Un lombardo alla prima guerra mondiale
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È la storia di un lombardo alla prima guerra mondiale, ricavata dalle pagine di memorie che il nonno di mia moglie, Ettore Molinari, ha scritto, ormai quasi ottantenne, nella seconda metà degli anni ’60. Sono ricordi che, partendo dalla famiglia d’origine, raccontano in prima persona cos’è stato, per un laborioso artigiano del Varesotto col talento dello scultore, il più sanguinoso e inutile conflitto della storia, combattuto da alpino nelle trincee, nel fango e nella neve; le ferite, la lunga prigionia, la fame. Spesso nonno Ettore aveva parlato con me e con mia moglie dei suoi ricordi, nei quali sentiva il bisogno di mettere ordine, e questo mi ha permesso di interpretare e integrare quanto aveva lasciato per iscritto.
Carlo Maria Lomartire
Carlo Maria Lomartire, giornalista (Il Giorno, Rai e Mediaset) è autore di biografie e saggi, fra cui “Mattei”, “Il bandito Giuliano”, “Il Qualunquista. Guglielmo Giannini e l’antipolitica”, “ ‘o Comandante. Vita di Achille Lauro”, “Insurrezione. L’attentato a Togliatti”, “Nella stanza del sindaco”, “Memorie di un partigiano aristocratico”, “Festival. 60 anni di Sanremo, una storia italiana” e “La nemica. La burocrazia contro l’impresa”.
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Un lombardo alla prima guerra mondiale - Carlo Maria Lomartire
UN LOMBARDO
ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Dai ricordi di Ettore Molinari
Carlo Maria Lomartire
Published by Carlo Maria Lomartire at Smashwords
Copyright 2014 Carlo Maria Lomartire
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Questa è la storia di un lombardo alla prima guerra mondiale. L’ho ricavata dalle pagine di memorie che il nonno di mia moglie, Ettore Molinari, ha scritto, ormai quasi ottantenne, nella seconda metà degli anni ’60, come ho potuto dedurre dalle date dei fogli della vecchia agenda sui cui ha appuntato i suoi ricordi con una grafia incerta e malferma.
Sono ricordi che risalgono alla famiglia d’origine di nonno Ettore – lo chiamavo così anche io – e che, non a caso, si fermano alla fine di quel terribile conflitto e al ritorno a casa, ad una serena e calda normalità di affetti e lavoro, che perciò, forse, non era necessario ricordare, riordinare e magari in qualche modo tramandare.
Nelle memorie degli anni di una giovinezza impegnativa, laboriosa ma felice e soprattutto di quelli tragici e terribili della guerra, sentiva il bisogno di mettere ordine.
Inoltre spesso nonno Ettore aveva parlato con me e con mia moglie dei suoi ricordi giovanili, in particolare di quelli di guerra, e questo mi ha permesso di interpretare e integrare quanto aveva lasciato per iscritto.
*******
I
TAGLIAPIETRE
Tre anni e cinque mesi di guerra, fatica, fame, freddo e la lunga prigionia hanno cambiato il corso della mia vita e dei miei pensieri. In quei giorni il mio desiderio più forte era quello di tornare a casa, nella mia famiglia, a riabbracciare i miei cari, mia moglie e i miei figli. Però, in un certo senso, quello che è tornato a casa non era lo stesso Ettore che era partito per la guerra quel 13 giugno del 1915. Quell’esperienza mi aveva profondamente cambiato, perciò sempre più spesso provo forte l’impulso a ripensare alle mie origini, a rievocare gli anni della mia formazione.
Mio padre si chiamava Giosuè. Proveniva da una famiglia di artigiani tagliapietre di Bardello, nel Varesotto. Tagliapietre erano suo nonno, suo padre e i suoi zii, tutti tagliapietre nella mia famiglia d’origine, chissà da quante generazioni. Mia madre si chiamava Virginia, ed era nata in una famiglia di commercianti e pastori nella vicinissima Gavirate, sul lago di Varese. Perciò ho sempre pensato che quello specchio d’acqua, in realtà distante qualche chilometro da Varese, dovesse più giustamente chiamarsi lago di Gavirate.
A quei tempi l'istruzione obbligatoria arrivava alla terza elementare, perché poteva bastare saper leggere, scrivere e fare di conto per imparare un mestiere, anche se, in realtà, non sempre chi aveva completato quel brevissimo ciclo scolastico era veramente in grado di leggere, scrivere e fare di conto: i migliori riuscivano a scrivere solo alla fine della prima classe. Comunque mio padre, finita la terza elementare, quindi ancora bambino, si diede ad imparare il mestiere che gli imponeva la tradizione famigliare: un paio di anni di apprendistato, naturalmente non retribuiti, com’era normale allora nelle botteghe artigiane nelle quali, anzi, spesso era l’apprendista a pagare il maestro
per la sua disponibilità e per le conoscenze che gli trasmetteva.
Uno zio paterno aveva a Gavirate una bottega per la lavorazione delle pietre in genere, dove mio padre andò a lavorare. Dopo un altro lungo apprendistato, finalmente cominciò ad essere retribuito. Rimase in quella bottega fino a quando si sposò con Virginia.
Aveva da poco preso moglie, infatti, quando, gli si presentò l’occasione di un lavoro autonomo: la prospettiva di mettersi in proprio gli piaceva molto e lo zio lo lasciò andare, sebbene a malincuore. Giosuè, dunque, formò una squadra con altri colleghi scalpellini e si trasferirono tutti dalle parti di Aosta, dove avevano preso un lavoro. Era in costruzione la linea ferroviaria Ivrea-Aosta, classificata fra quelle della Rete complementare dello Stato, il cui esercizio sarebbe poi stato affidato alla Società Ferrovie dell’Alta Italia. Erano gli anni appena successivi al 1870, all’unità d’Italia e alla presa di Porta Pia e il giovanissimo Regno stava costruendo con ingenti investimenti la sua rete ferroviaria, con l’ambizione di recuperare decenni di ritardo per portarsi al livello degli altri paesi europei, in particolare della vicina Francia che per i Savoia e la classe dirigente piemontese allora al potere costituiva lo stato modello.
Mio padre e la sua squadra, dunque, presero in appalto i lavori in pietra relativi ad una tratta ormai prossima al capoluogo della Valle. Mia madre, che naturalmente aveva seguito il marito come le mogli degli scalpellini, si occupava, aiutata dalle altre donne, della cucina e dei lavori domestici per tutti.
Quel lavoro per le ferrovie durò alcuni anni. Nacque in quel periodo un primo figlio di Giosuè e Virginia, che chiamarono Ettore, come mio nonno, il padre di mio padre e come avrebbero poi chiamato me. Amatissimo da papà e mamma ben presto diventò una sorta di mascotte della squadra di scalpellini. Ma morì che non aveva ancora compiuto sei anni e i miei di questa tragedia familiare, della morte del loro adorato primogenito non hanno mai voluto parlare. Non ho mai saputo neppure di quale malattia fosse morto. Ho solo capito fin da piccolo che per loro quella perdita deve essere stata terribile.
Vennero poi alla luce anche due bambine, la seconda delle quali morì appena nata. Non c’è da meravigliarsene, in quegli anni in Italia morivano poco meno della metà dei bambini sotto i 5 anni. Erano tragedie frequenti, una specie di crudele normalità, ma i genitori ne soffrivano lo stesso.
Nel frattempo, portato a termine il lavoro in Valle d'Aosta, tutta la squadra, ormai ben affiatata, specializzata in quel tipo di lavori e con ottime referenze, si era trasferita a Borgotaro, che allora tutti chiamavano Borgo Val di Taro o semplicemente Borgo. Lì mio padre aveva preso in appalto nel 1882 la fornitura delle pietre lavorate occorrenti per il rivestimento della galleria ferroviaria di valico lunga quasi 8 chilometri sulla linea Parma-La Spezia, la cui costruzione era iniziata un paio di anni prima e sarebbe durata un altro quindicennio. Ricordo bene con quanto malcelato orgoglio ancora molti anni dopo mio padre mi parlava di quel lavoro, che spesso chiamava quell’impresa
. Era evidente quanto fosse fiero di aver partecipato per tanti tempo alla colossale opera di modernizzazione del Paese che fu la costruzione della rete ferroviaria italiana, al momento dell’Unità quasi inesistente.
La famigliola, dunque, si stabilì in una casetta in montagna, interamente costruita in pietra, ricordo ancora le grandi travi di legno sul soffitto, a un'ora circa di cammino da Borgo, nei cui paraggi si trovava la località dove avrebbero dovuto aprire la cava per l'estrazione dei materiali occorrenti.
Mio padre era un tipo piuttosto dinamico ed energico e non si risparmiava né sul lavoro, almeno 14 ore al giorno di dura fatica, né in amore: fu così che io nacqui in quella zona, a Borgo Val di Taro e non nella terra della mia famiglia, il 18 giugno 1888. Mi fu messo il nome di Ettore, mio nonno, come al primogenito morto a sei anni.
A differenza di come aveva fatto con gli altri miei fratelli, rapidamente svezzati, pensando forse che fosse stata questa un causa delle precocissime morti, mia madre mi allattò a lungo, fino al sopraggiungere di una nuova gravidanza. Dopo di me nacque infatti un'altra bambina, Cecilia, che, diversamente da me, venne presto affidata ad una nutrice di Bardello. La mamma avrebbe voluto tanto tenerla con sé, ma fu mio padre a imporre questa decisione perché pensava gli impegni già pesanti di sua moglie non le permettessero di occuparsi anche di tre figli piccoli. Io, invece, per fortuna, rimasi sempre con babbo e mamma. A Quei tempi, dovendo scegliere chi far crescere meglio, si sceglieva il figlio maschio, future braccia per il lavoro, per procurare il pane da portare a casa.
II
FARINA DI CASTAGNE
Tutto questo, naturalmente, mi è stato raccontato col tempo o ne ho sentito parlare in famiglia, perché i miei primi ricordi risalgono solo al terzo o quarto anno di vita. Rammento benissimo, ad esempio, che mia madre si faceva portare a casa la farina a sacchi e faceva il pane per tutti in un forno in pietra e muratura che si era fatto appositamente costruire dagli operai della squadra di mio padre.
La legna non mancava di certo, giacché vivevamo in mezzo ad un grande castagneto e quando si facevano brillare le mine per staccare dalla montagna i massi da cui ricavare le