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Riassunto - Libro "Antropologia culturale. Un approccio per


problemi" - Richard H. Robbins

Antropologia culturale (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

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RIASSUNTO DEL LIBRO


ANTROPOLOGIA CULTURALE. UN APPROCCIO
PER PROBLEMI
Di Richard H. Robbins

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CAPITOLO 1
CULTURA E SIGNIFICATO
1.1 Perché gli esseri umani pensano e si comportano in modo diverso?
L’antropologia culturale studia il modo in cui determinati comportamenti si diffondono e
vengono messi in pratica in alcune società, partendo dal presupposto che non è possibile
dar nulla per scontato sulle proprie e sulle altrui credenze e pratiche. Secondo la “visione
antropologica”, le persone che fanno parte della stessa società condividono lo stesso modo
di vedere il mondo ovvero la stessa cultura (analogamente, gli individui hanno visioni del
mondo differenti se le loro culture sono diverse).
Un caso esemplificativo di tale “diversità di vedute” è quello dei diversi modi di concepire
la morte presso varie società: per alcuni popoli essa è il semplice passaggio di una persona
in un altro mondo, per altri è l’evento finale della vita, per altri ancora è una delle fasi di un
ciclo che si ripete e che comprende nascita, morte e rinascita; in alcune società i morti
sono temuti, in altre sono venerati; allo stesso modo, in alcune società la morte è
considerata un evento naturale mentre in altre essa è frutto di un atto malvagio, di una
stregoneria; in alcuni gruppi umani sono previste grandi dimostrazioni di dolore, in altri si
preferisce nascondere la sofferenza.
Un ulteriore esempio fa riferimento alle preferenze alimentari: ogni società seleziona in
base a diversi criteri ciò che si può e ciò che non si può mangiare, e tale selezione è
indipendente dall’effettiva commestibilità dei cibi.
La specie umana (homo sapiens) è l’unica diffusa su tutta la Terra ed è anche l’unica ad
essere intervenuta sui vari ambienti conferendo significati alle cose, agli avvenimenti, alle
azioni e ai popoli: ad ogni evento che scandisce l’esistenza degli esseri umani sono stati
attribuiti dei significati. È a questo processo che gli antropologi fanno riferimento
utilizzando il termine «cultura» e gli esseri umani sono considerati “animali culturali” non
solo in virtù dei significati che attribuiscono ma anche poiché agiscono come se tali
significati fossero reali. Secondo Clifford Geertz, gli esseri umani sentono la necessità di
dare un senso alla propria esperienza in quanto ciò permette loro di comprenderla e di
dare un ordine all’universo che altrimenti si presenterebbe come un “caos”. Gli esseri
umani, secondo Geertz, sono “animali incompleti o non finiti” che si completano
attraverso particolari forme di cultura. Quando le persone danno all’esperienza il
medesimo significato, allora esse condividono e manifestano la stessa cultura. Il compito
dell’antropologia è proprio quello di capire per quale motivo le diverse società hanno
culture diverse, in altre parole, la ragione per cui un gruppo attribuisce ad un’esperienza
dei significati mentre un altro gruppo ne attribuisce altri.

1.2 Quali criteri seguiamo per giudicare credenze e pratiche altrui?


Studiando le diverse credenze e pratiche umane, se ne incontrano spesso alcune che
potrebbero apparire strane o scioccanti. Da tale incontro potrebbe scaturire il rifiuto per
tali credenze e pratiche, ovvero un pregiudizio detto etnocentrico in quanto si basa sulla
convinzione che le proprie credenze e pratiche siano giuste e adeguate mentre quelle degli
altri popoli siano sbagliate, inadeguate. Ogni gruppo ha interiorizzato in modo talmente
profondo i propri modi di agire da finire per considerarli naturali, ovvi, quando invece
questi sono prodotti culturali e in quanto tali potrebbero essere diversi presso altri gruppi.
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Gli antropologi culturali si sono opposti all’etnocentrismo, cercando di dimostrare che ogni
pratica e credenza è funzionale e logica all’interno di una determinata cultura. Il
pregiudizio etnocentrico è intellettualmente intollerabile, in quanto pensando di essere nel
giusto (e che di conseguenza gli altri stiano sbagliando) si intraprende un percorso
intellettualmente senza via d’uscita. In opposizione all’etnocentrismo, si erge la
prospettiva relativistica: secondo il relativismo culturale, nessuna credenza o pratica può
essere giudicata strana, sbagliata, inadeguata solo perché diversa dalla propria; pratiche e
credenze possono essere comprese solo all’interno della cultura in cui si collocano.
Tuttavia, anche il relativismo culturale porta a dei problemi: l’impossibilità di giudicare a
prescindere le credenze e le pratiche altrui, anche quando queste violano i diritti umani
fondamentali (come ad esempio il cannibalismo), è alla base di un pregiudizio relativistico
che non è accettabile dal punto di vista morale ed etico.
Durante l’attività di ricerca gli antropologi devono affrontare un ulteriore dilemma morale,
ovvero devono scegliere se mantenere una «distanza etica» dall’oggetto di studio o farsi
coinvolgere attivamente giudicando credenze e pratiche analizzate. A tal proposito, i
diversi studiosi hanno assunto diverse posizioni. Secondo Nancy Sheper-Hughes,
l’antropologia deve occuparsi dei comportamenti che ogni persona assume nei confronti
degli altri; se vuole essere utile, l’antropologia deve essere “criticamente fondata”; il
compito degli antropologi è quello di fornire una testimonianza e una documentazione
sulle violazioni dei diritti umani e delle sofferenze dei popoli poveri e oppressi. A tal
riguardo, gli attivisti dei diritti umani sollevano la seguente questione: se il rifiuto
dell’etnocentrismo impone di tollerare le credenze e le pratiche altrui, come è possibile
criticarle quando queste violano i diritti umani fondamentali? Se si abbraccia la prospettiva
relativistica, allora le discussioni sui diritti umani perdono ogni significato e qualunque
comportamento diviene giustificabile. Elizabeth Zechenter ammette che accettando o
condannando alcuni riti si finisce con l’imporre i pregiudizi culturali di alcuni popoli su altri,
tuttavia non è possibile esprimere alcun tipo di giudizio senza essere etnocentrici. Ogni
cultura, organizzando l’universo in un certo modo, rende difficile se non impossibile a chi vi
appartiene la comprensione dei punti di vista differenti: la cultura ci permette di
comprendere i significati in essa attribuiti a oggetti, persone, comportamenti, emozioni,
eventi, ma allo stesso tempo ci impedisce di comprendere significati alternativi.

1.3 È possibile vedere il mondo attraverso lo sguardo altrui?


L’antropologo, per poter comprendere tali significati alternativi, dovrebbe liberarsi dei
propri preconcetti su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Gli antropologi per poter
studiare le diverse società si servono di diversi metodi: indagini, documentazione scritta,
racconti, questionari, ma soprattutto il metodo etnografico che prevede l’immersione dei
ricercatori nella vita del gruppo che si vuole studiare. Tale metodo è strettamente
connesso alla tecnica dell’osservazione partecipante ovvero la partecipazione dei
ricercatori alla vita del gruppo oggetto di studio. Obiettivo dell’antropologo è quello di
spiegare perché le persone vedono il mondo in un certo modo; per raggiungere questo
obiettivo egli deve mettere da parte il proprio modo di vedere le cose e cercare di
assumere visioni diverse. L’antropologo italiano Ernesto De Martino ha proposto il metodo
dell’etnocentrismo critico. Egli si opponeva tanto all’etnocentrismo dogmatico, legato al
razzismo e al pregiudizio sociale, quanto al relativismo culturale, secondo cui le diverse
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culture non possono essere giudicate “dall'esterno”: tale posizione non consente alcun
tipo di intervento pratico-politico sui portatori delle altre culture. Egli ha così abbracciato la
posizione dell’etnocentrismo critico, basata sullo sforzo di allargare la propria coscienza
culturale di fronte alle altre culture, prendendo consapevolezza dei limiti della propria
storia culturale, sociale, politica. Egli sosteneva infatti che di fronte all’impossibilità di
uscire dalla propria tradizione culturale non resta che considerarla in modo critico ovvero
ricordando che essa non è che una delle tradizioni possibili e che pertanto non può
rappresentare o riassumere tutte le storie umane. Bisogna dunque non solo valutare gli
altri in base al proprio metro di giudizio, ma cercare di assumere il modo di pensare ed
essere degli altri per giudicare se stessi.

1.4 In che modo possiamo interpretare e descrivere i significati che gli altri attribuiscono
all’esperienza? La cultura può essere considerata come un testo formato da alcuni simboli
dotati di significato (parole, gesti, oggetti, etc). Per capire un’altra cultura è necessario
decifrare i simboli di cui è costituita, ovvero comprendere i significati che tali simboli
assumono e che vengono condivisi dai membri di una società. L’uomo ha infatti imparato a
comprendere, a interpretare i simboli del proprio testo culturale e in modo analogo
dovrebbe applicare le abilità che l’hanno reso capace di capire la propria cultura per
comprendere quelle degli altri.
Proviamo a spiegare in che modo un antropologo può interpretare un testo culturale.
Nell'isola di Bali è possibile assistere al combattimento tra galli: due galli con speroni di
metallo affilati legati alle zampe si scontrano in un'arena di fronte ad alcuni spettatori che
li incitano l'uno contro l'altro finché uno dei due muore. Per analizzare un simile evento,
l'antropologo potrebbe iniziare esaminando il linguaggio con cui i balinesi parlano del
combattimento: scoprirebbe così che il gallo è una metafora del pene; il termine gallo,
inoltre, ha più significati: eroe, guerriero, campione, candidato politico, scapolo, rubacuori,
duro. I combattimenti dei galli vengono paragonati a processi, guerre, competizioni
politiche, liti.
Analizzando poi il combattimento, è possibile notare alcuni importanti elementi: mentre il
proprietario del gallo vincente porta via con sé il gallo ucciso per mangiarlo, il proprietario
del gallo perdente appare disperato per la morte dell'animale, considerato il tesoro di
famiglia; i proprietari dei galli acquisiscono un grande prestigio sociale; inoltre vi sono
rigide convenzioni sociali che regolano le scommesse suli combattimenti: un uomo non
può scommettere contro un gallo il cui proprietario appartiene al gruppo parentale o al
villaggio suo o di un suo amico, ma può farlo contro il gallo di un nemico o di un suo amico.
Tuttavia i balinesi non traggono profitto dalle scommesse: la maggior parte degli
scommettitori vuole soltanto arrivare al pareggio e il significato dei combattimenti non è
legato alle vincite. Secondo Clifford Geertz, i combattimenti dei galli hanno a che vedere
con lo status, ovvero la posizione sociale di una persona rispetto ad un'altra: i galli e il loro
destino sull'arena rappresentano i rispettivi proprietari e il loro destino sociale, anche se i
combattimenti non hanno alcuna conseguenza sulla realtà. La funzione di questi
combattimenti è quella di rappresentare un concetto altamente astratto e difficile (lo
status) in modo da renderlo comprensibile. Inoltre non sarebbe corretto pensare che
questi combattimenti siano un riflesso del carattere aggressivo, competitivo e violento dei
balinesi, in quanto la lotta rappresenta soltanto un aspetto del carattere balinese: la
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cultura di un popolo, essendo costituita da un insieme di simboli e significati, può essere


compresa soltanto se essi vengono considerati nella loro totalità.

1.5 Cosa può dirci su noi stessi ciò che impariamo sugli altri?
Spesso gli antropologi applicano allo studio della propria cultura concetti e tecniche usate
per comprendere altre culture, infatti uno degli scopi insiti nello studio delle altre culture è
quello di migliorare la comprensione dei significati che attribuiamo alle nostre esperienze.
L'antropologo statunitense Renato Rosaldo, con la moglie Michelle, si è occupato della
tribù degli Ilongot, che vive nelle Filippine. Egli chiese ai membri di questa tribù di
spiegargli per quale ragione tagliassero la testa ai nemici; tale domanda fu postas più volte
dall'antropologo, che ottenne sempre la stessa risposta: gli Ilongot sostenevano che il
dolore per la perdita di una persona cara provocava in loro una profonda rabbia che
poteva essere allontanata soltanto uccidendo i nemici (e in particolare decapitandoli).
Rosaldo non riusciva ad accettare l'idea che la morte di una persona cara potesse
provocare rabbia e furore, e dunque che questi sentimenti potessero spingere una persona
ad ucciderne un'altra, così tentò di elaborare delle ipotesi alternative per spiegare la “sete
di vendetta” degli Ilongot, tuttavia nessuna gli sembrava plausibile. Quando, durante la
ricerca, un incidente causò la morte della moglie Michelle, il dolore e la rabbia che provò
aiutarono Rosaldo a capire che la perdita di una persona cara può dar vita al furore e che
proprio questo sentimento spingeva gli Ilongot a vendicarsi. Nel momento in cui iniziò a
capire gli Ilongot, Rosaldo riuscì anche a spiegarsi meglio anche il proprio dolore e la
priopria reazione alla morte della moglie.

CASE STUDY N.1: COMPRARE E VENDERE

Nella nostra cultura consumista, per rendere più proficua la vendita di beni e servizi,
sarebbe utile comprendere in che modo le persone percepiscono questi ultimi.
L’antropologo Paco Underhill si è occupato del fenomeno dello shopping, in particolare ha
studiato il modo in cui le persone fanno compere. Per far questo, ha osservato come si
muovono all’interno dei vari ambienti (negozi, ristoranti, uffici postali, e così via) e
ponendo molta attenzione all’interazione tra persone e prodotti e tra persone e spazi di
vendita. Egli ha dato vita ad una società, la Envirosell, che svolge ricerche su commercianti,
venditori e sull’attività bancaria al dettaglio per capire se questi rispondono alle esigenze
dei clienti e come questi ultimi vivono lo shopping. Il lavoro di Underhill si rifà inoltre agli
studi di William Whyte sulle modalità con cui le persone utilizzano gli spazi pubblici;
Underhill ha applicato metodi e teorie sviluppate da Whyte allo studio degli spazi di
vendita. Egli e i suoi collaboratori osservano le persone durante gli acquisti, seguono i loro
percorsi all’interno dei negozi e analizzano il loro atteggiamento nei confronti delle merci
esposte; essi verificano poi in che modo i modelli trovati cambiano in base al sesso degli
acquirenti, quanto tempo questi passano dentro ai negozi o di fronte alle vetrine. Underhill
ha scoperto così che la quantità di tempo che un cliente spende in un negozio aumenta
all’aumentare della spesa da sostenere; osservò tuttavia che il tempo passato da una
donna in un negozio varia a seconda di chi la accompagna negli acquisti: vi trascorre più
tempo se è accompagnata da un’altra donna, poco meno se è con un bambino, ancora
meno se è da sola e il tempo minimo quando è con un uomo. I venditori dal loro canto
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possono rendere il tempo speso per gli acquisti più piacevole, soprattutto per chi non ama
fare shopping, ad esempio mettendo a disposizione dei posti comodi in cui sedersi.
L’arredamento dei negozi infatti è di primaria importanza; quando si entra in un negozio
occorre un po’ di tempo per “ambientarsi”: ciò fa sì che sia più facile notare delle merci
esposte più all’interno piuttosto che all’ingresso del negozio. Le merci inoltre devono
essere esposte in modo da incoraggiare gli acquirenti ad attraversare tutto il negozio, così,
ad esempio, le merci più vendute sono “decentrate”. Altro fattore rilevante è la possibilità
data al cliente di usufruire in qualsiasi momento della presenza del personale, inoltre un
semplice saluto da parte dei commessi riduce i casi di taccheggio.
Le modalità di acquisto sono poi legate al genere degli acquirenti. Gli uomini tendono a
fare acquisti in modo rapido: una volta trovato ciò di cui hanno bisogno escono fuori dal
negozio senza guardare altro. Essi sono poco inclini a chiedere aiuto ai commessi e se non
trovano ciò che vogliono acquistare vanno via; sono meno interessati a prezzo e per
questo, in genere, spendono più delle donne; infine, quando vanno al supermercato, non
hanno mai con sé la lista della spesa e dunque comprano più cose di quelle di cui hanno
bisogno. Analizzando il comportamento delle donne di fronte alle merci esposte, Underhill
scoprì che queste valutano freddamente ciò che prendono, considerano caratteristiche
positive e caratteristiche negative e tengono molto conto del prezzo (gli uomini, al
contrario, non esaminano i prodotti che acquistano a meno che non si tratti di macchine,
imbarcazioni, computer). Inoltre, le donne sono più esigenti relativamente agli spazi di
vendita: sono pazienti e curiose ma non amano gli ambienti affollati; se per caso vengono
urtate da qualcuno che si trova alle loro spalle, si allontanano e spesso escono dal negozio.
Nei reparti di cosmetici, le donne che attendono il proprio turno spesso acquistano di più
di quelle che vengono già servite, in quanto questi reparti mettono a disposizione degli
spazi più protetti che consentono di stare in disparte e osservare, valutare (e poi
acquistare) i prodotti durante l’attesa. In ogni caso, Underhill fa notare che i ruoli dei due
generi stanno cambiando ed esorta i commercianti ad adeguarsi alla nuova situazione: le
donne che lavorano sono sempre più numerose e gli uomini devono sempre più spesso
occuparsi della spesa; aumentano le donne che fanno acquisti durante la pausa pranzo o
prima della cena.
Oltre alle differenze di genere non bisogna dimenticare le differenze di età. A tal proposito
è possibile rilevare che attualmente la fetta più importante del mercato dei consumi è
rappresentata dai bambini. Ciò fa sorgere alcuni suggerimenti: le corsie dei supermercati
devono essere abbastanza larghe da permettere gli spostamenti con il passeggino, e
inoltre è consigliabile esporre le merci dove i bambini possano vederle e prenderle.
Un ultimo importantissimo fattore è quello relativo ai tempi di attesa: i clienti non amano
aspettare e i tempi di attesa costituiscono l’elemento primario su cui si basano le opinioni
dei consumatori. I negozi possono fare in modo di far apparire i tempi di attesa meno
lunghi attraverso conversazioni con gli addetti alle vendite (il semplice interloquire con i
clienti dà l’impressione che l’attesa sia stata meno lunga), oppure servendosi di brevi
video, merci impilate, cataloghi vicino alle casse. Elemento da non trascurare è il rispetto
per il posto che si occupa in una fila.
Underhill, oltre a fornire preziosi consigli per migliorare la qualità dei servizi offerti ai
clienti, rivolge anche qualche critica ai venditori. Ad esempio, nota come, nonostante le
donne utilizzino più frequentemente degli uomini i bagni, questi ultimi vengono costruiti
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nei centri commerciali e nei supermercati in modo identico. Inoltre, le donne non solo
utilizzano i bagni più frequentemente, ma vi spendono anche più tempo, così
probabilmente si creeranno delle file fuori dai bagni; i commercianti potrebbero sfruttare il
tempo passato dalle donne in bagno ponendo delle pubblicità sulle pareti retrostanti i
servizi, eppure non lo fanno. Si potrebbe addirittura concedere la gestione dei bagni nei
centri commerciali ai negozi che vendono saponi, cosmetici, profumi, prodotti per la cura
personale.
Grazie al contributo dell’antropologia, dunque, che permette una conoscenza più
approfondita delle persone, e utilizzando un po’ di fantasia è possibile favorire un aumento
degli acquisti; Underhill ha creato un campo di ricerca nuovo e una professione fruttuosa,
tuttavia attualmente sono pochi (o forse inesistenti) i percorsi professionali che traggono
beneficio dall’applicazione delle conoscenze antropologiche.

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CAPITOLO 2
LA COSTRUZIONE SOCIALE E CULTURALE DELLA REALTÀ
Introduzione. Il problema principale
Uno dei compiti dell’antropologia consiste nel mostrare per quale ragione gli individui
possano credere in qualcosa che non è suscettibile di dimostrazione, come ad esempio
l’esistenza di una o più divinità. Occorre innanzitutto definire la credenza: con questo
termine si indica uno stato mentale di assenso verso delle affermazioni, dei sistemi di idee
o uno stato di fede verso qualcosa o qualcuno. Edward Tylor, fondatore dell’antropologia
moderna, sosteneva che la religione e la credenza nel soprannaturale non sono altro che il
risultato della necessità sentita dall’uomo di spiegare vari fenomeni. Tylor immaginava ad
esempio il modo in cui i primi esseri umani riflettevano e spiegavano ciò che distingue una
persona viva da una morta, una persona sveglia da una addormentata; tali uomini hanno
probabilmente pensato che vi fosse qualcosa che si staccava dal corpo alla morte o che lo
abbandonava durante il sonno, in altre parole, l’anima. Alla credenza nell’anima segue
rapidamente quella di un luogo in cui le anime risiedono e successivamente l’idea che le
anime fossero dotate di una certa sacralità, e per questo fosse legittimo rivolgersi ad esse
per essere aiutati a controllare gli eventi inattesi della vita. In sintesi per Tylor le credenze
nelle divinità e negli spiriti sono il risultato dei tentativi dell’uomo di spiegare certi eventi.
Anche Émile Durkheim si è interrogato sul perché delle credenze religiose; egli si dedicò in
particolare al totemismo, che ebbe modo di osservare presso le popolazioni indigene
dell’Australia. Il totem era un elemento della natura (animale, pianta, etc) a cui veniva
conferita una funzione simbolica all’interno di un gruppo o di un clan: esso era considerato
divino e come tale veniva adorato, inoltre rappresentava un elemento di identificazione
del gruppo. Attraverso i rituali, il gruppo adora se stesso per mezzo della propria
rappresentazione simbolica, cioè il totem. Altre spiegazioni sono state fornite da Sigmund
Freud (adorando Dio, su cui si proietta il potere del padre, si adora quest’ultimo), da
Bronislaw Malinowski (gli uomini si rivolgono alle divinità per influenzare quegli
accadimenti che non possono controllare).

James G. Frazer: magia, religione, scienza


La magia si basa su due principi: il primo, detto legge di similarità, secondo cui il simile
produce il simile, ovvero l’effetto somiglia alla causa; il secondo, detto legge di contatto o
contagio, secondo cui le cose che sono state in contatto una volta continuano ad agire
l’una sull’altra anche quando tale contatto è cessato. La magia che deriva dal primo
principio è detta magia omeopatica e consiste nel produrre un effetto imitandolo; la magia
che deriva dal secondo principio è detta invece magia contagiosa, e attraverso di essa il
mago sostiene che qualunque cosa egli faccia ad un oggetto influenzerà la persona che con
questo è venuta in contatto. I principi che il mago applica vengono posti da questo alla
base di tutti gli eventi. La magia omeopatica è basata sulla associazione delle idee per
similarità e in virtù di questa postula in modo errato che le cose che si assomigliano sono le
stesse; la magia contagiosa si basa sulla associazione delle idee per contiguità e postula
erroneamente che le cose che sono state in contatto una volta lo siano per sempre. Questi
due principi di associazione sono validi ed essenziali per il funzionamento della mente
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umana, ma applicati in modo scorretto fondano la magia: quest’ultima dunque è per


definizione falsa, in quanto se divenisse vera non sarebbe più detta magia ma scienza.
Nelle diverse epoche, il pensiero dell’uomo è passato dalla magia alla scienza; in una via
intermedia tra queste troviamo la religione. A differenza della magia che si basa sull’idea di
ordine stabilito nella natura che l’uomo può governare, per la religione il mondo è
governato dall’azione volontaria e consapevole di enti superiori all’uomo ma comunque
influenzabili: per controllare il mondo sarà infatti necessario ingraziarsi questi enti,
ottenere la loro benevolenza. La religione occupa una posizione intermedia tra magia e
scienza in virtù della sua maggiore complessità: la magia è la forma più arcaica ed
originaria, mentre la religione richiede un livello più elevato di intelligenza e riflessione.
L’uomo è passato dalla magia alla religione nel momento in cui è stato in grado di
riconoscere la falsità e l’inefficacia della prima.

2.1 In che modo il linguaggio influisce sui significati che vengono attribuiti all’esperienza?
Il linguaggio rappresenta uno strumento fondamentale per la comprensione del senso che
diamo all’universo e a noi stessi; infatti, la costruzione di una certa visione del mondo
richiede alcune azioni simboliche: rituali, miti, arti, letteratura e così via. Il linguaggio è lo
strumento che utilizziamo per entrare in contatto con il mondo e spesso si pensa sia solo
un mezzo per la trasmissione del pensiero; l’antropologo Edward Sapir cercò di confutare
questa visione del linguaggio, ipotizzando che esso possieda, accanto ad una funzione
comunicativa, anche una funzione cognitiva che permette di determinare e guidare la
percezione dell’esperienza. Tali ipotesi sono state ulteriormente approfondite da Benjamin
Lee Whorf il quale sostenne che ogni lingua costituisce un sistema di riferimento in grado
di determinare e influenzare la visione del mondo del popolo che la adotta. Pensiero e
linguaggio sono connessi sotto diversi aspetti; il primo e più evidente livello è quello del
lessico, quest’ultimo infatti cambia a seconda dell’ambiente sociale e naturale di un
popolo, rivela ciò che assume importanza per i parlanti e costituisce un’indicazione per
questi ultimi a prestare attenzione alle denominazioni delle caratteristiche dell’ambiente.
Inoltre, Sapir e Whorf ipotizzarono anche l’esistenza di un legame tra la grammatica di una
lingua e le modalità di pensiero dei parlanti: in altre parole, il modo di parlare, di
esprimersi, influisce sul modo di pensare. Esistono dunque delle relazioni sistematiche tra
le categorie grammaticali della lingua parlata da una persona e le categorie di pensiero che
quella persona utilizza per capire il mondo e agire al suo interno. L’insieme di queste
ipotesi è conosciuto come ipotesi di Sapir-Whorf o ipotesi della relatività linguistica.
Il linguaggio umano è caratterizzato da una certa economia: alcune parole utilizzate per
descrivere un’area dell’esperienza vengono usate anche in un ambito totalmente diverso
per mezzo delle metafore. La metafora è appunto una figura retorica che utilizza
espressioni linguistiche relative ad un certo ambito dell’esperienza applicandole ad ambiti
diversi; ciò permette di comprendere più facilmente un’esperienza nei termini di un’altra.
Le metafore sono delle espressioni verbali che usiamo per rendere il nostro linguaggio più
espressivo e vantaggioso in termini “economici”. Gli ambiti dell’esperienza dai quali si
attinge per creare delle metafore sono vari: guerra, corpo umano, scambi economici,
danza, sport, e così via. Ogni società predilige solo alcuni ambiti culturale, e questi
configurano così delle metafore chiave che danno ad ogni cultura uno stile e delle
caratteristiche peculiari.
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Una delle espressioni più sorprendenti dell'elaborazione di una metafora chiave nonché
dell'immaginazione umana si trova tra i Kwakiutl della British Columbia, oggetto di studio
da parte di Franz Boas e, successivamente, di Ruth Benedict. Più recente è invece l'analisi
di Stanley Walens; secondo questo autore, l'atto del mangiare costituisce una metafora
chiave per i Kwakiutl, in quanto essi utilizzano espressioni inerenti alla fame, al cibo e al
mangiare per parlare di molte cose diverse. L'universo è visto dai Kwakiutl come un luogo
in cui alcuni esseri viventi vengono mangiati da altri esseri viventi, e in cui alcuni esseri
viventi devono morire per essere mangiati da altri che così possono continuare a vivere.
Mangiare permette di vivere in due modi: fornisce nutrimento e libera lo spirito. Secondo i
Kwakiutl, infatti, quando una persona muore il suo spirito lascia il corpo per entrare nel
corpo di un salmone; quando il salmone viene catturato e mangiato da esseri umani, lo
spirito viene liberato e si reincarna nel corpo di un neonato. L'importanza del mangiare in
questa società si evince dalle immagini di bocche che pervadono l'arte, i rituali e il mito.
Molti eventi vengono poi associati alla fame: l'avidità è una fame senza freni; l'immoralità
è paragonata alla fame e come questa deve essere tenuta a bada; i bambini sono associati
alla fame perché chiedono costantemente di essere nutriti e se non venissero “controllati”
divorerebbero tutto il cibo a disposizione della famiglia. Per queste ragioni, secondo i
Kwakiutl il controllo della fame rappresenta l'unica soluzione ai problemi di avidità,
conflitto e allevamento dei bambini. L'azione del nutrirsi è fortemente ritualizzata, il cibo
deve essere manipolato con riguardo e va condiviso con gli altri. Abbiamo dunque visto
come un singolo campo dell'esperienza, ovvero il mangiare, venga utilizzato per
interpretare vari aspetti del mondo e dell'esistenza.

2.2 In che modo l’azione simbolica rafforza una particolare visione del mondo?
Il linguaggio non è l’unico mezzo che utilizziamo per comprendere il mondo che ci
circonda e attribuire dei significati all’esperienza, ma vi sono delle pratiche a cui
prendiamo parte che veicolano una determinata visione del mondo; in tale contesto
assumono particolare importanza i rituali, il mito, la letteratura, l’arte, il gioco, la musica.
Tali azioni simboliche altro non sono che rappresentazioni sociali dei significati condivisi di
cui è formata una cultura; tali significati sono espressi con delle modalità che li fanno
apparire corretti e adeguati: il rituale presenta a chi vi partecipa soluzioni a problemi reali
così come le rappresentazioni simboliche suggeriscono soluzioni reali.
Joseph Campbell si è occupato dei miti dei popoli di diverse parti del mondo e così ha
sostenuto che tutti i miti contengono la storia di un eroe che possiede le qualità più
apprezzate all’interno delle varie società, ed essi sono tutti accomunati da un medesimo
scenario: l’eroe, separato dalla propria famiglia o società, intraprende un viaggio di ricerca
(l’oggetto della ricerca può essere la conoscenza, un oggetto, una persona, e così via).
Durante il viaggio egli incontra un mentore, una guida che gli conferisce un potere, ma
anche delle creature o delle forze che ostacolano il suo cammino, che egli riesce a
combattere grazie all’aiuto e alla protezione di alcuni aiutanti. Alla fine l’eroe deve
fronteggiare la morte, ma grazie al potere conferitogli dalla guida, riesce a sconfiggerla e a
raggiungere il proprio obiettivo. Un’analisi analoga viene compiuta da Propp il quale
sostiene che all’interno dei diversi miti è possibile rintracciare delle funzioni narrative,
ovvero degli elementi che rimangono costanti al variare delle azioni, dei personaggi, delle
trame; pur cambiando i nomi dei personaggi, rimangono identiche azioni e funzioni: può
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anche capitare che azioni diverse abbiano la stessa funzione o che la stessa azione svolga
funzioni diverse. Le funzioni sono determinate in base al ruolo e al significato che
assumono nello svolgimento della vicenda.

2.3 In che modo si arriva a credere ciò che si crede e come si continua a tener fede alle
proprie credenze, anche se esse appaiono contraddittorie o ambigue?
E come si continua a tener fede alle proprie credenze, anche se esse appaiono
contraddittorie e ambigue? Ci chiediamo però in che modo le persone giungano a credere
alcune cose e come perseverino in tali credenze anche di fronte a contraddizioni e
ambiguità. Secondo Tanya Luhrmann, ad intervenire è il processo di deriva interpretativa:
esso consiste in un cambiamento nel modo di interpretare gli eventi dovuto ad un
coinvolgimento in un particolare fenomeno. In altre parole, il praticare una nuova
credenza permette di individuare nuovi modelli, nuovi collegamenti tra gli eventi.
L’individuo inizia a trovare delle prove della nuova credenza, conferendo così ad essa
maggiore significato e iniziando a credere nella sua verità. Ciò condurrà l’individuo alla
ricerca di nuove prove. Anziché pensare che siano cambiate le cose in cui crede, l’individuo
penserà che le nuove credenze siano semplicemente vere: le nuove credenze offrono la
sensazione di scoperta e di conferma. Tanya Luhrmann sostiene che l’elemento principale
per diventare un credente è la pratica: in altri termini, le persone non mettono in pratica
ciò in cui credono, ma è dal mettere in pratica che scaturisce il nuovo credo.
Cosa succede però quando alcuni eventi, alcune informazioni mettono in dubbio ciò a cui si
crede? Gli individui tendono in questi casi a razionalizzare le incongruenze, eliminando le
contraddizioni (tale processo è stato definito da Evans-Pritchard come “elaborazione
secondaria”). Un’altra strategia per mantenere la coerenza alle proprie credenze è la
percezione selettiva: vedere solo ciò che si vuole vedere. E’ poi possibile sostenere le
proprie credenze sopprimendo le prove che la contraddicono, o ricorrendo alla fede o al
mistero (alcune verità non possono essere dimostrate, dunque devono essere accolte per
fede). Infine, si possono sostenere le proprie credenze ricorrendo ad un’autorità, oppure
evidenziandone la spiritualità, la libertà, la bellezza estetica.

2.4 In che modo il nostro modo di vivere influisce su credenze e rituali?


Le credenze sono influenzate anche dal modo di vivere, dai modelli di rapporti sociali,
politici ed economici. Un esempio di tale influenza ci è dato dall’idea dell’amore,
dell’essere “innamorati”. L’emozione percepita e il significato che ad essa attribuiamo sono
culturalmente determinati. Come scritto da Eva Illouz, una sensazione di attrazione può
essere interpretata in diversi modi (incontro predestinato, amore a prima vista,
infatuazione, tempesta ormonale,…) ed è proprio la cultura che ci aiuta in questa
interpretazione.
I rituali dell’amore sono stati mercificati all’interno della nostra società, infatti, per poter
“mettere in scena l’amore” è necessario disporre di denaro, ovvero potersi permettere gli
oggetti e le merci necessari per dimostrare di essere innamorati. Con ciò ci riferiamo al
fatto che occorre spendere del denaro per rendersi “amabili” (attraverso l’abbigliamento
adeguato, il profumo giusto, il giusto taglio di capelli,…) nonché per creare il momento
amoroso, spesso caratterizzato dalla condivisione del cibo e dai viaggi. Questi ultimi in
particolare rappresentano l’esperienza tipica dei momenti romantici; essi implicano
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l’allontanamento dal mondo del lavoro, dagli impegni e dagli interessi personali; al
contempo però implicano la mercificazione dei paesaggi: il paesaggio romantico è quello
più costoso, è il luogo “selvaggio” lontano dal mondo industrializzato, e isolato. La messa in
scena dell’amore pertanto è legata alla struttura delle classi della nostra società, a tre
livelli: 1. Poiché è necessario il denaro per creare momenti romantici, la classe operaia
risulta svantaggiata perché dispone di minor reddito, minore quantità di tempo e minore
cultura: avere una relazione presuppone la disponibilità di tempo libero e denaro; 2. La
scelta della persona con cui vivere l’amore è determinata dalla classe sociale; anche
quando questa è basata su criteri quali bellezza, intelligenza, affinità, poiché tali categorie
sono anch’esse definite in base a criteri di classe; 3. I rituali dell’amore (cene, viaggi, regali,
fare l’amore) sono soggetti ad alcune regole e richiedono una certa competenza, la quale
dipende dal capitale culturale ovvero dalle risorse che una persona possiede e che la
rendono più o meno competente nel creare momenti romantici e nell’esprimere
l’innamoramento. Non a caso capita spesso che le persone parlino del proprio partner
come di qualcuno con cui si riesce a comunicare, esprimendo così il fatto di aver trovato
una persona dotata di un adeguato capitale culturale, il quale è appunto determinato dalla
condizione economica. Altro elemento non trascurabile è il legame tra l’amore e
l’individualismo: nella società dell’amore romantico l’individuo deve disporre di un alto
livello di mobilità, flessibilità e libertà; gli interessi emotivi individuali assumono maggiore
importanza rispetto agli interessi collettivi. L’amore romantico, richiedendo beni e merci,
assicura la disponibilità di un reddito, e poiché per disporre di un reddito bisogna lavorare,
indirettamente l’amore romantico rappresenta una spinta che obbliga le persone a trovare
lavoro. La necessità di denaro tuttavia ha minato la dimensione spontanea dell’amore e ha
riservato la possibilità di mettere in scena l’amore alle classi più abbienti; tuttavia è
innegabile che le donne hanno acquistato maggiore libertà rispetto al passato.

2.5 Come si può riorganizzare la propria visione del mondo quando non è più
soddisfacente?
Riorganizzare la propria visione del mondo quando questa non è più soddisfacente è un
compito tutt’altro che semplice. A volte accade che i cambiamenti nei significati attribuiti
alle esperienze sono causati da sovvertimenti sociali; quando l’insoddisfazione accomuna
tutto il gruppo, questo può cercare di modificare la visione del mondo nonché la stessa
organizzazione della società. Per riferirsi a questo genere di fenomeni l’antropologo
Anthony Wallace utilizza il termine “movimenti di rivitalizzazione”. Da un periodo di
rivolta, di oppressione sociale o economica scaturisce un nuovo sistema di credenze, che
ha lo scopo di ricondurre la società ad uno stato precedente (reale o mitico), o che mira
all’attenuazione dell’oppressione o la demoralizzazione.
Un esempio di questi movimenti di rivitalizzazione è la “Danza degli Spiriti” dei popoli
nativi americani. Durante il XIX secolo si assisteva alle guerre tra le tribù di nativi americani
e le forze militari degli Stati Uniti per i conflitti sul possesso di terre. Le guerre indiane
durarono trent'anni, e durante questo periodo il governo degli Stati Uniti firmò trattati con
i popoli nativi in cui garantiva loro diritti su specifiche aree di territorio, indennizzi
economici, alimenti e altre forme di sostegno. Tuttavia eventi successivi, come, ad
esempio, la scoperta dell'oro nelle terre abitate dai Sioux, fecero sì che il governo
pretendesse di rivedere i trattati: il territorio dei Sioux venne dimezzato e i bisonti vennero
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sterminati dai soldati americani, con il solo scopo di distruggere le basi economiche della
società indigena. Il tessuto sociale della società venne sfaldato: le tribù indigene vennero
confinate nelle riserve, venne vietato loro di dedicarsi alle attività tradizionali, per nutrirsi
dipendevano dalle razioni di cibo somministrate dal governo (che spesso non arrivavano o
venivano consegnate in ritardo), la popolazione venne decimata dalle malattie portate
dagli Europei, vennero banditi rituali e cerimonie tradizionali. In questo contesto, un
indiano paiute di nome Wovoka ebbe una visione in cui Dio raccomandava alla sua gente di
vivere in pace con i bianchi; gli erano state date le istruzioni per una danza rituale che, se
eseguita per cinque giorni e cinque notti, avrebbe permesso alla sua gente di riunirisi con
amici e parenti nell'altro mondo. Il messaggio di Wovoka fu diffuso alle tribù di nativi
americani sparse negli Stati Uniti e nel Canada, subendo diverse reinterpretazioni. I Sioux
furono tra i gruppi che adottarono con maggiore entusiasmo la Danza degli Spiriti, ma
anche quando qui cessò di esistere, essa si diffuse presso altri gruppi, ognuno dei quali
auspicava il ritorno della cultura tradizionale. Oggi essa rappresenta il tentativo di un
popolo di costruire un nuovo sistema di significati dopo la distruzione di quello
precedente.

CASE STUDY N.2: LA CONSULENZA POLITICA E IL POTERE DELLA METAFORA

Il linguista americano George Lakoff è divenuto nel 2004 uno dei più stimati consulenti
politici. In quell’anno scrisse il manuale “Non pensare all’elefante” in cui spiegava i motivi
che avevano causato la sconfitta del Partito democratico alle elezioni del 2004, vinte dai
Repubblicani. In questo manuale, egli espone il concetto di “frame”: i frames sono,
secondo Lakoff, delle strutture mentali che modellano il modo in cui vediamo il mondo, e
di conseguenza anche i nostri obiettivi, progetti e azioni, i nostri valori, i nostri criteri di
giudizio. I frames sono metafore e, esercitando una grande influenza sul nostro modo di
vedere il mondo, rappresentano degli efficaci strumenti politici; determinare le metafore
usate dalle persone per parlare di certi temi equivale a mettere in un frame il dibattito su
quei temi. All’inizio degli anni Novanta, notando le differenze nel linguaggio usato dai
liberali e dai conservatori nella politica americana, Lakoff inizia a studiare il rapporto tra il
linguaggio nella politica e l’uso delle metafore. Ricordando la tesi di un suo studente,
Lakoff fa notare come gli americani pensano e parlano della nazione come di una famiglia;
tuttavia, le metafore per la famiglia usate dalla politica liberale e conservatrice sono
totalmente differenti. Mentre la politica dei conservatori si basa su una rigida nozione di
famiglia centrata sulla figura del pater familias, la politica dei liberali si rifà alla metafora
della famiglia con genitori affettuosi. Tali metafore implicano diverse concezioni della
moralità.
La metafora del padre severo (conservatori) implica una famiglia nucleare tradizionale in
cui il padre non solo deve proteggere la famiglia ma è l’unico a possedere ed esercitare
l’autorità di stabilire regole rigide di comportamento che i figli devono seguire. La madre
ha il compito di prendersi cura dei figli e della casa e di sostenere l’autorità del padre; i figli
devono onorare e obbedire ai genitori: il rispetto per l’autorità permette la formazione del
carattere, dell’autodisciplina e della fiducia in se stessi; l’obiettivo che tale tipo di famiglia
persegue è quello di crescere dei figli che divenuti adulti abbiano fiducia in se stessi, siano
capaci di autodisciplina e siano indipendenti. La metafora della famiglia con genitori
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affettuosi (liberali) dà maggior rilievo all’amore, all’empatia, all’accudire i figli in modo


premuroso; l’obiettivo perseguito è quello di allevare dei figli responsabili, che abbiano
fiducia in se stessi e che siano capaci di autodisciplina, rispetto e solidarietà; i figli
obbediscono non per paura della punizione ma per amore e rispetto verso i genitori; di
fondamentale importanza è la comunicazione, in quanto i genitori devono rendere i figli
partecipi del valore funzionale delle proprie decisioni educative.
Anche la visione del mondo cambia a seconda della metafora utilizzata. Nella metafora del
padre severo, il mondo è un luogo pericoloso, difficile da affrontare in quanto dominato
dalla competizione: è un mondo in cui si vince o si perde; le cose sono giuste o sbagliate,
non vi sono vie di mezzo; i bambini nascono “cattivi” in quanto vorrebbero fare tutto ciò
che vogliono, è compito del padre insegnar loro a comportarsi nel modo giusto; il padre
deve essere capace di proteggere la famiglia nel mondo pericoloso, sostenerla in un
mondo difficile, insegnare ai figli a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Nella
metafora della famiglia con genitori affettuosi, il mondo, pur presentando pericoli e
difficoltà, è fondamentalmente buono e ognuno può lavorare per migliorarlo; i bambini
nascono buoni e i genitori possono aiutarli a crescere come adulti affettuosi e solidali; gli
obiettivi di questo tipo di famiglia sono dunque: collaborare al miglioramento del mondo,
incoraggiare l’empatia e la solidarietà nei figli, insegnare ai figli come divenire adulti
responsabili e affettuosi.
Diverse sono le concezioni di “persona buona” e persona “cattiva”: nella metafora del
padre severo, una persona è buona quando possiede autodisciplina, quando è obbediente,
è in grado di distinguere giusto e sbagliato, ha fiducia in sé e persegue il proprio interesse
egoistico; una persona è invece cattiva se non si sottomette alla disciplina, non sa
distinguere giusto e sbagliato e non è indipendente. Nella metafora della famiglia
accudente, una persona è buona quando è felice, è capace di sostenere ed aiutare gli altri;
è invece cattiva se non è sensibile ai bisogni altrui, non è empatica, è egoista e non
collaborativa.
Di conseguenza, nelle due metafore sono diverse anche le concezioni del cittadino modello
e delle figure negative. Nella metafora del padre severo, le figure positive sono coloro che:
hanno e perseguono valori conservatori, hanno autodisciplina e fiducia in se stessi,
sostengono la valenza etica dell’uso di premi e punizioni, lavorano per proteggere i
cittadini, agiscono a favore dell’ordine morale. Le figure negative sono coloro che: si
oppongono ai valori conservatori (gay, femministe, ecc), non hanno autodisciplina (madri
non sposate, disoccupati, tossicodipendenti), difendono il bene pubblico (ambientalisti,
difensori dei consumatori, ecc) i quali si oppongono al perseguimento di interessi egoistici,
contestano modalità di funzionamento della giustizia penale e del sistema militare o
reclamano il controllo delle armi, rivendicano uguali diritti per donne, gay, non bianchi, in
quanto agiscono contro l’ordine morale. Nella metafora della famiglia accudente, cittadini
modello sono coloro che: sono empatici, aiutano le persone svantaggiate, proteggono chi
ne ha bisogno, sono favorevoli all’autorealizzazione, hanno cura di sé. Figure negative sono
invece coloro i quali: sono meschini, egoisti, sleali, privi di empatia, sfruttano le persone
svantaggiate, provocano danni alle persone o all’ambiente, si oppongono all’istruzione
pubblica, si oppongono all’assistenza sanitaria gratuita.
Le visioni di conservatori e liberali sono divergenti anche in merito a ciò che riguarda il
matrimonio omosessuale. I conservatori preferiscono il termine “matrimonio gay” poiché
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possiede una connotazione di sesso omosessuale in grado di mettere a disagio qualche


liberale; la locuzione “matrimonio omosessuale” non possiede tale connotazione e
pertanto è preferito dai liberali. Per i conservatori, il matrimonio tra persone dello stesso
sesso non è compatibile con il modello familiare del padre severo, in quanto questo
presuppone la presenza di un padre forte, virile, deciso, che faccia da modello per i figli e
che venga ammirato dalle figlie. Il modello di famiglia con genitori affettuosi, invece, non
possiede elementi che lo rendano incompatibile con il matrimonio tra persone dello stesso
sesso. Il matrimonio ideale, secondo Lakoff, è un matrimonio felice, duraturo, implica
avere dei figli, una bella casa e frequentare altre coppie. Nessuna delle caratteristiche del
matrimonio ideale in realtà presuppone che esso sia eterosessuale: l’idea che il
matrimonio debba unire persone di sesso diverso, secondo Lakoff, è semplicemente uno
stereotipo culturale diffuso. Coloro i quali difendono il matrimonio omosessuale non
devono chiedere l’approvazione dell’unione di persone dello stesso sesso, devono bensì
chiedere alle altre persone se sia compito del governo decidere con chi i cittadini possono
o non possono sposarsi. Dunque alle persone non si deve chiedere di approvare il
matrimonio tra omosessuali ma di approvare il diritto che ognuno dovrebbe possedere di
scegliere la persona da sposare.
In definitiva, secondo Lakoff, i temi del dibattito politico possono raggiungere gli elettori
quando vengono collegati ad un frame che li renda familiari, in quanto gli elettori sono
sensibili alle grandi metafore. I conservatori hanno condensato la loro filosofia in 10
termini: difesa forte, libero mercato, meno tasse, meno governo, valori familiari. Lakoff, il
quale si dichiara progressista, propone anch’egli una nuova filosofia in 10 termini: America
forte (sul piano militare, economico, sanitario, educativo, ambientale, ecc), prosperità
diffusa (dei mercati), futuro migliore (attraverso investimenti), governo efficace (quindi
migliore), responsabilità reciproca (attenzione e responsabilità nei confronti degli altri).
 Intimità culturale

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CAPITOLO 3
LA COSTRUZIONE CULTURALE DELL’IDENTITÀ

Introduzione. L’importanza del sé


Nella nostra cultura, spesso il concetto dell’identità personale viene dato per scontato; in
realtà, nessuno nasce con una propria identità ma questa si costruisce nelle interazioni con
gli altri; la società non è altro che un insieme di identità sociali distribuite in un
determinato contesto. Gli individui cercano di conquistare una certa identità e di fare in
modo che questa venga riconosciuta anche dagli altri. Inoltre, le persone cercano anche di
conoscere le identità degli altri cosicché sia possibile avere informazioni su di loro e
collocarli all’interno di una qualche categoria o in qualche punto all’interno del panorama
sociale. Le categorie generalmente utilizzate sono quelle che si basano sul genere,
sull’appartenenza etnica, sulle caratteristiche fisiche e via dicendo. Gli altri, dunque,
attraverso il loro comportamento nei nostri confronti ci confermano la nostra identità e la
nostra posizione: da ciò possiamo dedurre che ognuno è qualcuno solo in relazione a
qualcun altro, infatti, qualunque termine utilizziamo per definirci esso rimanda sempre ad
una relazione sociale (d’altronde, la specie umana è una specie sociale e gli esseri umani
vivono e sopravvivono soltanto in relazione gli uni con gli altri).

3.1 In che modo varia il concetto di persona da una società all’altra?


In ogni società, a differenziare gli individui gli uni dagli altri vi sono i nomi propri. I diversi
modi in cui, nelle varie società, si danno i nomi ci aiutano a comprendere in che modo
queste società concettualizzano l’identità di una persona e in che modo questa si relaziona
con il gruppo. Il concetto di persona è un universale culturale: in tutte le società si è creata
un’idea di cosa sia un essere umano in contrapposizione ad un oggetto, ad una roccia, e
così via. Nel mondo occidentale, e in particolare in America, prevale una visione
individualista: la persona è un’entità fissa e autonoma, che esiste indipendentemente da
ogni situazione o condizione; ogni individuo, riportando le parole di Geertz, è un mondo
motivazionale e cognitivo armonico, integrato, un centro dinamico di consapevolezza,
emotività, giudizio e azione. In altre società, invece, prevale una visione olistica: gli
individui non sono considerati come entità distinte e autonome dalla propria posizione e
dal proprio gruppo sociale. A partire da tale divergenza di visioni, Richard Shweder e
Edmund Bourne hanno distinto due concetti di persona: il Sé egocentrico e il Sé
sociocentrico. Secondo il concetto di persona come Sé egocentrico, ogni individuo è in
grado di agire indipendentemente dagli altri, è il centro della consapevolezza, un insieme
che si distingue ed è separato da altri insiemi; i rapporti sociali sono contatti tra esseri
autonomi e liberi, e gli individui hanno la facoltà di negoziare il proprio posto nella società
e dunque prevale l’idea che ognuno sia responsabile di ciò che è; gli individui possiedono
delle qualità intrinseche (ad esempio, generosità, onestà, bellezza) e grande importanza
assume l’individualismo e la fiducia in se stessi. Secondo il concetto di persona come Sé
sociocentrico, che si basa sul contesto, il Sé esiste solo all’interno della situazione concreta

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e in relazione al ruolo occupato dalla persona; la persona non possiede delle qualità
intrinseche durature ma queste valgono solo nel contesto di situazioni concrete. Un
esempio di quanto detto finora è relativo alla concezione del Sé in Giappone e in America:
secondo alcuni antropologi, i Giapponesi includono nei confini del Sé il gruppo sociale di
cui fa parte una persona, mentre gli Americani il Sé non si estende oltre il corpo fisico, e ciò
sarebbe testimoniato dall'assenza, nella lingua giapponese, di elementi linguistici
assimilabili ai nostri pronomi personali (come “io” e “tu”), in quanto il pronome personale
usato dipende dal rapporto tra gli interlocutori ed esprime in che modo il Sé varia in
rapporto ad una specifica interazione sociale.
Le differenze tra individualismo e olismo sono state analizzate anche dall’antropologo
francese Louis Dumont, il quale si è dedicato in particolare alle ideologie relative alla
persona nelle civiltà indiana ed europea: nella prima prevale la visione olistica, che
subordina l’individuo al gruppo sociale negando il concetto di singolarità della persona;
nella seconda, prevale invece l’individualismo, in cui il concetto di persona presuppone la
separazione del soggetto dal tutto, e la totalità sociale è subordinata all’individuo.

3.2 In che modo le società distinguono gli individui gli uni dagli altri?
La costruzione dell’identità sociale avviene a partire dalle somiglianze e dalle differenze tra
gli individui, ma non tutte le società utilizzano le stesse, e neppure allo stesso modo.
Alcune caratteristiche (strumenti identitari), tuttavia, sono utilizzate quasi universalmente:
tra queste, ricordiamo l’appartenenza ad una famiglia, il sesso, l’età. Altre caratteristiche
potrebbero essere l’appartenenza ad un gruppo etnico, il colore della pelle, il grado di
benessere: queste sono considerate rilevanti solo in alcune società. L’insieme di
caratteristiche più importante e più utilizzato è quello relativo alla famiglia e alla parentela:
nelle società tradizionali, la parentela è il principio organizzativo centrale, ovvero ciò che
influisce maggiormente nella costruzione dell’identità sociale di una persona; non avere
nessuna “etichetta di parentela”, in queste società, significa non avere un posto rilevante
nel panorama sociale. Anche la lingua può essere un importante strumento identitario;
infine, ricordiamo il caso dell’Irlanda del Nord, in cui l’identità è definita in base alla
religione professata, e che testimonia l’importanza di avere un’identità positiva (che i
membri di un gruppo cercano di costruirsi) e un’identità negativa (che viene attribuita agli
altri gruppi).
Una delle caratteristiche dell’identità che si tende a dare per scontata è il genere; il senso
comune infatti ci spinge a pensare che si tratti di una caratteristica determinata
biologicamente, mentre in realtà si tratta di una vera e propria creazione culturale: alla
mascolinità e alla femminilità infatti sono infatti associati attributi differenti.
L’assegnazione ad un genere è sancita alla nascita dall’annuncio del sesso; dopo di ciò,
viene dato un nome, il bambino viene vestito con abiti di diverso colore e aspetto, si usa
con lui un linguaggio adeguato al genere cui appartiene. Ai bambini maschi viene insegnato
che devono sopportare il dolore, essere forti e duri, nascondendo il disagio e la sofferenza.
Alle bambine invece viene permesso di esprimere le loro “debolezze”, e se si fanno male
vengono consolate. Al di là dei ruoli, anche il numero delle categorie di genere cambia
nelle diverse società; ad esempio, alcune società di nativi americani riconoscono, accanto
ai due generi maschile e femminile, un terzo genere, detto “berdache” o “nadle” (della
figura del berdache si è occupata, negli anni 30 del Novecento, Ruth Benedict). Il berdache
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è biologicamente maschio, ma non assume il tradizionale ruolo maschile; non è


considerato un uomo né una donna, in ogni caso indossa abiti femminili, svolge mansioni
tipicamente femminili e spesso ha rapporti omosessuali; dunque, in questo tipo di società,
esso non è considerato né un pervertito né una persona anormale, ma viene pienamente
accettato e inserito nella società. Secondo l’antropologa Harriet Whitehead, gli Americani
non riescono a riconoscere un terzo genere perché ragionano in modo etnocentrico sulle
caratteristiche in base alle quali vengono definiti i ruoli di genere: essi, infatti, si basano
principalmente sulle preferenze sessuali, trascurando caratteristiche quali le preferenze
nell’abbigliamento, nel comportamento, nel tipo di occupazione. I nativi americani invece
fanno esattamente l’opposto.
Il linguaggio influisce su più piani nella creazione dell’identità, soprattutto in relazione al
genere. Prendiamo ad esempio il tono di voce: in genere gli uomini hanno una voce più
grave delle donne in quanto le loro corde vocali sono più lunghe, ma i bambini tendono,
inconsapevolmente, ad alzare o abbassare il tono della voce a seconda delle aspettative di
genere nei loro confronti. Come evidenziano Penelope Eckert e Sally McConnell-Ginet, gli
individui utilizzano il linguaggio per presentarsi come un certo tipo di persone e per
comunicare un atteggiamento e uno stile propri; esso può cambiare a livello grammaticale
o a livello delle espressioni usate (il turpiloquio non si addice alle donne e ai bambini); ai
bambini, ad esempio, viene insegnato a parlare o a restare in silenzio. Secondo il linguista
Robin Lakoff, l’identità di una donna nella società influisce sul suo modo di parlare; le
donne sono spesso tenute a moderare le loro espressioni di opinioni utilizzando certi
dispositivi linguistici (uso di attenuativi, forme enfatiche, ecc). Ciò è da ricondurre alla
mancanza di potere delle donne, che nell’uso del linguaggio sono costrette a mantenere e
perpetrare la loro “subalternità”; secondo alcuni studiosi un tale utilizzo del linguaggio
dimostra disponibilità ad ascoltare i punti di vista altrui. Colui che utilizza il linguaggio
dispone di diversi codici e li utilizza alternativamente a seconda del contesto, scegliendo
quelli più socialmente appropriati. Il passaggio da un codice ad un altro è chiamato
“commutazione di codici”, e può avvenire una o più volte all’interno dello stesso discorso,
in modo volontario o non. Il linguaggio può anche essere un mezzo per costruire gli altri,
l’out-group da cui ci si vuole differenziare. A tal proposito, è di cruciale importanza rilevare
che l’appartenenza ad un gruppo etnico o etnia, dunque l’identità etnica, si colloca sul
piano simbolico e si basa sulle definizioni di sé e dell’altro. Tali definizioni attribuiscono una
certa omogeneità interna ad un gruppo e al contempo lo differenziano dagli altri; le
identità etniche non sono “eterne” ma vanno negoziate e sono il risultato di processi di
etnicizzazione funzionali all’accesso a determinate risorse materiali o simboliche. La
nozione di etnia è una pura finzione attraverso cui è possibile indicare una serie di
elementi che permettano la differenziazione culturale.

3.3 In che modo gli individui apprendono chi sono?


Come già anticipato all’inizio, nessun essere umano nasce già dotato di un’identità, ma
questa viene conquistata in seguito grazie alle interazioni con gli altri membri della società;
l’identità inoltre può cambiare nel tempo, e tali cambiamenti vengono dichiarati attraverso
quelli che Arnold Van Gennep ha definito “riti di passaggio”, ovvero delle cerimonie, dei
rituali che sanciscono il passaggio di un individuo da uno stato ad un altro. All’interno di tali
riti è possibile distinguere 3 fasi: la fase preliminare, che prevede la separazione
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dell’individuo dall’identità attuale; la fase liminare, che è una fase di transizione; e infine la
fase postliminare in cui la persona viene introdotta nella nuova identità. Ognuna di queste
fasi assume importanza diversa nelle varie cerimonie. In moltissime società assume grande
importanza il passaggio di un maschio dall’infanzia all’età adulta; secondo l’antropologo
David Gilmore, i riti di passaggio dall’infanzia alla maturità per i maschi prevedono prove di
virilità e coraggio perché l’identità maschile è più problematica rispetto a quella femminile,
in quanto durante i primi anni di vita i bambini si identificano con la madre e per i maschi è
difficile spezzare questo legame; i riti di passaggio, infatti, simboleggiano il distacco del
bambino dalla madre e il suo ingresso nell’età adulta.

3.4 In che modo gli individui comunicano la propria identità agli altri?
Gli strumenti che gli individui utilizzano per comunicare la propria identità sono molti e
diversi tra loro: gli oggetti posseduti, il linguaggio utilizzato, le proprie frequentazioni, e
così via. Nel suo famoso libro “Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società
arcaiche”, Marcel Mauss presenta il principio di reciprocità, quel principio per cui il donare
qualcosa ad una persona provoca la nascita di un legame che fa sì che questa persona sia
tenuta a ricambiare il dono; ciò che conta non sono i doni in sé ma il rapporto che viene
mantenuto e stabilito tramite il loro scambio. Gli oggetti regalati e ricevuti servono però a
definire l’identità dei partecipanti allo scambio nonché il rapporto esistente tra loro: se i
doni sono di uguale valore, il rapporto è paritario; se i doni sono di valore diverso, allora la
persona che ha donato l’oggetto di maggior valore ricopre una condizione sociale
superiore. Gli scambi che servono a definire e comunicare l’identità non necessariamente
coinvolgono beni materiali, ma possono anche riguardare emozioni e sentimenti; gli
Hawaiani, ad esempio, danno molta importanza all’ospitalità e alla socievolezza, e basano
le relazioni sociali su scambi altruistici di amore (aloha), sincerità, sentimento (na’au) e
calore (pumehana). Esempi pratici dell’applicazione del principio di reciprocità sono il kula,
praticato nelle isole Trobriand, e il potlatch, praticato dai Gitksan (nativi americani della
costa nordoccidentale). In queste due pratiche, la caratteristica fondamentale degli oggetti
scambiati risiede nel fatto che essi possiedono una storia: è possibile ripercorrere la storia
dell’oggetto sin dal momento della sua creazione. James Carrier fa notare come, sin dal
1700, la produzione e la distribuzione di merci si è spersonalizzata: chi compra un oggetto,
nella maggior parte dei casi, non ne conosce né il produttore né il venditore. Siffatti
prodotti, che non hanno alcun “significato”, sono definiti da Carrier “merci”, in
contrapposizione ai “beni”. I doni devono innanzitutto essere dei beni per poter avere un
significato per lo scambio. Mentre le merci implicano un trasferimento di denaro in cambio
di qualcos’altro, il dono non ha prezzo. In che modo allora, nel nostro mondo di merci
spersonalizzate, possiamo trasformare questi oggetti privi di significato in beni personali
che comunichino qualcosa dell’identità dell’acquirente? Secondo Carrier, noi trasformiamo
le merci in beni attraverso il processo di appropriazione: l’acquirente sceglie cosa è giusto
per sé e cosa è giusto per chi deve ricevere un dono.

3.5 In che modo gli individui difendono la propria identità quando sono minacciati?
Nella definizione dell’identità, può talvolta avvenire che un gruppo non accetti la propria
posizione nel panorama sociale, e che per questo si crei quella che Anthony Wallace e
Raymond Fogelson hanno chiamato “lotta per l’identità”, che consiste appunto in una serie
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di interazioni in cui si ha una divergenza tra l’identità che si ritiene di possedere e quella
che viene riconosciuta dagli altri. Un esempio di lotta per l'identità è dato dallo scambio
moka che si effettua presso i Melpa, che vivono negli Altopiani centrali di Papua Nuova
Guinea. In questa società gli uomini vivono coltivando patate dolci e allevando maiali.
L'identità più importante nel panorama sociale è quella dei “BigMen”, dei capi molto ricchi
(in termini di maiali posseduti) che godono della massima indipendenza dagli altri; per
diventare un Big Man non è sufficiente la ricchezza, ma occorre dimostrare coraggio in
guerra. Tuttavia, l'abilità maggiore che viene richiesta ad un Big Man è quella di saper
condurre uno scambio moka: esso è una forma di scambio cerimoniale di doni, in cui
qualcuno all'inizio fa un regalo ad un partner commerciale il quale dà in cambio più di
quanto ha ricevuto. Gli scambi coinvolgono maiali, conchiglie, piume di uccello, sali, oli per
le decorazioni, lame d'ascia in pietra (oggi anche: dollari australiani, biciclette, bestiame e
autocarri). La caratteristica principale dello scambio moka, nonché il criterio per stabilire lo
status di un Big Man, è che si deve restituire al partner commerciale più di quanto si è
ricevuto. Dunque questo tipo di scambio fa sì che una delle due parti sia sempre in debito
verso l'altra, ed è proprio lo scambio incrementale del debito che permette ad un uomo di
dire che ha fatto moka, e che dunque egli possiede uno status superiore.

CASE STUDY N.3: FAT TALK («PARLIAMO DI GRASSO»)

Una delle caratteristiche più importanti dell’identità è rappresentata dall’aspetto fisico.


L’aspetto fisico ritenuto “migliore” varia nelle varie culture e nelle diverse epoche. Oggi,
nella cultura occidentale, chi è magro è ritenuto migliore di chi è sovrappeso. Il peso
rappresenta un handicap, ad esempio, in ambito scolastico: tra gli insegnanti è diffusa la
convinzione che i bambini sovrappeso abbiano più problemi comportamentali rispetto agli
altri e che siano meno apprezzati. In età adulta, i “chili di troppo” fanno sì che si debba
spesso fronteggiare ambienti lavorativi ostili e discriminazioni professionali, nonché scarsa
ammirazione (se non opinioni negative) da parte degli altri colleghi. Per prevenire questo
genere di problematiche, le persone cercano costantemente di raggiungere il tipo di
corporatura ideale. Il peso è anche un indicatore per la salute: il CDC (centro per il
controllo delle malattie) americano rende noto che il 64% degli americani adulti è soggetto
a sovrappeso e obesità, e che il peso medio cresce sempre più. La ragione per cui un
numero sempre maggiore di soggetti è sovrappeso/obeso è relativa a diversi aspetti:
innanzitutto, un ruolo rilevante è svolto dall’industria alimentare che spinge le persone a
mangiare sempre di più; dopodiché, aumenta il consumo di cibi pronti, più grassi e più
rimunerativi per le industrie; infine, non va trascurata la diminuzione del tempo dedicato
all’esercizio fisico a dispetto del numero crescente di ore trascorse in lavori sedentari.
L’antropologa Mimi Nichter si è dedicata allo studio del rapporto tra immagine di sé e
aspetto fisico, occupandosi di alcune studentesse dell’Arizona. Nel suo lavoro di ricerca, ha
rilevato che queste ragazze seguono una filosofia del tipo “magro è bello, grasso è brutto”
e pensano che essere a dieta sia l’unica strada perseguibile per essere felici e in forma. Il
90% delle ragazze bianche si è dichiarata infatti non soddisfatta del proprio peso. Ma cosa
nasce questa insoddisfazione? Le adolescenti che Mimi Nichter ha studiato si erano create
l’idea di corpo perfetto basandosi su quanto vedevano in televisione, al cinema, sulle
riviste e rifacendosi al modello della “Barbie”. Il corpo perfetto è dunque quello di una
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donna alta (1,73 m), con capelli lunghi (preferibilmente biondi), gambe lunghe, ventre
piatto, carnagione chiara, e “bei vestiti”. Ciò che comunque conta di più è il peso, che
costituisce una prerogativa primaria per ottenere felicità e popolarità. Pur non parlando
spesso di peso con le compagne ritenute grasse, le ragazze le giudicavano, ritenendo che le
persone sovrappeso possono perdere peso se realmente lo vogliono e si impegnano,
dunque, non riuscire a dimagrire significa non preoccuparsi del proprio aspetto o essere
pigri. Le discussioni con le studentesse erano spesso improntate alla mancanza di rispetto
nei confronti delle ragazze sovrappeso. Le ragazze intervistate esprimevano le loro angosce
relative all’immagine corporea attraverso quello che questa antropologa ha chiamato “fat
talk” (discorso sul grasso). Un tipico “discorso sul grasso” inizia con una frase come “Sono
così grassa” a cui seguono le risposte delle altre, che in genere sono del tipo “Ma no che
non lo sei!”: il fat talk, infatti, si presenta come un’alternarsi di frasi ritualizzate sul tema
del peso. Esso assolve diverse funzioni: l’affermazione “sono così grassa” può celare una
richiesta d’aiuto alle altre perché queste rispondano che non è affatto vero; può essere un
modo per attirare l’attenzione degli altri su caratteristiche negative prima che questi le
notino da sé, a scopo difensivo, oppure una pubblica dimostrazione che si tiene al proprio
aspetto fisico; ancora, in fila in mensa, si può utilizzare per dimostrare di essere
consapevoli della necessità di limitarsi nel mangiare; infine, è un modo per esprimere
solidarietà reciproca, per mostrare di condividere le stesse preoccupazioni ricavandone un
guadagno a livello relazionale. Anche le ragazze che non sono sovrappeso si sentono
tenute a prendere parte a questi discorsi, per evitare di sentirsi escluse o di apparire
soddisfatte del proprio corpo: la frase pronunciata dalle altre “sei così magra, tu!” non è
altro che un’accusa. Il fat talk riguarda anche i programmi per la dieta, anche se, nota
Nichter, nonostante si parli molto di dieta in realtà non si osserva un’analoga applicazione
pratica. Il fat talk testimonia la tendenza delle donne, nella società occidentale, a
sottoporre se stesse e in particolare la propria immagine corporea ad una costante
valutazione. Parlare di grasso, anche quando in realtà non si sta facendo nulla per
cambiare il proprio aspetto fisico, è un modo, per le donne, per affermarsi e per il
riconoscimento rituale che l’aspetto fisico è la caratteristica fondamentale della loro
identità. Tuttavia, durante la sua ricerca, Mimi Nichter ha scoperto che, a differenza delle
ragazze bianche, le ragazze afroamericane erano soddisfatte del proprio peso (come ha
dichiarato il 70% di loro) e non parlavano così spesso di dieta e aspetto fisico, inoltre in
media gli afroamericani non ritengono che sia poco salutare essere sovrappeso. La donna
ideale non è definita in base al suo aspetto fisico ma alla sua personalità.
La visione negativa del proprio aspetto fisico e il chiodo fisso del peso vengono resi
problematici da alcuni fattori; la prima difficoltà incontrata richiede di rimanere magri in
una società in cui prevale il “cibo spazzatura”. Nella scuola in cui Mimi Nichter ha svolto la
sua ricerca, i cibi più comuni erano pizza e patatine fritte, un pasto “sano” era invece
composto da una barretta al cioccolato e una Coca Cola Light; durante il pranzo, il 20%
delle ragazze mangiava patatine fritte, un ulteriore 20% non mangiava nulla o beveva
qualcosa, l’8% prendeva un gelato o un barretta e solo il 6% mangiava un’insalata. La
diffusione delle bevande gassate è un ulteriore fattore che complica la situazione: secondo
una stima, bambini e adolescenti assumono più di 242 litri di bibite in un anno, di cui gran
parte contenenti caffeina. Ulteriore elemento di difficoltà è costituito dal fatto che in
famiglia le ragazze subiscono costanti valutazioni sul loro peso e giudizi negativi sul loro
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aspetto fisico: ben un terzo delle ragazze riferiva di subire giudizi negativi da parte dei
fratelli o dei genitori. Le ragazze con parenti sovrappeso ritenevano di essere vittime di una
“maledizione” e cercavano per questo di sfuggire al destino toccato ai loro familiari
tenendo sempre sotto controllo la linea e facendo molta attività fisica. Dai discorsi delle
madri e di altri parenti, le ragazze imparavano che le preoccupazioni per il peso persistono
per tutta la vita e ciò alimentava la loro ossessione per il peso.
Mimi Nichter è così giunta alla conclusione che la scuola e la famiglia non informano in
modo adeguato le ragazze sul processo di sviluppo, sull’importanza di mangiare bene e di
fare attività fisica, e non insegnano loro ad osservare con uno sguardo critico i modelli di
bellezza propinati dai mass media. La scuola, dal suo canto, ha favorito l’accesso ai cibi
grassi e alle bevande gasate attraverso i distributori automatici. Per affrontare questi
problemi, Mimi Nichter ha chiesto alle ragazze che tipo di programma avrebbero preferito,
e così le ragazze hanno espresso al volontà di ricevere maggiori informazioni
sull’alimentazione corretta e sull’attività fisica; inoltre, esse hanno sostenuto l’importanza
di coinvolgere nel programma le studentesse di tutte le classi. L’obiettivo che il programma
perseguiva era quello di informare le ragazze, aiutarle ad analizzare il loro consumo
eccessivo di bevande gasate e contenenti caffeina, e così via. Il primo step però consisteva
nel far comprendere alle ragazze quanto le immagini propinate dai mezzi di comunicazione
di massa fossero irrealistiche, facendo sì che esse apprezzassero la varietà di forme fisiche
della realtà concreta. Si è cercato di spiegare loro in che modo i mass media cercano di
minimizzare le differenze tra le modelle per renderle tutte simili a un modello fisico ideale.
Le ragazze hanno discusso tra loro su come le loro concezioni di bellezza danneggiavano i
loro rapporti, favorendo la nascita di gelosie e conflitti; è stato mostrato loro come nelle
diverse culture cambi il concetto di bellezza e come le immagini dei mass media
intervengano nel creare un senso di inadeguatezza e insoddisfazione anche in chi è bianca,
bionda e magra. Le ragazze hanno poi discusso di immagine corporea in senso collettivo e
hanno ascoltato le ragazze afroamericane le quali hanno spiegato il loro concetto di
bellezza e di stile. Alcune lezioni hanno anche toccato i temi della nutrizione, con
valutazioni dietologiche e dimostrazioni pratiche in cucina, e le ragazze hanno analizzato i
diversi cibi e spiegato i criteri su cui si basavano per sceglierli. Altre lezioni hanno invece
riguardato l’attività fisica, con esercitazioni in palestra; inoltre una specialista di danza
africana ha parlato alle ragazze di movenze del corpo e di autostima, di come muoversi con
grazia e con disinvoltura (le quali provengono dall’interno, e non sono legate all’aspetto
esteriore). Infine, sono state coinvolte le famiglie: la maggior parte dei genitori non era
stata in grado di spiegare alle proprie figlie che l’aumento di peso sia un normale aspetto
della pubertà; è stato spiegato loro che il loro parlare eccessivamente di diete portava le
ragazze ad essere insoddisfatte del proprio corpo, ed è stata messa in rilievo la necessità di
un maggiore controllo da parte dei genitori sulla dieta (solo il 26% delle ragazze cenava
tutte le sere in famiglia, la frequenza dei pasti consumati insieme diminuiva all’aumentare
dell’età e la maggior parte delle volte le ragazze sceglievano da sole cosa mangiare).
Non ci è ancora dato sapere se il programma di Mimi Nichter abbia sortito gli effetti
sperati, ciò che però possiamo mettere in evidenza è che l’antropologia può aiutarci a
mettere in luce argomenti altrimenti trascurati e identificare temi che le famiglie devono
affrontare.

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CAPITOLO 4
MODELLI DI RELAZIONI PARENTALI

Introduzione. Soap opera e rapporti parentali


Per riuscire a capire le dinamiche familiari nelle varie società, è necessario sapere come è
costituito il nucleo familiare tipico, in che modo la famiglia si forma e si mantiene, quale
ruolo assumono sessualità, amore e ricchezza, e quali elementi minacciano l’unità
familiare. Per riuscire a comprendere tutti questi fattori, analizzeremo i modelli familiari di
tre società: gli Ju/wasi, gli abitanti delle isole Trobriand e la famiglia tradizionale contadina
in Cina, basandoci su dati antropologici relativi al passato.

4.1 In che modo è costituito il gruppo familiare tipico?


Parliamo innanzitutto di come è costituito il nucleo familiare. Esistono principalmente tre
sistemi di discendenza: quello cognatico o bilaterale (ovvero attraverso entrambi i
genitori), quello matrilineare (che segue esclusivamente la linea femminile) e quello
patrilineare (che segue esclusivamente la linea maschile). La famiglia degli Ju/wasi segue la
discendenza bilaterale. La vita è organizzata in gruppi che variano da 10 a 40 persone, che
praticano le attività di caccia e raccolta in un territorio in cui è presente una riserva di
acqua. Tali gruppi si organizzano attorno ad una coppia fratello-sorella che rivendicano il
possesso di tale riserva d’acqua. A tale coppia, si aggiungono, nell’accampamento, i loro
coniugi e i parenti dei coniugi. Il gruppo familiare di base è comunque costituito dalla
famiglia nucleare formata da marito, moglie e figli, i quali passano la maggior parte del
tempo con la madre. Gli Ju/wasi sono consapevoli del fatto che la gravidanza sia data dai
rapporti sessuali, e ritengono che il concepimento avvenga alla fine del ciclo mestruale
della donna, dall’unione del seme dell’uomo con l’ultimo sangue mestruale. Un aspetto
rilevante è la presenza del “bride service”: quando una coppia si sposa, lo sposo va a vivere
nell’accampamento dei suoi “suoceri” dove lavora per loro per almeno 10 anni.
Gli abitanti delle isole Trobriand vivono in circa 80 villaggi formati da 40 a 400 persone;
ogni villaggio a sua volta è suddiviso in villaggi più piccoli, ognuno dei quali è idealmente
costituito da un matrilignaggio (dala), ovvero un gruppo di uomini legati tra loro attraverso
la linea femminile assieme alle mogli e ai figli celibi. I matrilignaggi sono legati tra loro da
relazioni di tipo gerarchico e il capo di ogni villaggio è il maschio più anziano appartenente
al matrilignaggio di rango superiore. Essendo qui presente la regola di discendenza
matrilineare, gli abitanti delle isole Trobriand ritengono che l’uomo non abbia alcun ruolo
nel concepimento. Essi credono infatti che quando una persona muore, la sua anima (o
spirito) ritorni giovane e vada a vivere nell’isola Tuma; qui essa invecchia, ma si rigenera
bagnandosi nel mare. Mentre la pelle si rinnova, si crea uno spirito bambino detto
“baloma”, che ritorna nel mondo dei vivi penetrando nell’utero di una donna del suo
stesso matrilignaggio; tale penetrazione avviene attraverso la testa oppure trasportando il
baloma nell’utero dall’acqua: quando una donna desidera avere un figlio, suo fratello porta
un secchio d’acqua nella sua abitazione (il concepimento, infatti, richiede il consenso del
fratello). Tali credenze sul concepimento vengono giustificate, come testimoniato da
Malinowski, portando numerosi esempi di donne rimaste incinte senza aver avuto rapporti
sessuali e di donne che, pur essendo note per la loro licenziosità, non avevano avuto
bambini. Annette Weiner, che si è occupata di questa popolazione negli anni ’70 del
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Novecento (ovvero 40 anni dopo la ricerca di Malinowski), ha riferito che i trobriandesi non
negavano più la paternità fisiologica. In questo tipo di famiglia, le relazioni di parentela più
importanti sono quelle che si istaurano tra fratello e sorella: il padre appartiene ad un altro
gruppo familiare. La maggiore importanza del gruppo familiare esteso matrilineare rispetto
alla famiglia nucleare determina anche una diversa terminologia di parentela: viene
utilizzato lo stesso termine per parlare di tutte le donne del proprio matrilignaggio della
stessa generazione, e analogamente le donne utilizzano lo stesso termine per riferirsi al
proprio fratello e a tutti i maschi del suo matrilignaggio e della stessa generazione.
L’eredità, in un tale sistema matrilineare, non viene ereditata dal padre, ma ogni uomo
eredita le proprietà dai fratelli della madre con cui idealmente andrà a vivere (regola di
residenza “avuncolocale”).
In Cina, la vita familiare si basa sul gruppo domestico patrilineare esteso, formato da una
coppia marito-moglie, i loro figli maschi sposati (e relativi moglie e figli) e le figlie nubili.
Tale patrilignaggio si dispiega nel tempo e nello spazio: l’identità di ciascun maschio è
definita della sue relazioni con i familiari defunti e in vita, e la sua posizione sociale è
determinata dalle azioni dei suoi antenati. Per tale ragione, le persone in vita onorano gli
antenati bruciando per loro banconote, carta-tela e altri oggetti cartacei in cerimonie
rituali di fronte all’altare domestico. Di cruciale importanza, per un uomo, è avere dei
discendenti maschi che si occupino di lui durante la vita e dopo la morte: da ciò deriva la
netta predilezione per i maschi. Un gruppo domestico cinese ideale dovrebbe
comprendere numerose generazioni di padri e figli maschi che condividono il focolare
domestico e un altare per gli antenati, che rappresentano i simboli della vita familiare.

4.2 Come si formano le famiglie e come si mantengono i tipi familiari ideali?


Vediamo ora come si forma la famiglia e come si mantiene il tipo di famiglia ideale. E’
possibile notare che, al di là della regola di discendenza prevalente, in tutte le società la
famiglia si forma sulla base dell’unione socialmente riconosciuta tra un uomo e una donna,
unione che generalmente prende la forma di matrimonio. La nozione di famiglia tuttavia
non ha un significato così scontato: diverse sono state le teorie a riguardo; dagli anni 30 è
emersa l’immagine della famiglia come unità strutturale alla base dei sistemi di parentela
composta da marito, moglie e figli (naturali o adottati) che convivono; secondo Murdock,
la famiglia è un gruppo sociale universale caratterizzato da residenza comune,
cooperazione economica, riproduzione, funzioni vitali; secondo Lévi-Strauss, una famiglia è
il risultato dell’alleanza tra due famiglie attraverso il matrimonio di due dei loro membri
che ne determina al contempo la divisione. A partire dagli anni ’60, è stata evidenziata
l’incompletezza di simili teorie e l’indagine etnografica ha cercato di capire se la famiglia
costituisce un’unità identificabile, suggerendo l’utilizzo di termini meno etnocentrici e più
flessibili, come “gruppo domestico”, o specifici, come “household” (gruppo di residenti), o
“comunità domestica”. Negli anni Settanta, l’antropologia ha rinunciato a ricercare un
“nocciolo irriducibile della famiglia”. L’utilizzo della locuzione “gruppo domestico” mette in
gioco due questioni: una questione residenziale (termine “domestico”) e una comunitaria
o sociale (termine “gruppo”), e in tal senso esso fa riferimento a come le varie società
immaginano, inventano, costruiscono diversi modi di “stare insieme”. Il concetto di gruppo
domestico consente di operare una distinzione tra famiglia e matrimonio, e ci induce a
soffermarci su alcuni aspetti: 1. Ci sono società che ammettono diversi modelli familiari; 2.
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Ci sono società che pur ammettendo più modelli familiari li pongono in ordine gerarchico;
3. Ci sono società in cui si ammette un solo modello; 3. Ci sono società che ammettono un
unico modello e fanno di tutto per impedirlo alle altre. Tornando all’iniziale definizione di
come si forma una famiglia, abbiamo detto che nella maggior parte dei casi essa si basa sul
matrimonio. Il matrimonio non avviene nello stesso modo in tutte le società; la scelta del
partner, ad esempio, non si basa solo sull’amore e sull’attrazione sessuale, ma possono
intervenire anche altri fattori. Tra questi, ad esempio, vi possono essere delle norme sociali
che stabiliscono chi è possibile e chi non è possibile sposare: parliamo di endogamia
quando una società impone che il matrimonio avvenga tra persone appartenenti allo
stesso gruppo (clan, lignaggio, casta, famiglia, etc), parliamo invece di esogamia quando
una società impone che il matrimonio avvenga tra persone facenti parte di gruppi
differenti. Le definizioni di endogamia ed esogamia richiedono che venga specificato il
gruppo al quale la norma si riferisce. Connesso al concetto di esogamia, è il tabù
dell’incesto: quasi tutte le società vietano ai propri membri di avere rapporti sessuali con
specifiche categorie di parenti. Le spiegazioni date all’universalità della proibizione
dell’incesto sono di diverse: biologiche, psicologiche, sociologiche. Alcuni ritengono che la
funzione del tabù dell’incesto sia quella di proteggere e salvaguardare la specie dai danni al
feto provocati dalle unioni tra consanguinei; altri invece ritengono che la familiarità dei
rapporti tra consanguinei determini un’istintiva repulsione e mancanza di eros (ma, se
l’incesto fosse naturalmente rifiutato, perché proibirlo?); secondo alcune spiegazioni
sociologiche, la proibizione dell’incesto sarebbe associata al ratto delle donne e dunque
alle regole dell’esogamia; Durkheim ipotizzava che fosse la comune appartenenza totemica
a generare l’avversione al contatto fisico tra membri dello stesso clan; secondo Lévi-
Strauss, invece, la proibizione dell’incesto rappresentava il primo passo verso il passaggio
dallo stato di natura allo stato di cultura. Fox tuttavia fa notare che proibizione dell’incesto
ed esogamia vanno studiate separatamente, in quanto l’impossibilità di due persone di
sposarsi non determina che queste non possano avere rapporti sessuali; l’incesto, secondo
questo studioso, più che proibito è evitato e raramente viene sanzionato. Infine, non
dimentichiamo le differenze presenti nelle diverse società relativamente al numero di
persone che è possibile sposare: a tal proposito, parliamo di monogamia, quando si può
avere un solo coniuge, e di poligamia quando si possono avere più coniugi (distinguiamo
due forme di poligamia: poliginia, quando un uomo può sposare più donne, e poliandra,
quando una donna può sposare più uomini).
Per ciò che riguarda il ciclo familiare degli Ju/wasi, in questa società l’approccio delle
donne e degli uomini al corteggiamento, al sesso e al matrimonio inizia molto presto: le
prime esperienze sessuali avvengono a 15 anni circa, e gli uomini si sposano (per la prima
volta) tra i 18 e i 25 anni. Il matrimonio assume per l’uomo un ruolo rilevante: lo identifica
come una persona adulta, gli permette di avere una partner sessuale e una compagna per
procurarsi il cibo (mentre gli uomini sono tenuti a condividere con gli altri membri
dell’accampamento ciò che cacciano, le donne non sono sottoposte a questa regola). Le
ragazze si sposano a 12-14 anni, quando non hanno ancora raggiunto la maturità sessuale;
per queste il matrimonio non presenta particolari vantaggi, in quanto possono avere in
ogni caso degli amanti e il cibo procurato dagli uomini viene distribuito a tutti; i genitori di
una ragazza però sono propensi a far sposare le proprie figlie prima possibile per godere
dei benefici del brideservice, ma anche perché il matrimonio comporta un’alleanza con
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un’altra famiglia riducendo le possibilità di conflitti tra gli uomini riguardo alla figlia. Il
matrimonio viene organizzato dai genitori degli sposi, che cercano di scegliere un uomo
non troppo vecchio che sia un buon cacciatore e sia in grado di assumersi le responsabilità.
È poi necessario ottenere il consenso della sposa: le ragazze spesso si oppongono al
matrimonio. I membri delle due famiglie costruiscono per gli sposi una capanna, in cui i
due passeranno la prima notte di nozze, preceduta da balli e canti con gli amici. Se la
ragazza è molto giovane, avviene spesso che una parente si trattenga con gli sposi finché
questa non inizia ad abituarsi al nuovo status (soluzione che da vita a continui conflitti).
Circa la metà delle prime unioni si conclude con una separazione, anche se gli Ju/wasi si
sposano diverse volte durante la loro vita.
Nelle isole Trobriand, i primi giochi erotici vengono praticati a 7-8 anni e il corteggiamento
inizia a 11-13 anni. L’attrazione viene espressa apertamente dagli adolescenti e i rapporti
sessuali prima del matrimonio sono diffusi e previsti, e ciò fa sì che la coppia inizi a
convivere prima. I genitori possono influenzare la scelta del coniuge, possono anche
trovare la persona più adatta; va comunque rispettata l’esogamia rispetto al clan. La
moglie ideale per un uomo appartiene al clan del padre: in questo modo, i suoi figli
saranno membri del clan paterno. Il matrimonio non prevede una cerimonia formale, ma è
sufficiente che la ragazza passi la notte nella casa del suo compagno. La mattina successiva,
se la famiglia della sposa approva il matrimonio, la madre della sposa porta alla coppia
dell’igname (un tubero simile alla patata dolce) cotto e in seguito crudo, mentre il padre e
lo zio materno dello sposo iniziano a raccogliere il bridewealth (= ricchezza della sposa),
formato dai beni che verranno donati ai parenti della sposa. Durante il primo anno di
matrimonio, la coppia vive nella capanna in cui lo sposo si rifugiava da adolescente e la
madre dello sposo porta loro del cibo; terminato questo periodo, essa costruisce un
focolare di pietra che la sposa da quel momento utilizzerà per preparare il cibo. Avviene
poi un altro cambiamento importante: i coniugi smettono di mangiare insieme e la
sessualità deve essere nascosta, così come tutte le dimostrazioni pubbliche d’affetto. La
regola di discendenza matrilineare fa sì che i due sposi mantengano sempre vivi i rapporti
con i rispettivi matrilignaggi, rapporti che si basano sulla ricchezza (possesso di igname,
mazzi e gonne di foglie di banano) controllata dalle donne. I terreni familiari con l’igname
appartengono alle donne ma vengono coltivati dal padre e poi da un “fratello”; ogni anno,
l’igname raccolto viene donato alla donna proprietaria del terreno attraverso una
cerimonia rituale: la quantità e la qualità dell’igname coltivato dal fratello è proporzionale
al bridewealth. Nel primo periodo del matrimonio, l’igname viene conservato sotto la
struttura di sostegno della capanna della coppia, e il marito lo dona a parenti che hanno
contribuito al bridewealth; dopodiché, passati 10 o 15 anni, se l’uomo viene ritenuto
importante dai parenti della moglie, essi costruiscono una casa in cui questi potrà mettere
l’igname che gli donano ogni anno: da ciò deriva che la quantità e la qualità dell’igname
che un uomo possiede sono un indice della considerazione di cui gode presso i parenti
della moglie nonché del suo status all’interno della comunità. La famiglia nucleare si fonda
sul legame duraturo tra marito e moglie; il divorzio avviene generalmente per iniziativa
della donna e nel primo anno di matrimonio. Dopo lo svezzamento, i bambini dormono con
il padre il quale si occupa della loro bellezza utilizzando ornamenti di conchiglie, collane,
orecchini di guscio di tartaruga; così si costruisce un legame molto forte tra figli e padre,

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quest’ultimo può chiedere al figlio di rimanere, dopo il matrimonio, nel suo villaggio
anziché spostarsi in quello della madre.
In Cina, la famiglia si fonda sulla relazione padre-figlio, e il matrimonio, più che
rappresentare l’unione tra un uomo e una donna, rappresenta l’ampliamento della propria
famiglia tramite una persona che ne garantisca la discendenza. I matrimoni sono
generalmente combinati, e ciò fa sì che non vi sia quasi mai il corteggiamento. Quando un
bambino raggiunge i 6 o 7 anni di età, i genitori si rivolgono ad un sensale perché li aiuti a
trovare una ragazza destinata a diventare la moglie di suo figlio; possono inoltre affidarsi
ad un indovino, sulla base della convinzione che il momento della nascita determini la
personalità e il destino di una persona. Il sensale porta un foglio rosso con l’ora e la data di
nascita della ragazza e questo foglio viene portato dalla madre ad un indovino, il quale ha il
compito di determinare la compatibilità del ragazzo e della ragazza. Se la ragazza è ritenuta
adatta, allora il sensale cerca di convincere i suoi genitori ad approvare l’unione, e se ciò
avviene si stabilisce il bridewealth, cioè i doni matrimoniali della famiglia del marito a
quella della moglie. Un’alternativa a questo sistema consiste nell’adottare una bambina
che verrà allevata nel gruppo domestico e poi sposerà il figlio. Questa alternativa è
vantaggiosa sotto due punti di vista: innanzitutto, la futura sposa, essendo cresciuta
all’interno del gruppo domestico della futura suocera, sarà probabilmente obbediente; in
secondo luogo, per una nuora adottata non è necessario pagare il bridewealth. Dall’altro
lato però tale soluzione presenta un inconveniente: poiché i futuri sposi crescono insieme
come fratello e sorella, spesso trovano difficile passare al ruolo di marito e moglie. Esiste
infine una terza alternativa: adottare un ragazzo che sposerà la figlia; tale soluzione è
applicabile solo quando in famiglia non ci sono figli maschi. Il matrimonio avviene
attraverso una cerimonia molto formale e molto costosa per la famiglia dello sposo; la data
e l’ora del matrimonio, nonché l’esatto momento in cui la sposa arriva nella sua portantina
sono stabiliti da un indovino. Il giorno prima del matrimonio, la dote della sposa, composta
da alcuni beni ma che mai comprende terreni o la casa, viene portata nella casa dello
sposo in corteo. Il giorno del matrimonio, lo sposo viene condotto in portantina a casa
della sposa, dove questa si mostra sofferente per la separazione dalla madre; dopodiché, la
sposa viene condotta, in una portantina rossa con decorazioni di buon auspicio per la
nascita imminente di figli, a casa dello sposo dove avviene la presentazione ufficiale ai
genitori di quest’ultimo. Vengono presentate delle offerte all’altare degli antenati per
assicurare la riuscita del matrimonio. Le nozze sono contornate da festeggiamenti che
possono durare anche 3 o 4 giorni. Dopo il matrimonio, i coniugi dormono insieme solo per
sette giorni e non vi è nessuna dimostrazione pubblica di affetto; la moglie, entrata a far
parte della famiglia del marito, occupa in questa il posto meno rilevante, finché non da alla
luce un figlio maschio: da quel momento in poi, il marito, che prima si mostrava
indifferente a lei, si può rivolgere alla moglie come madre del proprio figlio (la moglie è
legata al marito solo in quanto madre dei suoi figli). Il divorzio è piuttosto raro; gli uomini
possono liberamente avere delle amanti mentre sono autorizzati a uccidere le mogli se
fanno lo stesso. Una moglie non ha il diritto di divorziare, ma può lasciare il gruppo
domestico del marito, suicidarsi o prostituirsi.

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La parentela tra «biologico» e «sociale»


Lo studio della parentela è lo studio dei rapporti che uniscono gli uomini per mezzo di
legami fondati sulla consanguineità e sull’affinità. Tuttavia, è possibile notare come nelle
diverse società anche questi criteri non abbiano una definizione universale, ne deduciamo
pertanto che la consanguineità non è altro che una relazione socialmente riconosciuta, non
biologica. L’approccio della filiazione si basa sul ruolo attribuito al principio genealogico
che regola l’appartenenza ad una collettività di consanguinei, ed è stato elaborato a partire
dallo studio delle società basate sulla regola di filiazione unilineare, secondo cui la
trasmissione dell’appartenenza è determinata dal riferimento a uno solo dei due genitori;
l’approccio dell’alleanza è basato sul concetto di una relazione di complementarietà o di
opposizione tra consanguineità e affinità. Vi sono società che non rientrano nelle
descrizioni di questi due approcci, e sono quelle società a discendenza cognatica o
indifferenziata, nelle quali la trasmissione dell’appartenenza da entrambi i genitori
definisce gruppi di discendenza che si sovrappongono. I sistemi di parentela sono
indipendenti da leggi naturali, esistono solo nella mente degli uomini: sono sistemi
arbitrari di rappresentazioni. La parentela, quindi, non riproduce dei legami naturali, ma è
innanzitutto una realtà culturale. In tutte le società, la definizione della parentela tiene
conto di alcuni dati biologici: il riconoscimento della necessità di procreazione, e dunque
della successione delle generazioni; il riconoscimento del carattere sessuato degli individui
coinvolti nella procreazione e del conseguente carattere parallelo o incrociato delle
situazioni di consanguineità; il riconoscimento del fatto che più individui possono avere gli
stessi genitori, formando così una fratria. Un ordine di successione di nascite all’interno di
una stessa generazione identifica, all’interno delle fratrie, alcuni maggiori e alcuni cadetti.
E’ possibile classificare diversi tipi di sistemi di parentela in base a come vengono trattati la
parentela e i germani dei genitori (ovvero i loro fratelli e sorelle): 1. Nel primo tipo, zii e zie
vengono indicati come i genitori; 2. Nel secondo tipo, il fratello del padre è indicato come il
padre, mentre per il fratello della madre esiste un nome specifico; analogamente, la sorella
della madre è chiamata come la madre, mentre la sorella del padre è indicata con un nome
specifico; 3. Nel terzo tipo, zii e zie dal lato paterno e materno sono distinti tra loro e dai
genitori; 4. Nel quarto tipo, zii e zie dal lato paterno e materno sono indicati con lo stesso
nome, mentre i genitori sono indicati con un nome diverso; 5. Nel quinto tipo, che non è
stato riscontrato presso nessuna società, il padre e il fratello della madre sono indicati da
uno stesso termine, diverso da quello usato per indicare il fratello del padre. Un secondo
tipo di classificazione si basa sugli appellativi attribuiti da Ego ai membri della sua
generazione (fratelli, sorelle, cugini): 1. Nel primo tipo, i germani vengono indicati con
nomi diversi a seconda del sesso mentre i cugini sono indicati tutti (paralleli e incrociati)
con lo stesso termine; 2. Nel secondo tipo, germani e tutti i cugini sono indicati con lo
stesso termine; 3. Nel terzo tipo, esistono nomi specifici per germani, cugini paralleli e
cugini incrociati; 4. Nel quarto tipo, lo stesso nome indica i germani e i cugini paralleli,
mentre vi è un nome specifico per i cugini incrociati; 5. Nel quinto tipo, che non è stato mai
riscontrato, lo stesso nome indica germani e cugini incrociati, mentre vi è un nome
specifico per i cugini paralleli. Per ciò che concerne la terminologia di parentela, Morgan ha
delineato due sistemi principali: uno descrittivo, basato sulla combinazione di alcuni
termini semplici, e uno classificatorio, che distingue i consanguinei in classi di individui
indicati con lo stesso termine. Murdock ha proposto una classificazione basata sul
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trattamento differenziato dei fratelli germani (G), dei cugini paralleli (P, nati da fratelli
germani dello stesso sesso dei genitori), dei cugini incrociati (X, nati da fratelli germani di
sesso diverso). Tale classificazione, sebbene molto utilizzata ai giorni nostri, presenta i
propri limiti nel momento in cui si tiene conto delle differenze tra il sistema dei termini di
riferimento (nomi dati ai parenti DI cui si parla) e il sistema dei termini vocativi (nomi dati
ai parenti CON cui si parla); la terminologia, inoltre, può anche variare a seconda dell’età e
del sesso di Ego.

4.3 Quali sono i ruoli di sessualità, amore e ricchezza?


Vediamo ora qual è il ruolo svolto, nelle tre società che stiamo analizzando, dal sesso,
dall’amore e dalla ricchezza.
Nella vita degli Ju/wasi, marginale è il ruolo svolto dalla ricchezza. Molta importanza hanno
invece sesso, amore, bellezza. In questa società, la sessualità di una donna è il mezzo più
importante per stabilire le condizioni delle sue relazioni con gli altri e per il suo benessere:
se una ragazza crescendo non impara ad amare il sesso, si ritiene che la sua mente non
segua uno sviluppo normale, e se una donna adulta non ha rapporti sessuali, i suoi pensieri
sono sempre negativi. Avendo degli amanti, una donna afferma la propria indipendenza e il
proprio controllo sulla propria vita sociale, in quanto può offrire la propria sessualità agli
uomini infondendo vita in loro. I bambini devono poco ai loro genitori, non servono il
bridewealth o la dote per sposarsi e non mancano mai cibo o parenti che si prendano cura
di loro: le dinamiche familiari si fondano sulla necessità di evitare legami e obblighi
permanenti.
Tra gli abitanti delle isole Trobriand, la sessualità è importante per le donne solo prima del
matrimonio, quando essa può utilizzare la sua sessualità per negoziare le proprie relazioni
con gli altri. Una volta sposata, l’enfasi sulla bellezza cede il passo alla messa in risalto della
propria fertilità e maternità. Il valore di una donna, dopo il matrimonio, dipende dalla sua
capacità di raccogliere igname per il marito, di avere dei figli, di procurarsi mazzi di foglie di
banano per il matrilignaggio. La sessualità degli uomini, non avendo questi, secondo la
visione di questa società, alcun ruolo nella riproduzione, è molto meno importante; la loro
bellezza fisica è tuttavia rilevante per attirare le amanti e successivamente una moglie. Per
ciò che riguarda la ricchezza, sappiamo che nelle isole Trobriand un uomo che vuole
sposarsi deve usare la ricchezza dei membri del matrilignaggio come bridewealth da offrire
alla famiglia della sposa, ed è poi tenuto a restituire questa ricchezza ai suoi familiari
ridistribuendo l’igname che riceverà dal fratello della moglie. Questo igname rappresenta
un compenso per i figli partoriti dalla moglie, che sono membri del matrilignaggio della
moglie e di suo fratello.
In Cina, se una ragazza appartiene ad una famiglia prestigiosa e benestante ed è così
oggetto di desideri da parte degli uomini, verrà tenuta lontana da questi: la verginità ha
moltissima importanza ed è considerata indispensabile per una sposa cinese, la quale
sarebbe costretta a recarsi in un villaggio lontano se avesse già avuto un rapporto. L’amore
romantico e la sessualità non hanno alcuna importanza nella relazione coniugale, in quanto
la moglie ha l’unica funzione di generare dei figli. L’uomo, se può permetterselo, può avere
delle concubine. La sessualità non ha importanza nella vita di una donna cinese né prima
né dopo il matrimonio; tuttavia essa può stabilire delle relazioni significative in quanto
madre: stabilendo dei legami emotivi ed affettivi con i figli, una donna può assicurarsi le
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cure di questi durante la vecchiaia. Le donne che non possono avere un marito o ce lo
hanno perso, possono diventare concubine o prostitute. Le prostitute nella Cina
tradizionale non sono giudicate in modo negativo, ma sono anzi ritenute più interessanti
delle altre donne.

4.4 Quali elementi minacciano l’unità familiare?


Vediamo infine quali elementi rappresentano una minaccia per l’unità familiare.
Le minacce principali per la famiglia Ju/wasi sono costituite dal conflitto tra i coniugi per
l’infedeltà o per i tentativi del marito di avere una seconda moglie. Gli Ju/wasi ammettono
la poligamia: gli uomini possono avere più di una moglie, e le donne possono avere più di
un marito; tuttavia, essa non è molto diffusa. Essa crea infatti diverse difficoltà in famiglia.
Lo stesso non vale per l’infedeltà coniugale, la quale invece è molto diffusa: le relazioni
extraconiugali garantiscono varietà e sicurezza economica. Tuttavia, esse rappresentano la
maggiore causa di conflitti e scontri violenti tra gli Ju/wasi.
Le minacce più pericolose, nelle isole Trobriand, sono quelle al matrilignaggio: la principale
preoccupazione per tutti i membri è l’onore del gruppo familiare nei confronti di altri
gruppi. Ogni lignaggio deve conservare il proprio status nei confronti degli altri attraverso
la presentazione cerimoniale di oggetti di valore (igname e foglie di banano). I Trobriandesi
sostengono di conoscere formule magiche in grado di uccidere; generalmente, solo i capi
hanno questo potere ma gli altri possono rivolgersi ad un capo e convincerlo, sotto
compenso, a usare i suoi poteri contro un nemico. Una persona che usa la stregoneria
contro un’altra riesce a dominarla e, poiché il destino di ognuno è legato a quello del
matrilignaggio di appartenenza, ogni minaccia ad un membro del matrilignaggio è
considerata una minaccia contro il matrilignaggio intero. La morte diventa così un segno
che qualcuno appartenente ad un altro lignaggio sta sfidando il potere del matrilignaggio;
ogni funerale rappresenta il tentativo da parte dei membri del matrilignaggio di ribadirne il
potere: ciò avviene attraverso la distribuzione di mazzi di foglie di banano e di altri oggetti
di valore a coloro che prendono parte alla cerimonia funebre condividendo il cordoglio per
la scomparsa; questi doni non sono altro che il riconoscimento del loro contributo reso al
defunto quando era in vita.
La famiglia cinese è minacciata principalmente dall’assenza di un figlio maschio: tale
assenza mette in pericolo non solo l’esistenza della famiglia, ma anche l’intero
patrilignaggio nel tempo. Un uomo senza figli è uno spirito senza discendenti, ovvero senza
qualcuno che possa venerarlo, senza nessun altare in cui poter trovare rifugio.
Ciononostante, la presenza di un figlio non garantisce sempre una vita familiare tranquilla:
il padre ha un’autorità e un potere enorme sui figli, e questi sono tenuti al culto, al
rispetto, all’obbedienza, alla cura del padre. Capita spesso così che il padre diventi
opprimente o utilizzi la forza per ribadire la propria autorità. Tuttavia gli scontri tra padri e
figli sono meno frequenti di quelli tra fratelli per la divisione e l’assegnazione dei beni della
famiglia alla morte del padre. La situazione ideale è quella in cui i fratelli continuano a
vivere insieme condividendo l’eredità, sotto la guida del primogenito. In realtà però i
fratelli raramente riescono a gestire insieme l’eredità e così, dopo vari scontri, questa
viene ripartita.

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CASE STUDY N.4: COMBATTERE LA DIFFUSIONE DELL'AIDS

Le conoscenze antropologiche sulle relazioni possono essere applicate allo studio, alla
prevenzione e alla cura di malattie sessualmente trasmissibili, in particolare dell’AIDS. Il
problema principale da affrontare consiste nel convincere le persone sessualmente attive a
proteggere se stessi e il proprio partner. L’uso del preservativo, pur essendo semplice e
comune, non è molto diffuso neanche tra le persone consapevoli di incorrere nel rischio di
contrarre una malattia sessualmente trasmissibile. Hector Carrillo, nel libro “The Night is
Young: Sexuality in Mexico in the Time of AIDS”, descrive la sua ricerca, svoltasi appunto in
Messico, sulle barriere culturali che ostacolano la diffusione e l’attuazione dei programmi
di prevenzione per l’AIDS. I ricercatori rilevarono che i giovani avevano in media 1,8
partner sessuali all’anno e avevano utilizzato il profilattico con l’ultimo partner sessuale
solo la metà delle volte; i tossicodipendenti avevano in media 14,8 partner all’anno e
utilizzavano il preservativo meno del 40% delle volte; gli omosessuali avevano in media 8,6
partner all’anno e non usavano protezioni per più del 20% delle volte; le professioniste del
sesso utilizzavano il preservativo in non più del 15% dei rapporti. I programmi tradizionali
per la prevenzione dell’AIDS si basano generalmente su seminari, corsi, campagne,
opuscoli informativi e partono dal presupposto che, se le persone sanno cos’è l’AIDS e
discutono apertamente dei pericoli e dei mezzi per prevenire il contagio, prenderanno le
giuste precauzioni. Tale presupposto si basa sulle teorie comportamentiste che ritengono
che le persone agiscano sempre in modo razionale, in altre parole, che le persone, se
informate su un pericolo, modificano il loro comportamento in modo da ridurre i rischi.
Siffatti programmi di prevenzione non riescono ad attecchire in Messico perché un insieme
di fattori culturali fa sì che le persone non s comportino in modo “razionale” pur
conoscendo i rischi. Gli specialistici che si occupano di tali programmi, ad esempio,
sostengono che i partner sessuali debbano parlare apertamente della loro preoccupazione
per il contagio. Tuttavia ciò collide con il “codice del silenzio” vigente nella famiglia
messicana: genitori e figli parlano raramente di sesso; i ragazzi imparavano qualcosa su
questo tema dagli amici o dai media, trovandosi spesso di fronte a informazioni sbagliate;
gli omosessuali cercavano di nascondere il più possibile il loro orientamento sessuale. Non
si parla apertamente di sesso ma solo attraverso barzellette o giochi di parole, con
riferimenti allusivi. Il silenzio e i giochi di parole si oppongono ai messaggi sulla salute
pubblica che evidenziano il bisogno di una comunicazione diretta.
Un altro elemento che riduce il successo dei programmi di prevenzione è costituito dalla
relazione tradizionale per cui si ritiene che le donne debbano essere sottomesse agli
uomini sia nella famiglia che all’esterno. Le famiglie messicane sono patriarcali e
caratterizzate dal machismo, ovvero dall’eccessiva ostentazione della virilità, che
presuppone che la donna sia sottomessa all’uomo, il quale è libero di avere rapporti
sessuali extraconiugali. Tale modello si estende anche alle relazioni omosessuali: il partner
sessuale (maschio) attivo (ovvero che attua la penetrazione) conserva il suo machismo,
mentre quello passivo (ovvero che viene penetrato) viene considerato un “maricon”
(“finocchio”). Carrillo rileva che gli omosessuali nascondono il loro orientamento sessuale
ponendo se stessi in uno status di seconda classe; essi vengono però accettati in reti sociali
e luoghi di ritrovo. La differenza di potere tra i due partner sessuali è tra le maggiori cause
del rischio di AIDS, soprattutto per le donne nel momento in cui il partner con più potere
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non vuole utilizzare il profilattico. Una donna “seria” non ha esperienza sessuale; se una
donna chiede di utilizzare il preservativo, l’uomo pensa che abbia già avuto delle
esperienze sessuali e viene considerata una “facile”, e questo scoraggia le donne dal fare
questo tipo di richieste. Lo stesso vale per gli uomini che accettano un ruolo passivo in
rapporti omosessuali.
La richiesta di utilizzare il preservativo viene evitata anche perché si teme possa essere
interpretata come una mancanza di fiducia o come un segno di infedeltà, e simili
interpretazioni divengono più credibili se i partner non hanno mai usato il preservativo nei
rapporti precedenti o se si frequentano già da qualche tempo. Così capita che una persona
accetti di avere rapporti non protetti pur di non destare sospetti.
L’uso del profilattico è impedito anche dalle credenze e dagli atteggiamenti relativi a sesso,
amore e passione. Un rapporto sessuale soddisfacente prevede che ci si lasci andare, che ci
si abbandoni, allontanando ogni pensiero razionale in quanto la razionalità potrebbe
distruggere il piacere sessuale. Il sesso-passione si distingue dal sesso sicuro o razionale, e
con l’AIDS e altre malattie sessualmente trasmissibili, è necessario praticare il secondo. A
tal proposito, Carrillo sostiene che vi sono due punti di vista conflittuali sul rapporto
sessuale: il primo pone l’accento sul desiderio sessuale, sulla passione erotica e sull’amore
e quindi enfatizza le emozioni, la dinamica della relazione sessuale e il valore della ricerca
di conferma, soddisfazione e comunione con il partner sessuale; il secondo, che è quello
proprio della letteratura relativa alla prevenzione dell’AIDS, è estremamente medicalizzato
e enfatizza razionalità, scelta consapevole, autocontrollo e salute sessuale.
I comportamenti sessuali tradizionali dei Messicani erano insoddisfacenti per alcuni: le
donne non volevano più essere subordinate ai maschi, gli omosessuali non volevano più
nascondersi e i giovani volevano parlare più apertamente. Secondo Carrillo, occorreva
rendere le persone più consapevoli dei fattori che possono impedire di praticare il sesso
sicuro e del modo in cui le loro idee e quelle degli altri su sesso, intimità e fiducia
aumentano il rischio di contrarre l’AIDS. Per un programma di prevenzione che si riveli
efficace, bisogna tenere sempre presente il rischio dell’infezione, essere in grado di agire di
fronte al rischio, potere utilizzare (o chiedere di utilizzare) il profilattico rifiutandosi di
assumere comportamenti che espongono al rischio di infezioni. Le indicazioni di Carrillo
hanno permesso a Richard Parker e a suoi collaboratori dell’Associazione Brasiliana
Interdisciplinare sull’AIDS (ABIA) di realizzare un programma di prevenzione. Esso si
rivolgeva ai professionisti del sesso e mirava a renderli consapevoli delle barriere culturali
che si oppongono alla prevenzione e ad aiutarli a trovare fonti di reddito diverse dal sesso.
L’obiettivo di questo programma era quello di far conoscere ai professionisti del sesso i
metodi della ricerca antropologica così da poter svolgere ricerche su temi e fattori che
influenzavano la loro vita e quella degli altri giovani. Inizialmente, i direttori del
programma insegnano la metodologia di lavoro sul campo, successivamente i partecipanti
svolgono ricerche etnografiche con altri giovani. Nella terza ed ultima fase, i giovani usano i
risultati delle loro ricerche per creare volantini, opuscoli, libri di racconti, laboratori e brevi
spettacoli, nonché testi teatrali.
Riuscire a comprendere e valutare criticamente i propri comportamenti e pensieri,
secondo una prospettiva antropologica, permette di fare le giuste scelte sul
comportamento da assumere.

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CAPITOLO 5
LA COSTRUZIONE CULTURALE DELLA GERARCHIA SOCIALE

Introduzione. Le cause della disuguaglianza sociale


Il mondo moderno è caratterizzato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, dalla
disuguaglianza sociale e dai privilegi. Per poter misurare la disuguaglianza si fa riferimento
alla distribuzione del reddito e dunque al coefficiente di Gini (dal nome dello statistico e
demografo Corrado Gini), un indice di variabilità che permette di calcolare il grado di
disuguaglianza nella distribuzione del reddito; i valori di tale coefficiente vanno da 0
(perfetta uguaglianza) a 1 (massima disuguaglianza: una sola persona percepisce il 100%
del reddito). La misurazione attraverso il coefficiente di Gini si basa sulla curva di Lorenz: se
in un grafico rappresentiamo sull’asse delle ordinate la percentuale delle famiglie e
sull’asse delle ascisse la percentuale del reddito che percepiscono, se ogni famiglia ha lo
stesso reddito (coefficiente di Gini pari a 0), la linea tracciata avrà un andamento regolare;
in realtà, nella maggior parte dei casi, non si presenta un perfetto andamento lineare ma si
ha una curva; l’area compresa tra tale curva e la linea della perfetta uguaglianza
corrisponde al coefficiente di Gini. La reale distribuzione del reddito è influenzata da
diversi fattori: il livello di industrializzazione, la natura dei sistemi economici dei paesi, la
misura in cui il sistema di imposizione cerca di ridistribuire i redditi. Alcuni studiosi
sostengono che l’appartenenza delle persone e dei gruppi a una gerarchia è inevitabile,
anzi, indispensabile in quanto la limitatezza delle risorse, la specializzazione occupazionale
e la detenzione del potere da parte di un’élite sono fattori che portano necessariamente
alla stratificazione. Altri studiosi sostengono invece che la stratificazione si può evitare e
che essa è contraria alla natura umana, in quanto porta alla formazione di una società
“anticollettiva”.

5.1 In che modo le società costruiscono le gerarchie sociali?


Le varie società costruiscono in modi diversi le gerarchie sociali, in quanto diversi sono gli
aspetti rilevanti: i criteri utilizzati per differenziare le persone rispetto ai diversi strati
sociali, il numero degli strati, diritti e privilegi concessi ai membri dei diversi strati, la
rigidità della stratificazione gerarchica. Infatti, in tutte le società stratificate l’accesso delle
persone al lavoro, alla ricchezza, ai privilegi sono determinati dalla posizione occupata
nella scala sociale. Nel mondo moderno si assiste all’emergere di un’importante categoria
sociale: quella dei giovani. Alcinda Honwana e Filip de Boeck li definiscono “costruttori e
distruttori”: costruttori perché apportano nuovi contributi culturali e innovazioni,
distruttori per l’uso di alcool, per i rapporti sessuali non protetti, per la violenza e la
criminalità. Jean e John L. Comaroff hanno riscontrato incredibili somiglianze tra i giovani
di tutto il mondo; da un lato, questi sono esclusi dalle economie locali e non godono degli
aiuti statali perché le politiche neoliberiste limitano i finanziamenti statali per i disoccupati.
Essi manifestano così il loro dissenso per le strade, l’unico spazio concesso loro. Sono
principalmente di sesso maschile e la loro esclusione da vita a una “crisi della virilità” che
si esprime negli stupri collettivi, nella violenza, nelle sparatorie. Dall’altro lato però i
giovani godono di un’autonomia maggiore rispetto alle generazioni passate; il loro
affermarsi ha determinato la creazione di una “contronazione” con propri spazi, proprie
forme di divertimento e proprie attività illecite. Un parlamentare della Florida, William
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McCollum, ha definito i giovani d’oggi come i “criminali più pericolosi sulla faccia della
terra”; criminalizzando i comportamenti tipici dei gruppi marginali, criminalizzando l’uso di
sostanze stupefacenti quali cocaina e marijuana (mentre l’alcool rimane legale), la società
crea una classe emarginata di criminali che deve essere controllata dall’autorità costituita.
Il fatto che i giovani costituiscano una categoria marginalizzata è testimoniato
dall’ossessione dei giovani per le strutture sociali che essi stessi creano, le quali sono
particolarmente diffuse nelle scuole superiori in America. Murray Milner Jr. mostra come
gli studenti di una scuola superiore fossero ossessionati dallo status: essendo il loro potere
economico e politico assolutamente inesistente, l’unico potere che questi giovani hanno è
quello di creare uno status system utilizzando criteri diversi da quelli promossi da genitori
e insegnanti.

5.2 Perché le disuguaglianze economiche e sociali continuano a esistere?


La costruzione delle gerarchie sociali non è un aspetto universale delle società umane, così
come non è uniformemente diffusa la tendenza a classificare le persone secondo certi
criteri. L’unico aspetto costante consiste nell’aumentare della propensione alla
stratificazione sociale quando aumenta la complessità e la numerosità delle società. Sono
diverse le teorie proposte per spiegare la creazione di gerarchie sociali, di particolare
rilievo sono quella integrazionista e quella conflittualista. Secondo la teoria integrazionista,
man mano che le società si ampliano e aumentano le persone che hanno bisogno di cibo,
abitazioni e vestiti, si ha bisogno di strumenti di lavoro sempre più efficienti e
tecnologicamente più evoluti per produrre una quantità di cibo maggiore e materiali di
prima necessità. Ciò fa sì che nelle società più ampie sorga il bisogno della specializzazione
degli individui ovvero della divisione del lavoro; perché la divisione del lavoro sia efficiente
e caratterizzata da un’adeguata coordinazione dei compiti, è necessaria ed inevitabile una
qualche forma di stratificazione sociale. Inoltre, aumentando la complessità delle società,
servono dei sistemi di difesa contro le minacce provenienti dall’esterno, i quali
presuppongono la centralizzazione del potere, che conduce alla creazione di un gruppo
elitario. Se le risorse scarseggiano, è necessario un sistema di controllo interno che
mantenga l’ordine. In sintesi, secondo la teoria integrazionista, il bisogno di maggiore
integrazione della società nonché quello di mantenere un certo controllo sul
comportamento degli individui, determinano l’emergere di forme di autorità centralizzata
che garantiscano sicurezza e protezione ai cittadini, i quali devono ricambiare con
accettazione e lealtà. La società è assimilata ad un organismo vivente le cui parti devono
essere regolate da un meccanismo di controllo che ne assicuri il funzionamento. Herbert
Spencer sosteneva che una maggiore differenziazione all’interno di una società porta ad un
grado più elevato di interrelazione tra le parti a cui segue un maggior bisogno di controllo
da parte delle autorità. Secondo le teorie conflittualiste, la stratificazione sociale è il
risultato dello sfruttamento, da parte di un gruppo, delle risorse o del lavoro altrui. La più
importante teoria conflittualista è quella di Karl Marx e Friedrich Engels, i quali
sostenevano che le classi sociali sono il risultato del capitalismo e non sono un aspetto
intrinseco della società. Le classi si formano quando un gruppo acquisisce la proprietà dei
mezzi di produzione (risorse necessarie alla produzione, come macchinari, attrezzi, ecc), e
può così conservare o accrescere la propria ricchezza traendo vantaggio dal plusvalore del
lavoro (differenza tra la quantità di lavoro impiegata per una determinata produzione e il
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lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro). Tutto ciò avviene a scapito degli
operai i quali sono costretti ad accettare questa situazione in virtù della repressione
politica o sociale praticata dalla classe dirigente. I membri della classe dirigente scelgono
dei rappresentanti che approvano delle leggi a vantaggio dei propri interessi e possono
imporre agli operai le condizioni di lavoro da rispettare (minacciandoli di togliere loro il
lavoro, oppure di chiuderli in carcere o di ucciderli), e nella maggior parte dei casi ad essi
non rimane che sottomettersi. Se la classe dirigente detiene anche il controllo dei mezzi di
informazione, può diffondere attraverso diversi canali un’ideologia di classe a proprio
vantaggio: modificando la visione del mondo, può far apparire agli occhi delle persone il
proprio dominio come legittimo e funzionale agli interessi della collettività. Dunque,
l’ideologia di classe crea una società nella quale un limitato insieme di persone controlla i
mezzi di produzione appropriandosi del plusvalore del lavoro, e conserva la propria
posizione ricorrendo alla repressione e alla manipolazione dell’ideologia attraverso i mezzi
di comunicazione di massa e attraverso le istituzioni. L’unico mezzo di cui le classi
svantaggiate dispongono per cambiare la situazione è la rivoluzione violenta. E’ dunque
possibile caratterizzare il potere della classe dominante come un’egemonia, termine che
indica “direzione politica”, unita o contrapposta a dominio e coercizione. L’egemonia si
esercita tramite apparati pubblici (appartenenti alla sfera dello Stato) o privati
(appartenenti alla sfera della società civile). Gli intellettuali facenti parte del ceto
dominante cercano di allargare al massimo il consenso da parte dei ceti subordinati,
mostrando (facendo leva sul proprio prestigio) come universale la propria concezione del
mondo, integrandola nel senso comune.

5.3 Per quale ragione le gerarchie sociali vengono considerate naturali?


Uno dei compiti dell’antropologia è quello di capire in che modo le società elaborano delle
giustificazioni per legittimare la discriminazione sociale. In particolare, Franz Boas è stato
uno dei primi studiosi a cercare di dimostrare l’infondatezza delle teorie e delle ideologie
razziste su cui si basava la marginalizzazione. Negli Stati Uniti, l’ideologia di classe si basa
sul presupposto che la posizione di una persona nella scala sociale dipende dall’impegno e
dai risultati individuali; ciò implica che se una persona si impegna ed è determinata, riesce
a raggiungere il proprio obiettivo. La posizione occupata viene anche connessa a delle
caratteristiche biologiche quali razza, capacità mentali innate (intelligenza) e genere. Le
gerarchie sociali dunque non sono altro che una riproduzione delle gerarchie naturali in cui
sono collocati gli individui e che fanno sì che alcuni, a differenza di altri, siano più propensi
ad avere successo e a guidare gli altri. Analizziamo singolarmente i tre aspetti prima
menzionati (razza, intelligenza, genere). La stratificazione razziale è un elemento
caratteristico delle società europea ed americana; in passato, l’appartenenza a
determinate razze era deterministicamente legata alla posizione occupata nella gerarchia
di status relativa alla rilevanza sociale, politica ed economica. La stratificazione razziale
presentava diversi vantaggi: dal punto di vista economico, essa permetteva di usufruire
della manodopera sottopagata degli schiavi neri o dei gruppi che non possedevano alcun
diritto, e inoltre rendeva meno influente la concorrenza per il lavoro. Tuttavia, il problema
più grave sorge nel momento in cui si sostiene che la classificazione delle persone secondo
le razze sia naturale, e non determinata socialmente, o che essa sia stata prevista da Dio
per distinguere persone inferiori da persone superiori. La maggior parte delle persone non
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esitò a costruire un’ideologia che giustificasse la discriminazione, anche in virtù del


consenso delle autorità civili e religiose; persino degli scienziati, durante il XIX secolo,
cercarono di dimostrare che la stratificazione razziale è qualcosa di naturale; ricordiamo a
tal proposito gli studi di Morton, risalenti agli anni Venti dell’Ottocento, il quale sosteneva
che i bianchi fossero più intelligenti dei neri a partire dalla maggior dimensione dei crani
dei primi. Stephen Jay Gould ha poi dimostrato l’infondatezza di queste teorie e la scarsa
obiettività di Morton dal punto di vista metodologico (questi aveva compiuto evidenti
errori di campionamento e di misurazione); ciononostante, molti studiosi, durante il XX
secolo, si rifecero agli studi di Morton per sostenere l’ideologia secondo cui la
stratificazione sociale è dovuta a cause naturali. Solo con l’affermarsi delle teorie
darwiniane è stata riconosciuta l’infondatezza delle teorie razziali, diffusesi dal XVIII secolo,
secondo cui la razza rappresenta un insieme di persone discendenti da un comune
antenato. Infatti, dopo due secoli di controversie tra teorie monogeniste (secondo cui tutti
gli esseri umani hanno una comune origine, e si sono differenziati in seguito) e teorie
poligeniste (secondo cui le differenze tra le popolazioni umane erano evidenti sin dalle loro
origini), è progressivamente emersa la difficoltà nel definire un insieme di tratti pertinenti
per la definizione delle diverse razze. Attualmente, l’idea che esistano dei tipi razziali a cui
gli uomini appartengono sulla base di meccanismi di trasmissione genetica ereditaria,
nonché il determinismo razziale (concezione secondo cui l’appartenenza ad un tipo razziale
sarebbe il fattore determinante per le diversità di comportamento tra individui e gruppi
umani) sono stati abbandonati.
Il concetto di intelligenza può giustificare l’esistenza delle gerarchie sociali, nel momento in
cui si ritiene che ciò che ogni individuo riesce a fare sia determinato dall’intelligenza e dalle
doti innate. Dimostrando che l’intelligenza è innata, si riesce a spiegare perché i figli di
persone di successo abbiano anch’essi successo e, allo stesso tempo, si spiega perché
alcuni gruppi sono invece poveri. Molti scienziati hanno tentato di dimostrare l’ereditarietà
dell’intelligenza e il suo variare a seconda dei gruppi razziali; tra questi studiosi,
menzioniamo Arthur Jensen, Richard Herrnstein e Charles Murray. Questi studiosi non
tengono conto del fatto che la stessa intelligenza è una costruzione sociale, un costrutto
teorico; il concetto di intelligenza su cui si basano è discutibile, ed è così determinato:
l’intelligenza è considerata un’entità singola (in realtà, l’intelligenza è “multipla” e si
dispiega in modo diverso nei diversi ambiti); l’intelligenza è misurabile ed è presente in
modo diseguale all’interno della popolazione (ciò determina che sia possibile misurare
l’intelligenza innata ma non i risultati ottenuti); la quantità di intelligenza delle persone
rimane costante per tutta la vita (e ciò implica che si possa dimostrare che ciò che viene
misurato non cambia); la quantità di intelligenza posseduta determina il grado di riuscita
nella vita (a ciò consegue l’idea che le persone che hanno un’intelligenza quantificabile
hanno più probabilità di successo); infine, l’intelligenza è ereditaria (dunque, i figli di
persone con intelligenza quantificabile elevata hanno anch’essi un’intelligenza
quantificabile ed elevata). In particolare, tre studiosi hanno contribuito a legittimare e a
diffondere tali assunti di base: essi sono Francis Galton, Karl Pearson, Charles Spearman. I
metodi utilizzati da questi studiosi erano del tutto discutibili, in quanto basati su giudizi
soggettivi sulla definizione dell’intelligenza. Tali teorie, inoltre, non tengono conto del fatto
che nessuna caratteristica umana è determinata esclusivamente da fattori biologici (i geni),
ma che un ruolo cruciale è svolto dall’interazione dell’individuo con l’ambiente circostante.
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Nonostante tali limiti, l’intelligenza rappresenta ancora un criterio per giustificare la


gerarchia sociale e per caratterizzarla come “naturale”.
La stratificazione sociale è stata connessa anche al genere, e in particolare si è ritenuto che
i maschi fossero superiori alle femmine e che tale superiorità fosse del tutto naturale.
Molti, infatti, sostenevano che a costituzione fisica delle donne definisse la loro posizione
sociale nonché la loro funzione, che è esclusiva mente quella di procreare; al contempo, la
costituzione fisica degli uomini li avrebbe resi adatti a dirigere, controllare, difendere.
L’idea che la biologia femminile renda le donne inferiori agli uomini è profondamente
radicata ed è ravvisabile anche nel diverso modo in cui vengono descritti i processi
biologici relativi alla riproduzione. Emily Martin sostiene che, durante l’Ottocento, il corpo
femminile era considerato alla stregua di una fabbrica il cui compito era quello di
funzionare per produrre figli; sotto questa prospettiva, è chiaro che la menopausa
rappresentava un evento negativo che poneva fine al periodo riproduttivo, e le
mestruazioni erano sintomo di una mancata fecondazione, ovvero del fallimento del
processo riproduttivo. Tale atteggiamento verso le funzioni riproduttive delle donne
sopravvive ancora oggi ed è veicolato per mezzo dei manuali di medicina e biologia. Alcuni
testi descrivono infatti la menopausa come una “interruzione della comunicazione tra il
cervello e l’apparato riproduttivo femminile” e in un manuale universitario si afferma che
“le ovaie, durante la menopausa, non rispondono più agli stimoli ormonali e dunque si
atrofizzano”. Il ciclo mestruale è descritto come un’interruzione del ciclo riproduttivo e il
flusso mestruale è presentato come un processo di disintegrazione e sfaldamento. Di
converso, le funzioni riproduttive del maschio vengono descritte con termini positivi. La
descrizione dei processi fisici del corpo femminile in termini negativi fa sembrare le donne
“meno umane” e porta le stesse donne a pensare che tali funzioni siano meno pure e
meno importanti di quelle del corpo maschile.

5.4 Quali strategie sviluppano i poveri per adattarsi alle loro condizioni di vita?
Gli strati più poveri della società, per sopravvivere in condizioni di povertà, usano
particolari strategie adattive; “cultura della povertà” è l’espressione coniata
dall’antropologo Oscar Lewis per riferirsi al modo di vivere e alla visione del mondo delle
persone che abitano i quartieri poveri di città e campagne. Correggendo questa visione,
che implica che la povertà sia radicata nei valori della subcultura, alcuni antropologi
sostengono che il comportamento dei poveri è il risultato dell’adattamento di questi alle
loro condizioni socioeconomiche caratterizzate da mancanza di lavoro e di denaro. Tale
situazione è perpetuata dalla disuguaglianza (rafforzata dal razzismo) e da un sistema
economico che richiede manodopera a poco prezzo. Alla fine degli anni Settanta del
Novecento, l’antropologa Carol Stack condusse uno studio sul modo in cui le famiglie
affrontano la povertà, analizzando una comunità in gran parte nera da lei definita “The
Flats” (facente parte di una piccola città del Midwest di circa 55.000 persone). Conducendo
questa analisi, Carol Stack si rese conto che queste persone reagivano alla povertà
rafforzando i legami di parentela e creando dei legami di parentela fittizi allo scopo di
creare gruppi chiusi così da garantirsi aiuto economico e sociale. In questa comunità quindi
le persone barattavano il cibo, l’abitazione, la cura dei bambini e tutto ciò che avevano: era
quindi caratterizzata da una reciprocità generalizzata, la quale consente la sopravvivenza di
tutti. A causa della saltuarietà del lavoro, della giovane età delle madri e dell’inadeguatezza
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delle abitazioni, i bambini si ritrovavano a vivere con tre o quattro adulti diversi; diverse
persone si occupano della nutrizione, dell’educazione, della cura e dell’assistenza di un
bambino. Occuparsi di un bambino era considerato, in questa comunità, un privilegio e al
tempo stesso una responsabilità. Una coppia, a The Flats, si sposava solo se l’uomo aveva
un lavoro stabile; tuttavia il matrimonio non era vantaggioso dal punto di vista economico,
per diversi motivi: essere sposate escludeva le persone dalla rete di condivisione in quanto
dopo il matrimonio gli obblighi ricadevano sul marito o sulla moglie; inoltre, dopo il
matrimonio una donna non riceveva più gli aiuti dell’assistenza sociale. Nonostante questo
uomini e donne instauravano comunque delle relazioni e avevano dei figli; a causa delle
condizioni di povertà, le persone stringevano reti di parentela e amicizia anziché
prediligere il modello della famiglia nucleare.

5.5 Una comunità priva di stratificazione può esistere all’interno di una società
gerarchica più ampia?
Molte persone, pur coscienti dei danni provocati dalla stratificazione sociale, sostengono
che questa sia inevitabile all’interno di un moderno paese industrializzato. Nonostante
questo, per migliaia di anni alcuni gruppi hanno cercato di creare dei gruppi privi di classi e
utopici nelle società stratificate; un esempio è costituito dalla creazione degli ordini
monastici cattolici. L’antropologo Charles Erasmus si è dedicato allo studio di molte
comunità utopiche per comprendere per quale ragione queste siano “fallite”; secondo
questo studioso, il problema principale di queste comunità era riuscire a motivare i
membri a lavorare e contribuire al bene comune senza ottenere in cambio un compenso
individuale (materiale, di status o di prestigio). Un esempio positivo di comunità utopica
negli Stati Uniti è quello relativo alla comunità degli utteriti. Gli utteriti sono una setta
protestante nata in Moravia nel XVI secolo, durante la riforma protestante; nel 1528 essa
iniziò a fondare le prime colonie nei territori corrispondenti alle attuali Germania, Austria e
Russia. L’obiettivo degli utteriti è quello di creare una “colonia del cielo”. Coerentemente
ai principi del Vecchio e del Nuovo Testamento, essi credono nella vita comunitaria e nel
rispetto delle pratiche religiose; si oppongono alla competizione, alla violenza e alla guerra,
e pensano che le proprietà vada utilizzata, non posseduta. Non ritengono necessario
entrare a far parte di un Governo o ricoprire cariche pubbliche, la loro comunità è gestita
da un consiglio formato dai leader religiosi e da un insegnante della comunità. Questa è
basata sulla famiglia e vive di agricoltura; tutti contribuiscono alle diverse attività e ognuno
ha il diritto di godere dei frutti del lavoro. Gli utteriti non sono totalmente egualitari, infatti
nella loro società vi sono classificazioni in base all’età e al sesso (prima del matrimonio, i
membri della comunità non partecipano ai processi decisionali e le donne sono ritenute
inferiori rispetto agli uomini dal punto di vista fisico e intellettuale). La distribuzione
diseguale della ricchezza è rifiutata così come la competizione tra i membri per status,
prestigio o beni personali; per limitare tale competizione, si rinuncia all’ornamento
personale e all’ostentazione della ricchezza. I membri della comunità mangiano e lavorano
insieme e si incontrano frequentemente per discutere gli affari della comunità; non vi
sono mezzi formali per punire chi viola le regole del gruppo, ma si pratica una sorta di
ostracismo in base al quale colui che ne è oggetto non può parlare con gli altri membri
della comunità. Per limitare i conflitti man mano che la ricchezza si accumula, gli utteriti
dividono le comunità ogni 15 anni; ogni comunità risparmia una parte dei profitti per
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ricostruire una nuova colonia; quando tutte le strutture sono complete, i membri della
comunità tirano a sorte per decidere quali famiglie saranno spostate. Gli utteriti si sono
opposti alla specializzazione, e non assumono manodopera all’esterno della comunità. In
sintesi, gli utteriti hanno creato una società in cui sono assenti povertà e classi
economiche, la criminalità è assente e ognuno contribuisce al bene collettivo. Tuttavia,
non ogni forma di discriminazione è esclusa: fondandosi sulla Bibbia, tale comunità si basa
sulla supremazia del maschio e limita fortemente la libertà individuale.

CASE STUDY N.5: SALUTE E DIRITTI UMANI

L'antropologia può aiutare ad affrontare la povertà e l'oppressione generate dalla


disuguaglianza, progettando e realizzando delle iniziative per proteggere coloro ai quali
vengono negati i diritti umani fondamentali. Il principio della difesa dei diritti individuali è
stato elaborato durante il periodo illuminista ed è stato poi ripreso da Thomas Jefferson
nella “Dichiarazione di Indipendenza” degli Stati Uniti, in cui si legge che gli uomini sono
tutti uguali e godono di alcuni diritti intoccabili quali la vita, la libertà e la ricerca della
felicità. Il movimento moderno dei diritti umani è nato dal Processo di Norimberga (in cui
vennero giudicati gli ufficiali tedeschi accusati di crimini di guerra perpetrati durante il
secondo conflitto mondiale) e dalla Dichiarazione dei diritti umani promulgata il 10
dicembre 1948 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tra i diritti menzionati, vi
sono: il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza della persona, alla libertà di opinione e di
espressione, il diritto a non subire torture, trattamenti o punizioni crudeli, inumani o
degradanti, nonché il diritto ad un livello di vita adeguato per la salute e il benessere
(quindi il diritto a cibo, vestiti, cure mediche, servizi sociali necessari tra cui assistenza in
caso di disoccupazione, malattia, disabilità, vedovanza, vecchiaia). Nella realtà concreta,
tuttavia, gran parte dei diritti menzionati nella Dichiarazione vengono sistematicamente
violati o ignorati, come documentato dalle organizzazioni Amnesty International e Human
Rights Watch. La violazione dei diritti umani è incentivata dalla disuguaglianza economica e
sociale la quale è in costante aumento. Nel loro libro “Human Rights: The Scholar as
Activist”, Carole Nagengast e Carlos Vélez-Ibanez affermano che le persone che si dedicano
alla difesa dei diritti umani, non possono occuparsi soltanto delle violazioni individuali e
politiche, ma anche dei diritti collettivi ed economici, sociali e culturali. Non esistono delle
leggi che limitano il potere dei grandi gruppi e delle istituzioni che li appoggiano (ad
esempio, la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale) così questi sono liberi di
stabilire condizioni di lavoro e paga, di realizzare progetti di sviluppo che comportano lo
spostamento di persone, di determinare un peggioramento delle loro condizioni di vita. Gli
Stati-Nazione, a cui le leggi internazionali affidano il compito di fare in modo che i diritti
vengano rispettati, sono gli organi che violano maggiormente i diritti umani, sia in modo
diretto (attraverso operazioni militari o di polizia), sia in modo indiretto (permettendo a
gruppi non statali o paramilitari di violare i diritti). Secondo i due studiosi è allora
necessario che gli antropologi, attraverso una rete di comunicazione globale, diffondano
informazioni sui diritti umani e sulle loro violazioni; essi possono anche lavorare con i
gruppi i cui diritti vengono minacciati per aiutarli a sviluppare gli strumenti per difendersi.
Una preparazione in ambito antropologico è di supporto anche per l'elaborazione di
politiche per i profughi; il profugo è definito come una persona che, per paura di essere
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perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un certo gruppo,


o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal paese di cui possiede la nazionalità e non
può quindi avvalersi della protezione di quel paese. Secondo Angela Thieman-Dino e James
Schechter, gli antropologi possono aiutare i policy maker a portare alla luce i pregiudizi
veicolati nei confronti dei profughi documentando le violazioni dei diritti umani da parte di
organizzazioni non governative. Una formazione in ambito antropologico permette anche
di mediare tra i rifugiati e gli organismi di assistenza favorendo la comprensione di fattori
di tipo sociale o culturale che potrebbero essere trascurati. Il medico e antropologo Paul
Farmer ha studiato le popolazioni haitiane che lavoravano nelle coltivazioni di tabacco; ad
Haiti ha collaborato con le agenzie locali e internazionali, prestando servizi relativi alla
salute e all'assistenza sociale alla popolazione indigena. Questa esperienza gli rese
evidente quanto importante fosse l'antropologia per affrontare i problemi sanitari dei
poveri di Haiti. Farmer sosteneva che non bisognava trascurare il ruolo che nella vita di
gran parte degli haitiani assume il voodoo, una religione che associa elementi del
cattolicesimo alle credenze africane tradizionali. Un medico che non conosce le credenze
locali potrebbe scontrarsi con i preti voodoo giudicando i disturbi dei pazienti come
semplici superstizioni, mentre un medico con una preparazione in ambito antropologico
potrebbe trovare un sistema per collaborare con questi preti. La seconda lezione che
Farmer apprese durante il suo soggiorno ad Haiti era relativa alla teologia della liberazione.
In America Latina, durante gli anni '60, i preti cattolici diedero vita a delle comunità per la
difesa dei diritti umani e organizzarono delle attività per combattere la repressione
esercitata dai governi. Farmer rimase colpito dall'attivismo della teologia della liberazione
perché sorgeva dal bisogno di realizzare qualcosa di concreto nella vita dei poveri, era
caratterizzata da una “solidarietà pragmatica” con le comunità e tentava di ottenere per i
poveri non un trattamento giusto ma un trattamento preferenziale. Egli riuscì così a
comprendere più a fondo il contesto nel quale regnavano la povertà e l'oppressione.
Farmer decise così di laurearsi in Antropologia e studiò alla Medical School dell'Università
di Harvard, e nel frattempo passò molto tempo ad Haiti impegnandosi per realizzare un
programma per l'assistenza sanitaria pubblica che comprendeva campagne di
vaccinazione, realizzazione di riserve di acqua potabile e fognature, e insegnando agli
abitanti a somministrare farmaci, curare malattie non gravi e riconoscere i sintomi di
quelle più gravi. Le esperienze ad Haiti mostrarono a Farmer che la salute è un diritto
umano inalienabile; nel suo libro “Pathologies of Power: Health, Human Rights, and the
New War on the Poor”, Farmer mostra le ragioni e propone delle strategie per affrontare il
problema delle violazioni dei diritti umani e per dare un aiuto concreto alla vita dei poveri.
Gli antropologi devono, secondo Farmer, collocare le violazioni dei diritti umani all'interno
del contesto globale che comprende le cause strutturali della violazione stessa. Come egli
afferma, le disuguaglianze sociali basate su razza, genere, religione e, soprattutto, classe
sociale, rappresentano le principali cause delle violazioni dei diritti umani; in altri termini,
la violenza contro gli individui è integrata nella violenza strutturale. Dunque, bisogna prima
di tutto affrontare la violenza strutturale. Tuttavia, il problema sorge allorquando l'ONU e
le organizzazioni di difesa dei diritti umani (Amnesty International, Physician for Human
Rights) sono limitate dal fatto che devono operare attraverso i governi, i quali sono spesso
i primi a violare questi diritti. Per questo, Farmer sostiene che quando è possibile le

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organizzazioni non governative e i gruppi indipendenti (università, ospedali, chiese, ecc)


devono ascoltare i bisogni e collaborare con i membri delle comunità interessate.

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CAPITOLO 6
LA COSTRUZIONE CULTURALE DEL CONFLITTO VIOLENTO

Introduzione. La costruzione culturale del conflitto violento


La guerra o faida, ovvero il combattimento finalizzato, organizzato e socialmente
approvato che comporta l'uccisione di altri esseri umani, sembra essere una caratteristica
intrinseca delle società umane. Alcuni studiosi sostengono che vi sia, nell'uomo, un istinto
innato all'aggressione e che la guerra e la violenza abbiano origine da meccanismi biologici
comuni a esseri umani e animali. Tuttavia, il fatto che gli esseri umani creino dei sistemi di
significati per giustificare il conflitto violento va contro questa ipotesi. Atti di violenza
collettiva attraverso un processo di razionalizzazione vengono rappresentati come atti
finalizzati e inevitabili, non come atti di crudeltà; dunque è necessario prima di tutto capire
in che modo le società costruiscono dei significati per il conflitto violento, nascondendone
le conseguenze e persuadendo le persone che esso è giusto.

6.1 In che modo le società creano una propensione alla violenza collettiva?
Le società possono creare una propensione alla violenza collettiva in diversi modi; uno di
questi consiste nel “premiare” la violenza: questo è quanto avviene presso i nativi
americani delle pianure occidentali, i Kiowa. In questa società lo status dipende dal
numero di cavalli che si possiedono e dagli onori procurati in battaglia attraverso atti di
coraggio (l'onore più grande consiste nel “contare il primo colpo”, ovvero attaccare il
nemico da solo e colpirlo con uno speciale bastone). Tale sistema fa sì che comportamento
aggressivo e coraggio vengano premiati e quindi promossi.
Nasce una propensione alla violenza collettiva anche quando questa è l'unico mezzo per
proteggere delle risorse preziose. Questo avviene tra gli Yanomamo del Venezuela; in
questa società le guerre tra i villaggi sono frequenti; le donne e i bambini sono considerati
risorse preziose e gli uomini credono che per difendere se stessi e le proprie risorse
bisogna mostrarsi feroci: le principali espressioni di tale ferocia sono le incursioni negli altri
villaggi e i duelli tra i membri dello stesso villaggio. Ciò fa sì che l'atteggiamento prevalente
sia di antagonismo nei confronti di tutti, il che porta allo sviluppo della “waiteri” (ferocia).
Ai figli maschi viene insegnato ad essere aggressivi ed ostili, vengono incitati a colpire chi li
disturba e a rivolgersi con prepotenza alle ragazze.
Le società possono sviluppare la propensione verso la violenza collettiva giustificandola
quale mezzo di difesa per l'onore personale. Un esempio a tal proposito è quello degli
abitanti del Kohistan (Pakistan nordoccidentale), il cui codice d'onore prevede la vendetta
ogni qualvolta l'onore di un uomo viene minacciato. Tale vendetta prende spesso la forma
di faida di sangue (dushmani), ma non supera mai il torto originale. La vendetta feroce
viene praticata per qualunque comportamento non autorizzato nei confronti della figlia,
della moglie, o della sorella non sposata di un uomo: il semplice fissarle può rappresentare
un torto da vendicare. Gli abitanti del villaggio di Thull, professando la religione islamica
che pone in primo piano pace e armonia, hanno creato un sistema di significati in cui la
vendetta rappresenta un atto religioso. Tale sistema di credenze si fonda sul concetto di
ghrairat, cioè il valore personale, l'onestà o il carattere di un uomo: il ghrairat va difeso e
protetto, controllando la propria donna (che può uscire soltanto accompagnata, parlare
soltanto con gli uomini facenti parte della sua famiglia e deve mostrarsi modesta,
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coprendo il proprio corpo) e stringendo alleanze. La vendetta può colpire non soltanto
l'autore del torto ma anche suoi parenti o amici. Accade così che gli abitanti di Thull sono
sempre armati e costruiscono le proprie abitazioni con sistemi difensivi contro i colpi
d'arma da fuoco.
Un'ultima modalità perseguibile per incitare la propensione alla violenza collettiva consiste
nel rimandare certe questioni alla lotta cosmica tra bene e male. Gran parte delle moderne
religioni si fonda su testi sacri che narrano dello scontro violento tra bene e male, così
spesso le persone si rifanno alla retorica religiosa per giustificare gli atti di violenza.
Tuttavia avviene spesso che dietro ad atti di violenza compiuti in nome di un dio si celi
l'esternazione di un risentimento sociale, politico o economico. Ad esempio, gruppi
militanti del fondamentalismo protestante come “Operation Rescue” o l'”Esercito di Dio”
(Army of God) sono impegnati contro l'aborto. Come sottolineato da Mark Juergensmeyer,
collocando il conflitto ad un livello cosmico (come la lotta tra bene e male), esso assume
una portata maggiore che va ben oltre le questioni locali.

6.2 In che modo le società creano un rifiuto del conflitto violento?


Secondo l'antropologo Thomas Gregor, essendo la guerra molto diffusa presso le società
umane, la sociologia dovrebbe cercare di spiegare la pace. E' molto difficile trovare delle
società che non prevedono né giustificano la violenza collettiva, tuttavia possiamo
riportare alcuni esempi. Nelle società pacifiche, non sono assegnati ruoli speciali a chi si
distingue in guerra, viene attribuito un valore positivo al comportamento non aggressivo, e
il conflitto per le risorse materiali viene limitato attribuendo molta importanza alla
condivisione e alla cooperazione. Nella società degli Ju/wasi, ad esempio, nonostante si
ritenga che la preda appartenga al proprietario della freccia, quest'ultimo è obbligato a
condividerla con gli altri. Presso i Semai, nella Malesia occidentale, vige il concetto di
“pehunan”, che indica uno stato di insoddisfazione dovuto al bisogno di cibo o al desiderio
sessuale inappagato. Sulla base di tale concetto, si definisce una comunità in cui ognuno è
attento ai bisogni degli altri ed è pronto a soddisfarli: rifiutare una richiesta o negare
qualcosa ad una persona che si trova nello stato di “pehunan” aumenta il pericolo sia per
l'individuo che per l'intero gruppo; la soddisfazione dei propri bisogni non spetta
all'individuo bensì agli altri membri della comunità che sono tenuti ad aiutare gli altri e a
procurare loro del cibo. Per evitare i conflitti, queste società condannano presunzione e
superbia in quanto potrebbero essere lette come una sfida agli altri: presso gli Ju/wasi, ad
esempio, nessuno riceve dei complimenti se raccoglie del cibo o cattura una preda, e tutti
cercano di sminuire le proprie azioni. Inoltre, nelle società pacifiche, le persone evitano di
dire agli altri cosa fare e tengono sempre sotto controllo le proprie emozioni così da
mostrarsi sempre gentili e disponibili: è quanto è possibile osservare presso gli Inuit, i quali
credono che i pensieri e le preoccupazioni possano uccidere o causare malattie e così si
impegnano per accontentare sempre gli altri evitando il più possibile ogni risentimento.
Allo scopo di evitare i conflitti, pongono le richieste in modo indiretto così da evitare di
ricevere un rifiuto o di mettere in imbarazzo chi rifiuta. Perdere la calma rappresenta un
vero e proprio crimine e chi lo fa è vittima di ostracismo da parte del gruppo.
Un altro caso di società pacifica è quella degli abitanti del bacino del Xingu (affluente del
Rio delle Amazzoni). Qui la pace è garantita da un sistema che stabilisce i monopoli dei
diversi villaggi che producono oggetti e merci: ogni villaggio possiede qualcosa di cui gli
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altri villaggi hanno bisogno e tale interdipendenza fa sì che tra i villaggi si mantengano
sempre buoni rapporti. Questa società attribuisce un valore molto negativo all'aggressività
e il sangue è considerato fonte di contaminazione; gli Xinguano si limitano così a difendersi
quando vengono attaccati, ma anche in questo caso i guerrieri più forti non vengono
premiati o onorati, devono bensì prendere delle sostanze speciali per ripulirsi della
contaminazione del sangue delle vittime. Un'altra società pacifica è quella dei Buid delle
Filippine; questi disapprovano fortemente la violenza, e tra le attività più prestigiose si
annovera la composizione di poesie.
Le cerimonie rappresentano uno dei mezzi utilizzati dalle società pacifiche per ridurre la
violenza e il conflitto: tra queste, particolare rilievo assume la trance dance degli Ju/wasi,
la quale simboleggia il legame tra armonia del gruppo e benessere individuale.

6.3 Quali sono le differenze economiche, politiche e sociali tra le società violente e quelle
pacifiche?
Nel “Leviatano”, il filosofo Thomas Hobbes affermava che, in assenza di un governo e di
leggi, quindi di un potere comune che tenga in soggezione gli esseri umani, questi vivono in
un perenne stato di guerra di tutti contro tutti. Dunque, secondo questa visione, gli esseri
umani avrebbero una naturale propensione alla violenza che può essere controllata
attraverso qualche forma di autorità centralizzata. Nonostante all'apparenza queste
affermazioni possano sembrare del tutto plausibili, gli antropologi hanno osservato che le
società in cui manca un governo centrale sono le più pacifiche del mondo. Queste sono
società piccole, che praticano l'agricoltura itinerante, vivono isolate e non dispongono di
mezzi istituzionalizzati per risolvere il conflitto: non vi sono infatti né tribunali, né carceri,
né forze dell'ordine; in virtù della mancanza di mezzi per contenere il conflitto, queste
società fanno di tutto per evitarlo. Presso gli Yanomamo, gli individui non riescono a
contenere il conflitto e così per proteggere se stessi e le proprie famiglie devono costruirsi
una reputazione da “duri”: questo fa sì che in questa società si attribuisca un valore
positivo al comportamento violento. E' stato tuttavia dimostrato che la guerra e
l'aggressività in questa società non sono dovute all'esistenza “primitiva” ma al contatto con
l'Occidente, in particolare ai tre fattori evidenziati da Brian Ferguson: 1. presenza di nuovi
stanziamenti di agenzie governative, missionari e ricercatori; 2. competizione per il
possesso di prodotti occidentali; 3. crisi dei rapporti sociali dovuta alle epidemie e alla
scarsità di prede da cacciare e di altre risorse alimentari. Presso i Kohistani, il terreno
fertile scarseggia e, mancando un sistema centrale di registrazione delle proprietà, queste
vengono sempre messe in discussione. Dunque, in assenza di un'autorità centrale
efficiente, l'unico mezzo di cui dispongono per difendere le proprie risorse consiste nella
violenza collettiva. Alcuni studiosi hanno sostenuto che una differenza determinante tra
società pacifiche e società non pacifiche risieda nelle diverse concezioni dei ruoli di genere:
nelle società pacifiche, vige una relativa parità tra i sessi ed è presente un basso livello di
violenza istituzionalizzata nei confronti delle donne; l'esatto opposto avviene presso le
società violente. Il legame tra sessismo e violenza si evince da diversi dati: in primo luogo,
sono principalmente gli uomini che fanno le guerre; in secondo luogo, vi è un forte legame
culturale tra patriarcato e conflitto violento (William Tulio Divale e Marvin Harris hanno
dimostrato che la violenza collettiva è maggiore nelle società fortemente maschiliste); in
terzo luogo, la violenza collettiva è maggiore nelle società caratterizzate dalla violenza
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sessuale contro le donne. Secondo Betty Reardon e Leslie Cagan, le società che pongono le
donne in una posizione subalterna giustificano la violenza contro di queste; questo tipo di
violenza rappresenta il “paradigma primario” (una sorta di modello) per l'atteggiamento
bellicoso nei confronti di altri popoli. Secondo Peggy Sanday, sessismo e conflitto violento
sono il risultato della competizione che nasce dalla scarsità di risorse: quando le risorse
scarseggiano e più gruppi se le contendono, le femmine si trasformano in oggetti da tenere
sotto controllo e la violenza sessuale è uno strumento adottato dai maschi per dimostrare
la propria dominanza.

6.4 Quali sono gli effetti della guerra sulle società?


Alcuni antropologi hanno sostenuto che la guerra limita la popolazione; in realtà, Frank
Livingstone ha concluso che, nonostante l'ingente numero di vittime della guerra, essa ha
avuto degli effetti trascurabili sull'aumento della popolazione. Tali effetti sono invece
notevoli per quanto riguarda le società molto piccole. William Tulio Divale e Marvin Harris
sostengono che la guerra funge da fattore di regolazione della crescita della popolazione,
ma non uccidendo maschi adulti, bensì promuovendo l'uccisione delle neonate: l'esistenza
del conflitto violento incoraggia una preferenza ad allevare figli maschi favorendo
l'emergere dell'ideologia della supremazia maschile. Inoltre, limitare il numero delle donne
fertili di una popolazione permette di controllare le nascite in maniera più efficace rispetto
all'uccisione di maschi adulti.
Il conflitto violento può favorire alcune forme di organizzazione politica; secondo Robert
Carneiro, esso ha svolto un ruolo cruciale nella trasformazione delle società umane che
sono passate da piccole comunità autonome a grandi e complessi Stati Nazione:
inizialmente il conflitto coinvolge i villaggi e da ciò risulta il passaggio alla chiefdom,
dopodiché lo scontro tra diverse chiefdom determina il passaggio agli stati, e infine la
guerra avviene tra diversi stati.
La violenza può fungere da incentivo per la solidarietà di gruppo. La solidarietà maschile,
infatti, è rafforzata dalla violenza collettiva: capita frequentemente che le società in cui la
violenza è comune abbiano una maggiore quantità di club, squadre sportive e così via.
Secondo l'antropologo Ralph Holloway, la violenza collettiva e solidarietà di gruppo sono
due facce della stessa medaglia: le caratteristiche psicologiche che consentono agli esseri
umani di creare legami sentimentali tra i membri del gruppo sono le stesse che, rivolte
verso l'esterno, rendono possibile il conflitto violento verso coloro che di tale gruppo non
fanno parte.

6.5 Come è possibile giustificare la creazione di armi di distruzione di massa?


Carol Cohn ha cercato di capire in che modo le persone riescono a nascondere a se stesse
e a giustificare le conseguenze dell'utilizzo delle armi di distruzione di massa. Per far
questo, essa ha studiato per un anno la cultura di un istituto di studi strategici per analisti
della difesa che si occupano dell'utilizzo di armi nucleari. Ha così avuto modo di notare che
uno dei mezzi utilizzati per prendere le distanze dalle conseguenze delle strategie nucleari
consisteva nell'utilizzo di un linguaggio allegorico: attraverso metafore ed eufemismi, il
linguaggio permetteva di offuscare la realtà e di nascondere ciò di cui effettivamente si
parlava. Tale linguaggio prevedeva espressioni come “bombe pulite” (bombe a fusione che
hanno un maggiore potere esplosivo rispetto alle bombe a fissione), “ausili alla
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penetrazione” (tecnologia che facilita il passaggio di missili nucleari attraverso le difese del
nemico),”danni collaterali” (perdite umane), “bombardamento chirurgico”
(bombardamento di depositi di armi o di centri di comando). Frequenti sono le metafore
“domestiche”: i missili sono sistemati in “silos”, i depositi di ordigni in un sottomarino
nucleare sono chiamati “vivai degli alberi di Natale”, bombe e missili sono chiamati “veicoli
di rientro” e un bombardamento massiccio è definito “bombardamento a tappeto”.
L'utilizzo di un simile linguaggio permette di distogliere chi parla dal pensare a se stesso
come vittima di una guerra nucleare. Con gli analisti della difesa non si poteva utilizzare il
linguaggio quotidiano se non rischiando di farsi trattare da ignorante. Il vocabolario non
comprendeva la parola “pace”, il concetto più vicino a “pace” nel loro linguaggio era
“stabilità strategica”. Carol Cohn ci fa quindi notare come questi analisti non riescano a
riconoscere o comprendere le altre realtà implicate nell'uso di armi nucleari.

CASE STUDY N.6 – DECIFRARE LA RETORICA DELLA GUERRA E DELLA VIOLENZA

La risoluzione di un conflitto presuppone che gli avversari comprendano e accettino il


punto di vista reciproco; l'antropologia, sollevando la necessità di guardare il mondo
attraverso lo sguardo degli altri, offre la giusta preparazione a chi lavora come mediatore
diplomatico o consulente matrimoniale o per operare nel campo dell'educazione alla pace.
Un importante contributo fornito dall'antropologia è quello relativo all'attenzione sulla
retorica della guerra e della violenza, ovvero ai modi in cui i sostenitori della guerra
costruiscono il significato del “conflitto” così da guadagnare un diffuso consenso per le
imprese militari. La retorica della violenza cerca di rappresentare i nemici o gli avversari
come umani di categoria inferiore che meritano di subire qualunque genere di violenza.
Maggiori sono le differenze tra i contendenti (coloro della pelle, religione, origine, classe),
più è facile che queste vengano utilizzate per considerare l'altro meritevole di violenza.
Inoltre, è più facile accettare la violenza quando questa viene presentata come una
“difesa” piuttosto che un “attacco”. L'antropologa Lesley Gill ha svolto una ricerca, per
comprendere la retorica della violenza, presso la Scuola delle Americhe (SOA – School Of
Americas). La SOA è un'organizzazione per l'istruzione militare che si trova a Fort Benning,
in Georgia, ed è frequentata da militari e poliziotti dell'America Latina. Tra gli insegnamenti
previsti, si possono annoverare: intelligence militare, tecniche di controinsurrezione, uso
delle armi moderne, e così via. La scuola, nata nel 1946, iniziò a suscitare polemiche negli
anni 90, quando le organizzazioni per i diritti umani rivelarono che tra i circa 60.000
diplomati latinoamericani vi erano i più noti istigatori delle più crudeli atrocità compiute
contro i diritti umani in Sudamerica tra gli anni Settanta o Ottanta. Per rimediare a questa
“pubblicità negativa”, la SOA cambiò il proprio nome in Istituto dell'Emisfero Occidentale
per Cooperazione alla Sicurezza (WHINSEC – Western Hemisphere Institute for Security
Cooperation), e diede inizio ad una campagna di pubbliche relazioni per migliorare la
propria immagine. Così le porte della scuola vennero spalancate a giornalisti e studiosi di
scienze sociali, tra cui appunto l'antropologa Lesley Gill, la quale ebbe la possibilità di
parlare con ufficiali, istruttori, studenti e diplomati; la studiosa ebbe anche dei colloqui con
membri delle organizzazioni per i diritti umani che chiedevano la chiusura della scuola. Gli
Stati Uniti sono militarmente attivi in America Latina da molto tempo, e gli interventi
armati dal 1890 ad oggi sono stati più di 53. In particolare, si intensificarono dopo la
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seconda guerra mondiale, quando l'America Latina divenne una grande fonte di materie
prime industriali e un terreno di scontro della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione
Sovietica. Dopo la rivoluzione cubana del 1959, Fidel Castro rovesciò il governo di
Fulgencio Batista (sostenuto dagli Stati Uniti) e sancì l'alleanza del governo di Cuba con
l'Unione Sovietica, promettendo di spostare il movimento rivoluzionario in altri Paesi
dell'America Latina: gli Stati Uniti fecero così il possibile per stringere alleanze con la
dirigenza militare di quei paesi. La strategia statunitense consisteva nel controllare le
minacce esterne (Unione Sovietica), affidando agli alleati latinoamericani il controllo della
sicurezza interna, sopprimendo i sovversivi locali (di cui facevano parte praticamente tutti i
gruppi dissidenti) i quali erano tutti etichettati come comunisti e contro i quali forze
militari e paramilitari. Gli Stati Uniti hanno alimentato questo processo fornendo armi e
prestiti economici ai leader che appoggiavano, e intervenendo militarmente per rovesciare
i governi non graditi. Nei primi anni Sessante la SOA si occupò dell'istruzione sugli
interventi di controinsurrezione, ma il suo ruolo oltrepassò il semplice addestramento per
comprendere funzioni ideologiche, che consistevano nel convincere le alte sfere delle forze
armate dei Paesi latinoamericani della superiorità dell'”American way of life”, ovvero della
giustezza della visione statunitense del mondo. Ogni anno, più di 1000 militari e poliziotti
delle forze di difesa latinoamericane partecipano ai diversi corsi della SOA: durano da una
a quattro settimane quelli rivolti alle figure di grado meno elevato, mentre dura un anno il
corso di Stato Maggiore rivolto agli ufficiali superiori. Gli istruttori parlano inglese e
spagnolo e fanno di tutto per mettere gli studenti a proprio agio, attraverso programmi di
socializzazione e celebrando tutte le festività latinoamericane. Gli studenti vengono anche
inseriti nella struttura burocratica della scuola, infatti un rappresentante a turno dei vari
Paesi diventa vicecomandante della scuola. Gli studenti possono accedere ai prodotti di
consumo nei centri commerciali esterni o tramite la base locale dove possono fare acquisti
non pagando le imposte. La scuola consente agli studenti di osservare da vicino la
superiorità tecnologica degli Stati Uniti e di partecipare all'American way of life; essi
possono imparare l'inglese, iscrivere i figli alle scuole locali, guadagnare parte dello
stipendio in dollari e procurarsi gli oggetti che desiderano. La SOA tenta di inculcare nei
propri studenti una visione della società che giustifica la repressione militare: la società
viene definita come un insieme di persone che condividono norme, consuetudini, valori,
credenze e tradizioni; queste tradizioni sono costantemente minacciate dall'interno e
devono essere protette per mezzo della legge, della pressione sociale e minacciando di
usare la forza. Dunque le forze armate sono indispensabili per obbligare le persone a
comportarsi in modo adeguato. Questa definizione, disumanizzando contadini, operai,
attivisti per i diritti umani (e, in generale, tutti coloro che si oppongono allo status quo),
giustifica la repressione violenta del dissenso. La povertà viene definita come una
condizione naturale piuttosto che come il risultato di anni di disuguaglianza, e dunque la
rivendicazione di condizioni di vita migliori costituisce la testimonianza della tendenza
innata alla violenza e dell'insubordinazione di contadini, operai e indigeni. Il risultato della
costruzione di un nemico che merita di essere punito, elimina la necessità di trovare un
colpevole: nessuno è stato infatti punito per le centinaia di migliaia di assassinii, torture,
detenzioni illegali verificatisi tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta in America Latina. Il
senso di impunità ha influito notevolmente sulle relazioni razziali negli Stati Uniti, e ha
fatto sì che molti bianchi potessero, senza essere condannati ad alcun tipo di pena,
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uccidere chiunque veniva considerato una minaccia per il loro stile di vita. Come
preannunciato, le critiche contro la SOA ebbero inizio negli anni 90, esattamente nel 1989,
quando il sacerdote cattolico Roy Bourgeois, l'ex prete Charlie Liteky e suo fratello Patrick
entrarono a Fort Benning per commemorare l'assassinio di sei padri gesuiti, di un
domestico e della figlia di uno di questi ad opera dei membri delle forze di sicurezza locali:
ventuno dei soldati implicati si erano diplomati alla SOA. Questo evento permise di attirare
l'attenzione pubblica sulla SOA e sui suoi collegamenti con le violazioni dei diritti umani. Il
sacerdote Bourgeois ha coordinato diverse manifestazioni di protesta negli anni 90
attraverso l'organizzazione SOA Watch; le proteste contro la SOA si diffusero in tutta la
Nazione e si intensificarono nel 1996, quando furono pubblicati i manuali di
addestramento utilizzati nella scuola, in cui erano descritte diverse tecniche di tortura. La
SOA reagì cambiando nome e istituendo un consiglio direttivo formato da due
ambasciatori in pensione, due docenti e due rappresentanti militari, il comandante della
scuola, un avvocato e un rappresentante dell'USAID (United States Agency for
International Development); avviò quindi una campagna di pubbliche relazioni. Gli ufficiali
manipolavano il linguaggio per trasmettere l'idea (del tutto falsa) che l'addestramento
militare fosse un esercizio di democrazia, impegno e promozione dei diritti umani; i corsi
cambiarono nome ma rimasero com'erano.
Lo studio di Lesley Gill permette di capire in che modo la violenza e la repressione possano
essere giustificate e diffuse: solo ripulendo i messaggi dalla retorica della guerra e della
violenza diffusa dai governi è possibile valutare realmente le ragioni della violenza e capire
quali mezzi sono necessari per evitarla.

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CAPITOLO 7
GLOBALIZZAZIONE, NEOLIBERISMO E STATO-NAZIONE

Introduzione. La mia T-shirt


In tutto il mondo, ogni anno si spendono più di ventimila miliardi di dollari in beni e servizi
(a fronte dei quattromila ottocento miliardi del 1960). Sorge così spontanea la domanda:
perché spendiamo così tanto? E quali conseguenze ha questo comportamento sulle nostre
vite? Alcuni dati dimostrano che le persone (negli Stati Uniti) erano più felici e soddisfatte
negli anni 50, quando consumavano circa il 25% di quello che spendono oggi,
ciononostante tutti ritengono che sia normale desiderare di possedere sempre più cose.

7.1 Come definiamo la felicità e il benessere?


Per riuscire a comprendere questa contraddizione, cerchiamo innanzitutto di spiegare in
che modo le società definiscono la felicità e il benessere. Tutte le culture possiedono
attività o simboli materiali ritenuti indispensabili per il raggiungimento della felicità e del
benessere; nella contemporanea società americana, il fattore principale è il denaro, il
quale definisce le relazioni tra venditori ed acquirenti ma anche tra amici, tra genitori e
figli, e così via. L'importanza attribuita al denaro non è affatto universale nello spazio e nel
tempo, e vi sono delle società in cui, pur essendo utilizzato, è considerato con sospetto e
visto come una minaccia all'ordine sociale; i rapporti basati sul denaro, essendo
impersonali e socialmente inconsistenti, vengono distinti dai rapporti di parentela ed
amicizia anche nelle economie di mercato avanzate. Quando si acquista qualcosa in un
negozio, la relazione tra acquirente e venditore si esaurisce nella transazione economica, a
differenza delle relazioni di parentela che sono permanenti e durature. Ciò fa sì che nella
nostra società anche il dono, prima di essere consegnato, deve essere depurato dalla
associazione con il mondo del commercio (ad esempio, in genere viene eliminato il
cartellino del prezzo e il regalo viene confezionato). Dunque, pare che tutte le società
operino una distinzione tra la sfera dello scambio fondata sulle relazioni personali durature
e la sfera dello scambio di breve durata fondata sulle relazioni commerciali e l'uso del
denaro. Ciò che rende il denaro così importante nella nostra società è che esso è l'unico
mezzo che permette di accedere a certi beni o servizi, e perché l'economia funzioni
bisogna fare sempre più affidamento sul mercato. Noi viviamo in un'economia di mercato
e, in virtù della globalizzazione, il mondo intero può essere considerato un mercato. Con il
termine globalizzazione si indica il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli
scambi a livello mondiale in diversi ambiti, a cui conseguono una decisa convergenza
economica e culturale tra i Paesi del mondo e la crescente dipendenza dei paesi gli uni
dagli altri. Con la stessa parola si intende anche l'affermazione delle imprese multinazionali
nello scenario dell'economia mondiale e lo sviluppo di mercati globali, nonché la diffusione
dell'informazione e dei mezzi di comunicazione come internet, che oltrepassano le vecchie
frontiere nazionali. Il termine globalizzazione è utilizzato anche in ambito culturale ed
indica genericamente il fatto che nell'epoca contemporanea ci si trova spesso a rapportarsi
con le altre culture, sia a livello individuale a causa di migrazioni stabili, sia nazionale nei
rapporti tra gli stati. Spesso ci si riferisce anche all'elevata e crescente mobilità delle
persone.

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Il mercato si basa sullo scambio di beni e di denaro: il denaro è appunto qualcosa da dare o
ricevere in cambio di qualcos'altro. Il primo tipo di moneta era chiamato “merce moneta”
in quanto il suo valore era determinato dal metallo con cui era prodotta e che poteva
essere utilizzato per scopi pratici (ad esempio, poteva essere fuso per realizzare dei
gioielli). La cartamoneta venne introdotta nel XII secolo in Cina e si diffuse in Europa due o
tre secoli dopo; essa poteva essere accettata solo se c'era un deposito equivalente di un
qualche metallo prezioso (oro o argento) da poter reclamare sulla base della cartamoneta.
Per garantire maggior controllo relativamente a questo aspetto, il governo degli Stati Uniti
nel 1913 creò la Federal Reserve Bank il cui compito era quello di controllare e gestire
l'offerta di moneta e di regolare la quantità di oro di cui le banche dovevano disporre.
Tuttavia, la Federal Reserve Bank non riusciva ad affrontare i limiti imposti alla crescita
economica poiché il denaro era ancora legato ad una equivalente riserva in oro. Il governo,
dunque varò due decreti: con il primo (1931) vietò ai cittadini di convertire le banconote in
oro (nonostante il valore del denaro fosse ancora legato al valore dell'oro e gli scambi con
i governi stranieri avvenissero ancora attraverso questo); con il secondo (1971), dichiarò
che la moneta circolante non sarebbe stata più scambiata con l'oro né con nessun altro
materiale. Ciò determinò il passaggio dalla merce-moneta alla “fiat money” o “moneta
credito”: una banconota utilizzata come prova di un valore economico ma non più
redimibile. L'introduzione della moneta credito provocò un aumento dell'offerta di moneta
e la possibilità, da parte delle banche, di prestare sempre più denaro. Ebbe così inizio il
periodo della moneta “debito” o moneta “credito”: la prima è quella che si crea quando si
paga attraverso una carta di credito (ovvero quando si mette in circolazione del denaro che
deve essere ancora guadagnato per essere restituito); la seconda corrisponde all'impegno
da parte di chi prende in prestito del denaro di restituirlo (essa rappresenta la maggior
parte dell'offerta di moneta). Quando un'economia permette alle persone o alle istituzioni
di guadagnare denaro con altro denaro (per mezzo di prestiti con interessi, ad esempio), la
crescita economica diventa incessante. Se il benessere individuale si basa sul denaro,
quello nazionale si basa invece sul PIL o Prodotto Interno Lordo, che corrisponde alla
totalità dei beni e servizi venduti e acquistati ogni anno e destinati ad usi finali. Le
economie, per godere di buona salute, devono crescere del 3% all'anno, e un'economia
che ha un tasso di crescita minore del 3% per almeno 2 trimestri consecutivi precipita nella
recessione (in particolare, quando la variazione del PIL rispetto all'anno precedente è
inferiore all'1%, si parla di crisi economica). Affinché il denaro favorisca la crescita, devono
esserci sempre più beni da acquistare; se il denaro aumenta più velocemente delle merci,
bisogna pagare di più per gli acquisti: parliamo di inflazione quando si ha una diminuzione
del potere di acquisto del denaro. L'inflazione rappresenta un fenomeno positivo per i
debitori in quanto il denaro con cui si ripaga un debito ha meno valore rispetto al denaro
che era stato preso in prestito.

7.2 Da dove ha origine la ricchezza necessaria a sostenere la crescita?


Per produrre beni e servizi acquistabili con il denaro, bisogna disporre di miniere, foreste,
fabbriche, istituzioni finanziarie, punti vendita, ecc.; il processo di produzione è
relativamente semplice e consiste nel convertire delle risorse non monetarie direttamente
o indirettamente in denaro, trovando dei modi per mettere sul mercato certi beni o servizi:
tale processo prende il nome di conversione dei capitali. Applicando una serie di regole,
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valori e leggi, la moderna economia promuove la conversione di oggetti e attività, che non
possiedono un valore monetario intrinseco ma a cui corrisponde un valore economico, in
beni e attività che possono essere venduti e acquistati solo sul mercato. Questo avviene
con il capitale naturale (foreste, acqua, minerali, animali), con il capitale politico (accesso
all'informazione, partecipazione alla vita politica, libertà di espressione, attraverso le
multinazionali e le aziende), e persino con il capitale sociale (reciprocità, solidarietà, reti
sociali, funzioni della comunità e della famiglia come educazione, cura dei bambini e
divertimento). Secondo Robert Putnam, il capitale sociale si è costantemente deteriorato
nel corso delle due ultime generazioni, e ciò è dovuto ai seguenti fattori: 1. La graduale
sostituzione degli individui appartenenti ad una “generazione civilmente impegnata” con i
loro figli e nipoti meno impegnati; 2. Diffusione dell'intrattenimento elettronico
(televisione); 3. Limiti imposti dal bisogno di tempo e denaro nelle famiglie in cui lavorano
entrambi i partner; 4. Espansione delle città che ha causato la creazione di comunità prive
di un centro. Tali fattori, non casualmente, sono gli stessi che contribuiscono alla crescita
economica. La conversione dei capitali è indispensabile per la conservazione del nostro
sistema economico, tuttavia, più un Paese diventa ricco, più diventa difficile sostenerne la
crescita. Bisogna dunque capire quale tipo di sistema sia il più adeguato.

7.3 Quale tipo di sistema economico è necessario per sostenere la crescita?


I governi hanno sempre sostenuto la crescita economica, tuttavia, durante il XIII secolo,
alcuni economisti sostennero che bisognava ridurre l'intervento dello stato nell'economia,
fiduciosi del fatto che, se la richiesta di beni e servizi fosse stata soddisfatta, si sarebbe
creato spontaneamente un equilibrio tra domanda e offerta. Tra i sostenitori di questa
ipotesi è d'obbligo citare Adam Smith, il quale introdusse la metafora della “mano
invisibile” per riferirsi al fatto che il sistema economico non richiede interventi esterni per
regolarsi, ma ogni individuo, perseguendo i propri interessi personali, contribuisce al
raggiungimento dell'interesse dell'intera collettività e al suo benessere. Contraddice
questa tesi l'opinione di Polanyi, il quale riteneva che se si lasciasse il mercato libero di
operare, esso distruggerebbe l'ambiente e ridurrebbe le libertà; tuttavia, è anche vero che
regolando il mercato con delle leggi che controllano l'inquinamento, le condizioni di lavoro
e l'uso dei terreni, si determina la distruzione del mercato stesso: ciò da vita ad una
contraddizione apparentemente irrisolvibile. I governi hanno sempre optato per un
compromesso tra l'imposizione di regole e il non-intervento, anche se vi sono state
economie prettamente stataliste come quelle dei Paesi socialisti ed economie capitaliste in
cui l'intervento dello Stato era notevolmente limitato. Di fronte alla situazione americana
del XIX secolo, quando il governo non effettuava alcun tipo di controllo né imponeva delle
norme, e dunque tutto poteva essere venduto e i profitti non erano soggetti a imposte,
l'economista inglese John Maynard Keynes propose una politica in cui il governo regolasse
l'economia per mezzo di spese, imposte, tassi di interesse, e così via. Il coinvolgimento del
governo, l'aiuto ai sindacati e l'imposizione di tasse provocarono una rapida crescita
economica negli Stati Uniti e in Canada durante gli anni Sessanta. Tuttavia, nel decennio
successivo, la crescita rallentò e gli economisti iniziarono ad abbandonare il pensiero di
Keynes a favore di una politica economica meno interventista: si affermò così il
neoliberismo. Economisti, storici e filosofi che si rifecero a questa corrente di pensiero si
definivano “liberali” poiché si richiamavano agli ideali di libertà, mentre il prefisso “neo” fa
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riferimento ai principi delle teorie economiche neoclassiche, che promuovevano ideali


contrari all'ideologia keynesiana e dunque all'intervento dello stato nell'economia. Il
benessere, secondo i neoliberisti, si può raggiungere se si permette ad ogni imprenditore
di operare in un contesto caratterizzato da diritto individuale alla proprietà privata, libero
mercato e libero scambio. Lo stato si doveva dunque limitare a controllare il valore del
denaro e a finanziare le strutture militari, le forze di polizia e quelle giuridiche; se si fosse
reso necessario, il governo avrebbe dovuto fare in modo di inserire nel mercato settori
quali scuola, acqua, terra, sanità, sicurezza sociale. I neoliberisti erano infatti favorevoli alla
privatizzazione delle attività pubbliche e all'abolizione di ogni tipo di restrizione su affari e
finanza. Le politiche economiche neoliberiste vedono la loro prima applicazione negli anni
Settanta, a New York: in questo periodo infatti si assisteva ad una “stagnazione
economica”; le conseguenze furono notevoli anche nei Paesi del Terzo mondo che,
incoraggiati dalle banche, si erano gravemente indebitati e non potevano più restituire il
denaro. Per rinegoziare i prestiti, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale
imposero a questi paesi politiche economiche neoliberiste che prevedevano la
privatizzazione di imprese statali e la diminuzione del valore del denaro; tali cambiamenti
rendevano convenienti le esportazioni per i paesi stranieri acquirenti, ma scoraggiavano le
importazioni per questi paesi poveri, e anche le merci interne divennero più care per i
cittadini: ciò determinò la riduzione dei finanziamenti statali per l'istruzione, i servizi sociali
e l'assistenza sanitaria, e alcuni servizi divennero a pagamento. La restituzione dei prestiti
e dei relativi interessi determinò così quello che George Stiglitz ha definito “il
sovvenzionamento dei Paesi ricchi da parte di quelli poveri”.

7.4 Qual è il ruolo dello Stato-Nazione nel sostenere la crescita?


Nonostante la politica economica neoliberista, che alimenta la globalizzazione, si basi sul
non-intervento dei governi, è possibile osservare che lo Stato-Nazione svolge ancora un
ruolo rilevante all'interno dell'economia. Un termine solitamente associato alla
globalizzazione è “libero scambio”: esso consiste nella rimozione delle barriere alla libera
circolazione delle merci e dei capitali tra le nazioni. Tali barriere, in genere, consistevano in
dazi (tariffe doganali) o in quote di importazione che servivano a limitare la quantità di
merci importabili da altri paesi quando questo rappresentava una minaccia per le industrie
nazionali. L'organismo che oggi ha il compito di controllare il libero scambio è
l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO – World Trade Organization). La WTO è
nata nel 1944 durante la conferenza di Bretton Woods e ha il compito di stipulare accordi
tra i diversi Paesi per rimuovere le barriere commerciali o le leggi sul lavoro o sull'ambiente
quando questi rappresentano “ingiuste restrizioni per il libero scambio”. I neoliberisti,
infatti, sostengono che il governo non deve intervenire per limitare i danni all'ambiente ma
l'ambiente più pulito dovrebbe essere considerato come una merce da acquistare; dunque,
quando si deve scegliere tra la crescita economica e un ambiente pulito, il WTO dà la
priorità alla prima. Tuttavia, in un governo democratico, può succedere che i cittadini
chiedano di approvare leggi sull'ambiente, di varare norme su salari minimi più alti e per la
sicurezza dei lavoratori, di riservare maggiori fondi alla scuola: tutto questo, per i
neoliberisti, è economicamente svantaggioso. Tra l'altro negli anni 70 furono varate due
normative: la Clean Air Act e la Federal Water Pollution Control Act, che furono però
contestate dai grandi gruppi economici. Così i governi non sanno come conciliare le
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richieste dei cittadini alle pressioni derivanti dalla crescita economica; per affrontare
questo problema, essi hanno fatto ricorso a tre tipi di strategie: la prima consiste nel fare
promesse su temi relativi alla società, alla politica e all'ambiente, ponendo l'accento su
democrazia, libertà, giustizia sociale ed ecosostenibilità, senza poi mantenerle e senza
impegnarsi realmente in questi ambiti; la seconda consiste nell'attribuire il potere
normativo a istituzioni non elettive, come il WTO, così da autoassolversi per la mancata
responsività alle richieste; la terza consiste nel far sì che la società e i mezzi di
comunicazione di massa diffondano notizie rassicuranti che plachino i timori delle persone.
Lo stato può ottenere consensi anche attraverso l'utilizzo della forza. Esso viene praticato
per proteggere l'accesso economico a risorse importanti, per accedere ai mercati di altri
Paesi e per sopprimere le proteste contro quelle politiche che potrebbero dimostrarsi
svantaggiose per alcune persone.

7.5 perché l’economia collassa?


E' possibile ridefinire cosa sia buono e desiderabile? In ultima analisi, il neoliberismo può
essere visto come una forma estrema di capitalismo in cui l'intera società è trasformata in
un mercato fondato soltanto su acquisto e vendita e dunque su una inestinguibile crescita
economica, la quale determina la perdita di capitale naturale, politico e sociale. Inoltre, il
benessere che ne deriva è limitato ad alcune categorie di persone mentre crea
conseguenze negative su altre fasce della popolazione. Trasformando sempre più cose in
beni disponibili solo sul mercato, il neoliberismo ha fatto sì che gli individui acquistassero
maggiore importanza rispetto ai gruppi; la solidarietà sociale infatti viene sostituita
dall'individualismo, dalla proprietà privata e dalla responsabilità personale. Alcune
associazioni solidali, come ad esempio i gruppi religiosi tradizionali e ortodossi, si sono
opposte al neoliberismo; il pensiero religioso ortodosso, infatti, si oppone al mercato del
lavoro, fornisce assistenza ai poveri e diminuisce la dipendenza dal lavoro salariale,
condanna i prestiti con interessi e promuove la collettivizzazione dei terreni. Per queste
ragioni, il governo degli Stati Uniti ha cercato di indebolire i movimenti religiosi globali. Le
politiche neoliberiste influiscono anche sulle istituzioni e sull'organizzazione della società;
per favorire la crescita economica costante, bisogna trasformare le persone in macchine da
consumo, che aumentano i propri consumi costantemente; per consumare di più bisogna
guadagnare di più, e per guadagnare di più occorre lavorare di più; di conseguenza, le
imprese devono aumentare le produzioni e gli investitori devono escogitare nuovi sistemi
per incrementare i guadagni: questo non è altro che un ciclo che deve ripetersi
infinitamente. Il neoliberismo ha influenzato anche il sistema educativo americano: tutti i
corsi universitari prevedono degli insegnamenti relativi alla formazione manageriale;
aumentano le “business schools” che aprono delle sedi in collaborazione con università
straniere, e sempre più studenti scelgono di studiare in un Paese straniero. Il problema
sorge allorquando i cambiamenti apportati al curriculum contribuiscono ad enfatizzare la
formazione individuale rispetto ad un sentimento di cittadinanza globale e di impegno
morale. Inoltre, scuole e università impiegano sempre più personale precario che viene
retribuito in misura minore rispetto ai dipendenti. Scuole medie ed elementari sono colmi
di annunci pubblicitari che hanno il solo scopo di creare desideri nei bambini così da
trasformarli in strumenti per la crescita economica. Di fronte a questi dati, non mancano
preoccupazione e voglia di cambiamento. Il Redefining Progress, un istituto di ricerca
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impegnato nella promozione di politiche pubbliche sostenibili, propone di valutare lo stato


della società utilizzando l'Indicatore di Progresso Reale (GPI – Genuine Progress Indicator)
attraverso il quale si misura la qualità della vita tenendo conto di spese positive, che
vengono sommate (che aumentano il benessere, come quelle relative all'educazione dei
figli, al valore del lavoro domestico, al volontariato, ecc) e di quelle negative, che vengono
sottratte (relative all'inquinamento dell'ambiente, alla criminalità, alla separazione delle
coppie, alla diminuzione del tempo libero, ecc). Sottraendo quegli elementi che peggiorano
la qualità della vita, anziché sommarli (come avviene per il calcolo del PIL), ci rendiamo
conto che il PIL (e quindi la crescita economica) è aumentato negli ultimi decenni, mentre il
GPI (e quindi la qualità della vita) ha subito una flessione. Affrontare i problemi posti dalla
crescita significa ridurla, con gravi conseguenze immediate; poiché è il debito a rendere
necessaria la crescita continua, si dovrebbe iniziare cancellando i debiti, ma una decisione
del genere non verrebbe mai accettata dai creditori.

CASE STUDY N.7: ANTROPOLOGIA E POLITICHE PUBBLICHE

Spesso, le attività del mercato hanno degli effetti che non sono previsti e presi in
considerazione dalla politica economica. Uno dei più importanti contributi forniti
dall'antropologia nell'ambito della politica consiste nel rendere le persone consapevoli
delle esternalità del mercato, per fare in modo che le decisioni politiche vengano prese
considerando tutte le possibili conseguenze. Ricordiamo brevemente che le esternalità è
l'effetto di una transazione tra due parti che ricade su una terza, la quale non ha avuto
alcun ruolo decisionale nella transazione stessa. L'antropologia cerca di evidenziare il
bisogno di analizzare la società e le istituzioni, tenendo conto dell'economia, della politica,
dell'agricoltura e dell'ecologia; sottolinea l'importanza della comprensione dei bisogni e
delle aspirazioni delle comunità, e solleva la necessità di esaminare le iniziative di politica
pubblica sotto diversi punti di vista tenendo conto anche delle visioni altrui. L'antropologia
mira inoltre a favorire la consapevolezza che le decisioni politiche si basano su processi
culturali, oltre che politici e sociali; esse celano sempre un'ideologia, si basano su
presupposti impliciti sul funzionamento della società, sui desideri delle persone e sulle
conseguenze delle decisioni politiche che possono essere o non essere accettate. In sintesi,
gli antropologi forniscono uno sguardo critico sulle decisioni politiche e permettono di
mediare tra i responsabili di tali decisioni con visioni opposte relative ai modi preferibili di
risolvere i problemi, le quali non si inseriscono necessariamente in una matrice politica.
Capita spesso che la politica venga usata per far sì che obiettivi soggettivi, ideologici e
irrazionali appaiano razionali e oggettivi; l'antropologia si pone in difesa dei cittadini i cui
diritti vengono ignorati o calpestati da governi, organismi o policy maker non governativi.
Negli Stati Uniti, durante gli ultimi anni, è cresciuto il numero di allevamenti di maiali di
grandi dimensioni, detti “hog hotels” ovvero “hotel per maiali”. Essi sono formati da
strutture di metallo, lunghe e basse, poste su fondamenta di cemento, dotate di ventilatori
ai lati e alle estremità: queste strutture ospitano appunto gli allevamenti di maiali e
consentono di controllare tutte le fasi del processo produttivo. Sono presenti poi dei silos
per il mangime e delle grandi cisterne aperte, chiamate “lagune”, in cui viene spostato il
letame attraverso piattaforme di cemento. I maiali vengono trasportati per mezzo di
camion e non vedono mai la luce del sole. Queste strutture testimoniano l'affermarsi degli
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stabilimenti di proprietà di grandi società, a scapito delle piccole aziende agricole a


gestione familiare. L'obiettivo di questi stabilimenti consiste nel produrre minimizzando i
costi e massimizzando i profitti; in realtà, l'agricoltura industrializzata rappresenta, a causa
dello spreco energetico, una delle forme di produzione di cibo più inefficienti; essa inoltre
non tiene conto dei problemi locali, ha effetti negativi sull'ambiente e riduce l'occupazione.
Per questo gli antropologi si sono opposti alle politiche agricole basate
sull'industrializzazione in quanto sono svantaggiose per le aziende familiari e le comunità e
hanno un pesante impatto sulla salute e sull'ambiente. L'antropologo Walter Goldschmidt,
lavorando per il Bureau of Agricoltural Economics, ebbe modo di studiare le conseguenze
della politica agricola statunitense; in particolare, confrontando due comunità agricole
della California, ebbe modo di notare che quella costituita prevalentemente da piccole
aziende familiari vantava una produzione più elevata per unità di terra, redditi familiari più
alti, maggiore coesione sociale, prosperità degli affari, della vita associativa e degli edifici
religiosi; la comunità costituita prevalentemente da aziende di proprietà di grandi gruppi,
invece, era caratterizzata da un'attività agricola industriale ad elevato consumo energetico,
il lavoro era saltuario e scarso, la vita sociale marginale e il tasso di criminalità elevato. I
dati raccolti da Goldschmidt vennero poi confermati da altri ricercatori, in particolare da
Kendall Thu e Paul Durrenberger, i quali hanno sottolineato che gli allevamenti di maiali di
grandi dimensioni non sono economicamente più redditizi di quelli piccoli, riducono la
forza lavoro, creano problemi ambientali e danneggiano anche il tessuto sociale della
comunità.
Nel 1983, il Dipartimento del Commercio del Michigan finanziò uno studio di fattibilità per
costruire a Parma un allevamento di maiali di 10 unità con 500 scrofe. Tale studio
prevedeva, grazie a questi stabilimenti, una crescita della produzione dell'8% e del profitto
del 24-27%. Pur analizzando in modo dettagliato i vantaggi economici, tale studio ignorò le
conseguenze su società, ambiente e salute; e chi realizzò il progetto non si preoccupò di
avvisare i cittadini i quali ne vennero a conoscenza quando le opere di costruzione erano
già iniziate. Come possiamo immaginare, gli effetti furono devastanti: gli abitanti del luogo
lamentavano la presenza di un “fetore orribile” (che si poteva avvertire anche alla distanza
di 8 km) che causava nausea, mal di testa, disturbi alla respirazione, bruciore a occhi, naso
e gola, problemi di insonnia; per la strada giacevano per giorni maiali morti ammassati,
l'inquinamento dell'aria provocava quello delle acque e così anche i pesci sparivano dal
torrente. Alle proteste, si rispose dicendo che non era stato riscontrato nessun tipo di
inquinamento e nessuna violazione dei regolamenti edilizi o del piano regolatore, e che
dunque quanto stava avvenendo era del tutto legittimo. Tuttavia, non appena gli abitanti
di Parma seppero che il complesso sarebbe stato ingrandito, decisero di opporsi:
consultarono leggi e regolamenti statali, assunsero un rappresentante legale e fecero in
modo che l'azienda si dotasse di impianti per limitare l'inquinamento, riuscendo anche a
far imporre dei limiti a ogni nuova porcilaia. Così, nel 1992 la società dichiarò la bancarotta
e fu costretta a chiudere l'allevamento per far fronte alle spese giudiziarie. Secondo
DeLind, bisogna chiedersi se gli effetti positivi previsti dallo studio di fattibilità fossero
realmente raggiungibili. Ad esempio, era stato promesso che la società avrebbe acquistato,
per nutrire i maiali, il mais locale, così da risolvere i problemi relativi alla sovrapproduzione
di mais; in realtà, DeLind scoprì che gli allevamenti locali acquistavano una quantità
maggiore di mais dei grandi allevatori i quali invece compravano il cibo da fornitori non
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locali. Un'altra promessa non mantenuta è quella relativa all'assunzione di forza lavoro
locale: la società impiegò i propri operai per la costruzione e successivamente solo 12
persone vennero impiegate nell'allevamento, e le cariche più importanti erano state
assegnate a persone non appartenenti alla comunità. Le persone proprietarie di attività
economiche collocate nei pressi degli allevamenti furono costrette a lasciare la zona a
causa dell'odore e dei danni all'ambiente. I vantaggi economici furono nulli per la
comunità: gli investitori non erano della zona e il valore immobiliare dell'area calò
notevolmente perché nessuno voleva più acquistare delle proprietà a causa degli
allevamenti. Nonostante la produzione su larga scala non sia economicamente vantaggiosa
rispetto agli allevamenti a gestione familiare, i grandi produttori invadono il mercato con
prodotti più economici, danneggiando i piccoli produttori i quali spendono per
l'allevamento più di quanto guadagnano vendendo i loro prodotti.
DeLind rilevò che, dopo l'accaduto, gli abitanti di Parma non riuscivano più a fidarsi delle
decisioni prese democraticamente; i rappresentanti del governo avevano assicurato che
non ci sarebbero stati odori sgradevoli, eppure di fronte alle proteste risposero con
l'indifferenza; giunsero anche a negare l'evidenza quando fu fatto loro notare che il
torrente era inquinato e il letame aveva causato un aumento del livello dell'acqua.
L'esperienza con gli allevamenti aveva portato gli abitanti di Parma a convincersi che le
autorità fossero disinteressate ai loro interessi e privilegiassero il potere e il profitto. Il
tessuto sociale si era sfaldato e ci furono reazioni contro i dipendenti dell'azienda che
perseguitavano gli abitanti e li tormentavano anche con telefonate notturne. Dopo
l'aggressione ad una guardia notturna locale, gli abitanti di Parma costituirono un gruppo
di vigilantes con il compito di pattugliare la comunità alla ricerca di intrusi, armati di pistole
e mazze da baseball.
L'attuale economia agricola è caratterizzata dagli allevamenti di maiali di grandi dimensioni
gestiti da grandi aziende, e questi continueranno a diffondersi malgrado la crescente
opposizione e malgrado la dimostrazione che le aziende agricole di piccole dimensioni a
gestione familiare siano in realtà più redditizie e favoriscano il benessere economico e
sociale delle comunità agricole. Gli antropologi così si schierano al fianco di chi lotta contro
chi prende le decisioni relative alle politiche agricole.

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CAPITOLO 8
IL SIGNIFICATO DI PROGRESSO E SVILUPPO

Introduzione. La fine di un modo di vivere


Fino a circa 10.000 anni fa, gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi nomadi formati da 30
a 100 individui, raccogliendo piante spontanee e cacciando animali di piccola e grande
taglia. Per cercare il cibo bisognava allontanarsi e così per questi gruppi era del tutto
normale spostarsi periodicamente. Non vi erano capi formali in quanto tra i gruppi erano
sufficienti accordi economici, sociali e politici, e la specializzazione era quasi assente: se vi
erano “specialisti”, questi erano tali in virtù di poteri spirituali attribuiti loro, attraverso cui
potevano curare malattie o provocare la morte. Queste società erano organizzate sulla
base di legami di parentela e le differenze sociali erano relative a età e sesso. Essendo la
ricchezza equamente distribuita e la specializzazione scarsa, i rapporti tra le persone erano
paritari. Ad un certo punto però, alcuni cacciatori e raccoglitori iniziarono a coltivare piante
e ad addomesticare animali selvatici, così divennero orticultori sedentari e formarono
insediamenti permanenti di 200-2000 persone. Vivevano praticando l'agricoltura itinerante
o “taglia e brucia”, che consisteva nel disboscare tratti di foresta bruciando gli alberi e
coltivare piante sul terreno disboscato. Le terre venivano coltivate per un periodo che
variava da 1 a 3 anni, e poi si procedeva a coltivare un altro tratto di foresta. Essendo i
gruppi di orticultori più numerosi rispetto a quelli di cacciatori-raccoglitori, fu necessario
introdurre una distinzione dei diversi ruoli e alcuni membri si assunsero il ruolo di capo o
anziano del gruppo: ciò fece sì che i membri di alcuni gruppi acquistassero maggiore
importanza rispetto ad altri. Gli individui si organizzarono in diversi clan formati da
200/500 persone le quali rivendicavano la discendenza da un antenato comune.
Successivamente, forse per fronteggiare la necessità di difendersi da altri gruppi, gli
insediamenti si riunirono sotto la guida di capi comuni formando degli stati, costituiti da
migliaia di persone. Si passò dall'agricoltura itinerante a quella dell'aratro o irrigua. I capi
gestivano la manodopera per creare opere per la collettività; a causa della rivalità tra i
gruppi per le risorse, fu necessaria costituire eserciti stabili; fece la sua comparsa anche la
trasmissione ereditaria del potere e i villaggi si trasformarono in città. A seguito
dell'aumento della complessità tecnologica, gli individui iniziarono a coltivare specifiche
abilità e dunque si sviluppò la specializzazione; questa favorì il commercio e lo sviluppo
della classe dei mercanti. I più forti tra questi contribuirono alla trasformazione delle prime
società stato in grandi stati industrializzati.

8.1 Perché le società di cacciatori-raccoglitori passarono all'agricoltura sedentaria?


Nonostante si possa pensare che le invenzioni dell'uomo l'abbiano portato a svolgere in
modo sempre migliore alcune attività, molti antropologi hanno sostenuto la vita dei
cacciatori-raccoglitori fosse migliore rispetto a quella di chi praticava l'agricoltura stanziale,
e inoltre pare che l'agricoltura itinerante fosse più efficiente e provocasse un impatto
ambientale minore rispetto ai metodi moderni di produzione del cibo. Allora perché le
società di cacciatori-raccoglitori passarono all'agricoltura stanziale? La risposta più
semplice a questa domanda è che quest'ultima era un modo più semplice e produttivo per
procurarsi il cibo. Dunque, coloro i quali scoprirono che era possibile seminare e
raccogliere piante commestibili e allevare animali, piuttosto che dover cercare il cibo,
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iniziarono a farlo. L'idea che il cambiamento sia dovuto alla volontà di progredire è
radicata nel pensiero occidentale ed è stata sovvenzionata dagli antropologi durante
l'Ottocento. Lewis Henry Morgan sosteneva che le società umane si erano evolute
attraverso tre fasi: stato selvaggio, stato della barbarie e stato della civiltà; alcune società
si erano evolute fino allo stato della civiltà mentre altre erano rimaste ad uno stato
precedente. Il passaggio da una fase ad un'altra era sancito da una nuova invenzione o
scoperta tecnologica. Il progresso era quindi visto come un percorso e le società potevano
essere collocate in diversi punti del percorso. Secondo Leslie White, la tecnologia
rappresenta la forza motrice dell'evoluzione culturale; gli esseri umani cercano di produrre
energia attraverso la tecnologia e di trasformarla in cibo, abiti e ripari. Mentre i cacciatori-
raccoglitori potevano contare solo sulla propria forza, e quindi potevano sfruttare una
quantità ridotta di energia, grazie ad alcune scoperte tecnologiche fu possibile ottenere
raccolti più abbondanti e allevare un maggior numero di animali. Successivamente,
utilizzando nuove fonti energetiche (carbone, petrolio, gas) grazie ai motori a vapore o a
combustione, la quantità di energia disponibile aumentò notevolmente. Dunque lo
sviluppo culturale dipende dall'efficienza degli strumenti utilizzati. Nel momento in cui
l'aumentata efficienza della produzione consentì a poche persone di produrre abbastanza
cibo per tutti, gli altri furono liberi di specializzarsi in altre attività, e la specializzazione rese
possibile l'espansione e lo sviluppo del commercio. La crescita numerica della popolazione
e l'intensificarsi dei contatti tra i gruppi fecero sorgere la necessità di sviluppare lo stato
per coordinare le attività dei gruppi e organizzare eserciti per difendere le risorse. La teoria
di White si basa sull'idea attualmente prevalente che la tecnologia sia il principale
indicatore del progresso. Durante il XX secolo, alcuni antropologi hanno iniziato a
rivalutare la teoria della trasformazione culturale, e hanno riposto la loro attenzione sugli
studi sulle società di cacciatori-raccoglitori in base ai quali la vita di queste società fosse
tutt'altro che dura e pericolosa: il cibo disponibile era abbondante e procurarlo non era poi
così faticoso. Secondo un'interpretazione dell'evoluzione culturale, il passaggio da queste
società alla moderna società industriale, piuttosto che uno sviluppo o un progresso,
rappresenta un “male necessario”. L'antropologo Mark Cohen ha tentato di spiegare
questo processo analizzando lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori. Questi si stabilivano
in un'area, e in questa cercavano il cibo; quando le risorse alimentari diminuivano,
ampliavano l'area da esplorare per la ricerca. Nel momento in cui , in una certa area, la
densità della popolazione si faceva talmente alta che diversi gruppi iniziavano a incrociare i
propri percorsi, o quando si fece necessario percorrere distanze più grandi, allora questi
gruppi iniziarono a praticare l'agricoltura stanziale. Essi infatti possedevano anche prima la
capacità di coltivare i terreni, ma si limitarono a raccogliere piante spontanee finché la
fatica dovuta allo spostarsi per ricercare il cibo non fu maggiore della fatica richiesta dalla
coltivazione della terra. Dunque il passaggio all'agricoltura sedentaria non fu dovuto ad
una scoperta ma rappresentò una scelta obbligata di fronte all'aumento della popolazione.
Quando le comunità abbandonarono l'attività di caccia e raccolta, iniziarono ad utilizzare le
tecniche dell'agricoltura itinerante; questa però richiede ampie superfici di terreno, poiché
quando un appezzamento viene coltivato per alcuni anni, deve poi essere lasciato a riposo
per venti o trent'anni perché possano ricrescere alberi e arbusti, ed essere riutilizzato.
Questo sistema, riducendo la resa per ettaro, risulta efficiente solo finché la popolazione o
l'estensione della terra disponibile rimangono costanti; se la popolazione aumenta o
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l'estensione della terra coltivabile diminuisce (a causa di cambiamenti ambientali o degli


sconfinamenti di altri gruppi), si rendono necessarie nuove tecniche agricole. Robert
Carneiro ha sottolineato che l'aumento della popolazione rispetto alla terra disponibile, fa
sì che nascano conflitti per le risorse e che si renda indispensabile una maggiore
organizzazione sociale allo scopo di intensificare i metodi di coltivazione. Dunque, alla luce
dei contributi di Cohen e Carneiro, si può affermare che il passaggio dalle attività di caccia
e raccolta ai metodi di coltivazione più impegnativi non rappresenta una libera scelta ma la
reazione necessaria per far fronte alle necessità create dall'aumento della popolazione.

8.2 Perché alcune società sono più avanzate di altre dal punto di vista
dell'industrializzazione?
Per capire per quale ragione vi siano evidenti differenze nello standard di vita tra i Paesi
industrializzati e quelli in via di sviluppo, può essere esemplificativa la storia
dell'espansione dell'industria tessile in Inghilterra tra la seconda metà del Settecento e la
prima metà dell'Ottocento. Durante il Seicento, l'Inghilterra era un paese prevalentemente
rurale e agricolo; l'attività tessile era abbastanza sviluppata: veniva lavorata la lana grezza
per produrre tessuti di bassa qualità. Inizialmente, la produzione era di tipo artigianale e la
maggior parte delle fasi della produzione erano affidate a famiglie contadine o piccole
cooperative. Il tessuto finale o il prodotto derivato dalla lana poteva essere venduto nei
mercati o nelle fiere, o a dei mercanti o commercianti che li rivendevano alle fiere o li
spedivano oltreoceano. Nonostante tale genere di commercio fosse vantaggioso per tutti, i
commercianti capirono che sarebbe stato più conveniente poter esercitare un maggiore
controllo su tipo, quantità e qualità del tessuto prodotto, e così si diffuse il lavoro a
domicilio: i mercanti fornivano ai filatori le materie prime (lana, cotone o lino) e, a volte,
anche gli strumenti; affidavano a questi il compito di realizzare certi tessuti, e dopo un
certo tempo ritiravano i prodotti finiti dando ai produttori un compenso in denaro. Questo
metodo presentava numerosi vantaggi: la manodopera era a basso costo e il mercante, se
la domanda diminuiva, poteva semplicemente ridurre la produzione limitando la quantità
di materiali da dare in lavorazione. All'inizio del Settecento, i mercanti inglesi iniziarono a
pensare che fosse più pratico trasformare il lavoro a domicilio in lavoro industriale,
riunendo i filatori, i tessitori e altri artigiani in un'unica sede per produrre i tessuti. Questo
sistema consentiva profitti minori rispetto al lavoro a domicilio e lo spostamento delle
persone dal lavoro familiare alle fabbriche comportava nuovi meccanismi di disciplina e
controllo; inoltre, l'imprenditore, non potendo più ridurre a suo piacimento la produzione
di fronte alla flessione della domanda, sarebbe stato costretto a mantenere le fabbriche in
attività per ripagare gli investimenti in tecnologia e strutture e avrebbe dovuto alimentare
egli stesso la richiesta dei prodotti. I manifatturieri tessili poterono impiegare i lavoratori
espulsi dalle loro terre a causa delle recinzioni (enclosure acts), delle leggi che cacciavano i
contadini dalle terre di proprietà comune a favore dei proprietari terrieri che intendevano
coltivare cereali per la popolazione in aumento. In assenza di leggi sui salari minimi o
sull'utilizzo di manodopera infantile, la manodopera prevalente era rappresentata da
donne e bambini, i quali venivano sottopagati. Lo sviluppo dell'industria tessile favorì
l'urbanizzazione e lo sviluppo tecnologico. Le invenzioni più importanti per l'industria
tessile furono: la spoletta volante, ideata da Kay nel 1773; la spinning jenny (macchina per
filare), inventata da James Hargreaves nel 1765; il filatoio idraulico di Arkwright (1769); il
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filatoio “mule” di Crompton (1779); infine, nel 1790 si iniziò ad utilizzare l'energia a vapore.
Lo sviluppo dell'industria tessile produsse ingenti ricchezze e diede lavoro a moltissime
persone.

8.3 Perché i Paesi poveri non progrediscono e non si sviluppano allo stesso modo dei
Paesi ricchi?
La rivoluzione industriale cambiò radicalmente la vita delle persone, determinando la
trasformazione di gran parte della popolazione, prima costituita in prevalenza da contadini,
in classe operaia. Le persone, essendo state private delle proprie terre, furono costrette,
per sopravvivere, a vendere la propria forza lavoro. Tuttavia, la disponibilità di lavoro nelle
fabbriche dipendeva dall'andamento della domanda dei prodotti: quando questa
diminuiva, i lavoratori venivano licenziati e non godevano di alcun tipo di tutela. Di
conseguenza, lo sviluppo dell'industria nell'Ottocento non fu lineare, ma, tutto sommato, il
tasso di crescita economica e di progresso tecnologico aumentarono, portando con sé
anche un evidente miglioramento del tenore di vita della maggior parte delle persone nei
Paesi occidentali; i Paesi del Terzo Mondo, invece, videro calare la qualità della propria vita
quando furono sottomessi all'influenza delle potenze europee. Quando ricominciarono a
riguadagnare l'indipendenza dal dominio coloniale, gli abitanti di questi Paesi vollero
imitare lo stile di vita dei Paesi occidentali e per far questo diedero inizio al processo di
industrializzazione: si manifestò così la spinta verso il cosiddetto sviluppo economico.
Questo veniva definito sulla base di tre presupposti fondamentali: 1. la crescita economica
e lo sviluppo rappresentano la soluzione ai problemi nazionali e globali; 2. l'integrazione
economica globale contribuirà in futuro a risolvere i problemi ecologici e sociali; 3.
l'assistenza dei Paesi ricchi nei confronti di quelli sottosviluppati contribuirà al
miglioramento dell'attuale situazione. A partire da questi presupposti, i Paesi
“sottosviluppati” richiesero prestiti e investimenti stranieri per creare infrastrutture
industriali. La Banca Mondiale aveva il compito di promuovere lo sviluppo economico; essa
avrebbe prestato del denaro ai governi per progetti specifici (autostrade, dighe, centrali
idroelettriche, impianti industriali) e i governi si impegnavano nel restituirli nell'arco di un
certo periodo di tempo. Nonostante l'aumento dei prestiti ai Paesi arretrati, la povertà
aumentò e ingenti furono le devastazioni ambientali. Ciò probabilmente accadde (e il caso
del Brasile è esemplificativo) perché, non riuscendo a restituire i prestiti, questi paesi
accettarono rinegoziazioni dei prestiti che comportarono tagli dei costi (riduzione della
spesa per l'istruzione, per l'assistenza sanitaria e sociale, per l'edilizia popolare) che
produssero condizioni di vita peggiori.

8.4 Come si possono comparare i moderni standard di salute e di cure mediche con quelli
delle società tradizionali?
Per ciò che riguarda la qualità della vita, il trattamento e la cura delle malattie
rappresentano uno dei più importanti traguardi raggiunti dalla società moderna.
L'aspettativa di vita infatti è più che raddoppiata nel XX secolo. Grazie ad antibiotici, nuove
tecnologie e nuovi strumenti diagnostici è possibile identificare l'insorgere della malattia e
curarla prima che questa si riveli fatale. Tuttavia, non tutti possono godere di queste
innovazioni, anzi: l'unico fattore da cui dipende la capacità di un Paese di proteggere i
propri abitanti dalla malattia è il grado di eguaglianza economica. Per capire questo,
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bisogna esaminare più attentamente quali ragioni fanno sì che una malattia infettiva
conduca alla morte. Perché questo avvenga, sono necessarie quattro condizioni: 1. il
contatto con un elemento patogeno o con un vettore (zanzare, pulci, zecche, ecc) che lo
diffonde; 2. tale agente patogeno deve essere mortale; 3. a seguito del contatto, l'agente
patogeno deve riuscire a sfuggire al sistema immunitario; 4. l'agente patogeno deve
riuscire ad eludere le misure che la società ha individuato per renderlo innocuo. Le
probabilità di morire, per ognuna di queste condizioni, sono strettamente legate ai modelli
culturali e sociali, e in particolar modo alla diseguaglianza economica e sociale. Per quanto
riguarda la prima condizione, è possibile constatare che i grandi insediamenti umani
permanenti attirano animali nocivi (ratti e pulci) vettori di agenti patogeni; l'agricoltura
sedentaria comporta un'alterazione del paesaggio che può causare l'aumento
dell'incidenza delle malattie; la domesticazione di animali (cani, gatti, suini, bovini)
favorisce il contatto con microrganismi che causano l'insorgere di malattie; la necessità
delle grandi popolazioni di immagazzinare e trasformare gli alimenti accresce le probabilità
di sopravvivenza e diffusione di agenti patogeni; nel mondo moderno, se si è poveri si è più
probabilmente esposti ad agenti patogeni infettivi. Per quanto concerne invece la seconda
condizione, le azioni umane possono rendere un agente patogeno più o meno nocivo, e
questa capacità può essere legata allo stato sociale, alla situazione culturale e al reddito. La
capacità del sistema immunitario è legata fortemente alla dieta, e questa a sua volta è
determinata dal reddito. Infine, nonostante le società abbiano creato metodologie per
curare le malattie infettive, l'accesso dei cittadini alle cure è determinato dal grado di
diseguaglianza economica. Dunque possiamo concludere che le società moderne sono più
soggette alle malattie infettive; allora ci possiamo chiedere se almeno le tecniche di cura
siano migliorate. Tuttavia la risposta a questa domanda non può essere univoca, in quanto
non è univoco il significato che le varie società attribuiscono alla malattia. Secondo la
visione prevalente nella società americana, la malattia è dovuta all'aggressione da parte di
microrganismi (germi, batteri, virus), e per curarla è necessario distruggerli o eliminarli. In
altre società, invece, la malattia è attribuita a diverse cause: magia, stregoneria, perdita
dell'anima, possessione da parte degli spiriti. Credere nella magia o nella stregoneria
significa pensare che uno stregone o una fattucchiera, utilizzando i propri poteri magici o
mistici, possa fare ammalare un'altra persona che lo ha offeso o che ha infranto una regola
di condotta; credere nella perdita dell'anima significa pensare che l'anima abbia
abbandonato il corpo di una persona che ha rapporti difficili con gli altri; infine, credere
nella possessione degli spiriti significa accettare l'idea che uno spirito estraneo sia
penetrato in una persona, la quale ha creato problemi sociali o non ha rispettato degli
obblighi sociali, e ne abbia provocato la malattia. L'elemento che accomuna queste teorie
è che esse sono espressioni di una teoria interpersonale della malattia: la malattia non è
provocata da microrganismi, ma da tensioni o conflitti nelle relazioni sociali. Ad una tale
spiegazione consegue che la cura della malattia debba, come questa, essere sociale: un
guaritore dunque ha anche il compito di risolvere il problema sociale che ha causato il
male. La pratica medica occidentale è giunta con molto ritardo al riconoscimento
dell'influenza esercitata dallo stress sulla salute fisica, anche se alcuni dati dimostrano che
degli eventi della vita, come ad esempio la morte di un coniuge, la perdita del lavoro, il
trasloco in una nuova casa, possono aumentare l'incidenza delle malattie. Dunque, anziché
considerare come inferiori le pratiche di guarigione delle società tradizionali, bisognerebbe
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ammettere che esse si concentrano sulla vera causa della malattia, ovvero le tensioni
sociali, e riescono a curarla attraverso specifiche tecniche. Le cure tradizionali, oltreché
efficaci, sono anche alla portata di tutti, mentre il progresso medico fa sì che solo una
piccola parte dei pazienti possa accedere alle cure, legate a tecnologie costose.

CASE STUDY N.8: FARE SVILUPPO


I tentativi, da parte di alcuni Paesi, di “progredire” e di modernizzarsi, spesso influiscono
negativamente sulla vita degli indigeni e su quella di artigiani e piccoli agricoltori. Il
concetto di “progresso” è definito sulla base di alcuni presupposti etnocentrici su ciò che
costituisce un “modo ideale di vivere”. Dopo la seconda guerra mondiale, si è diffuso un
sistema di cooperazione internazionale con l'obiettivo di perseguire un modello di sviluppo
e progresso promosso da alcuni Paesi. Nel discorso tenutosi il 20 gennaio 1949, il
presidente Truman pronunciò queste parole: “Dobbiamo intraprendere un programma
nuovo e audace per rendere disponibili i benefici delle nostre conquiste scientifiche e del
nostro progresso industriale per l'avanzamento e la crescita delle aree sottosviluppate […].
Ciò che immaginiamo è un programma di sviluppo basato sui concetti di un leale rapporto
democratico”. E' possibile constatare che le categorie di sviluppo, sottosviluppo,
progresso, crescita siano alla base del linguaggio dell'interventismo di matrice occidentale
che contribuisce a creare la categoria dei “sottosviluppati”. Il sistema dell'aiuto previsto dai
progetti di cooperazione consisteva nel portare tecnologie e sistemi di produzione, ma
anche modelli di vita. L'antropologia ci spinge a pensare criticamente al concetto di
sviluppo; i governi, le organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, ONU, Agenzia
americana per lo sviluppo internazionale), organizzazioni non governative (Oxfam,
Amnesty International, Médecins sans Frontières), riconoscono che l'antropologia svolge
un ruolo fondamentale per affrontare i problemi relativi allo sviluppo. In particolare, sono
tre le aree di sviluppo per cui l'antropologia si rende necessaria: 1. l'interazione tra i
programmi di sviluppo e culture e società locali; 2. l'uso del sapere indigeno; 3.il ruolo delle
donne nello sviluppo.
Quando i professionisti dello sviluppo operano senza comprendere la cultura e i valori dei
popoli che cercano di aiutare, possono verificarsi delle gravi conseguenze. Questo è quanto
è avvenuto presso la popolazione indigena del Delta del Mackenzie, un'area dell'Artico
canadese occidentale. Dopo la seconda guerra mondiale, il governo canadese era
intenzionato a sfruttare quest'area come fonte di petrolio, gas e risorse minerarie. Lo Stato
intendeva poi portare i servizi alle popolazioni indigene per prepararle alla vita moderna
tramite la scuola e il lavoro salariato. In realtà, gli indigeni non furono affatto coinvolti
nell'elaborazione di questi progetti. L'elemento principale del piano di modernizzazione
consisteva nella costruzione di una “città della scienza”, costituita da una scuola, un centro
commerciale, un ospedale. I funzionari governativi promossero l'insediamento di
compagnie petrolifere, linee aeree commerciali, alberghi, ristoranti, negozi e imprese di
costruzione. La nuova città fu completata tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni
Sessanta, ed ebbe un enorme impatto sulla popolazione: solo 150 abitanti su 5000
vivevano delle risorse disponibili nel territorio, e pochissimi indigeni vennero assunti
(svantaggiati rispetto alle condizioni di superiorità sociale ed economica delle persone
provenienti dal sud, i quali avevano scarse interazioni con i nativi). I programmi scolastici
vennero elaborati non in base alle esigenze dei giovani del luogo, ma sulla base sei
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programmi delle scuole canadesi di città. Il tasso di abbandono era molto alto e i giovani si
diedero alla microcriminalità e alle aggressioni, atteggiamenti che non erano mai stati
rilevati in precedenza. Nacquero conflitti tra le famiglie con reddito fisso, che potevano
acquistare beni materiali, e quelle che dipendevano dai sussidi statali. Gli uomini non
potevano più vivere cacciando animali da pelliccia perché non disponevano più
dell'equipaggiamento necessario e a causa dell'incertezza del commercio delle pelli. Lo
stress era elevato e comportava il consumo di alcool e l'aumento della criminalità. Gli
errori commessi, dunque, furono molti: non c'erano state consultazioni preliminari con le
popolazioni locali riguardo ai cambiamenti, tutto era stato progettato e realizzato da
personale esterno, il quale si era affidato alle proprie conoscenze pregresse sulle comunità
e su ciò che era meglio per loro. Nessuno tenne conto delle interazioni tra struttura
familiare, valori culturali, economia, formazione scolastica e nuovi residenti, così come
nessuno cercò di applicare il sapere locale nel processo di progettazione. Negli ultimi
tempi, invece, i progetti di sviluppo in Canada hanno accolto i contributi di antropologi
esperti.
I progetti di sviluppo si servono generalmente di esperti che, a causa dei pregiudizi relativi
alle culture diverse dalla propria, danno per scontato che le persone oggetto di studio
possano fornire scarsi contributi. James Scott ha descritto il progetto “Ujamaa” condotto
tra il 1973 e il 1976 in Tanzania. Questo progetto si proponeva di creare dei villaggi che
avrebbero ospitato la popolazione del Paese; tali villaggi furono progettati da funzionari
del governo centrale, senza il coinvolgimento della popolazione locale, senza tener conto
delle sue esigenze economiche o delle sue conoscenze e tecniche di coltivazione e
allevamento. Il progetto mirava a trasformare i cittadini in produttori di colture esportabili.
Era stato dato per scontato che contadini e pastori africani fossero arretrati, privi di
conoscenze scientifiche e poco efficienti, e dunque si riteneva che soltanto con la
supervisione (o la coercizione) di agronomi specializzati i locali avrebbero potuto
contribuire alla Tanzania moderna. I risultati furono devastanti: fu necessario importare
ingenti quantità di alimenti a causa dell'immediata flessione della produzione agricola; il
60% dei villaggi era stato costruito su suolo semiarido e bisognava percorrere lunghe
distanze a piedi per raggiungere i campi coltivati, i quali venivano così lasciati alla mercé di
ladri e animali nocivi. Il contatto con il bestiame provocò la diffusione del colera e di
zoonosi, e l'allevamento concentrato in alcune zone causò la devastazione del terreno da
pascolo e dei mezzi di sussistenza. Dunque, anziché creare un modello valido di sviluppo, la
campagna di ripopolamento dei villaggi aveva creato una collettività agricola alienata e
non collaborativa.
Ben diverso è il caso del progetto di sviluppo agricolo realizzato dall'antropologo Ronald
Nigh per il Messico, che prevede l'applicazione di metodologie agricole e zootecniche locali
per le colture e per rigenerare le foreste pluviali distrutte dall'allevamento di bestiame. Il
Messico ha visto la perdita di vasti tratti della foresta pluviale, e inoltre, anche se il 60% del
suolo produttivo è destinato al pascolo o alla produzione di foraggio per il bestiame, più
della metà della popolazione non consuma prodotti di origine animale. La distruzione della
foresta pluviale per i pascoli era da attribuire, secondo Nigh, all'imposizione di un modello
industriale di produzione agricola, che prevedeva la produzione di un singolo prodotto nel
più breve tempo possibile. Esso era quindi intensivo dal punto di vista tecnologico e
dannoso per l'ambiente, e inoltre tendeva a convertire intere regioni ad uno solo tipo di
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produzione agricola. L'applicazione di un tale modello industriale in America centrale ha


determinato la distruzione di ampi tratti di foresta con fuoco ed erbicidi, e la successiva
semina di piante erbacee non adatte all'ambiente, con il conseguente degrado del suolo
causato dal continuo brucare degli animali; le varie aree di pascolo vengono poi
abbandonate e nuovamente ricoperte dalla vegetazione spontanea. Nigh suggerì così di
adottare tecnologie agricole più produttive e meno dannose per l'ambiente, basate su una
concezione dell'agricoltura come processo ecologico piuttosto che come processo
industriale; bisognava dunque combinare l'approccio agroecologico basato sulle pratiche
indigene, che prevede la produzione di alimenti rispettando l'ambiente, con la ricerca
agroeconomica moderna. Una simile metodologia permetteva di creare una policoltura,
cioè rendeva possibile la produzione di diverse colture e animali (a dispetto della
monocoltura del modello industriale). I metodi locali di produzione nella foresta pluviale
rendono possibile la rigenerazione del suolo, della flora e della fauna, anche perché non
fanno uso di erbicidi per il disboscamento. Il pascolo intensivo, con l'introduzione di razze
animali e piante erbacee selezionate, rende nuovamente disponibili aree di foresta
tropicale che altrimenti non sarebbero mai state convertite a pascolo. Utilizzando solo
fertilizzanti organici e un regime di pascolo controllato, si possono recuperare delle risorse
idriche come laghi, fiumi, stagni e utilizzare le risorse ad esse legate (pesci, uccelli,
molluschi, ecc). Ciò dimostra che lo studio e l'utilizzo del sapere indigeno contribuisce al
successo delle iniziative di sviluppo.
Un'area dello sviluppo particolarmente enfatizzata dagli antropologi è quella denominata
“Donne nello sviluppo” (WID – Women in Development). Una grande percentuale degli
operatori dello sviluppo è costituita da donne; l'approccio WID evidenzia la necessità di
coinvolgere le donne in tali progetti, soprattutto quelle impegnate nell'insegnamento, nel
settore sanitario e nella cura dei bambini. La pianificazione dello sviluppo non può non
coinvolgere le donne, le quali si fanno sempre più strada nel mercato del lavoro e
assumono un'importanza sempre più rilevante nel far quadrare il bilancio familiare.
L'organizzazione KWAHO (Kenya Water for Health) si occupa di portare acqua potabile agli
abitanti delle zone rurali; quando le comunità chiedono aiuto alla KWAHO, viene fornita
una consulenza antropologica che spinge i rappresentanti della comunità stessa ad
assumersi il problema. Quando i pozzi sono stati scavati e le pompe installate, viene creato
un piccolo gruppo di donne che controlla le pompe e si dedica alla sua manutenzione.

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CAPITOLO 9
LA STORIA DEGLI ORIENTAMENTI TEORICI: UNA SINTESI

9.1 Le premesse storiche


Le discipline antropologiche affondano le proprie radici nei nuovi modi con cui il pensiero
moderno, e l’ Illuminismo in particolare, impostano il problema della natura e della storia
del genere umano. Si valorizzano i risultati dell’ osservazione, descrizione e comparazione
“obiettive” dei costumi di quelle popolazioni scoperte grazie ai viaggi transoceanici.
Per tutto il Medioevo e per i primi secoli dell’ Età Moderna, invece, costumi e credenze
erano valutati in rapporto alla religione cristiana, per cui si aveva un’ opposizione tra ciò
che era “cristiano”, e quindi “razionale” e “civile”, e ciò che era “pagano”, e quindi
“barbaro” e “superstizioso”.
Ma tra Umanesimo e Rinascimento, si verificano una nuova attenzione per lo studio dei
testi classici, il miglioramento delle cognizioni tecniche necessarie per affrontare i viaggi
transoceanici e la conseguente produzione di un numero sempre crescente di resoconti di
viaggio, la riflessione filosofica valorizza l’ indagine empirica e la ragione umana si
allontana sempre più dai dogmi della fede.
La scoperta dell’ America consente di affrontare in modo nuovo la questione della diversità
dei costumi e dei sistemi di valori. Le Sacre Scritture, cui ancora ricorre Cristoforo Colombo
nei suoi diari di viaggio, costituiscono adesso un punto di riferimento incerto e lacunoso.
Nei secoli XVI-XVII, teologi e giuristi si confrontano sulla legittimità della conquista europea
del continente americano e sulla possibilità di legittimare la riduzione in schiavitù delle
popolazioni scoperte.
Michel de Montaigne, nel suo saggio Del Costume, manifesta comprensione nei confronti
dell’ alterità, un atteggiamento non comune tra i suoi contemporanei. Nella sua opera si
riscontrano nozioni e questioni centrali nei dibattiti che stanno all’ origine delle discipline
antropologiche. Innanzitutto, l’ uso dei termini “barbaro” e “selvaggio” per qualificare
credenze e comportamenti di popolazioni “altre” da “noi” per la diversità di alcuni tratti
fisici, dei costumi, delle istituzioni sociali, dei modi di pensare, ossia di tutti quegli aspetti
che andranno a costituire il contenuto della nozione antropologica di cultura.
Montaigne sostiene che nel designare qualcosa o qualcuno come “barbaro” non si eprime
un giudizio oggettivo di inferiorità rispetto ad un modello di perfezione della natura
umana, bensì una valutazione dipendente dal punto di vista di chi la esprime. Appartenere
ad un gruppo determinato influisce, quindi, sulla formulazioni di giudizi su credenze e modi
di vivere di gruppi umani che sentiamo “altri” da “noi” e porta a riconoscere come
pienamente “umani” e “morali” solo se stessi. Nel 1906 William Sumner, nella sua opera
Folkways, definirà questo atteggiamento etnocentrismo: “la concezione per la quale il
proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono valutati in rapporto
ad esso. Ogni gruppo ritiene che i propri folkways siano gli unici giusti e, se osserva che
altri gruppi hanno folkways diversi, li considera con disprezzo”.
Il giudizio di barbarie esprime una valutazione relativa e non assoluta e dice qualcosa su chi
lo emette, più che su coloro ai quali è riferito.
Un altro contributo rilevante allo sviluppo delle discipline antropologiche è stato fornito
dalle teorie contrattualiste del legame sociale, come quella di Thomas Hobbes nel

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Leviatano e quella di Jean Jacques Rousseau nel Contratto Sociale. L’ idea comune a queste
teorie è che la vita degli uomini in società è il frutto di un contratto stipulato sulla base
dell’ accettazione di regole stabilite per via di convenzione. I padri fondatori della disciplina
saranno i primi a riflettere a partire da questi temi allo scopo di individuare le forme
primitive delle credenze religiose e delle istituzioni sociali e ricostruirne l’ evoluzione
storica.
Dalla critica delle teorie razziali della diversità umana, che si sviluppano nei secoli XVIII e
XIX, l’ antropologia culturale moderna trarrà parte importante della sua legittimità di
disciplina scientifica che descrive e spiega i rapporti tra unità e diversità della specie
umana.
Anche le teorie del progresso della civilizzazione sono alla base dello sviluppo delle
discipline antropologiche. Si tratta dell’ idea che la storia umana può essere vista come un
progresso regolato da leggi di sviluppo, analoghe a quelle che presiedono lo sviluppo di un
organismo biologico, valide per tutti i gruppi umani. Due formulazioni particolarmente
importanti della teoria degli stadi di sviluppo della società e della razionalità umane sono
quella del francese Auguste Comte, che formulò la legge dei tre stadi, e quella dell’ inglese
Herbert Spencer, che sostenne la tesi che la realtà era regolata da un’ unica legge
fondamentale di evoluzione da stadi più semplici a stadi più complessi. In questa
prospettiva teorica, le società dell’ Europa continentale dei secoli XVIII e XIX costituivano lo
stadio di sviluppo più avanzato dell’ umanità, mentre le popolazioni extraeuropee erano
considerate inferiori e primitive.
Ma un altro principio cardine delle teorie illuministe era quello dell’ unità psichica del
genere umano, l’ idea che tutti gli uomini conoscevano la realtà applicando gli stessi
principi di ragionamento. La differenza degli stadi di sviluppo delle varie popolazioni era
allora spiegata con la nozione di “razza”, per cui le varie razze umane hanno abilità
psichiche diverse.
Anche i padri fondatori delle discipline antropologiche Edward Burned Tylor e Henry L.
Morgan ricorreranno a spiegazioni di tipo razziale nell’ ambito delle loro teorie delle leggi
di sviluppo delle forme di razionalità e della società.

9.2 I padri fondatori della disciplina

L’ orientamento teorico dei padri fondatori dell’ antropologia prende il nome di


evoluzionismo unilineare. Secondo questo filone, l’ evoluzione delle società sarebbe
avvenuta per tappe di sviluppo uguali per tutte, dallo stadio primitivo a quello barbaro per
giungere, infine, ai popoli civilizzati. Questa scuola ha esponenti sia in Inghilterra sia in
America: tra i primi Edward Burned Tylor, Maine e James Frazer, tra I secondi Lewis Henry
Morgan.
La visione dei padri fondatori restava in gran parte congetturale e spesso sfociava in grandi
generalizzazioni. Inoltre, la teoria darwiniana dell’ evoluzione per selezione naturale
mostrava che i principi con cui in natura era avvenuta l’ evoluzione delle specie viventi
erano ben diversi da quelli postulati dai padri fondatori. Questi ultimi, infatti, vedevano la
storia naturale come una sequenza deterministica di stadi di sviluppo e non come un
processo complesso, imprevedibile e casuale.

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Notevole importanza per lo sviluppo delle discipline antropologiche riveste la nozione di


cultura di Tylor, il quale in Primitive Culture (1871) scrive: “Cultura o civiltà, intesa nel suo
ampio senso etnografico, è quell’ insieme complesso che include la conoscenza, le
credenze, l’ arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine
acquisita dall’ uomo in quanto membro di una società”.
Tylor è fautore di un uso esteso del metodo comparativo e trovò che in società che
avevano raggiunto uno stadio di sviluppo più avanzato potevano permanere elementi
culturali che erano sopravvivenze del suo passato, ossia tracce che avrebbero dovuto
dimostrare una società avanzata era passata per condizioni di vita simili a quelle in cui si
trovavano le popolazioni “selvagge” o “barbare”.
Tylor s’ interroga anche su quale potesse essere stata la prima forma di religione nella
societè primitive e giunge alla conclusione che deve trattarsi dell’ animismo, elemento
comune a tutte le religioni. All’ origine di ogni religione vi sarebbe infatti la credenza che
esiste un principio immateriale, l’ anima, che in certe situazioni, si separa dal corpo. L’ idea
di anima sarebbe nata per spiegare la morte e situazioni come quelle sperimentate nei
sogni.
L’ approccio di Tylor alla spiegazione delle manifestazioni culturali è stato chiamato
intellettualismo: Tylor tendeva a spiegare tutti gli elementi che contribuiscono alla
formazione della cultura in termini di processi consci, razionali.
Sul versante americano dell’ evoluzionismo unilineare si colloca Lewis Henry Morgan, al
quale si deve un’ indagine comparativa delle terminologie di parentela.
Una delle ultime espressioni dell’ evoluzionismo unilineare è quella di James Frazer che,
nella sua opera Il ramo d’ oro, spiega come il pensiero umano si sia evoluto da una forma
di pensiero magico ad un pensiero religioso, quindi ad una forma di pensiero scientifico.
Secondo Frazer, i primitivi ritenevano di poter controllare l’ ordine delle cose attraverso il
pensiero magico. Con i giusti riti certi uomini dotati di certi poteri potevano controllare
queste forze. Ma ad un certo punto l’ individuo capisce che la realtà non è controllabile e
decide di affidarsi a potenze superiori. Nasce così il pensiero religioso e gli individui
pregano queste entità superiori perché interagiscano benevolmente nelle loro vite.
Quando gli essere umani si rendono conto che le leggi della natura sono conoscibili e
sperimentabili nasce il pensiero scientifico, che si distingue dalla magia, “sorella bastarda
della scienza”, per l’ uso del metodo sperimentale.
Il limite principale degli evoluzionisti è stato sicuramente quello di considerare uno dei
modi possibili di sviluppo come l’ unico modello possibile.

9.3 il diffusionismo e il particolarismo storico di franz boas

In Germania tra XIX e XX secolo fiorisce un orientamento noto come diffusionismo, il cui
primo esponente importante è Friedrich Ratzel. Quest’ ultimo di preoccupa di ricostruire i
processi storici di diffusione degli elementi culturali da un’ area all’ altra, in seguito a
migrazioni di gruppi o a prestiti tra gruppi vicini. Si tratta di un fenomeno differente dall’
invenzione indipendente.
Altro studioso di rilievo per l’ antropologia contemporanea è il tedesco Franz Boas che
propone un approccio allo studio dei fenomeni culturali chiamato particolarismo storico.

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Franz Boas effettuò lunghe ricerche sul campo partecipando direttamente alla vita delle
popolazioni che studiava, instaurando rapporti di estesa collaborazione con alcuni individui
al fine di raccogliere informazioni etnografiche. Produce una documentazione etnografica
imponente che include la trascrizione estesa e integrale di numerose narrazioni e testi
verbali indigeni. Celebre è rimasta la sua descrizione del potlach per l’ utilizzo che ne
fecero Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono e Ruth Benedict in Modelli di cultura. Il
potlach consiste nella preliminare accumulazione di beni da parte di un capovillaggio degli
indiani delle praterie che, per un certo periodo di tempo, raccoglie cibo, pellicce,
specchietti, perline e altre cose ritenute di valore, sia in termini di sussistenza sia in termini
simbolici, per poi indire un potlach, in concomitanza di eventi socialmente rilevanti, in cui
distribuirà gli oggetti accumulati ai capivillaggio intervenuti. I beni in eccedenza vengono
distrutti. Dopo un certo lasso di tempo viene indetto un altro potlach da parte di un altro
capovillaggio che dovrà accumulare e distruggere più beni del precedente, e così via. Sono
in gioco il prestigio e lo status del capovillaggio. Si tratta, inoltre, della messa in forma in
una modalità drammatizzata della violenza.
Franz Boas non elaborò una teoria sistematica dei processi culturali, ma analizzò con rigore
molti problemi e casi concreti mostrando così il carattere preconcetto ed empiricamente
infondato delle ricostruzioni storiche degli evoluzionisti, le cui ricostruzioni restavano, in
moltissimi casi, semplici congetture smentite dai risultati di un’ indagine storica concreta.
Boas consiglia allora di utilizzare il metodo storico. Il suo apporto teorico è in pratica
consistito nel portare ad escludere le spiegazioni di credenze e pratiche basate, oltre che
sul concetto di sviluppo evolutivo, sui fattori di razza e ambiente naturale.
Secondo alcuni critici, alla fine della sua carriera, Boas assunse una posizione di scetticismo
epistemologico secondo la quale gli antropologi avrebbero dovuto limitarsi a descrivere e
documentare i costumi e i modi di vita dei gruppi umani senza spiegarli alla luce di leggi. Il
fine delle ricerche doveva essere quello di fornire delle descrizioni etnografiche .

9.4 i continuatori di franz boas e la scuola di “ cultura e personalita’ “

Due dei più importanti allievi di Boas furono Lowie ed Alfred Kroeber.
Lowie sostenne che la cultura era l’ oggetto di studio specifico dell’ etnologia come
disciplina distinta dalla psicologia. In Primitive Society (1920) paragonò la cultura ad una
“cosa formata di stracci e frammenti” dalle caratteristiche e provenienza le più diverse.
Nel saggio The Superorganic (1917), Kroeber sostenne la tesi che la cultura è l’ oggetto di
studio specifico dell’ antropologia e rimanda a fenomeni collocati ad un livello
superorganico. In questo saggio, Kroeber si domanda cosa differenzia i mammiferi che
vivono nell’ artico dagli esseri umani che vivono alla medesima latitudine? Lo studioso
scrive che il cucciolo di orso nasce naturalmente dotato di zanne, artigli e pelliccia
(adattamento organico), il cucciolo di uomo invece deve trarre queste cose dall’ ambiente
circostante (adattamento superorganico). Il cucciolo di uomo è, dunque, naturalmente
privo di caratteristiche che gli consentono di sopravvivere, ma trae gli strumenti culturali
necessari dal contesto. Quella di Kroeber è una visione stratigrafica in cui la cultura è vista
come un abito che s’ indossa, che afferisce quindi ad una dimensione superorganica.
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Un altro concetto elaborato dalla generazione di antropologi statunitensi successiva a Boas


è quello di acculturazione, definita come l’ insieme di fenomeni che si verificano quando
gruppi di persone di culture diverse entrano in contatto diretto e continuo con
modificazioni conseguenti nei modelli culturali di uno o di entrambi i gruppi.
La scuola culturalista di “Cultura e personalità” si occupa della relazione tra individuo,
soggettività e la dimensione in cui si trova e si interroga sul modo in cui si forma la
personalità.
Ruth Benedict volle mostrare che ogni gruppo umano deriva la propria peculiarità dal fatto
che le manifestazioni della sua cultura sono integrate in base ad un pattern culturale che
ne determina lo stile distintivo. La studiosa confrontò la cultura di quattro popolazioni e
giunse alla conclusione che in ognuna di esse i diversi aspetti dei modi di vita erano
contrassegnati da un particolare modello di disposizione psicologica. L’ importanza della
sua opera, Modelli di cultura, risiede nel fatto di aver inaugurato la riflessione sul rapporto
tra sviluppo della personalità individuale e modelli culturali collettivi.
Margaret Mead effettuò ricerche sul campo tra i gruppi di cui scrisse. In Coming of age in
Samoa, la studiosa descrive l’ adolescenza a Samoa, gruppo di isole della Polinesia,
sostenendo che lì non vi fossero quei conflitti che caratterizzavano invece quell’ età negli
Stati Uniti. La Mead riteneva che i differenti modelli educativi fossero responsabili di
questa differenza e che Samoa poteva costituire un modello da cui prendere spunto per
affrontare i problemi “di casa”. In Sesso e temperamento in tre società primitive, la Mead
comparò le relazioni tra uomini e donne in tre diverse popolazioni della Nuova Guinea allo
scopo di dimostrare che le indoli femminile e maschile non derivavano semplicemente
dalla natura della differenza sessuale, ma erano un prodotto della cultura particolare di
ogni gruppo.
Secondo Edward Sapir, allievo di Boas, il resoconto etnografico della Mead doveva essere
accolto con cautela, dal momento che la studiosa non conosceva la lingua locale. L’
antropologo neozelandese Derek Freeman mise fortemente in crisi il quadro dipinto dalla
Mead ritenendo che a Samoa l’ adolescenza e la sessualità prematrimoniale erano causa di
accesi conflitti.
Altri due esponenti di spicco della scuola di Cultura e personalità furono Abraham
Kardiner, psicanalista di formazione che elaborò il concetto di “personalità di base“, e
Ralph Linton, il quale elaborò i concetti di analisi dell’ interazione sociale, in particolare
quelli di status e ruolo.

9.5 Èmile Durkheim e la scuola Sociologica Francese

Emile Durkheim si colloca all’ origine dell’ antropologia sociale ed è il fondatore della
Sociologia Classica Francese. Altri esponenti di spicco di questa scuola sono: Lucien Levy-
Bruhl, Robert Herzt, Marcel Mauss ed Arnold Van Gennep.
Emile Durkheim spiega i fatti sociali a partire da essi ed in questo risulta debitore di
William Robertson Smith, il quale ravvisa un errore metodologico nell’ evoluzionismo. Lo
studioso sostiene che non ha senso interrogarsi sull’ origine della religione, come aveva
fatto Tylor, perché potremmo solo ipotizzarla, non avremmo prove certe. E’ utile, invece,
guardare ai riti concretamente agiti. Il fenomeno religioso è un fatto sociale che ci impone

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di guardare nel concreto gli individui quando si riuniscono nella celebrazione di un rito,
invece di ipotizzare.
Nel suo libro Le regole del metodo sociologico (1895), Durkheim scrive che “i fatti sociali
vanno trattati come cose e non possono cambiare per la volontà del singolo, sono dei modi
di agire o pensare che esercitano un’ influenza coercitiva sulla coscienza individuale”.
Lo studioso francese sostiene che le rappresentazioni collettive, che rientrano nel novero
dei fatti sociali in quanto stati di coscienza collettiva che si impongono alla coscienza
individuale in maniera inconscia ed apparentemente automatica, sono particolarmente
dominanti nelle società semplici. Queste ultime sono caratterizzate da una solidarietà di
tipo meccanico, in virtù della quale coscienza individuale e coscienza collettiva sono
sovrapponibili per cui quando si verifica una violazione delle norme si mette in crisi l’
intero sistema. Nelle società più articolate, invece, si ha una solidarietà di tipo organico per
cui coscienza individuale e coscienza collettiva non sono perfettamente sovrapponibili e l’
individuo ha un margine di libertà che gli consente di discostarsi dalla norma senza
mettere in crisi l’ intero sistema.
Tutta l’ opera degli esponenti della scuola sociologica francese rappresenta il passaggio da
una problematica evoluzionista ad una funzionalista nello studio dei fenomeni sociali. Il
loro obiettivo è stato quello di comprovare l’ ipotesi secondo la quale le forme di pensiero
e di socialità affermatesi nell’ Europa moderna erano il risultato dell’ evoluzione di forme
più semplici di cui la sociologia doveva ricostruire i meccanismi e le tappe. Questi studiosi
insistettero sulla natura sociale dei meccanismi di organizzazione della conoscenza.
Ne Le forme elementari della vita religiosa (1912), Durkheim si occupa delle origini e della
natura della religione. Anche in questo caso era necessario condurre un’ analisi su fatti, per
cui lo studioso prese in considerazione le società semplici degli aborigeni australiani.
Durkheim affermò che le credenze religiose si fondano su un’ opposizione irriducibile,
fondativa della realtà stessa, che caratterizza tutte le società arcaiche, ossia l’ opposizione
tra il sacro ed il profano, sulla quale si fonda il sistema delle classificazioni duali. E’ sacro
tutto ciò che non è profano e viceversa. Durkheim non individua contenuti specifici, ma
una dimensione speciale a partire dai riti in cui accade qualcosa di diverso dal solito.
Altro esponente della scuola sociologica francese è Lucien Levy-Bruhl, il quale ne Le
funzioni mentali nelle società inferiori (1912) avanzava la tesi secondo cui la mentalità dei
primitivi sarebbe caratterizzata da principi di associazione dei fenomeni diversi da quelli
logici di identità e non contraddizione. Lo studioso sostenne che il pensiero primitivo era
prelogico ed istituiva connessioni tra i dati dell’ esperienza secondo il principio di
partecipazione mistica per cui tutto è in contatto con tutto. Secondo Levy-Bruhl, infatti, il
primitivo non distingue tra realtà sensibile e realtà ultraterrena, ma la realtà tutta si
compone di livelli interconnessi in cui agiscono forze. Il primitivo non ha sviluppato la
dimensione dell’ individualità e non riesce a distinguere il soggetto dall’ oggetto.
Nei suoi Quaderni, pubblicati postumi (1949), Levy-Bruhl rettifica la sua posizione
affermando che non esiste una mentalità primitiva che si distingua dalla mentalità
moderna razionale per il fatto di essere mistica e prelogica, ma nei primitivi è più facile
osservare una forma di mentalità mistica presente in ogni mente umana di tutti i tempi e
tutti i luoghi. Comunque Levy-Bruhl si sforza di rintracciare uno spazio differenziale dei
primitivi con procedure altrettando valide quanto quelle dell’ uomo moderno, logiche nei
termini del pensiero simbolico.
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Anche Robert Herzt rientra nel novero degli antropologi appartenenti alla scuola
sociologica francese. Muore giovane nella prima guerra mondiale, ma lascia due saggi
molto importanti: La preminenza della mano destra e Studio sulla rappresentazione
collettiva della morte.
Nel primo saggio Hertz sottolinea come la mano destra sia preminente sulla mano sinistra
in termini di considerazione sociale. La mano destra è una vera e propria istituzione sociale
che gode di considerazione positiva al pari di tutto ciò che è riconducibile al lato destro
delle cose.
Nel secondo saggio, lo studioso riflette a partire dal fatto che nonostante la morte sia un
fatto naturale, tutti i gruppi umani non si sono limitati ad accettare il fatto che la vita abbia
una fine ma hanno sentito l’ esigenza di marcare quest’ evento. Hertz s’ interroga sulla
rappresentazione collettiva della morte, su cosa significhi morire. La morte non si limita a
mettere fine ad un’ esistenza biologica, ma ad una dimensione sociale che va ripristinata.
Presso una popolazione del Borneo, Hertz osserva un rito che corrisponde a quello delle
seconde esequie di individui di un certo rango. Si tratta di un secondo funerale ed è solo
alla fine di esso che si pone realmente fine al periodo di lutto. La morte di coloro i quali nel
panorama sociale hanno una collocazione rilevante crea un vulnus nel corpo sociale , un
vuoto che deve essere colmato. Ma non subito. E’ necessario che la società elabori il lutto
ed arrivi gradualmente alla nuova configurazione della rete di relazioni sociali. La morte è,
dunque, un fatto naturale che viene fatto oggetto di un trattamento culturale sia per il
morto sia per la società. La transizione deve avvenire in certi tempi, che variano a seconda
delle circostanze. E’ una cosa che si vede anche in certe pratiche rituali, come quelle di
iniziazione degli adolescenti all’ età adulta.
In questa cornice Arnold Van Gennep elabora la nozione di riti di passaggio. Lo studioso
individuava uno schema tripartito alla base di molti riti attraverso i quali si rappresentano
passaggi sia di natura sociale (es. riti d’ iniziazione all’ età adulta) sia cosmologica (es.
avvento di un nuovo anno). I riti di passaggio si presentano articolati in una sequenza di
atti ed operazioni, in cui ad una prima fase di separazione dalla condizione che si
abbandona, segue una fase di margine, alla fine della quale avviene l’ aggregazione alla
nuova condizione. Victor Turner, della Scuola britannica, parla di fase preliminare, fase
liminare e fase postliminare.
Il continuatore più noto e originale dell’ indirizzo durkheimiano è Marcel Mauss, che si
preoccupa di esaminare le ragioni del funzionamento sociale.
Il suo lavoro più influente è Saggio sul dono (1923-24) in cui parla di varie forme di dono,
tra cui il kula dei Trobriandesi descritto da Bronislaw Malinowski ed il potlach descritto da
Franz Boas. Lo studioso sostenne che il donare, lungi dall’ essere un atto gratuito e
volontario, risponde al principio della reciprocità per cui all’ atto del donare segue quello di
ricevere e, in seguito, quello di contraccambiare il dono. Il dono è allora un meccanismo di
integrazione sociale a mezzo del quale si stringono alleanze di varia natura. E’ un esempio
di fatto sociale totale, ossia un fenomeno che mette in moto tutte le istituzioni della
società e cementa la coesione globale.
Il kula è uno scambio di collane e braccialetti di conchiglie rosse o bianche che si muovono
le une in senso orario gli altri in senso antiorario nelle isole Trobriand compiendo un
circolo e tornando al punto di partenza. Si tratta di uno scambio di ordine simbolico dal
valore incommensurabile. Una volta entrati nel circolo non si può uscire, “una volta nel
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kula, per sempre nel kula” dicono i Trobriandesi. Parallelamente al kula si svolge il gimwali,
un commercio vero e proprio. Questo sistema di transazioni mette in moto una grande
macchina organizzativa. I beni vengono trasportati con canoe accuratamente scolpite e
dipinte, specificamente deputate al kula. Tutta la comunità concorre alla realizzazione dell’
evento. Il destinatario non può trattenere gli oggetti oltre un certo tempo per non
scatenare lo hau, una forza impersonale che diventerebbe negativa e si rivolterebbe contro
chi ha trattenuto gli oggetti oltre il tempo previsto. Quest’ ultima è la spiegazione che gli
attori sociali danno, ma Claude Levi-Strauss rimprovera a Mauss di essersi fermato a livello
della spiegazione consapevole che gli stessi attori sociali si danno. Secondo l’ antropologo
strutturalista, infatti, lo hau altro non è che la ragione cosciente sotto al quale gli uomini
hanno colto una necessità la cui ragione sta altrove. Questa ragione, dice Levi-Strauss, è un
principio fondativo dell’ ordine sociale, un principio di reciprocità di ordine strutturale
immediatamente dato. Questo discorso si lega alla questione della proibizione dell’
incesto, che Levi-Strauss riconduce al sociale portando così a compimento al massimo
grado la riflessione della sociologia classica francese. La proibizione dell’ incesto riguarda
tutti i gruppi umani di tutti i tempi e tutti i luoghi, per questo motivo potremmo collocarla
a livello della natura. Tuttavia è una regola per cui afferisce all’ ambito della cultura. La
proibizione dell’ incesto ha consentito il passaggio dalla natura alla cultura. Risponde al
principio di reciprocità come principio strutturale immediatamente dato che sta alla base
dello scambio di beni, di donne e di parole, che garantisce alla società di sopravvivere. Così
lo hau costituisce la ragione dello scambio. Il dono sta alla base del sociale.

9.6 l’antropologia sociale in Gran Bretagna

A cavallo tra IX e XX secolo in Gran Bretagna si ha un maggiore interesse per gli approcci
diffusionisti. La nuova generazione di etnologi proviene da studi di scienze naturali e ciò si
riflette nella rilevanza che accordano alla ricerca empirica. Tra gli studiosi più importanti
che effettuarono ricerche sul campo emerge William Rivers che partecipò ad una missione
scientifica che aveva lo scopo di raccogliere dati etnografici nelle aree costiere degli stretti
di Torres. Si fa strada l’idea che chi compie ricerche sul campo di carattere etnologico
debba avere una formazione specialistica. Rivers parla di lavoro intensivo, che si
caratterizza per il fatto che il ricercatore vive per un anno o più presso la comunità che
studia in maniera dettagliata in tutti i suoi aspetti.
Si tratta di indicazioni simili a quelle fornite da Bronislaw Malinowski in Argonauti del
Pacifico occidentale (1922), frutto di una lunga ricerca sul campo nelle Trobriand. In
Argonauti Malinowski analizza il sistema di scambio kula. (Il kula è uno scambio di collane
e braccialetti di conchiglie rosse o bianche che si muovono le une in senso orario gli altri in
senso antiorario nelle isole Trobriand compiendo un circolo e tornando al punto di
partenza. Si tratta di uno scambio di ordine simbolico dal valore incommensurabile. Una
volta entrati nel circolo non si può uscire, “una volta nel kula, per sempre nel kula” dicono i
Trobriandesi. Parallelamente al kula si svolge il gimwali, un commercio vero e proprio.
Questo sistema di transazioni mette in moto una grande macchina organizzativa. I beni
vengono trasportati con canoe accuratamente scolpite e dipinte, specificamente deputate
al kula. Tutta la comunità concorre alla realizzazione dell’ evento. Il destinatario non può
trattenere gli oggetti oltre un certo tempo per non scatenare lo hau, una forza impersonale
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che diventerebbe negativa e si rivolterebbe contro chi ha trattenuto gli oggetti oltre il
tempo previsto. Quest’ ultima è la spiegazione che gli attori sociali danno, ma Claude Levi-
Strauss rimprovera a Mauss di essersi fermato a livello della spiegazione consapevole che
gli stessi attori sociali si danno. Secondo l’ antropologo strutturalista, infatti, lo hau altro
non è che la ragione cosciente sotto al quale gli uomini hanno colto una necessità la cui
ragione sta altrove. Questa ragione, dice Levi-Strauss, è un principio fondativo dell’ ordine
sociale, un principio di reciprocità di ordine strutturale immediatamente dato. Questo
discorso si lega alla questione della proibizione dell’ incesto, che Levi-Strauss riconduce al
sociale portando così a compimento al massimo grado la riflessione della sociologia
classica francese. La proibizione dell’ incesto riguarda tutti i gruppi umani di tutti i tempi e
tutti i luoghi, per questo motivo potremmo collocarla a livello della natura. Tuttavia è una
regola per cui afferisce all’ ambito della cultura. La proibizione dell’ incesto ha consentito il
passaggio dalla natura alla cultura. Risponde al principio di reciprocità come principio
strutturale immediatamente dato che sta alla base dello scambio di beni, di donne e di
parole, che garantisce alla società di sopravvivere. Così lo hau costituisce la ragione dello
scambio. Il dono sta alla base del sociale.)
Secondo Malinowski, che in questo è simile a Rivers, il lavoro di ricerca sul campo deve
consistere in un soggiorno prolungato e isolato dal contatto da altri bianchi presso la
popolazione di cui si deve studiare la cultura e di cui si deve conoscere la lingua locale. Per
mezzo dell’osservazione partecipante il ricercatore doveva scoprire lo scheletro della vita
tribale, annotare in un taccuino gli imponderabili della vita reale e costituire un corpus
documentario delle espressioni idiomatiche e dei discorsi formalizzati. Nella
documentazione di tutti questi aspetti era essenziale cogliere il punto di vista del nativo.
Malinowski inoltre consiglia di studiare i diversi aspetti della cultura tribale nella loro
interconnessione. Malinowski diede il nome di funzionalismo al suo orientamento teorico e
alla sua teoria scientifica della cultura, secondo la quale essa doveva essere considerata un
grande apparato strumentale, i cui organi erano le istituzioni e la cui funzione era il
soddisfacimento più efficiente dei bisogni fondamentali degli individui.
Dopo la sua morte, la moglie di Malinowski pubblicò il diario privato dell’antropologo da
cui emergeva un immagine di sé e del metodo etnografico diversa da quella presentata in
Argonauti. Malinowski vi manifestava sentimenti di insofferenza verso i nativi dissonanti
rispetto a l’empatia di cui parlava nelle sue pubblicazioni scientifiche. Inoltre, riferiva di
avere rapporti con gli altri europei residenti nelle isole.
Alfred Radcliffe- Brown formula un nuovo quadro teorico: il cosiddetto struttural-
funzionalismo.
Al di la delle notevoli differenze, gli approcci teorici di Malinowski e Radcliffe-Brown
possono essere definiti funzionalisti poiché condividono l’idea che tra i costumi, le
credenze e le istituzioni di una popolazione esistano delle correlazioni funzionali, ossia un
interdipendenza sistematica.
Radcliffe- Brown dedica dei saggi ai rapporti di parentela, da cui emerge l’idea chiave
secondo cui la terminologia di parentela e l’insieme di diritti, doveri e atteggiamenti
connessi a specifici ruoli parentali, formano un sistema integrato in base ad alcuni principi
strutturali.
Radcliffe-Brown e alcuni suoi allievi delinearono la teoria della discendenza, che
caratterizzò l’antropologia sociale britannica. Secondo questa teoria l’organizzazione del
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sociale passa attraverso le modalità di reclutamento dei parenti, per cui se voglio
conoscere il funzionamento del sociale è necessario che guardi come i gruppi si
organizzano. Levi-Strauss, invece, guarda ai sistemi di parentela in termini di teorie
dell’alleanza, a partire dalle analisi di Mauss.
Edward E. Evans-Pritchard capisce che c’è un certo rapporto tra il sistema di appellativi e il
sistema di atteggiamenti.
Nel 1940 lo studioso pubblicò una monografia su I Nuer, una popolazione del Sud del
Sudan, che l’ autore descrisse come un modello di società “segmentaria”, in cui non vi era
nessun potere centralizzato e i gruppi definivano la loro coesione e la loro
contrapposizione in base ad un principio di “distanza strutturale” tra i “segmenti” in cui la
tribù si suddivideva.
Edmund Leach e Max Gluckman, che può essere considerato il fondatore della Scuola di
Manchester, criticarono l’ assunto funzionalista secondo cui le società sono “sistemi chiusi”
normalmente osservabili in una situazione di “equilibrio” e di “stabilità strutturale”.

9.7 l’antropologia culturale statunitense nel secondo novecento: indirizzi neo


evoluzionisti, antropologia cognitiva, antropologia interpretativa.

Nell’ antropologia statunitense dagli anni Cinquanta ad oggi non si è verificato tanto
l’abbandono della “questione della cultura”, come lasciava presagire la rassegna delle 164
definizioni del termine cultura di Kroeber e Kluckohn, quanto un rinnovamento, in direzioni
disparate, dei quadri teorici e dei programmi di ricerca secondo cui svilupparla.
Alla fine degli anni Quaranta, la questione dei principi evolutivi delle forme sociali e
culturali, sollevata da Morgan, fu ripresa da Leslie White che, in The Evolution of Culture,
sostenne che le diverse manifestazioni della vita sociale e culturale di una popolazione
dipendono casualmente dalla quantità di energia pro capite che essa è capace di
controllare e sfruttare; di conseguenza i cambiamenti della sua “cultura” sono una
conseguenza dell’ aumento di efficienza della tecnologia.
Julian H. Steward, che definì il proprio orientamento teorico “ecologia culturale”, riteneva
che le caratteristiche dell’ ambiente naturale costituiscono un limite cui l’ organizzazione
dei modi di vita, e la stessa tecnologia devono adattarsi.
Marvin Harris, fautore del “materialismo culturale”, ha sostenuto che la “scienza della
cultura” deve mirare a identificare le determinanti materiali dei fenomeni culturali, le quali
consistono non solo nell’ ecologia e nella demografia, ma nel loro carattere economico,
ossia nel fatto che essi costituiscono soluzioni ottimali per uno sfruttamento efficiente e
quindi “economicamente” razionale.
Altro influente indirizzo dell’ antropologia statunitense è la political economy, i cui
rappresentanti più noti sono stati Eric Wolf, Sidney Mintz e William Roseberry. Secondo
questi studiosi, la cultura, lungi dall’ essere una realtà autonoma, è il risultato di processi
più ampi, di scala regionale e globale, di carattere economico e politico, in cui un
determinato gruppo è storicamente inserito, e da cui il gruppo stesso e la sua stessa
“località” sono stati spesso il prodotto. Questo indirizzo di ricerca è stato caratterizzato
dalla posizione secondo cui le regolarità e le diversità dei fenomeni culturali vanno
spiegate da principi di ordine “extraculturale” che appartengono alla sfera delle relazioni
ecologiche, tecnologiche, demografiche ed economiche.
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L’ interesse per le relazioni tra cultura e linguaggio aveva costituito un filone importante
delle ricerche di Franz Boas. Uno dei suoi allievi più celebri, Edward Sapir, aveva affermato
che “la linguà è una guida alla realtà sociale. Il mondo reale viene costruito, in gran parte
inconsciamente, sulle abitudini linguistiche del gruppo”. Qualche anno dopo puntualizzerà
che “non vi è una semplice corrispondenza tra la forma di una lingua e la forma di una
cultura di coloro che parlano quella lingua”.
Benjamin L. Whorf riprende l’ idea per cui parlare una determinata lingua con una
particolare struttura grammaticale determina i modi in cui si pensa e conosce la realtà. La
tesi generale divenne nota come “ipotesi Sapir-Whorf” o ipotesi del determinismo
linguistico.

MARSHALL SAHLINS E CLIFFORD GEERTZ. I POSTMODERNISTI

Marshall Sahlins ha iniziato la sua carriera da posizioni teoriche vicine all’ ecologia culturale
e al neo marxismo, ma presto se ne distacca sostenendo che l’ economia delle popolazioni
di cacciatori-raccoglitori non è casualmente determinata dai fattori generalmente presi in
considerazione dai suddetti orientamenti (condizioni ambientali, demografia, dotazione
tecnologica,etc…). Sahlins ha proposto di chiamare “modo di produzione domestico” quel
tipo di organizzazione economica, dipendente non solo da condizioni materiali, ma da
scelte culturali. In Cultura e utilità, lo studioso rilancia la tesi secondo cui qualsiasi attività
pratica degli esseri umani è mediata dall’ ordine simbolico della cultura. Riprendendo la
questione dei tabù alimentari, su cui Harris aveva impostato la sua teoria “materialistica”
della cultura ( la “scienza della cultura” deve mirare a identificare le determinanti materiali
dei fenomeni culturali, le quali consistono non solo nell’ ecologia e nella demografia, ma
nel loro carattere economico, ossia nel fatto che essi costituiscono soluzioni ottimali per
uno sfruttamento efficiente e quindi “economicamente” razionale), Sahlins ha sostenuto
che proprio questi costituiscono una delle tante prove possibili della rilevanza di scelte
culturali “arbitrarie” rispetto alle condizioni materiali.
Clifford Geertz, padre dell’ antropologia interpretativa, ha affrontato la questione della
“crisi della rappresentazione etnografica” collegandola alla questione fondamentale dell’
antropologia culturale statunitense: la natura della cultura come “sistema di significati”
che si esprime nella maniera di agire delle persone. Geertz sostiene che la cultura è sì una
“rete di significati”, ma una rete che esiste e prende forma solo nella dimensione sociale e
pubblica, ossia nella misura in cui i significati si costruiscono, trasformandosi e
rielaborandosi continuamente, nella vita sociale delle persone.
Geertz ha sostenuto che l’ antropologia, a differenza della sociologia, non mira alla
spiegazione dei “fatti” registrati dall’ etnografo mediante l’ identificazione delle “leggi” da
cui essi derivano, ma, piuttosto, alla comprensione dei significati con cui le persone
interpretano tanto i loro comportamenti quanto quelli degli altri. Secondo lo studioso, la
conoscenza antropologica risiede fondamentalmente nell’ etnografia, intesa come attività
di “descrizione densa” dei diversi intrecci di significato che il ricercatore è capace di
ricostruire nei comportamenti che sta descrivendo. In questo senso, la descrizione
etnografica è dunque una “interpretazione di interpretazioni” e, non una semplice
“raccolta” di fatti oggettivamente “dati”.

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Secondo Geertz, la cultura è un testo che l’ etnografo deve ricostruire partendo dallo stato
frammentario, incompleto ed enunciato in una lingua inizialmente ignota, con cui esso gli
si presenta. L’ etnografia può dunque essere assimilata ad un’ attività di “testualizzazione”,
che implica operazioni di “interpretazione” e “traduzione”.
Nello scritto Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della comprensione antropologica,
Geertz chiarisce il senso della famosa espressione di B. Malinowski per cui, nelle sue
descrizioni, il ricercatore deve cogliere “il punto di vista del nativo” . Non significa certo che
l’ etnografia si esaurisca nel racconto di un’ esperienza di immedesimazione nel mondo dei
significati e dei concetti “indigeni”, ma l’ etnografia ha senso solo se riesce, in modo
convincente per tutti, a costruire un ponte di comprensione tra il senso di quei concetti
“indigeni” e quei concetti che invece, sono “lontani” dall’ esperienza di “nativi” ma
“familiari” a quel pubblico.
Il fine ultimo dell’ antropologia è quello di ampliare il campo dell’ esperienza di “essere
umani” condivisa dagli uni e dagli altri, mostrando che la ricchezza di questa esperienza si
situa nella compresenza dei modi diversi che hanno gli uomini di conferirle significato.
Nell’ ultimo ventennio del XX secolo, molte delle questioni sollevate da Geertz sono state
riprese dal cosiddetto movimento “postmoderrno” sviluppatosi nell’ antropologia
statunitense. L’ etichetta “postmoderno” è stata proposta dal filosofo francese Jean-
Francois Lyotard. In antropologia, l’ etichetta “postmoderno” è stata spesso accompagnata
da quella di “poststrutturalismo”. Quest’ ultima si riferisce alla maniera con cui filosofi
come Jacques Derrida e Michel Foucault hanno argomentato che, diversamente da quanto
lo strutturalismo aveva postulato, l’ analisi dei concetti di “sapere” e di “discorso” è
irriducibile all’ identificazione dei codici simbolici da cui essi sarebbero strutturati.
La raccolta di saggi “Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia”, curata da James
Clifford e George E. Marcus, è una sorta di manifesto programmatico dell’ antropologia
postmoderna. Il tema unificante della raccolta è quello secondo cui le scritture
etnografiche non possono più essere considerate un semplice resoconto analitico dei
contesti culturali in cui l’ antropologo ha compiuto la propria ricerca sul campo, ma sono
testi in cui si esprimono particolari “poetiche”, ossia strategie retoriche di
rappresentazione di sé e degli “altri”, che sono connesse alla costruzione di relazioni di
potere, ossia a “politiche”. La “fabbricazione” delle etnografie si basa sulla soggettività del
ricercatore, soggettività che non è solo legata alle condizioni contingenti della sua
esperienza di ricerca sul campo, ma anche, a monte, ai diversi contesti di natura politica
preesistenti alla sua esperienza, che la strutturano anche nel momento della “traduzione”
in scrittura. I testi etnografici non sono dunque rappresentazioni realistiche della realtà di
cui parlano, ma “allegorie”, di carattere più letterario che scientifico, delle relazioni di
potere tra i loro autori e i soggetti rappresentati. Clifford sostiene che l'’autorità delle
descrizioni, e dunque delle scritture etnografiche deriva dalle condizioni di potere che
rendono autorevole e retoricamente persuasivo il “racconto” di una “cultura”, di una
“società”, di un “gruppo”. L’ etnografia classica” ha costituito un modello di “autorità
monologica”, in quanto quella dell’ etnografo era l’ unica “voce” legittimata a parlare dei
modi di vita degli “altri” e a ricostruirne l’ unità e la coerenza a partire da indizi
frammentari e dalla particolare contingenza della situazione da lui esperita nel corso della
ricerca. Dall’ acquisita consapevolezza del potere rappresentativo della propria scrittura, l’
etnografo “critico” deve elaborare nuove modalità, meno asimmetriche e più “dialogiche”
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e “polifoniche”, di “restituzione” documentaria dei risultati della propria ricerca, che


rendano visibili ai lettori le concrete condizioni e interazioni sociali e politiche in cui essa si
è svolta, dando più spazio alle altre “voci” a partire dalle quali costruisce il suo “quadro”:
non solo quelle dei “nativi” con cui ha interagito, ma anche quelle provenienti da altre
modalità di rappresentazione: letterarie, artistiche, giornalistiche.
James Clifford ha insistito sul fatto che “nel bene e nel male”, le etnografie del Novecento,
in modo analogo alla “cultura” stessa, non sono dei “frutti puri”, ma dei prodotti che sono
storicamente derivati dall’ intreccio dell’ antropologia con ideologie politiche, poetiche
letterarie, movimenti di avanguardia. Oggi il pubblico delle etnografie è costituito anche
da persone che provengono dalle “culture” o “società” descritte, e ciò non può non
riflettersi sul modo in cui le rappresentazioni etnografiche sono considerate o meno
“accettabili”, “condivisibili”. La stessa intensificazione e pervasività dei fenomeni migratori
ha radicalmente cambiato i rapporti tra “culture” e “luoghi”, rendendo improponibile l’
idea di una loro coincidenza assoluta e invariabile.
George Marcus e Michael Fisher ritengono che nel XX secolo il contributo veramente
originale dell’ antropologia alla conoscenza del mondo contemporaneo è consistito in un
“progetto” di “critica culturale” delle rappresentazioni di sé e degli altri, e tale deve restare
nel mondo contemporaneo globalizzato.

9.8 L’ antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss

Claude Lévi-Strauss è il padre dell’ antropologia strutturale. Secondo lo studioso i fenomeni


culturali possono essere visti come dei sistemi simbolici analoghi ai sistemi linguistici la cui
funzione fondamentale è comunicativa. La vita sociale implica infatti per definizione la
dimensione dello scambio e della reciprocità, di cui aveva già parlato Marcel Mauss nel suo
Saggio sul dono. Sia i sistemi linguistici che i sistemi culturali sono sistemi di segni.
Secondo Levi-Strauss, l’ analisi scientifica dei sistemi sociali e culturali deve ispirarsi all’
analisi dei sistemi linguistici proposta da Ferdinand de Saussure nel Corso di Linguistica
Generale tenuto a Ginevra. Secondo de Saussure, la lingua è un sistema di segni (unione
arbitraria tra significante e significato per fatti interni alla lingua). All’ interno della lingua è
possibile distinguere la dimensione della langue, che è il codice collettivamente condiviso,
dalla dimensione della parole, l’ atto linguistico individuale.
La parentela umana è un fatto sociale al pari della langue, ossia un sistema di segni. Poiché
la parentela presuppone lo scambio tra gruppi diversi è il meccanismo chiave di istituzione
del legame sociale. Le parentele funzionano come una lingua. Come nei segni di una lingua
non possiamo stabilirne il valore in astratto ma per scarti differenziali dagli altri segni, così
nella parentela i termini non si possono conoscere in sé o per un ancoraggio biologico, ma
in relazione al sistema di riferimento.
Ne Le strutture elementari della parentela, Claude Levi-Strauss spiega la proibizione dell’
incesto, che va considerata come il principio che ha consentito il passaggio dalla natura alla
cultura. E’ la regola che fonda la società come sistema di comunicazione e di scambio; è il
versante negativo della regola positiva di esogamia, che prescrive di contrarre matrimonio
al di fuori del proprio gruppo familiare. Chiaramente il contenuto della proibizione dell’
incesto può stabilirsi solo in relazione al sistema di parentela di riferimento, e non in
astratto.
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La ragione della necessità dei legami di parentela è individuata nei lunghi tempi di
svezzamento del cucciolo dell’ uomo, che grazie a questa rete di relazioni può
sopravvivere.
Levi-Strauss riprende, per certi aspetti criticandolo per essersi fermato a livello
superficiale, Mauss nel suo Saggio sul dono, in cui espone la sua teoria per cui alla base di
ogni legame vi è un principio di reciprocità degli scambi. Tale principio si ritroverebbe
infatti sia nella natura comunicativa del linguaggio in cui si scambiano parole, sia nella
circolazione dei beni che consente di stringere alleanze, sia nei sistemi di parentela e di
matrimonio alla cui base vi sarebbe lo scambio di donne tra gruppi diversi. Quest’ ultimo
ha due varianti: scambio ristretto e scambio generalizzato.
Le strutture si situano a livello dell’ attività del pensiero con cui lo spirito umano impone
un ordine al flusso continuo della realtà, opponendo e correlando.
L’ antropologia ha per obiettivo generale la scoperta e l’ analisi delle strutture profonde
per mezzo delle quali la mente ordina la realtà naturale e sociale attraverso una serie di
coppie oppositive, analoghe a quelle studiate dalla linguistica strutturale di Ferdinand de
Saussure.
L’ idea è quella di una medesima attrezzatura di base e ciò che l’ antropologo deve fare è
cogliere i principi di ordine logico che determinano certi contenuti a livello delle strutture
coscienti.

9.9 gli approcci dinamisti, l’antropologia marxista e altri indirizzi di ricerca


dell’antropologia francese contemporanea.

Esponenti della cosiddetta “antropologia dinamista” francese sono Roger Bastide e


Georges Balandier, i quali hanno svolto un ruolo pionieristico nello sviluppo di prospettive
di analisi che mettessero al centro lo studio dei processi di cambiamento sociale e culturale
nelle società del “Terzo mondo” e mostrassero la loro irriducibilità all’ alternativa tra la
tendenza alla conservazione invariabile dei propri “ordini” culturali e la passiva
assimilazione e integrazione dei modelli occidentali in seguito alla sottomissione al
dominio coloniale. Per entrambi questi studiosi, le società vanno viste non come sistemi
ordinati, stabili e dai confini ben definiti, ma come processi intrinsecamente dinamici,
“formazioni eterogenee” dai confini mutevoli nelle quali convivono agenti e interessi
sociali, regole normative e regole “pragmatiche , strategie di esercizio dl potere e forme di
resistenza, il cui adattamento e la cui interconnessione reciproci sono sempre imperfetti,
provvisori, contingenti, e, in definitiva, intrinsecamente ambigui.
Molte delle questioni sollevate dall’ antropologia dinamista sono state riprese, dagli anni
Sessanta in poi, dallo sviluppo dell’ antropologia marxista che, fino a tutti gli anni Settanta,
ha costituito, assieme allo strutturalismo, l’ indirizzo teorico egemonico, in Francia come
altrove.
La possibilità di applicare la prospettiva marxista all’ analisi teorica ed etnografica delle
società extraeuropee in Francia ha visto tra gli esponenti più noti Claude Meillassoux,
Maurice Godelier ed Emmanuel Terray. Le loro ricerche hanno riguardato l’ analisi dei
“modi di produzione” propri di queste società e dei rapporti sociali di produzione che li
definiscono. Gli antropologi marxisti hanno sottolineato che anche nelle società “tribali”,
incluse quelle la cui sussistenza si basa sulla caccia e raccolta, esistono forme di
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sfruttamento della forza lavoro e restrizioni di accesso alle risorse a favore di certi
individui. Da questo punto di vista, essi hanno contestato la tesi lévi-straussiana della
reciprocità come principio fondamentale delle relazioni sociali, sottolineando che in ogni
società, anche in quelle in cui non si registrano notevoli differenze di ricchezza materiale
tra gli individui ed in cui non vi sono vere e proprie classi sociali, esistono sempre dei
rapporti di dominazione e delle disuguaglianze.
Già dalla fine degli anni Sessanta, in Francia, il dibattito suscitato sia dall’ opera di Claude
Levi-Strauss che dall’ antropologia marxista, ha fatto emergere una serie di posizioni che
hanno costituito un’ alternativa ad esse. Michel Foucault e Jacques Derrida hanno insistito
sulla questione delle forme del potere e hanno ripensato, in questa chiave, le stesse
produzioni linguistiche.
Molti antropologi hanno inoltre sottolineato come “disuguaglianze” e “gerarchie” siano
esse stesse dei principi che si situano al cuore delle strutture di parentela ponendo
pertanto dei limiti invalicabili agli aspetti di reciprocità nelle relazioni sociali. Lo stesso
Godelier, nel suo L’ enigme du don, ha ripreso l’ analisi sul dono di Mauss, su cui Levi-
Strauss aveva basato la propria tesi della reciprocità come principio fondamentale della
socialità, sostenendo che essa non tiene conto di certe classi di beni, presenti in ogni
società, il cui carattere sacro li esclude dai circuiti di reciprocità.
La critica dell’ universalità del principio di reciprocità è anche il punto di partenza dei lavori
di Louis Dumont sul sistema delle caste in India.
In connessione più diretta con la teoria delle strutture di parentela di Lèvi-Strauss,
Francoise Heritier ha sostenuto che al fondamento di esse, ancor prima della proibizione
dell’ incesto, vi è un principio di “valenza differenziale dei sessi”, ossia di gerarchia delle
relazioni tra uomini e donne che istituisce, a livello dell’ ordine simbolico su cui si fonda la
natura stessa della società, la superiorità dei primi sulle seconde. Questo principio
spiegherebbe perché in tutte le società si considera che siano le donne, e non gli uomini, a
circolare nello scambio matrimoniale.
Una critica più marcata allo strutturalismo levi-straussiano è stata quella di Pierre Bourdieu
e della sua “teoria della pratica”. Lo studioso ha rimproverato a Lèvi-Strauss di ridurre il
ruolo degli agenti sociali a quello di semplici esecutori o contravventori di regole di
carattere astratto, situate al livello delle strutture mentali. In questo modo, si impedirebbe
una comprensione di come questi agenti adattano le loro strategie di azione al carattere
sempre nuovo e imprevedibile delle situazioni che si trovano ad affrontare. Per
comprendere come la vita sociale segua principi di regolarità, bisogna inoltre rifiutare l’
idea che le azioni degli individui consistono semplicemente nella messa in atto di strategie
razionali volte al perseguimento cosciente dei propri interessi. Per Bourdieu è illusorio
pensare che le pratiche sociali siano il semplice esercizio di una libertà di scelta individuale
rispetto alle opzioni di azioni disponibili. La “logica della pratica” è piuttosto il frutto di un
habitus, ossia di disposizioni interiorizzate in seguito alle esperienze di socializzazione all’
interno di specifici “campi” di posizioni e relazioni sociali. Il concetto di habitus, secondo
Bourdieu, consente di comprendere come l’ azione sia soggetta a condizionamenti che
operano in un modo che favorisce una continua ristrutturazione delle relazioni sociali.

9. 11 la tradizione disciplinare in Italia

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Quella degli studi italiani, secondo Alberto Cirese, uno dei suoi maggiori esponenti, può
essere considerata “una vicenda periferica ma forse non irrilevante”. In Italia attualmente
si parla di demo-etno-antropologia, a testimonianza dei percorsi di ricerca seguiti. Questi si
muovono in tre ambiti: la demologia, l’ etnologia e l’ antropologia culturale, indirizzo
mutuato dall’ antropologia culturalista statunitense.
Alberto Cirese ha elaborato la teoria dei dislivelli di cultura, secondo cui lo studio delle
manifestazioni folkloriche si colloca all’ interno di un progetto più ampio di analisi dei
processi di circolazione culturale e della loro connessione dinamica con i rapporti, in Italia,
tra classi dominanti e classi subalterne.
Altro esponente importante della tradizione disciplinare italiana è Ernesto De Martino,
ricordato tra le altre cose per il suo etnocentrismo critico, secondo il quale bisogna
sforzarsi di allargare la propria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura “altra”
rendendosi conto dei limiti della propria storia culturale, ma senza rinunciare all’ idea del
primato della società occidentale.

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