezioni della mente, alcune (le impressioni) sono più intense e
costituiscono l'esperienza; tutte le altre (le idee) sono meno intense e costituiscono ciò
che viene chiamato il "pensiero". Ma non solo le impressioni hanno più intensità delle
idee, esse sono anche i modelli, gli originali, di cui tutte le idee sono immagini e copie
più o meno adeguate. Il che è comprovato anche dal fatto che le impressioni precedono
sempre le idee corrispondenti. Nel Trattato sulla natura umana (1739) Hume dice che: “le
nostre impressioni sono causa delle nostre idee, e non viceversa”. Le idee sono le
“immagini sbiadite” che ci rimangono delle impressioni e di cui facciamo uso nel
pensare e nel ragionare. Con un'operazione analoga a quella di Locke e di Berkeley, per
stabilire il valore di ogni conoscenza umana che pretenda avere come contenuto il reale,
si deve poter ricondurre tale conoscenza all'esperienza. È vero che Hume,
dell'esperienza, sottolinea soprattutto la sua maggior intensità e forza rispetto al
pensiero. Ma questa maggior potenza delle impressioni è il corrispettivo della minor
potenza della mente rispetto a esse.
Dall’analisi che Hume fa sulle idee e le loro connessioni, discende la possibilità di
distinguere due tipi fondamentali di conoscenze: quelle concernenti le “relazioni tra
idee” e quelle concernenti le “materie di fatto”. Il teorema di Pitagora esprime una
relazione tra idee, nel senso che per dimostrarlo non c’è bisogno di far ricorso
all’esperienza. Che domattina sorgerà il sole, non è verità che si possa dedurre dallo
studio delle relazioni intrinseche all’idea, derivata dall’impressione sensibile, che oggi
ed in passato il sole è sorto. La verifica di una proposizione come “domani sorgerà il
sole” è demandata all’esperienza, che sola può certificarla, e rappresenta una
conoscenza delle “materie di fatto”. Mentre è inconcepibile ammettere la falsità del
teorema di Pitagora, il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile. Le scienze
matematiche hanno quindi tre caratteristiche fondamentali che le distinguono dalle
conoscenze concernenti materie di fatto: sono a priori, necessarie, sintetiche. A priori
perché possono essere escogitate con una pura operazione di pensiero, tanto che “anche
se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide
conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza”. Necessarie perché il contrario di
una verità matematica implica una contraddizione che non può essere accettata dalla
mente. Sintetiche perché accrescono le conoscenze umane, consentendo di scoprire
proprietà, teoremi, ecc. prima ignoti.
Nel campo delle “materie di fatto”, invece, sono possibili tre forme di relazioni
assai diverse: quella di identità (una cosa è identica a se stessa); quella di contiguità
spazio-temporale (una cosa è vicina o lontana, nello spazio o nel tempo, ad un’altra);
quella di casualità (una cosa è causa di un’altra). Hume dimostra, poi, che le prime due
possono essere ridotte alla terza, giacchè quando, ad esempio, percepiamo del fumo, e
ne inferiamo che poco distante (contiguità spaziale) deve esserci del fuoco, in ultima
analisi ci basiamo sulla relazione causale che il fumo è un effetto del fuoco; quando oggi
vediamo un amico, e rivedendolo domani gli applichiamo la relazione di identità per
cui pensiamo che sia la stessa persona, ci basiamo ancora una volta, in ultima analisi,
sulla relazione di causalità. In conclusione “tutti i ragionamenti riguardanti le materie
di fatto sembra che siano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Solo per mezzo di
questa relazione si può andare al di là di ciò che risulta evidente per la testimonianza
della memoria e dei sensi”.
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Dunque, tutti i ragionamenti intorno alla realtà, osserva Hume, sono fondati
sulla relazione di causa ed effetto, cioè sul principio di causalità. Ma la conoscenza di
questa relazione non può essere raggiunta ragionando a priori, come abbiamo visto, e
cioè indipendentemente dall'esperienza: tale conoscenza "sorge interamente
dall'esperienza". Hume perviene a questa tesi nel modo seguente. Supponiamo di
percepire una palla di biliardo A, in movimento verso la palla B. (A in movimento verso
B, o A che diventa contigua a B, è considerata normalmente come causa del movimento
di B, e questo movimento come effetto del movimento di A). E supponiamo che ci
venga fatta una duplice richiesta:
1. stabilire quale effetto si produrrà quando A toccherà B;
2. rispondere a questa prima domanda senza basarsi sulle osservazioni fatte in
passato a proposito di situazioni analoghe.
Di fronte a questa duplice richiesta, la nostra mente non può che "inventare", o
"immaginare", arbitrariamente, l'effetto che si produrrà quando A toccherà B. Giacché
l'effetto (il movimento determinato di B) è un evento diverso dalla causa (cioè dal
movimento di A verso B), e quindi la conoscenza dell'evento in cui consiste la causa non
potrà mai far conoscere l'evento in cui consiste l'effetto. Proprio perché causa ed effetto
sono eventi diversi, è impossibile che, conoscendo una certa causa, si riesca a conoscere
a priori (cioè prescindendo dalle esperienze passate) quale effetto verrà prodotto da tale
causa. Proprio perché la causa e l'effetto sono eventi diversi, quando l'effetto non si è
ancora prodotto noi possiamo dunque affermare, a priori, tanto che A, toccando B,
muoverà B, quanto che non lo muoverà; e inoltre possiamo affermare tanto che lo
muoverà in un certo modo, quanto che lo muoverà in infiniti altri modi. Tutti i nostri
ragionamenti a priori non potranno legittimare la preferenza accordata a una di queste
svariate possibilità.
Conclusione: senza l'osservazione e l'insieme delle nostre esperienze passate sul
comportamento delle palle da biliardo, ci è assolutamente impossibile sapere se A,
toccando B, lo muova e quale movimento gli imprimerà. La conoscenza della relazione
tra causa ed effetto e tutte le conclusioni che riguardano tale relazione sono interamente
fondate sull'esperienza.
Ma a questo punto, Hume si chiede: “Qual è il fondamento di tutte le conclusioni
che sono tratte dall'esperienza?”. In passato abbiamo esperimentato che il cibo sfama,
l'acqua disseta, i corpi sono resistenti, il fuoco brucia, la nostra volontà guida i
movimenti del nostro corpo, la palla di biliardo A muove B in un certo modo. Sono tutti
esempi di relazioni causali; e la nostra vita non sarebbe possibile se non estendessimo al
futuro queste nostre esperienze passate. Si tratta però di comprendere che se in passato
abbiamo esperimentato che un certo evento è seguito da un certo altro evento, da ciò
non segue necessariamente che il ripresentarsi di eventi simili al primo debbano essere
sempre seguiti dal ripresentarsi di eventi simili al secondo. Non vi è alcuna
contraddizione a supporre che il corso della natura abbia a cambiare e che un evento
simile a quello già esperimentato possa essere accompagnato da eventi diversi o
contrari a quelli che in passato hanno accompagnato quel primo evento. Ma non è
nemmeno possibile dimostrare la regolarità della natura, perché ogni ragionamento
intorno alla realtà è fondato appunto sul principio di causalità, che presuppone come
esistente appunto quella regolarità della natura, che invece si vorrebbe dimostrare sul
fondamento di esso. Anche ammettendo che il corso delle cose sia sempre stato
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regolare, questo fatto non costituisce dunque la minima prova che anche per il futuro
sarà così.
Inoltre, sia che consideriamo gli oggetti esterni (=sensibili), sia che si consideri il
rapporto tra la nostra volontà e il nostro corpo, l'esperienza non attesta mai l'esistenza
di un "potere", di una "forza", di una "energia", esplicati da ciò che chiamiamo "causa"
su ciò che chiamiamo "effetto"; e non attesta nemmeno l'esistenza di una "connessione
necessaria" tra i due: l'esperienza non attesta mai, cioè, una qualsiasi qualità “che leghi
l'effetto alla causa e faccia del primo un'infallibile conseguenza dell'altra”, l'esperienza
attesta soltanto che l'uno segue all'altra: “… tutti i ragionamenti che riguardano la
causa e l’effetto sono fondati sull’esperienza e che tutti i ragionamenti desunti
dall’esperienza sono aloro volta fondati sulla supposizione che il corso della natura
continuerà uniformemente lo stesso. Noi concludiamo allora che cause simili, in
circostanze simili, produrranno sempre effetti simili”. Il principio di causalità è dunque
una congettura. La sua evidenza non ha un valore logico, ma psicologico: l’abitudine a
percepire che certi eventi simili tra loro sono seguiti da certi altri eventi simili tra loro,
determina un sentimento di credenza e di fede, in base al quale l'uomo si aspetta che,
verificandosi un certo evento del primo tipo, se ne verifichi un'altro del secondo tipo.
Ma se l'esperienza non attesta l'esistenza di forze o di connessioni necessarie causali,
tanto meno attesta il rapporto causale tra Dio e le cose. E, privata del principio di
causalità, la mente non può in alcun modo dimostrare l'esistenza di Dio, così come non
può dimostrare l'esistenza di una realtà esterna che sia la causa delle nostre percezioni
degli oggetti sensibili.
Sono quindi due gli aspetti decisivi della critica di Hume al principio di causalità.
Innanzitutto, il rilievo che, essendo la cosiddetta causa e il cosiddetto effetto due cose
diverse, la nozione o il concetto dell'una non include la nozione o il concetto dell'altro, e
quindi per sapere che l'una è collegata all'altro bisogna rivolgersi all'esperienza. Al
contrario, nelle proposizioni che non si riferiscono alla realtà e che quindi esprimono
semplici relazioni tra idee, è il caso delle proposizioni matematiche, la nozione del
soggetto può includere la nozione del predicato. Ad esempio, la nozione di "10+5"
include la nozione di "15" e quindi per affermare "10+5=15" non c'è bisogno di riferirsi
all'esperienza. Il secondo rilievo decisivo è che quanto è attestato incontrovertibilmente
dall'esperienza è soltanto un insieme di fatti e questa attestazione, da un lato, non
esclude che i fatti possano susseguirsi in modo diverso da quello cui siamo abituati,
dall'altro lato non contiene nulla di simile a una forza o a una connessione necessaria tra
i fatti.
Se il fondamento di tutti i ragionamenti intorno alla realtà è il principio di
causalità e se tale principio deve avere il suo fondamento nell'esperienza, e quindi è
soltanto una congettura priva di necessità e universalità, appare allora come la filosofia
di Hume venga a operare una riduzione radicale dell'estensione della ragione, e cioè
dell'episteme: la ragione può avere come contenuto reale solo quello che per Cartesio era
il punto di partenza della ragione, ossia il contenuto immediato della mente,
l'indubitabilità delle nostre percezioni. Ogni credenza metafisica è priva di valore
razionale. E anche ogni conoscenza scientifica. Con l'avvertenza che la scienza, a
differenza della metafisica, ha una utilità pratica che la rende indispensabile. Di
conoscenze universali e necessarie ne esistono certamente, ma non sono conoscenze
intorno alla realtà, bensì intorno alle relazioni che sussistono tra semplici idee. E, come
si è accennato, il caso delle proposizioni matematiche.
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me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto.
Il criterio del metodo cartesiano dell'evidenza mi procurerà dunque una conoscenza
chiara e distinta ma che non è scienza se non è capace di produrre ciò che conosce.
Va subito osservato che questo criterio vichiano della conoscenza scientifica,
mentre a prima vista parrebbe escludere la verità della matematica (che Cartesio
pretendeva ricondurre a intuizioni chiare e distinte), riesce invece a salvarne appieno il
valore. Nella matematica, infatti, Vico ritiene che sia l’uomo stesso a costruire gli enti
trattati (numeri, figure, ecc.), per cui si ricava che egli può averne una conoscenza vera e
completa. È un'interpretazione che nel Settecento poteva apparire estremamente ardita
e discutibile ma che in tempi moderni ha dimostrato una straordinaria fecondità. Vico
osserva tuttavia che tale costruzione degli enti matematici non ha un valore reale ma
soltanto convenzionale e arbitrario, bastando che l’uomo modifichi le premesse di una
teoria matematica perché se ne alterino anche tutte le conseguenze. Pur concedendo ai
risultati di tale disciplina la qualifica di vere e proprie conoscenze, egli ne limita
pertanto radicalmente la portata: afferma infatti che sono, sì, verità ma puramente
convenzionali.
Riassumendo: il criterio vichiano della conversione del vero nel fatto restringe in
limiti assai circoscritti il campo delle conoscenze umane autenticamente tali. La
matematica è ammessa come scienza, ma solo di enti fittizi, convenzionali; la fisica è
invece esclusa, per principio, dal campo delle scienze umane, perché solo Dio, e non
l’uomo, è in grado di costruire il mondo della natura.
esterna alla mente: la realtà di Dio e la realtà delle altre menti finite. Inoltre, anche per
Berkeley è il principio di causalità applicato alle idee a consentire l'affermazione della
realtà esterna alla mente.
In Hume, è vero che la critica del principio di causalità intende essere la critica
dell'unico strumento in base al quale l'uomo potrebbe affermare una qualsiasi realtà al
di là dell'esperienza, ma Hume non intende sostenere che l'esperienza sia la stessa
totalità dell'essere. Con Hume l'epistéme consiste in quello che per Cartesio era soltanto
il primo passo nella costruzione dell'epistéme: l'indubitabilità dell'esistenza della mente.
L'unica verità è costituita, per Hume, dall'osservazione dei contenuti della mente (cioè
della certezza), che non sono regolati da alcuna legge necessaria e che "si associano" tra
loro secondo semplici "tendenze" che esistono di fatto, ma che, proprio per questo,
potrebbero non esistere o essere sostituite da tendenze del tutto diverse. In questo
modo, non solo la metafisica, ma anche ogni conoscenza razionale della natura è priva
di ogni valore universale e necessario. E se la matematica possiede questo valore è solo
perché le sue proposizioni non si riferiscono all'esperienza, ma si limitano a esplicitare,
nel predicato, quanto è già stato incluso nella definizione del soggetto.
Con Emmanuele Kant (1724-1804) la filosofia moderna compie una
svolta radicale e mostra nel modo più perentorio che le cose in sé stesse,
esterne e indipendenti dalla conoscenza umana, non possono essere
conosciute. Mostra cioè che l'opposizione tra certezza e verità è definitiva.
Non nel senso che la filosofia kantiana rinunci a essere epistéme, ma nel
senso che, proprio per essere la forma più rigorosa di epistéme, deve escludere la
conoscibilità della verità, ossia la conoscibilità delle cose come esse sono in sé stesse. In
altri termini Kant concepisce la realtà non come qualcosa di dato, oggettivo (voluto da
Dio o dalla natura) e come tale immodificabile, ma come una costruzione propria
dell’uomo. In questo senso profondo Kant apre le porte del mondo moderno.
Il pensiero di Kant (detto criticismo) si contrappone all'atteggiamento mentale
del dogmatismo (che consiste nell'accettare opinioni o dottrine senza interrogarsi
preliminarmente sulla loro effettiva consistenza e la convinzione che il contenuto
conosciuto, in cui si imbattono le costruzioni conoscitive edificate dall'uomo, possa
essere l'insieme delle cose in sé stesse), e fa della critica lo strumento per eccellenza
della filosofia. Criticare significa chiarire le possibilità, ossia le condizioni che
permettono l'esistenza, la validità e i limiti dei fondamenti della ragione umana. Questa
filosofia del limite non equivale tuttavia, nelle intenzioni esplicite di Kant, ad una forma
di scetticismo, poiché tracciare il limite di un'esperienza significa nel contempo
garantire, entro il limite stesso, la sua validità. Ovviamente il criticismo kantiano non è
solo una scoperta geniale di Kant, ma anche l'esito di determinate condizioni e istanze
intellettuali che affondano le loro radici nell'epoca del filosofo e in tutto il corso del
pensiero precedente. Il kantismo si inserisce infatti nello specifico orizzonte storico del
pensiero moderno e risulta definito da quelle due coordinate di base che sono la
Rivoluzione scientifica da un lato e la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali
dall'altro.
Se l'Illuminismo aveva portato dinanzi al tribunale della ragione l'intero mondo
dell'uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione
stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità. Tuttavia, anche in questo
andar oltre l'Illuminismo, Kant è pur sempre figlio dell'Illuminismo, in quanto ritiene
che i confini della ragione possano essere tracciati soltanto dalla ragione stessa, che,
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essendo autonoma, non può assumere dall'esterno la direttiva e la guida del suo
procedimento. Prova ne è che Kant combatte instancabilmente, non solo nelle opere
principali, ma anche negli scritti minori, ogni tentativo di fissare dei limiti alla ragione
in nome della fede o di qualsiasi esperienza extrarazionale, presentandosi come
l'avversario risoluto di ogni specie di fideismo o misticismo o fanatismo. Per Kant i
limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti dell'uomo: di conseguenza, volerli
varcare in nome di presunte capacità superiori alla ragione significa soltanto
avventurarsi in sogni arbitrari o fantastici.
Si può dire che i temi più elevati della speculazione filosofica e scientifica del
secolo culminano nel poderoso sforzo compiuto da Kant per chiarire le ragioni del
trionfale successo della fisica-matematica, per fornire uno sfondo filosofico al razionale
cosmo newtoniano, per dare una valutazione critica dei metodi e degli scopi della
ragione umana. Quantunque Kant non tratti quasi mai in modo specificamente tecnico i
grandi problemi della matematica, dell'astronomia, della meccanica razionale e delle
scienze empiriche, tuttavia egli proviene dalla scienza, e al suo pensiero sono presenti,
nei loro aspetti essenziali, le questioni di fondo maturate nell'ambito della cultura
moderna e della ricerca scientifica. Infatti, al 1747, quando era ancora studente
universitario, risale il primo scritto che verte proprio su di un problema che in
quell’epoca era di grande attualità presso i fisici: Pensieri sulla vera stima delle forze vive e
valutazione delle prove, di cui si sono serviti in questa controversia il sig. Leibnitz e altri
meccanici, insieme con alcune considerazioni preliminari riguardanti la forza dei corpi in
generale. Ricorrendo ad argomentazioni prevalentemente metafisiche, l’autore vi
distingue due tipi di forza: una “forza morta” misurata dalla quantità di moto mv e una
“forza viva” misurata da mv2; la prima connessa a una considerazione puramente
matematica dei corpi (presi nella loro reciproca esteriorità), la seconda invece facente
riferimento alla loro sostanza interna non spaziale. Sulla base di questa distinzione
risulterebbe possibile, secondo Kant, conciliare i due punti di vista difesi dai cartesiani e
dai leibniziani, liberandoli dagli errori che derivano dal loro esclusivismo. Allo stesso
anno risale la prima importante opera di Kant: Storia naturale generale e teoria del cielo, o
ricerca intorno alla costituzione e all’origine meccanica dell’intero sistema del mondo condotta
secondo i principi newtoniani. L’opera segna un notevolissimo passo avanti rispetto alla
concezione newtoniana del mondo. Infatti, mentre l’ordinamento presente nell’universo
rinvierebbe in modo necessario, secondo Newton, a un essere divino quale architetto e
signore del mondo, Kant ritiene al contrario che tale ordinamento possa venire
integralmente spiegato col semplice ricorso alle leggi generali della natura: la
spiegazione da lui proposta, oggi nota come ipotesi di Kant-Laplace, afferma che il
sistema celeste trarrebbe origine dal moto vorticoso di una nebulosa primitiva (Laplace
vi giunse nel 1796 per via del tutto autonoma e, da grandissimo fisico quale era, seppe
darle una formulazione assai più soddisfacente di quella kantiana, dal punto di vista
tecnico). Va notato che Kant resta fedele alla concezione newtoniana nell’attribuire alla
materia alcune proprietà non puramente geometriche (afferma infatti che essa può
avere densità diversa da un luogo all’altro e che è sottoposta a forze di attrazione e di
repulsione); ciò chiarisce il motivo per cui la sua spiegazione meccanicistica dell’attuale
ordine dell’universo si collochi più sulla linea di Newton che non su quella di Cartesio,
sebbene faccia uso della nozione essenzialmente cartesiana di vortice. Il fatto è che i
vortici di cui parla Kant sono da lui concepiti come effetti delle forze elementari,
attrattive e repulsive, che agirebbero sulla materia, e quindi risultano del tutto diversi
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dice qualcosa di nuovo e di più rispetto al soggetto; a priori perché, essendo universali e
necessari, non possono derivare dall'esperienza, la quale, come aveva già insegnato
Hume, non ci dice, ad esempio, che ogni evento debba necessariamente, anche in
futuro, dipendere da cause, ma che sinora, nel passato, così è stato.
Dal punto di vista di Kant, i giudizi fondamentali della scienza non sono quindi
né giudizi analitici a priori ne giudizi sintetici a posteriori. I primi sono giudizi che
vengono enunciati a priori, senza bisogno di ricorrere all'esperienza, di conseguenza tali
giudizi, pur essendo universali e necessari (=a priori), sono infecondi, perché non
ampliano il nostro preesistente patrimonio conoscitivo. I secondi sono giudizi dati in
virtù dell'esperienza, ovvero a posteriori (ad esempio i corpi sono pesanti). Questi
giudizi, pur essendo fecondi (= sintetici), sono privi di universalità e necessità perché
poggiano esclusivamente sull'esperienza. Invece, i principi della scienza, i cosiddetti
giudizi sintetici a priori, risultano al tempo stesso sintetici, ossia fecondi, e a priori, ossia
universali e necessari, e quindi irriducibili alle due classi precedenti.
Pur essendo formulata in modo logico, questa teoria kantiana dei giudizi
sottintende un confronto storico con le scuole filosofiche precedenti. I giudizi analitici a
priori richiamano infatti la concezione razionalistica della scienza, che pretendeva di
partire da taluni principi a priori (=le idee innate) per derivare da essi tutto lo scibile,
delineando in tal modo il modello di un sapere universale e necessario, ma sterile. I
giudizi sintetici a posteriori richiamano invece l'interpretazione empiristica della
scienza, che pretendeva di fondare quest'ultima esclusivamente sull'esperienza,
delineando così il modello di un sapere fecondo, ma privo di universalità e necessità.
Kant ritiene invece, contro il razionalismo, che la scienza derivi dall'esperienza, ma
ritiene anche, contro l'empirismo, che alla base dell'esperienza vi siano dei principi
inderivabili dall'esperienza stessa.
Pertanto, nella visione kantiana, la scienza, globalmente considerata, risulta
feconda in duplice senso: sia per quanto riguarda il contenuto o la materia, che le deriva
dall'esperienza, sia per quanto riguarda la forma, che le deriva dai giudizi sintetici a
priori che ne rappresentano i quadri concettuali di fondo. Nello stesso tempo, proprio in
virtù di questi ultimi, essa è anche a priori, cioè universale e necessaria. In sintesi:
fondo, elabora una nuova teoria della conoscenza, intesa come sintesi di materia e
forma. Per materia della conoscenza si intende la molteplicità caotica e mutevole delle
impressioni sensibili che provengono dall'esperienza (=elemento empirico o a
posteriori). Per forma s’intende l'insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente
umana ordina, secondo determinati rapporti, tali impressioni (= elemento razionale o a
priori). Kant ritiene infatti che la mente filtri attivamente i dati empirici attraverso forme
che le sono innate e che risultano comuni ad ogni soggetto pensante. Come tali, queste
forme sono a priori rispetto all'esperienza e sono fornite di validità universale e
necessaria, in quanto tutti le possiedono e le applicano allo stesso modo. La mente
kantiana è simile ad un computer, che elabora la molteplicità dei dati che le vengono
forniti dall'esterno mediante una serie di programmi fissi, che ne rappresentano gli
immutabili codici di funzionamento. Quindi, pur mutando incessantemente le
informazioni (= le impressioni sensibili), non mutano mai i loro schemi di recezione (=
le forme a priori). Ma il fatto che in noi esistano determinate forme a priori universali e
necessarie, che per Kant sono lo spazio e il tempo e le 12 categorie, attraverso cui
incapsuliamo i dati della realtà, spiega perché si possano formulare dei giudizi sintetici
a priori intorno ad essa senza il timore di essere smentiti dall'esperienza.
Questa nuova impostazione del problema della conoscenza, questo mutamento
di prospettiva realizzato da Kant, che invece di supporre che le strutture mentali si
modellino sulla natura, suppone che l’ordine della natura si modelli sulle strutture
mentali, comporta una rivoluzione copernicana. Infatti, come Copernico, incontrando
grosse difficoltà nello spiegare i movimenti celesti a partire dall’ipotesi che gli astri
ruotino intorno allo spettatore, suppose che fosse lo spettatore a ruotare intorno agli
astri, così Kant, incontrando delle difficoltà nello spiegare la conoscenza a partire
dall’ipotesi che siano gli oggetti a ruotare intorno al soggetto, cioè che condizionino il
soggetto, suppone che sia il soggetto a ruotare intorno all’oggetto, cioè che condizioni
l’oggetto.
Così Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti fra soggetto e oggetto,
affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà, nel qual caso
non vi sarebbero conoscenze universali e necessarie, bensì la realtà che si modella sulle
forme a priori attraverso cui la percepiamo. In secondo luogo, la nuova ipotesi
gnoseologica comporta la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Il fenomeno è
la realtà quale ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura
conoscitiva. Il fenomeno non è un'apparenza illusoria, poiché è un oggetto reale, ma
reale soltanto nel rapporto con il soggetto conoscente. La cosa in sé è la realtà
considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante cui la
conosciamo, e come tale costituisce un’incognita. L’originalità del copernicanesimo
filosofico di Kant consiste nel cercare la garanzia ultima della conoscenza non negli
oggetti o in Dio, ma nella mente stessa dell’uomo, fondando così le istanze
dell'oggettività nel cuore stesso della soggettività. Con questo non si intende dire che la
rivoluzione copernicana sia consistita semplicemente nel fondare sul soggetto, anziché
sull'oggetto, la validità del sapere. L'originalità della soluzione kantiana è consistita
anche nell'intendere il fondamento del sapere in termini di possibilità e di limiti, cioè
conformemente al modo d'essere di quell'ente pensante finito che è l'uomo.
Su queste basi Kant costruisce la sua ontologia della fisica newtoniana. I concetti
attraverso cui si sistema tutto il sapere scientifico e quindi contengono l’impalcatura
concettuale della natura fisica, sono spazio e tempo, numero; le dodici categorie (unità,
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Spazio e tempo, allora, non sono realtà esterne a noi ma solo un nostro modo di
organizzare i dati sensibili della realtà, ossia sono intuizioni pure, forme dell'intuizione,
i quadri entro cui vengono ordinati i materiali forniti dalla sensibilità. Ma d'altra parte
essi restano distinti e dai materiali che in essi si ordinano e dai concetti matematici
(numero, figura geometrica) mediante cui quei materiali vengono disposti per
l'interpretazione categoriale; gli eventi sono percepiti nello spazio e nel tempo, e quindi
(fenomenicamente, non metafisicamente) avvengono nello spazio e nel tempo, i quali
quindi risultano essere, come sosteneva Newton, assoluti, lo sfondo sul quale sono
ordinati i fenomeni, sfondo però strutturato e articolato, contenente lo schema
(matematico) attraverso cui i materiali sensibili stessi acquistano rilievo per
l'interpretazione concettuale della natura. Spazio e tempo non sono dei contenitori in
cui si trovano gli oggetti, bensì dei quadri mentali a priori entro cui connettiamo i dati
fenomenici. In sostanza, percepiamo le cose le une accanto alle altre (spazio) e le une
dopo le altre (tempo) non perché esse effettivamente siano nello spazio e nel tempo ma
perché questo è il nostro modo di percepire le cose, perché il mondo come noi lo
vediamo è una nostra costruzione.
In sintesi, se Newton aveva fatto dello spazio euclideo uno spazio fisico assoluto,
contenitore universale della materia, teatro degli eventi e base della loro discussione
fisica, Kant, invece, lo concepisce come spazio dell’intuizione pura, come forma a priori
dell’esperienza, ossia come legge strutturale della conoscenza priva di realtà fisica, e
facendo, così, della geometria euclidea un insieme di giudizi sintetici a priori, valevoli
universalmente e necessariamente. La concezione kantiana sullo spazio e sul tempo è
una teoria suggestiva, forse inconfutabile da un punto di vista logico, ma tuttavia
ipotetica. Kant passa a fornirne delle prove tratte dalla geometria in quanto scienza
effettivamente costruita dai matematici, ma, come abbiamo detto e come vedremo, tali
prove svaniscono al tocco dei progressi della matematica nell’Ottocento, con le
geometrie euclidee, e della fisica ai primi del Novecento con la teoria della relatività.
E lo stesso discorso, mutatis mutandis, va ripetuto per ciò che riguarda le
categorie. Queste sono propriamente le forme logiche, ossia le forme del discorso.
Dunque le categorie, ossia i concetti fondamentali della scienza fisica (tra cui sostanza e
causa), costituiscono dei semplici modi di sistemare le proposizioni empiriche, i dati
della conoscenza sensibile, i quali vengono pensati (dalla mente umana, non da quella
divina) entro quel quadro categoriale; ma d'altra parte restano distinte e dai materiali
empirici in esse pensati e dalle stesse relazioni meramente sintattiche del discorso
scientifico. La casualità, per esempio, è connessa con la forma dell'implicazione, ma non
si riduce ad essa: è il rapporto che mediante tale forma viene a stabilirsi tra materiali
empirici. Le categorie, essendo la facoltà logica di unificare il molteplice della
sensibilità, funzionano solo in rapporto al materiale che esse organizzano, ossia in
connessione con le intuizioni spazio-temporali cui si applicano. Considerate di per sè,
cioè senza essere riempite di dati provenienti dal senso esterno o interno, sono vuote.
Questo fa sì che esse risultino operanti solo in relazione al fenomeno, intendendo per
quest'ultimo l'oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi di un
elemento materiale e di uno formale. Di conseguenza, il conoscere, per Kant, non può
estendersi al di là dell'esperienza, in quanto una conoscenza che non si riferisca
all'esperienza possibile non è conoscenza, ma un vuoto pensiero che non conosce nulla,
un semplice gioco di rappresentazioni.
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invece che tale possibilità non sussista in quanto l'esperienza, essendo condizionata
dalle categorie dell'intelletto e dall’io penso, non può mai smentire i principi che ne
derivano. In tal modo, le leggi della natura risultano pienamente giustificate nella loro
validità, in quanto l'esperienza che le rivela non potrà mai smentirle, giacché esse
rappresentano le condizioni stesse di ogni esperienza possibile.
Se dalla Critica della ragion pura emergeva una visione della realtà in termini
meccanicistici, in quanto la natura, dal punto di vista fenomenico, appariva come una
struttura causale e necessaria, nell'Analitica dei principi Kant tenta un'assiomatizzazione
della fisica newtoniana e post-newtoniana fissando una serie di assiomi a priori, fondati
non su rilievi empirici bensì sulle stesse intenzionalità nozionali delle categorie. È vero
che oggi tutto questo apparato di assiomi conserva solo qualche interesse più che
storico, tuttavia è notevole osservare in tale dottrina kantiana alcuni aspetti di grande
importanza nei riguardi del pensiero scientifico moderno. Intanto questo: i principi che
Kant espone sono piuttosto regulae philosophandi che non leggi scientifiche; tuttavia
sorpassano lo stato di meri consigli metodologici per divenire le strutture di ogni
scienza della natura in generale. Indipendentemente dal loro contenuto materiale, i
risultati dell'esperienza non possono venire pensati e formare un sistema, una scienza,
se non entro i quadri costituiti da tali principi. I quali, al solito, non sono dati empirici,
ma neppure sono fondati su idee in senso platonico-cartesiano; perciò costituiscono
soltanto condizioni di scientificità del nostro discorso. Tra questi principi è quello che
Laplace (principio di ragione sufficiente) considerava fondamentale per la scienza, il
principio del determinismo: Tutto ciò che accade presuppone qualcosa cui esso segua
secondo una regola. Il determinismo dunque non è una struttura ontologica della realtà
in sé, esso appartiene al nostro modo di costruire una scienza in generale; ma d'altra
parte non vi è scienza senza un postulato deterministico.
Il grande lavoro matematico del secolo XVIII, in primis l’analisi, non era fine a se
stesso, perché il grande problema era l'elaborazione di un completo sistema deduttivo
di meccanica analitica. Di problemi di geometria analitica applicata alla meccanica, di
trattazioni analitiche mediante il nuovo potente strumento del calcolo infinitesimale si
occupano più o meno i matematici del tempo, cosicché la meccanica diviene
interamente un ramo dell'analisi; i concetti meccanici fondamentali (velocità,
accelerazione, forza, energia, lavoro, ecc.) vengono risolti in formule analitiche, in
derivate e integrali di funzioni; alla base di tutta la scienza della natura viene messa una
nuova disciplina, altamente matematica come la cinematica analitica; e questo segna in
seno alla filosofia della natura un trionfo, e un rinnovamento, della concezione
razionalistica di fronte all'empiristica che era sembrata trionfare per l'autorità del
grande Newton. Il passaggio dalla trattazione geometrica della meccanica di Newton a
quella analitica non avvenne senza contrasti, soprattutto in relazione all’oscurità dei
nuovi concetti dinamici come quelli di massa, inerzia, forza e dei concetti metafisici che
li accompagnano, come quelli di causa, effetto, azione, ecc.
curiosamente la deduce non dalla seconda legge del moto, ma dalle leggi di caduta dei
gravi e quindi senza alcun riferimento alla massa. Risalgono a Varignon anche la
formulazione dei Principi della Statica, la formulazione della definizione di risultante di
più forze e di momento statico e dimostrò razionalmente le due regole fondamentali
della statica : la Regola del parallelogramma sulla somma di più forze inclinate concorrenti
e il celebre Teorema di Varignon sui momenti statici di più forze e della loro risultante.
a trattare ogni problema meccanico, pure nel corso del secolo, si ritenne conveniente
introdurre principi particolari (dei lavori o velocità virtuali, della conservazione del
centro di gravità, del momento, delle aree, della forza viva ecc.), atti a consentire una
più facile trattazione di alcuni gruppi di problemi, e D’Alembert, nel suo trattato di
dinamica, enuncia il principio della quantità di moto:
PRINCIPIO DI D’ALEMBERT
Se si considera un sistema di punti materiali legati tra loro in modo che le loro masse
acquisiscano velocità rispettive differenti a seconda se esse si muovano liberamente o
solidalmente, le quantità di movimenti acquisite o perse nel sistema sono uguali.
Nel 1747 D’Alembert trovò l'equazione alle derivate parziali del secondo ordine
che regge le piccole oscillazioni di una corda omogenea vibrante.
i movimenti possibili, quello che avrà luogo, quello scelto dalla natura, è quello che
minimizza tale azione. Sembrerebbe quindi che la natura abbia una capacità di
decisione e per questo Maupertuis si sentì autorizzato a saltare dalla fisica alla
metafisica. E' proprio questa economia dell'azione, affermò Mapertuis, a rivelarci la
saggezza divina: “E’ questo un principio pieno di saggezza, degno dell’Essere Supremo”.
In definitiva possiamo affermare che la natura segue sempre le vie più semplici, e le vie
più semplici sono quelle che minimizzano il dispendio della natura, cioè l'azione.
Le critiche al principio non si fecero attendere, ma furono più feconde che nocive.
Infatti il fisico olandese Samuele Koenig (1712-1757) fu il primo ad osservare che
nell’enunciato occorre talvolta mutare la parola minimo con quella di massimo, sicché
crolla dai fondamenti la conclusione teleologica che Maupertuis aveva posto alla base
del suo principio. La validità delle critiche di questo genere è stata così pienamente
riconosciuta dalla fisica moderna, che invece di parlare di principi di minimo, oggi si
parla di principi variazionali, o estremali, cioè relativi a minimi o a massimi.
fisica delle forze centrali. Il cosmo viene rotto in sistemi parziali ma indipendenti, sul
modello del sistema solare, entro i quali masse (idealmente assimilate a punti-massa,
idealmente elastici, con la provvisoria scomparsa dell'atomo boyliano-newtoniano) sono
considerate in movimento (attuale o potenziale) con determinate velocità iniziali, e
assoggettate ad accelerazioni-forze (siano esse gravitazionali o di urto) che ne
determinano le traiettorie nello spazio euclideo; tutti i fatti fisici sono riconducibili o a
tali movimenti o agli effetti meccanici di tali movimenti.
eventi futuri e anche di determinare la data precisa di quelli trascorsi. Proprio su queste
considerazioni si inserisce la giustificazione del calcolo delle probabilità. Il
determinismo meccanicista ci garantisce la perfetta razionalità del decorso dei
fenomeni, esclude cioè l’irrazionalità. L’immagine laplaciana dell’intelligenza suprema
pone però in luce due condizioni indispensabili per afferrare tale razionalità: 1) la
conoscenza sicura dell’esatta distribuzione di tutti i corpi e di tutte le forze della natura
in un dato istante t; 2) il pieno possesso dello strumento matematico. Entrambe sono da
noi irraggiungibili, specialmente la prima che comporterebbe un’infinità di
osservazioni, e di conseguenza noi sappiamo che non potremo mai avere una
conoscenza piena e completa di tutto l’universo; sappiamo anzi qualcosa di più, che
l’ignoranza di un evento non può far a meno di ripercuotersi negativamente sulla
nostra conoscenza di tutti gli altri, data la loro rigida interconnessione. La realtà dei
progressi scientifici ci dimostra però, con l’evidenza dei fatti, che siamo
indiscutibilmente in grado di muoverci entro l’intervallo esistente tra ignoranza totale e
onniscienza, avvicinandoci a questo secondo estremo e allontanandoci dal primo; si
tratta di prendere atto di questo stato di cose e inventare uno strumento che tenga conto
sia della nostra parziale ignoranza sia della nostra parziale conoscenza. Questo
strumento è per l’appunto costituito dal calcolo delle probabilità, che secondo Laplace,
rappresenta la chiave di tutte le scienze.
Se l’uomo non può entrare in possesso di una scienza completa ed esaustiva,
come pretenderebbe il metafisico, non è nemmeno condannato ad una ignoranza
completa. Se non può conoscere intuitivamente l’intera realtà, è tuttavia in grado di
approssimarla, di avvicinarsi gradualmente ad essa, di formulare teorie che senza
dubbio saranno sempre rivedibili (sempre solo parzialmente vere) ma che costituiscono
comunque autentici importantissimi passi sulla via della verità totale. Laplace è ben
disposto ad ammettere che la conoscenza probabile non esaurisce la verità, ma sostiene
con estrema decisione che essa è pur sempre conoscenza. La conoscenza
onnicomprensiva resta giustificata come limite cui possiamo e dobbiamo tendere; essa
ha diritto di intervenire nel programma degli scienziati, ma non può essere considerata
come qualcosa di reale. Reale è invece la conoscenza probabile, che rappresenta
l’autentica situazione di tutto il conoscere umano. La conseguenza di queste
argomentazioni è chiara: l’uso del calcolo delle probabilità nella fisica è non solo lecito
ma indispensabile. Il determinismo della natura e l’uso del calcolo delle probabilità non
si escludono ma si integrano a vicenda: è il presupposto di ogni conoscenza scientifica,
l’unica via, realmente in possesso dell’uomo, per accertarsi che il mondo è
effettivamente regolato da leggi ossia che è davvero un mondo ordinato anche se il suo
ordine può in parte sfuggire allo studioso che si sforza di scoprirlo.
Quanto detto consente a Laplace di interpretare i rapporti tra la matematica e la
fisica in modo diverso da come l’avevano interpretato i grandi scienziati del Settecento.
Secondo lui la matematica non ha più il compito di fornire alla fisica principi necessari
ed evidenti, capaci di garantirne a priori l’assoluta scientificità, o dare eleganza alla
teoria fisica. Vi compie invece una funzione essenziale, che trasforma la fisica da pura
registrazione dei fenomeni in conoscenza via via più approssimata di leggi. Le
espressioni usate da Laplace per esporre la propria posizione possono a prima vista
sembrare quasi contraddittorie. Per un lato infatti scrive che “bisogna bandire dalla
scienza ogni empirismo”; per l’altro afferma che la stessa matematica deve piegarsi alle
esigenze della conoscenza fattuale. Il fatto è che l’autentica scienza, per il nostro
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Accanto all'attività teorica, la meccanica del XVIII secolo affina anche l'aspetto
sperimentale. Macchine semplici, bilance idrostatiche e di precisione, tubi di Newton,
piani inclinati di Galileo, macchine per la forza centrifuga, dispositivi per lo studio
dell'urto, pompe idrauliche, pompe pneumatiche, areometri, barometri, tutti costruiti
con cura, talvolta ingombranti, sempre costosi, costituivano le apparecchiature
tradizionali correnti per ogni corso di meccanica sperimentale. In questo contesto
George Atwood (1746-1807), aveva costruito una macchina per dimostrare la maggior
parte dei teoremi sulla velocità, la forza, l'accelerazione, e l'uniformità del movimento
rettilineo.
7.9 L’ottica
Alle assurdità del sistema newtoniano si deve opporre una nuova teoria,
l'ondulatoria: la luce è una vibrazione di una materia sottile chiamata etere, diffusa in
tutto l'universo e compenetrata nei corpi, la cui bassissima densità e grandissima
elasticità ne spiega l'enorme velocità rispetto al suono. Per Eulero l'analogia tra luce e
suono è perfetta: “la loro differenza è solo di grado”, dice, onde egli si assume il
compito di riportare tutti i fenomeni ottici sotto il dominio della meccanica. Come
l'altezza dei suoni dipende dalla frequenza, così la diversità dei colori dipende dalla
diversità di frequenza delle vibrazioni dell'etere, corrispondendo alla massima e
minima frequenza rispettivamente il colore violetto e il colore rosso. La luce bianca è
una mescolanza di tutti i colori. La teoria del colore dei corpi illuminati è esemplata sul
fenomeno di risonanza acustica. Se la luce, argomenta Eulero, fosse riflessa da un corpo
opaco su cui cade, l'osservatore non vedrebbe il corpo opaco, ma la sorgente da cui
proviene la luce incidente, come avviene in uno specchio: altrimenti, dunque, va
interpretata la visibilità dei corpi opachi illuminati. Precisamente, secondo Eulero, la
luce che vi arriva mette in moto vibratorio le particelle della loro superficie in risonanza
con l'onda luminosa incidente. Ne deriva che, affinché un corpo appaia di un certo
colore, la luce che lo investe deve contenere quel colore e le particelle della sua
superficie debbono poter vibrare con la frequenza corrispondente. In altre parole, il
corpo opaco capta la luce incidente e la riemette con la frequenza che le sue particelle
superficiali sono capaci di assumere. In questa teoria s'inquadra perfettamente
l'interpretazione della fosforescenza, fenomeno fino allora rimasto ai margini delle
teorie ottiche.
La teoria di Eulero non ebbe seguito apprezzabile, i più la ignorarono, pochi la
confutarono e il suo solo effetto benefico forse consistette nel confermare i dubbiosi,
come D'Alembert, nel loro atteggiamento agnostico: poiché sulla natura della luce non
sappiamo nulla, il comportamento scientifico più corretto è la pura descrizione dei
fenomeni.
sorgono dalla varia mescolanza di luce e d’ombra: si trattava di vecchie idee, che ormai
erano state superate da un pezzo.
I fenomeni termici erano già noti all'alba della civiltà. Ogni forma di tecnologia
dei metalli richiedeva l'applicazione del calore, e le nozioni empiriche in proposito si
dovettero accumulare molto presto. Prima di Platone si riteneva che fuoco e calore
fossero la stessa cosa. Il filosofo greco cominciò a distinguere fra queste due entità,
affermando che il calore fosse una percezione provocata dalla penetrazione della
fiamma nella materia. Anche Aristotele elaborò una sua teoria in merito: egli sostenne
che il calore fosse generato dall’eccitazione dell’etere da parte del Sole e del fuoco.
Dovettero passare molti secoli prima che le concezioni dei filosofi greci venissero messe
in discussione.
Per un lungo periodo di tempo, lo studio scientifico del calore si intrecciò con
quello dei gas che, durante il XVIII secolo, era al centro dell'attenzione. Potremmo
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arbitrariamente segnare la data d'inizio dello studio scientifico del calore facendola
risalire alla costruzione dei primi termometri dell'Accademia del Cimento, attorno al
1650. Già Galileo aveva costruito, tempo prima, un termoscopio, ma furono i membri
dell'Accademia, in maggioranza suoi allievi, a usare ampiamente e sistematicamente i
termometri. Si trattava comunque di uno strumento che non aveva punti fissi: i dati
ottenuti con termometri differenti non potevano quindi essere confrontati tra loro.
Nel 1701 Newton aveva proposto una scala in cui il punto di congelamento
dell'acqua era assunto come lo zero e la temperatura del corpo umano aveva il valore
12. Naturalmente si presupponeva che il coefficiente di espansione del fluido utilizzato
nel termometro fosse costante, o, per meglio dire, si definiva la temperatura in modo da
rendere costante quel coefficiente. Alcuni anni dopo Gabriel Fahrenheit (1686-1736)
propose di assumere come punto zero la temperatura più bassa che si poteva allora
ottenere usando una miscela di ghiaccio e di sale. Poco dopo la morte di Fahrenheit si
scelsero come punti fissi la temperatura di congelamento e quella di ebollizione
dell'acqua a pressione atmosferica (scala Celsius).
Per tutta la prima metà del Settecento la fisica si dedicò alla costruzione e al
perfezionamento dei termometri, convinta che essi misurassero “i gradi di calore”. La
generalità dei fisici riuniva in un unico confuso concetto tanto la sensazione termica che
il calore. Le teorie, pur con numerose variazioni, erano sostanzialmente due,
tramandate dall'antichità classica e rinverdite dal rinascimento: la teoria cinetica e la
teoria sostanziale.
calore consiste nel moto intestino della materia, cioè nel moto delle sue ultime
particelle. Ma dei tre movimenti che una particella può avere, traslatorio, oscillatorio,
rotatorio, qual è quello nel quale propriamente consiste il calore? Lomonosov esclude i
due primi movimenti per ragioni che oggi possono apparire insufficienti, ma che ai suoi
tempi si presentavano come abbastanza ragionevoli (come puo esservi inavvertito
tremolio di particelle in un corpo solido, compatto?), ed è perciò condotto ad affermare
che il calore consiste nel moto rotatorio delle ultime particelle costituenti i corpi. La
produzione di calore per attrito (fenomeno fondamentale da lui invocato a sostegno
della teoria meccanica), la propagazione del calore, i cambiamenti di stato sono
interpretati meccanicamente come trasmissione di moto rotatorio tra particelle a
contatto con le loro superfici. La teoria prevede anche un limite inferiore del calore, cioè
della temperatura, ma non un limite superiore: “perché non si può assegnare nessuna
velocità di moto tanto grande che un'altra maggiore non si possa immaginare. .. Per
contro il moto può essere diminuito sino a ridurre il corpo in quiete e non può esservi
alcuna ulteriore diminuzione di moto”.
In conclusione, Lomonosov, senza dubbio ispirato dalla teoria di Bernoulli a lui
ben nota, sostanzialmente accetta gli urti elastici bernoulliani, come fenomeno
secondario, conseguente all'attrazione newtoniana e al moto rotatorio degli atomi, una
teoria più elaborata, di più difficile comprensione, ma che aveva sulla bernoulliana il
vantaggio di indicare che il meccanismo che consente di percepire il moto e un calore.
Tanto la teoria di Bernoulli che quella di Lomonosov furono presto dimenticate, forse
perché troppo premature rispetto alla scienza del tempo. Quando una teoria anticipa
troppo i tempi, viene facilmente dimenticata.
Per tutto il XVIII secolo convisse con la teoria meccanica anche la teoria
fluidistica, la quale, anzi, con l'inoltrarsi del secolo, andava via via acquistando
maggiori simpatie. Alla teoria fluidistica si era avvicinato anche Galileo, che ipotizzava
“atomi di fuoco” che si insinuano nei corpi, in particolare nei fluidi e ne determinano la
dilatazione. La teoria fluidistica era un'ipotesi rappresentativa d'immediata intuizione,
con facili nessi analogici, che nella prima metà del secolo fu in felice connubio con la
teoria del flogisto.
La teoria del flogisto (dal greco=combustibile) era stata elaborata da Johan J.
Becher (1635-1682), uno scienziato tedesco, e ampiamente sviluppata e perfezionata da
un altro scienziato tedesco, Georg E. Stahl (1660-1734). La teoria del flogisto postulava
l'esistenza di una sostanza, il flogisto, che si pensava fosse contenuta in tutti i corpi
combustibili; il flogisto si liberava sia quando veniva bruciato materiale organico, sia
trattando metalli con il calore in aria libera. Questa azione trasformava i metalli in
metalli deflogisticati, quelli che noi oggi chiamiamo ossidi. Un ossido poteva tuttavia
riacquistare il proprio flogisto per riscaldamento con carbone, il quale era un qualcosa
contenente flogisto quasi puro. Stahl sapeva che gli ossidi pesavano più dei metalii dai
quali originavano, ma si potevano trovare scappatoie attribuendo al flogisto un peso
negativo o cercando altre vie per sfuggire a quelle difficoltà. La teoria del flogisto
poteva essere adattata alla spiegazione di molti fatti, ha la sua importanza nella storia
della chimica ed è servita a interpretare, sia pure erratamente, notevoli scoperte, come
quella dell'ossigeno. Il flogisto non era calore, ma quando si liberava dai corpi
produceva calore. La teoria non s’identificava, perciò, con la teoria sostanziale del
calore.
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La comunità scientifica iniziò a domandarsi, non solo quale fosse la natura del
calore, ma come questa grandezza, distinta dalla temperatura, potesse essere
quantificata. Il primo uomo che ne parlò come di un’entità fisica definita, misurabile, fu
Joseph Black (1728-1799). Egli riteneva che il calorico fosse un fluido straordinariamente
elastico, imponderabile e indistruttibile, capace di penetrare nella materia quando essa
veniva riscaldata e di uscirne quando veniva raffreddata. L’equilibrio termico tra due
corpi, posti a contatto, veniva giustificato come il risultato di un flusso di calorico dal
corpo più caldo a quello più freddo, fino al raggiungimento della stessa temperatura.
Da questa idea fondamentale Black è condotto a formulare regole di misura per il calore
e un primo metodo di misura, quello delle mescolanze. Black definì poi la caloria ed
affermò che quantità uguali di sostanze diverse portate alla stessa temperatura
contengono quantità diverse di “calorico”. Nacque, in tal modo, il concetto di capacità
termica delle diverse sostanze. Un altro importante concetto introdotto da Black fu
quello di calore latente, cioè la quantità di calore necessaria per trasformare acqua in
ghiaccio a 0 °C o per trasformare acqua bollente in vapor d’acqua a 100 °C. Sino a Black
si riteneva che bastasse portare un solido alla temperatura di fusione, perché le forze di
attrazione tra le sue molecole s'indebolissero tanto da far assumere al corpo lo stato
liquido. Black fece tramontare la teoria con un esperimento fondamentale: a una massa
di ghiaccio a 32 °F (0 °C) aggiunse un'eguale massa d'acqua a temperatura via via
crescente sino a ottenere la fusione di tutto il ghiaccio, rimanendo la temperatura di
tutta la massa a 32 °F. Trovò così che la temperatura dell'acqua calda da aggiungere era
di 172 °F (circa 58,3 °C). Ossia, come oggi diremmo, il calore di fusione del ghiaccio è
circa 76 cal/g⋅°C. Ma il risultato sperimentale smentiva il punto fondamentale della
teoria sostanziale del calore: la costanza della quantità di calore nei fenomeni termici.
Nell'esperimento l'acqua calda cedeva al ghiaccio calore, ma questo spariva, non si
trovava più come aumento di temperatura del ghiaccio e perciò non era rivelabile al
termometro. Come far rientrare l'andamento del fenomeno nella teoria? come
aggiustare il conto? Black non ebbe esitazioni: saldò il conto inventando il calore
nascosto o, in termini moderni, il calore latente. Durante la fusione una parte di calore si
fissa sulle molecole del corpo e non è più rilevabile dal termometro, il quale rivela
soltanto il calore libero. Imboccata la via del calore latente, altri fenomeni ricevevano
interpretazioni del medesimo tipo. Le idee teoriche di Black, comunque, sono ancora
dominate dal concetto di flogisto.
calorico (vocabolo da lui usato per indicare il fluido calore), come dimostra la
refrigerazione che sempre accompagna l'evaporazione. Ma l'evaporazione di un liquido
in ebollizione è un fenomeno per sua natura completamente differente, nel senso che la
parte di liquido sciolta nell'aria è quasi trascurabile rispetto alla parte di liquido sciolta
nel calorico. Lavoisier, pertanto, proponeva di chiamare vaporizzazione quest'ultimo
fenomeno ed evaporazione il primo: vocaboli che ci sono rimasti ormai come sinonimi,
sebbene il primo abbia una certa sfumatura di rafforzamento. Ma la distinzione fisica
saliente tra i due fenomeni è, secondo Lavoisier, che nell'evaporazione la quantità di
vapore prodotto è proporzionale alla superficie evaporante e nella vaporizzazione alla
quantità di calorico fornita. Lavoisier, insomma, fa un passo indietro rispetto alla
scienza di Black.
La meccanica fu la prima parte della fisica a essere sviluppata secondo gli schemi
che usiamo oggi e servì da modello per il lavoro successivo e, per molto tempo, vi
furono la speranza o l'illusione di ridurre a essa tutta la fisica. L'elettromagnetismo
costituisce l'altro grande pilastro della fisica classica, e, in ultima analisi, si dimostrò
irriducibile alla meccanica.
Al tempo della morte di Newton, quando la meccanica aveva quasi preso la sua
configurazione moderna, la maggior parte delle scoperte relative all'elettricità doveva
essere ancora fatta, infatti, la fenomenologia dell'elettrostatica e della magnetostatica fu
esplorata in larga misura solo nel XVIII secolo, che abbonda di studiosi dell'elettricità e
di scoperte importanti anche se isolate da un contesto generate. L’elettricità fu la prima
branca della fisica moderna le cui origini riposano interamente sull’esperimento, e non
sullo sviluppo di una catena di idee risalenti fino all’antichità. In questo senso,
l’elettrologia fu una scienza veramente baconiana.
Il primo passo necessario per progredire rispetto a quanto si era ottenuto
strofinando il vetro e l'ambra era quello di costruire macchine che fossero in grado di
eseguire lo strofinio in modo efficiente. Otto von Guericke, al fine di fare esperimenti
sul comportamento di certi fenomeni in un vuoto pari a quello che doveva esistere nello
spazio celeste e sull’esistenza di molte virtù che avrebbero dovuto agire a distanza,
costruì una sfera di zolfo mescolato con vari minerali, che poteva essere elettrizzata per
strofinio. Questa sfera gli permise di rilevare parecchie virtù, oltre a essere la prima
macchina elettrostatica.
Il successivo passo nello studio dell'elettricità, la scoperta dei conduttori e degli
isolanti, fu in gran parte merito di un inglese Stephen Gray (1666-1736), che cominciò
facendo esperimenti con un lungo tubo di vetro elettrizzato a una delle estremità e
chiuso da entrambe le parti con tappi di sughero. Osservazioni casuali lo portarono a
modificare l'esperimento, inserendo in uno dei sugheri un bastoncino diretto verso
l'esterno del tubo e così facendo notò che l'elettrizzazione impartita al vetro si
propagava al sughero e al bastoncino. Egli in seguito estese la sperimentazione su
grandi distanze e, mantenendo sospeso un filo per mezzo di cordicelle di seta, riuscì a
trasportare l'elettricità per più di 90 metri. Tuttavia le cordicelle di seta si ruppero sotto
il peso e, quando furono sostituite con fili metallici più robusti, gli effetti elettrici non
vennero più trasmessi. Alla fine Gray interpretò questo esperimento e altri del genere
introducendo la distinzione tra isolanti e conduttori.
Il successivo importante studioso dei problemi dell'elettricità è il francese Charles
Dufay (1698-1739), che scoprì che vi sono due, e solo due, specie di elettricità e le
chiamò elettricità vetrosa ed elettricità resinosa, perché si manifestavano strofinando
rispettivamente il vetro o una sostanza resinosa (oggi parliamo invece di cariche
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positive e negative). È degno di nota che per stabilire questo fatto fondamentale siano
stati necessari più di cento anni a partire da Gilbert; Dufay accertò che elettricità di
specie uguali si respingono, mentre quelle di specie diverse si attraggono. Nel 1733 egli
assunse un collaboratore per le ricerche sui fenomeni elettrici, l’abate Jean Antoine
Nollet (1700-1770), che formulò una teoria dell’elettricità che andò per la maggiore per
alcuni anni, ma che oggi non ha interesse per i fisici. Egli immagina l’esistenza di un
fluido, forse il medesimo della materia del fuoco e della luce, sparso in tutto l’universo e
compenetrato nei corpi. Lo sfregamento di un copro lo commuove ed esso ne zampilla
in filetti di numero discreto fortemente divergenti. Questa fuoriuscita di materia
effluente richiama dai corpi vicini la materia affluente di eguale natura, che, in quantità
eguale, entra con minore velocità da più numerosi pori. I fenomeni elettrici sono effetti
meccanici dei due flussi di materia elettrica, la cui sede è il corpo elettrizzato.
venire caricato in isolamento completo. In effetti, il solo fenomeno che la teoria dello
scienziato americano non poteva spiegare era la repulsione tra due corpi caricati
negativamente, un punto del quale all’inizio fu inconsapevole. Infatti, poiché la carica
negativa indicava una mancanza del fluido elettrico, la materia normale dei due corpi
avrebbe dovuto manifestare una mutua attrazione leggermente maggiore del solito. Lo
scienziato americano attribuisce al fluido elettrico tre proprietà fondamentali: l’estrema
sottigliezza, la mutua repulsione tra le sue parti; la forte attrazione tra la materia
elettrica e la materia ordinaria.
Franklin fu un rappresentante dell’illuminismo nel contesto americano, e il
principale apporto all'elettrologia fu l'idea della conservazione della carica elettrica e le
conseguenze che ne trasse:
Si deve però aggiungere che parecchi studiosi, in primo luogo William Watson
(1715-1787), arrivarono indipendentemente a concezioni analoghe. Secondo Franklin un
corpo contiene un'uguale quantità di elettricità positiva e di elettricità negativa che, in
condizioni normali, si neutralizzano esattamente l'una con l'altra. L'elettrizzazione è la
separazione delle due forme di elettricità, positiva e negativa, con la conseguenza che la
loro somma deve rimanere costante e pari a zero. Franklin illustrò questi concetti con
esperimenti nei quali due persone, in piedi su piattaforme isolate, ricevevano l'elettricità
da un tubo di vetro strofinato con un panno: uno dei due soggetti la riceveva dal vetro,
l'altro dal panno. Quando essi avvicinavano le dita, una scintilla passava dall'uno
all'altro ed entrambi venivano neutralizzati. Altri esperimenti analoghi a questo ne
variavano la forma ma non la sostanza. Per quanto questo risultato fosse importante, la
fama di Franklin presso il grande pubblico è dovuta soprattutto ai suoi esperimenti
sull'elettricità atmosferica, esperimenti culminati nell'invenzione del parafulmine. A
quel tempo le idee riguardanti il fuoco, la combustione, il fulmine, le scintille e le
scariche elettriche erano confuse. Franklin suppose che il fulmine fosse una gigantesca
scintilla elettrica: egli aveva già dimostrato che un corpo appuntito perde facilmente la
sua carica elettrica e, combinando questi due fatti, pensò di riuscire a scaricare un
edificio in modo graduale, proteggendolo così dal fulmine. Gli esperimenti eseguiti,
dapprima in Francia da altri e successivamente a Filadelfia da Franklin, dimostrarono
che si poteva effettivamente estrarre l'elettricità dalle nuvole.
LEGGE DI COULOMB
La forza (attrattiva o repulsiva) fra due cariche elettriche puntiformi Q1 e Q2 ha modulo F
direttamente proporzionale al prodotto delle cariche e inversamente proporzionale al
quadrato della distanza r che le separa:
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560000 volte più resistente al passaggio di elettricità del ferro, nelle stesse condizioni di
configurazione geometrica.
Una buona parte delle ricerche sull'elettricità stava quindi giungendo a un certo
stadio di maturità quando altre scoperte sperimentali aprirono nuovi orizzonti e
rivelarono che quanto già si conosceva era appena la proverbiale punta dell'iceberg. I
nuovi indirizzi provennero da una fonte del tutto inaspettata; le ricerche di un
anatomista e biologo professionale, Luigi Galvani (1737-1798) di Bologna. Gli studiosi
dell'elettricità avevano constatato per anni l'esistenza di effetti fisiologici delle scariche
elettriche e di connessioni, reali o immaginarie, tra fenomeni elettrici e biologici. Gran
parte di questo lavoro era sbagliata, talvolta anche fraudolenta, e, nel complesso,
l'argomento non era considerato molto serio. Galvani, d'altronde, era molto stimato e
quanto affermò in una pubblicazione in latino del 1791, intitolata De viribus electricitatis
in motu musculari commentarius, attirò subito l'attenzione e l'accurato esame degli esperti.
Egli modificò gli esperimenti fatti finora in molti modi, e scoprì che l'elettricità
atmosferica agiva sulle rane e anche che le contrazioni aumentavano se si mettevano
fogli metallici sui muscoli in modo da costituire una specie di bottiglia di Leida, con la
rana stessa in funzione di bottiglia. Un notevole effetto si otteneva inoltre toccando i
nervi e le gambe con un arco metallico, e la reazione era molto più intensa se l'arco era
composto di due metalli differenti. Da questi esperimenti Galvani sperava di trarre
conoscenze su quella natura dello spirito animale che egli studiava da anni; invece
iniziò due grandi capitoli della scienza, l'elettrofisiologia e lo studio delle correnti
elettriche. Che egli non riuscisse a dipanare la matassa è più che naturale: nessuno vi
riuscì per molti anni, e Galvani si trovò presto immerso in una controversia scientifica
soprattutto con Volta. Quest'ultimo peraltro aveva una visione chiara solamente di una
parte del problema complessivo: la parte restante di elettrofisiologia non è ancora oggi
chiarita del tutto.
È qui che incontriamo uno dei fondatori della scienza elettrica, Alessandro Volta
(1745-1827), dal cui nome deriva il volt, l’unità di misura della tensione. Giovan
Battista Beccaria (1716-1781), a quel tempo studioso di elettricità affermato e
internazionalmente noto, stimolò Volta a fare poche teorie e a basarsi soprattutto sulla
sperimentazione. Infatti le opinioni teoriche del giovane Volta erano assai meno
importanti dei suoi esperimenti. Man mano che passavano gli anni, Volta approfondì la
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conoscenza sull'elettricità statica giungendo al livello dei migliori studiosi del suo
tempo, e cominciò a costruire strumenti originali.
Il loro successo e la loro importanza
derivavano dal fatto che egli aveva ormai idee
chiare (usando termini moderni) a proposito della
quantità di elettricità Q, del potenziale (o tensione,
come egli diceva) V e della capacità elettrica C,
nonché della relazione Q=CV. Un ottimo esempio di
strumento voltiano è l'elettroforo. Una piastra
metallica conduttrice, appoggiata su una focaccia
isolante, viene prima portata a terra, ossia a
potenziale zero, poi isolata e sollevata dalla focaccia. La piastra diventa così carica a
potenziale elevato e l'operazione può essere ripetuta indefinitamente. L'invenzione era
molto ingegnosa e fu successivamente sviluppata in una intera serie di macchine
elettrostatiche. Volta era inoltre consapevole di dover misurare quantitativamente le
grandezze elettriche, e inventò un elettrometro, il precursore di tutti gli elettrometri
assoluti elettrostatici, che poteva misurare le differenze di potenziale in modo
riproducibile.
Poco dopo aver compiuto 45 anni Volta lesse i lavori di Galvani che dovevano
avviarlo alla sua più grande invenzione. All'inizio Volta concordava con l'opinione di
Galvani, che assimilava la rana a una bottiglia di Leida, ma dopo alcuni mesi cominciò a
sospettare che la rana fosse soprattutto un rivelatore e che la fonte dell'elettricità fosse
esterna all'animale. Osservò anche che se due metalli diversi posti a contatto l'uno con
l'altro vengono messi sulla lingua, si avverte una particolare sensazione, a volte acida e
a volte alcalina. Egli suppose, e lo potè dimostrare con misurazioni elettrostatiche che
suscitano ancora oggi la nostra ammirazione, che due metalli diversi, come il rame e lo
zinco, assumono, una volta a contatto, potenziali diversi. Misurò poi questa differenza
di potenziale, ottenendo risultati non eccessivamente diversi da quelli che oggi
attribuiamo alla differenza di potenziale di contatto. Volta spiegò quindi gli esperimenti
di Galvani, almeno nel caso in cui l'arco metallico che collegava i muscoli con i nervi era
bimetallico, supponendo che la rana fosse semplicemente un elettrometro estremamente
sensibile.
Naturalmente Galvani rispose che si potevano osservare le contrazioni anche
quando l'arco metallico era composto di un solo materiale: si trattava di una obiezione
seria e Volta, per difendere la sua tesi , invocò le disomogeneità nel metallo e altre
cause. Uno studio più approfondito del problema da parte di Volta dimostrò che egli
aveva sostanzialmente ragione e portò all'invenzione della pila, una delle meraviglie di
tutti i tempi. Volta scoprì che i conduttori di elettricità possono essere divisi in due
classi: la prima comprende i metalli che, una volta a contatto, raggiungono potenziali
diversi, la seconda comprende i liquidi (elettroliti, nel linguaggio moderno) che non
possono assumere un potenziale molto diverso da un metallo immerso in essi. Inoltre i
conduttori della seconda categoria, una volta messi a contatto, non assumono potenziali
sensibilmente diversi. Per di più quelli della prima categoria potevano essere ordinati in
una scala tale che ciascuno di essi era positivo rispetto al successivo (per esempio lo
zinco rispetto al rame): in una catena di metalli la differenza di potenziale tra il primo e
l'ultimo era la stessa che ci sarebbe stata se i contatti intermedi non fossero esistiti e il
primo e l'ultimo membro della serie fossero stati in contatto diretto:
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Galvani morì nel 1798, ancora convinto che la sua tesi fosse giusta e che
l'elettricità animale non fosse uguale all'elettricità ordinaria. Volta proseguì nel suo
lavoro e, basandosi sulle scoperte già citate, arrivò infine all'idea di combinare un certo
numero di conduttori del primo e del secondo tipo in modo tale che le differenze di
potenziale generate in ciascun contatto si sommassero tra loro. Egli chiamò tale
strumento pila, perché era composto da una pila di dischi di zinco, di rame e di panno
imbevuto di acido. La pila generava una corrente elettrica continua di intensità
maggiore, per ordini di grandezza, di quella che si poteva ottenere con le macchine
elettrostatiche, e in questo modo essa dava il via a una vera rivoluzione scientifica.
Volta non solo aveva scoperto la prima nuova fonte di energia in duemila anni, ma
aveva mostrato che la chimica è una scienza elettrica. In questo Volta, però, mostrò poco
interesse, negando, erroneamente, che le azioni chimiche giocassero un ruolo primario
nella produzione di elettricità da parte delle sue pile. Altri si impadronirono di questo
punto, concettualmente così affascinante e sperimentalmente così fertile.
Dopo l'invenzione della pila Volta scomparve praticamente dalla scena e lo
sfruttamento della sua scoperta fu lasciato ad altri. Probabilmente era troppo vecchio
per competere con forze più giovani e fresche, ed è anche possibile che egli fosse
psicologicamente bloccato dalla stessa grandezza dei suoi precedenti risultati. Egli non
lasciò una scuola, il suo modo di lavorare era troppo personale e la mancanza di
matematica nei suoi scritti e insegnamenti può aver limitato la sua capacità di
comunicare.
La scoperta della pila pose un nuovo strumento nelle mani dei fisici sperimentali
e questa nuova fonte di elettricità stimolò subito una nuova serie di ricerche
sperimentali e richiese nuovi concetti teorici.
dinamicità dei fenomeni elettrici, per cui è naturale che la letteratura scientifica del
Settecento sul magnetismo non ha l’ampiezza e la prolificità di quella sull’elettricità.
Comunque, tre furono le direttrici principali dell’indagine magnetica: ricercare la legge
di attrazione e repulsione magnetica, analoga a quella di Coulomb; aumentare
l’intensità di magnetizzazione delle calamite artificiali; studiare i fenomeni di
magnetismo terrestre, in particolare determinare l’intensità del magnetismo terrestre e
l’inclinazione magnetica, alla quale Bernoulli ed Eulero dedicarono delle memorie in cui
mostravano che le difficoltà da superare non erano solamente di ordine empirico, ma
più propriamente di natura concettuale.
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8.1 Introduzione
L’inizio del XIX secolo fu senza dubbio uno dei periodi più agitati per l’Europa.
Basti ricordare le guerre di Napoleone, le radicali trasformazioni da lui realizzate
nell’apparato amministrativo della Francia e dei paesi ad essa via via sottomessi, il
subitaneo crollo del suo impero, e il nuovo equilibrio fra le grandi potenze europee
faticosamente raggiunto nel congresso di Vienna. Il periodo che succede alla caduta di
Napoleone si suole designarlo con il nome di restaurazione, in quanto alle dinastie
regnanti prima della rivoluzione francese vengono restituiti i loro vecchi domini, e più
in generale si restaura il principio d’autorità, che ha come conseguenza un
rinnovamento dello spirito confessionale, il controllo dell’insegnamento nelle
università, il soffocamento della coscienza critica. Non ci si limita a denunciare il
pericolo delle concezioni che si richiamano in qualche modo all’illuminismo, ma si
guardano con sospetto perfino gli indirizzi filosofici che intendono combattere
l’illuminismo in nome della libertà. Malgrado la buona volontà dei moderati, le forze
più retrive e conservatrici riescono spesso a prendere il sopravvento, aggravando il
disagio materiale e morale di larghi strati della popolazione. Si moltiplicano le misure
repressive, che però si rivelano sempre meno efficaci. Si arriva così al 1848, anno in cui
tutta l’Europa viene scossa da una profonda ondata rivoluzionaria.
La spinta innovatrice, con tutte le sue contraddizioni, portata dalle armate
napoleoniche in quasi tutti i paesi europei non poteva non ripercuotersi positivamente
anche nel campo della tecnica. Il progresso tecnologico era ovunque sentito come un
grande passo verso la modernità, e l’esigenza di modernizzarsi era certo uno dei pochi
fattori che poteva disporre favorevolmente le popolazioni nei confronti dei
conquistatori. Concluso questo travagliato periodo, l’interesse per il progresso
tecnologico non venne peraltro a cessare. Le numerose e sanguinose guerre, di
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proporzioni mai viste prima d’allora, avevano recato immani guai a vinti e vincitori; in
questo stato di cose, l’aumento della produzione si imponeva come esigenza primaria
per una stabile ricostruzione dell’economia e per lo stesso consolidamento della pace.
Ma tale aumento poteva soprattutto essere ottenuto con la modernizzazione delle
tecniche produttive, di qui il diffondersi di una consapevolezza sempre maggiore circa
l’importanza generale del progresso di queste tecniche. La classe sociale a ciò più
interessata si rivelò immediatamente la borghesia, che, sola, possedeva i mezzi
finanziari e le energie per impiantare stabilimenti in grado di utilizzare i nuovi ritrovati
della tecnica. Essa divenne, così, la principale protagonista della rivoluzione industriale,
che doveva in breve tempo trasformare la struttura economica dell’Europa.
La cosa che ci interessa sottolineare è la straordinaria ed entusiastica fiducia che
cominciò a venire riposta, nella prima metà dell’Ottocento, nel progresso tecnologico-
industriale, non di rado considerato come capace di realizzare rivoluzioni ben più
profonde e più solide di quelle attuate in campo meramente politico. L’ingenua
illusione non potè tuttavia durare a lungo. Essa verrà dissolta dall’insorgere di
gravissime contraddizioni sociali, generate proprio dal progresso dell’industria. Ma
questa è un’altra storia.
Le vicende economiche-politiche che hanno inizio verso la metà del XIX secolo
sono: rafforzamento economico della borghesia, fondazione della I Internazionale
socialista (1864), sua crisi dopo il fallimento della Comune di Parigi (1871), fondazione
della II Internazionale (1889), guerra di secessione negli Stati Uniti d’America,
intensificarsi dell’attività coloniale da parte delle grandi potenze europee, nascita della
fase imperialistica del capitalismo.
Un carattere generale della cultura durante il periodo in esame è l’importante
aumento di peso specifico che vi assumono le ricerche scientifiche, e il parallelo
graduale declino dell’importanza riconosciuta alle ricerche filosofiche. Ciò non significa
che non affiorino grossi problemi di natura autenticamente filosofica (basti pensare a
quelli connessi alla profonda crisi del meccanicismo o a quelli suggeriti dalle tesi
innovatrici dell’evoluzionismo), ma sono problemi che si legano direttamente, non alle
speculazioni dei filosofi, bensì al concreto travaglio delle scienze. Uno dei mutamenti
essenziali fra la prima e la seconda metà dell’Ottocento è costituito dalla nuova
importanza che vengono ad assumere le cosiddette scienze applicate. Mentre la prima
rivoluzione industriale (XVIII secolo) si era spesso e largamente avvalsa delle ingegnose
invenzioni di abili tecnici che lavoravano ai margini della scienza senza ricevere da essa
precise istruzioni (si pensi alle prime macchine a vapore), la cosiddetta seconda
rivoluzione industriale, che inizia appunto verso la metà dell’Ottocento, trova invece
nelle scoperte scientifiche uno degli ausili principali per il proprio potenziamento. Si
pensi, per esempio, al determinante contributo dell’elettrotecnica, resa possibile dalle
grandi scoperte compiute dai fisici, allo sviluppo dell’industria o dei trasporti.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento diventa manifesto il fecondo interscambio tra
scienza e tecnica, che si impone come un carattere fra i più significativi dell’epoca. Ciò
implica l’impossibilità di guardare alle singole discipline come a qualcosa di isolato, di
fornito di vita propria, di capace di svilupparsi indipendentemente dalla collaborazione
delle altre discipline. Però, diversamente da oggi, la funzione dirigente in questa
globalità spetta in modo incontestabile alla scienza, mentre le ricerche tecniche, pur
fornendo utili strumenti a quelle scientifiche, non hanno in sostanza altro compito che
quello di adeguarsi ai loro progressi. Come già accennato, l’utilizzazione sistematica
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il numero dei pianeti del sistema solare. Ebbene, anche a prescindere dall’aspetto
paradossale di tali asserti, vi è in essi qualcosa che risulta veramente incompatibile con
lo spirito scientifico, ossia la pretesa che la conoscenza scientifica sia una conoscenza
esaustiva, e ciò in due sensi: 1) perché abbracci la totalità della natura; 2) perché spieghi
in modo completo ogni singolo fenomeno, sì da non lasciare più aperto intorno ad esso
alcun problema. Tutta la storia del pensiero moderno ci ha provato che la scienza
respinge da sé, con la massima fermezza, l’aspirazione a un tale carattere esaustivo; la
spiegazione scientifica non presume mai di essere definitiva. Anzi, il distacco fra essa e
la spiegazione metafisica sta proprio qui, nel fatto che la metafisica pretende fornire la
ragione ultima e assoluta del mondo, mentre la scienza si accontenta di fornircene
conoscenze parziali e sempre perfezionabili. Hegel non ha capito questo carattere delle
conoscenze scientifiche e perciò non ha potuto contribuire efficacemente al loro
progresso, anche quando le singole tesi da lui sostenute, come quelle antinewtoniane,
erano sostanzialmente corrette. Date queste premesse, non c'e da stupirsi che Hegel si
serve nel modo più arbitrario e fantastico dei risultati della scienza del suo tempo,
interpretandoli e concatenandoli in modo tale che essi perdono il loro valore scientifico
senza perciò acquistare un qualsiasi significato filosofico.
sono le leggi del laboratorio, non le leggi del mondo esterno scoperte attraverso il
laboratorio.
Paradossalmente, connesso con tale sperimentalismo è il formalismo della
scienza contemporanea. Nella scienza moderna il linguaggio matematico era quello in
cui si formulava la legge, di fronte alla formula stava la descrizione del fenomeno
sperimentato. Invece nella scienza contemporanea il linguaggio matematico fornisce
esso stesso, quasi direttamente, un'immagine dell'evento sperimentale, che nei suoi
contenuti sensibili e toto coelo diverso da quello che è intuibile attraverso il linguaggio
che lo descrive. Non c'e più da una parte una historia naturalis, raccolta più o meno
ordinata di osservazioni ed esperimenti, e dall'altra la sistemazione teorico-matematica:
le due cose tendono a fondersi, contenendo la formula le condizioni operative dello
stesso esperimento. Anche questo carattere, soprattutto come distacco dall'intuizione e
dal senso comune, ha origine nella scienza romantica. Le nuove teorie sulle estensioni
del concetto di numero (Gauss), le geometrie non-euclidee, i nuovi metodi e le nuove
discipline creati da Abel e da Galois portano le matematiche su un terreno
estremamente sintattico, algoritmico, privo di possibilità di interpretazione
immediatamente intuitiva, dall'intuizione al rigore, cioè al formalismo. Ma anche nella
fisica, si tenta di sistemare le nuove scoperte dell'elettrodinamica mediante le categorie
e i principi della fisica newtoniana: ma applicati fuori del loro originario modello
corpuscolare questi acquistano un significato più astratto (vedi il concetto di campo).
Un altro aspetto interessante della fisica ottocentesca è che il lavoro scientifico si
fa sempre più specializzato, e l’uomo di scienza versato in molti campi rimane un
ricordo del seicento o del settecento. Il nuovo tipo di ricercatore può concentrare tutte le
sue energie su un argomento rigorosamente delimitato, nel cui ambito può acquisire in
breve una preparazione pressocché perfetta e quindi porsi in grado di impostare in
termini molto esatti i pochi problemi affrontati, utilizzando altresì i risultati più
aggiornati conseguiti da altri ricercatori nel medesimo settore. In tal modo era
abbastanza probabile che, anche senza possedere una particolare genialità e originalità,
egli sarebbe riuscito a ottenere qualche risultato arrecando il suo contributo alla
soluzione di quel dato problema, soluzione che sarebbe poi scaturita in seguito
all'accumularsi di altri contributi pazientemente arrecati da altri specialisti.
Tutto ciò è stato una conseguenza del dilatarsi del volume e dei campi del sapere.
All’interno di scienze come la matematica, l'astronomia, o la fisica, si erano prodotti
mutamenti molto significativi per quanto riguardava i metodi e le impostazioni
generali, e che al loro interno si erano aperti capitoli nuovi che avevano assunto il
carattere di vere e proprie discipline (si pensi per esempio, all'interno della fisica al
costituirsi, accanto alla meccanica e all'ottica esistenti sin dall'antichità, dell'elettrologia
e della termodinamica).
Tale privilegio della specializzazione doveva alimentare negli scienziati una certa
diffidenza nei confronti della filosofia, che trova viceversa nell'indagine dei temi più
generali la sua ottica più tipica, e ciò si riflette anche nel fatto che la filosofia che più si
preoccupò di valorizzare le scienze, ossia il positivismo, marginalizzò buona parte dei
problemi genuinamente filosofici. D'altro canto questa separazione tra filosofia e
scienza fu incoraggiata dalle correnti idealistiche e romantiche che, pur senza essere
esclusive, furono certamente predominanti nel pensiero ottocentesco.
La filosofia di Kant, ossia la parte del suo pensiero dedicata a rispondere alla
domanda "che cosa possiamo conoscere?", era stata in effetti una chiarificazione delle
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condizioni e delle modalità con cui le scienze esatte (matematica e fisica matematica)
realizzano la loro impresa conoscitiva. Kant si era spinto anche più in là del semplice
discorso di teoria generale della conoscenza e aveva cercato di offrire nei Principi
metafisici della scienza della natura (1786) un quadro in cui cercava di far discendere dalle
considerazioni generali sulle possibilità della conoscenza, più dettagliate conseguenze
circa i principi e le leggi fondamentali della fisica teorica. Anche l'idealismo
trascendentale succeduto al criticismo kantiano, e di solito presentato come il
responsabile della separazione tra scienza e filosofia e della sottovalutazione del sapere
scientifico, in realtà non perseguì affatto un simile programma: pur interessandosi
anche a diverse altre manifestazioni dello spirito umano oltre alla scienza, i suoi
maggiori rappresentanti cercarono di inquadrare la scienza stessa fra le imprese
importanti della ragione di cui la filosofia deve saper dar conto e giustificare la portata
(pur superandole in quanto a fondatezza e rigore).
In realtà fu l'insuccesso concreto di simili "fondazioni" deduttive dei contenuti
delle scienze naturali a partire da grandi principi metafisici che screditò le costruzioni
idealistiche ed ebbe come effetto anche quello di far ritenere dannoso per le scienze ogni
commercio con la filosofia e far considerare la filosofia come un complesso di
ragionamenti astratti e confusi, di fronte al quale si pone l'esercizio umile, ma fecondo
di apporti conoscitivi, delle singole scienze specializzate. Tuttavia un interesse di tipo
fortemente teorico, che rispecchiava in qualche misura preoccupazioni filosofiche,
veniva prendendo corpo all’interno delle stesse scienze. In senso lato possiamo dire che,
mentre il Settecento era stato soprattutto caratterizzato dall'interesse preminente per la
raccolta di dati e il conseguimento di risultati e scoperte, cui corrispondeva spesso
un'elaborazione teorica piuttosto approssimativa, nell'Ottocento primeggia invece lo
sforzo per la creazione di teorie unitarie e rigorose, capaci di fornire un inquadramento
criticamente vagliato e logicamente solido delle conoscenze raggiunte nei vari ambiti
disciplinari.
La rilevanza assunta dalla dimensione teorica nella costruzione del sapere
scientifico è sufficiente a mostrare che una parte non trascurabile delle esigenze
intellettuali dell'uomo trovava nelle scienze una sua soddisfazione, secondo
caratteristiche di generalità e sforzi di comprensione globale e unificazione molto vicini
allo stile della riflessione filosofica, fino a entrare in contatto diretto con dibattiti
filosofici veri e propri, e ciò spiega perché questo mondo della scienza potesse rivelare
un'indubbia vitalità culturale.
positivo è anche ciò che appare fecondo, pratico, efficace, in opposizione a ciò che è
inutile e ozioso.
Il Positivismo appare caratterizzato, sin dall'inizio, da una celebrazione della
scienza, che si concretizza in una serie di convinzioni di fondo:
1. La scienza è l’unica conoscenza possibile e il metodo della scienza è l’unico
valido; pertanto il ricorso a cause o principi che non siano accessibili al metodo
della scienza non dà origine a conoscenza; e la metafisica, che fa appunto tale
ricorso, è priva di valore.
2. Non avendo oggetti suoi propri, o campi privilegiati di indagine sottratti alle
scienze, la filosofia tende a coincidere con la totalità del sapere positivo o, più
specificamente, con l'enunciazione dei principi comuni alle varie scienze. La
funzione peculiare della filosofia consiste quindi nel riunire e nel coordinare i
risultati delle singole scienze, in modo da realizzare una conoscenza unificata e
generalissima. In ogni caso, essa si costituisce come studio delle generalità
scientifiche.
3. Il metodo della scienza, in quanto è l'unico valido, va esteso a tutti i campi,
compresi quelli che riguardano l'uomo e la società.
4. Il progresso della scienza rappresenta la base del progresso umano e lo
strumento per una riorganizzazione globale della vita in società, capace di
superare la crisi del mondo moderno o di accelerarne lo sviluppo in modo
sempre più rapido.
Le basi storiche e culturali di questo successo del Positivismo sono parecchie. Sul
piano politico abbiamo un quadro europeo che, al di là dello scontro in Crimea (1854) e
della guerra lampo tra Prussia e Francia (1870), appare sostanzialmente caratterizzato
dalla pace e dall'espansione coloniale europea in Africa e in Asia. Dal punto di vista
economico abbiamo un ulteriore balzo in avanti del capitalismo industriale, coincidente
con una sua progressiva internazionalizzazione. In ambito sociale troviamo un
profondo mutamento delle strutture e dei modi di vita delle città, che in pochi decenni
sono investite da rivolgimenti più radicali di quelli conosciuti in altrettanti secoli. Nel
settore scientifico abbiamo tutta una serie di importanti scoperte, mentre sul piano
tecnico le applicazioni del vapore e dell'elettricità danno inizio ad un'era nuova,
rappresentata soprattutto dalle ferrovie, divenute ben presto il principale simbolo della
modernità e delle sue vittorie sullo spazio e sul tempo.
Il decollo del sistema industriale, della scienza, della tecnica, degli scambi e
dell'estensione della cultura su larga scala, determina, in questo periodo, un clima
generale di fiducia entusiastica nelle forze dell'uomo e nelle potenzialità della scienza e
della tecnica. Questo ottimismo, presente soprattutto nelle classi dirigenti e
capitalistiche, ma anche nelle classi popolari, che possono vivere in condizioni più
agiate o meno grame rispetto al passato, si traduce in un vero e proprio culto per il
pensiero scientifico e tecnico. Di conseguenza, se l'Umanesimo aveva celebrato, come
ideale o tipo umano, soprattutto il filologo, l'Illuminismo soprattutto il filosofo, il
Romanticismo soprattutto il poeta, il Positivismo esalta soprattutto lo scienziato.
Complessivamente riguardato, il Positivismo della seconda metà dell’Ottocento
appare quindi come la filosofia della moderna società industriale e tecnico-scientifica, e
non per nulla esso si sviluppa principalmente in quelle nazioni (come l'Inghilterra, la
Francia e la Germania) che appaiono all'avanguardia del progresso industriale e
tecnico-scientifico, mentre impiega tempo ad affermarsi nei paesi (come ad esempio
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l'Italia) in ritardo rispetto ad esso. Dall'altro lato, il Positivismo della seconda metà
dell'Ottocento appare anche come l'ideologia tipica della borghesia liberale
dell'Occidente.
Auguste Comte (1798-1857), padre del positivismo ottocentesco, fin dal principio
si è rivolto alla scienza, non per quelle che sono le sue caratteristiche e finalità, ma
perché vedeva nella scienza la rigenerazione totale dell’uomo e la realizzazione di tutto
ciò che di più alto e perfetto possa esserci; vedeva, cioè, nella scienza, l’infinito
racchiuso e rivelato. Comte ha enunciato uno schema secondo il quale, a suo giudizio, si
articola la storia di un settore di conoscenza che pervenga a piena maturità.
Si inizia con uno "stadio teologico" in cui i fenomeni sono spiegati come effetto
di cause soprannaturali, si passa a uno "stadio metafisico" in cui i fenomeni vengono
compresi e spiegati in base a principi universali e astratti e si culmina con lo "stadio
positivo" (ossia quello scientifico) nel quale lo spirito umano, riconoscendo
l'impossibilità di raggiungere nozioni assolute, rinuncia a cercare l'origine e il destino
dell'universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni e si applica unicamente a
scoprire, mediante l'uso ben combinato del ragionamento e della scrupolosa
registrazione dei dati empirici, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di
successione e di somiglianza.
L'esempio più ammirabile della spiegazione positivistica è quello della legge di
gravitazione universale di Newton. Tutti i fenomeni generali dell'universo sono
spiegati, per quanto possono esserlo, dalla legge della gravitazione newtoniana giacché
questa legge permette di considerare tutta l'immensa varietà dei fatti astronomici come
un solo e medesimo fatto guardato da punti di vista diversi e consente di unificare con
esso i fenomeni fisici.
Ora, sebbene varie branche della conoscenza umana siano entrate nella fase
positiva, la totalità della cultura intellettuale umana, e quindi dell'organizzazione
sociale che su di essa si fonda, non sono state ancora permeate dallo spirito positivo. In
primo luogo, Comte nota che accanto alla fisica celeste, alla fisica terrestre, meccanica e
chimica, e alla fisica organica, vegetale e animale manca una fisica sociale cioè lo studio
positivo dei fenomeni sociali. In secondo luogo, la mancata penetrazione dello spirito
positivo nella totalità della cultura intellettuale produce uno stato di anarchia
intellettuale e quindi la crisi politica e morale della società contemporanea. È evidente
che se una delle tre filosofie possibili, la teologica, la metafisica o la positiva, ottenesse
in realtà una preponderanza universale completa, ci sarebbe un ordine sociale
determinato. Ma poiché invece le tre filosofie opposte continuano a coesistere, ne risulta
una situazione incompatibile con una effettiva organizzazione sociale. Comte si
propone perciò il compito di portare a termine l'opera iniziata da Bacone, Cartesio e
Galilei e di costituire il sistema delle idee generali che deve definitivamente prevalere
nella specie umana, ponendo termine così alla crisi rivoluzionaria che tormenta i popoli
civilizzati. Tale sistema di idee generali o filosofia positiva presuppone però che sia
determinato il compito particolare di ciascuna scienza e l'ordine complessivo di tutte le
scienze: presuppone una enciclopedia delle scienze che muovendo da una
classificazione sistematica fornisca il prospetto generale di tutte le conoscenze
scientifiche. L'enciclopedia delle scienze sarà dunque costituita da cinque scienze
fondamentali: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. La successione di queste
scienze è determinata da: “una subordinazione necessaria e invariabile, fondata,
indipendentemente da ogni opinione ipotetica, sulla semplice comparazione
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approfondita dei fenomeni corrispondenti”. Della gerarchia delle scienze non fa parte,
come si vede, la matematica, in quanto, per la sua importanza fondamentale, è la base
di tutte le altre scienze.
La dottrina della scienza è la parte dell'opera di Comte che ha avuto più vasta e
duratura risonanza nella filosofia e maggiore efficacia sullo sviluppo stesso della
scienza. Come già Bacone e Cartesio (ai quali dichiara di collegarsi), Comte concepisce
la scienza come essenzialmente diretta a stabilire il dominio dell'uomo sulla natura.
Non che la scienza sia essa stessa di natura pratica o abbia esplicitamente di mira
l'azione. Comte al contrario afferma energicamente il carattere speculativo delle
conoscenze scientifiche e le distingue nettamente da quelle tecnico-pratiche, limitando
ad esse soltanto il compito di una enciclopedia delle scienze. Tuttavia, considerato nel
suo insieme, lo studio della natura è destinato a fornire: “la vera base razionale
dell'azione dell'uomo sulla natura”; giacché “solo la conoscenza delle leggi dei fenomeni,
il cui risultato costante è di farceli prevedere, può evidentemente condurci nella vita
attiva a modificarli a nostro vantaggio”. Lo scopo dell'indagine scientifica è la
formulazione delle leggi perché la legge permette la previsione; e la previsione dirige e
guida l'azione dell'uomo sulla natura. La ricerca della legge diventa così il termine
ultimo e costante dell'indagine scientifica.
La dottrina di Comte non è per nulla un empirismo. La legge, implicando il
determinismo rigoroso dei fenomeni naturali e la loro possibile subordinazione
all'uomo, tende a delineare l'armonia fondamentale della natura. Tra i due elementi che
costituiscono la scienza, il fatto osservato od osservabile è la legge, è la legge che
prevale sul fatto. Ogni scienza, dice Comte, consiste nella coordinazione dei fatti; e se le
diverse osservazioni fossero del tutto isolate, non ci sarebbe scienza: “Si può anche dire
generalmente che la scienza è essenzialmente destinata a dispensare, sino al punto in
cui i diversi fenomeni lo comportano, da ogni osservazione diretta, permettendo di
dedurre dal più piccolo numero possibile di dati immediati il più grande numero
possibile di risultati”. Lo spirito positivo tende a dare alla razionalità un posto sempre
crescente a spese dell'empiricità dei fatti osservati. Dice Comte: “Noi abbiamo
riconosciuto che la vera scienza, apprezzata secondo quella previsione razionale che
caratterizza la sua principale superiorità nei confronti della pura erudizione, consiste
essenzialmente di leggi e non già di fatti, sebbene questi siano indispensabili al loro
stabilirsi e alla loro sanzione”. E aggiunge: “Lo spirito positivo, senza misconoscere mai
la preponderanza necessaria della realtà direttamente constatata, tende sempre ad
aumentare il più possibile il dominio razionale a spese del dominio sperimentale,
sostituendo sempre più la previsione dei fenomeni alla loro esplorazione immediata”.
A questa tendenza logica della scienza si collega, secondo Comte, il suo
essenziale relativismo. Le nostre conoscenze reali sono relative da una parte
all'ambiente, in quanto agisce su di noi, dall'altra parte all'organismo in quanto è
sensibile a questa azione. Tutte le speculazioni umane sono perciò profondamente
influenzate dalla costituzione esterna del mondo che regola il modo d'azione delle cose
e dalla costituzione interna dell'organismo che determina il risultato personale; ed è
impossibile stabilire in ogni caso l'apprezzamento esatto dell'influenza propria di
ciascuno di questi due elementi inseparabili del nostro pensiero. In virtù di questo
relativismo, si deve ammettere l'evoluzione intellettuale dell'umanità e si deve
ammettere anche che tale evoluzione è soggetta alla trasformazione graduale
dell'organismo. In tal modo rimane esclusa definitivamente l'immutabilità delle
categorie intellettuali dell'uomo; e Comte dichiara che da questo punto di vista le teorie
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successive sono: “approssimazioni crescenti di una realtà che non potrebbe mai essere
rigorosamente apprezzata, la migliore teoria essendo sempre a ogni epoca quella che
rappresenta meglio l'insieme delle osservazioni corrispondenti”.
Sono, queste, le idee che hanno assicurato per lungo tempo il successo della
dottrina della scienza di Comte. Ma queste idee sono anche il fondamento di un insieme
di limitazioni arbitrarie e dogmatiche che Comte avrebbe voluto imporre alla ricerca
scientifica. Già nel Corso di filosofia positiva (1830-1842) circola una continua polemica
contro la specializzazione scientifica, polemica che vorrebbe immobilizzare la scienza
sulle sue posizioni più generali ed astratte, e sottrarre queste posizioni ad ogni ulteriore
dubbio ed indagine. Comte condanna tutti i lavori sperimentali che gli sembrano
produrre una “vera anarchia scientifica”, condanna pure l'uso eccessivo del calcolo
matematico; e vorrebbe determinare per ogni genere di osservazione: “il grado
conveniente di precisione abituale, al di là del quale l'esplorazione scientifica degenera
inevitabilmente, per un'analisi troppo minuziosa, in una curiosità sempre vana e
qualche volta anche gravemente perturbatrice”. Fa parte dello spirito della sana
filosofia riconoscere che: “le leggi naturali, vero oggetto delle nostre ricerche, non
potrebbero rimanere rigorosamente compatibili, in nessun caso, con una investigazione
troppo dettagliata”; e perciò nessuna sana teoria può oltrepassare con successo
“l'esattezza reclamata dai nostri bisogni pratici”. E così, mentre afferma il carattere
speculativo e disinteressato della ricerca scientifica, Comte vorrebbe imporre a tale
ricerca i limiti propri dei bisogni pratici riconosciuti. In altri termini, la ricerca scientifica
deve venire incontro ai bisogni intellettuali dell'uomo; e tutto ciò che sembra esorbitare
da tali bisogni cade fuori di essa. Qui Comte ritiene evidentemente i bisogni intellettuali
dell'uomo fissati e determinati una volta per tutte e pretende così di imporli come guida
alla scienza; la quale, in realtà, ha essa stessa il compito di definirli e di farli emergere
dai suoi problemi. Comte fa valere con estrema energia il principio che condanna
qualsiasi ricerca scientifica la cui utilità per l'uomo non risulti evidente. Così
l'astronomia è ridotta allo studio della terra: “In luogo del vago studio del cielo, essa
deve proporsi la conoscenza della terra, non considerando gli altri astri che secondo i
loro rapporti reali con il pianeta umano”.
Le branche della fisica sono dichiarate irriducibili perché corrispondono alla
divisione dei sensi umani. Sono condannati come inutili gli studi che concernono: “le
pretese interferenze ottiche o gli incroci analoghi in acustica”. Si accusa di spirito
metafisico Lavoisier e si condannano “i lavori dispersivi della chimica attuale”.
Insomma, “l'usurpazione della fisica da parte dei geometri, della chimica da parte dei
fisici, e della biologia da parte dei chimici, sono semplici prolungamenti successivi di un
regime vizioso” che dimentica il principio fondamentale dell'enciclopedia scientifica e
cioè che “ogni scienza inferiore non dev'essere coltivata se non in quanto lo spirito
umano ne ha bisogno per elevarsi solidamente alla scienza seguente, fino a giungere
allo studio sistematico della Umanità, sol sua stazione finale”. Bisogna quindi sottrarre
la scienza agli scienziati e affidarla invece a veri filosofi “degnamente votati al
sacerdozio dell'Umanità”.
E’ pressoché inutile fermarsi a osservare che lo sviluppo ulteriore della scienza
ha smentito in pieno la convenienza e l'opportunità di queste prescrizioni e proscrizioni
di Comte, che avrebbero immobilizzato la scienza stessa e le avrebbero impedito di
compiere quella stessa funzione utile all'umanità, cui Comte la chiamava. Speculazioni
astronomiche, branche di calcolo astrattissime, ricerche fisiche apparentemente prive
d'ogni possibile riferimento alla pratica e coltivate in un primo tempo a titolo
4<9! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
compito delle scienze fisiche si determina pertanto, in ultima istanza, come quello di
ricondurre i fenomeni naturali a forze immutabili, attrattive o repulsive, la cui
intensità dipende dalla distanza. La possibilità che questo compito sia assolto
costituisce, nello stesso tempo, la condizione della completa intelligibilità della natura”.
Gli fa eco ancora una quarantina d'anni dopo, Kelvin: “Io non mi sento soddisfatto se
prima non sono riuscito a costruirmi un modello meccanico dell'oggetto che studio; se
mi posso fabbricare un tale modello, comprendo, se non posso farlo, non comprendo”.
La frase di Helmholtz si legge nella fondamentale memoria Sulla conservazione
della forza uscita nel 1847, anno in cui vari autori espressero, in forme diverse ma
sostanzialmente equivalenti, il principio di conservazione dell'energia e questa
sembrava ormai costituire la moneta comune mediante cui avvengono tutti gli scambi
di fenomeni in natura e d'altro canto la dimostrazione dell'equivalente meccanico della
caloria ottenuta Joule poco dopo (1850) mostrava che si poteva assumere una grandezza
meccanica (il lavoro) come misura per esprimere l'energia. Quanto a Kelvin, la frase
citata si legge nelle Lezioni sulla dinamica molecolare e sulla teoria ondulatoria della luce
(1884), un'opera in cui il grande fisico si rifiuta di aderire alla teoria elettromagnetica
della luce fondata da Maxwell, per il fatto di non riuscire a ottenerne un modello
meccanico. Del resto lo stesso Maxwell, alla fine del suo Trattato di elettricità e
magnetismo (1873) esprimeva ancora la tesi che il mezzo dentro cui si propagano le onde
elettromagnetiche doveva possedere proprietà meccaniche e considerava un compito
delle generazioni future quello di scoprirne la struttura meccanica. Ma né Kelvin, né
altri valentissimi fisici matematici che si cimentarono nello sforzo di presentare una
teoria fisicamente sostenibile di un tale etere elettromagnetico riuscirono a costruirla.
Il meccanicismo, per un certo periodo, fu la filosofia della natura imperante e
anche dopo il suo tramonto il suo stile intellettuale si è conservato sotto forma di
fisicalismo, ossia come concezione secondo cui tutti i fenomeni naturali sono riducibili a
fatti fisici, nel senso che concetti, leggi e principi della fisica sono sufficienti per
spiegarli completamente.
Affinché si abbia l'interferenza occorre che i due raggi di luce arrivino allo stesso
punto dalla stessa sorgente (in modo che abbiano esattamente sempre lo stesso
periodo), in direzioni pressapoco parallele, dopo aver percorso cammini diversi. Sicché,
continua Young, quando le due parti della stessa luce arrivano all'occhio per vie
diverse, praticamente nella stessa direzione, la luce diventa intensa al massimo quando
la differenza dei cammini è multipla di una certa lunghezza e intensa al minimo nello
stato intermedio; questa certa lunghezza è differente per luci di differenti colori:
INTERFERENZA COSTRUTTIVA
In un punto si ha interferenza costruttiva, e quindi una frangia chiara, se la differenza fra le
distanze percorse dai due raggi è uguale a un numero intero m di lunghezze d'onda:
∆x = mλ
INTERFERENZA DISTRUTTIVA
In un punto si ha interferenza distruttiva, e quindi una frangia scura, se la differenza fra le
distanze percorse dai due raggi è uguale a un multiplo dispari di λ/2:
λ
∆x = (2m − 1)
2
Nel 1802 Young confortò il principio con la classica esperienza della doppia
fenditura. L'esperienza è ben nota: in uno schermo opaco si praticano, con una punta di
spillo, due forellini vicini e si illuminano con la luce solare passata attraverso un piccolo
foro della finestra; i due coni
luminosi dietro lo schermo
opaco, dilatati dalla diffrazione,
in parte si sovrappongono e
nella parte comune si formano,
in luogo di un aumento
uniforme di intensità luminosa,
una serie di frange
alternativamente scure e
brillanti. Se si chiude un
forellino dello schermo
scompaiono le frange e appaiono soltanto gli anelli di diffrazione dell'altro forellino; le
frange scompaiono pure se i due forellini s'illuminano direttamente con la luce del Sole
o d'una fiamma artificiale. Adottando la teoria ondulatoria, Young interpreta il
fenomeno in modo semplice: le frange scure compaiono dove il ventre di un onda
passata da un forellino si sovrappone alla cresta di un’onda passata dall'altro forellino,
in modo che i loro effetti si elidano; una frangia luminosa invece si ottiene dove si
sovrappongono le creste alle creste e i ventri ai ventri di due onde passate attraverso i
due forellini. L’esperimento consentiva a Young di misurare anche la lunghezza d'onda
per i vari colori, ottenendo circa 0,7 micron per la luce rossa e 0,42 micron per l’estremo
violetto. Sono queste le prime misure di lunghezza d'onda della luce che la storia della
fisica ricordi, e per essere le prime sono di una sorprendente precisione.
I lavori di Young, pur rappresentando il più importante progresso portato alle
teorie ottiche dall'epoca di Newton, furono accolte dai fisici del tempo con diffidenza,
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dovuta in parte all'abuso fatto da Young del principio d'interferenza applicato anche a
fenomeni certo non interferenziali, in parte a una certa oscurità di esposizione che si
nota oggi e che doveva essere più evidente allora per concetti affatto nuovi, in parte,
come gli rimproverò Laplace, dall'essersi Young accontentato di dimostrazioni
matematiche alquanto disinvolte e talvolta superficiali, certamente frutto della scarsa
educazione matematica ricevuta in gioventù.
Huygens aveva scoperto, dichiarando di non saperlo interpretare, il seguente
fenomeno: la luce passata attraverso lo spato d'Islanda assume un carattere speciale, per
cui se incontra un secondo spato con la sezione parallela al primo non si birifrange, ma
semplicemente si rifrange; se poi il secondo spato si ruota opportunamente si verifica
nuovamente la birifrangenza, ma l'intensità dei due raggi rifratti dipende dall'angolo di
rotazione. Nei primi anni del XIX secolo riprese lo studio del fenomeno Etienne-Louis
Malus (1775-1812), sostenitore della teoria corpuscolare, il quale scoprì che si trattava
del fenomeno della polarizzazione (un'onda è polarizzata linearmente se la vibrazione
avviene costantemente su uno dei piani passanti per la direzione di propagazione),
provocato dalla bilateralità del raggio. Young ne venne turbato e scoraggiato, anche
perché l’opinione scientifica del tempo si opponeva decisamente alla teoria ondulatoria,
e scrisse a Malus: “I vostri esperimenti dimostrano l’insufficienza di una teoria (quella
delle interferenze) che io avevo adottato, ma non provano la sua falsità”.
il principio d'interferenza. Erano tre principi staccati, che Fresnel genialmente fuse nel
nuovo concetto d'inviluppo da lui elaborato. Per Fresnel l'inviluppo di onde non è un
semplice inviluppo geometrico, come per Huygens. In un punto qualunque dell'onda
l'effetto totale è la somma algebrica degli impulsi che vi producono tutte le onde
elementari; la somma di tutti questi impulsi, che si sovrappongono secondo il principio
dell'interferenza, può anche essere nulla. Così era superata la secolare difficoltà che
aveva sempre impedito l'affermazione della teoria ondulatoria: la conciliazione tra la
propagazione rettilinea della luce e il suo meccanismo ondulatorio. Ogni punto esterno
a un'onda riceve luce da una piccolissima regione dell'onda attorno al punto a esso più
vicino e tutto avviene dunque come se la luce si propagasse in linea retta dalla sorgente
al punto illuminato. È vero che le onde dovrebbero aggirare gli ostacoli, ma
l'affermazione non va presa grossolanamente in senso qualitativo, perché l'inflessione
dietro gli ostacoli è funzione della lunghezza d'onda; nota la lunghezza d'onda si può
calcolare come e quanto la luce s'inflette dietro gli ostacoli. Presi in esame i fenomeni di
diffrazione, Fresnel calcola le inflessioni che debbono avvenire e i risultati dei suoi
calcoli corrispondono in modo ammirevole ai risultati sperimentali. Le prime memorie
di Fresnel sulla diffrazione, per il loro scarso rigore matematico, furono male accolte da
Laplace, da Poisson, da Biot, fini analisti che del rigore matematico avevano un culto.
Stabilita la teoria della diffrazione, Fresnel passò allo studio dei fenomeni di
polarizzazione. La teoria corpuscolare, nel tentare d'interpretare i numerosi fenomeni
scoperti nel primo quindicennio del secolo, costretta a introdurre ipotesi su ipotesi,
affatto gratuite, talvolta contraddittorie, era divenuta incredibilmente complicata. In
collaborazione con Arago continuò le ricerche sperimentali sull'eventuale interferenza
della luce polarizzata. I due scienziati stabilirono sperimentalmente che due raggi di
luce polarizzati in piani paralleli interferiscono sempre e polarizzati in piani
perpendicolari non interferiscono mai (nel senso che non si estinguono). Come spiegare
questo fatto? Come spiegare tutti gli altri fenomeni di polarizzazione che non avevano
nulla di analogo nei fenomeni acustici? Fresnel, non riuscendo a trovare altra via
d'uscita all'interpretazione dei fenomeni di polarizzazione, si decise ad adottare la
teoria della trasversalità delle vibrazioni.
Che l'ipotesi potesse servire alla spiegazione delle principali proprietà della luce,
polarizzata o non polarizzata, fu ampiamente dimostrato da Fresnel; ma che essa non
avesse nulla di fisicamente impossibile, era un altro discorso. La trasversalità delle
vibrazioni portava di conseguenza che l'etere, pur essendo un fluido sottilissimo e
imponderabile, doveva anche essere un solido rigidissimo, più rigido dell'acciaio,
perché solamente i solidi trasmettono vibrazioni trasversali. L'ipotesi si presentava
veramente ardita, quasi aberrante. Arago, fisico non certo irretito da pregiudizi, non se
la sentì di condividere la responsabilità di questa strana ipotesi e rifiutò la sua firma alla
memoria presentata da Fresnel. Dal 1821 Fresnel continuò quindi da solo il suo
cammino, e fu un cammino di successi. L'ipotesi delle vibrazioni trasversali gli consentì
di costruire il suo modello meccanico di luce. Ne è supporto l'etere che pervade tutto
l'universo e compenetra i corpi, subendo da parte dei corpi modificazioni nelle sue
caratteristiche meccaniche. Per effetto di queste modificazioni, quando un'onda elastica
si propaga dall'etere puro all'etere commisto di materia, sulla superficie di separazione
una parte dell'onda torna indietro e l'altra parte penetra nella materia: era così spiegato
meccanicamente il fenomeno di riflessione parziale, rimasto per secoli un mistero per i
fisici, e Fresnel dava le formule che portano il suo nome, rimaste sino a oggi immutate.
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Ma fu Carl G. Jacobi (1804-1851) che, con i suoi celebri lavori, dette la più ampia
applicazione della teoria di Hamilton, nello stesso tempo semplificandola e
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generalizzandola in una forma divenuta classica: per questo motivo la teoria è spesso
indicata come teoria di Hamilton-Jacobi.
Come abbiamo più volte accennato, la teoria corpuscolare richiede una maggiore
velocità della luce nei mezzi più rifrangenti, mentre la teoria ondulatoria ne richiede
una minore. Parve ad Arago, avversario della teoria corpuscolare ma non
completamente convinto fautore di quella ondulatoria, che la misura della velocità della
luce nei mezzi materiali fosse il modo migliore, l'experimentum crucis, per discriminare
le due teorie. Arago aveva così dato un particolare spicco all'idea di un'esperienza
cruciale per la definitiva affermazione della teoria ondulatoria, onde la misura della
velocità con mezzi terrestri acquistò urgenza e importanza agli occhi dei giovani fisici. Il
primo che riuscì a eseguirla fu Louis Fizeau (1819-1896) nel 1849, con un esperimento
concettualmente identico a quello di Galileo. Fizeau ottenne per la velocità della luce il
valore di 313.274.304 m/s. Il dispositivo di Fizeau non consentiva, però, misure di
velocità nei vari mezzi.
Vi arrivò Lèon Foucault (1819-1868) nel 1850 con un dispositivo che traduce il
seguente concetto: il tempo impiegato dalla luce nel percorso d'andata e ritorno tra due
specchi, il primo dei quali in rapidissima rotazione, è misurato dalla rotazione subìta
nello stesso tempo dallo specchio mobile, valutata dalla deviazione del medesimo
raggio luminoso al suo ritorno sullo specchio mobile. Per misurare il numero di giri per
secondo dello specchio mobile, Foucault adoperò, forse per la prima volta nelle ricerche
fisiche, il metodo stroboscopico, cioè l'artificio di rallentare apparentemente un moto
periodico per consentirne la comoda osservazione. Interponendo tra i due specchi,
distanti tra loro qualche metro, una sostanza diversa dall'aria, si può misurare la
velocità della luce in questa sostanza. Gli esperimenti di Foucault erano soltanto
comparativi; egli, interponendo un tubo d'acqua tra i due specchi constatò che la
velocità della luce nell'acqua è i 3/4 della velocità nell'aria. Per la velocità della luce
ottenne un valore di 298.000 km/s, con un errore probabile di ± 500 km/s.
8.6 La spettroscopia
Nel primo trentennio del XIX secolo le ricerche sulla polarizzazione e gli studi
sulla natura della luce fecero considerare come secondarie altre scoperte importanti
collegate col fenomeno luminoso, che nello tesso tempo si venivano facendo.
Che ai raggi luminosi siano collegati effetti anche calorifici è un'ovvia
osservazione, nota naturalmente fin dall'antichità. Nel 1800 Herschel fece una scoperta
fondamentale. Egli voleva studiare se veramente il calore era distribuito uniformemente
nello spettro solare, come da tutti si diceva, soltanto in base a una sbrigativa intuizione.
Herschel spostò perciò un sensibile termometro lungo lo spettro solare e trovò che la
sua temperatura non solo andava via via aumentando dal violetto al rosso, ma che era
massima in una regione oltre il rosso, là dove l'occhio non discerneva nulla. Egli
interpretò subito il fenomeno come dovuto a radiazioni calorifiche invisibili provenienti
dal Sole, deviate dal prisma meno del rosso e poi dette perciò infrarosse; studiò allora
queste radiazioni oscure su una sorgente terrestre costituita da un cilindro di ferro caldo
ma non incandescente e ne dimostrò la rifrazione mediante lenti. Ma John Leslie (1766-
1832), uno sperimentatore molto accurato, attribuiva il fenomeno di Herschel a correnti
d'aria; le sue obiezioni non ebbero credito, né seguito. Più fortunate furono altre sue
ricerche sperimentali, che dimostrarono che l'irraggiamento e l'assorbimento calorifico
di un corpo dipendono dalla natura della sua superficie.
un'esperienza ingegnosa, oggi attribuita a John Tyndall (1820-1893), che l'intensità del
calore raggiante varia in ragione inversa del quadrato della distanza. Fondamentale è la
memoria di Melloni del 1842 in cui illustra il concetto che il calore raggiante, la luce, i
raggi ultravioletti, sono radiazioni analoghe che differiscono soltanto nella lunghezza
d’onda. Fu questa una delle maggiori conquiste della scienza del tempo e una forte
spinta all’elaborazione di teorie unitarie, che caratterizza il progresso fisico del XIX
secolo. E ancora Melloni dimostra che il fenomeno delle radiazioni infrarosse ha lo
stesso andamento dell'assorbimento delle radiazioni visibili e come i corpi sono, sotto
determinati spessori, diafani o opachi per la luce, così essi sono diatermani o atermani
per il calore, secondo la terminologia da lui introdotta e tuttora in uso, e che
l'irraggiamento calorifico non è un fenomeno soltanto superficiale, ma vi concorrono gli
strati interni, di spessore variabile, del corpo raggiante. In La thermocrose ou la coloration
calorifique (1850) Melloni riespose organicamente, in una forma avvincente, tutta la sua
teoria del calore raggiante e i suoi classici esperimenti.
Dopo un lungo lavoro Angstrom pubblicava nel 1868 un lavoro, rimasto per
molti anni un libro di consultazione degli spettroscopisti, nel quale erano riferite le
misure di lunghezza d'onda di quasi duecento righe dello spettro solare. L'aiuto portato
agli studi dall'opera spettroscopica di Angstrom fu talmente grande che nel 1905 il suo
nome fu adottato, per convenzione internazionale, per designare l'unità di lunghezza
più diffusa in spettroscopia: 1 angstrom=10-10 m.
Gli studi sperimentali del XVIII secolo sulle dilatazioni termiche avevano
prodotto una confusione d'idee, che si protrarrà fin quasi alla metà dei XIX secolo. Si
diceva, per esempio, che il mercurio si dilata uniformemente, ma senza aggiungere
rispetto a quale campione o a quale scala termometrica se ne riferiva la dilatazione.
Bisogna, però, aggiungere che, se non si cavillava troppo, in pratica le cose andavano
abbastanza bene, perché i termometri del tempo davano indicazioni sufficientemente
confrontabili, tanto che Fourier, per esempio, definisce: “La temperatura di un corpo, le
cui parti sono egualmente riscaldate, e che conserva ii suo calore, è quella indicata dal
termometro”. Comunque, il problema di una scala termometrica indipendente dalla
sostanza impiegata nel termometro sarà risolto soltanto nel 1848, da Thomson (Lord
Kelvin), attraverso il secondo principio della termodinamica.
Pierre-Louis Dulong (1785-1838) e Alexis-Thérès Petit (1791-1820), notarono che
in ogni termometro a mercurio si osserva la dilatazione apparente del liquido, sicché se
solido e liquido non obbediscono alla stessa legge di dilatazione, le dilatazioni date dal
termometro non possono assumersi come proporzionali alle dilatazioni assolute del
mercurio: occorre, dunque, conoscere la dilatazione assoluta del mercurio. L'ingegnoso
metodo adoperato era quello di misurare due temperature e due altezze. Le
temperature erano misurate con un termometro ad aria e con un termometro a mercurio
e le due altezze con uno strumento apposito, detto più tardi catetometro, e divenuto un
prezioso strumento per determinare il dislivello tra due punti anche non posti sulla
stessa verticale.
La conoscenza della dilatazione assoluta del mercurio consentì a Dulong e Petit
lo studio sperimentale della dilatazione termica degli altri liquidi e dei solidi. Il risultato
generale fu che la dilatazione del mercurio varia con la temperatura da 1/1550 per °C
tra 0 °C e 100 °C a 1/5300 tra 0 °C a 300 °C e che varia pure la dilatazione degli altri
solidi cimentati (vetro, ferro, rame, platino). Altre ricerche sperimentali fatte nella stessa
scia aperta da Dulong e Petit dimostrarono che lo stesso andamento ha la dilatazione
dei liquidi. Ma tanto nei solidi che nei liquidi si riscontrano forti anomalie in prossimità
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dei cambiamenti di stato. Da ciò la necessità di definire per ogni solido o liquido un
coefficiente di dilatazione termica teoricamente per ogni temperatura e praticamente
per intervalli ristretti di temperatura. Ne segue la necessità, indicata nel 1826 da
Friedrich W. Bessel (1784-1846), della correzione di temperatura nella determinazione
dei pesi specifici e la necessità di una tavola di correzione per le letture barometriche.
Già l'Accademia del Cimento aveva riconosciuto che l'acqua ha un massimo di
densità e aveva condotto Andrè De Luc (1727-1817) a sistematiche esperienze
sull'irregolarità di dilatazione dell'acqua. De Luc trovò che l'acqua raggiunge il suo
massimo di densità a 41 °F (5 °C). Gli esperimenti furono continuati per tutto il secolo
XIX e nel 1868 Francesco Rossetti (1833-1881) poneva il massimo di densità tra 4,04 e
4,07 °C, mentre nel 1892 Carl Scheel (1866-1936) lo poneva a 3,960 °C. La temperatura di
4 °C a cui tutti i testi di fisica fanno corrispondere il massimo di densità dell'acqua è un
valore arrotondato.
una combustione del vapore con l’aria. Nel 1816 Gay-Lussac estese la legge di Dalton
anche alle miscele di vapore.
Il problema della liquefazione dei gas ha una storia secolare che comincia dalla
seconda metà del XVIII secolo con la liquefazione mediante solo raffreddamento,
dell'ammoniaca, dell'anidride solforosa e del cloro ottenuta nel 1805. Un progresso
decisivo fu compiuto contemporaneamente e indipendentemente da Charles Cagniard
de la Tour (1777-1859) e da Faraday. Il primo riuscì a determinare la temperatura critica
di alcuni liquidi cimentati, ma non riuscì a stabilire la temperatura critica dell'acqua,
anzi non riuscì neppure a evaporare completamente l'acqua. Risultati più concreti
ottennero gli esperimenti di Faraday del 1823. Gli esperimenti di Cagniard de la Tour e
di Faraday fecero capire che si poteva ottenere la liquefazione dei gas sottoponendoli ad
alte pressioni.
riscaldando, Andrews osservava gli stessi fenomeni che trent'anni prima aveva studiato
Cagniard de la Tour. Quando la temperatura dell'anidride carbonica raggiungeva i
30,92 °C scompariva la superficie di separazione tra liquido e gas, e con qualsiasi
pressione non si riotteneva più la liquefazione dell'anidride carbonica. In un'importante
memoria del 1869 Andrews proponeva di chiamare punto critico dell'anidride
carbonica la temperatura di 30,92 °C; con la stessa tecnica egli determinò i punti critici
per l'acido cloridrico, per l'ammoniaca, per l'etere solforico, per l'ossido nitroso. Propose
anche di riservare il vocabolo vapore agli aeriformi a temperatura inferiore alla
temperatura critica e il vocabolo gas agli aeriformi a temperatura superiore: così era
posta una fondamentale distinzione per la ricerca fisica.
Una conferma a queste vedute di Andrews vennero da esperimenti in cui i gas
permanenti erano stati sottoposti a una pressione di 3000 atmosfere senza ottenerne la
liquefazione. Questi risultati avvalorarono l'ipotesi avanzata da Andrews secondo la
quale i gas permanenti sono aeriformi a temperature critiche più basse delle
temperature allora raggiunte: la loro liquefazione si sarebbe quindi potuta ottenere
mediante un preventivo forte raffreddamento seguito eventualmente da compressione.
L'ipotesi fu brillantemente confermata nel 1877 da Luigi Cailletet (1832-1913) e Raoul
Pictet (1846-1929), che, lavorando indipendentemente, liquefecero l'ossigeno,
l'idrogeno, l'azoto, l'aria, mediante un forte raffreddamento preventivo. Altri fisici
continuarono i lavori di Cailletet e Pictet, ma soltanto la macchina di Linde, più sopra
ricordata, rese pratico il procedimento, consentendo la produzione di grandi quantità di
gas liquidi e il loro impiego, divenuto oggi divenuto comune, nella ricerca scientifica e
nell'industria.
La conducibilità calorifica, come fatto empirico, era conosciuta fin dalla più
remota antichità. Ma i primi studi sperimentali si possono far risalire a Richmann, che
impiegò un dispositivo sperimentale, ripreso poi da molti altri fisici, costituito da una
sbarra di ferro con piccoli fori pieni di mercurio in ciascuno dei quali è immerso un
termometro. Scaldando un'estremità della sbarra, si trova che le temperature lungo
l'asta decrescono non linearmente. Nel 1789 impiegando questo dispositivo, Jan
Ingenhousz (1730-1799) aveva dato la seguente scala di conducibilità: oro, rame, stagno,
platino, ferro, piombo. Il dispositivo precedente ed altri del genere trascuravano fattori
importanti, come la capacità termica e la conduzione esterna, e la critica a tali
procedimenti sperimentali cominciò con Jean-Baptiste-Joseph Fourier (1768-1830), che
intraprese lo studio teorico della propagazione del calore, introducendo nella
trattazione concetti che orientavano per vie nuove anche la ricerca sperimentale.
L'equazione fondamentale trovata da Fourier che regola la conduzione termica è
l'equazione differenziale alle derivate parziali, detta anche equazione del calore o di
Fourier:
∂2 T 1 ∂T
=
∂x2 C ∂t
natura del fenomeno esaminato; oppure tra la scelta del modello corpuscolare o
ondulatorio della luce). Si tratta, in ultima analisi, di un primo e significativo passo
verso quella formalizzazione e assiomatizzazione delle teorie, in cui gli epistemologi
moderni vedono la condizione indispensabile per uno studio veramente critico del
significato e del valore conoscitivo di una qualsiasi scienza.
Grandi difficoltà presentava il problema della conducibilità dei liquidi e dei gas,
tanto che al principio del secolo liquidi e gas si considerarono da molti fisici
assolutamente non conduttori. Ma César Despretz (1789-1863) nel 1839 e Angstrom nel
1864 dimostrarono senza possibilità di dubbio la piccola conducibilità dei liquidi. Per i
gas dette prove certe di conducibilità Heinrich G. Magnus (1802-1870) nel 1861 e
Clausius l'anno successivo, mentre Boltzmann nel 1875 dimostrò la proprietà
teoricamente.
8.8 La termodinamica
La teoria fluidistica, dopo aver coesistito pacificamente per secoli con la teoria
meccanica del calore, prende il sopravvento nella seconda metà del XVIII secolo e alla
fine dello stesso secolo la lotta si acuisce ed entra nella sua fase decisiva.
I più importanti studi sul calore nella prima meta del XIX secolo avevano lo
scopo pratico di migliorare il funzionamento delle macchine a vapore e Dalton
lamentava questo indirizzo delle indagini scientifiche, che a lui sembrava troppo
tecnico. Era stato Watt a porre il problema in termini di cruda praticità: quanto carbone
occorre per produrre un certo lavoro e con quali mezzi, a parità di lavoro, è possibile
ridurne al minimo il consumo.
Allo studio di questo problema pratico si accinse Sadi-Nicolas Carnot (1796-
1832), che riassunse i risultati dei suoi studi sulla macchina a vapore in un opuscolo
apparso nel1824 col titolo Reflexions sur la puissance motrice du feu et sur les machies
propres a developper cette puissace. La comparsa delle Reflexions segna una data
memorabile nella storia della fisica; non soltanto per il risultato raggiunto, ma anche per
il metodo imitato poi innumerevoli volte. Carnot pone a base del suo ragionamento
l'impossibilità del moto perpetuo che non era ancora assurto a principio scientifico.
Carnot avvia il suo studio specifico con un elogio della macchina a vapore; constata che
la relativa teoria è molto arretrata; osserva che, per farla progredire, è necessario
prescindere un po' dalla sua empiricità e considerare in astratto la potenza motrice del
fuoco, “indipendentemente da ogni meccanismo e da ogni agente speciale”. A tal fine
cominciò a schematizzare la macchina a vapore nel modo piu astratto, facendosi
guidare dall'analogia con una turbina ad acqua, e cioè da un caso in cui l'acqua scende
da un livello superiore a uno inferiore e la sua energia potenziale si trasforma in
potenza motrice. Nel caso della macchina a vapore, egli pensava, il calore cade da una
temperatura alta a una più bassa e, nel far questo, fornisce potenza motrice: "la
produzione di calore non basta a creare energia propellente, in quanto è necessario che
ci sia del freddo; senza di esso il calore sarebbe inutile".
A quell'epoca Carnot seguiva la teoria del calorico, e per questa ragione gli sfuggì
la differenza fondamentale tra l'acqua e il calore: mentre la quantità d'acqua è costante,
la quantità di calore ceduta alla temperatura più bassa diminuisce per un ammontare
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proporzionale al lavoro ottenuto. Carnot non era a conoscenza di questo fatto e credeva
che il calore (il calorico) si conservasse.
Carnot pose la domanda fondamentale: qual è il massimo lavoro ottenibile
quando il calore cade da una temperatura a un'altra, e da quali fattori dipende?
Nell'esempio della macchina a vapore il calore è ceduto a un cilindro chiuso da un
pistone. È ragionevole pensare che il calore debba essere ceduto con il minor salto
possibile di temperatura, perché quando il calore passa a una temperatura più bassa per
conduzione, non si ottiene lavoro. Sviluppando questo concetto Carnot si accorse che
tutte le trasformazioni eseguite dalla macchina dovevano costituire una successione di
stati di equilibrio. Di conseguenza, la macchina doveva poter funzionare in una data
direzione, oppure, rovesciando tutte le operazioni, nella direzione opposta: la macchina,
insomma, doveva essere reversibile. In una macchina dobbiamo avere una sorgente di
calore ad alta temperatura, un refrigerante a temperatura inferiore e un sistema capace
di trasferire il calore dall'una all'altro: per esempio, un cilindro con un pistone. È molto
importante, per poter ragionare chiaramente, che la trasformazione durante la quale il
calore passa dalla sorgente ad alta temperatura al refrigerante a temperatura più bassa
lasci completamente inalterato il sistema che trasferisce il calore stesso.
Un'operazione così
fatta fu descritta da Carnot ed
è nota con il nome di ciclo,
formato da due isoterme e
due adiabatiche, perché essa è
tale che, dopo un certo
numero di passi parziali,
l'apparecchio che trasferisce il
calore ritorna nel suo stato
originale. La macchina è
evidentemente reversibile.
Carnot giunge così al teorema
che porta il suo nome: “La
potenza motrice del calore è indipendente dagli agenti messi in opera per ottenerla; la
sua quantità è fissata unicamente dalle temperature dei corpi tra i quali avviene in
ultima analisi il trasporto del calorico”.
Insomma, il rendimento di una macchina termica è determinato dalle
temperature della sorgente e dal refrigerante, elemento quest'ultimo, affermò
esplicitamente Carnot, essenziale come la caldaia, sostituito dall’ambiente quando nella
macchina manchi come elemento costruttivo, e non dipende dalla sostanza usata nel
ciclo. Tutto questo costituisce l'essenza del principio di Carnot o secondo principio della
termodinamica:
TEOREMA DI CARNOT
Tutte le macchine reversibili che lavorano fra due temperature fissate hanno lo stesso
rendimento e nessuna macchina reale (irreversibile) che scambi calore con due sorgenti a
quelle temperature può avere un rendimento maggiore:
T2 − T1
η rev ≥ η dove ηrev =
T2
4=7! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
Possiamo ora accoppiare due macchine reversibili, l'una che lavora in un senso e
l'altra nel senso opposto. Se una di esse avesse un'efficienza superiore a quella dell'altra,
potremmo realizzare un moto perpetuo, il che, secondo il teorema di Carnot, è una
assurdità. Osserviamo che il principio di Carnot, come il principio sul moto perpetuo, è
un principio d’impossibilità, sul quale la termodinamica si è costituita come scienza
deduttiva, a somiglianza della geometria. Ora, principi d’impossibilità s'incontrano
nell'elettromagnetismo, nella relatività, nella meccanica quantistica, onde è possibile
pensare che capitoli della fisica abbastanza sviluppati attraverso la ricerca sperimentale,
possano essere organizzati in forma deduttiva a partire da postulati d'impossibilità,
come è avvenuto per la termodinamica.
Un'altra osservazione: Carnot non si occupa esplicitamente della natura del
calore. Dice che adopererà indifferentemente i termini “calore” e “calorico”, il che fa
supporre, come abbiamo già detto, che egli credesse alla sostanzialità del calore, per il
quale accetta il principio di conservazione già enunciato da Black. Stabilito il teorema
fondamentale, Carnot lo applica alla soluzione di altri problemi; per esempio, al lavoro
di espansione isotermica, giungendo alla conclusione che il rapporto Q/T tra calore e
temperatura corrispondente dava un valore costante per un dato processo isotermico.
Carnot calcola il lavoro prodotto per percorrere un ciclo infinitesimale da un grammo di
aria, di vapore, di alcool, ottenendo una conferma all'indipendenza del lavoro prodotto
dalla sostanza che percorre il ciclo.
Dopo la pubblicazione del trattato, Carnot si convinse pienamente della teoria
meccanica del calore, come risulta dal seguente brano, trovato nei suoi manoscritti e
pubblicato nel 1878 in appendice alla ristampa delle sue Reflexions: “Il calore non è altra
cosa che la potenza motrice, o piuttosto che il movimento che ha cambiato di forma. È
un movimento nelle particelle dei corpi. Dovunque c'è distruzione di potenza motrice
vi è, nel medesimo tempo, produzione di calore in quantità precisamente proporzionale
alla quantità di potenza motrice distrutta. Reciprocamente, dovunque c'è distruzione
di calore, vi è produzione di potenza motrice. Si può dunque porre in tesi generale che
la potenza motrice è una quantità invariabile nella natura, che essa non è mai,
propriamente parlando, né prodotta, né distrutta. In verità essa cambia di forma, vale
a dire che essa produce ora un genere di movimento, ora un altro, ma non è mai
annientata”.
Dall'epoca di Rumford sino al 1840 circa non si registra alcun lavoro importante
per la termodinamica, ad eccezione dei già ricordati lavori di Carnot e di Clapeyron. Il
capovolgimento di mentalità si operò, soprattutto tra i giovani fuori degli ambienti
accademici, dove il peso della tradizione e l'autorità dei maestri talvolta impacciano il
rinnovamento delle idee. Si spiega così come quasi contemporaneamente e
indipendentemente fosse avanzato da diversi giovani, non legati alla scienza ufficiale,
come Carnot, Mayer, Joule, per citare i più famosi, il concetto di equivalenza tra calore e
lavoro.
Il principio di conservazione dell’energia si sviluppò in un lungo periodo di
tempo segnato da osservazioni e da generalizzazioni sempre crescenti, finché raggiunse,
attorno alla metà del XIX secolo, una posizione centrale non solo per la fisica ma per
ogni scienza, anche per le sue implicazioni filosofiche. Fu come se una nuova "scienza
dell'energia" riprendesse le differenti teorie fisiche e le inglobasse come altrettanti casi
particolari nel quadro di una concezione che si proponeva in qualità di verità finale
della fisica. In questa prospettiva, la scienza dell'energia diventava e dissimulava al
tempo stesso la potenza della natura. Sin dai primi anni del XIX secolo si sapeva, in
meccanica, che, per punti materiali interagenti secondo forze derivabili da un
potenziale, la somma dell'energia potenziale e dell'energia cinetica era costante. Questo
teorema poteva suggerire una forma generalizzata della conservazione che
comprendeva anche il calore, purché il calore stesso fosse identificabile con il moto, ed è
probabile che parecchi scienziati e pensatori siano stati influenzati da considerazioni del
genere. Le scoperte nel campo dei fenomeni elettrici, d'altra parte, ponevano nuovi
problemi su come inserirle nello schema della conservazione dell'energia. Il termine
energia era vecchio di secoli quando nel 1807 Young lo introdusse nella scienza per
indicare il prodotto mv2, ma il suo uso era tutt'altro che preciso. Pensatori chiari come
Carnot ed Helmholtz usarono parole come puissance motrice (il cui significato letterale è
potenza motrice) e Erhaltung der Kraft (che alla lettera significa conservazione della
forza) per parlare del lavoro o dell'energia.
Le carenze nella formulazione e le incertezze nella nomenclatura fanno sì che sia
impossibile attribuire a una singola persona la scoperta della conservazione
dell'energia, ma gli scienziati che contribuirono maggiormente alla scoperta furono
Mayer, Joule e Helmholtz. Non citiamo Carnot perché, anche se fu indubbiamente uno
dei primi ad avere idee chiare sull'argomento, il suo lavoro fu pubblicato soltanto nel
1878, quando la termodinamica era ormai una scienza stabilita, per cui i suoi pensieri
sulla conservazione dell'energia non poterono esercitare alcuna influenza sull'opera dei
suoi successori.
Robert Mayer (1814-1878) ebbe una subitanea intuizione della legge nel luglio
1840 e in una sua memoria pubblicata si chiede che cosa noi intendiamo per “forza” e
quali siano le differenti forze in relazione tra di loro (per capire la memoria di Mayer il
lettore moderno sostituisca la parola “forza” con la parola “energia”). Per lo studio della
natura è necessario che si abbia un concetto di forza altrettanto chiaro come quello di
materia. Mayer continua: “Le forze sono cause; in conseguenza noi possiamo nei loro
confronti fare una completa applicazione del principio causa aequat effectum”. Mayer
prosegue in questa impostazione di sapore metafisico e giunge alla conclusione che: “Le
forze (probabilmente la “forza viva” come veniva chiamata allora l’energia cinetica)
sono oggetti indistruttibili, convertibili e imponderabili”; e che se la “causa è materia,
l'effetto è materia; se la causa è una forza, l’effetto è una forza”. Ne segue: “se, per
4=9! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
esempio, strofiniamo fra loro due lastre di metallo, vediamo il moto scomparire e
d’altro canto fa la sua comparsa il calore”. Seppure genericamente, in queste parole è
espresso il principio di conservazione dell’energia.
Con poche considerazioni Mayer mostra che sarebbe irragionevole negare una
connessione causale tra il moto (ossia, secondo la nostra terminologia, il lavoro) e il
calore; come irragionevole sarebbe supporre una causa, il moto, senza effetto, o un
effetto, il calore, senza causa. Mayer chiude la disquisizione con una deduzione pratica:
“Qual è la quantità di calore che corrisponde a una data quantità di moto o forza di
caduta?” Con un'intuizione veramente geniale egli dedusse questo equivalente dalla
conoscenza dei calori specifici dei gas a pressione e a volume costante. Questo metodo
di Mayer consiste nel dire che la differenza tra i due calori specifici equivale al lavoro
fatto per vincere, nell'espansione del gas, la pressione esterna. Utilizzando i valori dei
calori specifici dati da Dulong, Mayer, con un calcolo appena accennato nella memoria,
trova che una grande caloria equivale a 365 chilogrammetri, e subito commenta: “Se noi
compariamo con questo risultato il lavoro delle nostre migliori macchine a vapore, noi
vediamo che una piccola parte solamente del calore applicato sotto la caldaia è
realmente trasformata in moto, ossia nel sollevamento di pesi”. Data la insufficiente
cultura matematica, Mayer non riuscì ad esprimere il principio di equivalenza in
un’equazione compiuta.
Mayer deve essere considerato anche come il primo ad aver compreso l’unità di
tutte le manifestazioni energetiche della natura. Con intuizione metafisica dice:
“Affermo quanto segue: la forza di caduta, il movimento, il calore, la luce, l’elettricità e
la differenza chimica tra corpi ponderali costituiscono un solo oggetto sotto apparenze
diverse”. E ancora: “Il movimento si trasforma in calore. In queste cinque parole è
implicita tutta la mia teoria”. Il principio della conservazione dell'energia offre a
Mayer spunti per il suo materialismo filosofico, col quale nega l'esistenza di qualsiasi
principio spirituale che possa essere ipotizzato come causa sia della vita e sia del
pensiero, considerandoli meri esiti di un processo di trasformazione della materia, che
si evolve dallo strutturalmente semplice al sempre più complesso.
PRINCIPIO DI EQUIVALENZA
Il lavoro L (espresso in joule) necessario per ottenere un dato incremento di temperatura è
direttamente proporzionale alla quantità di calore Q (espressa in calorie) che bisogna
fornire per ottenere lo stesso incremento:
L = JQ
dove J=4,186 J/cal è noto come equivalente meccanico del calore.
Joule interpreta così come una conversione, un mutamento quindi, gli effetti
dell'azione del calore in un sistema meccanico, e getta le basi per l'interpretazione di
questi effetti in chiave di scambio, trasformazione d'energia. Nell'ottica di Joule,
l'energia non si dissipa, ma si conserva pur trasformandosi. Con Mayer e Joule l'antico
"calorico" fu definitivamente abbandonato e il calore e lavoro diventano due aspetti
diversi dell’energia che è possibile trasformare l’uno nell’altro e viceversa.
Però, dalle pubblicazioni di Mayer e Joule passarono alcuni anni prima che i fisici
si accorgessero del principio di equivalenza. Nel 1847 Hermann von Helmholtz (1821-
1894) pubblicava la sua celebre memoria Uber die Erhaltung der Kraft (Sulla
conservazione dell’energia) senza conoscere ancora l'opera di Mayer (ma conosceva
quella di Joule). Il lavoro di Helmholtz, anche se presenta alcune analogie con le
precedenti pubblicazioni di Mayer, è assai più solidamente strutturato, contiene meno
considerazioni filosofiche e fornisce innumerevoli esempi tratti dalla meccanica, dalla
termologia, dall’elettricità e dalla chimica e utilizza valori numerici presi dalle solide
misure di Joule. Pertanto, Helmhotz, non si limita a prendere in esame la forza (ossia
l'energia) meccanica e calorifica, ma anche le altre forme di energia. Sostanzialmente
Helmholtz, riprendendo il concetto di Mayer, chiama energia qualunque ente che possa
convertirsi da una forma in un'altra e, come Mayer, le attribuisce il carattere
d'indistruttibilità onde essa si comporta come qualunque sostanza: non può essere nè
creata, nè distrutta. Tra materia ed energia c'è un'intima relazione: “La materia e la
forza sono astratte dalla realtà, e formate in modo del tutto eguale; e noi possiamo
percepire la materia proprio soltanto attraverso le forze, insite in essa, ma non mai in
sé e per sé”.
Helmholtz, come già Carnot a cui si richiama, pone a fondamento della propria
trattazione l'impossibilita “di produrre continuamente forza motrice dal nulla”. Per
applicare il principio ai fenomeni meccanici, egli imita l'esperimento mentale e il
ragionamento di Carnot: se un sistema di corpi passa da uno stato a un altro consuma
una certa quantità di lavoro, che dev'essere eguale a quello che si deve fornire al sistema
per farlo ritornare dal secondo stato al primo, a prescindere dal modo, dalla traiettoria e
dalla velocità del ritorno; infatti, se i due lavori fossero diversi, si produrrebbe (o si
distruggerebbe) a ogni ciclo una forza motrice dal nulla. Ciò che si conserva nei processi
meccanici è la somma della forza di tensione (energia potenziale, secondo la nostra
terminologia) e della forza viva. È questo il principio di conservazione della forza.
Helmholtz passa poi a dimostrare che il principio si applica ai fenomeni meccanici (urto
dei corpi, attrito, compressione o espansione dei gas) da produzione di calore, ai
fenomeni elettrostatici o elettrodinamici, magnetici o elettromagnetici, e infine ai
fenomeni del mondo organico. Quest’ultima estensione ci sembra di particolare
importanza dal punto di vista storico. L'impossibilità del moto perpetuo era, come
44<! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
abbiamo accennato, uno stato d'animo dei fisici, che stentava ad assurgere a principio
scientifico generale, perché sembrava contraddetto dall’esperienza più comune: il
lavoro degli animali. Sino a quando non si mette una relazione tra il lavoro eseguito
dagli animali e i cibi ingeriti la produzione di forza motrice dal nulla pare possibile.
Oggi che siamo familiarizzati col concetto di energia, può sembrare che la
memoria di Helmholtz non aggiungesse nulla a quanto avevano asserito Mayer e Joule.
Ma, per apprezzare la concezione nuova di Helmholtz, basta riflettere che Mayer e Joule
s'erano riferiti a un caso particolare, anche se importantissimo, mentre Helmholtz
introduce una grandezza nuova, prima ignota alla fisica o equivocamente confusa con
la forza, presente in tutti i fenomeni fisici, mutevole nelle forme ma indistruttibile,
imponderabile ma regolatrice delle apparenze della materia. Tutta la fisica della
seconda metà del XIX secolo poggiò su due concetti, materia ed energia, obbedienti
entrambe a leggi di conservazione. Il peculiare carattere distintivo dei due enti era la
ponderabilità della materia e l'imponderabilità dell'energia.
Le vedute di Helmholtz ispirarono la scuola degli energetisti, il cui programma
fu l'abbandono della concezione meccanicistica dell’universo secondo la quale tutti i
fenomeni debbono essere spiegati mediante i concetti di materia e di forza, e al posto di
questa concezione se ne sostituiva un'altra nella quale il gioco delle energie, attuali e
potenziali, esistenti nei corpi, spiega i vari fenomeni. L'energia è per gli energetisti
l’unico ente fisico reale e la materia ne è l'apparente supporto.
Il problema della scala termometrica, che aveva affaticato generazioni di
scienziati per due secoli, ebbe la più razionale soluzione da parte di William Thomson
(poi Lord Kelvin) (1824-1907), il maggior fisico dell’impero britannico, che aveva
conosciuto l'opera di Carnot attraverso l'esposizione analitica di Clapeyron, nella cui
memoria si propone, tra le altre cose, il calcolo del lavoro prodotto da una macchina
perfetta, nella quale una caloria passa tra due corpi la cui differenza di temperatura sia
un grado (centigrado), e calcola che codesto lavoro non è costante, ma va diminuendo
con l'aumentare della temperatura. Il calcolo di Clapeyron fermò l'attenzione di
Thomson, il quale intuì che per questa via sarebbe stato possibile definire una scala
assoluta delle temperature, assoluta nel senso d'indipendente dalla sostanza
termometrica adoperata. Thomson ebbe l’idea di definire la temperatura per mezzo di
una macchina di Carnot, il cui rendimento è indipendente dal fluido. Secondo la nuova
definizione, una certa quantità di calore che cade di un grado nella nuova scala fornisce
una certa quantità di lavoro fissa. Thomson, nel lavoro scritto nel 1848, aderiva, come
Carnot, all’ipotesi della conservazione del calorico, e presuppose, sbagliando, che la
quantità di calore che entrava nella macchina alla sorgente fosse eguale a quella che ne
usciva al refrigerante. Ma il metodo, alcuni anni dopo, potè essere facilmente adattato
alla conservazione dell’energia. Il risultato fu il seguente: sapendo che il rendimento di
una macchina reversibile è funzione delle sole temperature della sorgente e del
refrigerante (η=T2-T1/T2), doveva esistere uno zero assoluto perché il rendimento non
può essere superiore all’unità. La scala assoluta delle temperature, definita in questo
modo, doveva essere confrontata con le scale pratiche, e ciò fu fatto in pochi anni,
dando i risultati sperati, ossia le scale termometriche coincidevano con quella assoluta,
stabilendo ovviamente la grandezza del grado, per esempio fissando che la temperatura
dell’acqua bollente supera di 100 gradi quella del ghiaccio fondente.
Thomson fu uno scienziato molto eclettico, trattò problemi svariatissimi
mostrando di possedere una superba maestria professionale, sia che si trattasse di
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elettrostatica, che di correnti transitorie o altro; seppe mettere in luce le analogie tra la
teoria di Fourier sulla conduzione del calore e la teoria del potenziale, discusse alcuni
aspetti delle idee di Faraday sulla propagazione dell'azione elettrica, analizzò i circuiti
oscillanti e le correnti alternate da essi generate, e i suoi scritti influenzarono Maxwell,
che gli chiese consigli e persino il permesso di lavorare sulla sua stessa linea di ricerca.
Thomson applicò la fisica anche in un campo lontano da quelli già ricordati,
speculando sulle possibili origini del calore solare e sulle condizioni di temperatura
della Terra. I suoi metodi erano validi e ingegnosi, ma poiché non conosceva l'origine
nucleare dell'energia del Sole e la radioattività della Terra, non gli era possibile
giungere a risultati corretti. Tentò di spiegare l'origine del calore solare facendo l'ipotesi
o di meteoriti precipitanti sul Sole o di una contrazione gravitazionale: ma l’eta' del
Sole, secondo i calcoli che egli fece attorno al 1854, era inferiore a 5⋅108 anni, valore
troppo piccolo rispetto ai risultati moderni (maggiori di un fattore 10). Inoltre basandosi
sul gradiente della temperatura in zone superficiali della Terra cercò anche di
ricostruire la storia termica della Terra e di assegnare a quest'ultima un'età. Qui pure il
suo calcolo portava a valori troppo piccoli: 4⋅108 anni, mentre i dati odierni danno circa
4,6⋅109 anni. I geologi, che si basavano sui tempi necessari per i fenomeni geologici, non
potevano aderire alle sue stime. Essi non criticavano la matematica di Thomson ma
sostenevano che le sue ipotesi di partenza dovevano essere sbagliate. Anche i biologi
non riuscivano a far rientrare le recenti idee sull'evoluzione nella scala temporale
suggerita da Thomson. La controversia durò per molti anni, e Thomson non prestò mai
troppa attenzione alle giuste obiezioni dei geologi e dei biologi. La scoperta della
radioattività e delle reazioni nucleari indicò infine l'origine dell'errore presente nelle
premesse del fisico inglese.
Thomson era profondamente legato ai modelli meccanici a cui aspirava ridurre
tutti i fenomeni fisici. Naturalmente non era il solo ad avere questa visione
meccanicistica della natura, ma menti più profonde della sua, pur ricorrendo ai modelli
come strumenti euristici, erano andate al di là di essi, lasciandoli cadere al momento
opportuno. Sta qui una delle differenza tra Kelvin e Maxwell, in cui si manifesta la
superiorità del secondo rispetto al primo. Gli studi sulla termodinamica sono forse il
massimo e più duraturo contributo portato da Thomson alla fisica, anche se era stato
preceduto da un lavoro simile di Clausius. Le due ricerche si erano svolte
indipendentemente l'una dall'altra, e furono entrambe di importanza capitale. Questo
lavoro di Thomson è però alquanto astruso e i suoi contemporanei lo ricordavano e lo
onoravano per altre investigazioni scientifiche, come quelle precedentemente
analizzate.
Il principio di Carnot, dedotto nel quadro della teoria fluidistica del calore,
poteva apparire in contraddizione col principio di equivalenza, perché supponeva che
in una macchina ideale la quantità di calore “caduta” da una temperatura a un'altra più
bassa rimanesse costante, come costante rimane la quantità di acqua che cadendo in una
cascata produce lavoro meccanico. Rudolf Clausius (1822-1888) e Thomson quasi
contemporaneamente e indipendentemente, si assunsero il compito d'inquadrare i due
principi in una nuova assiomatica, più organica e chiara quella del primo, che pose i
fondamenti della teoria meccanica del calore.
Clausius osservò che la costanza del rapporto tra lavoro speso e calore prodotto
si ha soltanto nelle trasformazioni cicliche, nelle trasformazioni, cioè, nelle quali il corpo
in esame, dopo una serie di cambiamenti, ritorna nelle condizioni iniziali. Per esempio,
44=! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
non ci si trova in questo caso nel calorimetro di Joule, perchè in esso si ha acqua fredda
a principio della trasformazione e acqua calda alla fine. Se la trasformazione non è
ciclica, il rapporto non è costante; ossia la differenza, misurata nelle stesse unità di
misura, tra calore speso e lavoro prodotto o viceversa non è nulla. Muovendo dal
principio secondo cui non vi è mai perdita di energia, bensì trasformazione (primo
principio della termodinamica), Clausius intuì che era necessario che vi fosse un
processo di compensazione della trasformazione del calore in energia meccanica,
qualcosa che permettesse il mantenimento dell'energia termica interna al sistema nei
valori di partenza, o comunque su valori omogenei. Di fatto, ciò era possibile solo
nell'ipotesi che una parte dell'energia, paradossalmente, si perdesse, che all'interno del
sistema termico si assistesse ad una degradazione dell'energia complessiva. Clausius
comprese che, mentre le altre forme d'energia si potevano trasformare una nell'altra
integralmente e reversibilmente, l'energia termica non si riconvertiva completamente,
ma dissipava una parte di sé nelle trasformazioni e perdeva dunque una parte della sua
capacità di svolgere lavoro. Da qui l'impossibilità di costruire sistemi termici idealmente
conservativi. Pertanto, Clausius ebbe la felice idea di saldare il conto che non tornava,
introducendo il concetto di energia interna. Per esempio, se si vaporizza una certa
quantità di acqua, mantenendola a temperatura costante, il calore fornito è molto
maggiore del lavoro di espansione del vapore: l’altra parte di energia dove è andata? Il
calore fornito all'acqua in parte si trasforma in lavoro esterno di espansione del vapore
(e dell'acqua) e in parte si trasforma in energia interna, che il vapore restituisce sotto
forma di calore condensandosi.
Con l'invenzione del concetto di energia interna Clausius dette forma matematica
precisa al principio di equivalenza anche per le trasformazioni aperte:
Ciò che rende questo enunciato veramente restrittivo è quel "solamente"; infatti, se si
ammette che avvengano altri fatti concomitanti, altre modificazioni del sistema, non è
affatto impossibile trasformare integralmente il
calore in lavoro.
Clausius, invece, osserva che in natura i
fenomeni spontanei avvengono sempre nello
stesso verso; sono, cioè, fenomeni irreversibili.
È da notare che, se una trasformazione avviene
in un certo verso, non sarebbero violati né il
primo principio della termodinamica né gli
altri princìpi di conservazione nel caso in cui la
stessa trasformazione avvenisse inversamente.
Quindi questi princìpi non forniscono alcuna
indicazione circa il verso in cui effettivamente
si svolge un processo spontaneo.
L'irreversibilità dei fenomeni è messa in evidenza nel seguente principio, che
rappresenta l’enunciato del secondo principio della termodinamica dato da Clausius:
Ovviamente i due enunciati sono perfettamente equivalenti fra loro, nel senso
che se non fosse vero il primo non sarebbe vero neanche il secondo, e viceversa.
Possiamo così concludere che fissato un fenomeno reale, che avvenga
spontaneamente senza alcun intervento esterno, è impossibile come unico risultato
finale far avvenire, nelle medesime condizioni, il processo in senso inverso. Più
precisamente è impossibile trovare un processo inverso che possa riportare nello stato
iniziale sia il sistema considerato sia l'ambiente con cui esso è a contatto.
I due enunciati, ed altri simili (i fenomeni naturali sono irreversibili; i fenomeni
avvengono in modo che l'energia che vi interviene si degradi; ecc.) sono totalmente in
antitesi con le tradizionali leggi dinamiche reversibili, e ciò rappresenterà uno dei
motivi della crisi del meccanicismo nella seconda metà del XIX secolo.
L'impossibilità di costruire sistemi termici idealmente conservativi, la
diminuzione della capacità di conversione di calore in lavoro, questa degradazione
dell'energia, indusse Clausius nel 1865 ad introdurre una nuova grandezza fisica,
l’entropia S (dal greco entropè=trasformazione), che doveva assumere un ufficio
fondamentale nell'ulteriore assetto della termodinamica: “Nello stesso modo in cui
diciamo che U (energia) è il contenuto di calore e di lavoro di un corpo (primo
principio), anche S (entropia) può essere considerata il contenuto di trasformazione di
un corpo… per questo motivo ho utilizzato la parola entropia dal greco entropè che
significa trasformazione, affinché questa quantità fosse il più possibile simile a energia,
in quanto entrambe sono così strettamente connesse l’una all’altra che mi è parso utile
una certa analogia nei loro nomi”. In particolare l’entropia doveva servire a distinguere
un processo reversibile da uno irreversibile e di attribuire un significato preciso al
concetto di degradazione dell'energia.
445! /0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(!
Clausius dimostrò che si tratta di una grandezza di cui non si conosce il valore
assoluto, ma soltanto le variazioni, e tale che essa aumenta sempre nei sistemi
irreversibili termicamente isolati; rimarrebbe costante soltanto nel caso ideale di
trasformazioni reversibili. L'entropia è una grandezza caratteristica di un corpo
(funzione di stato), come il volume, la temperatura, l'energia interna.
Perciò possiamo formulare, in maniera del tutto generale, il secondo principio
della termodinamica in termini di entropia:
esempio, dal calore che forzatamente viene trasformato in lavoro utile, o che viene
costretto a passare da un corpo freddo ad un ambiente più caldo con un consumo di
energia, originano sempre variazioni di entropia negative. Poiché calcoli teorici
suggerivano che l’insieme delle variazioni positive di entropia dovesse essere maggiore
dell’insieme delle variazioni negative, Clausius giunse alla conclusione che: l’entropia
dell’Universo è destinata sempre ad aumentare, fino al raggiungimento di un valore
massimo coincidente con uno “stato di morte immodificabile” dell’Universo, la
cosiddetta “morte termica”, uno stato in cui vi è la totale assenza di ogni processo fisico,
chimico e biologico.
Come diceva il giovane Freud quando Clausius era ormai anziano: “Lo scopo
finale di tutte le forme di vita è la morte”.
L'opposizione dei fisici all'introduzione di questa nuova grandezza fu vivissima,
specialmente per il suo carattere misterioso, dovuto principalmente al fatto che essa non
è percepibile dai nostri sensi.
PRINCIPIO DI AVOGADRO
Volumi uguali di gas diversi, nelle stesse condizioni di temperatura e di pressione,
contengono lo stesso numero di molecole. Inversamente, uno stesso numero di molecole di
gas, di qualunque specie, nelle stesse condizioni di temperatura e di pressione, occupa lo
stesso volume.
Inoltre, gli atomi che costituiscono una molecola si muovono gli uni rispetto agli
altri secondo un moto forse oscillatorio. Su queste basi teoriche, Clausius calcola così,
per esempio, che a 0 °C la velocità delle molecole d'ossigeno è 461 m/s e delle molecole
d'idrogeno 1844 m/s. I valori, quasi eguali a quelli calcolati oggi, sembrarono enormi e
incompatibili con la piccola velocità di diffusione di un gas in un altro e con il basso
potere conduttore dei gas. Ma già nel 1858 Clausius osservava che il processo di
diffusione non dipende tanto dalla velocità delle molecole, quanto dal libero cammino
medio di una molecola, definito come il valore medio del percorso rettilineo compiuto
da una molecola tra due urti successivi (nel 1860 calcolato da Maxwell) e in
conseguenza il numero di urti di ogni molecola in un certo tempo. Si ottengono, come si
sa, numeri grandissimi, che, in condizioni normali, sono dell'ordine di 5 miliardi per
secondo. Lo schema teorico di Kronig e Clausius è un po' semplicistico, onde le
conseguenze tratte si potevano ritenere confermate dall'esperienza soltanto in prima
approssimazione. In particolare l'equazione di stato che la teoria dava come verificata in
ogni circostanza era seguita da gas molto rarefatti.
Nel 1873 comparve la prima memoria di Johannes Van der Waals (1837-1923),
nella quale si dimostrava che basta correggere la precedente teoria in due punti soltanto
per giungere a conclusioni applicabili ai gas reali. Basta, in primo luogo, tenere presente
/0(-#*!.&,,*!1#2#%*!&!.&,!)&$2#&-(!/%#&$0#3#%(! 448!
che il volume delle molecole non è nullo, ma, con l'aumentare indefinito della pressione,
esso non tende a zero, ma a un certo valore finito, detto covolume, legato al volume
totale delle molecole; in secondo luogo, bisogna non trascurare l'attrazione mutua tra le
molecole, cioè la coesione del gas, che ha per effetto di diminuire la pressione, perché
ogni molecola all'istante dell'urto contro la parete è, per così dire, frenata dall'attrazione
delle altre molecole. Tenendo conto di queste due correzioni, Van der Waals scrisse
l'equazione di stato che porta il suo nome:
a
p + 2 (V − b) = RT
V
a e b costanti caratteristiche del gas reale
che determina, in funzione della velocità v, la probabilità che una molecola abbia una
velocità compresa fra v e v+dv, quando sia data la temperatura del gas. In questo modo
non solo si ammette che le velocità delle molecole siano diverse ma introduce l’ipotesi
molto importante che le velocità delle molecole varino distribuendosi secondo la stessa
legge con cui si distribuiscono gli errori in una serie di osservazioni. Tale distribuzione
può cioè considerarsi casuale. Le velocità varieranno da zero all’infinito, ma è possibile
calcolare il numero medio delle molecole, e quindi la loro probabilità, la cui velocità si
colloca entro certi limiti. Oltre al calcolo delle velocità e del percorso libero medio (la
lunghezza media percorsa dalla particella fra due urti successivi), queste ipotesi
permettevano a Maxwell di spiegare importanti proprietà osservabili dei gas. La teoria
cinetica dei gas sviluppata da Maxwell e Clausius apriva in tal modo una nuova
prospettiva teorica nella conoscenza dei fenomeni naturali. In primo luogo con essa
assumeva un ruolo molto importante nella fisica il calcolo delle probabilità.
L'introduzione di leggi statistiche nella fisica considerate non più, dunque, leggi
dinamiche causali, ma leggi statistiche che permettono di prevedere l'evoluzione futura
non con assoluta certezza, ma solamente con probabilità, talvolta grandissima. In
secondo luogo si aveva una completa rivalutazione dell’atomismo tradizionale e
soprattutto si poteva dare una nuova interpretazione della termodinamica che risolveva
le difficoltà sorte dall’apparente contrasto fra il primo e secondo principio della
termodinamica. Se si considera infatti l’energia, che si conserva in base al primo
principio, come la somma delle energie delle singole molecole di un corpo, allora il
secondo principio non nega affatto, con la dissipazione dell’energia, che l’energia, cioè
la capacità di compiere lavoro, delle singole molecole diminuisca. Tale principio
afferma soltanto che essa non è più utilizzabile per l’uomo, ad esempio quando si ha un
livellamento di temperatura fra i corpi, cioè si ha una distribuzione più uniforme della
velocità delle molecole in essi. In altre parole non vi è una velocità, in media, più
probabile di un’altra.
un setto perfettamente scorrevole, che possa essere manovrato senza alcuna spesa di
lavoro. Immaginiamo ora un essere diabolico, noto come diavoletto di Maxwell, che tenga
aperto il setto solo quando una particella, durante il disordinato moto molecolare, tende
a passare da B in A, tenendo chiusa la comunicazione in caso contrario. Dopo un certo
tempo, teoricamente anche molto lungo, tutte le molecole sono passate in A, mentre in B
si è formato il vuoto. Si è così invertita l'esperienza di Joule, essendosi prodotto, senza
alcun lavoro esterno, uno squilibrio di pressione fra i due recipienti. In modo analogo
l'equilibrio termico nei due scomparti potrebbe essere alterato mediante il passaggio
delle molecole più veloci in B e di quelle più lente in A. In definitiva, in entrambi i casi,
il secondo principio della termodinamica sarebbe violato.
Dobbiamo ora chiederci se durante il moto molecolare, per una successione di
casi fortuiti, i fantasiosi fatti illustrati da Maxwell possano realmente verificarsi. A
rigore di logica non è assurdo pensare che a un certo istante tutte le molecole siano
passate in A o che si sia spontaneamente prodotta nei due ambienti, lasciati in
comunicazione, una disomogeneità macroscopica di pressione o di temperatura.
Tuttavia, la probabilità di simili eventi fortuiti dipende dal numero di molecole presenti
nei recipienti, nel senso che, col crescere del numero di molecole, la probabilità diviene
così piccola che praticamente i casi considerati non si realizzano mai. Boltzmann,
quindi, sulla base della precedente considerazione, propose un’innovazione radicale: il
secondo principio della termodinamica non è una legge naturale certa, ma solo di
estrema probabilità. Quindi le ragioni del secondo principio della termodinamica
derivano esclusivamente da osservazioni effettuate su sistemi formati da numeri
enormemente grandi di molecole, con intenzionale esclusione di ogni processo
elementare. Da tutto ciò discende che, se il numero delle molecole è molto piccolo, il
concetto di irreversibilità non ha alcun significato fisico, mentre, quando un sistema è
formato da un numero molto grande di elementi, esiste un'impossibilità pratica di
violare l'unidirezionalità dei processi reali. Per un sistema termodinamico, pertanto, fra
tutti i processi possibili si verificherà con quasi assoluta certezza quello avente la
massima probabilità. Allora, i vari enunciati del secondo principio dovrebbero
affermare, piuttosto che l'impossibilità di determinati fenomeni, la loro estrema
improbabilità. Anche la legge dell'accrescimento d'entropia nei processi adiabatici
irreversibili è una legge di probabilità. S'intuisce, dunque, che dev'esserci una relazione
tra entropia e probabilità, messa in luce da Boltzmann nel suo teorema enunciato nel
1887, una delle più alte conquiste della fisica teorica:
EQUAZIONE DI BOLTZMANN
L'entropia S(A) dello stato macroscopico A di un sistema è espressa in funzione della
probabilità termodinamica P(A) di quello stato dalla relazione:
! ! ! !! !"#!!!
dove la probabilità termodinamica P(A) di uno stato macroscopico A, è una grandezza proporzionale al numero
delle configurazioni microscopiche.
“[…] Per gli antichi la Natura era una fonte di saggezza. La Natura medievale
parlava di Dio. Nei tempi moderni la Natura è divenuta così silenziosa che Kant pensò
che scienza e saggezza, scienza e verità dovessero essere completamente separate.
Abbiamo vissuto con questa dicotomia nel corso degli ultimi due secoli. È tempo che essa
giunga alla fine. [...] Una prima tappa verso una possibile riunificazione della
conoscenza è stata la scoperta, nel corso del XIX secolo, della teoria del calore, delle
leggi della termodinamica. Nella nostra attuale prospettiva la termodinamica appare
dunque come la prima scienza della complessità” (Prigogine, Premio Nobel per la
chimica, 1977).
esperimento non è più un atto costitutivo della conoscenza, ma piuttosto una pratica
esplorativa, un modo come un altro per conoscere. Siamo passati così da un'immagine
della scienza come episteme, cioè sicurezza, certezza, raggiungimento della verità, alla
scienza come doxa, sapere fallibile, ipotetico, opinione, un discorso intorno alle cose.
Forse è questo l'aspetto più importante che porterà alla crisi della fisica classica e che
rappresenterà l’aspetto fondamentale della scienza del '900.
Esaminiamo a questo punto più nel dettaglio l'evoluzione della crisi, che è la
storia del crollo dell'immagine del Mondo-orologio cartesiano e newtoniano e
dell'ideale della scienza come portatrice di verità, nonché dell'affacciarsi di un nuovo
modo di vedere il mondo.
Tutto comincia con la Rivoluzione industriale, con la scoperta che il fuoco
trasforma la materia, permette ai corpi di dilatarsi, di fondersi o evaporare, e
soprattutto permette al combustibile di bruciare con grande produzione di fiamma e
calore. La scienza del XIX secolo comprende il fatto che la combustione produce calore e
che il calore produce lavoro (effetto meccanico). La teoria del calore nasce come
problema squisitamente tecnico ed economico: non riguarda la natura del calore o la
sua azione sui corpi, ma piuttosto l'uso di tale azione. Si tratta di sapere, cioè, in quali
condizioni il calore produce energia meccanica e fa girare un motore. Ma da questo
interesse pratico della scienza deriverà, di anche la scoperta sconvolgente del fatto che il
fenomeno della trasformazione del calore, per la sua natura e i suoi effetti, non era
assolutamente riconducibile, né riducibile, alla meccanica newtoniana, alla fisica
classica. Sfuggiva, inevitabilmente, ad ogni tentativo di spiegazione.
Se infatti la termodinamica nasceva con l'enunciazione del principio secondo cui
l'energia si conserva intatta, attraverso le più diverse trasformazioni, e non va mai
perduta in nessuna delle sue parti, a questo Primo Principio fece presto seguito
l'individuazione, nell'ambito dello studio delle macchine a vapore, di un altro fattore
assai meno tranquillizzante: se è vero che la quantità di energia complessiva di un
sistema termico (una macchina vapore, ad esempio) si mantiene costante, la parte
d'energia effettivamente utilizzabile per compiere un lavoro invece diminuisce, si
dissipa a causa dell'attrito e di altre forze che entrano in gioco nel sistema. Questo
Secondo Principio trasformava di fatto la termodinamica, fino a quel momento scienza
dell'Ordine e della stabilità, in una scienza del Disordine e dell'incertezza. In sostanza,
si affermava che uno scambio termico, o di qualunque altra forma di energia, è un
processo di continua trasformazione, ma anche che la direzione seguita dal processo
non è mai invertibile, non è mai possibile riportare tutte le grandezze e le variabili che
intervengono in un fenomeno al loro stato iniziale. Nei processi termodinamici niente
torna indietro: così come mescolando acqua caldissima e fredda si ottiene acqua tiepida,
e continuando a mescolare la temperatura si uniformerà sempre più, allo stesso modo la
crescita costante del disordine è il destino dei sistemi termici; la parola che individua
questa circostanza è di origine greca: entropia. Da un punto di vista filosofico, l'ingresso
di questa variabile disordinata nell'universo newtoniano, razionale e immutabile,
rappresentò il bisogno di un profondo mutamento di prospettiva, ma non
necessariamente un ritorno dell'irrazionalità: soprattutto significò in qualche modo
scrollarsi di dosso la convinzione che tutto nell'universo avvenga secondo un Piano
prestabilito, che l'equilibrio sia il risultato di un progetto stabile, che le leggi del Cosmo
siano interpretabili in un'ottica di semplicità. La termodinamica, con la sua attenzione
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per i processi irreversibili, con l'uso dei concetti di probabilità e di caos, fu anzi la prima
vera scienza della complessità.
Alla fine dell’800 le lacune interne alla meccanica classica messe in luce da
Carnot, Clausius, Boltzmann lasciavano intendere che l'immagine tipica dell'universo,
quella di un perfetto meccanismo prevedibile nel suo funzionamento, era ormai
improponibile. Spazio, Tempo, Materia, Causa ed Effetto, le parole chiave della scienza,
si misero all'improvviso a parlare un linguaggio nuovo, mentre quello di Newton, la
sua sintassi e il suo vocabolario, si mostravano ormai troppo semplici.
teoria chimica della pila, secondo la quale l'origine della forza elettromotrice della pila
va ricercata nell'azione chimica tra i metalli e il liquido interposto.
Sin dai primi esperimenti sugli effetti chimici della corrente elettrica, gli
scienziati si chiesero: perché in una soluzione di acqua acidulata, percorsa da corrente,
si sviluppa, sempre allo stesso capo del circuito, idrogeno e all'altro capo ossigeno?
Alcuni sostenevano che la corrente elettrica libera a un capo del circuito l'idrogeno di
una molecola d'acqua e il corrispondente ossigeno rimane sciolto nella rimanente acqua,
mentre all'altro capo la corrente libera l'ossigeno e nell'acqua si scioglie il
corrispondente idrogeno; poi idrogeno e ossigeno sciolti si mescolano e ricompongono
l'acqua. Altri che il fluido galvanico sottrae a un'estremità del circuito l'idrogeno di una
molecola d'acqua e trasporta l'ossigeno corrispondente all'altra estremità. Rimaneva,
però, nel vago il meccanismo di queste scissioni e ricomposizioni. Ma, proprio in quei
primi anni di secolo diventava sempre più consistente l'ipotesi atomico-molecolare con
la scoperta delle leggi degli equivalenti, delle proporzioni costanti, delle proporzioni
multiple.
l'aumentava. Fino al 1841 tutti i tentativi di spiegare queste e molte altre capricciose
esperienze andarono falliti; ma si rinsaldò sempre più la convinzione che il
riscaldamento dei conduttori fosse legato alla resistenza che essi opponevano al
passaggio della corrente, corrispondendo a maggior resistenza maggiore sviluppo di
calore. Davy, dagli accennati suoi esperimenti, andò più oltre, affermando che: “il
potere conduttore dei metalli varia con la temperatura ed è più basso quasi nello stesso
rapporto in cui la temperatura è più alta”. Una prima eccezione alla legge fu trovata
nel 1833 da Faraday, che, sperimentando sul solfuro d'argento, constatava che il suo
potere conduttore aumenta con la temperatura.
Sempre nello stesso anno 1820 Biot lesse due memorie in cui comunicava i
risultati di una ricerca sperimentale da lui condotta insieme con Felix Savart (1791-
1841). Biot si proponeva di scoprire la legge che regola l'intensità della forza
elettromagnetica alle diverse distanze, qualitativamente già enunciata da Oersted. Per
raggiungere lo scopo, Biot pensò di servirsi del metodo delle oscillazioni, già usato da
Coulomb. Montò perciò un dispositivo costituito da un grosso conduttore verticale,
perpendicolare all'asse di un ago magnetico di declinazione: lanciando nel conduttore
una corrente, l'ago si pone in oscillazione con un periodo che dipende dalla forza
elettromagnetica esercitata sui poli alle varie distanze della corrente dal centro dell'ago.
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Dalle loro misure Biot e Savart dedussero che la forza elettromagnetica è normale al
piano formato dal filo e dalla normale a esso condotta dal polo magnetico ed è
inversamente proporzionale alla distanza del polo dal filo. Nell'enunciato non si fa
cenno all'intensità della corrente, per la quale non c'era ancora possibilità tecnica di
confronto. Nella formulazione moderna, la legge diventa:
LEGGE DI BIOT-SAVART
Il modulo B dell'induzione magnetica generata da un filo rettilineo
molto lungo percorso da una corrente di intensità i in un punto a
distanza r dal filo è direttamente proporzionale all'intensità di
corrente e inversamente proporzionale alla distanza:
µ0 i
B=
2π r
L'esperimento di Arago, interpretato da molti fisici del tempo come effetto della
magnetizzazione di un filo percorso da corrente, fu intuito nella sua essenza da
Ampère, il quale subito predisse, e poco dopo sperimentalmente provò, che una sbarra
d'acciaio introdotta in un'elica percorsa da corrente si magnetizza permanentemente: si
era trovato così un nuovo metodo di magnetizzazione, enormemente più efficace e
pronto e comodo degli antichi. Ma soprattutto s'era dato l'avvio alla costruzione di un
semplice apparecchietto prezioso, l'elettrocalamita, costruita per la prima volta nel 1825
dall'americano William Sturgeon (I783-1850).
Alla prima memoria di Oersted ne seguì una seconda, che ebbe scarsa diffusione.
In essa Oersted dimostrava la reciprocità del fenomeno elettromagnetico da lui
scoperto. Egli sospendeva un piccolo elemento di pila a un filo, chiudeva il circuito e ne
otteneva la rotazione avvicinandovi un magnete; lo stesso esperimento fu eseguito da
Ampère a cui comunemente si attribuisce. E, più semplicemente, Davy dimostrò
l'azione di un magnete su una corrente mobile avvicinando il polo di una calamita a un
arco elettrico. Sturgeon, costruita la sua elettrocalamita, modificò l'esperimento di Davy
in cui l'arco ruota continuamente in campo magnetico.
L'avvio alla soluzione del problema sollevato da Oersted fu dato dal matematico
francese André-Marie Ampère (1775-1836) il 18 settembre 1820, qualche giorno dopo
essere venuto a conoscenza dell’esperimento di Oersted, annunciando all'Academie des
sciences di Parigi la scoperta sperimentale delle azioni ponderomotrici tra correnti, che
egli chiamò azioni elettrodinamiche, un insieme di “attrazioni e repulsioni
completamente diverse da quelle ordinarie”. Ampére, nel descrivere le osservazioni che
costituivano l'argomento principale della sua scoperta, sosteneva che questi nuovi
fenomeni erano fatti, dati da esperienze facilmente ripetibili. Ma, come spesso accade
nelle vicende scientifiche, i primi passi verso la soluzione di un problema dato sono
anche i primi passi verso la scoperta di problemi insospettati. Le indagini di Ampére
sfociarono infatti nella costruzione di una nuova teoria fisica, l'elettrodinamica, e, nello
stesso tempo, fecero apparire nuovi quesiti sulla natura dei fenomeni elettromagnetici e
sui rapporti tra elettrodinamica e teorie fisiche esistenti.
Subito dopo la scoperta di Oersted, si presentò come naturale ai fisici questa
interpretazione: al passaggio di una corrente, un conduttore diventa un magnete e Biot,
accettata questa concezione, interpretava le azioni elettrodinamiche come dovute
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all’azione mutua dei magnetini elementari suscitati dalla corrente in ogni conduttore; in
sostanza, ogni conduttore, percorso
da corrente, diventa un tubo
magnetico. Ma Ampère propose
un’altra interpretazione, che
costituisce la parte più geniale della
sua opera: non il conduttore
percorso da corrente diventa un
magnete, ma il magnete è un
complesso di correnti. Infatti, diceva Ampère, se supponiamo che in un magnete esista
un complesso di correnti circolari, giacenti in piani esattamente perpendicolari all’asse,
tutte nello stesso senso, una corrente parallela all’asse del magnete si viene a trovare ad
angolo con le predette correnti e ne sorgono azioni elettrodinamiche che tendono a
rendere parallele e nello stesso senso le correnti. Se la corrente rettilinea è fissa e il
magnete mobile, questo devierà; se il magnete è fisso e la corrente mobile, questa si
muoverà. È facile rendersi conto che l’ipotesi di Ampère, nel 1820, era eccezionalmente
innovatrice, onde si capisce il riserbo con cui fu accolta. Non v'erano dubbi che si
trattasse di una ipotesi e non di un fatto osservabile. Ma Ampere sosteneva che “dal
semplice accostamento dei fatti, non mi sembra possibile dubitare che non esistano
realmente tali correnti attorno all'asse dei magneti”. Se si accettava una simile
impostazione, come lo stesso Ampere faceva notare, “si giunge al risultato inatteso che
i fenomeni del magnete sono unicamente prodotti dall’elettricità”. In conclusione
Ampere scriveva che tutti i fenomeni collegati all'interazione tra correnti e magneti
rientravano completamente nelle leggi di attrazione e di repulsione tra correnti, a patto
che si accettasse l'ipotesi sulla natura elettrica del magnetismo.
Pertanto, se una corrente genera un campo magnetico e un campo magnetico
produce una forza su una corrente, allora due correnti devono necessariamente
interagire con una forza. Con i suoi esperimenti elettrodinamici Ampère dimostrò che:
i1 ⋅ i2
F =k⋅ ⋅L
d
La forza è attrattiva o repulsiva a seconda che i versi delle
correnti sono concordi o discordi.
PRINCIPIO DI EQUIVALENZA
Un circuito percorso da corrente si comporta come un magnete.
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Secondo Ampère, il merito della sua teoria è quello di aver ricondotto sotto una
causa unica, l'azione tra due elementi di corrente, tre ordini di fenomeni
apparentemente diversi: le azioni magnetostatiche, le elettromagnetiche e le
elettrodinamiche; ma soprattutto, con la sua formula sull’azione elettrodinamica delle
correnti, di avere bandito dalla fisica le forze rivolutive, riconducendo tutte le forze
della natura ad azioni tra particelle, lungo la retta che le congiunge. Ampere era
consapevole dello scetticismo che circondava l'ipotesi sul magnetismo e che derivava da
una lunga consuetudine a ragionare in termini di fluidi magnetici e da una altrettanto
abitudinaria tendenza a interpretare la legge di Coulomb come una prova
dell'impossibilità di interazioni fra fluidi elettrici e fluidi magnetici. D'altra parte
l'elettrodinamica era effettivamente in grado di ordinare un numero elevatissimo di
fenomeni entro uno schema matematico soddisfacente. L'ortodossia newtoniana di
Ampere aveva probabilmente la funzione di dirottare da quest’ultima le critiche che
potevano esserle rivolte in quanto essa non poteva fare a meno dell'ipotesi sulla natura
elettrica dei fenomeni magnetici.
Tutti i precedenti risultati sono raccolti nella memoria Teoria matematica dei
fenomeni elettrodinamici unicamente dedotta dall'esperienza (1825). Con questa grande
memoria, giudicata da Maxwell “perfetta nella forma e incensurabile nella precisione”,
Ampère rappezzava la concezione meccanicistica, fortemente scossa dall'esperimento di
Oersted. Ma proprio l'opera di Maxwell avrebbe fatto scorgere che si trattava di un
semplice rammendo. A ogni modo, con i lavori di Ampere del periodo 1820-25 si
aprivano per le scienze fisiche delle sorprendenti direttrici di sviluppo, in quanto quei
lavori mostravano il manifestarsi di una complessa fenomenologia elettromagnetica.
Georg Simon Ohm (1789-1854), ispirato dalla teoria analitica del calore di Fourier,
ebbe l’idea che il meccanismo del flusso di calore si potesse assimilare al flusso di
elettricità in un conduttore. E come nella teoria di Fourier il flusso di calore tra due
corpi o tra due punti dello stesso corpo si attribuisce alla loro differenza di temperatura,
così Ohm attribuisce alla differenza di forza elettroscopica tra due punti di un
conduttore la causa del flusso di elettricità dall'uno all'altro. Vale la pena aggiungere
come prova della lentezza della diffusione dei nuovi concetti, che Ohm definisce la
forza elettroscopica come la densità dell'elettricità nel punto considerato e fu solamente
nel 1850 che Kirchhoff, osservato che questo punto di vista era in contraddizione con i
principi dell'elettrostatica, interpretò la forza elettroscopica come la funzione potenziale
della quantità totale di elettricità libera. Guidato dall'analogia col flusso di calore, Ohm
iniziò i suoi studi sperimentali con la determinazione dei valori relativi delle
conducibilità dei diversi conduttori.
Negli esperimenti del tempo parecchie erano le cause d'errore (impurità dei
metalli, calibrazione dei fili, loro esatta misura ccc.), tra le quali era massima la
polarizzazione delle pile, cioè il fatto che, non conoscendosi ancora pile costanti, il
tempo necessario per le misure ne alterava la forza elettromotrice. Furono queste cause
d'errore a condurre Ohm a riassumere in una legge logaritmica i risultati sperimentali
da lui ottenuti nello studio della variazione dell'intensità di corrente col variare della
resistenza inserita tra due punti del circuito. Dopo la pubblicazione della prima
memoria, Ohm cominciò ad utilizzare la pila termoelettrica, recentemente introdotta da
Seebeck, e montò un dispositivo con tale pila e nel cui circuito esterno inseriva
successivamente otto fili di rame di eguale diametro e di varia lunghezza. Misurava
l'intensità di corrente con una specie di bilancia di torsione costituita da un ago
magnetico sospeso con un filo metallico appiattito: quando la corrente, parallela all'ago,
lo deviava, Ohm torceva il filo di sospensione sino a riportare l'ago nella posizione di
riposo e riteneva l'intensità di corrente proporzionale all'angolo di torsione del filo.
Ohm concluse che i risultati sperimentali: “possono essere rappresentati molto
soddisfacentemente dall'equazione X=a/b+x dove X indica l'intensità dell'effetto
magnetico del conduttore la cui lunghezza è x, a e b essendo costanti dipendenti
rispettivamente dalla forza eccitatrice e dalla resistenza delle rimanenti parti del
circuito”. Nel 1827 Ohm pubblicò il suo capolavoro Die galvanische Kette, mathematisch
bearbeitet. La teoria, ispirata, come abbiamo accennato, alla teoria analitica del calore di
Fourier, introduce i concetti e le definizioni di forza elettromotrice o forza
elettroscopica, di conducibilità elettrica, di caduta di forza elettroscopica o caduta di
potenziale, secondo la nostra terminologia, d'intensità di corrente. In termini moderni le
leggi di Ohm vengono così enunciate:
Ohm provò che la prima legge è valida anche per i conduttori liquidi e nel 1877
Edmund Hoppe (1854-1928) la estenderà a tutti i conduttori.
Già nel 1825 Marianini aveva dimostrato che nei circuiti derivati la corrente
elettrica si suddivide in tutti i conduttori, qualunque ne sia la natura, contro l’idea di
Volta, il quale aveva ritenuto che se un ramo derivato è metallico e gli altri liquidi tutta
la corrente sarebbe passata per il conduttore metallico. L'osservazione di Marianini fu
fatta propria da Claude Pouillet (1790-1868) che nel 1837, ancora ignorando la legge di
Ohm, dimostrò che la conducibilità del circuito equivalente a due circuiti derivati è
eguale alla somma delle conducibilità dei due circuiti. Con questo lavoro di Pouillet
s'inizia lo studio dei circuiti derivati, che Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887)
generalizza nel 1845 con suoi famosi principi:
∑ V = ∑R ⋅ I
Il più forte impulso alle misure elettriche, in particolare alle misure di resistenza,
venne dalle esigenze della tecnica, come l'introduzione del telegrafo. Nel 1840 Charles
Wheatstone (1802–1875) trovò il metodo di eseguire misure di resistenza indipendenti
dalla costanza della forza elettromotrice impiegata (metodo del ponte di Wheatstone).
Come abbiamo già visto, Volta aveva scoperto un fenomeno secondo il quale
mettendo a contatto due metalli diversi, per esempio rame e zinco, alla stessa
temperatura si stabilisce fra di essi una differenza di potenziale. Thomas Seebeck (1770-
1831), forse ignaro di tale esperimento, nel 1821 annunciava la scoperta del seguente
fenomeno noto come effetto Seebeck: se un'estremità di una sbarretta di bismuto,
saldata a entrambe le estremità con i capi di una spirale di rame, è riscaldata con una
lampada e l'altra estremità tenuta fredda, l'ago di declinazione entro la spirale ruota,
indicando il passaggio d'una corrente che nella saldatura non scaldata va dal rame al
bismuto.
Nel primo quarantennio dall'invenzione della pila non erano mancati i tentativi,
alcuni sfortunati e altri incompleti, per scoprire a quale legge obbedisse la produzione
di calore da parte della corrente elettrica. Gli insuccessi si possono spiegare con la scarsa
chiarezza dei concetti d'intensità di corrente e di resistenza elettrica e la conseguente
mancanza di ben definite unità di misura e di appropriati strumenti di misura.
L'ignoranza della legge di Ohm, poi, portava gli sperimentatori a inserire nel
circuito successivamente fili di resistenza diversa, credendo di variare così solo la
resistenza e non l'intensità della corrente. Nel 1841 Joule iniziò il lavoro sperimentale
sul calore prodotto dalla corrente. In tre successivi esperimenti in ciascuno dei quali
erano disposte in serie due resistenze immerse in due calorimetri eguali, Joule ottenne
che, per la stessa intensità di corrente, le quantità di calore prodotto erano proporzionali
alle rispettive resistenze dei conduttori. Questo primo risultato lo condusse a formulare
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LEGGE DI JOULE
Un conduttore ohmico di resistenza R, percorso per un tempo ∆t da una corrente di intensità
costante I, dissipa per effetto Joule un’energia elettrica pari a:
Q=RI2∆t
Ripetuti gli esperimenti con numerosi tipi di pila, Joule concluse che la legge
trovata per i metalli vale anche per la resistenza interna della pila, e con eguale acume e
accuratezza sperimentale, estese la legge agli elettroliti.
Le scoperte di Ampère, come quelle di altri studiosi di elettricità del suo tempo
quali Poisson, erano formulate in un linguaggio matematico perfetto che rappresentava
lo sviluppo finale della fisica newtoniana trapiantata in Francia. Anche se Newton
aveva espresso dubbi sul concetto di azione a distanza, la maggior parte della fisica
successiva (come pure quella di Newton) si basava su quell'idea. L'attribuire un ruolo
fondamentale al mezzo attraverso il quale le forze elettriche si propagano ha
rivoluzionato la scienza elettrica facendole compiere giganteschi progressi. Essi sono
dovuti in larga misura a Faraday e a Maxwell, che hanno portato lo studio
dell'elettricità classica al suo punto più alto.
Anche se non ci addentreremo nelle applicazioni pratiche, saremmo ciechi se non
rilevassimo come l'elettricità ha modificato il nostro sistema di vita e ha generato un
vasto campo di applicazioni tecniche. Per molte di queste - i motori elettrici, i generatori
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LEGGE DI FARADAY-NEUMANN
La f.e.m. indotta f che si genera, in media, in un circuito conduttore ∆Φ
f=−
durante un intervallo di tempo ∆t è: ∆t
dove ∆Φ è la variazione del flusso del campo magnetico concatenato con il circuito che si verifica nell'intervallo di
tempo considerato.
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LEGGE DI LENZ
Il verso nel quale la corrente indotta scorre in un circuito è tale da opporsi, tramite il flusso
del campo magnetico da essa generato, alla variazione di flusso che ha dato origine alla
corrente.
costituire una pesante ipoteca e che in certi casi occorre liberarsene coraggiosamente se
non si vuole arrestare il progresso scientifico.
Aveva appena ventiquattro anni, quando, nel dicembre 1855, Maxwell presentò
alla Cambridge Philosophical Society la sua prima memoria sulle teorie elettriche.
Aveva per titolo Sulle linee di forza di Faraday. Il giovane scienziato intuì molto bene
l’enorme importanza della nuova interpretazione, abbozzata da Faraday, dei fenomeni
elettrici e magnetici. Si rese cioè conto che essa costituiva una vera e propria svolta nel
modo di concepire tali fenomeni, comportando il totale abbandono dell’interpretazione,
di tipo newtoniano, fino a quel momento accolta dalla maggioranza dei fisici, che
voleva scorgervi un caso di azione a distanza. Pur riconoscendo la piena validità degli
esperimenti ideati da Faraday per dimostrare che nei fenomeni anzidetti è anche
interessato il mezzo interposto fra le cariche o fra i poli magnetici, Maxwell si rese pure
conto che il concetto di campo introdotto per spiegare teoricamente gli ingegnosi
esperimenti eseguiti era ingenuo e confuso. Faraday aveva sì tentato di descrivere il
campo elettrico e magnetico come un insieme di linee di forza che si estendono in varie
direzioni a partire dalle cariche o dai magneti, ma non si era poi preoccupato di fornire
una esatta definizione di queste linee. I suoi avversari avevano pertanto buone ragioni
di sostenere che esse non erano altro che un’arbitraria idealizzazione di ciò che accade
per la limatura di ferro quando viene sparsa sopra un foglio appoggiato su una
calamita. Per rispondere alle loro critiche, occorreva trovare il modo di dare a tali linee
un vero e proprio status scientifico, svincolandole dall’esempio prima citato, ed il modo
ingegnoso con il quale si poteva sperare di aggredire con successo la questione era
quello di prendere in esame le analogie fisiche. Dice Maxwell: “Per analogie fisiche
intendo quelle parziali similitudini tra le leggi di una scienza e quelle di un'altra che
rendono ciascuna di esse idonea a illustrare l'altra”. In altre parole, il suo proposito era
di dare una spiegazione meccanica completa dei fenomeni elettrici, cioè un modello
meccanico, in modo da ricondurre tutti i fenomeni fisici ai principi fondamentali della
dinamica. Consiste in questa concezione la famosa teoria dei modelli, che tanto
appassionò fisici e filosofi della seconda metà del XIX secolo: un fenomeno fisico è
“spiegato quando di esso si può dare un modello meccanico”. Poincarè dimostrerà più
tardi che, trovato un modello meccanico per la spiegazione di un fenomeno fisico, se ne
potrebbero trovare infiniti altri, onde, per questa via, lungi dall'avvicinarsi alla verità, la
scienza se ne allontanerebbe. I sostenitori della teoria dei modelli ribattevano che non
importa sapere se il modello corrisponda intrinsecamente al fenomeno: la scienza non
dà la verità, ma modelli di verità. La polemica sarà ripresa in altra forma nel XX secolo.
Nel saggio del 1855, Maxwell si sforza di raggiungere questo scopo sulla base di
una semplice ma chiara analogia fra l’insieme delle linee di forza di cui parlava Faraday
e un insieme di sottilissimi tubicini di sezione variabile, pieni di fluido incompressibile.
Assimilando la trasmissione dell’energia elettrica allo spostamento di questo fluido
(spostamento analizzabile sulla base delle leggi di una teoria avente indiscussa dignità
scientifica come l’idrodinamica), Maxwell potè giungere ad una prima formulazione
abbastanza precisa e coerente della teoria di Faraday. Non era ancora un risultato
definitivo, ma era certo un passo in avanti nella descrizione dei fenomeni. È interessante
notare che, in tale elaborazione, non viene introdotta nessuna ipotesi sulla natura
dell’elettricità; e anche questo poteva essere utile per non suscitare sospetti o diffidenze
presso i fisici-matematici della scuola classica. Maxwell, incamminatosi su questa via,
nel lavoro Sulle linee fisiche di forza (1861-62) viene delineato un vero e proprio modello
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grande significato di un risultato sperimentale scoperto pochi anni prima (1852) dai due
fisici Wilhelm Weber (1804-1891) e Rudolf Kohlrausch (1809-1858): la quasi identità tra il
valore della velocità della luce e quello del rapporto tra unità elettrostatica e unità
elettrodinamica delle cariche (rapporto avente le dimensioni di una velocità). I due
valori sono tanto vicini tra di loro che, nonostante le ipotesi arbitrarie di partenza,
Maxwell non sa trattenersi dal commentare: ”Noi difficilmente possiamo esimerci dal
dedurre che la luce consista in ondulazioni trasversali dello stesso mezzo che è causa
dei fenomeni elettrici e magnetici”.
Riflettendo su tale risultato, Maxwell giunse all’importantissima conclusione che
le onde elettromagnetiche e le onde luminose si propagano con la medesima velocità.
Non era ancora, a rigore, la formulazione esplicita della natura elettromagnetica della
luce, ma era un passo decisivo verso questa conclusione. Anche la costruzione del
modello meccanico dell’etere rientrava nel programma della fisica meccanicistica. Certo
è, comunque, che quello maxwelliano si rivelò particolarmente felice, riuscendo ad
eliminare parecchie difficoltà riscontrate da quasi tutti i fisici in tale strano fluido, e
quindi accrescendo l’accettabilità della sua esistenza. Con esso il programma
meccanicista dimostrava di essere ancora in grado di fornire agli scienziati utili
suggerimenti. Però anche questo modello, col trascorrere del tempo, perse gran parte
del proprio interesse nell’opera di Maxwell. Esso gli era servito per intuire la profonda
identità fra onde elettromagnetiche e onde luminose; una volta compiuta questa
funzione, poteva ormai venire abbandonato come i modelli precedenti. Già nell’opera
del 1865, Una teoria dinamica del campo elettromagnetico, il geniale scienziato si limita a
parlare dell’etere come di un mezzo elastico, estremamente sottile, che ha l’unico
compito di fungere da veicolo delle onde elettromagnetiche e luminose. La teoria è
detta dinamica, perché i fenomeni elettromagnetici sono attribuiti al moto del mezzo
elastico in cui sono immersi i corpi elettrici e magnetici. Ma non si fanno ipotesi sui
moti, non si specificano le tensioni del mezzo, insomma, non si danno modelli
meccanici. Anzi, è evitata persino la terminologia meccanica, e fa eccezione il vocabolo
energia, usato nella sua propria accezione meccanica; ma, mentre i predecessori
localizzavano l'energia nei corpi elettrici o magnetici, Maxwell ritiene il campo elettrico
sede dell'energia, la quale si presenta nella duplice forma di energia di moto (o cinetica)
o di tensione (ossia potenziale) del mezzo elastico che riempie il campo. Nel Trattato del
1873, tale “fluido immaginario” sarà identificato con il mezzo portante delle onde
elettromagnetiche, senza attribuirgli alcuna altra proprietà fisica se non quella, appunto,
di trasportare tali onde. È chiaro che a Maxwell non interessa più costruire
un’immagine visualizzabile dell’etere, ma solo di formulare con esattezza le equazioni
differenziali che regolano i fenomeni in esso verificantisi. La trattazione matematica ha
finito per eclissare ogni spiegazione modellistica.
I fisici conobbero la concezione maxwelliana del campo elettromagnetico, e in
particolare la teoria elettromagnetica della luce, attraverso l’opera A Treatise on
Electricity and Magnetism (1873). Verso il 1860 l'elettrodinamica, dopo i lavori di
Neumann, Weber e Helmholtz, sembrava una scienza ormai definitivamente sistemata,
dai confini netti. Il Trattato di Maxwell turbò questa prospettiva di sereno lavoro,
facendo intravedere ben più vasti campi di dominio per l'elettrodinamica. Come
abbiamo più volte affermato, il principale scopo propostosi da Maxwell nelle sue
ricerche sull’elettromagnetismo fu quello di tradurre in forma matematica precisa le
idee di Faraday, dimostrando con ciò ai fisici-matematici seguaci della grande
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tradizione newtoniana che anche la fisica del continuo poteva venire elevata al rango di
autentica scienza, altrettanto bene quanto la fisica del discontinuo. Talvolta egli sembra
sostenere che il valore dell’una equivale a quello dell’altra, malgrado l’opposizione
radicale dei loro metodi e dei loro punti di partenza: “Quando ebbi vestita di forma
matematica quelle che mi parevano le idee di Faraday, vidi che in generale le
conclusioni ottenute coi due metodi si accordavano, sicché dello stesso fenomeno si
poteva dar ragione nei due modi arrivando a stabilire le stesse leggi, ma i metodi di
Faraday somigliavano a quelli dei quali partendo dal tutto si procede all'analisi delle
parti, mentre i soliti metodi matematici cominciano dalle parti e per sintesi
costruiscono il tutto”. In realtà, se in taluni casi i due metodi conducono effettivamente
alle medesime leggi, è pur vero che in molti altri il nuovo metodo porta a conclusioni
che sfuggivano completamente al metodo precedente. Basti citare a titolo di esempio la
polarizzazione elettrica dei dielettrici che resta inspiegabile dal punto di vista classico,
mentre assume un ruolo fondamentale nella concezione maxwelliana; essa permette di
definire con esattezza le cosiddette correnti di spostamento, facendo appello alle quali
Maxwell riesce ad eliminare il grave divario fin allora esistente nella trattazione dei
circuiti chiusi e di quelli aperti.
Maxwell riassume tutta la costruzione teorica in un gruppo di quattro equazioni,
Le famose equazioni di Maxwell, che mettono in relazione, in perfetta simmetria fra loro, il
campo elettrico e il campo magnetico:
EQUAZIONI DI MAXWELL
"! !
! "! ! "!
ΣQ dΦ(B) dΦ(E )
Φ(E) = Φ(B) = 0 C(E) = − C(B) = µ0 i + ε0
ε0 dt dt
Maxwell invece basta conoscere il campo in un dato istante per poter dedurre dalle
equazioni omonime in qual modo l’intero campo varierà nello spazio e nel tempo. Le
equazioni di Maxwell permettono di seguire le vicende del campo, così come le
equazioni della meccanica consentono di seguire le vicende di particelle materiali. Ma
fra le leggi della meccanica e quelle di Maxwell sussiste una ulteriore differenza
essenziale. Un confronto fra le leggi di gravitazione di Newton e le leggi del campo di
Maxwell porrà in rilievo alcuni dei tratti caratteristici di queste ultime e delle
rispettive equazioni. Mediante le leggi di Newton possiamo dedurre il moto della Terra,
dalla forza agente fra Sole e Terra. Dette leggi collegano il moto della nostra Terra con
il lontano Sole. Benchè così distanti l’una dall’altro, Terra e Sole prendono ambedue
parte allo spettacolo delle forze agenti, in qualità di attori. Nella teoria di Maxwell non
vi sono attori materiali. Le equazioni matematiche di questa teoria esprimono le leggi
governanti il campo elettromagnetico. Non collegano, come nelle leggi di Newton, due
eventi separati da una grandissima distanza; non collegano ciò che succede qui con le
condizioni imperanti colà. Il campo qui ed ora dipende dal campo nell’immediata
vicinanza, e nell’istante appena trascorso. Le equazioni del campo consentono di
predire ciò che avverrà un poco più lunghi nello spazio ed un poco più tardi nel tempo,
se sappiamo ciò che avviene qui ed ora. Esse ci mettono in grado di estendere a
piccolissimi passi la nostra conoscenza del campo. Sommando tutti questi piccoli passi,
possiamo dedurre ciò che succede qui, da ciò che avviene a grande distanza. Nella
teoria di Newton al contrario, non si hanno che lunghi passi fra eventi distanti. Gli
esperimenti di Oersted e di Faraday possono dedursi dalla teoria del campo
elettromagnetico, ma soltanto sommando tanti piccoli passi, ognuno dei quali è
governato dalle equazioni di Maxwell”.
Nell'ambito della nuova teoria, Maxwell sottolineava la centralità della nozione
di campo, senza però eliminare quella di etere. Ma come si è ampiamente discusso,
Maxwell progressivamente abbandona ogni riferimento a modelli meccanici dell'etere
in favore di un uso sempre più accentuato dell'astrazione matematica, autonoma dai
dettagli dei modelli eterei e più vicina a quelli che saranno gli esiti novecenteschi della
sua teoria. In definitiva, l’immagine del mondo di Maxwell non è più quella semplice
descritta da Newton, fatta da particelle che si muovono nello spazio al passar del
tempo. Con l’introduzione di
questa nuova entità il “campo”, il
mondo è sempre descritto in
maniera elegante da equazioni,
ma è un po’ più complicato.
Il passo finale da compiere per Maxwell era quello di arrivare a considerare la
luce come un’onda elettromagnetica. Dice Maxwell nel suo Trattato: “[…] si è tentato di
spiegare i fenomeni elettromagnetici con un'azione meccanica trasmessa da un corpo a
un altro con l'intermediario di un mezzo che riempirebbe lo spazio compreso tra i
corpi. La teoria ondulatoria della luce suppone anche l'esistenza di un mezzo. Noi
dobbiamo ora mostrare che il mezzo elettromagnetico ha proprietà identiche a quelle
del mezzo dove si propaga la luce […]. Possiamo ottenere il valore numerico di certe
proprietà del mezzo, per esempio della velocità con la quale si propaga la
perturbazione, velocità che possiamo calcolare da esperienze elettromagnetiche e che
possiamo osservare direttamente nel caso della luce. Se si trova che la velocità di
propagazione delle perturbazioni elettromagnetiche è la stessa della velocità della luce,
e ciò non solamente nell'aria, ma in tutti gli altri mezzi trasparenti, noi abbiamo forti
ragioni per credere che la luce è un fenomeno elettromagnetico, e, con la combinazione
di prove ottiche ed elettriche, ci convinceremo della realtà di questo mezzo, proprio
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elettrici e magnetici, Maxwell si limitava a dire che il Trattato dovrà analizzare con la
massima cura i rapporti effettivamente esistenti fra il tipo di matematica usato nella
teorizzazione di questi fenomeni e quello usato in altri settori della fisica da Newton e
dai newtoniani. Ciò che egli propone è dunque nulla più che un esatto confronto fra i
due; ma già sappiamo che da questo confronto scaturirà proprio la loro radicale
differenza. In effetti le equazioni di Maxwell, che sono equazioni differenziali alle
derivate parziali, posseggono una struttura nettamente diversa da quella delle
equazioni più caratteristiche della meccanica newtoniana; ed è per l’appunto la loro
nuova struttura ciò che ci permette di applicarle con successo allo studio delle vicende
del campo anziché allo studio delle vicende di particelle materiali.
Ora sorge spontanea la domanda: quale è la teoria generale in cui Maxwell
pensava di inquadrare le proprie equazioni? La risposta più interessante è stata fornita
da Hertz, lo scopritore delle onde elettromagnetiche e uno dei massimi conoscitori delle
opere maxwelliane: “La teoria di Maxwell è il sistema delle equazioni di Maxwell”.
Prendere le equazioni di Maxwell come ipotesi fondamentali, come postulati sui quali
poggiare l'intero edificio delle teorie elettriche. In sostanza, Maxwell non riteneva di
dover completare la matematizzazione dei fenomeni con l’aggiunta di una teoria in
quanto matematizzazione e teorizzazione erano per lui coincidenti. Ci sembra
opportuno sottolineare l’importanza di questa tesi. Quando per spiegare un fenomeno
si pensava di doverlo inquadrare in una concezione filosofica della natura, o per lo
meno di doverne costruire un modello di immediata intuibilità, è ben comprensibile che
teorizzazione e matematizzazione dovessero costituire due momenti diversi della
ricerca scientifica: alla teorizzazione spettava il compito più elevato di farci
effettivamente capire i fenomeni fisici, alla matematizzazione era invece riservato un
compito più modesto, di fornirci i mezzi per calcolare il loro decorso e di guidare in tal
modo la scienza applicata. Ma una volta messa veramente da parte l’esigenza di una
conoscenza metafisica della natura e ridotti i modelli a semplici ausilii della ricerca (da
abbandonarsi a ricerca compiuta), che senso potrebbe avere la pretesa di cercare
qualcos’altro, oltre i dati osservativi e la loro traduzione in formule? In questo modo il
sistema delle equazioni di Maxwell operò, entro lo sviluppo della scienza ottocentesca,
come un potente stimolo a fare della fisica-matematica una disciplina autonoma,
sganciandola da ogni vecchio impegno filosofico e avviandola alla ricerca di formule
generalissime capaci di sintetizzare in un unico sistema i più ampi settori fenomenici.
Fu proprio questa nuova impostazione della fisica-matematica a permetterle un più
immediato contatto con la fisica sperimentale elevando la matematica al rango di
strumento unico, necessario e sufficiente, per l’elaborazione teorica dei dati osservativi.
Alla morte di Maxwell i sostenitori della sua teoria erano pochi giovani entusiasti
di lingua inglese, legati al maestro da affetto e rispetto. Lo stesso Maxwell aveva
riconosciuto questa situazione nel penultimo paragrafo del suo Trattato: “Nelle menti
di uomini eminenti sembra rimanga ancora qualche prevenzione o obiezione a priori
contro l'ipotesi di un mezzo nel quale prenderebbero origine i fenomeni di radiazione
luminosa o calorifica e le azioni elettriche a distanza. È vero che in una certa epoca
storica coloro che si abbandonavano a speculazioni sulle cause dei fenomeni fisici
avevano l'abitudine di spiegare ogni specie di azione a distanza per mezzo d'un fluido
etereo speciale, che aveva la funzione o la proprietà di produrre azioni. Essi
riempivano lo spazio di tre o quattro specie di etere sovrapposti, le cui proprietà erano
immaginate per salvare le apparenze; sicché i ricercatori più ragionevoli preferivano
non solo la legge di Newton sull'azione a distanza, ma addirittura il dogma di Cotes che
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l'azione a distanza è una proprietà primitiva della materia, onde nessuna spiegazione
potrebbe essere più intelligibile del fatto. Perciò la teoria ondulatoria della luce ha
incontrato una viva opposizione, motivata non tanto dalla sua importanza a spiegare i
fenomeni quanto dall'ipotesi stessa d'un mezzo in cui si propagherebbe la luce”.
E chiude il trattato con le parole: “In conclusione, tutte queste teorie conducono a
concepire un mezzo nel quale si produce la propagazione; se ammettiamo l'ipotesi di
questo mezzo, credo che esso debba occupare un posto dominante delle future nostre
ricerche e che noi dobbiamo sforzarci di combinare nel nostro spirito e di
rappresentarci tutti i particolari della sua azione: è lo scopo che mi sono costantemente
proposto lungo tutto questo Trattato”.
Ma appunto la nuova concezione fisica di Faraday e di Maxwell stentava a farsi
strada, anche, ma non unicamente, come osserva Maxwell, per il timore di cadere nel
settecentesco vizio dei fluidi. Il problema fisico era: esistono le onde elettromagnetiche
previste da Maxwell? Si possono produrre? Si possono rivelare? Hanno le proprietà loro
attribuite dalla teoria? Era passato più di un decennio dalla prima edizione del Trattato
e ancora nessun fisico aveva osato porsi le domande.
Cominciò nel 1884 il giovane fisico Heinrich Hertz (1857-1894) a intuire che
solamente la risposta a quelle domande avrebbe potuto consentire di formulare un
giudizio non preconcetto sull'intera teoria elettromagnetica di Maxwell, di cui la teoria
della luce costituiva il punto centrale. Hertz fece acutamente una prima fondamentale
osservazione: le equazioni di Maxwell mostrano che le onde elettromagnetiche possono
sorgere da oscillazioni elettriche. Ora, intorno al 1870 era ben noto che la scarica di un
condensatore poteva essere oscillatoria e Kirchhoff nel 1864 ne aveva data una teoria
completa, mentre Helmholtz, nel 1869, aveva dimostrato che si possono ottenere
oscillazioni elettriche anche in una spirale di induzione, i cui capi fossero collegati alle
armature di un condensatore. Hertz adoperò dapprima le bobine del suo maestro
Helmholtz, ma poi si orientò verso la scarica in aria di un condensatore. Dovette
superare molte difficoltà, prima di ottenere onde adatte allo scopo. Le difficoltà
consistevano essenzialmente nel fatto che le frequenze misurate erano dell'ordine di
centinaia di migliaia per secondo; se la velocità delle onde era veramente quella della
luce, un semplice calcolo dimostra che le lunghezze d'onda risultano dell'ordine di
chilometri, troppo lunghe per essere rivelate, anche tenuto conto che l'energia irradiata
si affievolisce col quadrato della distanza dalla sorgente. Se si voleva avere la possibilità
di rendere percepibili le onde, occorreva produrre scariche di frequenza molto più
elevata di quelle che i fisici erano allora in grado di ottenere. Hertz si dedicò quindi per
due anni allo studio delle scariche oscillatorie e ottenne alla fine un completo successo,
ideando un oscillatore costituito da un condensatore a piatti paralleli o da due sfere
collegate con un'asta metallica interrotta nella parte mediana; gli estremi affacciati
dell'interruzione terminano con sferettine distanti tra loro alcuni millimetri. I calcoli
mostrarono che le onde elettromagnetiche prodotte avevano una velocità dello stesso
ordine di grandezza della velocità della luce, come prevedeva la teoria di Maxwell. I
primi risultati sperimentali furono pubblicati da Hertz nel 1887 e l’anno successivo, con
l'impiego di specchi parabolici cilindrici, dimostrò la riflessione, la rifrazione e la
polarizzazione delle onde prodotte. Dimostrò inoltre che vettore elettrico e vettore
magnetico sono tra loro perpendicolari, conformemente alla teoria maxwelliana.
Molti sperimentatori imboccarono subito la via aperta da Hertz e furono proposti
nuovi dispositivi per la produzione e la rivelazione delle onde. Nei primi anni
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successivi alle scoperte di Hertz gli sforzi degli sperimentatori s’erano concentrati
specialmente sui rivelatori e poca attenzione era stata rivolta agli oscillatori, sicché poco
si era aggiunto all’opera di Hertz. Gli scienziati continuavano a sperimentare con la
stessa lunghezza d’onda (circa 66 cm) usata da Hertz, onde i fenomeni di diffrazione
mascheravano ogni altro fenomeno. Un grande passo fu compiuto da Augusto Righi
(1850-1920), che con il suo oscillatore ottenne onde di pochi centimetri e riuscì così a
riprodurre tutti i fenomeni ottici, in particolare la doppia rifrazione delle onde
elettromagnetiche.
Nel 1894 Guglielmo Marconi (1874-1937; Premio Nobel) iniziò una serie di
sperimentazioni e nel 1895 il giovane scienziato autodidatta ebbe un’idea geniale e
fondamentale: munire l'oscillatore di un'antenna, costituita in un primo tempo da una
lastra metallica sospesa per aria a un palo di legno, collegata elettricamente a una sfera
dell'oscillatore di Hertz, mentre l'altra sfera era posta a terra. Nel luglio del 1896
cominciarono a Londra gli esperimenti di Marconi sulla radiotelegrafia, le cui rapide
evoluzioni e i mirabili risultati hanno inciso e incidono profondamente sulle condizioni
di vita e sui destini dell'uomo.
Ma ancora più importanti furono gli sviluppi teorici della teoria maxwelliana. La
fisica dei campi venne inizialmente accolta soprattutto come linguaggio, come
strumento atto ad agevolare la comprensione dei fenomeni dal punto di vista
meccanico. Non deve dunque stupirci se tale linguaggio fu ben presto largamente
applicato anche alla teoria newtoniana della gravitazione, onde si cominciò a parlare di
capo gravitazionale oltrechè di campi elettrici e magnetici. Il più delle volte l’uso di
questo termine termine veniva utilizzato senza rendersi conto delle profonde
innovazioni categoriali implicate da tale nozione, come la sostituzione di una fisica del
continuo alla vecchia fisica del discontinuo. Sarà merito di Einstein non fermarsi
all’aspetto tecnico della nuova teoria, cioè limitarsi a cercarne formulazioni
matematiche via via più rigorose e più generali. In realtà egli seppe penetrare ad un
tempo sia la grande portata filosofica, come dimostrano le citazioni in precedenza
riportate, sia la straordinaria fecondità per la descrizione fisica del mondo (basti
ricordare la sua famosa dichiarazione che senza la nozione di campo “sarebbe
impossibile formulare la teoria della relatività generale”). Vale la pena ricordare già
adesso che, approfondendo il concetto di campo gravitazionale in stretta analogia con
quello di campo elettromagnetico, Einstein giungerà a sostenere (nel 1918) che il campo
gravitazionale si propaga in modo pressochè identico a quello delle onde
elettromagnetiche (onde il termine di onde gravitazionali) e quindi con una velocità
finita. Va notato che questa tesi costituisce in un certo senso il naturale sviluppo della
polemica di Maxwell contro l’azione a distanza; in essa, infatti, il concetto di azione a
distanza (azione istantanea) viene respinto a favore dell’azione per contiguità
(propagazione che avviene nel tempo) non solo nella trattazione dei fenomeni
elettromagnetici ma anche per quelli gravitazionali. Anche il concetto di etere ci porta
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alle soglie della teoria della relatività. Maxwell non abbandonò mai completamente la
nozione tradizionale di etere, ma dopo averne costruito un complicato modello
meccanico, finì per lasciar cadere anche questa ingegnosa visualizzazione del singolare
fluido, da lui stesso qualificato come immaginario, per interessarsi esclusivamente della
traduzione delle sue proprietà in termini matematici. Pur così volatilizzato, l’etere
continuò, in ogni modo, a venir concepito, da Maxwell e dai suoi immediati
continuatori, come qualcosa di reale, come il supporto, non meglio definito, dei campi
elettromagnetici, pensati appunto come “stati” dell’etere. Proprio la trattazione
matematica della teoria dei campi, mentre per un lato favoriva questa volatilizzazione
del concetto di etere, per un altro lato sembrava invece destinata a dargli nuova dignità
scientifica. Si dimostra infatti che le equazioni di Maxwell, diversamente da quelle della
meccanica classica, non restano invarianti se le riferiamo a due differenti sistemi
inerziali, ossia non obbediscono al principio di relatività galileiana. Se ne ricava che la
validità stessa delle equazioni di Maxwell sembra provarci l’esistenza di un sistema di
riferimento privilegiato o sistema inerziale assoluto; di qui l’idea che fosse appunto
l’etere a costituire tale sistema. In altre parole, le equazioni di Maxwell risulterebbero
valide se riferite proprio all’etere, concepito come immobile, mentre cesserebbero di
esserlo se riferite a un sistema in movimento rispetto all’etere. L’importanza di questa
conclusione è evidente: essa suggeriva ai fisici della generazione immediatamente
successiva a Maxwell di cercare nei fenomeni elettromagnetici, e in particolare in quelli
luminosi, una nuova via per dare un significato concreto, scientificamente attendibile, ai
vecchi termini newtoniani di “quiete assoluta” e di “moto assoluto”. La possibilità di
verificare sperimentalmente questa congettura, misurando la velocità della luce rispetto
a quella della Terra, fu avanzata dallo stesso Maxwell. Fu proprio tale suggerimento a
spingere Michelson e Morley a compiere il famoso esperimento, che analizzeremo nel
capitolo sulla relatività, che fallì con grande delusione di tutto il mondo scientifico (sarà
il genio di Einstein, con la sua teoria della relatività, ad abbandonare l’idea dell’etere e a
dare una nuova visione dei fenomeni elettrodinamici). E sarà proprio questo fallimento
a segnare il punto di rottura fra la meccanica classica e la meccanica relativistica.
Eppure, nonostante i profondi legami fra la teoria maxwelliana dei campi e la
teoria einsteiniana della relatività, la teoria di Maxwell non può venire considerata
come una teoria veramente moderna. Se è vero, infatti, che costituì una delle basi
essenziali per i successivi lavori di Einstein, è pur vero che questi potè giungere alla sua
concezione tanto innovatrice dello spazio e del tempo solo con la negazione di alcuni
punti basilari della teoria maxwelliana (in primo luogo col rifiuto completo dei concetti
di quiete e moto assoluto). Né va dimenticato che anche sotto altri aspetti la teoria di
Maxwell entrò presto in crisi, infatti la fine del secolo vide un rapido ritorno alla fisica
del discontinuo, sotto forma di fisica dei quanti. Basti ricordare che la teoria dei campi
dovette trasformarsi profondamente per adeguarsi alla nuova importantissima
concezione; ne nacque la cosiddetta teoria quantistica dei campi (di cui tutti riconoscono
la straordinaria fecondità per le più raffinate ricerche atomiche e subatomiche),
radicalmente diversa dalla teoria classica di Maxwell.
La scoperta della radiazione elettromagnetica non fu solo di enorme interesse per
realizzare l’unificazione dell’ottica e dell’elettrodinamica; essa comportò anche l’unione
con la termodinamica, riempiendo così il vuoto lasciato nella teoria dell’energia attorno
la metà del 1800. Il lavoro sperimentale era cominciato con l’osservazione di Boyle che i
colori chiari assorbono meno calore di quelli scuri. La scoperta di “calore scuro” (la
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radiazione infrarossa) da parte Herschel non solo rafforzò la separazione qualitativa tra
radiazioni termiche e radiazioni luminose, ma suggerì un espediente, il “corpo nero”,
che è il perfetto corpo assorbente e radiante. Tuttavia, durante la prima metà
dell’ottocento, mentre prevaleva la teoria del calorico, la radiazione termica venne
interpretata come una semplice dispersione del fluido calorico nel mezzo circostante. I
principi termodinamici diedero nuovo vigore allo studio della radiazione poiché si
poteva ora dedurre, anche con l’aiuto del principio di conservazione dell’energia, che la
radiazione è esattamente l’inverso dell’assorbimento.
Nel 1879, Josef Stefan (1835-1893) propose una relazione più semplice, della
quale, cinque anni dopo, Boltzmann ne fornì una giustificazione teorica basata sulle
equazioni di Maxwell, e cioè che una radiazione deve esercitare una pressione sulla
superficie su cui cade:
LEGGE DI STEFAN-BOLTZMANN
Il calore perso è proporzionale alla quarta potenza della temperatura assoluta:
∆Q
= σST 4
∆t
LEGGE DI WIEN
la temperatura alla quale un corpo è sottoposto e la lunghezza d’onda alla quale corrisponde
l’emissività massima sono inversamente proporzionali:
λ max ⋅ T = cos t.