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PAG 25 MEDIO ORIENTE

La Clinton chiede una svolta


"Israele fermi gli insediamenti"
Speranze e ostacoli nel vertice Abu Mazen-Netanyahu. Nuovo incontro a Gerusalemme Missili da Gaza, Israele colpisce i tunnel: un
morto
dal nostro corrispondente ALBERTO STABILE

GERUSALEMME - La giostra dei "negoziati diretti" s'è spostata a Gerusalemme, forse nella speranza che
l'atmosfera ispirata della Città Santa permetta ai due contendenti di raggiungere quelle intese che sulle
sabbie bollenti di Sharm el Sheik non sono riusciti a conseguire. A sera, tuttavia, nulla è trapelato dalla
blindatissima residenza del primo ministro israeliano, dove Netanyahu ed Abu Mazen si sono dati
appuntamento nel tardo pomeriggio, presente Hillary Clinton in veste d'interessata promotrice dell'incontro,
che possa far pensare ad una svolta. Al massimo, citando l'inviato americano George Mitchell, i colloqui
avrebbero registrato "qualche progresso".

Eppure la scena è stata preparata per ospitare un evento straordinario. I comunicati ufficiali sottolineano che
è la terza volta, in due giorni, che i due antagonisti si ritrovano faccia a faccia. Ma il problema del blocco
temporaneo degli insediamenti, che scadrà a fine mese, continua a rappresentare il principale ostacolo al
negoziato. Con il premier israeliano intenzionato a non rinnovare la moratoria da lui stesso voluta (una
concessione ad Obama) ed il presidente palestinese deciso a ritirarsi dalle trattative se Netanyahu darà il via
libera all'espansione delle colonie ebraiche nei Territori.
Quello che ha cercato di fare Hillary Clinton, affiancata dal plenipotenziario, George Mitchell, è di convincere
Netanyahu a formulare una proposta che, pur rappresentando la fine della moratoria permetta ad Abu
Mazen di continuare e negoziare senza perdere la faccia. In parole povere, un compromesso per il bene
della trattativa, ma anche nell'interesse di Obama intenzionato ad arrivare alle elezioni di Medio Termine,
fissate per Novembre, con il processo di pace bene avviato.

Ora pare che Netanyahu, uno specialista delle soluzioni a metà, sia fortemente impegnato a formulare
questa proposta di compromesso, così come Abu Mazen sarebbe pronto ad ascoltarlo ed eventualmente a
ripagare le eventuali concessioni del premier con altrettante concessioni. Ma entrambi i duellanti sembrano
altresì molto sensibili alle pressioni delle rispettive "ali estreme". Netanyahu ha deciso che a fine mese
manterrà la promessa fatta ai coloni quando, nel dichiarare la moratoria, alla fine del 2009, aggiunse
rassicurante: "Si tratta di una misura una tantum, temporanea, al termine della quale le costrizioni
riprenderanno come prima".
Oggi, Netanyahu proprio non se la sente di smentirsi e, soprattutto, di mettersi contro la potente lobby dei
coloni ampiamente presente nella maggioranza di governo. La proposta che a giudizio del premier dovrebbe
permettergli di salvare capra e cavoli è di rallentare il ritmo di crescita degli insediamenti stabilendo un tetto
(ma chissà se si tratta di un vero e proprio limite) di 2000 unità abitative l'anno.

Quanto ad Abu Mazen, il vecchio presidente non sembra disposto a rimangiarsi la minaccia di ritirarsi dal
negoziato se gli insediamenti continueranno a crescere. Il leader palestinese è convinto di aver fatto per
intero la sua parte, combattendo Hamas, e ristabilendo legge ed ordine nei suoi domini in Cisgiordania,
grazie anche alle forze di polizia a lui fedeli addestrate dagli americani. E' tempo dunque di esigere il credito
di fiducia che s'è guadagnato. Posizione assai precaria, la sua, dal momento che Hamas non intende
abbandonare l'arma della violenza e punta a screditare Abu Mazen presentando il negoziato come
l'ennesimo cedimento al nemico. Ieri un missile Kassam e nove colpi di mortaio sono stati sparati da Gaza
contro il territorio israeliano. Pare che uno degli ordigni contenesse del fosforo, una sorta di ritorsione contro
le bombe al fosforo sganciate dagli israeliani durante l'operazione Piombo fuso. Nella rappresaglia,
l'aviazione dello Stato ebraico ha colpito un tunnel di traffici tra Gaza e l'Egitto, uccidendo un palestinese di
23 anni e ferendone altri due.
(16 SETTEMBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

NAZIONI UNITE

Obama all'Iran: "Porte aperte, nucleare di pace"


Ahmadinejad: "Governo Usa dietro 11 settembre"
Il presidente Usa all'Assemblea generale apre al dialogo con Teheran e chiede il rinnovo della moratoria
sugli insediamenti in Cisgiordania. Giallo sulle sedie dei delegati israeliani. Il presidente iraniano provoca e
attacca Israele, i diplomatici americani ed europei lasciano l'aula

NEW YORK - L'Iran con il suo controverso programma nucleare e la questione del Medio Oriente sono oggi
al centro dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Obama tiene molto ai negoziati diretti 1 tra Israele e Palestina,
che ha rilanciato qualche settimana fa alla Casa Bianca, e oggi, nel suo intervento al Palazzo di Vetro ha
parlato del sostegno alla formazione di una Palestina indipendente, elogiando il coraggio del presidente
dell'Anp, Abu Mazen, ma allo stesso tempo ha avvertito che gli Stati Uniti si opporranno a qualsiasi attacco
contro Israele. Il riferimento è al presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad che, in un'intervista con la Cnn,
ha definito il premier israeliano Benjamin Netanyahu "killer professionista". E ha rincarato la sua
provocazione durante l'intervento davanti all'Assemblea sostenendo che il governo americano è dietro gli
attentati dell'11 settembre, affermazione che ha portato i delegati americani e di altri paesi occidentali ad
abbandonare l'aula. Un botta e risposta a distanza con il presidente americano, che era stato molto
disponibile parlando di apertura al dialogo con l'Iran a patto che i termini del programma nucleare di Teheran
siano chiaramente definiti come pacifici. Fuori programma anche in questo caso: mentre parlava Obama le
sedie dei delegati israeliani sono rimaste vuote.

"Porte aperte all'Iran". Per Barack Obama "la porta del dialogo resta aperta per l'Iran ma sono loro a dover
fare il primo passo". E ha ribadito che l'Iran è l'unico Paese che ha firmato il Trattato di Non Proliferazione
Nucleare a non poter dimostrare che il suo programma è pacifico.

"Palestina tra un anno all'Onu". Se ci sarà un accordo di pace in Medio Oriente nei prossimi mesi,
"quando torneremo qui l'anno prossimo potremmo avere un accordo che ci porterà uno nuovo membro delle
Nazioni Unite: uno stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele" ha detto Obama. "Non vi
sbagliate - sottolinea il presidente Usa - il coraggio di un uomo come il presidente dell'Autorità nazionale
palestinese, Abu Mazen, che difende il suo popolo di fronte al mondo, è decisamente più grande di coloro
lanciano razzi contro donne e bambini innocenti". Ma, avverte Obama, chi appoggia l'esistenza di una
Palestina indipendente, "deve smettere di tentare di distruggere Israele. Deve essere a tutti chiaro che
qualsiasi sforzo per scalfire la legittimità di Israele si scontrerà con l'opposizione incrollabile degli Stati Uniti".

Israele estenda moratoria colonie. Israele dovrebbe estendere la moratoria sulle nuove costruzioni negli
insediamenti di coloni in Cisgiordania, ha aggiunto Obama. "La nostra posizione è molto chiara, su questo:
Israele dovrebbe estendere la moratoria", ha detto Obama. La moratoria di Israele scade il 30 settembre e il
suo eventuale mancato rinnovo è il principale ostacolo alla prosecuzione dei negoziati di pace diretti fra
israeliani e palestinesi.

Le sedie vuote. Nessuna sedia della delegazione israeliana, che siede accanto all'Italia visto l'ordine
alfabetico, era occupata durante l'intervento del presidente Obama. Generalmente, anche in caso di
boicottaggio, un funzionario di basso livello ascolta l'intervento. A guidare la delegazione israeliana è il
ministro degli Esteri Avigdor Liebermann. E' presente invece la delegazione palestinese, con statuto di
osservatore: c'è il presidente Abu Mazen con il ministro degli Esteri dell'Anp Riyad al-Malki. Oggi è
un'importante festa religiosa in Israele, il sukkot, ed è possibile che i delegati abbiano deciso di onorarla.

Polemiche per il discorso di Ahmadinejad. Duramente contestato il discorso di Ahmadinejad che ha


provocatoriamente ripreso la tesi del complotto americano dietro gli attentati dell'11 settembre 2001. Tra i
responsabili diretti degli attacchi dell'11/9, ha detto, ci sono anche "alcun segmenti" dell'Amministrazione
Usa "che li hanno orchestrati per invertire un periodo di crisi economica e salvare anche il regime sionista".
Provocazione che ha portato i delegati americani e di altri paesi occidentali ad abbandonare l'aula
dell'Assemblea. Piuttosto che pronunciare "parole di apertura", il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad
ha oggi fatto "una vile scelta" di cospirazione, pronunciando ancora una volta frasi "antisemitiche" alle
Nazioni Unite, ha dichiarato in una nota la missione Usa presso l'Onu.

Il secondo attacco ha riguardato un altro obiettivo usuale del presidente iraniano, Israele. "Il regime sionista -
ha detto - è responsabile dei peggiori crimini" contro i palestinesi. Quanto al disarmo, l'obiettivo di
Ahmadinejad è il 2011, anno entro cui si dovrebbe raggiungere uno smantellamento di tutti gli arsenali
nucleari militari e l'utilizzo del nucleare pacifico per tutti. Ribadendo che l'Iran non punta all'arma nucleare,
"l'arma la più inumana che ci sia, un'arma da eliminare", e che possiedono invece alcuni paesi membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza, oltre ad Israele. Nell'intervista rilasciata alla Cnn il presidente iraniano
aveva detto: "Non abbiamo alcun interesse in una bomba nucleare e non ci sarebbe di alcuna utilità". "Sia il
regime sionista sia il governo degli Stati Uniti - ha aggiunto - dovrebbero essere disarmati. Le minacce al
mondo vengono dalle bombe in possesso degli Usa e del regime sionista". Ahmadinejad ha poi lanciato
l'ennesimo attacco a Israele definendo Netanyahu "killer professionista". Il premier israeliano, ha sottolineato
Ahmadinejad, "dovrebbe essere processato per l'embargo a Gaza e per il massacro di innocenti donne e
bambini palestinesi. E' un assassino professionista".
(23 SETTEMBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

IRAN

Ahmadinejad: "11 settembre, solo un pretesto


Gli Usa hanno trascinato il mondo nel fango"
Toni durissimi del presidente iraniano contro Washington. "Ci forniscano le prove che
3mila persone morirono negli attentati e li aiuteremo a scovare i responsabili". In realtà, "fu
solo la scusa per invadere la nostra regione". Ahmadinejad ribadisce gli scopi civili del
nucleare iraniano e risponde così alla minaccia dell'opzione militare di Usa e Israele per
bloccarlo: "Che il diavolo vi porti con sé"

TEHERAN - Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad torna a scagliarsi contro gli Usa,
colpevoli di aver trascinato "il mondo nel fango" e di aver utilizzato la tragedia dell'11 settembre
come pretesto per "invadere la nostra regione". ". Lo ha riportato il sito della televisione di stato
della repubblica islamica. "Hanno una faccia talmente tosta - dice Ahmadinejad, parlando degli
Stati Uniti - che ci minacciano e affermano che tutte le opzioni sono sul tavolo. Che il diavolo vi
porti con sé, voi che avete trascinato il mondo nel fango".

"Tutte le opzioni sono sul tavolo...". Quella che accende i toni del presidente iraniano è
evidentemente l'opzione militare: un attacco preventivo all'Iran da parte di Stati Uniti e Israele per
bloccare un programma di sviluppo del nucleare a scopo civile in cui il regime di Teheran
nasconderebbe il vero obiettivo, un'arma atomica. Teheran ha sempre affermato che il suo
programma nucleare è esclusivamente per un uso civile. Ahmadinejad è quanto mai esplicito: gli
Usa "hanno liberato nella regione un cane randagio (Israele, ndr) e con questo pretesto la
saccheggiano in modo permanente".

Quanto all'11 settembre, non è la prima volta che il presidente iraniano solleva interrogativi in una
chiave "revisionista", la stessa utilizzata per alimentare propagandistici dubbi sulla reale esistenza
dell'olocausto del popolo ebraico durante il secondo conflitto mondiale. Il mese scorso,
Ahmadinejad aveva sollevato le rimostranze della comunità internazionale affermando davanti
all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che gli Usa erano coinvolti nelle stragi dell'11
settembre. Un discorso "pieno di odio" 1, aveva commentato il presidente americano Barack
Obama.

Stavolta Ahmadinejad si spinge anche oltre: tende una mano a Washington per scovare i
responsabili degli attentati alle Torri Gemelle, ma solo dopo che gli Usa avranno provato che la
strage del 2001 sia mai davvero avvenuta. "Abbiamo centinaia di domande sull'11 settembre e
devono risponderci", dichiara Ahmadinejad, "se sostengono che 3mila persone sono state uccise
l'11 settembre, (i responsabili) devono essere identificati e giustiziati. Vi aiuteremo anche ad
arrestarli ma a condizione che ci forniate delle prove".

In realtà, Ahmadinejad ha già la risposta. "Gli americani stessi non accettano le loro affermazioni"
e l'11 settembre non sarebbe altro che un "pretesto con cui hanno invaso la nostra regione,
versano il sangue delle persone e fanno quello che vogliono". "E' meglio - minaccia il numero uno
di Teheran - che lasciate la regione da soli perché altrimenti i popoli della regione vi allontaneranno
con un calcio nel sedere".
(03 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Olanda,a processo leader estrema destra per incitamento all'odio


lunedì 4 ottobre 2010 13:42

Di Aaron Gray-Block
AMSTERDAM (Reuters) - Il politico olandese anti-islamico Geert Wilders, che ha assunto un ruolo
chiave nella formazione del nuovo governo, è comparso oggi in tribunale con l'accusa di
incitamento all'odio contro i musulmani, ma l'udienza è stata aggiornata a domani.
Wilders, che vive sotto scorta dopo avere ricevuto minacce di morte, è accusato di incitamento
all'odio e discriminazione contro i musulmani, a causa di alcune dichiarazioni ai media e per avere
insultato i musulmani paragonando la fede islamica al nazismo.
L'udienza del processo è stata rinviata dopo che i suoi difensori hanno avanzato dei dubbi
sull'imparzialità dei giudici.
"Ho detto ciò che ho detto e non ritirerò una sola parola", ha dichiarato Wilders all'inizio
dell'udienza, prima di invocare il suo diritto di restare in silenzio.
Il presidente della corte ha detto che Wilders è stato accusato in passato di evitare il confronto
sulle sue idee e che oggi sembrava voler fare lo stesso. A quel punto il suo avvocato ha espresso
dei dubbi sulla correttezza del processo, che hanno portato alla sua sospensione.
Il processo giunge in un momento delicato per Wilders, il cui partito di accinge ad assumere un
ruolo importante nella guida del paese, con il suo sostegno esterno ad un governo di minoranza
formato dai partiti Liberale (Vvd) e Cristiano-democratico (Cda).
Dopo le elezioni di giugno, il Vvd e il Cda hanno ottenuto appena 52 seggi su 150 in parlamento.
con il sostegno di Wilders arrivano giusti alla maggioranza di 76 seggi
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NOTIZIE

04/10/2010 9.25

Cina, Premier Wen Jabao conferma supporto a Grecia e Euro

(Teleborsa) - Roma, 4 ott - Il Premier cinese Wen Jabao approda ad Atene, dove tocca alcuni temi
caldi della politica economica internazionale. In un discorso tenuto dinanzi al legislatore ellenico, il
leader cinese ha ribadito che il suo Paese garantisce un supporto alla Grecia, sottolineando che la
Cina tornerà ad acquistare titoli di stato greci quando il Governo deciderà di tornare sul mercato
dei capitali.

Wen Jabao ha anche annunciato aiuti al credito per complessivi 5 mld di dollari, diretti alle
compagnie di navigazione greche che vogliano acquistare navi in Cina.

Ma il Paese della Grande Muraglia non supporta solo la Grecia. Anche l'euro resta un tema caro
alla Cina, che continua a supportare un euro stabile e conferma l'intenzione di non alleggerire la
sua posizione nel debito europeo.

In cambio cosa chiede Pechino? Il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato.

Il Premier cinese nel suo discorso ha toccato un'altro tema caldo, quello del conflitto valutario con
gli Stati Uniti, che proprio la scorsa settimana avevano annunciato l'imposizioni di dazi sull'import
nei confronti di Paesi (la Cina) che si ostinassero a tenere artificialmente basso il valore della
propria valuta.

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4 ottobre 2010

I talebani bruciano 15 camion Nato pieni di carburante


di Marco Masciaga

NEW DELHI – La complessa macchina logistica che rifornisce il contingente Nato in Afghanistan ha subìto
un nuovo duro colpo nelle ultime ore quando quindici autocisterne cariche di carburante sono state date alle
fiamme non lontano dalla capitale pakistana Islamabad. L'attacco, che è costato la vita a tre persone, è
avvenuto nella notte tra domenica e lunedì in una zona del paese che teoricamente dovrebbe essere sotto il
più completo controllo delle forze di sicurezza. Si tratta del secondo raid in quattro giorni e giunge a meno di
una settimana dalla chiusura di uno dei due posti di frontiera tra Afghanistan e Pakistan che sta strozzando i
rifornimenti per le truppe Nato.

L'attacco è stato compiuto da un commando di una decina di uomini muniti di armi automatiche e
giunti in un piazzale di sosta non lontano dalla capitale a bordo di motociclette. Quarantotto ore prima un
altro gruppo di mezzi, questa volta composto da 27 camion, era stato dato alle fiamme nella provincia
meridionale del Sindh. In entrambi i casi si trattava di rifornimenti giunti nel porto di Karachi, nel sud est del
paese, e diretti verso nord. Circa il 50% degli approvvigionamenti delle truppe Nato in Afghanistan passa dal
Pakistan (mediamente 580 veicoli al giorno), una percentuale che sale all'80% quando non si prendono in
considerazioni le forniture strettamente militari.

L'ultimo degli attacchi è stato rivendicato dai talebani pakistani che, per bocca del loro portavoce,
hanno annunciato nuove operazioni di questo tipo, giustificandole come una ritorsione per i raid missilistici
americani nelle regioni tribali del Pakistan dove si rifugiano i militanti talebani e di al-Qaeda. Nelle ultime
settimane gli attacchi compiuti mediante droni, o aerei senza pilota, si sono moltiplicati, facendo dello scorso
settembre, con 21 incursioni, il mese durante il quale questo tipo di operazioni sono state compiute con
maggiore frequenza.

Un crescendo di incursioni sul suolo pakistano che non ha irritato solo la leadership talebana, ma
anche l'establishment politico di Islamabad costretto a difendere almeno formalmente l'integrità
territoriale del paese dagli attacchi di una potenza come gli Stati Uniti, invisa alla maggioranza della
popolazione. La decisione di impedire il passaggio del traffico merci attraverso Torkham, a pochi chilometri
dal Khyber Pass, è stata presa giovedì scorso, poche ore dopo che due elicotteri della Nato avevano
lanciato due missili contro 6 soldati pakistani, uccidendone tre. I militari, di guardia a un posto di frontiera,
avevano aperto il fuoco per primi contro gli elicotteri per dissuaderli dal violare per la terza volta in una
settimana lo spazio aereo pakistano. Lunedì, nel tentativo di allentare la tensione e sbloccare i 300 camion
fermi alla frontiera con l'Afghanistan, il segretario generale della Nato generale Anders Fogh Rasmussen ha
espresso dispiacere per l'incidente.

4 ottobre 2010

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Bosnia: elezioni, avanzano moderati

04.10.10 16:48 |

Secondo i primi risultati preliminari, le elezioni legislative e presidenziali di ieri in


Bosnia hanno premiato in buona parte i moderati, mentre nella Republika Srpska
(Rs, entità a maggioranza serba) ha nuovamente vinto l'uomo forte della Rs, il
premier uscente Milorad Dodik e il suo partito Snsd (Unione dei socialdemocratici
indipendenti).

Come rappresentante musulmano nella presidenza tripartita della Bosnia gli elettori
hanno scelto questa volta il candidato dell'Sda (Partito d'azione democratica), Bakir
Izetbegovic, figlio del defunto presidente Alija Izetbegovic, molto più propenso al
dialogo con i serbo-bosniaci intransigenti di Dodik di quanto lo fosse lo sconfitto
Haris Silajdzic.

Inoltre, l'Sda, un partito comunque nazionalista, nel parlamento centrale e in quello


della Federazione si vede superato dal Partito socialdemocratico (Sdp), la più grande
formazione politica multietnica in Bosnia.

Si registra anche un forte calo del Partito per la Bosnia (SBiH) di Silajdzic, figura
carismatica del fronte musulmano, noto per le sue posizioni dure e radicali nei
confronti dei serbi.

Nelle zone a maggioranza croata, invece, si sono riaffermati i partiti nazionalisti, ma i


loro candidati a esponente croato della Presidenza sono stati largamente sconfitti dal
socialdemocratico Zeljko Komsic che si è assicurato il secondo mandato con un
numero triplicato di preferenze.
si scopre un sapore ai propri giorni soltanto quando ci si sottrae all'obbligo di avere un destino

Emil Cioran

la felicità è simile ad una farfalla: se la insegui non riesci mai a prenderla, ma se ti siedi
tranquillo può anche posarsi su di te

Hawthorne

il mondo sarebbe molto più pacifico, se fossimo tutti atei

José Saramago

04/10/2010
Wen Jiabao e lo shopping greco

Economia ma anche politica nel viaggio europeo del premier cinese

Se l'America mi attacca, cerco alleati in Europa. Il viaggio nel Vecchio Continente del
premier cinese Wen Jiabao nasce nel cono d'ombra creato dal recente disegno di legge
Usa che consentirà misure protezionistiche contro le merci made in China. E quindi il
Dragone cerca una sponda dalle nostre parti, puntando sia ai singoli Paesi sia alle istituzioni
comunitarie, in un itinerario che mette in fila Grecia, Unione Europea (a Bruxelles),
Germania, Italia e Turchia.

Non si sa quanto casualmente, il tour di Wen comincia proprio dall'anello più debole del
consesso europeo. Atene ha l'acqua alla gola: investita dalla crisi finanziaria, con
previsioni a medio termine che vedono consumi stagnanti e investimenti interni depressi,
spera nell'export e soprattutto negli investimenti dall'estero.
Gli aiuti europei e del Fondo Monetario Internazionale assommano a 110 miliardi di euro
ma saranno dilazionati in tre anni. Non solo: il finanziatori occidentali impongono misure di
austerity che hanno già surriscaldato il conflitto sociale.
Ed ecco che spunta la Cina.

Arrivato ad Atene, un Wen a tutto campo - ha trovato anche il tempo di rilasciare un'intervista
sui progressi della democrazia in Cina a un network americano - ha espresso fiducia sulla
capacità dei greci di riprendersi e ha garantito il sostegno cinese.
Da un lato, la Cina acquisterà i bond a lungo termine che la Grecia emetterà nel 2011,
dall'altro finanzierà il locale settore navale con un investimento di oltre cinque miliardi di
dollari, finalizzato all'acquisto di navi cinesi da parte degli armatori greci.

In piccolo, si tratta dello stesso schema con cui la Cina tiene incatenati a sé gli Stati
Uniti: fornisce la merce e poi rifinanzia il debito di chi gliela compra con investimenti diretti o
acquistando i buoni del tesoro locali.
Così aumenta l'integrazione tra le economie, o forse sarebbe meglio dire la dipendenza.
Nel caso del rapporto con la Grecia, bastano le cifre: nel 2009, il valore delle esportazioni
cinesi nel Paese ellenico era di oltre tre miliardi di euro mentre quello dell'export di Atene
nella Repubblica Popolare assommava a soli 93 milioni.

Dato che il Wto impone ad Atene di vendere asset pubblici, la Cina gioca i suoi assi nella
manica. Con Wen, viaggia Wei Jiafu, presidente della China Ocean Shipping Company
(Cosco), il gigante delle spedizioni via mare che già dispone di circa cento scali in giro per il
mondo.
Dal 2008 e per trentacinque anni gestisce anche due enormi bacini per container nel porto del
Pireo, grazie a un accordo da tre miliardi e mezzo di euro.
Ora il valore potrebbe triplicarsi in base a una lista della spesa che comprende magazzini a
Thriasio, installazioni portuali a Tessalonica (Salonicco), un cantiere per le riparazioni navali
a Perama (Pireo) e il nuovo aeroporto di Kastelli, a Creta.

Questo schema si sta ripetendo in tutta Europa. Quest'anno la Cina ha per esempio già
comprato titoli sul debito spagnolo per quattrocento milioni di euro e durante la tappa greca
Wen ha annunciato che continuerà ad acquistare bond europei.
La politica ne consegue. "Come usiamo dire sia in Grecia sia in Cina - ha ben sintetizzato il
Primo ministro greco Papandreou - è nei tempi duri che si vede chi sono i veri amici".
Un segno tangibile di tale amicizia europea potrebbe arrivare già nei prossimi giorni sul tema
scottante della politica economica. La Cina, oltre a fare affari, chiede alla Ue un
riconoscimento esplicito della propria natura di "economia di mercato", il che renderebbe
più difficile colpirla con misure anti-dumping come quelle varate dalla camera Usa.
Non solo: chiede anche un appoggio per avere più peso nelle sedi che contano - leggi
Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale - e una revisione del sistema di rating
basato su agenzie molto poco indipendenti.

Anche i leader europei criticano la Cina per il basso valore del renminbi. Sono pungolati
dai businessmen del vecchio Continente che soffrono la concorrenza delle merci cinesi. Ma gli
stessi uomini d'affari, come gli armatori greci, bramano d'altra parte i soldi freschi del
Dragone. Una contraddizione che fa il gioco di Pechino.
Tra le prossime tappe di Wen c'è anche l'Italia.
Gabriele Battaglia

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Elezioni Usa, sondaggio: Repubblicani sempre in vantaggio

martedì 5 ottobre 2010 09:35

WASHINGTON (Reuters) - Negli Stati Uniti i Repubblicani continuano a risultare in


vantaggio in vista delle elezioni del prossimo 2 novembre, ma i Democratici stanno
riguadagnando terreno, secondo un sondaggio Washington Post-ABC diffuso oggi.
I Repubblicani vengono dati al 49% nei consensi dei probabili elettori, rispetto al 43% dei
Democratici, indica il sondaggio.
Il mese scorso, i Repubblicani erano indicati al 53%, mentre i Democratici, che stanno
cercando di mantenere il controllo del Congresso, avevano il 40% dei consensi.
I risultati sono in linea con altri recenti sondaggi che indicano i Democratici in lieve
recupero sia in termini di preferenza degli elettori che di entusiasmo per i partiti, anche se
la maggior parte delle indagini indica comunque che i Repubblicani restano in testa.
Il vantaggio dei Repubblicani sulla domanda a quale partito gli elettori daranno il proprio
voto il 2 novembre si è dimezzato, dice il sondaggio.
I Democratici avanzano anche sulla domanda relativa a quale partito riscuote maggior
fiducia sulla gestione di temi importanti come l'economia e la salute, dice il poll. Il 41% del
campione risponde di ritenere che i Democratici affrontano meglio i problemi principali che
gli Usa dovranno affrontare nei prossimi anni, rispetto al 39% che indica invece i
Repubblicani.
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M.O./ Netanyahu riunisce i ministri per estendere la
moratoria -2

Il premier vuole trovare una soluzione prima del vertice


arabo
Roma, 5 ott. (Apcom) - Netanyahu vuole dunque estendere la moratoria e proseguire i negoziati di
pace, ma per far ciò dovrà convincere i ministri Benny Begin (Likud), Moshe Yaalon (Likud) e Eli
Yishai (Shas). Il primo ministro ha già incontrato Begin negli ultimi giorni, nel tentativo di
convincerlo ad appoggiare la proroga del congelamento.
Il primo ministro vuole anche che il suo governo prenda una posizione su questa questione prima
del vertice della Lega Araba di venerdì prossimo. I paesi arabi si riuniranno per fare il punto della
situazione con i palestinesi, ed annunciare eventualmente lo stop dei colloqui diretti nel caso in cui
gli israeliani non dovessero fermare le costruzioni di nuove case negli insediamenti.
La scorsa domenica, ricorda Haaretz, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton aveva discusso della
questione con Netanyahu per cercare di trovare una soluzione a questa situazione di impasse, e il
portavoce del Dipartimento di Stato Philip Crowley aveva commentato che la conversazione tra i
due era stata "molto costruttiva".
05-10-10
PAKISTAN: DRONE USA UCCIDE 8 MILITANTI,
TRA CUI 5 TEDESCHI

(ASCA-AFP) - Peshawar, 5 ott - Un drone americano


ha ucciso 8 militanti islamisti, tra cui 5 cittadini
tedeschi, in Pakistan. L'attacco e' avvenuto
precisamente nel Waziristan del nord, dove si teme
si nascondano le menti del complotto terroristico
sventato la scorsa settimana contro Francia,
Germania e Gran Bretagna.

''Cinque ribelli tedeschi di origine turca e tre militanti


locali sono stati uccisi nel raid'', ha dichiarato un
funzionario della sicurezza pakistano.

red/sam/bra
asca
Colombia: maxisequestro denaro a narcos

Ministro difesa, il piu' grande nella storia del Paese


05 ottobre, 09:44

(ANSA) - BOGOTA' 5 OTT - Scoperti a Bogota' 29 mln dlr e 17 mln euro in


contanti che si ritiene appartenessero a uno dei narcotrafficanti piu' ricercati
del Paese. 'E' il piu' grande sequestro di denaro proveniente dal narcotraffico
nella storia della Colombia', ha detto il ministro della Difesa Rodrigo Rivera.
Nell'operazione sono state arrestate in totale 20 persone, tre delle quali
ricercate negli Stati Uniti.
L'operazione e' stata condotta dalle forze dell'ordine colombiane, in
cooperazione con gli Usa.

ansa

04-10-2010 sezione: HOME_NELMONDO


Cisgiordania, moschea a fuoco:
risale la tensione, coloni sotto accusa
TEL AVIV (4 ottobre) - Torna a divampare il fuoco dell'odio in Cisgiordania, dove un incendio
appiccato nella notte in una moschea, nel villaggio di Beit Fajar, vicino a Betlemme, ha riacceso
oggi la protesta dei palestinesi contro le violenze dei coloni israeliani ultrà. Il rogo, che rischia di
contribuire a mandare in fumo anche ciò che resta delle speranze negoziali, è stato denunciato
stamattina dall'agenzia palestinese Maan, che ne ha subito attribuito la responsabilità a un gruppo
di coloni della zona. Mentre un portavoce militare israeliano ha riconosciuto la gravità
dell'accaduto e annunciato un'inchiesta approfondita.

Secondo la gente del posto, il raid sarebbe stato compiuto da non meno di quattro persone, che
hanno innescato le fiamme e tracciato scritte offensive sui muri dell'edificio prima di dileguarsi a
forte velocita a bordo di una Peugeot. Un abitante del villaggio, Muhammad Taqatqa, ha riferito
che gli aggressori hanno bruciato per sfregio almeno 15 copie del Corano. E che il fuoco ha
distrutto l'impianto elettrico e danneggiato alcune colonne portanti del luogo di culto, rendendolo
inagibile. Un leader dell'insediamento ebraico più vicino, Shaul Goldstein, ha cercato di
minimizzare la portata dei fatti. Ma la polizia e l'esercito israeliano hanno promesso indagini
accurate, mentre un portavoce militare ha ammesso che si è trattato di «un episodio molto grave».

La vicenda è tutt'altro che la prima del genere. Solo da dicembre sono almeno quattro le
moschee profanate in Cisgiordania, senza contare gli incendi delle coltivazioni o altri attacchi e
rappresaglie trasversali nei confronti di bersagli palestinesi. È inoltre di pochi giorni fa la minaccia
sollevata da una frangia di coloni dell'insediamento di Yitzhar (una delle 'tanè degli oltranzisti,
verso Nablus) contro altre due moschee: additate come abusive e delle quali è stato intimato
l'abbattimento.

Secondo il ministro palestinese per le Questioni religiose, Muhammed Ayish, l'incursione di Beit
Fajar rientra in uno scenario consolidato e rappresenta una sorta di messaggio al governo
israeliano. Governo che a suo dire gioca di sponda con la lobby degli insediamenti. «L'attacco di
queste ore - ha accusato Ayish - fa parte d'una campagna contro tutto quanto è palestinese».
«Israele - ha aggiunto - risponde nei fatti agli sforzi di pace con gli incendi, l'ebraicizzazione (dei
territori occupati, ndr), la colonizzazione e la confisca di terre».

Parole dure che pesano come macigni sugli affannati tentativi della comunità internazionale - in
primis dell'emissario Usa, George Mitchell - di ridare ossigeno ai colloqui diretti fra il premier
israeliano, Benyamin Netanyahu, e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu
Mazen, inceppati dopo meno di un mese in seguito alla mancata proroga del rallentamento edilizio
nelle colonie in Cisgiordania.

E a cui fa eco dalla trincea opposta l'ennesima doccia fredda sulle prospettive negoziali del
ministro degli Esteri d'Israele, l'ultranazionalista Avigdor Lieberman: fermo nel no a qualunque
prolungamento della moratoria nelle colonie (anche di soli due mesi, secondo l'ultima
sollecitazione della Casa Bianca); e altrettanto fermo nell'assicurare il veto della maggioranza
dell'attuale coalizione a un ipotetico «accordo definitivo» con l'Anp fondato sui confini del '67, con
scambi di territori limitati al 3-4% del totale. Vale a dire alla soluzione che Washington promuove
e che altri governi israeliani avevano accettato di mettere sul tavolo fino a pochi mesi fa.

* Ansa

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5 ottobre 2010

Le giganti, magiche palle di neve del clown russo Slava Polunin

di Paolo Bignamini

Sold out, un anno dopo. Il ritorno a Milano di Slava, il clown russo che a grande richiesta calca di nuovo il
palco del Piccolo Teatro, è indice di due aspetti importanti per le scene nazionali. Non è un caso, infatti, che
il malinconico istrione sia ospite nel "teatro d'arte" per tutti di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. O almeno, è
simbolico.

Il primo aspetto da considerare è che la popolarità del "teatro d'arte" passa necessariamente per un
rinnovamento del suo linguaggio. E se il nouveau cirque (della cui vague questo spettacolo fa parte) non è
esattamente una novità degli ultimi tempi, pure come tale esso viene percepito, dopo che eventi mondiali
quali il Cirque du soleil hanno rotto il ghiaccio.

Ma se nella performance dei canadesi era lo stupore ginnico a incantare, nel caso dello snow show di
Slava a catturare è una magia prettamente teatrale. In altre parole: il gesto tecnico, in questo spettacolo, non
è fine a se stesso. La considerazione vale sia per l'effetto speciale (la neve, le palle colorate enormi, le bolle
di sapone giganti), sia per l'esecuzione raffinata del numero, venga esso considerato dal punto di vista
ginnico oppure da quello estetico.

Tale rigore, che trova nel clown Slava Polunin,ex ingegnere in uno sperduto paesino della Russia, uno dei
più autorevoli maestri a livello mondiale, introduce al secondo aspetto: la magia del circo, trasfigurata nella
malinconica solitudine del clown, raggiunge qui la potenza di una metafora. La semplicità dello spettacolo si
presenta con l'esile filo conduttore della neve: in scena rotola una grande palla bianca spinta dal clown - il
mito di Sisifo? - che trasporta il pubblico dentro un mondo candido di fiaba, ma irrimedibailmente perduto:
una tempesta di coriandoli sulle note dei Carmina Burana, il pubblico coinvolto in un gioco collettivo con
palloni giganti, la "quarta parete" che va e viene, come è proprio delle convenzioni di questo genere di
spettacolo.

Lui, Slava, porta nel mondo da ormai sette anni questo show, che è - senza soluzione di continità con le
precedenti esperienze - un caleidoscopio di personaggi che riunisce tutte le esperienze dell'attore. Una sorta
di commedia dell'arte del XX secolo, un'arte che poggia le sue basi sui maestri del gesto (Chaplin, Marcel
Marceau, Engibarov) ma che reinterpreta in chiave contemporanea l'estetica del gesto.

Ma la poetica di Slava, una tuta da lavoro gialla e grandi scarpe rosse, tratteggia un mondo di struggente
solitudine esistenziale, rimarcata dalla presenza sul palco di altri sei clown che - per sottrazione - marcano la
distanza degli uomini gli uni dagli altri. Distanza, solitudine commuovente, quando, abbracciando un
attaccapanni, Slava si sdoppia e abbraccia se stesso in una contorsione da applausi.

E anche quando la dimensione comica (esilarante il numero della caduta ricorrente dalla sedia inclinata),
o quella spettacolare, o ancora quella ludica, prendono il sopravvento, resta negli occhi, nelle orecchie,
nell'animo la malinconica angoscia sotterranea dell'esistenza dell'attore.

Slava's snowshow
di e con Slava
Al Piccolo Teatro Strehler
Fino al 17 ottobre
Info: www.piccoloteatro.org

5 ottobre 2010
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4/10/2010 (18:18) - LA GIORNATA

E' Romani il ministro dello Sviluppo


DAL 1978 LA TECNICA HA PORTATO ALLA NASCITA DI QUATTRO MILIONI DI PERSONE
Nobel al papà della fecondazione in vitro
Il Vaticano attacca: «Scelta fuori luogo»
All'inglese Robert Edwards il premio per la medicina.
La Pontificia Accademia per la Vita: «Si devono a lui mercato ovociti, mamme-nonne e embrioni a
morte»

MILANO - È Robert Edwards, "padre" della fecondazione in provetta, il vincitore del premio Nobel
per la medicina. Il biologo ed embriologo inglese 85enne ha messo a punto, insieme al ginecologo
Patrick Steptoe, la tecnica che dal '78 a oggi ha permesso la nascita di almeno quattro milioni di
bambini in tutto il mondo. Una scelta, quella del Karolinska Institutet di Stoccolma, duramente
attaccata dalla Santa Sede. «Ritengo che la scelta di Edwards sia completamente fuori luogo, i motivi
di perplessità non sono pochi» ha commentato il presidente della Pontificia Accademia per la
Vita, monsignor Ignacio Carrasco de Paula, che accusa il biologo di essere causa del «mercato
degli ovociti», degli embrioni abbandonati che «finiranno per morire» e dello «stato confusionale
della procreazione assistita, con figli nati da nonne o mamme in affitto».

MERCATO OVOCITI - «Innanzitutto - afferma Carrasco spiegando la sua opposizione alla nomina
del professore a cui pure riconosce alcuni meriti scientifici - senza Edwards non ci sarebbe il mercato
degli ovociti con il relativo commercio di milioni di ovociti; secondo, senza Edwards non ci sarebbero
in tutto il mondo un gran numero di congelatori pieni di embrioni che nel migliore dei casi sono in
attesa di essere trasferiti negli uteri ma che più probabilmente finiranno per essere abbandonati o
per morire e questo è un problema la cui responsabilità è neo premio Nobel». Infine, sottolinea il
presidente della Accademia per la Vita, «senza Edwards non ci sarebbe l'attuale stato confusionale
della procreazione assistita con situazioni incomprensibili come figli nati da nonne o mamme in
affitto». Con la fecondazione in vitro, «in conclusione - aggiunge mons. Carrasco - direi che Edwards
non ha in fondo risolto il problema dell'infertilità, che è un problema serio, né dal punto di vista
patologico né epidemiologico. Insomma non è entrato nel problema, ha trovato una soluzione
scavalcando il problema dell'infertilità. Bisogna aspettare che la ricerca dia un'altra soluzione, anche
più economica e quindi più accessibile della fecondazione in vitro, che tra l'altro presenta costi
ingenti». Per Roberto Colombo, docente dell'università Cattolica di Milano e membro della
Pontificia Accademia per la Vita e del Comitato nazionale di bioetica, «la fecondazione in vitro
suscita gravi interrogativi morali quanto al rispetto della vita umana nascente e alla dignità della
procreazione umana». Radio Vaticana ha affidato il commento al presidente dell'associazione
Scienza e vita, Lucio Romano, che sottolinea «l'inaccettabilità delle tecniche di fecondazione in
vitro, che comportano la selezione e soppressione di esseri umani allo stato biologico di embrioni». Il
premio, ha aggiunto, «disattende tutte le problematiche di ordine etico e rimarca che l'uomo può
essere ridotto da soggetto a oggetto».

PIONIERE - Nella motivazione del riconoscimento viene ricordato che Edwards è stato «pioniere di
una tecnica che ha avuto fortissime ricadute nella società» e che a partire dal 1978, anno di arrivo
della prima bambina in provetta, Louise Brown, ha portato alla nascita di quattro milioni di persone
nel mondo. Edwards ha ricevuto 10 milioni di corone svedesi, corrispondenti a 1,5 milioni di dollari.
M.O.: espulsa da Israele irlandese premio nobel per la pace
ultimo aggiornamento: 05 ottobre, ore 16:03

Gerusalemme, 5 ott. (Adnkronos/Dpa) - La premio Nobel per la pace Mairead Maguire e'
stata espulsa questa mattina da Israele, dopo che la Corte Suprema ha respinto il suo
ricorso. "Ieri la Suprema Corte ha stabilito che doveva essere deportata e noi abbiamo
agito di conseguenza. E' partita oggi alle quattro del mattino", ha detto all'agenzia stampa
Dpa la portavoce del ministero degli Interni Sabin Hadad.
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SVIZZERA: CAMPAGNA SHOCK 'BALAIRATT' FINISCE IN PROCURA

15:15 05 OTT 2010

(AGI) - Varese, 5 ott. - Avra' strascichi giudiziari la pesante campagna avviata dall'Udc Ticino
'balairatt' che tanto ha fatto inviperire i frontalieri italiani che quotidianamente varcano il confine
per andare a lavorare, dipinti come grossi ratti intenti a rubare formaggio. L'ex deputato italiano
eletto in parlamento nel 1996 nelle fila di Forza Italia e attualmente residente in Ticino, Umberto
Giovine, infatti, ha presentato un esposto alla Procura di Como per denunciare il presidente dell'Udc
ticinese, Pierre Rusconi, affidandosi a uno studio legale del Milanese. Secondo l'uomo d'affari che
risiede a Castagnola, sono stati gravemente diffamati i lavoratori italiani. L'iniziativa era nata come
'anticipo' della campagna elettorale d'oltrefrontiera suscitando un vespaio e sfiorando l'incidente
diplomatico tanto che anche il Consiglio di Stato ticinese aveva preso le distanze scusandosi con i
frontalieri italiani. Ieri anche l'Udc di Casini ha preso posizione sulla vicenda precisando la propria
estraneita' a questa campagna, visto l'omonimia tra i due partiti. Dure prese di posizione anche dai
sindacati e dal Consigliere provinciale varesino Paolo Enrico, eletto nel Luinese che chiede un
immediato e diretto intervento del Presidente della Provincia di Varese, Dario Galli, "perche'
situazioni come questa vadano evitate per non guastare gli antichi e profondi legami tra la gente
insubrica".

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3 ottobre 2010

Cercando uno spazio pubblico


di Christian Raimo

Domenica scorsa apro il domenicale e vedo qualcosa di inedito: articoli di Luzzatto, Pedullà, Pacifico, De
Majo, Ricuperati, Lagioia. Sono persone con cui ho condiviso dei percorsi, sono intellettuali (storici, critici,
scrittori, giornalisti, politici della cultura...) che per anni hanno cercato un terreno di confronto comune che
non si è quasi mai dato; trovarli tutti insieme per la prima volta dopo tanto mi ha suscitato una reazione
ambivalente. Perché, mi sono chiesto, questa non è la normalità da tempo?

Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe
finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso
politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all'interno di nicchie autocompiaciute o
autoconsolatorie?

Sarebbe una questione ovvia, se non fosse che in Italia – difficile non accorgersene – siamo invasi da un
vuoto. Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a
cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un'unica geremiade che può assumere di volta in volta
forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di
senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea
culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima
resistenza...

Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l'impossibilità del conflitto, gli anni che
passano, una generazione immobile. È l'aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto
in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice
cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza
che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l'impegno
civile, l'esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo
come un altro? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso agire in modo che il mio intervento
in una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso?
Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare? Quale pratica sociale avrà una sua efficacia per me e
per gli altri?

Cominciate a riconoscervi? Metteteci anche che c'è un (non)modello relazionale che si è parallelamente
imposto: e il paesaggio intorno a noi si è desertificato anche per la mancanza di rapporti personali. Al
confronto, si è sostituita l'anti-politica, l'anti-intellettualismo, l'anti-elitismo di varia foggia, le crociate
indiscriminate contro vecchi, professori, istituzioni...
E proprio mentre questa grande bolla anossica occupava l'intero orizzonte culturale trasformandolo in un
immaginario collettivo nutrito solo di barzellette e recriminazioni, perdevano di corpo anche le ultime strutture
residuali dell'umanismo novecentesco: le potenzialità della politica attiva, la credibilità della chiesa, la forza
dell'impegno sociale, l'autorevolezza della scuola e delle università, il ruolo in generale di quello che da tre
secoli in qua è stata l'opinione pubblica...

Come fare a resistere, ci si chiede. Così: al massimo si prova a occupare di volta in volta un pezzettino di
questo vuoto. Scrittori a cui si chiede un'autorevolezza da statisti, case editrici indipendenti che si fanno
succedanee nel ruolo che avevano i partiti (come è accaduto per il decreto intercettazioni o per il sostegno
pubblico alla cultura), festival della letteratura o del diritto che provano a fare le veci di un'università allo
sbando: tentativi apprezzabili, accidentati percorsi collettivi e prometeici sforzi individuali.

Ma, proprio perché estemporanei e isolati, destinati ad avere semplicemente un valore di rifugio;
compensatorio, quindi fragile. Fare politica si riduce a cliccare su Facebook per salvare la vita a Sakineh.
Per studiare biologia marina può bastare un abbonamento a «Focus». Per farsi finanziare un'inchiesta sulla
guerra in Somalia bisogna prima scrivere una decina di servizi sulle sfilate di moda a Addis Abeba...

Che dite? Possiamo finirla di contemplare questo deserto in una sorta di fascinazione apocalissofila e
cominciare a pensare a come ricostruire una piccola civiltà culturale? Possiamo raddensare queste energie
disperse iniziando a farle circuitare, e poi esplodere? Vi va di dismettere quell'espressione di disincanto che
vi si legge negli occhi?

3 ottobre 2010

ANSA.it Mondo
Libia: 5 mld da Ue per stop immigrazione
Ministro degli Esteri libico rinnova richiesta Gheddafi
05 ottobre, 20:20
(ANSA) - TRIPOLI, 5 OTT - La Libia ha rinnovato la sua richiesta all'Ue di 5 mld di
euro l'anno per fermare l'immigrazione clandestina che parte dalle sue coste.La
richiesta e' stata fatta dal ministro degli Esteri Moussa Koussa in occasione
della visita di una delegazione europea a Tripoli. Koussa ha rinnovato la
richiesta gia' formulata dal leader libico Muammar Gheddafi nel corso di una
visita in Italia a fine agosto.

L'NPA CAMPANIA PRONTO A RIPARTIRE DA BASI SOLIDE

Da oggi il Nuovo Partito d'Azione ha il suo nuovo responsabile regionale in Campania.


Il compagno a cui il Segretario Nazionale ha riaffidato il compito di riorganizzare il Partito in
Campania su basi finalmente stabili e solide è Francesco Postiglione, docente di filosofia, già
quadro dirigente di Amnesty International.
Si tratta di un altro giovane quadro dirigente preparato e fortemente motivato che l'NPA è in grado
di esprimere. Trattandosi di una regione molto grande, molto promettente quanto, al tempo stesso,
densa di fattori critici, il nuovo Commissario Regionale NPA potrà usufruire di tutto il sostegno del
gruppo dirigente nazionale del Partito.
Con questa nomina si fa sempre più vicino anche il raggiungimento del limite massimo statutario
per i membri della Direzione Nazionale, un altro importante indicatore di uno sviluppo
organizzativo che accelera sempre di più il suo ritmo e, tra l'altro, a questo punto solo due regioni
italiane non hanno ancora il responsabile regionale dell'NPA.
A Francesco vanno la fiducia e gli auguri da parte di tutti i neo-azionisti italiani.

NUOVO PARTITO d'AZIONE


Ufficio Stampa
Roma 19 settembre 2010

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Pd, la crisi di un partito senza identità


di Giorgio Ruffolo, la Repubblica, 22 settembre 2010

C’è chi dice che il Partito democratico non c’è più. C’è chi dice che non c’è mai stato. Sulla sua
esistenza grava un peccato originale. Pur di non riconoscersi in una identità socialista questo nuovo
partito ha scelto un non-luogo politico esponendosi al rischio, puntualmente verificatosi, di
costituirsi come congerie di gruppi e progetti disparati. Parlai allora, esprimendo le mie riserve, di
salade niçoise. Il fatto è che le identità politiche non si inventano con brillanti improvvisazioni.
Sono storia e memoria, non slogan che degradano la politica in pubblicità.
Questa sua condizione di nomade politico si è subito rivelata nella difficoltà di trovare una
collocazione politica precisa in Europa e nella pretesa che fossero i partiti socialisti europei a
rinunciare alla loro identità in nome di non si sa che cosa.
Ma c’è di più. Il nobile e ambizioso proposito di realizzare la confluenza in una nuova forza politica
di due grandi correnti sociali, una sinistra laica e una sinistra cattolica, avrebbe richiesto la
elaborazione di un progetto di società come fondamento ideologico del nuovo partito. Il termine
ideologia è stato screditato da Marx come «falsa coscienza». E invece, come Bobbio ricorda, deve
essere inteso nel suo significato originario, di interpretazione della storia e di ispirazione ideale ed
etica della politica. Ora, non si ha neppure la minima traccia, nella breve e tormentata vita del
Partito democratico, di un investimento culturale e politico inteso a costruire una ideologia
moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche, istituzionali e sociali capace
di concretarla.
Niente di tutto questo. Al suo posto c’è una azione incapace di allargare il nostro spazio politico
angusto proponendo temi; un’azione intenta soltanto a contrastare o a emendare le iniziative della
parte avversa, restringendo la propria strategia politica alla scelta contingente delle alleanze. Non si
discute su che cosa ci si deve impegnare, ma con chi bisogna stare. Ora mi chiedo: c’è da stupirsi se
la gente non si appassiona alle vicende del Partito democratico? Se perde consensi e simpatie?
C’è chi dice (come Galli della Loggia) che una delle principali ragioni della crisi del partito
democratico sta nella sua incapacità di obbedienza ai capi. E che l’antiberlusconismo farebbe parte
di questa sindrome. No, non è così.
I grandi capi socialisti, come Brandt, come Palme, suscitavano deferenza e obbedienza vastissime
in virtù delle idee e dei valori che rappresentavano, non di atteggiamenti duceschi e giullareschi,
che dovrebbero suggerire non una benevola condiscendenza, come accade in ambienti "liberali";
ma una vera e incontrovertibile condanna.
Ciò che alla sinistra manca non è l’obbedienza, ma la «credenza»: la convinta fiducia nei propri
valori, spesso sacrificati all’opportunismo delle convenienze immediate e alle ragioni del potere; e
soprattutto la capacità di tradurre quei valori in un concreto progetto di società; e non certo di
affidarli a demagoghi rumorosi o a seduttori populisti.
(22 settembre 2010)

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Alla ricerca della Sinistra perduta


di Pierfranco Pellizzetti, da ilfattoquotidiano.it
L’altro giorno, navigando proprio in questo spazio, l’amico di blog Bonifacio mi ha posto una
domanda intrigante e difficile. In sostanza: per rilanciare la Sinistra è più importante il
radicamento sociale o la qualità comunicativa della leadership?
Provo a rispondere, sperando che altri amici/amiche vogliano farsi coinvolgere nella discussione
(ormai l’avrete capito: sono un fanatico del dibattito pubblico come fondamento della democrazia
rettamente intesa).
Il punto da cui parto è che la Sinistra non deve mai scimmiottare la Destra; pena la sconfitta.
Perché quest’ultima gioca necessariamente in difesa, mentre le posizioni “mancine” sono per
natura votate all’attacco. Infatti la squadra destrorsa ha come obiettivo frenare o azzerare le spinte
al cambiamento (posizioni conservatrici e/o reazionarie), in quanto presidiatrice degli equilibri
vigenti, l’altra è chiamata a intercettare e – dunque – promuovere bisogni di Giustizia e di Libertà,
Inclusione (posizioni riformiste e/o radicali).
Detto così il quadro risulta abbastanza chiaro.
Invece tutto si complica quando le posizioni difensive tendono ad ammantarsi gattopardescamente
di “novismo” (e – direbbe Bush jr. – “compassione”, ambiguo sostituto della solidarietà). Ma
attenzione: è solo una tattica, teorizzata già in epoca vittoriana dal primo ministro inglese Disraeli,
quando invitava i Tory (conservatori) a “sorprendere i Whig (progressisti) mentre sono al bagno e
filarsela coi loro vestiti!”. Questo – però – non vale all’incontrario, come tanti sedicenti progressisti
degli ultimi tempi hanno tentato di fare, ritenendo una gran furbata indossare i panni degli
avversari: se uno vuole votare Destra sceglie l’originale, non accontentandosi di pallidi surrogati.
Ma vallo a spiegare ai tanti epigoni nostrani del blairismo…
Per questo motivo ritengo che la prima qualità di una forza di Sinistra sia quella di interpretare
correttamente la domanda sociale raccordandosi coi movimenti di lotta e protesta, cui offrire
indirizzi e organizzazione. Un lavoro che va fatto in squadra. Difatti un tempo si preferiva parlare
non di solitari “lider maximi” (tendenzialmente narcisistici) ma di “gruppi dirigenti”; e la
conseguente preoccupazione era che non dessero vita a nomenklature autoreferenziali di
“imprenditori di se stessi”.
Il mito – sostanzialmente di destra (era don Gianni Baget Bozzo, cappellano di Berlusconi, che
teorizzava la sacralità del corpo del Capo) – del leader carismatico come “uomo forte” a cui
abbandonarsi emotivamente, oggi dominante, trascura il fatto che, se vogliono diventare progetto,
le passioni vanno razionalizzate.
Antiche lezioni ormai totalmente rimosse, in questa fase della politica dispersa nel virtuale; una
dimensione che privilegia i personaggi, di fatto attori di una recita in cui identificarsi. In una
relazione che passivizza.
Niente a che spartire con le personalità-simbolo (che ne so, John F. Kennedy, Giacomo Matteotti…)
intese come risorse – appunto – paradigmatiche capaci di mobilitare l’azione collettiva. Certo, i
simboli sono necessari nelle fasi di rottura, anche a sinistra. Ma poi si passa alla politica
quotidiana, quella che Max Weber definiva “un lento trapanare tavole dure”. E qui, più che il
personaggio eccezionale, s’impone la militanza attiva di donne e uomini concreti. La partecipazione
critica.
Sono consapevole che “l’inverno del nostro scontento” in cui ci troviamo a vivere, il disgusto per il
“berlusconismo realizzato” di questi anni, spinge sempre più persone alla ricerca di una qualche
scorciatoia di uscita. Magari contrapponendo “personaggi” all’insopportabile Personaggio di
Arcore.
Temo che, come spesso accade alle scorciatoie, la soluzione si riveli illusoria.
Mi si potrebbe rispondere: ma queste sono le regole di una società mediatizzata.
Non lo credo: questo è quanto si cerca di farci pensare, perché si continui a restare a bagnomaria
nella realtà virtuale, nella politica ridotta a star-system (politainment: la politica come uno
spettacolo di intrattenimento); nella trappola della comunicazione d’immagine (creata
artificialmente dagli spin-doctors). Una fase pluridecennale che sta entrando in fase terminale, da
quando il mondo della vita ha fatto irruzione sui set del politainment, devastandoli. Dai morti nel
ginepraio Medio Orientale, ai carrelli semi vuoti dei nostri supermercati, con le famiglie che non
riescono ad arrivare a fine mese.
La verità sta spazzando via il verisimile mediatico.
La Sinistra presa sul serio è chiamata a navigare nel mare tempestoso del sociale, uscendo da quella
che Italo Calvino chiamava “la grande bonaccia del Mar delle Antille”. I suoi leader sono chiamati a
interpretare e rappresentare il tuono che giunge dalle profondità umane portandolo a disegno
strategico. Con una virtù che fa premio su qualsivoglia brillantezza o seduttività: essere credibili.
(22 settembre 2010)
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Il grande inganno dello “scontro di civiltà”


di Giovanni Perazzoli
La mattina dell’11 settembre 2001 passavo a piedi il confine tra la Turchia e la Siria, nella zona dove
un tempo sorgeva la città di Nisibi. Dell’antica città sul Limes tra Oriente e Occidente dell’Impero,
che è stata uno dei centri più importanti del primo cristianesimo, non restava che un luogo
generico nel deserto bollente: un nugolo di case basse di cemento, sovrastate dalle antenne
paraboliche e circondate da pollai. A Nisibi c’era stata la scuola dei cristiani nestoriani, che
estenderanno la loro influenza verso l’Iraq; vi avevano lavorato i traduttori di Aristotele; era la città
dei dotti che hanno (ri)trasmesso la filosofia greca all’Oriente e quindi indirettamente
all’Occidente.
Tornavo in Siria dopo un lungo viaggio in Iran, fino ai confini dell’Afganistan. Più che discontinuità
culturali, avevo trovato la continuità dei mondi, perché ogni viaggio avvicina di più a casa nostra.
Poco lontano da Nisibi, nel monastero di Mar Gabriel, William Dalrymple aveva assistito alla
preghiera dei monaci, e li aveva visti prostrarsi abbassando la testa fino al suolo, esattamente come
avviene oggi nelle moschee. In quel monastero separato dal mondo si era conservato attraverso i
secoli il modo di pregare dei primi cristiani, successivamente adottato dai musulmani. La stessa
preghiera viene descritta anche nel Prato Spirituale, il diario del viaggio che il monaco Giovanni
Mosco intraprese nel VI secolo attraverso il mondo bizantino mediorientale.
Come nel viaggio di Charles Darwin, chi percorre queste regioni può scoprire, a partire da differenti
tessere, un unico mosaico evolutivo culturale e religioso. A Deir el-Zaferan, che in arabo significa
“monastero dello zafferano”, avevo trovato un altro esempio di questa continuità. Ciò che uno
storico dell’arte distinguerebbe con attenzione, suddividendo per capitoli e per epoche, ciò che mai
a uno studente si permetterebbe di confondere, qui si trovava sfacciatamente mescolato. Un
mihrab aveva al centro una croce greca, contornata di scritte in siriaco e in arabo; il tutto dentro a
una struttura romana, che era insieme imperiale e tardo antica, con immensi pietroni squadrati e
colonne sormontate da capitelli corinzieggianti. In fondo c’era la cripta, che i monaci datavano a
1000 anni prima della nascita di Cristo, e che apparteneva al precedente tempio del dio Sole, sul
quale, come si capisce, si erano succeduti e via via pietrificati tutti gli altri culti. A saperlo leggere,
quell’insieme architettonico contraddittorio era, in realtà, un tributo al tempo, senz’altro il solo dio
che può causare ed apprezzare quell’insieme disordinato di sovrapposizioni.
A Yazd, la città degli zoroastriani, in mezzo al deserto dell’altopiano iranico, c’erano altre tracce di
questa continuità. La città è ancora oggi uno dei centri del culto zoroastriano, che ha largamente
influenzato Giudaismo, Mitraismo, Mazdeismo e Cristianesimo. Un sommo Dio onnisciente e
buono si contrappone al malvagio spirito delle tenebre; l’anima abbandona il corpo dopo la morte,
e viene messa su una bilancia: va all’inferno o in paradiso a seconda della prevalenza delle sue
azioni, tra le buone e le cattive. Nel giorno del giudizio universale, comunque, anche i peccatori
verranno riscattati dall’inferno.
Mi ero chiesto come potesse apparire un tempio del fuoco dei zoroastriani. Mi immaginavo
Giuliano l’Apostata alla testa delle sue legioni, in marcia per raggiungere il luogo del Sol Invictus.
Diversi chilometri fuori della città, nel deserto, ce n’era uno su un’altura arida. Arrivato in cima,
trovai effettivamente il tempio, ma era un deludente edificio piastrellato come una casa al mare
degli anni ’60. E con un barbecue e tavolini in pietra per i pic-nic, perché gli iraniani - musulmani,
ebrei, cristiani, zoroastriani che siano -, amano il pic-nic.
Un oriente postmoderno era in fondo facile da prevedere. Un ragazzo si è materializzato tra la
polvere dalla città a cavallo della sua moto; mi dice di essere uno zoroastriano, e parla meglio di me
il tedesco. Also sprach Zarathustra. Induce al sorriso un altro giovane sassanide fan del calcio
italiano: il moderno nipote degli antichi Parti, gli eterni nemici dei Romani, aveva addosso la
maglietta della squadra della Roma, con su scritto “Totti”. Giuliano l’Apostata non poteva
prevederlo; ma altri avrebbero potuto.
La stessa continuità (perché l’umanità è una, uno è l’intelletto, come scriveva l’arabo Averroé,
riprendendo il greco Aristotele) la trovai in un discorso, in inglese, tra un iraniano e due siriani sul
traghetto che attraversava il grande lago Van. I siriani chiedevano se veramente in Iran le donne
dovessero andarsene in giro velate e non si potesse bere alcool. L’iraniano confermava desolato,
niente eccezioni; ma trasse fuori dal suo bagaglio una lattina di birra: “La devo bere prima di
arrivare al confine, altrimenti me la sequestrano”. Non c’è da dire molto di più sul tema fasullo
dello scontro di civiltà.
Aveva forse la sua parte di ragione il cinese di Honk Kong, anche lui sul treno per Teheran, che
aveva studiato legge a Londra. Secondo lui, in Occidente, ovvero, dal suo punto di vista, in tutti i
paesi che dall’Europa arrivano fino all’Iran, c’è un interesse ossessivo per la religione. “In Cina
siamo pragmatici. Non come voi occidentali”.
Quella mattina, attraversando l’antico e polveroso Limes tra Oriente e Occidente, dove un tempo
sorgeva la città di Nisibi, mi tornò in mente anche l’autista dell’autobus di linea iraniano che aveva
sul cruscotto una bandiera americana. E ripensai alle invettive contro il regime che tutti gli iraniani
che ho incontrato confidavano ai turisti con troppa facilità. Anche le ragazze iraniane, benché
velate a forza, erano aperte. Due sorelle dall’inglese corretto, se non fluente, mi raccontarono della
loro vitaccia con il regime, davanti a un the in uno dei locali che si trovano sotto il ponte di
Esfahan. La voglia degli iraniani di comunicare con il mondo da cui si sentono separati è
fortissima. Dai tetti delle loro case una rete di parabole satellitari li collega disperatamente agli
altri. Pare che molti non sappiano chi sono i Beatles, non parliamo poi dei Rolling Stones. O
fingono di non saperlo. Ammetterne una tale conoscenza sarebbe troppo pericoloso (dove si
capisce che il regime conosce meglio dei generali raccomandati, quali sono le vere armi letali
dell’Occidente). Ma c’è poco da fare. Nonostante i divieti, Mitra ascoltava il rock a volume piuttosto
alto, mentre mi parlava di suo fratello in Germania. Consideravo allora, che lei parlava in inglese di
suo fratello, dunque del suo brother, che i tedeschi avrebbero detto Bruder, che il Farsi avrebbe
detto Barader; che in italiano avrei tradotto detto fratello, dal latino Frater, ovvero, di nuovo, la
stessa parola.
Oltre il confine tra la Turchia e la Siria un autobus di linea aspettava i passeggeri del medio oriente,
con i loro abiti lisi, seri e scuri, pieni di polvere. Un ragazzino salì a bordo per vendere dell’acqua.
Gli regalai tre caramelle che avevo in tasca. Lui fu sorpreso del fatto che gliele dessi tutte. “È
curdo”, disse affettuosamente una donna siriana. Poi il ragazzino scese e scomparve nell’immensa
fornace del deserto, tra la polvere e le case basse, composte di una sola stanza. Sarà tornato dalla
madre, forse avrà nascosto il suo tesoro ai fratelli o alle sorelle o al contrario l’avrà diviso con loro.
Ripenso a lui quando vedo, per pochi secondi in televisione, i padri portare in braccio i loro figli
morti per una bomba, nelle frequenti immagini di moderne pietà michelangiolesche in versione
mediorientale, quando sono i padri che portano le spoglie dei loro figli.
Quella mattina era appunto l’11 settembre del 2001. L’autobus si inoltrò nel deserto, e per 10 ore
non seppi nulla del mondo. Unica sosta tra i resti di Palmira. Fu da qui che l’imperatore Aureliano,
dopo aver occupato la città, prese la grande statua del dio Sole per portarla a Roma. Poi gli dedicò
un giorno per il culto, il 25 dicembre - supposto giorno del solstizio d’inverno - con grandi feste e
cerimonie. Tre secoli dopo, i cristiani trasformarono quella festa nel giorno della nascita di Cristo.
Nacque il natale.
All’arrivo a Damasco, scopro dell’attacco alle torri gemelle. Il mondo sarebbe rimasto lo stesso.
Trovai molte e-mail di amici, anche dei più “informati”, che mi consigliavano l’immediato rientro
in Italia, perché altrimenti, non c’è dubbio, mi avrebbero ucciso. Ma la gente era partecipe del
dolore di tutti, nessuno festeggiava per strada. In tutto il mondo si era capito, di colpo, che aveva
inizio un periodo d’oro per i fanatici religiosi di ogni latitudine, che a lungo si erano sentiti repressi
nella loro “identità”. Ora potevano tornare ad esibirla, goffa, agitata e sudaticcia, orgogliosamente
ottusa. La televisione siriana disse una prudente bugia, ma una verità simbolica: che si pensava ad
un attacco di una setta di folli giapponesi.
(13 settembre 2010)
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La Verità Berlusconi
La vita e la carriera dell'imprenditore Silvio Berlusconi, nonostante le biografie
autorizzate che il protagonista ha fatto pubblicare o propiziato nel corso degli anni con
fini auto-agiografici, rimane costellata di buchi neri e di domande senza risposta.
Piccolo riepilogo degli omissis più inquietanti.

1) La Edilnord Sas è la società fondata nel 1963 da Silvio Berlusconi per costruire
Milano 2. Soci accomandatari (quelli che vi operano), oltre al futuro Cavaliere, sono il
commercialista Edoardo Piccitto e i costruttori Pietro Canali, Enrico Botta e Giovanni
Botta. Soci accomandanti (quelli che finanziano l'operazione) il banchiere Carlo Rasini,
titolare dell'omonima banca con sede in via dei Mercanti a Milano, e l'avvocato d'affari
Renzo Rezzonico, legale rappresentante di una finanziaria di Lugano: la
"Finanzierungesellschaft für Residenzen Ag", di cui nessuno conoscerà mai i reali
proprietari. Si tratta comunque di gente molto ottimista, se ha affidato enormi capitali
a Berlusconi, cioè a un giovanotto di 27 anni che, fino a quel momento, non ha dato
alcuna prova imprenditoriale degna di nota.

2) Sulla banca Rasini, dove il padre Luigi Berlusconi lavora per tutta la vita, da
semplice impiegato a direttore generale, ecco la risposta di Michele Sindona
(bancarottiere piduista legato a Cosa Nostra e riciclatore di denaro mafioso) al
giornalista americano Nick Tosches, che nel 1985 gli domanda quali siano le banche
usate dalla mafia: "In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca in
piazza Mercanti". Cioè la Rasini, dove - ripetiamo - Luigi Berlusconi, padre di Silvio, ha
lavorato per tutta a vita, fino a diventarne il procuratore generale. Alla Rasini tengono
i conti correnti noti mafiosi e narcotrafficanti siciliani come Antonio Virgilio, Salvatore
Enea, Luigi Monti, legati a Vittorio Mangano, il mafioso che lavora come fattore nella
villa di Berlusconi fra il 1973 e il 1975.

3) Il 29 ottobre 1968 nasce la Edilnord Centri Residenziali Sas (una sorta di Edilnord
2): stavolta, al posto di Berlusconi, come socio accomandatario c'è sua cugina Lidia
Borsani, 31 anni. E i capitali li fornisce un'altra misteriosa finanziaria luganese, la
"Aktiengesellschaft für Immobilienanlagen in Residenzentren Ag" (Aktien), fondata da
misteriosi soci appena 10 giorni prima della nascita di Edilnord 2. Berlusconi da questo
momento sparisce nel nulla, coperto da una selva di sigle e prestanome. Riemergerà
solo nel 1975 per presiedere la Italcantieri, e nel 1979, come presidente della
Fininvest. Intanto nascono decine di società intestate a parenti e figuranti, controllate
da società di cui si ignorano i veri titolari. Come ha ricostruito Giuseppe Fiori nel libro
"Il venditore" (Garzanti, 1994, Milano), Italcantieri nasce nel 1973, costituita da due
fiduciarie ticinesi: "Cofigen Sa" di Lugano (legata al finanziere Tito Tettamanzi, vicino
alla massoneria e all'Opus Dei) e "Eti A.G.Holding" di Chiasso (amministrata da un
finanziere di estrema destra, Ercole Doninelli, proprietario di un'altra società, la Fi.Mo,
più volte 7 inquisita per riciclaggio, addirittura con i narcos colombiani).

4) Nel 1974 nasce la "Immobiliare San Martino", amministrata da Marcello Dell'Utri e


capitalizzata da due fiduciarie del parabancario Bnl: la Servizio Italia (diretta dal
piduista Gianfranco Graziadei) e la Saf (Società Azionaria Finanziaria, rappresentata da
un prestanome cecoslovacco, Frederick Pollack, nato nientemeno che nel 1887). A
vario titolo e con vari sistemi e prestanome, "figlieranno" una miriade di società legate
a Berlusconi e ai suoi cari: a cominciare dalle 34 "Holding Italiana" che controllano il
gruppo Fininvest. Secondo il dirigente della Banca d'Italia Francesco Giuffrida e il
sottufficiale della Guardia di Finanza Giuseppe Ciuro, consulenti tecnici della Procura di
Palermo al processo contro Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione
mafiosa, queste finanziarie hanno ricevuto fra il 1978 e il 1985 almeno 113 miliardi [di
che?] (pari a 502 miliardi di lire e 250 milioni di euro di oggi), in parte addirittura in
contanti e in assegni "mascherati", dei quali tuttoggi "si ignora la provenienza". La
Procura di Palermo sostiene che sono i capitali mafiosi "investiti" nel Biscione dalle
cosche legate al boss Stefano Bontate. La difesa afferma che si tratta di
autofinanziamenti, anche se non spiega da dove provenga tutta quella liquidità. Lo
stesso consulente tecnico di Berlusconi, il professor Paolo Jovenitti, ammette
l'"anomalia" e l'incomprensibilità di alcune operazioni dell'epoca.

5) Nel 1973 Silvio Berlusconi acquista da Annamaria Casati Stampa di Soncino,


ereditiera minorenne della nota famiglia nobiliare lombarda rimasta orfana nel 1970,
la settecentesca Villa San Martino ad Arcore, con quadri d'autore, parco di un milione
di metri quadrati, campi da tennis, maneggio, scuderie, due piscine, centinaia di ettari
di terreni. La Casati è assistita da un pro-tutore, l'avvocato Cesare Previti, che è pure
un amico di Berlusconi, figlio di un suo prestanome (il padre Umberto) e dirigente di
una società del gruppo (la Immobiliare Idra). Grazie alla fortunata coincidenza, la
favolosa villa con annessi e connessi viene pagata circa 500 milioni dell'epoca: un
prezzo irrisorio. E, per giunta, non in denaro frusciante, ma in azioni di alcune società
immobiliari non quotate in borse, così che, quando la ragazza si trasferisce in Brasile e
tenta di monetizzare i titoli, si ritrova con una carrettate di carta. A quel punto, Previti
e Berlusconi offrono di ricomprare le azioni, ma alla metà del prezzo inizialmente
pattuito. Una sentenza del Tribunale di Roma, nel 2000, ha assolto gli autori del libro
"Gli affari del presidente", che raccontava l'imbarazzante transazione.

6) Nel 1973 Berlusconi, tramite Marcello Dell'Utri, ingaggia come fattore (ma
recentemente Dell'Utri l'ha promosso "amministratore della villa") il noto criminale
palermitano, pluriarrestato e pluricondannato Vittorio Mangano. Il quale lascerà la villa
solo due anni più tardi, quando verrà sospettato di aver organizzato il sequestro di
Luigi d'Angerio principe di Sant'Agata, che aveva appena lasciato la villa di Arcore
dopo una cena con Berlusconi, Dell'Utri e lo stesso Mangano. Mangano verrà
condannato persino per narcotraffico (al maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino)
e, nel 1998, all'ergastolo per omicidio e mafia.

7) Il 26 gennaio 1978 Silvio Berlusconi si affilia alla loggia Propaganda 2 (P2),


presentato al gran maestro venerabile Licio Gelli dall'amico giornalista Roberto
Gervaso. Paga regolare quota di iscrizione (100 mila lire) e viene registrato con la
tessera 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625. La partecipazione al pio
sodalizio gli procaccerà vantaggi di ogni genere: dai finanziamenti della "Servizio
Italia" di Graziadei ai crediti facili e ingiustificati del Monte dei Paschi di Siena (di cui è
provveditore il piduista Giovanni Cresti) alla collaborazione con il "Corriere della Sera"
diretto dal piduista Franco Di Bella e controllato dalla Rizzoli dei piduisti Angelo Rizzoli,
Bruno Tassan Din e Umberto Ortolani.

8) Il 24 ottobre 1979 Silvio Berlusconi riceve la visita di tre ufficiali della Guardia di
Finanza nella sede dell'Edilnord Cantieri Residenziali. Si spaccia per un "un semplice
consulente esterno" addetto "alla progettazione di Milano 2". In realtà è il proprietario
unico della società, intestata a Umberto Previti. Ma i militari abboccano e chiudono in
tutta fretta l'ispezione, sebbene abbiano riscontrato più di un'anomalia nei rapporti
con i misteriosi soci svizzeri. Faranno carriera tutti e tre. Si chiamano Massimo Maria
Berruti, Salvatore Gallo e Alberto Corrado. Berruti, il capopattuglia, lascerà le Fiamme
Gialle pochi mesi dopo per andare a lavorare per la Fininvest come avvocato d'affari
(società estere, contratti dei calciatori del Milan, e così via). Arrestato nel 1985 nello
scandalo Icomec (e poi assolto), tornerà in carcere nel 1994 insieme a Corrado per i
depistaggi nell'inchiesta sulle mazzette alla Guardia di Finanza, poi verrà eletto
deputato per Forza Italia e condannato in primo e secondo grado a 8 mesi di
reclusione per favoreggiamento. Gallo risulterà iscritto alla loggia P2.

9) Il 30 maggio 1983 la Guardia di Finanza di Milano, che sta controllando i telefoni di


Berlusconi nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di droga, redige un rapporto
investigativo in cui si legge: "E' stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi
finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre
regioni italiane (Lombardia e Lazio). Il predetto sarebbe al centro di grosse
speculazioni in Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo aventi sede a Vaduz
e comunque all'estero. Operativamente le società in questione avrebbero conferito
ampio mandato ai professionisti della zona". Per otto anni l'indagine, seguita
inizialmente dal pm Giorgio Della Lucia (poi passato all'Ufficio istruzione, da anni
imputato per corruzione in atti giudiziari insieme al finanziere Filippo Alberto
Rapisarda, ex datore di lavoro ed ex socio di Marcello Dell'Utri) langue, praticamente
dimenticata. Alla fine, nel 1991, il gip milanese Anna Cappelli archivierà tutto.

10) Il terzo, seccante incontro ravvicinato fra il Cavaliere e la Legge risale al 16


ottobre 1984. Tre pretori, di Torino, Roma e Pescara, hanno la pretesa di applicare le
norme che regolano l'emittenza televisiva e che il Cavaliere ha deciso di aggirare,
trasmettendo in contemporanea gli stessi programmi su tutto il territorio nazionale. I
tre magistrati fanno presente che è vietato, 9 non si può e bloccano le attrezzature
che consentono l'operazione fuorilegge. Il Cavaliere oscura le sue tv, per attribuire il
black out ai giudici, poi scatena il popolo dei teledipendenti con lo slogan "Vietato
vietare", opportunamente rilanciato dallo show del giornalista piduista Maurizio
Costanzo. Lo slogan viene subito tradotto in legge dal presidente del Consiglio Bettino
Craxi. Il quale abbandona una visita di Stato a Londra per precipitarsi in Italia e varare
un decreto legge ad personam ("decreto Berlusconi") che riaccende immediatamente
le tv illegali del suo compare. Lo scandalo è talmente enorme che, persino nel
pentapartito, qualcuno non ci sta. E il decreto viene bocciato dall'aula come
incostituzionale. Due dei tre pretori reiterano il sequestro penale delle attrezzature
utilizzabili oltre l'ambito locale. Così Craxi partorisce un secondo decreto Berlusconi,
agitando davanti ai riottosi partiti alleati lo spauracchio della crisi di governo e delle
elezioni anticipate, in caso di mancata conversione in legge. Provvederà poi lo stesso
Caf a legalizzare il monopolio illegale Fininvest sulla televisione commerciale con la
legge Mammì, detta anche "legge-Polaroid" per l'alta fedeltà con cui fotografa lo
status quo.

Bugie sulla loggia P2 (falsa testimonianza)


La Corte d'appello di Venezia, nel 1990, dichiara Berlusconi
colpevole di aver giurato il falso davanti al Tribunale di
Verona a proposito della sua iscrizione alla P2, ma il reato è
coperto dall'amnistia del 1989. Interrogato sotto
giuramento Berlusconi aveva detto: "Non ricordo la data
esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è
di poco anteriore allo scandalo [.]. Non ho mai pagato una
quota di iscrizione, né mai mi è stata richiesta". Berlusconi
però si era iscritto alla P2 nel 1978 (lo scandalo è del 1981)
e aveva pagato la sua quota. Così i giudici della Corte
d'appello di Venezia scrivono: "Ritiene il Collegio che le
dichiarazioni dell'imputato non rispondano a verità [.],
smentite dalle risultanze della commissione Anselmi e dalle
stesse dichiarazioni rese del prevenuto avanti al giudice
istruttore di Milano, e mai contestate [.]. Ne consegue
quindi che il Berlusconi ha dichiarato il falso", rilasciato
"dichiarazioni menzognere" e "compiutamente realizzato
gli estremi obiettivi e subiettivi del delitto di falsa
testimonianza". Ma "il reato va dichiarato estinto per
intervenuta amnistia".

Tangenti alla Guardia di Finanza (corruzione)


I grado: condanna a 2 anni e 9 mesi per tutte e quattro le
tangenti contestate (niente attenuanti generiche). Appello:
prescrizione per tre tangenti (grazie alle attenuanti
generiche), assoluzione con formula dubitativa (comma II
art.530 c.p.p) per la quarta. Nelle motivazioni si legge: "Il
giudizio di colpevolezza dell'imputato poggia su molteplici
elementi indiziari, certi, univoci, precisi e concordanti, per
ciò dotati di rilevante forza persuasiva, tali da assumere
valenza probatoria". Cassazione: assoluzione. La
motivazione contiene due riferimenti alla classica
insufficienza di prove. La Cassazione non può entrare
dichiaratamente nel merito, né dunque annullare la
sentenza precedente con formula dubitativa: deve
emettere un verdetto secco (conferma oppure annulla). Ma
nella motivazione i giudici della VI sezione penale
rimandano esplicitamente all'"articolo 530 cpv": dove "cpv"
significa "capoverso", cioè comma 2 ("prova contraddittoria
o insufficiente"). A 12 righe dalla fine, a scanso di equivoci,
i supremi giudici hanno voluto essere ancora più chiari. Si
legge infatti: "Tenuto conto di quanto già osservato sulla
insufficienza probatoria, nei confronti di Berlusconi, del
materiale indiziario utilizzato dalla Corte d'appello...".

All Iberian 1 (finanziamento illecito ai partiti)


I grado: condanna a 2 anni e 4 mesi per i 21 miliardi versati
estero su estero, tramite il conto All Iberian, a Bettino
Craxi. Appello: il reato cade in prescrizione, ma c'è: "per
nessuno degli imputati emerge dagli atti l'evidenza
dell'innocenza". Cassazione: prescrizione confermata, con
condanna al pagamento delle 11 spese processuali. Nella
sentenza definitiva tra l'altro si legge: "Le operazioni
societarie e finanziarie prodromiche ai finanziamenti estero
su estero dal conto intestato alla All Iberian al conto di
transito Northern Holding [Craxi] furono realizzate in Italia
dai vertici del gruppo Fininvest spa, con il rilevante
concorso di Berlusconi quale proprietario e presidente. [.]
Non emerge negli atti processuali l'estraneità
dell'imputato".

All Iberian 2 (falso in bilancio)


Processo sospeso in attesa che sulla legittimità delle nuove
norme in materia di reati societari approvate dal governo
Berlusconi si pronuncino l'Alta Corte di giustizia europea e
la Corte costituzionale italiana. Se le eccezioni sollevate da
vari tribunali verranno respinte, il reato sarà dichiarato
prescritto.

Medusa Cinema (falso in bilancio)


I grado: condanna a 1 anno e 4 mesi (10 miliardi di fondi
neri che, grazie alla compravendita, vengono accantonati
su una serie di libretti al portatore di Silvio Berlusconi).
Appello: assoluzione con formula dubitativa (comma 2 art.
530). Berlusconi, secondo il collegio è così ricco che
potrebbe anche non essersi reso conto di come, nel corso
della compravendita, il suo collaboratore Carlo Bernasconi
(condannato) gli abbia versato 10 miliardi di lire in nero.
Scrivono i giudici: "La molteplicità dei libretti riconducibili
alla famiglia Berlusconi e le notorie rilevanti dimensioni del
patrimonio di Berlusconi postulano l'impossibilità di
conoscenza sia dell'incremento sia soprattutto dell'origine
dello stesso". Cassazione: sentenza d'appello confermata.

Terreni di Macherio (appropriazione indebita, frode


fiscale, falso in bilancio)
I grado: assoluzione dall'appropriazione indebita e dalla
frode fiscale (per 4.4 miliardi di lire pagati in nero all'ex
proprietario dei terreni che circondano la villa di Macherio,
dove vivono la moglie Veronica e i tre figli di secondo
letto), prescrizione per i falsi in bilancio di due società ai
quali "indubbiamente ha concorso Berlusconi". Appello:
confermata l'assoluzione dalle prime due accuse.
Assoluzione anche dal primo dei due falsi in bilancio,
mentre il secondo rimane ma è coperto da amnistia.
Cassazione: in corso.

Caso Lentini (falso in bilancio)


I grado: il reato (10 miliardi versati in nero al Torino Calcio
in occasione dell'acquisto del giocatore Luigi Lentini) è
stato dichiarato prescritto grazie alla nuova legge sul falso
in bilancio. Appello: in corso.

Consolidato gruppo Fininvest (falso in bilancio)


Il gip Fabio Paparella ha dichiarato prescritti, sulla base
della nuova legge sul falso in bilancio, i 1500 miliardi di lire
di presunti fondi neri accantonati 12 dal gruppo Berlusconi
su 64 off-shore della galassia All Iberian (comparto B della
Fininvest). Il pm Francesco Greco ha presentato ricorso in
Cassazione perché la mancata fissazione dell'udienza
preliminare gli ha impedito di sollevare un'eccezione
d'incostituzionalità e di incompatibilità con le direttive
comunitarie delle nuove norme sui reati societari e con il
trattato dell'Ocse.

Lodo Mondadori (corruzione giudiziaria)


Grazie alla concessione delle attenuanti generiche il reato -
che in primo grado ha portato alla condanna di Cesare
Previti - è stato dichiarato prescritto dalla Corte d'Appello di
Milano e dalla Corte di Cassazione. Nelle motivazioni della
Cassazione, tra l'altro, si legge: "il rilievo dato [per
concedere le attenuanti generiche] alle attuali condizioni di
vita sociale ed individuale del soggetto [Berlusconi è
diventato presidente del Consiglio], valutato dalla Corte
come decisivo, non appare per nulla incongruo.".

Sme-Ariosto (corruzione giudiziaria)


A causa dei continui "impedimenti istituzionali" sollevati da
Berlusconi e dei conseguenti rinvii delle udienze, la
posizione del premier è stata stralciata dal processo
principale. Ed è stato creato un processo parallelo, che
però Berlusconi ha sospeso fino al termine del suo incarico
(o sine die, in caso di rielezione o di nomina ad altra carica
istituzionale) facendo approvare a tempo di record il Lodo
Maccanico, proprio alla vigilia della requisitoria, delle
arringhe e della sentenza, e a 40 mesi dall'inizio del
dibattimento.

Sme-Ariosto (falso in bilancio)


In seguito all'entrata in vigore delle nuove norme sul diritto
societario, questo capo d'imputazione contestato a
Berlusconi per il denaro versato - secondo l'accusa- ad
alcuni giudici, è stato stralciato. Il processo è fermo in
attesa che l'Alta Corte di giustizia europea si pronunci sulla
conformità tra le nuove regole e le normative comunitarie.
Ma, anche in caso di risposta positiva per i giudici, resterà
bloccato per il Lodo Maccanico. Come tutti gli altri
procedimenti ancora in corso a carico di Silvio Berlusconi.

Diritti televisivi (falso in bilancio -?- e frode fiscale)


Indagini preliminari in corso alla Procura di Milano (pm
Alfredo Robledo e Fabio De Pasquale), a carico di numerosi
manager del gruppo, più il presidente di Mediaset Fedele
Confalonieri e il titolare Silvio Berlusconi, il quale - secondo
l'ipotesi accusatoria - avrebbe continuato anche dopo
l'ingresso in politica nel '94 ad esercitare di fatto il ruolo di
dominus dell'azienda. Oggetto dell'indagine: una serie di
operazioni finanziarie di acquisto di diritti cinematografici e
televisivi da majors americane, con vorticosi passaggi fra
una società estera e l'altra del gruppo Berlusconi, con il
risultato di far lievitare artificiosamente il prezzo dei beni
compravenduti e beneficiare di sconti fiscali previsti dalla
legge Tremonti, approvata dal primo governo dello stesso
Berlusconi per detassare gli utili reinvestiti dalle imprese.
Un presunto falso in bilancio che i magistrati valutano in
circa 180 milioni di euro nel 1994.

Telecinco (violazione delle leggi antitrust e frode


fiscale in Spagna)
Il giudice anticorruzione di Madrid Baltasàr Garzòn Real,
dopo aver chiesto nel 2001 al governo italiano di
processare Berlusconi o, in alternativa, di privarlo
dell'immunità in modo di poterlo giudicare in Spagna, non
ha ancora ricevuto risposta. Per questo il procuratore
anticorruzione Carlo Castresana, nel maggio 2002, ha
pregato Garzòn di rivolgersi di nuovo alle autorità italiane.
Berlusconi in Spagna è accusato - insieme a Marcello
Dell'Utri e ad altri dirigenti del gruppo Fininvest - di aver
posseduto, grazie a una serie di prestanomi e di operazioni
finanziarie illecite, il controllo pressoché totalitario
dell'emittente Telecinco eccedenti rispetto ai limiti
dell'antitrust spagnola, negli anni in cui il tetto massimo
era del 25 per cento delle quote azionarie.

Mafia (concorso esterno in associazione mafiosa e


riciclaggio di denaro sporco)
Indagini archiviate a Palermo su richiesta della Procura per
scadenza dei termini massimi concessi per indagare.

Bombe del 1992 e del 1993 (concorso in strage)


Le inchieste delle Procure di Firenze e Caltanissetta sui
presunti "mandanti a volto coperto" delle stragi del 1992
(Falcone e Borsellino) e del 1993 (Milano, Firenze e Roma)
sono state archiviate per scadenza dei termini d'indagine.
A Firenze, il 14 novembre 1998, il gip Giuseppe Soresina ha
però rilevato come Berlusconi e Dell'Utri abbiano
"intrattenuto rapporti non meramente episodici con i
soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista
realizzato". Cioè con il clan corleonese che da vent'anni
guida Cosa Nostra, con centinaia di omicidi e una mezza
dozzina di stragi. Aggiunge il giudice fiorentino che esiste
"una obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa
Nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche
della nuova formazione [Forza Italia]: articolo 41 bis,
legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero del
garantismo processuale asseritamente trascurato dalla
legislazione dei primi anni 90". Poi aggiunge che, nel corso
delle indagini, addirittura "l'ipotesi iniziale [di un coinvolgi-
mento di Berlusconi e dell'Utri nelle stragi] ha mantenuto e
semmai incrementato la sua plausibilità". Ma purtroppo è
scaduto "il termine massimo delle indagini preliminari"
prima di poter raccogliere ulteriori elementi. Il gip di
Caltanissetta Giovanni Battista Tona ha scritto: "Gli atti del
fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di
varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa
Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario
modo dagli odierni indagati [Berlusconi e Dell'Utri]. Ciò di
per sé legittima l'ipotesi che, in considera- zione del
prestigio di Berlusconi e Dell'Utri, essi possano essere stati
individuati dagli uomini dell'organizzazione quali eventuali
nuovi interlocutori". Ma "la friabilità del quadro indiziario
impone l'archiviazione". C'è, infine, la sentenza della Corte
di Assise di Appello di Caltanissetta, che il 23 giugno 2001
ha condannato 37 boss mafiosi per la strage di Capaci: nel
14 capitolo intitolato esplicitamente "I contatti tra
Salvatore Riina e gli on. Dell'Utri e Berlusconi", si legge che
è provato che la mafia intrecciò con i due "un rapporto
fruttuoso quanto meno sotto il profilo economico".
Talmente fruttuoso che poi, nel 1992, "il progetto politico di
Cosa Nostra sul versante istituzionale mirava a realizzare
nuovi equilibri e nuove alleanze con nuovi referenti della
politica e dell'economia". Cioè a "indurre nella trattativa lo
Stato ovvero a consentire un ricambio politico che,
attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le
complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato".

TUTTE LE BUGIE DI BERLUSCONI

"Io dico sempre cose sincere, anche perché non


ho memoria e dimenticherei le bugie. Come ci si
può fidare di chi usa la menzogna come mezzo
della lotta politica? La gente deve fidarsi solo di
chi dice la verità" (Silvio Berlusconi, 2-3-94)
Indro Montanelli, il più grande giornalista italiano
scomparso nel 2001, lo conosceva bene, avendolo avuto
per 15 anni come editore. E diceva: "Silvio Berlusconi è un
mentitore professionale: mente a tutti, sempre anche a se
stesso, al punto da credere alle sue stesse menzogne". Una
pulsione incontenibile e irrefrenabile, quella del presidente
del Consiglio italiano verso la menzogna. Persino in
Tribunale. Infatti, il 22 ottobre 1990, la Corte d'Appello di
Venezia l'ha riconosciuto colpevole di aver mentito ai
giudici sotto giuramento: "Il Berlusconi - si legge nella
sentenza - deponendo avanti il Tribunale di Verona, ha
dichiarato il falso, realizzando gli estremi obiettivi e
soggettivi del contestato delitto": cioè la falsa
testimonianza, a proposito della sua iscrizione alla loggia
massonica P2. Il reato, accertato, fu dichiarato estinto
grazie a una provvidenziale amnistia approvata nel 1989.
Negli Stati Uniti la menzogna (specie se giurata dinanzi a
un giudice) comporta l'immediato impeachment: il
colpevole lascia la Casa Bianca. In Italia, entra a Palazzo
Chigi. E, naturalmente, continua a mentire. Come prima e
più di prima. Quello che segue è un piccolo catalogo
ragionato delle bugie berlusconiane.

BERLUSCONI GIOVANE

"La mia carriera canora (come cantante sulle navi da


crociera, ndr) è cominciata con una tournée in Libano" (7-6-
1989). Ma secondo Giuseppe Fiori, suo biografo non
autorizzato, Berlusconi non è mai stato in Libano. "Al
'Gardenia' (un locale notturno, ndr) di Milano, come poi
sarebbe avvenuto a Parigi, dopo aver cantato mi buttavo in
pista per ballare con le bionde" (ibidem). Ma Berlusconi non
ha mai suonato a Parigi. "Ho studiato due anni a Parigi, alla
Sorbona, e per mantenermi dovevo suonare e cantare nei
locali della capitale" (8-7-1989). Ma Berlusconi non ha mai
studiato alla Sorbona: semmai alla Statale di Milano. "A
Parigi facevo il canottaggio ed ero campione italiano
studentesco con il Cus di Milano" (luglio 1989). Parigi a
parte, esistono seri dubbi sui titoli sportivi conquistati dal
Cavaliere in canoa.

BERLUSCONI INCAPPUCCIATO

"Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2,


ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo.
Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mi è stata
richiesta" (27-9-1988, al Tribunale di Verona). Berlusconi
s'iscrisse alla P2 nei primi mesi del 1978 e pagò
regolarmente la quota di iscrizione di 100 mila lire. Di qui la
falsa testimonianza. "Basta con questa storia della P2: l'ho
già detto, ricevetti la tessera per posta e non pagai
neppure la quota d'iscrizione" (10-3-94). Ma, come ha
testimoniato anche Licio Gelli, gran maestro venerabile
della loggia P2, "Berlusconi ha fatto la normale iniziazione
alla loggia P2".

BERLUSCONI IMPRENDITORE
"Il signor Berlusconi ha lavorato, ha rischiato, ha pagato le
tasse e non ha mai chiesto alcuna lira di contributi allo
Stato" (22-5-95). Ma la Fininvest è sotto processo per
evasione fiscali di centinaia di miliardi; e ha ricevuto
contributi pubblici, tanto per l'editoria (5 miliardi e rotti
all'anno per Il Giornale, intestato al fratello Paolo,
altrettanti per Il Foglio intestato alla moglie Veronica),
quanto per la cassa integrazione alla Standa e alla
Mondadori. "La legge Mammì ci ha tolto la metà del
fatturato" (La Stampa, 24-5-95). All'epoca della legge
Mammì (che nell'agosto 1990 ha regolamentato il sistema
radiotelevisivo italiano), le dimensioni del gruppo erano
pressappoco le stesse del '95. "La Mammì ci ha costretti a
vendere i quotidiani e ci ha impedito di tenere le pay tv"
(La Stampa, 24-5-95). I quotidiani erano uno solo: il
Giornale (subito passato al fratello Paolo); le pay tv non
esistevano ancora, visto che Tele+ è nata il 20 ottobre '90.
"E' una falsità, una cosa senza senso dire che dietro il
signor Berlusconi ci sia Craxi. Non devo nulla a Craxi e al
cosiddetto Caf, e non rinnego nulla di ciò che ho fatto" (a
Mixer, Rai2, 21-2-94). Ma era stato lo stesso Berlusconi a
confessare, il 13-9-93, in un raro lampo di sincerità, di aver
licenziato l'anchor man Gianfranco Funari su ordine di Craxi
("Non è un mistero - aveva ammesso il Cavaliere - che
Berlusconi è sempre stato schiavo del Principe, e in più di
un'occasione ho dovuto tenerne conto. Un anno fa, se
ricordate bene, io stavo aspettando le concessioni
televisive...").

BERLUSCONI CANDIDATO

"Tutti mi chiedono di candidarmi. Ma io so perfettamente


quello che posso fare. Se io facessi la scelta politica dovrei
abbandonare le televisioni e cambiare completamente
mestiere. Un partito di Berlusconi non c'è stato, nè ci sarà
mai" (13-9-93). Due mesi dopo nasce ufficialmente Forza
Italia e Berlusconi si candida alla presidenza del Consiglio.
"Se fonderò un partito? Ho sempre dichiarato il contrario,
sarà la ventesima volta che lo ripeto. Lo scrive chi ha
interesse a mettermi contro gli attuali protagonisti della
politica. E perciò farà finta anche stavolta di non leggere la
mia smentita, per cui mi toccherà di ripeterla per la
ventunesima volta e chissà per quante altre volte ancora"
(Epoca, 23-10-93). Come sopra. "Il mio presunto partito
esiste soltanto sulle pagine di alcuni giornali" (alla
commissione Bilancio della Camera, 26-10-93). Come
sopra.

BERLUSCONI PREMIER/2

"Il nostro futuro ministro della Giustizia è la dottoressa


Parenti" (6-2-94). Invece sarà Alfredo Biondi. "Credo che al
ministero dell'Interno ci sia bisogno di una persona
esperta... di un nonno" (La Stampa, 20-4-94). Infatti offre il
ministero al pm Antonio Di Pietro (44 anni), ma questi
rifiuta, e allora Berlusconi nomina il leghista Roberto Maroni
(39 anni). "Siamo orientati ad un governo molto snello,
magari con meno sottosegretari: sarebbe una bella rottura
con il passato" (12-4-94). I sottosegretari saranno 39,
rispettivamente 3 e 4 in più rispetto ai precedenti governi
Ciampi e Amato. "Il criterio per l'assegnazione dei ministeri
sarà assolutamente meritocratico, nessuna spartizione
delle poltrone" (19-4-94). Infatti, per esempio, la latinista
Adriana Poli Bortone andrà alle Risorse Agricole. "Questo
governo è schierato dalla parte dell'opera di moralizzazione
della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati. No ai
colpi di spugna. Da questo governo non verrà mai messa in
discussione l'indipendenza dei magistrati" (al Senato, 16-5-
94). In 7 mesi di vita, il governo Berlusconi metterà
quotidianamente in discussione l'indipendenza dei giudici e
approverà in tutta fretta il "colpo di spugna" di Biondi,
detto anche "decreto salvaladri", che vieta l'arresto per i
reati di corruzione, concussione, finanziamento illecito e
falso in bilancio. "Falcone e Borsellino hanno dato la vita
contro la mafia. E' nel loro nome che il governo si sente
vincolato a proseguirne l'opera. Sarebbe suicida abbassare
la guardia contro la criminalità. Bisogna invece dotare di
strumenti migliori la polizia e la magistratura" (al Senato il
16 e alla Camera il 18-5-94). Il primo governo Berlusconi e
la sua maggioranza tenteranno di smantellare la
legislazione voluta (e pagata con il sangue) da Falcone e
Borsellino: carcere duro per i boss (41-bis), legge sui
pentiti, supercarceri nelle isole e così via. "Vi assicuro che
non ci sarà il condono edilizio" (30-5-94). "Nel Consiglio dei
ministri o altrove non ho mai pronunciato la parola
'condono'. Sono i giornali che vogliono farci apparire come
gli altri governi" (23-6-94). Un mese dopo il suo governo
varerà il condono edilizio, e subito dopo quello fiscale. "Alla
Rai non sposterò nemmeno una pianta" (29-3-94). "Mai mi
occuperò di questioni televisive, per non dare l'impressione
di voler favorire i miei affari, anzi starò più dalla parte della
Rai che della Fininvest" (30-5-94). Pochi giorni dopo,
Berlusconi destituisce anzitempo l'intero consiglio
d'amministrazione della Rai, per nominarne uno nuovo di
sua fiducia, con appositi direttori di rete e tg. E proclama:
"E' certamente anomalo che in uno Stato democratico
esista un servizio pubblico televisivo contro la maggioranza
che ha espresso il governo del Paese. Questa Rai non piace
alla gente: me l'ha detto un sondaggio. Il governo se ne
occuperà tra breve" (7-6-94). "Le nonne, le mamme e le zie
d'Italia stiano tranquille: non sarà toccata una lira delle
pensioni attuali" (10-9-94). Poco dopo Berlusconi tenta una
riforma che taglia drasticamente le pensioni, poi bloccata
da una manifestazione sindacale con oltre un milione di
persone e dalla dissociazione del suo ministro del Lavoro
Clemente Mastella, nonché del partito alleato Lega Nord
che lascia il governo e lo rovescia.

BERLUSCONI OPPOSITORE

"La par condicio ha danneggiato gravemente il Polo delle


libertà" (20-4-95). L'Osservatorio dell'università di Pavia
sulle televisioni dimostra, ininterrottamente dal 1995, che i
politici più presenti sulle reti televisive sono Berlusconi e i
suoi uomini. "Pochi ricordano che la Thatcher ha
privatizzato qualunque cosa, tranne che la British Telecom"
(Liberal, 4-4-95). Ma è vero il contrario. Scrive infatti
Margaret Thatcher nella sua autobiografia ("Gli anni di
Downing Street", Sperling & Kupfer, 1994, pag.577):
"British Telecom fu il primo servizio pubblico ad essere
privatizzato. Più di qualsiasi altra, la sua vendita pose le
basi del capitalismo ad azionariato popolare in Gran
Bretagna... Fui più che soddisfatta quando nel novembre
1984. British Telecom fu finalmente privatizzata". "Non so
se avrò voglia di tornare a Palazzo Chigi. Troppo faticoso.
La presidenza del Consiglio non la reputo essenziale, non
ho questa ambizione personale" (10-2-95). "Non mi ritengo
indispensabile. Sono assolutamente favorevole ad un
tecnico a Palazzo Chigi, io potrei restare leader del Polo in
cabina di regia" (13-4-95). "Adesso che si torna al teatrino
della politica, diventa inutile che io resti in pista. Meglio
tornare a curare le mie aziende" (31-5-95). "Il ruolo di
regista delle riforme, come leader del Polo in Parlamento, è
un ruolo che mi attira molto di più di quello di presidente
del Consiglio" (10-10-95). Silvio Berlusconi avrà sempre un
solo candidato per Palazzo Chigi: Silvio Berlusconi.
BERLUSCONI EDITORE

"Noi non abbiamo giornali- partito. Noi non teorizziamo né


tantomeno pratichiamo l'informazione come strumento di
ricatto politico. I nostri sono eccellenti prodotti editoriali,
non fabbriche di consenso o, quel che è peggio, di calunnie,
di derisione, di disprezzo. Non ho mai usato né mai userò i
miei mezzi di comunicazione per scatenare campagne di
aggressione contro un concorrente, né diffamare chi non è
d'accordo con me. Lascio questi metodi ad altri" (Epoca,
20-10-93). Chiunque conosca giornali e tv berlusconiani sa
che, almeno dopo l'entrata in politica di Berlusconi, sono
stati trasformati in formidabili strumenti di attacco,
aggressione e spesso anche di diffamazione per i
magistrati e gli avversari politici del loro proprietario.

BERLUSCONI RICANDIDATO

"Dal 1995, passata all'opposizione dopo il golpe politico-


giudiziario, mentre fischiavano le pallottole delle procure
politicizzate, Forza Italia." (da "Una storia italiana",
l'autobiografia illustrata di Berlusconi inviata in 20 milioni
di copie a tutte le famiglie italiane nell'aprile 2001, in piena
campagna elettorale). Forza Italia passò all'opposizione
perché, il 21 dicembre '94, Berlusconi salì al Quirinale e si
dimise da presidente del Consiglio: la Lega Nord gli aveva
revocato l'appoggio, votando mozioni di sfiducia insieme al
Ppi di Rocco Buttiglione e al Pds di Massimo D'Alema. Le
procure non c'entrano nulla. "Io non ho nulla a che vedere
con All Iberian e non possiedo società off- shore all'estero"
(Silvio Berlusconi, 15-3-2000). La Cassazione ha già
accertato definitivamente che All Iberian è interamente
controllata dalla Fininvest. Tant'è che i suoi conti esteri
venivano aperti dal tesoriere centrale del gruppo
Berlusconi, Giuseppino Scabini. All Iberian è una società off-
shore con sede all'estero (isole del Canale), come le altre
63 scoperte dal pool di Milano e confermate dalla società di
revisione internazionale Kpmg. "Le nostre holding erano
intestate ai nostri consulenti perché si faceva così, era
tutto normale: le trovavamo già pronte negli studi
professionali specializzati" (26-4-2001). Le 34 holding
"Italiana 1,2,3,4 eccetera" che stanno dietro alla Fininvest
sin dalla fine degli anni 70 e le altre società della galassia
berlusconiana nascono quasi tutte senza il nome di
Berlusconi, ma intestate a prestanome: una cinquantina fra
parenti, amici, casalinghe baresi, disoccupati calabresi,
elettricisti, malati terminali colpiti da ictus, persino un
cecoslovacco nato nel 1887. Tutto normale? "Nessun
mistero sulle origini delle mie fortune: ho cominciato con la
liquidazione di mio padre: 30 milioni" (26-4-2001). Poi,
però, fra il 1978 e il 1983 Berlusconi si ritrovò in tasca 113
miliardi (degli anni 70, pari ad almeno 250 milioni di euro
odierni). In parte giunti in contanti. Sulla provenienza di
quel fiume di denaro, Berlusconi non ha mai voluto
spiegare nulla. Nemmeno quando, nel novembre 2002, il
Tribunale di Palermo che sta processando il suo braccio
destro Marcello Dell'Utri (parlamentare europeo e italiano,
già condannato per false fatture e frode fiscale e imputato
per mafia, calunnia ed estorsione), si è recato in trasferta a
Palazzo Chigi per interrogarlo. In quell'occasione, alle
domande sulle origini di quei quattrini e sulle ragioni che lo
indussero a ospitare in casa sua per due anni un boss
mafioso del calibro di Vittorio Mangano, con mansioni di
"stalliere" o di "fattore", il premier ha Berlusconi ha
risposto: "Mi avvalgo della facoltà di non rispondere". E i
giudici sono ritornati a Palermo a mani vuote.
BERLUSCONI PREMIER/2

"Meno tasse per tutti" (slogan elettorale di Berlusconi,


maggio 2001). Le tasse degli italiani resteranno le stesse,
anzi aumenteranno per l'incremento sostanzioso dei tributi
regionali e comunali, in conseguenza dei tagli ai
trasferimenti governativi a comuni e regioni. Il 13
novembre 2001, in visita a Granada (Sagna), Berlusconi e il
suo ministro dell'Economia Giulio Tremonti comunicano che
"i conti pubblici non sono ancora a posto", dunque 23 di
ridurre le tasse non se ne parla. Così come della riforma
delle pensioni, promessa in campagna elettorale alla
Confindustria. Che subito protesta. "Non ho mai detto che
la civiltà occidentale è superiore all'Islam. E' colpa di una
sinistra irresponsabile che diffonde notizie false sul mio
conto" (7-9- 2001). In realtà Berlusconi, soltanto il giorno
prima, ha dichiarato testualmente in una conferenza
stampa dalla Germania: "Noi dobbiamo essere consapevoli
della superiorità della nostra civiltà, che ha dato luogo al
benessere e al rispetto dei diritti umani e religiosi. Cosa
che non c'è nei paesi dell'Islam... Dobbiamo evitare di
mettere le due civiltà, quella islamica e quella nostra sullo
stesso piano. La libertà non è un patrimonio della civiltà
islamica. La nostra civiltà deve estendere a chi è rimasto
indietro di almeno 1400 anni nella storia i benefici e le
conquiste che l'Occidente conosce. C'è una singolare
coincidenza fra gli islamici e gli anti-global nella loro
opposizione all'Occidente". Poi l'incidente diplomatico
internazionale, le proteste della Lega Araba ("posizioni
razziste"), l'imbarazzo dell'Occidente impegnato nel
tentativo di coinvolgere nella lotta al terrorismo
fondamentalista delle Due Torri i paesi islamici moderati.
Così il Cavaliere è costretto alla smentita, cioè all'ennesima
bugia. "Ho fatto un'esposizione sommaria della legge
finanziaria e ho trovato un'ottima accoglienza sia da Prodi
sia dal commissario Pedro Solbes" (10- 10-2001). Così
Berlusconi al termine di un incontro ufficiale a Bruxelles
con il presidente Romano Prodi e gli altri membri della
Commissione europea. Senonché Prodi cade dalle nuvole:
"Non ne abbiamo neanche parlato". Anche Solbes lo
smentisce: "Non ho espresso alcun giudizio sulla finanziaria
italiana, la valuterò insieme al patto di stabilità". Berlusconi
è costretto alla retromarcia: "Io ho illustrato l'azione del
mio governo, Prodi e Solbes mi hanno ascoltato in silenzio".
Poi, in conferenza stampa, se la prende con il "club della
menzogna della sinistra" che gli attribuirebbe frasi mai
dette. "La tv pubblica è interamente nelle mani della
sinistra, e anche la tv privata si sbilancia a sinistra" (30-1-
2002, a Le Figaro). Appena tornato al governo, Berlusconi,
che già detiene il monopolio assoluto della televisione
commerciale (Canale 5, Italia 1, Rete 4), nomina suoi
uomini al vertice delle tre reti pubbliche Rai (presidente
Antonio Baldassarre, direttore generale Agostino Saccà).
Costoro allontanano dal video i due giornalisti più famosi
della Rai, sgraditi al premier - Enzo Biagi e Michele Santoro
- nonché il comico Daniele Luttazzi, anche lui inviso al
Cavaliere. Poi, quando il primo consiglio di amministrazione
si dimette agli inizi del 2003, Berlusconi riunisce gli alleati
in casa propria per decidere i nuovi consiglieri, facendo
infuriare addirittura i presidenti delle due Camere, che
rifiutano di ratificare le nomine. Alla fine, viene creato un
nuovo Cda Rai formato da 4 esponenti del centro-destra e
uno solo del centro-sinistra. Anche il direttore generale,
amico di Berlusconi e del fratello Paolo, è di stretta
obbedienza governativa. "Comprare Alessandro Nesta
(difensore della Lazio e della Nazionale, ndr) per il Milan?
Sono cose che non hanno più nulla di economico, di
morale. Nel calcio abbiamo sbagliato tutti, ora basta" (23-8-
2002). L'indomani il Milan di Berlusconi annuncia l'acquisto
di Nesta, avvenuto da almeno una settimana. "Non capisco
tutta questa fretta per la legge Cirami sul legittimo
sospetto (che gli consente di spostare i suoi processi da
Milano a Brescia, ndr)" (31- 7-2002). "La legge sul legittimo
sospetto è una priorità per il governo" (30- 8-2002). "E se
in Irak non ci fossero più armi di distruzione di massa?
Come parere personale, non credo che ci siano più quegli
ordigni" (16-10-2001, al termine di un lungo incontro con
Vladimir Putin). "Sono e resto con Blair, l'alleato più vicino
a Bush. Non ho mai detto che Saddam non ha armi di
distruzione di massa. Dico solo che potrebbe avere avuto il
tempo di distruggerle o di metterle da qualche altra parte"
(17-10-2002, dopo le incredule proteste di Londra e
Washington). "Mediaset non farà alcun ricorso al condono
fiscale" (30-12-2002). Berlusconi smentisce le rivelazioni
del quotidiano La Repubblica, il quale calcola che il
condono fiscale contenuto nella legge finanziaria Berlusconi
consentirà al gruppo Mediaset di chiudere la lite col fisco
per il possesso di società off-shore risparmiando multe per
100 milioni di euro, pari a 200 miliardi di lire. Cinque mesi
dopo, il settimanale l'Espresso scoprirà che Mediaset ha
regolarmente fatto ricorso al condono, risparmiando così
circa 120 milioni di euro di imposte. "Ho assoluta fiducia
nella Cassazione, fiducia che non né mai mancata. Altra
cosa sono certi pm che vogliono un ruolo particolare e
imbastiscono processi che finiscono nel nulla" (26 gennaio
2003).L'indomani la Cassazione gli dà torto e non sposta i
suoi processi da Milano. Lui, il premier, tuona subito contro
i "giudici golpisti".

BERLUSCONI IMPUTATO

"Giuro sui miei cinque figli che non so nulla di quanto mi


viene contestato (le tangenti alla Guardia di Finanza, ndr).
Sono vittima di una grande ingiustizia. Mi dicono che
questo avviso è la risposta a quanto stiamo facendo" (23-
11-94). "E' come se mi avessero mandato un avviso di
garanzia accusandomi di non chiamarmi Silvio Berlusconi.
Siccome sono certo di chiamarmi Silvio Berlusconi, non
credo che nessun tribunale giusto al mondo possa
condannarmi perché mi chiamo Silvio Berlusconi. Può
esserci una condanna, ma allora non sarà un atto di
giustizia, ma sovversione" (1-12-94). "Io corruttore?
Sarebbe come incolpare suor Teresa di Calcutta, dopo una
vita di sacrifici, se una bambina dell'istituto allungasse una
mano per pigliare un quarto di mela dal fruttivendolo, non
per sé, ma per darlo ad un altro" (27-10-95). "Nessuno si è
reso responsabile di corruzione, il capo del gruppo non era
minimamente a conoscenza di quanto gli viene addebitato.
Il vero scandalo sta semmai nel fatto che la mia impresa,
come quasi tutte le imprese italiane, sia stata sottoposta a
pressioni concussive da parte di un corpo armato dello
Stato... Siamo stati costretti a pagare da un'associazione a
delinquere come la Guardia di Finanza, da elementi deviati
di un corpo armato dello Stato" (16-1-96). Con buona pace
dell'incolpevole prole, due dirigenti Fininvest verranno
definitivamente condannati per corruzione della Guardia di
Finanza, un consulente legale definitivamente per
favoreggiamento, i due segretari per falsa testimonianza in
primo e secondo grado, mentre Berlusconi verrà
condannato dal Tribunale per corruzione, dichiarato
prescritto (cioè responsabile, ma non più punibile) dalla
Corte d'appello, infine assolto dalla Cassazione. Ma solo per
"insufficienza probatoria". "Publitalia non ha mai emesso
fatture false, e funziona come un orologio" (31-5-95). Ma i
massimi dirigenti di Publitalia, dal presidente fondatore
Marcello Dell'Utri in giù, hanno patteggiato condanne per
decine di miliardi di false fatture e frodi fiscali. "Sono
pronto a lasciare la guida del Polo, la Camera e la vita
politica se verrà dimostrato un rapporto mio o della
Fininvest o di una società del gruppo col signor Bettino
Craxi, diverso da quello della pura amicizia!" (29- 11-95).
Craxi è colui che nel 1984 impose con il suo governo al
Parlamento ben due decreti ad personam, i "decreti
Berlusconi", per salvare le televisioni dell'amico finite sotto
inchiesta (e minacciate di sequestro dai magistrati) perché
trasmettevano illegalmente su tutto il territorio nazionale.
La Corte di Cassazione, confermando la prescrizione del
reato di finanziamento illecito nel processo sulla società
berlusconiana off-shore "All Iberian", ha ritenuto dimostrato
che Berlusconi versò illegalmente a Craxi, tra il 1990 e il
1992, ben 21 miliardi estero su estero. Ma Berlusconi non
ha lasciato la vita politica. "Non ho mai fatto alcun attacco
alla magistratura" (10-10-95). "Se c'è una cosa che mi
viene addebitata e che non risponde al vero è da parte mia
un giudizio negativo nei confronti dei magistrati" (25-11-
95). "Io sono un grande estimatore della magistratura e
l'ho dimostrato nella mia attività di governo, durante la
quale sono sempre stato vicino ai problemi dei giudici" (7-
12-95). "Mi consenta ancora una volta di esprimere
ammirazione verso la magistratura e i giudici" (23-1-96).
Una costante dell'azione politica è l'attacco sistematico,
scientifico, incessante alla magistratura di ogni ordine e
grado: dai pm di Milano (ma anche di Palermo, Napoli,
Torino: tutti quelli che si sono occupati di lui o di sue
aziende) ai giudici per le indagini preliminari, da quelli di
tribunale a quelli di appello, su su fino alle sezioni unite
della Corte di Cassazione, massima istanza giurisdizionale
del Paese. "Le inchieste sul mio gruppo sono iniziate
soltanto dopo il mio impegno in politica. Prima non avevo
mai subito nulla del genere" (17-6-2003). Ma è vero il
contrario: prima nascono le inchieste sulla Fininvest di
Berlusconi, poi (e forse proprio per questo) Berlusconi
"scende in campo" politico. La prima indagine (poi
archiviata) sul Berlusconi imprenditore, per traffico di
droga, fu aperta a Milano nel lontano 1983. Nel 1989 poi,
sempre a Milano, Marcello Dell'Utri finì per la prima volta
sotto inchiesta per mafia (prosciolto). La tesi della
persecuzione politica per via giudiziaria, già esposta dal
premier in una denuncia a Brescia, è stata così smontata
dal gip Carlo Bianchetti nell'archiviazione del 15 maggio
2001: "Risulta dall'esame degli atti che, contrariamente a
quanto si desume dalle prospettazioni del denunciante, le
iniziative giudiziarie. avevano preceduto e non seguito la
decisione di "scendere in campo". [Il pool di Mani pulite ha
compiuto, tra] il 27 febbraio '92 e il 20 luglio '93, ben 25
accessi presso Fininvest e Publitalia". Lo stesso Berlusconi,
al momento di entrare in politica verso la fine del 1993,
aveva confidato ai famosi giornalisti Enzo Biagi e Indro
Montanelli (che l'hanno poi raccontato): "Se non entro in
politica, fallisco e mi arrestano". "E questo potere arbitrario
e di casta è stato illiberalmente esercitato nel 1994 contro
un governo sgradito alla magistratura giacobina di sinistra,
governo messo platealmente sotto accusa attraverso il suo
leader in un procedimento iniziato a Napoli mentre
presiedeva una Convenzione delle Nazioni Unite e sfociato
poi, per assoluta mancanza di fondatezza, in una clamorosa
assoluzione molti anni dopo" (29-1-2003). Berlusconi si
ostina a ripetere che, nel 1994, il suo governo fu rovesciato
dall'invio di un "avviso di garanzia" per le mazzette
Fininvest alla Guardia di Finanza, a Napoli, mentre lui
presiedeva un convegno sulla criminalità organizzata. Si
trattava in realtà di un "invito a comparire" (una
convocazione per un interrogatorio), dovuto per legge, che
non fu affatto notificato a Napoli, ma a Roma. E fu
preannunciato al telefono all'interessato la sera prima (21
novembre '94) dai carabinieri. Fu dunque Berlusconi, pur
sapendo di essere sospettato di corruzione, a decidere
ugualmente di presiedere il convegno anche l'indomani
(giorno 22), esponendo il buon nome dell'Italia al ludibrio
internazionale. Ai magistrati milanesi, secondo
un'informativa dei carabinieri, risultava che lui, la sera
stessa del 21, sarebbe rientrato a Roma abbandonando il
convegno napoletano inaugurato la mattina. Perciò
inviarono i militari per la consegna a Roma, non a Napoli.
Quanto alle ragioni della caduta del governo, quell'atto non
ebbe alcuna conseguenza. L'hanno stabilito i magistrati di
Brescia, ai quali Berlusconi aveva presentato un esposto
contro i magistrati milanesi per "attentato agli organi
costituzionali" (cioè al suo primo governo). Nell'ordinanza
del giudice Carlo Bianchetti che il 15 maggio 2001 archivia
l'inchiesta e assolve il pool di Milano, si legge: "Alla
causazione del cosiddetto "ribaltone" è stata
sostanzialmente estranea la vicenda dell'invito a
presentarsi, dal momento che, secondo la testimonianza
dell'allora ministro Maroni, la decisione della Lega Nord di
"sfiduciare" il governo Berlusconi (decisione che era stata
determinante nella caduta dell'Esecutivo) era stata
formalizzata il 6 novembre 1994, e perciò due settimane
prima; trovava comunque le sue radici in un insanabile
contrasto tra la Lega Nord e gli altri partiti del Polo delle
Libertà risalente a fine agosto '94, allorché l'on. Bossi era
venuto a sapere dell'intenzione del capo del governo di
"andare alle elezioni anticipate in autunno". "Nel processo
Sme non ci sono né indizi né prove contro di me, c'è solo il
teorema della signora Stefania Ariosto, una mitomane che
ha fatto dei pettegolezzi. Per la Sme mi aspetterei non un
processo, ma una medaglia d'oro al valore civile per avere
salvato l'Italia da una svendita di un bene pubblico per 500
miliardi quando ne valeva 2500". La teste Stefania Ariosto
non parla dell'affare Sme: si limita a raccontare ciò che ha
visto e sentito a proposito di Previti e della corruzione di
alcuni giudici romani. In realtà, nel processo Sme, gli
imputati sono sotto accusa per alcuni bonifici bancari. Il
primo riguarda l'industriale Pietro Barilla (deceduto nel
'93): il 2 maggio e il 26 luglio 1988 da un conto estero di
Barilla partono due accrediti (1 miliardo e 800 milioni di
lire) destinati all'avvocato Attilio Pacifico, braccio destro
dell'avvocato berlusconiano Cesare Previti. Pacifico versa,
secondo l'accusa, 200 milioni in contanti al giudice Filippo
Verde, e tramite bonifico 850 a milioni a Previti e 100 al
giudice Renato Squillante. Il secondo bonifico chiama
invece direttamente in causa la Fininvest. Il 6 marzo 1991,
dal conto svizzero "Ferrido", aperto dal capo della tesoreria
Fininvest Giuseppino Scabini, vengono accreditati 434.404
dollari sul conto "Mercier" di Previti, da dove, un'ora dopo,
vengono girati sul conto "Rowena" del giudice Squillante.
Secondo l'accusa, il conto Ferrido (della galassia All Iberian)
era alimentato con fondi personali e familiari di Berlusconi.
Di qui l'accusa, per tutti, di corruzione giudiziaria. Per la
Sme (la finanziaria alimentare dell'Iri), Berlusconi non
sventò alcuna svendita: la quota dell'azienda in vendita da
parte dell'Iri era stata valutata 500 miliardi da due esperti
dell'università milanese Bocconi, e dunque Carlo De
Benedetti, unico offerente nel 1985, aveva offerto quella
cifra. Poi Berlusconi, su ordine di Craxi, si intromise
nell'affare, rilanciando per un 10% appena: il minimo
indispensabile per entrare in partita. Dunque offrì 550
miliardi, poco più di De Benedetti, poco meno di un quinto
rispetto al valore che oggi egli pretende di attribuire alla
Sme del 1985. "La magistratura politicizzata, nel 1992-'93,
ha cancellato cinque partiti dalla vita pubblica,
risparmiando i comunisti per portarli al potere". A parte il
fatto che, a Milano, il pool Mani Pulite arrestò e inquisì
quasi l'intero vertice del Pci-Pds, esattamente come quelli
dei partiti moderati, va detto che le prime elezioni dopo
Tangentopoli non le vinsero le sinistre. Le vinse Berlusconi,
occupando lo spazio lasciato libero dal pentapartito che si
era sciolto per mancanza di voti dopo lo scandalo. Il 24
gennaio 1994, al momento della sua discesa in campo, il
Cavaliere elogiò il pool di Milano per avere scoperchiato lo
scandalo di Tangentopoli: "La vecchia classe politica è
stata travolta dai fatti e superata dai tempi [...].
L'autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal
peso del debito pubblico e del finanziamento illegale dei
partiti, lascia il paese impreparato e incerto...". E il 6
febbraio rincarò la dose: "Basta con i ladri di Stato, noi
siamo per una politica nuova, diversa, pulita. Siamo l'Italia
che lavora contro l'Italia che ruba". Subito dopo tentò di
avere nel suo governo i due simboli del pool di Mani Pulite:
Antonio Di Pietro al ministero dell'Interno e Piercamillo
Davigo alla Giustizia. I due, però, rifiutarono. Ma
evidentemente, all'epoca, Berlusconi non li considerava
"toghe rosse". "I magistrati milanesi abusavano della
carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli
indagati" (30-9-2002). Anche questo cavallo di battaglia
della polemica berlusconiana anti-giudici è smentita dai
fatti e, soprattutto, dalla relazione consegnata al governo
dai quattro ispettori ministeriali inviati contro il pool di
Milano nell'ottobre 1994 dal guardasigilli Alfredo Biondi
(Forza Italia, primo governo Berlusconi). Relazione resa
nota il 15 maggio '95: "Nessun rilievo può essere mosso ai
magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai
limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri [...].
Non si è riscontrata un'apprezzabile e significativa casistica
di annullamenti delle decisioni che hanno dato luogo a
quelle detenzioni [...]. I provvedimenti custodiali sono stati
spesso suffragati [...] dall'ulteriore e decisiva prova della
confessione dell'indagato. Né è risultato che tali confessioni
siano state in seguito ritrattate perché rese sotto la
minaccia dell'ulteriore protrarsi della detenzione [...]. Non è
possibile ascrivere quelle confessioni alle "condizioni fisiche
e psicologiche disumane" nelle quali si sarebbero venuti a
trovare molti indagati, alcuni dei quali suicidatisi, condizioni
cui fa riferimento l'on. Sgarbi: non è stata mai segnalata
l'applicazione di regimi detentivi differenziati e inaspriti
rispetto alla generalità dei casi". "I magistrati del pool di
Milano avevano come obbiettivo quello di favorire la presa
di potere da parte delle sinistre" (9-5-2003). A parte le
considerazioni già esposte, è interessante leggere la
risposta data il 23 ottobre 1996 dal ministro dell'Interno
britannico Simon Brown al Parlamento britannico, per
spiegare il diniego opposto al ricorso degli avvocati di
Berlusconi, i quali parlavano di inchieste e reati "politici"
per opporsi alla consegna dei documenti sui conti esteri
della galassia All Iberian: "Se ben capisco l'argomentazione
dei richiedenti [la Fininvest], essi sostengono che l'azione
giudiziaria in corso in Italia per donazioni illecite di 10
miliardi al signor Craxi è politica, e che le accuse di falso
contabile [...] sarebbero reato connesso. Le donazioni
politiche illegali sono un reato politico? Non sono d'accordo.
A me sembra piuttosto un reato contro la legge ordinaria
promulgata per garantire un corretto ordinamento del
processo democratico in Italia - reato in nulla diverso,
diciamo, dal votare due volte alle elezioni [...]. Il reato in
questione è stato commesso per influenzare la politica del
governo: non si pagano clandestinamente grosse somme di
denaro a un partito politico senza uno scopo [...]. Non
accetto in nessun modo che il desiderio della magistratura
italiana di smascherare e punire la corruzione nella vita
pubblica e politica, e il conflitto che ciò ha creato tra i
giudici e i politici in quel paese, operi in modo tale da
trasformare i reati in questione in reati politici. È un uso
scorretto del linguaggio definire la campagna dei magistrati
come improntata a "fini politici", o le loro azioni nei
confronti del signor Berlusconi come persecuzione politica.
Al contrario, tutto ciò che ho letto su questo caso
suggerisce che la magistratura stia dimostrando una giusta
indipendenza politica dall'esecutivo ed equanimità nel
trattare in modo eguale i politici di tutti i partiti [...]. [Il
reato] non è intrinsecamente politico, né lo diviene nel caso
che l'autore del reato speri di cambiare la politica del
governo comprando influenza politica, e neanche se il
potere giudiziario, perseguendo lui, spera di ripulire la
politica. Nessuno degli argomenti dei richiedenti riesce a
persuadermi in nulla che i reati in questione siano politici.
Non riesco proprio a vedere i pagatori corrotti della politica
come i "Garibaldi di oggi", o cercatori di libertà, o
"prigionieri politici". "I magistrati milanesi abusavano della
carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli
indagati" (30-9-2002). Anche questo cavallo di battaglia
della polemica berlusconiana anti-giudici è smentita dai
fatti e, soprattutto, dalla relazione consegnata al governo
dai quattro ispettori ministeriali inviati contro il pool di
Milano nell'ottobre 1994 dal guardasigilli Alfredo Biondi
(Forza Italia, primo governo Berlusconi). Relazione resa
nota il 15 maggio '95: "Nessun rilievo può essere mosso ai
magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai
limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri [...].
Non si è riscontrata un'apprezzabile e significativa casistica
di annullamenti delle decisioni che hanno dato luogo a
quelle detenzioni [...]. I provvedimenti custodiali sono stati
spesso suffragati [...] dall'ulteriore e decisiva prova della
confessione dell'indagato. Né è risultato che tali confessioni
siano state in seguito ritrattate perché rese sotto la
minaccia dell'ulteriore protrarsi della detenzione [...]. Non è
possibile ascrivere quelle confessioni alle "condizioni fisiche
e psicologiche disumane" nelle quali si sarebbero venuti a
trovare molti indagati, alcuni dei quali suicidatisi, condizioni
cui fa riferimento l'on. Sgarbi: non è stata mai segnalata
l'applicazione di regimi detentivi differenziati e inaspriti
rispetto alla generalità dei casi".

BERLUSCONI E IL CONFLITTO D'INTERESSI

"Dire che nell'attività di governo e politica ci sia stato


qualche volta un interesse personale, non solo del signor
Berlusconi, ma anche di altri membri di Forza Italia, è una
vergogna" (14-12-95). "La vecchia classe politica che
facendo politica prendeva soldi. Io posso dire che per fare
politica ne ho spesi parecchi" (15-12-95). Il primo governo
Berlusconi passerà alla storia per due provvedimenti: il
decreto Biondi, che vietava le custodia in carcere per
corruzione alla vigilia dell'arresto di Paolo Berlusconi per
corruzione; e la legge Tremonti, che ha fruttato alla
Mediaset dello stesso Berlusconi (Silvio) sgravi fiscali per
243 miliardi. "Ho dato incarico ai miei manager di avviare
le dismissioni delle mie proprietà" (23-3-94). "Ho sempre
riconosciuto che c'era un'anomalia da sanare... Sono il
primo a proporre una soluzione di separazione drastica tra
l'esercizio dei doveri di governo e l'esercizio dei diritti
proprietari" (2-8-94). "Le mie aziende o le congelo o le
vendo. Voglio assolutamente dividere i miei interessi privati
che ho come azionista Fininvest dalla mia attività pubblica
che svolgerò nell'interesse di tutti. Credo che quella del
blind trust americano sia la soluzione ideale" (11-4-94).
"Oggi vi annuncio che ho deciso di vendere le mie aziende,
perché credo che qualcuno, quando si prende un impegno
e dentro questo impegno ci sono certe condizioni che sono
ostative allo svolgimento globale dell'impegno, deve avere
anche il coraggio di sacrificarsi... Non sarà facile trovare un
compratore, ma andremo in Borsa con la televisione e terrò
una quota assolutamente non di maggioranza" (23-11-94).
"Da novembre ho dato mandato irrevocabile alla Fininvest
di vendere le tv" (18-3-95). "Venderò le tv ad imprenditori
internazionali" (Il Giornale, 1-4-95). "Il conflitto d'interessi
sarà risolto nei primi cento giorni del mio governo" (5-5-
2001). Nove anni dopo il suo primo governo e due anni
dopo l'avvio del secondo, Berlusconi non ha risolto il
conflitto d'interessi né tantomeno ha ceduto alcuna delle
sue aziende. Anzi, il 21 dicembre 2001, comunica agli
italiani che "il conflitto d'interessi esiste solo nel senso che
le mie aziende ci hanno rimesso da quando sono entrato in
politica al servizio del Paese". E il 7 maggio 2003, ancora
più esplicito: "Il conflitto d'interessi è una scusa. Tutti
vedono bene che non c'è nessun conflitto d'interessi. Anzi,
io non posso fare che cose sfavorevoli al mio gruppo. Non
c'è stata una sola decisione assunta da questa
maggioranza e da questo governo che abbia portato cose a
mio favore. Da quando sono sceso in politica, il mio gruppo
ha subìto soltanto danni enormi".
Siemens: accordo storico in Germania, stop licenziamenti

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Accordo storico quello siglato oggi in Germania tra il sindacato metalmeccanico IG-Metall e la Siemens,
azienda leader in Europa per le tecnologie con 128.000 dipendenti in Germania. L'accordo prevede una
garanzia occupazionale a tempo indeterminato per tutti i dipendenti: anche nel caso di chiusura o
delocalizzazione degli impianti non vi saranno licenziamenti.

Un'analoga intesa era stata raggiunta nel luglio 2008 ed era arrivata adesso a scadenza: con la
firma di oggi avrà validità indefinita. Qualsiasi licenziamento dovrà avvenire con il consenso del consiglio
di fabbrica

Gran Bretagna, fa scalpore il ministro "anticapitalista"

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Vince Cable, responsabile delle Attività produttive, si scaglia contro un sistema economico "che non fa prigionieri e uccide la competizione dove può". Su di
lui, lib-dem e membro di un esecutivo conservatore, piovono accuse di "marxismo"

di rassegna.it
Un ministro britannico che si scaglia contro "il capitalismo di oggi che non fa prigionieri e uccide la
competizione dove può" è già una notizia. Se poi il ministro è membro di un governo di "centrodestra" (se
questa categoria può adattarsi alle dinamiche di oltre Manica) ed esponente del partito Liberal
democratico è ancora più curioso che si trovi a doversi difendere dalle accuse di marxismo che gli
piovono addosso.

Lui si chiama Vince Cable ed è il ministro delle Attività produttive (quello che in Italia non abbiamo più
da 141 giorni). E in un discorso al congresso del suo partito Cable ha detto cose di questo tipo: "Perché le
aziende che operano in maniera corretta devono essere distrutte da investitori del breve termine in cerca
di speculazioni, mentre i loro complici nella City si arricchiscono? Perché i dirigenti si dimenticano delle
loro responsabilità appena si sventola un assegno sotto il loro naso? Il capitalismo non fa prigionieri e
uccide la competizione dove può".

Per questo, ha annunciato ancora Cable, il governo britannico si impegnerà ad una profonda
revisione delle norme, a cominciare dal sistema delle acquisizioni fino ai salari dei dirigenti, "dell'oscuro
mondo delle società e del loro comportamento" allo scopo di porre fine alla loro visione "a breve termine"
degli affari.

Molte le critiche rivolte al ministro, già ribattezzato "anti-business secretary" per le sue posizioni. E in
cima alla lista dei critici c'è il direttore generale della Cbi, la confindustria britannica. "E' strano che Cable
pensi sia appropriato utilizzare un linguaggio così emotivo - ha detto Richard Lambert - dice cose molto
dure sul sistema capitalista: sarebbe interessante sentire che idee ha sull'alternativa".

Ma il ministro Cable non fa passi indietro: "Non mi scuso per aver attaccato i trafficoni e gli
speculatori che hanno contribuito di più a danneggiare l'economia britannica di quanto Bob Crow
(segretario generale del sindacato dei trasporti Rmt, ndr) avrebbe potuto fare nel più folle dei suoi sogni
trotzkisti, aggiudicandosi allo stesso tempo bonus enormi alle spese dei contribuenti. C'è molta rabbia nei
confronti delle banche ed è meritata", ha detto Cable.

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Finanza

Inchiesta Ior, la svolta di Bankitalia

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Il commento di Gianluigi Nuzzi, autore di "Vaticano S.p.A.", alla procedura aperta sulle transazioni dell'istituto di credito. Sono gli effetti della riforma
dell'ufficio ispettivo di Bankitalia voluta da Draghi. Ma questa storia si spegnerà rapidamente
"Il sequestro dei 23 milioni di euro che lo Ior stava facendo arrivare a JP Morgan e alla banca del Fucino
svela molte notizie che ancora una volta e purtroppo riusciamo ad apprendere solo per l'intervento della
magistratura". E' quanto scrive il giornalista Gianluigi Nuzzi, autore di Vaticano S.p.A. (Chiarelettere)

"Non può innanzitutto sfuggire – prosegue Nuzzi - che la Banca d'Italia tramite l'Uif sta monitorando come
non mai l'attività dello Ior che non opera in Italia direttamente ma soltanto tramite conti correnti di
transito accesi in banche sul nostro territorio. L'attività di Bankitalia segna quindi una svolta dopo che per
decenni con il governatore precedente, Antonio Fazio, era silente dinnanzi alle anomale dinamiche della
banca del Papa. E' infatti la seconda inchiesta che viene avviata dalla procura di Roma su sollecitazione
della Banca d'Italia e questo grazie alla riforma dell'ufficio ispettivo portata avanti da Mario Draghi con
determinazione diremmo 'calvinista'".

L'autore dell'inchiesta sulle finanze del Vaticano aggiunge che "in questo quadro bisogna sottolineare
anche i rapporti. Quello che lega il presidente dello Ior Gotti Tedeschi con il ministro delle Finanze Giulio
Tremonti è tanto forte quanto quello che lega entrambi al segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone.
Non bisogna dimenticare che fu proprio Tremonti – scrive Nuzzi - a introdurre l'8 per mille e che lo stesso
Tremonti da commercialista negli anni '90 ha assistito la Santa Sede in diverse vicende. Non si può
esprimere considerazione analoga per Draghi che è assai lontano da entrambi".

Secondo Nuzzi, però, "questa storia sebbene abbia fatto il giro del mondo dei media si spegnerà
rapidamente. E' una iniziativa giudiziaria spot su una segnalazione sospetta, non è una indagine
strutturale su un fenomeno come invece appare quella precedente sui conti in Unicredit. Il problema
rimane invece sempre quello – conclude Nuzzi -: fintanto che la banca del papa sarà una banca offshore,
fintanto che tra Italia e Vaticano non ci sarà un accordo di reciproco aiuto giudiziario, ogni inchiesta finirà
in nulla e, soprattutto, gli scandali alla Marcinkus si riproporranno".

Esteri

Gli Stati Uniti della disuguaglianza

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Un americano su sette è povero. La percentuale degli indigenti al suo massimo dal 1994, quando Bill Clinton perse le elezioni Midterm. In molti hanno perso
lavoro e assicurazione medica. E l'1% dei ricchi possiede il 17% della ricchezza, come in Argentina

di Scalo internazionale
Povertà record negli Stati Uniti. La notizia è di qualche giorno fa. Ma la riprendiamo e ci ragioniamo sopra,
fornendo qualche link per approfondire (in collaborazione con America2012). Innanzitutto i dati (diffusi
dall'ufficio del Censo statunitense): l'anno scorso, mentre gli States affrontavano la recessione, la
percentuale degli indigenti è salita al 14,3 per cento, il massimo dal 1994, quando Bill Clinton perse le
elezioni di Midterm al Congresso. Coincidenza non di buon augurio per Barack Obama.

Circa 43,6 milioni di persone vivono in stato di indigenza: un americano su sette. Nel 2008 erano
39,8 milioni, il 13,2% della popolazione statunitense. La percentuale è ovviamente cresciuta a causa della
crisi, con il tasso di disoccupazione che ha superato il 10 per cento. Moltissimi hanno perso il lavoro, e con
esso anche l'assicurazione medica. Il numero dei non assicurati è infatti salito a 50,7 milioni dai 46,3
milioni del 2008.

E la quota degli indigenti in età lavorativa ha toccato il massimo dal 1965. Si tratta del maggior aumento
annuale da quando il governo ha iniziato a calcolare le cifre sulla povertà, nel 1959. Il precedente record
era del 1980, quando il tasso fece un balzo in avanti dell'1,3%, al 13%, in piena crisi energetica.

America 2012 ci ricorda anche il dato in controtendenza pubblicato da Gallup, che segnala come sia in
aumento consistente il numero di americani muniti di un’assicurazione sanitaria pubblica: +3 per cento in
un anno.

Sempre pochi giorni fa, il National Bureau of Economic Research ha decretato la fine della
recessione, ricordando che è stata la più lunga recessione che abbia colpito gli Stati Uniti dalla Grande
Depressione degli anni '30. E' durata 18 mesi dal dicembre 2007 al giugno del 2009, secondo quanto
stabilito dal gruppo di ricerca che si occupa di individuare le date di inizio e di fine delle crisi economiche.

Ma fine della recessione non significa "stiamo tutti bene, è passata la nottata". Il Nber specifica infatti che
"stabilendo che la recessione si è conclusa a giugno dello scorso anno, la commissione non vuole certo
sostenere che da quel mese le condizioni siano state favorevoli, o che l'economia abbia ripreso a
funzionare a pieno delle sue capacità. Ma soltanto che in quel mese la recessione è finita ed è cominciata
la ripresa". Dopo la guerra, le crisi maggiori sono state quelle del 1973-1975 e del 1981-1982.
Entrambe durate 16 mesi. Questa è durata due mesi di più. E i suoi effetti si sentiranno ancora a lungo.

Commentando la notizia il presidente americano Barack Obama ha dichiarato che per molti americani la
recessione è ancora molto reale. Per Obama ci vorrà "ancora del tempo per risolvere" un problema
economico che si è creato nel corso di molti anni.

E la stampa americana approfondisce e dibatte il tema della crescita della povertà e del ruolo del
welfare pubblico. Lo fa in un articolo il New York Times. E lo fa anche Slate, che pubblica su
internet una serie di articoli sulla Great divergence, l’aumento della disuguaglianza.

Alcuni dati: gli Usa e l’Argentina sono i paesi dove l’1% della popolazione più ricca detiene la fetta più
grande di reddito al mondo (17% nel 2005). E lo 0,1% della popolazione ha in mano l’8% della ricchezza
nazionale.

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22/09/2010 14:18
«Non nominare* il nome di Dio invano»
6 ottobre 2010 - Politica
Sono passati secoli da quando facevo il chierichetto ma certe cose le avevo imparate
sulla religione: Regole principali, peccati importanti, etc. Oggi (vabbè, non proprio
oggi) scopro che i peccati si valutano in base ad altre cose e che nemmeno davanti a
Dio noi siamo tutti uguali. A insegnarmelo è Monsignor Fisichella, arcivescovo della
chiesa cattolica e a tempo perso “avvocato” di Silvio Berlusconi.
Prima ci fu la famosa comunione ricevuta dal Cavaliere nonostante sia un
divorziato, perdonata dal Monsignor Fisichella perché separato anche dalle
seconda moglie, quindi ritornato divorziato “normale”.
Un balla colossale perché la religione cattolica prevede infatti che al momento del
divorzio la persona in causa non abbia più diritto ai trattamenti religiosi perché ha
contravvenuto ad uno dei sacramenti, il matrimonio.
Ora invece il monsignor Fisichella si scontra addirittura con Mosè ed uno dei suoi
comandamenti, per la precisione il secondo: «Non nominare il nome di dio invano».
Il premier durante una barzelletta (video sotto) lo ha fatto, anche volgarmente ma
per il monsignore «bisogna sempre, in questi momenti contestualizzare le cose…».
In poche parole valutare il contesto in cui si bestemmia.
Oibò! Questa è nuova! «Non nominare il nome di Dio invano ma solo in barzellette
contestualizzate». Siamo un popolo che “prega” ogni giorno il Vitello D’Oro!
Risvegliati Italia
Al precario non far sapere che pensione avrà: l’Inps censura per
ordine pubblico
pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno mercoledì 6 ottobre 2010 alle ore 15.12

Al precario non far sapere, altrimenti nel suo piccolo si “incazza di brutto”. Ci hanno pensato sopra
a lungo all’Inps e alla fine hanno scelto di “oscurare” il dato. Una censura per motivi di ordine
pubblico come ha spiegato il presidente Antonio Mastrapasqua: “Se dovessimo dare la simulazione
della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. La “simulazione” di
cosa? Di quanto un “parasubordinato”, cioè un lavoratore precario prenderà di pensione tra qualche
decennio dopo aver versato per una vita i relativi contributi. Il risultato sarebbe invariabilmente una
pensione inferiore al minimo, roba da poche centinaia di euro al mese. Quindi meglio “oscurare”.
Oscurare dove? Ma sul sito dell’Inps ovviamente. E anche nei quattro milioni di lettere che lo stesso
Inps sta per inviare a domicilio agli altrettanti precari italiani che versano contributi previdenziali.
L’Inps nelle settimane scorse ha scritto anche ai lavoratori a tempo indeterminato. Una lettera in cui
si spiega come fare per apprendere dal web quanto hanno versato e quanto incasseranno come
pensione. La lettera che arriva ai precari è invece una lettera “muta”, non rimanda ad alcuna
consultazione possibile. Il precario non può sapere perché, per ammissione dello stesso Inps, è
meglio che non sappia. Quindi al precario si dice quanto paga ma si nasconde quanto “rendono” i
suoi contributi. Precario dunque neanche avvisato, visto che in nessun caso, conti alla mano, può
essere salvato.

http://www.blitzquotidiano.it/economia/precari-pensione-inps-censura-ordine-pubblico-
Poteva dire no?
Napolitano poteva fare di più di fronte alla nomina a ministro di Paolo Romani? Lo abbiamo chiesto a tre nostri commentatori

Si è presentato ieri ai giornalisti, con una frase a dir poco equivoca in tempi di P3: “È come il primo giorno di scuola… Ho ancora il grembiulino”. Paolo
Romani, neoministro allo Sviluppo economico, può già contare – è quasi record – una mozione di sfiducia alla Camera. L’hanno presentata ieri gli
esponenti dell’Idv per bocca del loro leader Antonio Di Pietro: “Al fine di recuperare un senso alto delle istituzioni, senza il quale la democrazia muore”,
chiedono “al governo nel rigoroso rispetto delle procedure giuridiche in tema di revoca e conferimento di incarichi pubblici e ferme restando le prerogative
del capo dello Stato, ad assumere le iniziative di competenza affinché sia revocato l’incarico di ministro dello sviluppo economico al deputato Paolo
Romani”. Questo chiedono i deputati Idv al termine di un lungo riassunto sulla vita “politica” dell’uomo “delle tv” di Berlusconi. Il cosiddetto “gelo” del
Quirinale, che ha richiesto una maggiore riflessione sul nome già proposto mesi addietro, non ha stoppato il capo del governo. L’unico a non essersene
accorto è il viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli che dice: “Non ho percepito gelo dal Quirinale sulla sua nomina: è un’interpretazione vostra. E
poi come fate a saperlo voi? Non ho visto dichiarazioni di Napolitano su questo presunto gelo sulla nomina a ministro dello Sviluppo economico di Paolo
Romani”. La contrarietà del Colle era già stata mostrata al governo. Ma Napolitano poteva fare di più? Lo abbiamo chiesto a tre dei nostri commentatori.

Gianfranco Pasquino

Il presidente Napolitano tenta di evitare scontri istituzionali e si trova regolarmente nella delicata posizione di impedire al capo del governo di eccedere.
Qualche volta, anche grazie alla sua pazienza (vedi le intercettazioni e, probabilmente e sperabilmente, il processo breve), ci riesce. Qualche volta, no,
come nella nomina di un collaboratore del padrone di Mediaset a ministro dello Sviluppo. L’on. Romani sa come la pensa Napolitano sul conflitto di
interessi. Credo che questo conflitto che dura da sedici anni sia un vulnus profondo al funzionamento e alla qualità della democrazia italiana. So anche
che soltanto le divisioni, le ignoranze, le incertezze e le furbizie dei soliti uomini intelligentissimi nell’ex partito di sinistra hanno impedito che fosse affrontato
e risolto nei due governi Prodi. Ma, certamente, la mancata soluzione non può essere considerata responsabilità del presidente. Avrebbe, adesso, dovuto
essere lui a dire no a Romani e a innescare il conflitto istituzionale frontale finora evitato? In fondo, ha probabilmente ragionato Napolitano, il ministro
durerà al massimo qualche mese. E il conflitto, ha continuato Napolitano, dovrò inevitabilmente affrontarlo quando consentirò che nasca sulle macerie del
berlusconismo un composito governicchio di emergenza che scriva una legge elettorale decente e il cui ministro degli Interni sovrintenda alle prossime
elezioni.

Paolo Flores d’Arcais

Due mesi fa “il Colle più alto” aveva rifiutato la nomina di Paolo Romani a ministro dello Sviluppo economico. Giorgio Napolitano lo ha nominato, facendo
circolare ufficialissime notizie sull’amarezza e contrarietà con cui ha ingoiato il boccone. Poteva non ingoiarlo, invece di dar luogo all’ennesima manfrina.
Un capo dello Stato se firma un provvedimento se ne assume la responsabilità a viso aperto, difende la sua firma contro eventuali polemiche, certo non si
mette a frignare per la “costrizione” che avrebbe subito, illudendosi che facendo trapelare Urbi et Orbi le sue “sofferenze” possa salvarsi l’anima.
Se Romani era improponibile due mesi fa, cosa lo rende costituzionalmente “commestibile” oggi?
E se invece è doveroso, ancorché “doloroso”, nominarlo oggi, perché mai Napolitano si è opposto due mesi fa? In tal caso avrebbe commesso allora una
prevaricazione. Nel caso opposto ha compiuto oggi una resa. Perché di diverso rispetto a due mesi fa c’è solo il crescendo di aggressioni alla Costituzione
perpetrato da Berlusconi, il sabba di minacce personali a chiunque si metta di traverso alle sue voglie totalitarie. Era una ragione di più per mostrare
fermezza, anziché il malumore dell’ennesima sudditanza.

Bruno Tinti

Questa volta il presidente della Repubblica non ne può niente. Questa volta non avrebbe potuto impedire l’ennesimo utilizzo delle istituzioni come cosa
propria. I Padri costituenti non potevano prevedere che sarebbe arrivato B; che avrebbe avuto la scelleratezza di affidare il ministero dello Sviluppo
economico (di cui fa parte il Dipartimento per le Comunicazioni) a persona che dà ogni garanzia di consentire a Mediaset di concludere ottimi affari e di
non temere la concorrenza della Tv di Stato. Per questo non pensarono, nel 1948, di aggiungere all’articolo 92 della Costituzione la facoltà, per il
presidente della Repubblica, di respingere le proposte di nomina dei ministri; deve nominare chi è proposto, magari turandosi il naso. Ecco perché, che si
tratti del condannato (per ricettazione e appropriazione indebita) Brancher o di chi ha svolto attività di lobbying presso la Commissione europea contro Sky
e a favore di Mediaset, se B. ha il becco di proporlo a ministro, Napolitano deve nominarlo. Può far sapere che la cosa lo disturba, questo sì; e, a quanto si
sa, come già per Brancher, lo ha fatto. C’è da sperare che anche questi segnali inducano sempre più persone a decidere che il prezzo da pagare per
sedere alla tavola di B&C è diventato troppo elevato.

Tutti d’accordo in parlamento: “No al decreto ammazza Internet”


Il Partito Democratico, l'Italia dei Valori, Futuro e Libertà, l'Udc, l'Api di Rutelli. Anche Pdl e Lega Nord dicono: “il decreto ammazza Wi-fi va abolito”. Di
tutt’altro parere, invece, i gestori telefonici che vedrebbero ridimensionati i loro introiti per connessioni mobili

Sono d’accordo tutti: il Partito Democratico, l’Italia dei Valori, Futuro e Libertà, l’Udc, l’Api di Rutelli. Al Fatto Quotidiano anche Pdl e Lega Nord dicono: “il
decreto ammazza Wi-fi va abolito”. E’ uno schieramento totalmente bi-partisan quello che oggi si dice favorevole all’abrogazione di una norma del decreto
Pisanu.

Andiamo con ordine. Oggi durante una conferenza stampa alla Camera dei Deputati è stata presentata una proposta di legge: “L’articolo 7 del decreto-
legge 27 luglio 2005, ecc., ecc.; è abrogato”. Tradotto dal burocratese: il Parlamento si muove per abolire l’articolo 7 del decreto Pisanu risalente al 2005.
L’estate di cinque anni fa, subito dopo gli attentati alla metropolitana di Londra, l’allora ministro dell’Interno si fece promotore di un decreto legge contro il
terrorismo. Il decreto, poi convertito dal Parlamento e tuttora in vigore, contiene anche un articolo relativo ad Internet, il sette: prevede che chiunque si
colleghi ad Internet da una connessione pubblica, debba essere identificato. Chi offre una rete aperta (dalle grandi stazioni agli Internet point), invece, deve
chiedere un’autorizzazione alla questura, dotarsi di un software costoso che conservi i dati delle connessioni e, infine, chiedere a chiunque si connette un
documento d’identità. Risultato: burocrazia soffocante e costi insostenibili. Perciò in Italia è impossibile trovare connessioni libere, a differenza di quanto
succede in tutti i paesi sviluppati del mondo.

Ieri, per chiedere l’abolizione di questa norma, hanno convocato una conferenza stampa Paolo Gentiloni del Pd; Luca Barbareschi di Futuro e libertà; Linda
Lanzillotta dell’Api di Rutelli. La proposta di abrogazione porta le loro firme. A seguire si è detto favorevole anche Roberto Raho dell’Udc (con dei distinguo
ma sostanzialmente favorevole). Non solo: già l’Italia dei Valori in tempi non sospetti si era mossa per l’abrogazione dell’articolo della Pisanu. A sorpresa,
anche Mario Valducci, deputato del Popolo della libertà, dice: “Questa proposta di abrogazione può contribuire a migliorare l’accesso alla Rete. Il Pdl –
aggiunge – è a favore”. E non è da meno la Lega Nord: “Internet deve essere accessibile – dice Jonny Crosio deputato leghista e membro della
commissione Trasporti – siamo favorevoli all’abrogazione dell’art. 7 della Pisanu”.

Alla Camera, quindi, tutti d’accordo. Di tutt’altro parere, invece, i gestori telefonici che vedrebbero ridimensionati i loro introiti per connessioni mobili: “Non
credo che quella legge vada abolita”, ha detto nei giorni scorsi l’amministratore di Telecom Italia Franco Bernabè.

Ora la palla passe alle Commissioni. Bisogna capire se della proposta Barbareschi-Lanzillotta-Gentiloni se ne occuperà la commissione Trasporti
presieduta proprio da Valducci (è la stessa da cui era passato Pisanu ai tempi della sua approvazione) o la prima commissione Affari Costituzionali, a cui
sono delegati i temi di “ordine pubblico”. La decisione spetta alla Presidenza della Camera in base al regolamento di Montecitorio. Una volta in
commissione, con questa maggioranza, basterebbe pochissimo per sbloccare le connessioni in Italia: “due mesi al massimo” ha dichiarato Linda Lanzillotta
in conferenza stampa.

Inaspettatamente, potremmo avere un bel regalo già prima di Natale. Un regalo che spetta a tutti gli italiani e che permetterebbe all’Italia di fare un piccolo
ma significativo passo verso l’innovazione. Per evitare che tutto si blocchi e che la norma rimanga a marcire negli archivi della Camera, qua al Fatto
terremo gli occhi aperti e, come sempre, vi terremo informati

Personaggi d'obbligo, a prescindere dal presente, pietosissimo caso:


- il giornalaio: "Veniva qui, tutte le mattine, a prendere il giornale, anche qualche rivista femminile,
delle volte, sì, me la ricordo.
- le amiche 1) "una ragazza solare";
2) due amiche si abbracciano piangendo, quando la telecamera le inquadra.
- Il sindaco: "La città è rimasta scossa dallefferato episodio, che però non ritrae l'operosa realtà
sociale ed economica di una comunità....
- il parroco: v. il sindaco con in più "fervente religiosità..."; "di lassù essa ci guarda..."
- i giornalisti: 1)"Mistero. Il traffico d'armi clandestino dietro la morte di..."
2) "A chi appartiene il foulard trovato abbandonato lungo la spiaggia di Rimini lo
stesso giorno in cui...?"
3) "l'assassino, di lontane origini albanesi..."
Il cretino: "Mi senti, mi stii a sentire, io a quella gente lì altro che la pena di morte, lo sa che cosa
ci farei? Prima li metterei nudi e poi dopo..."

Le intercettazioni su Skype
27 settembre 2010 - Giustizia

L’amministrazione Obama vuole semplificare la possibilità di

intercettare le comunicazioni via internet e sta preparando una proposta di legge che obblighi i
servizi online — da Facebook ai software peer-to-peer passando per le mail criptate inviabili via
BlackBerry — a consegnare al governo intercettazioni che possano essere necessarie per combattere
la lotta al crimine e al terrorismo.
La proposta, che dovrebbe essere sottoposta al Congresso il prossimo anno, ha già sollevato nuove
preoccupazioni e dubbi sulla vecchia questione di come bilanciare la necessità di sicurezza con
quella della privacy. James X. Dempsey, vicepresidente di un’organizzazione che si chiama Centro
per la Democrazia e la Tecnologia, ha detto che la legge avrebbe «enormi implicazioni» e
sfiderebbe «gli elementi fondanti della rivoluzione di internet».
«Stanno chiedendo l’autorità di ripensare i servizi che si avvantaggiano dell’architettura unica di
internet. Vogliono portare indietro le lancette dell’orologio e far funzionare i servizi di internet allo
stesso modo del telefono»
I rami del governo che stanno ragionando sulla legge — FBI, Dipartimento di Giustizia, NSA —
rigettano le critiche spiegando che si tratta di una proposta che mira a salvaguardare la sicurezza
nazionale, e che non si tratterebbe di un’intercettazione a tappeto di internet ma di richieste mirate.
D’altra parte, da anni si discute delle possibilità di comunicare in modo completamente criptato che
offre un software comune come Skype, ormai disponibile su tutti gli smartphone in commercio, e
gli ufficiali delle forze dell’ordine lamentano da molto tempo i rischi connessi alle nuove possibilità
comunicative offerte dalla tecnologia a criminali e terroristi.
Ovviamente non si tratta solo di un problema americano. Proprio nei mesi scorsi si è accesa una
disputa tra il governo indiano e la società canadese che produce i BlackBerry per l’incapacità di
entrambe le parti di decriptare le mail del servizio. È quindi possibile, scrive il New York Times,
che molti paesi possano allineare le loro posizioni a quelle del governo statunintense.
A volte le autorità riescono a intercettare comunicazioni quando queste passano da uno “scambio”
creato ad hoc dalle società che amministrano quelle comunicazioni. Molte altre volte — come
quando l’indagato usa un servizio che permette di inviare messaggi criptati tra computer e server —
devono ordinare al fornitore del servizio di consegnare le versioni decifrate dei messaggi.
Secondo la legge del 1994 che regolamenta i rapporti tra i servizi di comunicazione e le forze
dell’ordine, i telefoni e le reti a banda larga devono prevedere sistemi di intercettazione a uso delle
autorità. Ma la legge non si applica a tutti i fornitori dei servizi: nonostante qualcuno di loro
preveda già sistemi d’intercettazione, altri li sviluppano solo eventualmente ricevuta la richiesta del
governo. L’intero processo solo nell’ultimo anno è costato 9,75 milioni di dollari alla sezione
tecnologica dell’FBI e ne costerà altri 9 alla fine di quest’anno, nell’ambito del programma “Going
Dark” creato per sostenere la sorveglianza dei sistemi elettronici.
Oltre al costo c’è il problema della durata del processo di creazione ad hoc dei sistemi di
intercettazione: le indagini subiscono grandi rallentamenti, a volte addirittura mesi. Un esempio:
quest’anno le agenzie di intelligence americane hanno faticato a seguire le comunicazioni che un
cartello della droga trasmetteva attraverso un software peer-to-peer, uno dei servizi più difficili da
tracciare a causa dell’assenza di un centro nevralgico in cui passano tutte le informazioni. Nei
programmi peer-to-peer le comunicazioni sono infatti dislocate su diversi server.
La proposta di legge conterrà tre richieste principali:
I servizi di comunicazione che permettono lo scambio di messaggi criptati dovranno possedere un
sistema per decriptarli.
I fornitori esteri che lavorano negli Stati Uniti dovranno installare dei sistemi locali che permettano
le intercettazioni.
Gli sviluppatori dei programmi che permettono comunicazioni peer-to-peer dovranno ripensare i
loro servizi per permettere le intercettazioni.
Il governo sta cercando di stendere la proposta nella maniera più «neutra» possibile, in modo che la
legge non diventi rapidamente obsoleta. Rimangono però ancora dei dubbi. Non è chiaro come il
governo americano potrà regolare i servizi che hanno sede e server oltreoceano, quindi non presenti
negli Stati Uniti, e i programmi “freeware”, costruiti unicamente con il lavoro collettivo di più
volontari.
Le critiche alla proposta sono tante. Michael Sussmann, un ex avvocato del Dipartimento di
Giustizia che ora lavora come consigliere per servizi di comunicazione dice che «sarà un
cambiamento enorme per le nuove società» che porterà molte spese, perché «il carico che prima
gravava sulle forze dell’ordine graverà sui fornitori dei servizi». E diversi difensori della privacy
nei sistemi tecnologici sostengono che le nuove implementazioni «creeranno falle di sistema che
verranno inevitabilmente sfruttate dagli hacker». Il governo risponde a queste accuse spiegando che
includere un sistema di intercettazione all’inizio crea meno buchi di sicurezza rispetto al crearlo più
avanti. Valerie Caproni del consiglio superiore dell’FBI spiega inoltre che le preoccupazioni per la
privacy sono eccessive, in quanto saranno comunque i fornitori dei servizi a tenere in mano le
chiavi del sistema, e non il governo.
http://www.ilpost.it/2010/09/27/stati-uniti-intercettazioni-internet/
Dublino, Irlanda
27 settembre 2010 - Estero
Un articolo di Robert Peston sul sito della BBC fornisce alcuni numeri che
dovrebbero togliere il sonno. L’esposizione totale delle banche estere all’economia irlandese è pari
a 844 miliardi di dollari, cioè 5 volte il Pil del paese. I maggiori creditori esteri sono le banche
tedesche e inglesi, che hanno rispettivamente 206 e 244 miliardi di esposizione al sistema bancario
irlandese. In altri termini, le banche tedesche e britanniche hanno prestato alle consorelle irlandesi
per importi che eccedono, in entrambi i casi, il Pil irlandese. Parlando di gestione oculata dei
finanziamenti.
In termini di crediti diretti interbancari, le banche estere hanno prestato a quelle irlandesi 169
miliardi di euro, altra grandezza che eccede il Pil di Dublino. Queste sono condizioni molto simili a
quelle che hanno causato l’implosione dell’Irlanda. Anche i soggetti dotati di una fervida fantasia
hanno difficoltà a comprendere in che modo, in presenza di continuo deprezzamento degli attivi
immobiliari detenuti dalle banche, sarà possibile trarsi d’impaccio continuando a massacrare i
cittadini con tagli di welfare e retribuzioni, che a loro volta causano depressione e ulteriore crollo
dei valori immobiliari.
La probabilità che Dublino debba ricorrere ai prestiti del Fondo Europo di Stabilizzazione
Finanziaria e del FMI cresce di giorno in giorno. In alternativa, provate a ipotizzare l’impatto sulle
banche tedesche, britanniche e francesi, di una decurtazione tra il 50 ed il 70 per cento degli importi
di cui sopra.
Nel frattempo, Moody’s ha tagliato di 3 livelli il rating delle obbligazioni senior e di ben 6 livelli il
rating dei subordinati di Anglo Irish Bank. Forse l’unica azione possibile è fare gli scongiuri.
http://phastidio.net/2010/09/27/dublino-islanda/
Quando la Chiesa copre i misfatti
27 settembre 2010 - Cultura - Società

C’è da rimanere sconcertati davanti alle notizie che continuano ad accavallarsi riguardo i casi di
prevaricazione e degenerazione sessuale che hanno come protagonisti preti, coloro cioè cui molto
spesso ci si affida, insieme a figli e familiari per trovare conforto nelle varie vicissitudini
esistenziali. Talvolta si resta addirittura esterrefatti dalle modalità e dal contesto in cui tali azioni
turpi sono portate a termine: come quelle venute alla luce a Verona durante un incontro-dibattito
che aveva come titolo proprio ” Noi vittime dei preti pedofili “. A porte chiuse, nel Palazzo delle
Gran Guardia, i partecipanti a tale incontro si sono raccontati le proprie esperienze. Estremamente
significativa la premessa al dibattito: ” La ragione che sta alla base di questo incontro è far vedere
che esistiamo, che non possiamo più essere ignorati e che non siamo statistiche, ma esseri umani
con famiglie, figli, sentimenti”.
“Le e-mail di ulteriori denunce ricevute sono state circa cinquanta e provenivano oltre che da
Verona anche da Trento, Savona, Vicenza e dal gruppo promotore La Colpa, in occasione proprio
dell’importante evento” , ha detto Mario Lodi Rizzini, fratello di una delle sordomute dell’Istituto
San Provolo di Verona. Stiamo trattando dell’istituto dove, secondo 15 testimonianze
autobiografiche dettagliate di ricoverati presenti all’incontro di oggi, tra gli anni ’50 e metà degli
anni ’80 una ventina di sacerdoti avrebbe abusato continuativamente di piccoli che non potevano
sentire o parlare, o nessuna delle due cose assieme. Crimini, verso cui troviamo difficoltà nella
ricerca e nell’uso di termini e negli aggettivi con cui qualificarli. Lasciamo dire a Rizzini: “Quello
che mi ha colpito è che, quando un laico che lavorava al San Provolo ha confermato quei racconti,
ha detto che era una cosa ‘normale’,che avveniva anche in altri istituti. Ma la prima lettera inviata al
vescovo di Verona portava in calce 70 firme di ospiti dell’istituto: quella lettera ha fermato il
processo di beatificazione di quel vescovo precedente che viene indicato tra gli abusatori. Adesso è
in corso la costituzione di una commissione che vogliamo laica, perché non ci fidiamo, e che invierà
il proprio resoconto al Vaticano”.
Tra gli ex ospiti dell’istituto Provolo era presente alla Gran Guardia un’unica donna, Antonietta
Perbellini, 75 anni, che ha descritto, cercando dentro sè la forza per non farsi prendere dalla
commozione, una violenza subita durante una confessione, sulla sedia, da parte di “un prete che si
abbassò i calzoni”.
“Adesso – ha detto la donna - quando viene il sacerdote per benedirmi la casa lo caccio via”. Per
Salvatore Domolo, ex sacerdote autosospesosi nel 2005 e ‘sbattezzato’ l’anno scorso, con una
memoria personale di abusi tra gli 8 e gli 11 anni, ” finora si è parlato solo dei preti, ma non si
possono nascondere molti casi anche di suore: le donne ex bambine fanno più fatica a parlare, c’è
piu pressione su di loro, sono più deboli”.
Tra gli interventi più toccanti si è evidenziato quello di un genitore di una bimba che ha subito
violenza in ambito ecclesiastico. “Per chi è ancora bambino la strada è ancora più in salita. Lui, il
prete cui eri affidata, ti aveva detto che se avessi parlato sarebbe successo qualcosa di brutto, che i
tuoi genitori sarebbero morti”. Si capisce bene come in questi casi anche chi dovesse trovare la
forza di parlare in casa di quanto sta accadendo, si ritroverebbe col proprio papà o mamma restii a
pensare che l’amico prete sia cattivo e,quando la famiglia dovesse crederci ed intervenire sul prete
abusatore o sui suoi superiori, allora comincerebbe un ben congegnato isolamento fatto di addebiti
inerenti fantomatiche ansie protettive, mire di risvolti economici, rancori contro la Chiesa. Nel caso
in cui tutto questo, poi, portasse ad una vertenza giudiziaria, non è raro che siano additati come
colpevoli proprio coloro che hanno denunciato i fatti.
Quando ha infine parlato l’ex sacerdote Domolo, sono venute fuori verità che confermano quanto le
cronache giornalististiche di mezzo mondo da tempo descrivono in modo documentato. Ecco le sue
parole: “La cosa più grave è che l’abuso ti allontana da Dio, perché Dio è là e tace. Quando sono
entrato in seminario ho parlato al mio padre spirituale degli abusi subiti e mi sono trovato a dover
confessare il ‘peccato’ commesso. Poi quando gli ho chiesto cosa fare del prete che aveva abusato
di me mi ha detto: assolutamente non ne parliamo con nessuno, lo affidiamo alla misericordia di
Dio… Quante volte me lo sono sentito ripetere! Deve essere riconosciuta la complicità attiva della
Chiesa, si pensava bastasse il silenzio, o spostare il prete pedofilo indiano in Italia. La verità è che
non c’è solo l’abuso ripetuto: non è che si è vigilato poco, è che abbiamo fatto di tutto per
nascondere”.
Non commentiamo.
http://www.laveracronaca.com/index.php?option=com_content&view=article&id=609:quando-la-
chiesa-copre-i-misfatti&catid=1:ultime&Itemid=29
Il decalogo della manipolazione di massa (Cerchi nel grano)
27 settembre 2010 - Bacheca
di Claudio Messora
Di Avram Noam Chomsky tutto si può dire tranne che sia un complottista da quattro soldi.
Teorico della comunicazione, linguista, filosofo, professore emerito di linguistica al Massachusetts
Institute of Technology, nonché fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, spesso
indicata come il più rilevante contributo alla linguistica teorica del XX secolo.
Uno così non poteva non accorgersi della strumentalizzazione totale dei mezzi di informazione
americani. Ma soprattutto, uno così non poteva tacere, adeguarsi al sistema. E così Chomsky ha
denunciato senza mezzi termini la manipolazione costante della comunicazione mediatica. La
televisione, la stampa e la radio potrebbero favorire la comprensione reciproca, potrebbero
facilmente unireanziché dividere, creare accordo in luogo del disaccordo, fare in modo che ci si
possa finalmente e semplicemente capire. Ma non lo fanno, riducendosi a mero strumento di
dominio e distorsione culturale per favorire interessi che sono molto poco collettivi e troppo spesso
individuali.
Eppure, siamo così abituati all’asservimento intellettuale che pensare ad una televisione che
informa senza deformare, che mostra anzichè dimostrare, che non fa valutazioni di opportunità
politica, di convenienza strategica, di fazioso utilitarismo ci sembra ormai irrealistico e viene
cinicamente liquidato come utopico. Ma utopico è un asino che vola, non una dialettica onesta, che
ragiona per argomentazioni coerenti, senza secondi fini, senza barriere ideologiche, senza forzature
corporativiste. Avere una comunicazione trasparente e non strumentale, guardare un telegiornale
che dia le notizie senza interpretarle, assistere ad un dibattito vero, incentrato su temi di reale
interesse pubblico, vedere uno show che sia pensato per cittadini del terzo millennio, e non per
svagare le scimmie nelle gabbie di uno zoo non è utopico: è sacrosanto, è fattibile, è
assolutamente normale. Quando la normalità viene trasformata nel lusso, la regola nell’eccezione, il
possibile nell’impossibile, a lungo andare si finisce per credere di essere inadeguati: “se credo in
qualcosa che tutti sembrano giudicare irrealizzabile, allora devo essere sbagliato io“. Ma non è
così. In realtà sono in tanti a pensarla esattamente come noi, ma abbiamo perso la capacità di
comunicare, di condividere opinioni se non attraverso i mass-media. In altre parole: siamo
intimamente portati a fidarci solo della finzione che appare nel teatrino televisivo. Abbiamo più
considerazione della gestualità della marionetta che non delle manovre del burattinaio.
Crediamo ormai solo nella rappresentazione e diffidiamo del mondo reale. Ulisse si legò al palo
della sua nave, resistette al richiamo delle sirene e ne ebbe in cambio la vita. Noi al canto delle
sirene non abbiamo opposto alcuna resistenza: suoni melodiosi, immagini ipnotiche e narrazioni
coinvolgenti ci hanno radunati per quasi un secolo nella caverna di Platone, dietro a megaschermi
che somministrano pillole di vita artificiale che non è la nostra, né mai potrà esserlo. Questo è il
colossale, madornale, irrisolto equivoco: i media propagandano le idee e le necessità di pochi,
contrabbandandole per quelle dei molti, costruendo una vita immaginaria su misura, più invitante di
quella reale, appositamente resa così difficile e così poco attraente che rifuggirla è una
comprensibile debolezza umana. Lattine di metallo nelle quali trascorrere ore, giorni, mesi,
incolonnati e indottrinati da una voce che il loudness rende più autorevole di quella di un reale
compagno di viaggio, relegato viceversa al ruolo di fastidioso occupante di una scatoletta adiacente
alla nostra; cubi di cemento dove bivaccare nelle sonnolenti, apatiche e solitarie serate passate in
compagnia della grande famiglia televisiva, mentre tua moglie nell’altra stanza frequenta un altro
giro di amici, inesistenti anch’essi, illusoriamente proiettati sulla frequenza successiva, e mentre i
tuoi bambini guardano pesci parlanti e macchine che si guidano da sole dentro un mini-schermo da
7 pollici che ti esonera dalla fatica di inventarti una fiaba della buonanotte. Qualcuno ha già pensato
anche a quello, l’ha fatto per te, per rendere la tua vita migliore, mentre la tua esistenza si compie in
uno spazio sempre più ristretto, dove un tempo ti saresti aggirato come un leone in gabbia,
imprigionato in pochi metri quadrati acquistati in cambio di un ipoteca sulla vita. Ma a che servono
spazi aperti e grandi praterie, quando il mondo è tutto lì, dietro allo schermo di un televisore al
plasma che ti separa da ogni tuo desiderio? Così, privati di un’identità, della bellezza, della fisicità
sensoriale di un mondo nel quale vivere, della possibilità di inebriarsi con le alchimie di suoni,
colori e profumi riservate ai pochi azionisti di riferimento della realtà, agli esclusivisti della natura,
ai proprietari delle coste e delle spiagge, ai sovrani delle terre emerse, ai signori dell’acqua piovana,
ai dispensatori di aiuole e giardinetti pubblici per portarci a spasso il cane, ai gendarmi dei confini
disegnati e poi resi invalicabili, agli arbitri della nostra conformità morale al sistema sociale di cui
siamo titolari senza potere di firma, così… noi non riconosciamo più noi stessi, perdiamo fiducia e
ogni contatto con i sensi, ci alieniamo volontariamente da una vita che appare meno gradevole di
quella inventata appositamente per noi, ci isoliamo e torniamo a suggere dal capezzolo materno,
questa volta non latte ma illusioni cui siamo disposti a credere, purché ci venga risparmiata la
consapevolezza di essere ortaggi in una coltivazione disseminata di letame, chimico anch’esso.
Nel tentativo di strappare la maschera gioiosa del mostro tentacolare che ci ruba l’anima, Chomsky
ha individuato i dieci comandamenti della struttura Delta che droga le menti, ammaliandole,
confondendo in loro ogni percezione, rimescolando realtà e fantasia, evidenza e costruzione
illusoria, inducendo le messi umane ad ondeggiare come campi di grano al vento, a volgersi
ordinatamente nella direzione in cui un grande polmone meccanico soffia, incessantemente, senza
posa.
Poi, ogni tanto, ci pisciano sopra roteando l’arnese. Ecco come si formano i controversi e tanto
famigerati cerchi nel grano.
LE DIECI REGOLE DELLA MANIPOLAZIONE MEDIATICA
1-La strategia della distrazione L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della
distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei
cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o
inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è
anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area
della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. “Mantenere l’Attenzione
del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza.
Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla
fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni Questo metodo è anche chiamato “problema-
reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione
da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far
accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare
attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le
politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un
male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3- La strategia della gradualità Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla
gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni
socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80
e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non
garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se
fossero state applicate in una sola volta.
4- La strategia del differire Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di
presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per
un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato.
Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la
massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il
sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea
del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini La maggior parte della pubblicità diretta al gran
pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte
volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente
mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile.
Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla
suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di
senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedere “Armi silenziosi per guerre
tranquille”).
6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione Sfruttate l’emozione è una tecnica classica
per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo.
Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o
iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti….
7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità Far si che il pubblico sia incapace di
comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità
dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in
modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e
rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.
8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità Spingere il pubblico a ritenere
che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti…
9- Rafforzare l’auto-colpevolezza Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua
disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così,
invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che
crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza
azione non c’è rivoluzione!
10- Conoscere agli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano Negli ultimi 50 anni, i
rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e
quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la
psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella
sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto
egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un
controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo
esercita su sé stesso.
http://www.byoblu.com/post/2010/09/27/Il-decalogo-del-buon-manipolatore.aspx

Hillary Clinton and State Dept. to Celebrate War


Criminal Henry Kissinger, While the White House
Repeats His Deadly Mistakes
By Fred Branfman, AlterNet
Posted on September 28, 2010, Printed on October 8, 2010
http://www.alternet.org/story/148310/

Nothing more symbolizes how the temptations of power can corrupt youthful values
and idealism than Secretary Hillary Clinton's invitation to Henry Kissinger and
Richard Holbrooke to keynote a major State Department conference on the history of
the Indochina war. As an idealistic college student, Clinton protested Kissinger's
mass murder of civilians in Indochina. She knows full well that had the international
laws protecting civilians in war been applied to Kissinger's bombing of civilian
targets in Indochina he would have been indicted for crimes of war.

But on Sept. 29 she will introduce Kissinger at the State Department Historian's
conference, giving him a platform to continue 40 years of Orwellian deception in
which he has sought to blame Congress for the fall of Indochina rather than
accepting responsibility for his massive miscalculations and indifference to human
suffering.

Clinton has also invited Richard Holbrooke, who as State Department head of
Afghanistan/Pakistan policy has learned nothing from history and is repeating
precisely the same policies that caused the U.S. to lose in Indochina -- support of a
corrupt and unpopular regime that cannot stand on its own. Inviting Holbrooke is
particularly egregious, because following Obama's strategy review, according to Bob
Woodward's new book, "perhaps the most pessimistic view came from Richard
Holbrooke. "It can't work," he said. Lacking even a fraction of the integrity and
moral courage of a Daniel Ellsberg, Holbrooke continues to promote in public a
policy he privately believes is doomed to fail.

Inviting Kissinger to keynote a conference on U.S. history in Indochina insults


history, the memories of tens of thousands of Americans and countless Indochinese
civilians who needlessly died as a result of his policies, the young people of America
who desperately need to learn the truth about what occurred in Indochina so as not to
repeat it, and all those who oppose indiscriminate mass murder of civilians.

Giving Kissinger and Holbrooke a platform also has important policy implications
for the present.

An attempt is currently being made to build support for today's war-making in


Afghanistan and Pakistan by claiming that the U.S. lost in Indochina because
Congress cut aid to Thieu. This view is being articulated not only by Kissinger and
other Nixon-era officials but a younger cadre of military officers, most notably Lt.
Colonel Louis Sorley in his book A Better War -- which has been, according to the
Wall Street Journal, "recommended in multiple lists put out by military officers,
including a former U.S. commander in Afghanistan, who passed it out to his
subordinates."

As President Obama was considering Afghan policy last fall, Newsweek reported that
"Louis Sorley's book argues ... that the military was stabbed in the back by its
civilian leaders ... the United States could have won in Vietnam if only the U.S.
Congress hadn't cut off military aid to South Vietnam. The most surprising guidance
Vietnam may have to offer (to Afghanistan) is not that wars of this kind are
unwinnable but that they can produce victories if presidents resist the temptation to
fight wars halfway or on the cheap."

Sorley's contention is absurd. The evidence is overwhelming that the Thieu regime
lost to its enemies because it was a corrupt and unpopular police-state, and its troops
were far less motivated to fight than those of the other side. U.S. military aid to
Saigon in 1974-'75 was two to four times as great as Soviet and Chinese aid to the
North Vietnamese, and the Thieu army was well supplied with ammunition and fuel
up to the very end.

Kissinger's mistake in Vietnam, like the Obama/Petraeus policy in Afghanistan


today, was to try and prop up an unpopular and corrupt government that could not
stand on its own. It is not Congress but Kissinger and Presidents Ford and Nixon
who bear the responsibility for the fall of Saigon.

Henry Kissinger's Record in Indochina

Henry Kissinger managed U.S. policy in Indochina as National Security Adviser for
Richard Nixon and Secretary of State for Gerald Ford, from January 20 1969 until
the fall of Saigon on April 30 1975. During this time Kissinger needlessly prolonged
U.S. war-making in which 20,853 Americans were killed and an officially U.S.-
estimated 7,860,013 Indochinese were murdered, maimed or made homeless. That’s
right. The policies Kissinger orchestrated created nearly eight million war victims,
almost as much as the 8,745,207 Indochinese victims created by Lyndon Johnson
when 550,000 U.S. troops were based in South Vietnam.

Kissinger orchestrated the most massive bombing in world history, dropping


3,984,563 million tons on an area inhabited by some 50 million people, twice the 2
million tons dropped on hundreds of millions through Europe and the Pacific in
World War II. He dropped 1.6 million tons on South Vietnam, as many as Lyndon
Johnson at the height of U.S. involvement; quadrupled the bombing of Laos, from
454,200 to 1,628,900 million tons; initiated widespread bombing of previously
peaceful Cambodia, including B52 carpet bombing of undefended villages, for a total
of 600,000-1million tons; and vastly expanded the bombing of civilian targets in
North Vietnam.

Much of this bombing struck civilian targets.

In Laos, where I interviewed over 1,000 refugees from the Plain of Jars, every single
one said their villages had been destroyed by U.S. bombing which escalated
tremendously in 1969, and that the main victims were civilians because the soldiers
could move through the thick forests largely undetected, while old people, mothers
and children were forced to stay near their villages.

In Cambodia, Kissinger told Alexander Haig to undertake "a massive bombing


campaign in Cambodia. Anything that flies or anything that moves," the clearest
possible violation of international law requiring the protection of civilians. Two
million people in Khmer Rouge zones, as estimated by the U.S. Embassy, were
driven underground by massive U.S. bombing that featured regular B52 carpet-
bombing of undefended villages.

In North Vietnam, Kissinger conducted the most savage B52 bombing of urban
targets in history, as the New York Times reported in 1972: “United States military
leaders are being permitted to wage the air war as they want in Indochina. There
appears to be less concern with the civilians this time in view of the freedom given
the air commanders and the attempt to cut off food, clothing and medical supplies."
Kissinger boasted to Richard Nixon, "It's wave after wave of planes. You see, they
can't see the B52 and they dropped a million pounds of bombs ... I bet you we will
have had more planes over there in one day than Johnson had in a month ... each
plane can carry about 10 times the load of World War II plane could carry."

Kissinger orchestrated the U.S. invasion of Cambodia, a disastrous miscalculation


that led directly to the Khmer Rouge takeover five years later. I visited Cambodia in
April 1970, shortly after the U.S. supported Lon Nol in overthrowing Prince
Sihanouk. U.S. Embassy officials then estimated there were no more than 100 Khmer
Rouge, and were not even sure that Khmer Rouge leaders Khieu Samphan or Ieng
Sary were alive. As William Shawcross wrote in Sideshow: Kissinger, Nixon and the
Destruction of Cambodia, it was Kissinger's overthrowing Sihanouk, supporting the
corrupt and unpopular Lon Nol regime and massive bombing that created the Khmer
Rouge and brought it to power. Kissinger then compounded his brutality by
supporting the genocidal Khmer Rouge, telling the Thai Foreign Minister on
November 26, 1975, that "you should also tell the Cambodians [i.e. Khmer Rouge
government] that we will be friends with them. They are murderous thugs, but we
won't let that stand in the way. We are prepared to improve relations with them. Tell
them the latter part, but don't tell them what I said before."

Kissinger diverted billions of dollars in Food for Peace, meant to feed the starving, to
the Thieu and Lon Nol armies. He violated the U.S. constitution by secretly bombing
Cambodia and Laos without Congressional authorization. And his representatives
regularly perjured themselves before Congress, as when U.S. Ambassador to Laos
testified to the Kennedy Subcommittee on Refugees on April 22, 1971, that the U.S.
only bombed military targets in Laos.

Who Lost Indochina: Kissinger or Congress?


"Had I thought it possible that Congress would, in effect, cut off aid to a beleaguered
ally, I would not have pressed for an agreement as I did in the final negotiations in
1972." -- Henry Kissinger, Ending the Vietnam War
"The Defense Department said today that despite Congressional reductions in
military aid, South Vietnamese forces were not critically short of either ammunition
or fuel." -- "U.S. Says Arms Situation in Vietnam Is Not Critical," New York Times,
March 27, 1975
Kissinger began to try to blame Congress for the fall of Saigon even before April 30,
1975. Sorley's book contends that the failure of the North Vietnamese spring 1972
offensive in South Vietnam proves that Thieu forces could have prevailed in April
1975. Newsweek, interviewing Sorley, reported that "in 1974, breaking Nixon's
promises of continued support to Saigon, the U.S. Congress cut off all aid to South
Vietnam. Without logistical support or air cover, the South Vietnamese army
collapsed in 1975 and the communists swept into South Vietnam."
Former Defense Secretaries Melvin Laird and James Schlesinger, along with
Kissinger, have consistently maintained the North Vietnamese were receiving more
aid from the Soviet Union and Chinese than were the South Vietnamese from the
United States.
None of this is even remotely true:

Congress did not "cut off all aid to South Vietnam," as Kissinger falsely claims. On
the contrary. Congress in August 1974 only reduced military aid to Thieu from $1.2
billion to $700 million.
The $700 million in military aid voted by Congress "is apparently running at twice
that of Chinese and Soviet military aid to North Vietnam," according to the New
York Times on March 27, 1975. The CIA estimated that U.S. military aid of $1.7
billion to Thieu in 1974 was four times the $400 million it estimated the North
Vietnamese received from the Soviet Union and China. All told, official figures
show the U.S. spent $141 billion in Vietnam from 1961-'75, compared to $7.5-$8
billion in Soviet and Chinese aid to North Vietnam during the same period
(Congressional Record, May 14, 1975).

Sorley's contention that the failure of the North Vietnamese 1972 offensive proved
the Thieu army could stand on its own is particularly absurd. Sorley himself quotes
General Creighton Abrams, the head of U.S. forces in South Vietnam, as saying "on
this question of the B-52s and the tac air 'it's very clear to me that this (the Thieu)
government would now have fallen, and this country would now be gone, and we
wouldn't be meeting here today, if it hadn't been for the (U.S.) B-52s and the tac air.
There's absolutely no question about it."

During the 1972 offensive, the Times reported on May 3, 1972, that "the growing
consensus among Americans here is that the South Vietnamese forces have proven
unequal to the task of defending it." And on May 19, 1972, that "despite four years of
Vietnamization, American and South Vietnamese military commanders here have
relied less on the Government's ground troops to stem the current North Vietnamese
offensive than on an instrument of massive bombing that only the Americans have —
the B-52"; from Anloc on June 24, 1972, that "American advisers here say that the
South Vietnamese helicopters are not flying because the crews have panicked under
fire and suffer from low morale; and on October 7, 1972, that "both American and
South Vietnamese forces in South Vietnam say that the B-52s played a major role in
halting the North Vietnamese offensive last spring as government units were
disintegrating."

Neil Sheehan reported in his biography of U.S. adviser John Paul Vann, who directed
U.S. and Vietnamese military forces in Region III in the spring of 1972 that "Vann
did not see the fallacy in his victory. He did not see that in having to assume total
control at the moment of crisis, he had proved the Saigon regime had no will of its
own to survive."

Conclusion: Repeating History

We all have a natural tendency to want to forget an unpleasant past. Even many of us
whose lives were deeply affected by the Indochina war often prefer to put those years
of anguish, divisiveness and anger behind us.

Unfortunately, it is not that simple. Those who cannot remember the past are indeed
condemned to repeat it.

Future historians will marvel at how U.S. leaders so thoroughly failed to learn from
their horrific mistakes and crimes in Indochina, and have instead repeated many of
them today in Iraq, Afghanistan and Pakistan. It is clear to all but the most blind or
brainwashed that the basic lesson of Indochina is that the United States cannot create
democratic and stable governments out of corrupt, brutal, autocratic and unpopular
warlords who can neither direct nor motivate their own people.

Secretary Clinton is not only insulting history and betraying her own past by giving a
platform to Henry Kissinger to continue distorting history; she is betraying America
today, foolishly perpetuating policies toward the Muslim world that can only end in
even greater losses for the U.S.

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Hillary Clinton e Dipartimento di Stato Henry Kissinger


per celebrare il criminale di guerra, mentre la Casa
Bianca ribadisce i suoi errori Deadly
Con Branfman Fred, AlterNet
Pubblicato il 28 settembre 2010, Stampato su 8 ottobre 2010
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Niente di più simboleggia come le tentazioni del potere può corrompere i valori e
l'idealismo giovanile invito di Hillary Clinton a Henry Kissinger e Richard
Holbrooke a keynote un importante convegno Dipartimento di Stato sulla storia della
guerra in Indocina. Come studente universitario idealista, Clinton ha protestato
Kissinger omicidio di massa di civili in Indocina. Lei sa bene che era pieno le leggi
internazionali che proteggono i civili in guerra è stata applicata al bombardamento di
Kissinger di obiettivi civili in Indocina, sarebbe stato incriminato per crimini di
guerra.

Ma il 29 settembre si presenterà Kissinger al Conferenza del Dipartimento di Stato


Storico, dandogli una piattaforma di continuare a 40 anni di inganno orwelliano, in
cui egli ha cercato di incolpare il Congresso per la caduta di Indocina, piuttosto che
accettare la responsabilità dei suoi errori di calcolo enorme e l'indifferenza alla
sofferenza umana.

Clinton ha anche invitato Richard Holbrooke, che come capo del Dipartimento di
Stato di Afghanistan / Pakistan politica non ha imparato nulla dalla storia e si ripete
esattamente le stesse politiche che hanno causato gli Usa a perdere in Indocina - il
sostegno di un regime corrotto e impopolare che non può stare su proprio. Invitare
Holbrooke è particolarmente evidente, poiché, in seguito rivedere la strategia di
Obama, secondo Bob Woodward nuovo libro, "Forse la visione più pessimistica
venuto da Richard Holbrooke." Non può funzionare ", ha detto. Mancando anche
solo una frazione della integrità e il coraggio morale di un Daniel Ellsberg,
Holbrooke continua a promuovere in pubblico di una politica che crede in privato è
destinato a fallire.

Invitare a Kissinger keynote una conferenza sulla storia degli Stati Uniti in Indocina
insulti storia, i ricordi di decine di migliaia di americani e di innumerevoli civili
indocinesi che inutilmente morti in seguito della sua politica, i giovani d'America che
hanno un disperato bisogno di imparare la verità su quanto si è verificato in Indocina
per non ripeterlo, e tutti coloro che si oppongono alla indiscriminata uccisione di
massa di civili.

Dare Kissinger e Holbrooke una piattaforma ha anche importanti implicazioni


politiche per il presente.

Un tentativo è attualmente in corso per costruire un sostegno per l'attuale guerra-


making in Afghanistan e Pakistan, affermando che gli USA perdono in Indocina,
perché il Congresso a tagliare gli aiuti Thieu. Questa visione viene articolato non
solo da Kissinger e altri funzionari dell'era Nixon, ma una schiera di giovani ufficiali
militari, in particolare il tenente colonnello Luigi Sorley nel suo libro Una guerra
Better - Che è stata, secondo il Wall Street Journal, "Raccomandato in più elenchi
messo fuori da ufficiali militari, tra cui un ex comandante Usa in Afghanistan, che lo
svenuto ai suoi subordinati".

Come il presidente Obama stava prendendo in considerazione politica afgana lo


scorso autunno, Newsweek ha riferito che "Libro di Louis Sorley argomenta ... che il
militare è stato pugnalato alle spalle dal suo leader civili ... gli Stati Uniti avrebbero
potuto vincere se solo in Vietnam gli Stati Uniti il Congresso non aveva tagliato gli
aiuti militari al Vietnam del sud. La più sorprendente guida il Vietnam può offrire (in
Afghanistan) non è che le guerre di questo tipo sono impossibili da vincere, ma che
possono produrre vittorie, se i presidenti resistere alla tentazione di combattere le
guerre a metà strada o al ribasso. "

contesa Sorley è assurdo. Ci sono prove schiaccianti che il regime di Thieu perso i
suoi nemici perché era un corrotto e impopolare dello stato di polizia, e le sue truppe
erano molto meno motivati a combattere quelli di lato. gli aiuti militari Usa a Saigon
nel 1974-'75 era di due a quattro volte più grande come aiuti sovietici e cinesi per il
Vietnam del Nord, e l'esercito Thieu era ben fornita di munizioni e benzina fino alla
fine.

errore di Kissinger in Vietnam, come il / la politica di Obama Petraeus in


Afghanistan oggi, è stato quello di cercare di sostenere un governo impopolare e
corrotto che non poteva stare da sola. Non è il Congresso ma Kissinger e presidenti
Nixon e Ford, che hanno la responsabilità per la caduta di Saigon.

Henry Kissinger Record in Indocina

Henry Kissinger gestito la politica americana in Indocina come Consigliere della


Sicurezza Nazionale per Richard Nixon e il segretario di Stato per Gerald Ford, dal
20 gennaio 1969 fino alla caduta di Saigon il 30 aprile 1975. Durante questo periodo
Kissinger inutilmente prolungato di guerra degli Stati Uniti-making, in cui 20.853
americani sono stati uccisi e un ufficiale USA-stimato 7.860.013 indocinese sono
stati uccisi, mutilati o resi senzatetto. That's right. Le politiche di Kissinger
orchestrato creato quasi otto milioni di vittime di guerra, quasi quanto i 8.745.207
vittime indocinese creato da Lyndon Johnson, quando 550.000 soldati americani
sono stati basati nel sud del Vietnam.

Kissinger orchestrato il bombardamento più massiccio nella storia del mondo,


lasciando cadere 3.984.563 milioni di tonnellate su un'area abitata da circa 50 milioni
di persone, il doppio di 2 milioni di tonnellate sganciate su centinaia di milioni in
Europa e nel Pacifico nella seconda guerra mondiale. Lasciò cadere 1,6 milioni di
tonnellate in Vietnam del Sud, tante quante Lyndon Johnson al culmine del
coinvolgimento degli Stati Uniti; quadruplicato il bombardamento del Laos, da
454.200 a 1.628.900 milioni di tonnellate; avviato bombardamento diffusa
precedentemente pacifica Cambogia, tra bombardamenti a tappeto B52 di villaggi
indifesi, per un totale di 1 milione 600.000 tonnellate e notevolmente ampliato il
bombardamento di obiettivi civili in Vietnam del Nord.

Gran parte di questo bombardamenti hanno colpito obiettivi civili.

In Laos, dove ho intervistato più di 1.000 rifugiati provenienti dalla Piana delle
Giare, ognuno ha i loro villaggi erano stati distrutti dai bombardamenti degli Stati
Uniti che sono culminati enormemente nel 1969, e che le principali vittime sono
civili, perché i soldati potevano spostarsi tra i fitti boschi in gran parte inosservato,
mentre anziani, mamme e bambini sono stati costretti a rimanere vicino ai loro
villaggi.

In Cambogia, Kissinger disse Alexander Haig di intraprendere "Una massiccia


campagna di bombardamenti in Cambogia. Tutto ciò che vola o qualcosa che si
muove", il più chiaro possibile violazione della legge internazionale che impone la
protezione dei civili. Due milioni di persone in zone Khmer Rouge, secondo le stime
l'ambasciata americana, furono costretti alla clandestinità da massicci
bombardamenti degli Stati Uniti che ha caratterizzato regolare B52 bombardamenti a
tappeto dei villaggi indifesi.

Nel Nord del Vietnam, Kissinger ha condotto la più feroce bombardamento B52 di
obiettivi urbano nella storia, come la New York Times riportato nel 1972: "Gli Stati
Uniti i leader militari sono autorizzati a condurre la guerra aerea come vogliono in
Indocina. Sembra che ci sia meno interesse per i civili questa volta in vista della
libertà concessa ai comandanti aria e il tentativo di tagliare cibo, vestiario e
medicinali ". Kissinger vantato di Richard Nixon: "E 'ondate di aerei. Vedete, non
può vedere il B52 e hanno fatto cadere un milione di libbre di bombe ... Io
scommetto che avrà avuto più aerei laggiù in un giorno che Johnson aveva in un
mese ... ogni aereo può trasportare circa 10 volte il carico di aereo della seconda
guerra mondiale potrebbe portare. "

Kissinger orchestrato l'invasione statunitense della Cambogia, un errore di calcolo


disastroso che ha portato direttamente alla presa in consegna dei Khmer Rossi cinque
anni dopo. Ho visitato la Cambogia nel mese di aprile 1970, poco dopo gli Stati Uniti
supportato Lon Nol nel rovesciare il principe Sihanouk. I funzionari dell'ambasciata
degli Stati Uniti stima quindi non c'erano più di 100 dei Khmer Rossi, e non erano
nemmeno sicuri che i leader dei Khmer Rossi Khieu Samphan o Ieng Sary erano
vivi. Come William Shawcross ha scritto nel Sideshow: Kissinger, Nixon e la
distruzione della Cambogia, era di Kissinger rovesciare Sihanouk, sostenendo la
corrotti e impopolari Lon Nol regime e massiccio bombardamento che ha creato i
Khmer Rossi e lo portò al potere. Kissinger poi compounded la sua brutalità,
sostenendo il genocidio dei Khmer Rossi, dicendo al ministro degli Esteri thailandese
il 26 novembre 1975, che "si dovrebbe anche dire ai cambogiani [cioè Khmer Rouge
governo] che saremo amicizia con loro. Sono delinquenti assassini, ma non vogliamo
lasciare che si frappongono. Siamo pronti a migliorare i rapporti con loro. Dite loro
che l'ultima parte, ma non li dico quello che ho detto prima. "

Kissinger deviato miliardi di dollari di Food for Peace, significava per nutrire gli
affamati, alla Thieu e Lon Nol eserciti. Ha violato la Costituzione degli Stati Uniti da
un bombardamento della Cambogia e del Laos di nascosto senza l'autorizzazione del
Congresso. E i suoi rappresentanti si sono regolarmente spergiuro davanti al
Congresso, come quando l'ambasciatore americano a Laos testimoniato alla
sottocommissione per i rifugiati Kennedy il 22 aprile 1971, che solo negli Stati Uniti
hanno bombardato obiettivi militari in Laos.

Che ha perso Indocina: Kissinger o congresso?


"Se avessi creduto possibile che il Congresso avrebbe, in effetti, tagliare gli aiuti ad
un alleato assediato, non mi avrebbe premuto per un accordo come ho fatto nei
negoziati finali nel 1972." - Henry Kissinger, Fine della guerra del Vietnam
"Il Dipartimento della Difesa ha dichiarato oggi che, nonostante la riduzione del
Congresso in aiuti militari, Sud forze vietnamite non hanno modo critico a corto di
munizioni sia o combustibile." - "La situazione degli Stati Uniti dice di armi in
Vietnam non è critica", New York Times, 27 Marzo 1975
Kissinger ha iniziato a provare la colpa del Congresso per la caduta di Saigon, anche
prima del 30 aprile 1975. libro Sorley gli chiede che il fallimento del Vietnam del
Nord primavera del 1972 offensiva nel Vietnam del Sud si dimostra che le forze di
Thieu potrebbe avere prevalso nel mese di aprile 1975. Newsweek, Intervistando
Sorley, segnalati che "nel 1974, rompendo Nixon promesse di sostegno continuato a
Saigon, il Congresso degli Stati Uniti ha tagliato tutti gli aiuti al Sud del Vietnam.
Senza il supporto logistico o di copertura aerea, l'esercito sudvietnamita crollato nel
1975 i comunisti e trascinati in Vietnam del Sud".
L'ex segretari della Difesa Melvin Laird e James Schlesinger, insieme a Kissinger,
hanno sempre mantenuto il Vietnam del Nord sono stati ricevono più aiuti da parte
dell'Unione Sovietica e cinesi che sono stati i vietnamiti del Sud degli Stati Uniti.
Nulla di tutto questo è anche lontanamente vero:

Congresso non ha "tagliato tutti gli aiuti per il Vietnam del Sud", come afferma
falsamente Kissinger. Al contrario. Congresso nell'agosto 1974 solo ridotto gli aiuti
militari a Thieu da $ 1,2 miliardi di $ 700 milioni.

I 700 milioni di dollari di aiuti militari votato dal Congresso "è apparentemente in
esecuzione a due volte quella dei cinesi e sovietiche aiuti militari al Vietnam del
Nord", secondo il New York Times il 27 marzo 1975. La CIA stima che l'aiuto
militare statunitense di 1,7 miliardi di Thieu nel 1974 era di quattro volte i $ 400
milioni da essa stimato il Vietnam del Nord ha ricevuto dall'Unione Sovietica e la
Cina. Insomma, le cifre ufficiali mostrano gli Usa hanno speso 141 miliardi dollari in
Vietnam dal 1961-'75, rispetto ai $ 7.5-$ 8 miliardi di aiuti sovietici e cinesi per il
Vietnam del Nord durante lo stesso periodo (Congressional Record14 maggio 1975).

Sorley tesi secondo cui il fallimento del Vietnam del Nord 1972 ha dimostrato
l'offensiva dell'esercito Thieu poteva stare da sola è particolarmente assurda. Sorley
si cita generale Creighton Abrams, il capo delle forze Usa nel Vietnam del Sud,
come dire "su questa questione del B-52 e l'aria tac 'è molto chiaro per me che questo
(il Thieu) il governo sarebbe ora sono caduti, e questo paese ora sarebbe andato, e
non saremmo riuniti qui oggi, se non fosse stato per il (USA) B-52 e l'aria tac. Non
c'è assolutamente alcun dubbio a riguardo ".

Durante l'offensiva del 1972, il Times segnalato il 3 maggio 1972, che "il crescente
consenso tra gli americani è qui che le forze del Vietnam del Sud si sono dimostrati
all'altezza del compito di difenderla." E il 19 maggio 1972, che "nonostante i quattro
anni di vietnamizzazione, americani e comandanti militari sudvietnamiti qui hanno
contato meno sulla truppe di terra del governo per arginare l'attuale offensiva del
Vietnam del Nord che su uno strumento di massicci bombardamenti che solo gli
americani - il B-52 "; da Anloc il 24 giugno 1972, che" consiglieri americani qui
dicono che gli elicotteri del Vietnam del Sud non volano, perché gli equipaggi sono
in preda al panico sotto il fuoco e soffrono di morale basso, e il 7 ottobre 1972, che "
entrambe le forze americane e sud vietnamita nel Vietnam del Sud dicono che la B-
52s svolto un ruolo fondamentale nel fermare la primavera del Vietnam del Nord
ultima offensiva come unità di governo sono stati disintegrando ".

Neil Sheehan riportato nel suo biografia di consigliere americano John Paul Vann,
che ha diretto degli Stati Uniti e Vietnam forze militari in Regione III nella
primavera del 1972 che "Vannini non ha visto la fallacia della sua vittoria. Egli non
vedere che nel dover assumere il controllo totale al momento della crisi , aveva
dimostrato il regime di Saigon non ha volontà propria per sopravvivere ".

Conclusione: History Repeating

Noi tutti abbiamo una tendenza naturale a voler dimenticare un passato sgradevole.
Anche molti di noi le cui vite sono state profondamente colpite dalla guerra
d'Indocina spesso preferiscono mettere quegli anni di angoscia, di divisioni e di
rabbia dietro di noi.

Purtroppo non è così semplice. Chi non sa ricordare il passato sono infatti condannati
a ripeterlo.

In futuro gli storici si meraviglia di come i leader degli Stati Uniti così
completamente omesso di imparare dai propri errori e orribili crimini in Indocina, e
hanno invece ripetuto molti di loro oggi in Iraq, Afghanistan e Pakistan. E 'chiaro a
tutti ma il più cieco o lavaggio del cervello che la lezione di base di Indocina è che
gli Stati Uniti non possono creare i governi democratici e stabili di corrotti signori
della guerra, brutale, autocratico e impopolare che non può né diretto né motivare il
proprio popolo.

Segretario di Stato Clinton non è solo storia insultante e tradire il proprio passato,
dando una piattaforma di Henry Kissinger per continuare la storia di distorsione, lei è
tradire America oggi, stupidamente perpetuare le politiche verso il mondo
musulmano che può finire solo in perdite ancora maggiori per gli Stati Uniti

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Il Brasile dopo Lula


28 settembre 2010 - Estero
Domenica prossima il Brasile sceglierà il successore di Luiz Inàcio Lula da
Silva. Quando fu eletto per la prima volta come Presidente della Repubblica nel 2002, in molti
temevano che il suo passato da sindacalista di sinistra sarebbe stato un freno per lo sviluppo
economico del paese. Al contrario, i suoi otto anni di mandato hanno segnato uno dei più notevoli
periodi di crescita della storia del Brasile. Cosa che gli ha permesso di allargare notevolmente la sua
base elettorale e conquistare anche l’appoggio degli imprenditori, tanto da ottenere la
partecipazione alla coalizione di governo del suo secondo mandato del partito centrista PMDB
(Partido do Movimento Democrático Brasileiro).
Come suo successore, Lula ha già indicato da tempo Dilma Rousseff: esponente del suo stesso
partito (Partito dei Lavoratori) ed ex capo del suo staff. Figlia di un esule, poeta e militante
comunista bulgaro, durante gli anni della dittatura militare in Brasile si era unita alla resistenza
dandosi alla macchia e diventando una guerrigliera della Vanguarda Armada Revolucionária
Palmares. Catturata dai militari, è stata anche imprigionata e torturata. La sua candidatura aveva
destato molte perplessità all’inizio, proprio perché considerata troppo di sinistra, ma dopo una
partenza a rilento i sondaggi degli ultimi mesi l’hanno vista in costante crescita: sarebbe ancora
saldamente in testa con il 50 per cento delle preferenze e non dovrebbe avere problemi a vincere al
primo turno, nonostante le accuse lanciate contro il governo di Lula la scorsa settimana le abbiano
fatto perdere quattro punti percentuali rispetto al precedente sondaggio. Giovedì Erenice Guerra –
che aveva preso il posto di Rousseff come capo dello staff di Lula – è stata infatti costretta a dare le
dimissioni dopo che la rivista Vieja l’ha accusata di essere stata al centro di un giro di tangenti e
corruzione insieme al figlio Ismael Guerra.
«La variazione nelle preferenze dipende principalmente dal caso Erenice», spiega José Luciano de
Mattos Dias, analista dell’istituto politico brasiliano CAC, «è molto facile produrre uno
spostamento di questa entità, ma perché uno scandalo possa avere un vero impatto politico in
Brasile serve ben altro: Dilma Rousseff ha ancora il sessanta per cento delle probabilità di vincere al
primo turno». «Erenice ha preso una decisione giusta», aveva detto la Roussef commentando le
dimissioni di Guerra, «la scelta migliore per il proseguimento delle indagini è quella di farsi da
parte». Poi aveva aggiunto di non essere a conoscenza del presunto traffico di soldi in seno al
gabinetto.
Nonostante il suo diretto avversario Josè Serra (Partito della Social Democrazia Brasiliana) possa
contare su un’esperienza politica trentennale - che lo ha visto ricoprire tra le altre cose incarichi
come senatore, ministro, sindaco di San Paolo e più recentemente governatore dello stato di San
Paolo – l’enorme popolarità di cui gode Lula finora ha permesso alla Rousseff di restare in testa ai
sondaggi. Ma in molti ora stanno iniziando a chiedersi quanto questo possa bastare una volta che
sarà davvero eletta come Presidente della Repubblica.
Negli ultimi otto anni Lula ha governato il paese con una rara combinazione di carisma, diplomazia
e acume politico. Doti che secondo molti mancano del tutto alla Rousseff, di cui si conoscono le
capacità tecniche e la scarsa abilità retorica. Alcuni temono addirittura che possa tornare a cavalcare
le sue posizioni marxiste più radicali, spostando l’asse del paese troppo a sinistra. Anche se il
problema più reale sembra piuttosto quello di gestire il peso dell’enorme eredità politica di Lula. E
completare quello che ha lasciato in sospeso sul fronte di educazione, pensioni e tasse.
http://www.ilpost.it/2010/09/27/elezioni-brasile-dilma-rousseff/
GIORNALISTI MINACCIATI, IL RAPPORTO OSSIGENO 2010
28 settembre 2010 - Cultura - Società

di Alberto Spaminato
Napoli, 23 settembre 2010 – Il secondo Rapporto annuale di Ossigeno che ho l’onore di presentare
al Premio Giancarlo Siani illumina un fenomeno preoccupante, poco conosciuto e sempre più
diffuso benché sia già molto esteso, anche nel nostro paese. Si tratta della censura violenta
realizzata con minacce, intimidazioni, danneggiamenti, intrusioni, ed anche azioni giudiziarie
pretestuose che ostacolano e limitano la libertà di cronaca. Per attuare questa forma estrema di
censura, in Italia, dal 1960 al 1993 sono stati uccisi undici giornalisti che ostinatamente,
coraggiosamente non volevano farsi tappare la bocca. Uno di loro era Giancarlo Siani, un brillante
giornalista di 26 anni. Fu abbattuto come un toro inferocito una sera di 25 anni, a Napoli, mentre
ritornava a casa, proprio dalla redazione del Mattino, dopo una giornata di lavoro. Per i camorristi
suoi assassini, Giancarlo meritava la morte per aver pubblicato notizie a loro sgradite. Tre mesi
prima infatti rivelato un patto segreto stipulato fra i camorristi del clan Nuvoletta e i mafiosi
corleonesi di Totò Riina. Solo Giancarlo aveva scritto quelle notizia. Solo lui aveva l’ardire di
mettere in piazza i segreti dei boss, danneggiandoli. Al giornale era stato lodato per lo scoop. Era
stato “promosso” con uno spostamento dalla redazione distaccata di Castellammare di Stabia, dove
era il corrispondente da Torre Annunziata, alla redazione centrale di Napoli. Adesso, gli avevano
consigliato alcuni colleghi, lascia perdere quelle storie che fanno inferocire i camorristi. “Chi te lo
fa fare?”, gli dicevano. E’ la vicenda raccontata nel film di marco Risi “FortApasc”. Giancarlo non
ascoltò quel consiglio, continuò a raccogliere informazioni delicate, quelle che altri scansavano o
fingevano di non sapere, e continuò a scrivere notizie sgradite. Il suo fiuto e la sua concezione del
giornalismo non gli permettevano di agire diversamente. Non riuscì a girare la testa dall’altra parte,
a mettersi al riparo neppure quando ormai il pericolo era nell’aria ed egli provava paura. In questo,
Giancarlo si comportò esattamente come gli altri dieci giornalisti uccisi in Italia: ognuno di loro fu
ammazzato perché, nonostante avvertisse la paura, era risoluto ad andare avanti, e non c’era altro
modo di fermarlo. Ho riflettuto molto su queste dinamiche, perché uno di quei testardi era mio
fratello. Si chiamava Giovanni. Gli altri si chiamavano Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Mario
Francese, Pippo Fava, Peppino Impastato, Beppe Alfano, Mauro Rostagno, Carlo Casalegno,
Walter Tobagi. Mi piace ricordare qui i loro nomi insieme a quello di Giancarlo e di Giovanni e
rendere omaggio anche alla loro memoria.
Dal 1993, in Italia non sono stati uccisi altri giornalisti. Ma le violenze non sono cessate. Risulta da
molte notizie sparse e lo conferma il Rapporto Ossigeno 2010 che, con l’elencazione dei fatti più
recenti, smentisce il luogo comune secondo il quale, per i giornalisti, il nostro sia un paese
tranquillo. Non è affatto così. Il nostro Rapporto dimostra che nel 2009 e nel 2010 in Italia
centinaia di giornalisti hanno subito gravi minacce, intimidazioni, danneggiamenti, pressioni
indebite ed altre violenze esercitate per limitare il loro diritto di raccogliere notizie nell’interesse
dell’opinione pubblica e di pubblicarle. Gli episodi da noi accertati, nel periodo gennaio 2009-
marzo 2010, sono 53. Di essi, 29 riguardano minacce individuali (nei confronti di un singolo
giornalista) e 24 sono minacce collettive. Alcune di queste ultime sono rivolte a intere redazioni, e
ciò ci fa stimare in circa 400 i giornalisti coinvolti. Non sono pochi. Sono più dei componenti del
Senato della Repubblica. E’ come se ogni comunità di 150 mila abitanti avesse un giornalista
minacciato. Quattrocento non sono pochi, ma in realtà i minacciati sono ancora di più. Il fenomeno
è molto esteso. Noi stessi non abbiamo inserito tutti i casi che ci sono stati segnalati, ma solo quelli
che siamo stati in grado di èerificare. Inoltre, una cosa è ciò che si vede, un’altra la dimensione
effettiva del fenomeno, poiché molti casi non vengono denunciati. Lo sottolinea il recente rapporto
biennale dell’UNESCO. Ciò che vediamo e possiamo misurare, l’insieme delle minacce
DENUNCIATE e degli omicidi consumati, ci ricorda l’agenzia dell’ONU che sorveglia la libertà di
informazione nel mondo, ma questa è solo la parte emergente di un fenomeno in gran parte
nascosto, “la punta dell’iceberg”, la cui parte sommersa è molto più grande.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA – Ma dove accadono cose così terribili? E’ opinione comune
che possano accadere solo nei paesi in cui la democrazia è debole e incerta o, nei paesi come il
nostro, solo nelle terre in cui la criminalità mafiosa è più radicata. Non è proprio così. Anche se è
vero che – con 23 episodi, di cui 15 nel corrente anno – la Calabria guida la classifica italiana con
una situazione estremamente allarmante, a cui tutti dovremmo prestare più attenzione e riservare più
solidarietà e più capacità di iniziativa. E’ vero che Sicilia e Campania occupano in graduatoria posti
di tutto rispetto. Ma la nostra casistica dice che le minacce ai giornalisti sono diffuse un po’ in tutte
le regioni, dal Veneto alla Lombardia, al Lazio. Questi sono i dati (il primo numero indica i casi
inseriti nel Rapporto 2010, il numero dopo il “+” i casi di cui siamo venuti a conoscenza dopo la
chiusura del Rapporto, il numero fra parentesi il dato trattato dal Rapporto Ossigeno 2009):
Calabria 8+7 (8), Sicilia 4+2, Campania 6, Lazio 9+1, Lombardia 6, Puglia 3, Basilicata 2 ,
Piemonte 2, Emilia Romagna 1
RAFFRONTO CON IL 2009 – Un anno fa, il precedente Rapporto, Ossigeno segnalò 61 episodi
nell’arco di un triennio (2006-2008), con una media di 20 minacce l’anno. I 43 episodi di questo
nuovo Rapporto segnano dunque un aumento del 100 %. L’aumento è ancora più alto per le
minacce collettive, cioè indirizzate a gruppi di giornalisti o a intere redazioni: nel 2009 avevamo
contato 9 episodi e stimato almeno duecento giornalisti coinvolti, adesso gli episodi sono 24
(+250%) e i giornalisti coinvolti sono il doppio (+100%).
Il nuovo Rapporto conferma l’allarme da noi lanciato un anno fa, a proposito di una escalation in
atto. Era pienamente giustificato. Anche autorevoli centri internazionali di monitoraggio (Freedom
House, Reporters Sans Frontieres, ed altri avevano segnalato con preoccupazione il forte
condizionamento della libertà di informazione che si realizza in Italia con la violenza contro i
giornalisti. Ma nessuno aveva previsto una progressione così veloce. Speriamo che il nostro lavoro
aiuti ad avere consapevolezza di ciò che sta avvenendo. Si può restare stupiti, increduli di fronte ai
dati che presentiamo, ma è difficile contestarli, ed è con essi che dobbiamo fare i conti. Il nostro
Rapporto elenca casi verificabili, nomi, cognomi, circostanze di ogni episodio e fa capire quali
rischi corrono i giornalisti italiani mentre cercano le notizie più delicate e scomode, quelle sgradite
a centri di potere criminale, soprattutto alla criminalità organizzata, e a potentati di altro genere. Il
Rapporto formula, inoltre, alcune proposte per ridurre i rischi a cui sono esposti i cronisti e indica
alcuni temi che meriterebbero un’attenzione e un approfondimento che finora sono mancati.
Noi pensiamo che un intralcio al diritto di cronaca sistematico, qual è quello che si concretizza in
Italia con le molteplici minacce ai giornalisti, determini un esteso oscuramento dell’informazione,
con la scomparsa di notizie di grande rilievo sociale, e perciò le minacce compromettono la
completezza dell’informazione, indeboliscono il diritto dei cittadini di essere informati e, in
definitiva, riducono gli spazi della democrazia. Ciò è chiaro a numerosi osservatori stranieri che da
tempo tengono d’occhio il caso italiano. Invece nel nostro paese il fenomeno è del tutto trascurato.
Il mondo politico non se ne occupa, le istituzioni dei giornalisti lo sottovalutano e la società civile lo
ignora. Il problema è avvolto in una nube di indifferenza che lo nasconde, che non ha
giustificazione alcuna in un paese democratico che vanta di essere la culla del diritto ed è uno dei
fondatore di quella comunità avanzati dei diritti di cui l’Unione Europea è presidio con le sue alte
istituzioni. In questo assordante silenzio, in Italia centinaia di giornalisti, e i loro giornali, si trovano
esposti senza speciali protezioni a condizionamenti e minacce gravi e ricorrenti.
Non si dovrebbero tacere queste cose. Non si dovrebbero lasciare soli i singoli cronisti di fronte a
un problema così grande. Non è degno di una società civile. Anche perché la disattenzione pubblica
incoraggia comportamenti negativi. Ad esempio, incoraggia chi per paura o per opportunismo,
invece di mettersi al fianco di un onesto giornalista minacciato, invece di circondarlo di solidarietà,
lo irride con una domanda cinica molto ricorrente: “Ma chi te lo fa fare?”. Purtroppo anche molti
giornalisti dicono questa frase. Alcuni lo fanno per leggerezza, e bisogna solo aiutarli a capire come
stanno le cose. Altri invece “Chi te lo fa fare?” lo dicono con furbizia e malizia, con l’aria saputa di
chi conosce il mondo e indicano l’autocensura come il modo migliore di prevenire le minacce.
L’autocensura, in realtà , è l’antitesi del giornalismo, ma costoro la vantano apertamente come un
“trucco” del mestiere. Ma di quale mestiere?, vorrei chiedere. Nascondere le informazioni, fare la
raccolta differenziata delle notizie, farsi guidare dalla paura, guardare i fatti con i paraocchi o con
gli occhi del più forte: queste cose non hanno niente a che fare con il giornalismo, non si conciliano
con i doveri dei giornalisti .
Ciò era vero ai tempi di Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese nel 1960 per le sue coraggiose
inchieste sugli intrecci fra mafia e politica. Era vero nel 1972 quando fu ucciso Giovanni
Spampinato. Era vero nel 1985, quando fu ucciso Giancarlo Siani. Era vero ed era difficile
affermarlo. E’ vero anche oggi e forse è altrettanto difficile, duole dirlo, vedere queste regole
elementari pacificamente accettate. Ma noi non potremmo onorare la memoria di Giancarlo e di
tutti i valorosi giornalisti uccisi in Italia senza riaffermare questa verità, senza denunciare l’irrisione
dei pavidi e il fatalismo di chi, di fronte al triste stato di fatto di gran parte del giornalismo italiano,
di fronte a una strage di principi e di diritti che grida vendetta, pensa che l’unica cosa da fare sia
omologarsi al livello più basso, mettendo da parte impegno civile, concezioni ideali, etica e
deontologia, in definitiva il proprio onore. Il giornalismo italiano soffre molti guai: precariato,
mancanza di lavoro, mancanza di risorse, partigianerie… Ma niente di tutto ciò può giustificare
l’apologia di comportamenti che con il giornalismo non hanno niente a che fare. Se si lasciano
correre queste cose, Giancarlo Siani e tutti gli altri valorosi giornalisti alla cui memoria rendiamo
onore anche oggi, non appariranno come giornalisti esemplari che pur di tenere la schiena dritta si
sono fatti uccidere, che pur di scrivere notizie senza accettare imposizioni hanno dominato la paura
e hanno accettato il rischio di essere uccisi. Appariranno soltanto dei pazzi suicidi che si sono
ammazzati dando testate al muro, e non nascondiamoci che tali a volte si cerca di farli apparire. La
storia di ognuno di loro dice ben altro, e dovremmo impegnarci di più per farlo sapere a tutti,
soprattutto ai più giovani, soprattutto a chi vuole diventare giornalista. Anche perché ognuna di
quelle storie ci riporta ai drammi di oggi, e ci aiuta a capirli.
FORME DI INTIMIDAZIONE – Dal 1993 in Italia non sono stati uccisi altri giornalisti. Ma si è
continuato a fare ricorso a mezzi violenti e a pressioni indebite per mettere a tacere cronisti ed
opinionisti, per intimidirli, per fermare inchieste, notizie, interpretazioni considerate sgradite. I
metodi più praticati sono le lettere e le telefonate minatorie 19 +9 (17) a cui se ne devono
aggiungere 2 via web: 2. Risultano anche 10 +3 (16) aggressioni fisiche e 9 +1 (8) le intrusioni, i
danneggiamenti.
RISARCIMENTI IN DENARO – Si usano anche metodi più subdoli ma altrettanto efficaci:
interventi sulla proprietà dei giornali, avvertimenti trasversali e allusivi che possono giungere per
vie inaspettate, richieste pretestuose di smentite. Cose che sfuggono a qualsiasi rilevazione. Poi ci
sono, sempre più praticate, le citazioni presso il Tribunale civile per ottenere risarcimenti in denaro
spropositati, senza alcuna commisurazione al danno subito e alle capacità economica del giornale e
del giornalista citato, e senza che sia stata presentata una denuncia per diffamazione e che sia stato
accertato il dolo in sede penale. Ne abbiamo censite 13+1 (8). Le più clamorose sono state
promosse dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro la Repubblica, che insisteva a porgli
dieci domande sul caso Noemi, e contro l’Unità, per la stessa vicenda. La richiesta era di un milione
di euro. Un’altra è stata promossa contro il giornalista Rino Giacalone dal sindaco di Trapani, che
ha chiesto 50 mila euro per un articolo molto critico sul suo operato. Ha fatto sensazione anche la
condanna in appello del Messaggero a risarcire con 2 milioni e 400 mila euro, e del critico musicale
Alfredo Gasponi a risarcire a sua volta con 500 mila euro, gli orchestrali di Santa Cecilia per una
intervista del 1996 in cui il direttore d’orchestra Wolfgang Sawallisch esprimeva giudizi poco
lusinghieri.
PERQUISIZIONI INVASIVE – I cronisti giudiziari sono esposti a un altro genere di pesanti
intimidazioni: a volte trovano sulla loro strada magistrati permalosi e risentiti per una fuga di
notizia, magistrati che invece di prendersela con le fonti – spesso altri magistrati o funzionari
pubblici tenuti a mantenere il segreto – se la prendono con i giornalisti, mettendoli sotto inchiesta,
sottoponendoli a pressioni affinché rivelino le loro fonti confidenziali, colpendoli con perquisizioni
invasive e con il sequestro dei loro strumenti di lavoro e dei loro archivi. La legislazione italiana
consente questi ed altri abusi dell’azione giudiziaria, che per fortuna sfociano quasi sempre in
sentenze assolutorie. Nel Rapporto elenchiamo 13 +1 (15) casi del genere e segnaliamo il vuoto
legislativo che c’è, a questo proposito nel nostro ordinamento, un vuoto da colmare. Si dovrebbe
colmare. Nel paese in cui si è cercato di imporre la legge bavaglio, senza riuscirci a causa della
imponente mobilitazione dei giornalisti e dell’opinione pubblica, noi osiamo chiederlo perché è una
richiesta giusta e una misura necessaria. Come si potrebbe riempire questo vuoto? Un esempio da
seguire ci viene proprio in queste settimane dalla Germania Federale dove, per iniziativa della
maggioranza di governo, il parlamento sta modificando il codice penale per affermare
esplicitamente il fatto che un giornalista che pubblica una notizia riservata rivelata
confidenzialmente da pubblici funzionari, magistrati, servizi segreti, anche se si tratta di atti
giudiziari o del testo di intercettazioni, non può essere perseguito legalmente dalla magistratura. In
questi casi i giudici dovranno perseguire senza deroghe soltanto la “fonte” che ha violato il segreto.
E’ una riforma di grande civiltà che farebbe bene al nostro paese.
UN’AGGRAVANTE – Noi pensiamo, e lo scriviamo nel Rapporto, che ci vorrebbe anche un’altra
riforma legislativa per rafforzare la sicurezza dei giornalisti: dovrebbe esserci una aggravante
specifica per tutti i reati commessi con la finalità di ostacolare il diritto di cronaca e per riflesso il
diritto dei cittadini di essere informati. E’ una norma pienamente giustificata di fronte a un così
diffuso e ricorrente ricorso a forme di violenza contro i giornalisti e contro la loro attività
professionale.
REATO DI OSTACOLO ALL’INFORMAZIONE – Inoltre, a nostro avviso, si dovrebbe introdurre
nel codice un nuovo reato, quello di ostacolo alla libera informazione, una norma positiva per
rafforzare la difesa di un diritto sancito dalla Costituzione e dalla Carta fondamentale dei diritti
europei, così ampiamente e impunemente violato. Sappiamo che è difficile, che la strada maestra
va in direzione opposta, verso la depenalizzazione di molti reati. Ma sarebbe utile aprire il dibattito
sulla protezione legislativa dei giornalisti partendo proprio da questo punto, per approdare magari, a
ragion veduta, a una sanzione di tipo civilistico. Il percorso che indico aiuterebbe a costruire la
consapevolezza del problema presso l’opinione pubblica, e quindi ad avviare la soluzione
legislativa. Farebbe capire come vanno le cose nel nostro e in altri paesi, e farebbe vedere
chiaramente quali sono le falle da riparare. Vale ricordare che nel suo ultimo rapporto biennale,
l’Unesco ha indicato fra le priorità quella di adeguare le legislazioni in modo da ridurre
‘’l’impunità’’ generalizzata di cui godono coloro che uccidono i giornalisti o esercitano altre forme
di violenza nei loro confronti. Se Ossigeno riuscirà ad andare avanti, raccoglierà su questi temi
autorevoli opinioni e promuoverà un convegno ad hoc.
TUTELA LEGALE – Alla luce di queste considerazioni, inoltre, è evidente la necessita di offrire
un servizio di assistenza legale ai giornalisti minacciati. Ma è altrettanto necessario trovare nuove
forme di solidarietà per i giornalisti minacciati e trovare nelle redazioni modalità organizzative che
rafforzino la sicurezza dei cronisti più esposti.
PROBLEMI DI OSSIGENO – Come dicevo all’inizio, non abbiamo inserito nel Rapporto alcuni
casi, probabilmente veri, che ci sono stati segnalati. Voglio spiegare perché: non siamo stati in
grado di verificarli con il rigore che ci siamo imposti. Sarebbe stato necessario mandare in Sicilia,
in Calabria o altrove inviati di fiducia. Non avevamo i mezzi per farlo. L’Osservatorio Ossigeno,
purtroppo, ancora non dispone delle risorse per sostenere queste e altre spese inevitabili. Come
spiega nell’intro-duzione il nostro direttore scientifico, Angelo Agostini, questo Rapporto, come il
precedente, è stato realizzato capitalizzando l’impegno civile e la testardaggine di un gruppo di
volontari che pur di procedere hanno provveduto personalmente alla copertura delle spese e che,
dovendo di conseguenza limitare la loro attività, hanno scelto di privilegiare l’attendibilità dei
contenuti rispetto all’ampiezza della descrizione.
META-RAPPORTO – A causa di queste limitazioni, definiamo il documento di quest’anno un
Rapporto a metà, un meta-rapporto, un documento a metà strada rispetto all’obbiettivo che ci
eravamo posto. Ciò non toglie importanza alle rilevazioni che presentiamo e all’orgoglio con cui
presentiamo un secondo Rapporto Ossigeno dopo quello, molto eloquente, del 2009
ARRIVEDERCI FORSE – Ci corre infine l’obbligo di dire che allo stato attuale non siamo in grado
di garantire che nel 2011 riusciremo a produrre un Rapporto aggiornato. Le condizioni di incertezza
e di precarietà di Ossigeno si sono già protratte troppo a lungo e hanno esaurito la spinta che ci ha
portato fin qui. Senza l’apporto di risorse fresche e qualche disponibilità finanziaria non potremmo
fornire ancora un quadro serio ed attendibile. Lo abbiamo spiegato con franchezza ai vertici della
FNSI e all’Ordine dei Giornalisti, che sono i promotori dell’Osservatorio, e che ringraziamo per
avere avuto la sensibilità di istituire Ossigeno colmando un vuoto che si avvertiva da molti anni.
Recentemente abbiamo avuto incoraggianti assicurazioni. Siamo fiduciosi che si possano tradurre
presto in impegni concreti, in decisioni che diano all’osservatorio le gambe per camminare.
Relazione di Alberto Spampinato,direttore di Ossigeno per l’Informazione al convegno sui
cronisti minacciati, promosso dal Premio Siani, durante il quale è stato presentato il
RAPPORTO OSSIGENO 2010
http://www.gliitaliani.it/2010/09/giornalisti-minacciati-il-rapporto-ossigeno-2010/
Gran Bretagna, Italia2013

Ed Miliband e il nuovo corso del Labour

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Le sfide per i laburisti sono ciclopiche, e lo sono per tutta la socialdemocrazia europea. Non importa quale via Miliband prenderà, la prima, la seconda, la
terza. È semplicemente la nuova generazione, con il suo vissuto e la sua epoca come esperienza

di Mattia Diletti, Italia2013.wordpress.com

1. La prima notizia è che ben due figli di Ralph Miliband – non uno, due: Ed e David – si sono battuti per
divenire segretari del partito laburista. Chissà cosa avrebbe pensato il padre, uno dei grandi pensatori
marxisti del secondo ‘900, fondatore della New Left Review e soprattutto autore di un libro (certo, non la
sua opera più importante) dal titolo Parliamentary Socialism: A Study of the Politics of Labour, nel quale
criticava aspramente il parlamentarismo del Partito Laburista. Le sue tesi divennero la base teorica sulla
quale si formarono i leader della New Left britannica, in opposizione al governo laburista eletto nel 1964.
Ralph – che potete salutare al cimitero di Highgate a Londra, proprio accanto alla tomba di Marx – non
avrebbe votato per nessuno dei due figli; la madre, Marion Kozak, avrebbe confessato a Ed che nel primo
ballottaggio la sua preferenza sarebbe andata a Diane Abbott, la rappresentante dell’estrema sinistra del
partito.

Vale la pena perdere un po’ di tempo su questa saga familiare, che se non fosse vera parrebbe uscita da
un romanzo (poi parliamo di politica). La casa a nord di Londra dove i Miliband si trasferirono nel 1965 –
l’anno della nascita di David – era un sorta di open-house per l’intellighenzia della sinistra mondiale:
David ci vive ancora, e con suo fratello Ed poteva ascoltare e partecipare alle discussioni che si
svolgevano in quella casa. Robin Blackburn, un altro ex direttore della New Left Review, ricorda che Ed
era capace di mettere a posto un cubo di Rubik in un minuto e venti secondi: chissà Tony Blair e Gordon
Brown che tempi avevano. E Blackburn pensa che il padre, oggi, sarebbe stato al tempo stesso
orgoglioso, divertito e inorridito nel vedere questo Labour (per chi avesse voglia di guardarlo, la BBC ha
prodotto un documentario sul rapporto tra Ralph Miliband e i suoi figli). La mamma dice che i suoi figli
sono "due socialdemocratici": e non sembra volerlo intendere come complimento. Altri tempi quelli di
Marion Kozak e Ralph Miliband (da poco è stata ripubblicata una nuova edizione del suo celebre The State
in Capitalist Society, con prefazione di Leo Panitch).

2. Sulla fine della terza via non avevamo dubbi – qui linkiamo per l’ennesima volta la nostra recensione al
testo di Giuseppe Berta L’eclisse della socialdemocrazia (dove si spiega perfettamente il perché della crisi
del’ideologia della terza via), mentre il post precedente a questo parla di quanto sta avvenendo, in
parallelo, nell’SPD tedesca – e adesso è arrivata la definitiva sanzione politica della fine di quella stagione:
tant’è che ha vinto un candidato poco conosciuto – Ed – contro uno che aveva già un profilo
politico/culturale dal quale non poteva prescindere. Un profilo che gli è stato fatale, nonostante David sia
assai meno blairiano di quello che la vulgata racconta. Third way is over.

Il Labour volta pagina in un momento drammatico, come fu quello del 1980, dopo la vittoria della
Thatcher. La notizia è che ne sono capaci, e che decidono di farlo virando a sinistra. Cosa questo
significhi, probabilmente non lo avrà chiaro nemmeno Ed: sappiamo che per cultura è un sostenitore delle
organizzazioni grassroots, immagina cioè un partito più aperto e dinamico nell’affiancare le richieste di
rinnovamento che provengono dalla società (pare che su questo abbia preso dalla madre). Qualunque sia
il profilo nuovo del Labour, la grande differenza con l’Italia è che il dibattito rimane, comunque, dentro i
binari della tradizione laburista, per il semplice fatto che la crisi del post ’89 – un fatto anche tra i partiti
socialdemocratici – non è stato lo tsunami che ha colpito il nostro paese.

E’ un bene? E’ un male? Dipende: se sono radici che permettono un’espansione e un rinnovamento della
propria cultura e base sociale sì; altrimenti sono una terribile zavorra, oppure strumenti buoni per vincere
un Congresso e poco più (specialmente quando il dato è un crisi strutturale del pensiero
socialdemocratico europeo). Però garantiscono una solidità, che si è mostrata in un dibattito congressuale
interessante; una solidità che aiuta nei momenti di crisi. Per cui Ed può dire queste cose: "Il New Labour,
sfortunatamente, è diventato il partito dei banchieri", oppure "Siamo passati dalla pace col capitalismo a
dire che non possiamo criticare il capitalismo. Io sono socialista perché critico le ingiustizie che il
capitalismo crea". Lo dice e non appare troppo bizzarro.

3. Il sindacato si è fatto avanti nel trovare un suo candidato proprio pensando agli anni della Thatcher (un
terzo dei membri del Congresso del Labour sono delegati di espressione sindacale, il principale azionista
del partito): sebbene si tratti di un sindacato che conta appena la metà degli iscritti di 30 anni fa – 7
milioni contro 13 del 1980 – è pur sempre una delle forze sociali più rilevanti del paese. Come sottolinea
l’Economist della scorsa settimana, sono solo 4 milioni gli inglesi che vanno in chiesa regolarmente: si
crede di più nel sindacato che nella Chiesa anglicana.

Il punto è chiaro: il sindacato inglese – che ha tanti difetti quanto i nostri – non può permettersi un’altra
stagione di sconfitte, come avvenne negli anni ’80. Pena la sua estinzione. Il terreno del conflitto è il
settore pubblico, dove si concentra ormai il grosso degli iscritti: la politica di austerità promessa dal
governo – se ne conosceranno i contenuti il 20 ottobre, quando Cameron mostrerà i suoi piani – è una
minaccia reale. Dai lavoratori dei trasporti a quelli della scuola, il messaggio è chiaro: non pagheremo noi
la crisi finanziaria, non venite da noi a cercare i soldi per aggiustare il deficit provocato dalla crisi
(generata dalla City). Il governo Lib-con intende approvare tagli imponenti della spesa che penalizzeranno
inevitabilmente i lavoratori del settore pubblico (si parla della riduzione del 25% della spesa per ogni
ministero, altro che Tremonti).

I sindacati dicono "alzate le tasse ai ricchi" (e varie altre cose più complesse, che riguardano il ritorno
dell’utilizzo della leva dell’investimento pubblico come volano della crescita economica). Ed Miliband ha
sposato questa causa, sapendo che il governo Cameron è molto più debole di quello Thatcher del 1979: è
anch’esso vittima della grande disaffezione verso la politica e le istituzioni che attraversa il mondo
occidentale; è un governo di coalizione; parte consistente dell’elettorato inglese potrebbe essere
spaventato dall’idea di perdere – o pagare di più – l’accesso ai servizi pubblici.

4. Le sfide sono ciclopiche, e lo sono per tutta la socialdemocrazia europea. Comunque la mettiate, fino a
oggi i partiti e i sindacati sono state forze che continuano a implodere su sé stesse, le loro culture
politiche anche. E’ un dato che arriva persino dalla Svezia, dove i socialdemocratici hanno ottenuto il
peggior risultato elettorale dal 1914. "C’è una malattia che erode la sinistra come il centro-sinistra,
perché non sembra risparmiare né le incarnazioni moderate e volte a rincorrere il voto dell’elettore di
centro né quelle più inclini a conservare l’anima sociale e le aspirazioni all’eguaglianza della tradizione
socialista. Ovunque si registra un’emorragia di consensi che mette in discussione il ruolo e la capacità
d’azione di partiti costretti a oscillare fra il tentativo di rinverdire le loro radici e quello di sbiadire la loro
identità storica, fino ad annullarsi in un appello alla modernizzazione in cui si cancella ogni discrimine di
classe” (Giuseppe Berta sul Sole24Ore).

Questi partiti non sanno bene ancora come reagire – in modo originale – a fenomeni che hanno ormai più
di venti anni: la globalizzazione; il declino politico dell’Europa; l’aumento massiccio dell’immigrazione e la
reazione razzista dei ceti popolari e delle classi medie; la debolezza della politica di fronte al potere
finanziario ed economico; l’evaporazione pubblica della frattura capitale/lavoro, a lungo elemento
fondante dell’identità politica di quei partiti. E’ chiaro che la vittoria di Ed e dei sindacati porterà di nuovo
in auge – per la prima volta dopo molti anni – il conflitto sociale e una parvenza di scontro culturale
(guardate qui come l’ha presa male l’Economist: Ed proprio non gli piace). Ma perché il Labour abbia un
futuro, dobbiamo sperare che abbia ragione un principe delle tenebre blairiano come Lord Mandelson che
– riporta Fabio Cavalera sul Corriere della Sera – non lo ha votato ma ne dà un giudizio lusinghiero: "Un
ragazzo di straordinaria intelligenza. Rappresenta il nuovo, non più blairiano, non più browniano. Dirigente
pragmatico che coniuga il presente con il nobile passato del progressismo". Non importa che via sia, la
prima, la seconda, la terza… semplicemente la nuova generazione, con il suo vissuto e la sua epoca come
esperienza.

Italia2013

TAGS gran bretagna labour ed miliband


28/09/2010 14:14

L’impero off shore di Berlusconi


di Il fatto Quotidiano - 26 settembre 2010

Fini ha ragione: grazie ai conti nei paradisi fiscali il premier ha pagato mazzette ed
evaso il fisco
La falsa campagna moralizzatrice dei “berluscones” contro le società off shore, per colpire
Gianfranco Fini, non poteva che provocare una facile risposta del presidente della Camera, dopo la
rottura con il cavaliere: “Sia ben chiaro: personalmente non ho né denaro, né barche, né ville
intestate a società off shore, a differenza di altri che hanno usato, e usano, queste società per meglio
tutelare i loro patrimoni familiari o aziendali e per pagare meno tasse”. Sottinteso, naturalmente, il
nome di Silvio Berlusconi, il re dei fondi neri all’estero. Lo hanno accertato sentenze definitive.
Come quella per il corrotto e prescritto avvocato David Mills, il mago delle off shore del premier.
O la sentenza del processi All Iberian 2, che ha accertato una colossale evasione fiscale, 1500
miliardi di lire, ma non ha potuto decretare la condanna di Berlusconi. Come? Grazie a una delle
sue leggi, quella sulla depenalizzazione del falso in bilancio, “ il fatto non costituisce più reato”.

Ville, barche e soldi


Fini ha parlato anche di ville e barche. Si riferiva ad almeno sei ville che il suo ex alleato possiede
tra Antigua e le Bermuda, intestate a off shore. Berlusconi è proprietario anche di una barca di 48
metri, valore all’incirca 13 milioni di euro. È intestata alla società Morning Glory Yachting
Limited, neanche a dirlo, con sede alle Bermuda.
Il salto verso i fondi neri, il Cavaliere l’ha compiuto a metà anni ’90 servendosi di Mills,
soprannominato l’architetto delle off shore. Le società occulte all’estero hanno permesso a
Berlusconi di accantonare centinaia di miliardi di lire, di evadere il fisco, di pagare mazzette, come i
21 miliardi a Bettino Craxi, di eludere la legge Mammì, che all’epoca impediva a un editore di
avere più di 3 televisioni. Il cavaliere, invece, era anche l’azionista di maggioranza, segreto, di Tele
più. La sentenza di primo grado del processo Fininvest- Gdf del ’96 ha stabilito che alcuni militari
delle fiamme gialle si sono fatti corrompere proprio per non indagare sulle off shore del biscione. In
appello e in Cassazione le prove per condannare il premier non sono state ritenute sufficienti. In
secondo grado ha contribuito alla sua salvezza, la falsa testimonianza di Mills del novembre ’97.
Sappiamo adesso che per quella, come per un’altra deposizione reticente, al processo All Iberian,
gennaio ’98, il legale ha avuto 600 mila dollari. E per queste dichiarazioni taroccate in suo favore,
Berlusconi è ancora sotto processo. Sospeso, come gli altri procedimenti, grazie ai vari scudi.
Ai giudici milanesi di All Iberian, Mills ha nascosto tra l’altro anche i reali beneficiari di “Century
One” ed “Universal one”, le due off shore nell’isola di Guarnsey, intestate a Marina e Piersilvio
Berlusconi, per decisione del padre. Un fatto che scopriranno nel 2004 i pm Fabio De Pasquale e
Alfredo Robledo. Mentre i difensori di Berlusconi fino ad allora avevano ripetuto che erano “
società del tutto estranee a Fininvest e Mediaset”.

I falsi in bilancio
I falsi in bilancio, conseguenza del vizietto delle off shore, hanno portato a un altro processo: quello
per la compravendita dei diritti tv di Mediaset. Ma grazie a un’altra delle leggi ad personam, la
ex Cirielli, che ha accorciato la prescrizione, sono state azzerate la frode fiscale per 120 miliardi di
lire e l’appropriazione indebita per 276 milioni di dollari, fino al 1999. Restano in piedi quelle fino
al 2003. C’è poi una costola di questa indagine, denominata “Mediatrade-Rti”, in fase di udienza
preliminare, bloccata sempre per il legittimo impedimento. Berlusconi è accusato di appropriazione
indebita e frode fiscale. Mentre il figlio Piersilvio e il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri di
frode fiscale, fino al settembre 2009. Secondo la procura di Milano, Mediaset avrebbe nuovamente
falsificato i bilanci e gonfiato i costi per l’acquisto di diritti tv da major americane. I soldi, 100
milioni di dollari, sarebbero transitati su banche estere e, in gran parte, confluiti su conti riconducili
a Berlusconi e ad alcuni suoi manager. A Silvio Berlusconi, sono contestate operazioni tra il 2002 e
il 2005. Anni, come per l’inchiesta madre, in cui era sempre presidente del Consiglio.
Fausse résistance et vraies manipulations
La géopolitique d’Internet
par Domenico Losurdo*

Formidables vecteurs de diffusion des idées, mais aussi redoutables moyens de manipulation des
masses pour atteindre des objectifs de politique intérieure et extérieure, les médias ont toujours été
une arme à double tranchant. Avec l’arrivée des nouvelles technologies qui permettent, outre la
mobilisation de l’opinion à plus grande échelle, l’intrusion des pouvoirs économique et politique dans
la vie privée, les visées géostratégiques ont trouvé un nouveau vecteur leur permettant plus que
jamais d’avancer masquées. Revenant sur quelques cas médiatiques illustrant bien le phénomène,
Domenico Losurdo conclut son étude par une note d’espoir : les mouvements de résistance à l’Empire
s’approprient de mieux en mieux les nouvelles technologies de communication.

22 SEPTEMBRE
2010

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Guerres de basse
intensité Lancement de Google Chine

Surveillance des Google défie le gouvernement de la République populaire de Chine : la grande presse d’
populations « information » applaudit à tout rompre la rigueur morale et le courage d’une
multinationale prête à payer le prix fort en termes économiques afin de ne pas se
Communication soumettre aux impositions de la censure et réaffirmer le droit humain à la libre information.
En vérité, fût-ce de façon très minoritaire, quelque voix se fait aussi entendre pour appeler
à une plus grande prudence : n’y a-t-il que de nobles motivations comme explications du
coup de Google ou bien des considérations d’une autre nature sont-elles aussi à l’œuvre ?
Le grand geste pourrait n’être que le coup de théâtre d’une accorte campagne de public
relations : tourner le dos avec éclat à un marché certes assez prometteur mais pour lequel
la concurrence locale est aguerrie et conquérante, peut en fin de comptes profiter à l’image
et aux profits de la multinationale états-unienne, en lui ouvrant la voie pour une expansion
dans d’autres pays et au niveau mondial… Et, donc, dans le scénario traité en Italie par les
organes de presse les plus « anticonformistes », le calcul utilitaire émerge ainsi à côté des
droits de l’homme. La géopolitique, par contre, continue à être absente, laquelle pourtant,
pour un observateur plus attentif, s’avère être l’authentique protagoniste. Pour en rendre
compte, faisons un saut en arrière d’environ soixante ans, en nous concentrant sur une
affaire, ici reconstruite à partir d’un récent article d’Alessandra Farkas sur le Corriere della
Sera.

« Un mystérieux vent de folie collective »


Le 16 août 1951, des phénomènes étranges et inquiétants vinrent troubler Pont-Saint-
Esprit, « un village tranquille et pittoresque » situé « dans le Sud-est de la France ». Oui,
« le pays fut secoué par un mystérieux vent de folie collective. Cinq personnes au moins
moururent, des dizaines finirent à l’asile, des centaines donnèrent des signes de délire et
d’hallucinations […] Beaucoup finirent à l’hôpital avec la camisole de force ». Le mystère,
qui a longtemps entouré cet éclat de « folie collective », est maintenant dissipé : il s’agît
d’une « expérimentation menée par la CIA, avec la Special Operation Division (SOD),
l’unité secrète de l’Armée USA de Fort Detrick au Maryland » ; les agents de la Cia
« contaminèrent au LSD les baguettes vendues dans les boulangeries du pays », causant
les résultats que nous avons vus ci-dessus. Nous sommes aux débuts de la Guerre froide :
bien sûr les Etats-Unis étaient des alliés de la France, mais c’est justement pour ça que
celle-ci se prêtait aux expérimentations de guerre psychologique qui avaient certes comme
objectif le « camp socialiste » (et la révolution anticoloniale) mais pouvaient difficilement
être effectuées dans les pays situés au-delà du rideau de fer [1]. Posons-nous alors cette
question : l’excitation des masses ne peut-elle être produite que par voie
pharmacologique ? Les événements qui, sur la fin de la Guerre froide, balaient le « camp
socialiste », par ailleurs largement discrédité et affaibli, laissent pensifs. Le 17 novembre
1989, la « révolution de velours » triomphait à Prague, avec un mot d’ordre qui se voulait
gandhien : « Amour et Vérité ». En réalité -confesse de nos jours l’International Herald
Tribune - un rôle décisif fut joué par la diffusion de la fausse nouvelle selon laquelle un
étudiant avait été « brutalement tué » par la police. Si dans le cas de la Tchécoslovaquie se
révélèrent suffisantes deux « petites » manipulations (d’un côté la transfiguration des
leaders de la révolte en dévots gandhiens du culte de la vérité et de la non-violence, de
l’autre la production savante et la diffusion de « nouvelles » destinées à susciter
l’indignation de masse), plus compliquée fut la promotion quelques semaines plus tard, de
la révolte qui renversait en Roumanie la dictature de Ceausescu. La mise en scène, dans
ses lignes générales, ne change pas : il s’agissait toujours de discréditer et même de
diaboliser le pouvoir à renverser, pour en faire une cible facile d’indignation de masse
alimentée savamment et sans l’ombre d’un scrupule. Oui, mais comment atteindre cet
objectif dans la situation concrète de la Roumanie de la fin de 1989 ? A partir d’un certain
moment, les médias occidentaux commencèrent à diffuser massivement dans la population
roumaine, et même à bombarder sur elle, les informations et les images du « génocide »
perpétré à Timisoara par la police de Ceausescu. Qu’était-il arrivé en réalité ? Laissons la
parole à un prestigieux philosophe (Giorgio Agamben), qui ne fait pas toujours preuve de
vigilance critique à l’égard de l’idéologie dominante mais qui a synthétisé ici de façon
magistrale l’affaire dont nous traitons :
« Pour la première fois dans l’histoire de l’humanité, des cadavres à peine enterrés ou
alignés sur les tables des morgues ont été déterrés en hâte et torturés pour simuler devant
les caméras le génocide qui devait légitimer le nouveau régime. Ce que le monde entier
avait sous les yeux en direct comme vérité sur les écrans de télévision, était l’absolue non-
vérité ; et bien que la falsification fût parfois évidente, elle était de toutes façons
authentifiée comme vraie par le système mondial des médias, pour qu’il fût clair que le vrai
n’était désormais qu’un moment du mouvement nécessaire du faux ».
La fin de la Guerre froide n’était pas la fin du Grand jeu. Pour les Usa, liquider le « camp
socialiste » et démembrer l’Union soviétique ne suffisait pas ; il fallait aussi promouvoir et
imposer en Europe orientale l’ascension au pouvoir de leaders totalement liés à
Washington. En Georgie, à un certain moment même Edouard Chevardnadze (jusque là
estimé et apprécié en Occident pour le rôle « démocratique » qu’il avait joué aux côtés de
Gorbatchev dans la dissolution du « camp socialiste » et, plus tard, allant même au-delà de
Gorbatchev lui-même, dans la dissolution de l’Union soviétique) devenait un leader
indésirable et à remplacer. C’est la tâche qui fut confiée à la fameuse « révolution des
roses » [2]. Je me centre sur quelques uns de ses moments-clé, en me servant de la
reconstruction parue sur une revue française réputée de géopolitique. Des télévisions
géorgiennes aux mains de l’opposition et des médias occidentaux s’emploient à une
campagne conjointe et incessante :
« La corruption du régime est montrée sous tous ses aspects. En n’hésitant pas à mentir
au besoin. Mi-novembre, des magazines allemands affirment que des proches de
M. Chevardnadze ont acheté pour lui une luxueuse villa dans la ville thermale de Baden-
Baden, dan le sud de l’Allemagne. Bild affirme que la résidence est estimée à 11million
d’euros. L’information n’est pas confirmée. Qu’importe […] Une de nos sources nous
apprendra plus tard que la photo exhibée a été prise au hasard sur Internet »
Après la proclamation des résultats électoraux qui signent la victoire de Chevardnadze et
qui sont taxés de frauduleux par l’opposition, celle-ci décide d’organiser une marche sur
Tbilissi, qui devrait sceller « l’arrivée symbolique, et pacifique même, dans la capitale, de
tout le pays en colère ». Bien que convoquées de tous les coins du pays à grands renforts
de moyens propagandistes et financiers, ce jour-là affluent pour la marche entre 5 000 et
10 000 personnes : « ce n’est rien pour la Géorgie » ! Et pourtant grâce à une mise en
scène sophistiquée et de grande professionnalité, la chaîne de télé la plus diffusée du pays
arrive à communiquer un message totalement différent : « L’image est là, puissante, celle
d’un peuple entier qui suit son futur président ». Désormais les autorités politiques sont
délégitimées, le pays est désorienté et abasourdi et l’opposition plus arrogante et agressive
que jamais, d’autant plus que les médias internationaux et les chancelleries étrangères
l’encouragent et la protègent. Le coup d’Etat est mûr, il va porter au pouvoir Mikhaïl
Saakashvili, qui a fait ses études aux USA, parle un anglais parfait et est en mesure de
comprendre rapidement les ordres de ses supérieurs.

Les « guerres sur Internet »


Nous avons vu jusqu’ici la transformation de l’ « absolue non-vérité » en « vérité vraie » et
incontestable, passer en premier lieu à travers les « écrans de télévision » tandis que le
rôle d’Internet était secondaire et négligeable. Mais il est intéressant de noter que dès la fin
des années 90, sur l’International Herald Tribune un journaliste (Bob Schmitt) observait :
« Les nouvelles technologies ont changé la politique internationale ». Ceux qui étaient en
mesure de les contrôler voyaient augmenter démesurément leur pouvoir et leur capacité à
déstabiliser des pays plus faibles et technologiquement moins avancés. En effet, avec
l’avènement et la généralisation d’Internet, Facebook, Twitter, une nouvelle arme a
émergé, susceptible de modifier profondément les rapports de force sur le plan
international. Ceci n’est plus un secret pour personne. De nos jours, aux USA, un roi de la
satire télévisée comme Jon Stewart proclame : « Mais pourquoi envoyons-nous des armées
s’il est aussi facile d’abattre les dictatures via Internet que d’acheter une paire de
chaussures ? » La signification militaire des nouvelles technologies est ici explicitement
soulignée et revendiquée : le droit de Washington à juger et condamner souverainement
restant inchangé, il est maintenant possible d’avoir recours à des armes nouvelles et plus
sophistiquées pour punir les coupables et les rebelles. Mais Internet n’est-il pas l’expression
même de la liberté d’expression ? Ceux qui argumentent ainsi ne sont que les plus démunis
(et les moins scrupuleux). En réalité – reconnaît Douglas Paal, ex collaborateur de Reagan
et de Bush senior - Internet est actuellement « gérée par une ONG qui est de fait une
émanation du Département du Commerce des USA ». S’agit-il seulement de commerce ?
L’hebdomadaire allemand Die Zeit demande des éclaircissements à James Bamford, un des
plus grands experts en matière de services secrets états-uniens : « Les Chinois craignent
aussi que des firmes américaines comme Google soient en dernière analyse des outils des
services secrets américains sur le territoire chinois. Est-ce une attitude paranoïde ? » « Pas
du tout » est la réponse immédiate. Au contraire -ajoute l’expert - même des
« organisations et institutions étrangères sont infiltrées » par les services secrets états-
uniens, lesquels sont de toutes façons en mesure d’intercepter les communications
téléphoniques dans tous les coins de la planète et doivent être considérées comme « les
plus grands hackers du monde ». Désormais -affirment encore sur Die Zeit deux
journalistes allemands - il n’y a aucun doute :
« Les grands groupes Internet sont devenus un outil de la géopolitique Usa. Avant, on
avait besoin de laborieuses opérations secrètes pour appuyer des mouvements politiques
dans des pays lointains. Aujourd’hui il suffit souvent d’un peu de technique de la
communication opérée à partir de l’Occident […] Le service secret technologique des USA,
la National Security Agency, est en train de monter une organisation complètement
nouvelle pour les guerres sur Internet ».
A la lumière de tout cela, il convient de relire certains événements récents d’explication
non aisée. En juillet 2009 des incidents sanglants sont survenus à Urumqi et dans le
Xinjiang, la région de Chine habitée surtout par des Ouigours. Sont-ce la discrimination et
l’oppression aux dépens de minorités ethniques et religieuses qui l’expliquent ? Une
approche de ce type ne semble pas très plausible, à en juger du moins par ce que réfère de
Pékin le correspondant de La Stampa (Francesco Sisci) :
« De nombreux Hans d’Urumqi se plaignent des privilèges dont jouissent les Ouigours.
Ceux-ci, de fait, en tant que minorité nationale musulmane, ont à niveau égal des
conditions de travail et de vie bien meilleures que leurs collègues Hans. Un Ouigour, à son
bureau, a l’autorisation de suspendre son travail plusieurs fois pas jour pour accomplir les
cinq prières musulmanes traditionnelles de la journée […] En outre ils peuvent ne pas
travailler le vendredi, jour férié musulman. En théorie ils devraient récupérer le dimanche.
Mais le dimanche les bureaux sont en fait déserts […) Un autre point douloureux pour les
Hans, soumis à la dure politique d’unification familiale qui impose encore l’enfant unique,
est le fait que les Ouigours peuvent avoir deux ou trois enfants. En tant que musulmans,
ensuite, ils ont des remboursements en plus de leur salaire étant donné que, ne pouvant
pas manger de porc, ils doivent se rabattre sur l’agneau qui est plus cher ».
Cela n’a aucun sens alors, comme le fait la propagande occidentale, d’accuser le
gouvernement de Pékin de vouloir effacer l’identité nationale et religieuse des Ouigours.
Alors ? Réfléchissons sur la dynamique des incidents. Dans une ville côtière de Chine où,
malgré les différentes traditions culturelles et religieuses préexistantes, des Hans et des
Ouigours travaillent côte à côte, se répand tout d’un coup la rumeur selon laquelle une
jeune fille han a été violée par des ouvriers ouigours ; il en résulte des incidents au cours
desquels deux Ouigours perdent la vie. La rumeur qui a provoqué cette tragédie est fausse
mais voici que se répand alors une deuxième rumeur plus forte encore et encore plus
funeste : Internet diffuse dans son réseau la nouvelle selon laquelle dans la ville côtière de
Chine des centaines de Ouigours auraient perdu la vie, massacrés par les Hans dans
l’indifférence et même sous le regard complaisant de la police. Résultat : des tumultes
ethniques dans le Xinjiang, qui provoquent la mort de presque 200 personnes, cette fois
presque toutes hans. Eh bien, sommes-nous en présence d’une intrication malheureuse et
fortuite de circonstances ou bien la diffusion de rumeurs fausses et tendancieuses visait-
elle le résultat qui s’est ensuite effectivement constaté ? Revient alors en mémoire l’
« expérimentation conduite par la Cia » pendant l’été 1951, qui produisit « un mystérieux
vent de folie collective » dans « le village pittoresque et tranquille » de Pont-Saint-Esprit.
Et de nouveau nous voici obligés de nous poser la question initiale : la « folie collective »
peut-elle être produite seulement par voie pharmacologique ou bien peut-elle être aussi
aujourd’hui le résultat du recours aux « nouvelles technologies » de la communication de
masse ?

Qui sont les « cyberidiots » ?


Une chose est certaine : ceux qui sont les cibles des « guerres sur Internet » ne restent
pas les bras ballants : comme dans toute guerre les faibles cherchent à combler leur
désavantage en apprenant des plus forts. Et voici que ces derniers crient au scandale :
« Au Liban » -lit-on sur le Corriere della Sera du 20 mars- « ceux qui maîtrisent le plus
news media et réseaux sociaux ne sont pas les forces politiques pro-occidentales qui
appuient le gouvernement de Saad Hariri, mais les ‘Hezbollah’ ». Cette observation laisse
poindre un soupir : ah comme ce serait beau si, comme il en a été pour la bombe atomique
et pour les armes (proprement dites) les plus sophistiquées, pour les « nouvelles
technologies » et les nouvelles armes d’information et de désinformation de masse aussi,
ceux qui détiennent le monopole étaient les pays qui infligent un interminable martyre au
peuple palestinien et qui voudraient continuer à exercer au Moyen-Orient une dictature
terroriste ! Le fait est -se lamente Moises Naïm, directeur du « Foreign Policy »- que les
Usa, Israël et l’Occident n’ont plus affaire aux « cyberidiots d’autrefois ». Ceux-ci
« contrattaquent avec les mêmes armes, font de la contre-information, empoisonnent les
puits » : une véritable tragédie du point de vue des champions de la « liberté
d’information » et du « pluralisme ». Malheureusement, les stratèges et les idéologues du
Pentagone et du Département d’Etat peuvent trouver de nos jours encore quelque solide
motif de consolation : bien loin d’être dispersés, les cyberidiots se montrent plus vivants
que jamais à « gauche » : ils sont engagés à présenter les manœuvres troubles de Google
comme le défi lancé par le David de la liberté et de la vérité contre le Goliath de l’autocratie
et de la censure !
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Domenico Losurdo

Professeur d’histoire de la philosophie à l’université d’Urbin (Italie). Il


dirige depuis 1988 la Internationale Gesellschaft Hegel-Marx für
dialektisches Denken, et est membre fondateur de l’Associazione Marx
XXIesimo secolo. Dernier ouvrage traduit en français : Nietzsche
philosophe réactionnaire : Pour une biographie politique.

Les articles de cet auteur

Traduction Marie-Ange Patrizio

Les articles de cet auteur

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Textes cités :
Thomas FISCHERMANN, entretien avec James BAMFORD, « Passen Sie auf, was Sie tippen »,
in Die Zeit du 18 février 2010, pp. 20-21.
Alessandra FARKAS, « La Cia drogò il pane dei francesi ». Svelato il mistero delle baguette che
fecero ammattire un paese nel ‘51, (« La Cia a drogué le pain des français ». Le mystère des
baguettes qui rendirent un village fou en 1951), in Corriere della Sera du 13 mars 2010, p. 25.
Thomas FISCHERMANN, Götz HAMANN, Angriff aus dem Cyberspace, in Die Zeit du 18 février
2010, pp. 19-21.
Massimo GAGGI, Un’illusione la democrazia via web. Estremisti e despoti sfruttano Internet (Une
illusion la démocratie via Internet. Extrémistes et despotes exploitent Internet), in Corriere della
Sera du 20 mars 2010, p. 21.
Domenico LOSURDO, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Roma-Bari, Laterza, 2010, cap.
IX (pour la Tchécoslovaquie, la Roumanie et pour le cadre général).
Maurizio MOLINARI, entretien avec Douglas PAAL, « Questo è l’inizio di uno scontro tra due
civiltà » (« Ceci est un choc entre deux civilisations »), in La Stampa du 23 janvier 2010, p. 7.
Bob SCHMITT, The Internet and International Politics, in The International Herald Tribune du 2
avril 1997, p. 7.
Francesco SISCI, Perché uno han non sposerà mai una uigura (Pourquoi un Han n’épousera
jamais une Ouigour), in La Stampa du 8 juillet 2009, p. 17.
Article rédigé en mars 2010 et publié sur la revue Belfagor. Rassegna di varia umanità, dirigée
par Carlo Ferdinando Russo, le 31 juillet 2010, p. 489-494. Rome.

[1] Sur ce thème, voir l’article « Quand la CIA menait des expériences sur des cobayes
français », par par Hank P. Albarelli Jr., Voltairenet, 16 mars 2010
[2] Voir l’article « Les dessous du coup d’État en Géorgie », par Paul Labarique, Voltairenet,
7 janvier 2004.

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Fini, il caso Tulliani e il baratto sulla legalità


di Barbara Spinelli, La Stampa, 26 settembre 2010
È opinione diffusa che legalità e morale pubblica non siano, per gli italiani, imperativi essenziali.
In parte perché la loro memoria sarebbe corta oltre che selettiva: i misfatti dei politici evaporano presto, l’esempio che viene dall’alto
manca, e di rado le sentenze giudiziarie sfuggono al destino d’esser subito degradate a pareri, opinabili come ogni parere.
Non solo: esponendo la «sua verità», ieri in un video, Fini ha denunciato la confusione tra affari piccoli come la casa di Monaco e affari
ben più criminosi, condannando la stampa usata dai politici «come manganello» per liquidare l’avversario.
L’esempio, lui vuole darlo: «Se dovesse emergere che mio cognato è proprietario, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera. Non
per personali responsabilità, ma perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe». È il venir meno di tale etica che crea nei cittadini cinico
disorientamento.
L’operazione Mani Pulite suscitò grandi speranze, ma anch’essa fu breve e, soprattutto, non aiutò a restaurare la cultura della legalità.
Sfociò anzi in un’accentuazione della corruzione.
Al punto che ci furono magistrati, come Gherardo Colombo, che abbandonarono il mestiere e ricominciarono da zero, insegnando ai
giovani quel che era stato sradicato dai cervelli: il senso della legge, la Costituzione. Il magistrato che aveva indagato sulla P2 e
sull’assassinio di Ambrosoli constatò due cose. Primo: «Tra prescrizioni, leggi modificate, abrogate, si è arrivati a una riabilitazione
complessiva dei corrotti». Secondo: «Lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l’illegalità sia
particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e
disillusione».
Le intuizioni che Colombo confidava il 17 marzo 2007 a Luigi Ferrarella, sul Corriere, s’inverano più che mai in questi giorni. Lo
scandalo della casa di Montecarlo sommerge più pesanti misfatti, come la corruzione di magistrati, testimoni, parlamentari, e a nulla
servono gli strumenti di giustizia visto che la politica non intende far pulizia da sola in casa propria, senza attendere l’ultimo grado dei
processi. Non si dà per vinta neanche quando le inchieste sono fondate: il 22 settembre una maggioranza di deputati è giunta a usurpare
il potere giudiziario, definendo «non decisive ai fini della colpevolezza di Cosentino» le intercettazioni che confermano la sua complicità
con i camorristi casalesi.
La stessa rottura dentro la destra tende a farsi opaca, equivoca: sembrava che la legalità fosse il punto dirimente ma forse non era vero,
forse non era che parvenza: fame di vento, come nel Qohelet biblico. Sembrava che Fini avesse puntato il dito sull’anomia che
caratterizza l’odierno regime, e invece c’è il rischio che anche quest’intuito («Il garantismo non può essere impunità», ha detto ieri) sia
involucro senza sostanza.
Quando fu cacciato dal Pdl, il 29 luglio, si ebbe l’impressione che qualcosa di nuovo nascesse: una destra la cui bussola è il rispetto della
legge, la costituzione, la separazione dei poteri. Sembrò addirittura che Fini fosse più ardito della sinistra, mai entusiasta su questi
fronti. Sul periodico online della Fondazione FareFuturo, da lui presieduta, Filippo Rossi parlò perfino di vergogna, il 19 agosto: «Il
pensiero corre ai sensi di colpa per non aver capito prima. Per non aver saputo e voluto alzare la testa».
Da quel giorno sono passate poche settimane, e la vergogna quasi è svanita. Oppure era vergogna, sì, ma di che? non del conflitto
d’interessi per anni accettato, non delle 40 leggi ad personam, non della foga calunniatrice esibita dal finiano Bocchino contro Prodi
durante l’affare Telekom-Serbia, non dell’abitudine all’illegalità che ha spinto Berlusconi a disfarsi di Fini. Se la rieducazione alla legalità
stesse davvero a cuore alla destra finiana o a Casini, non assisteremmo allo spettacolo singolare che si sta recitando: non una battaglia
che restituisce maestà alla legge, ma un negoziato-scambio attorno allo scudo costituzionale che proteggerebbe Berlusconi dalla
giustizia: un lodo che comunque infrangerebbe quell’articolo 3 della Costituzione che prescrive la legge eguale per tutti. Il negoziato tra
Pdl e la finiana Giulia Bongiorno è completamente surreale. Ciascuno sa che Berlusconi, prima di far politica e dopo, ha ignorato la
legge: arricchendosi con soldi non puliti, ospitando il mafioso Mangano a Arcore e chiamandolo eroe, sfuggendo più volte alla giustizia.
Quel che i finiani dicono da settimane è che la battaglia legalitaria cesserebbe, se solo finissero le calunnie contro il Presidente della
Camera diffuse da giornali tributari di Palazzo Grazioli (Giornale, Libero). In queste ore le calunnie si sono moltiplicate, con la
pubblicazione di un documento pescato nei Caraibi che rivela come la casa di Monaco sia stata acquistata dal cognato di Fini, ed è per
questo che i finiani hanno smesso le trattative sullo scudo. Più che una trattativa è un baratto - io ti do il lodo, tu cessi il linciaggio - ma
in politica e nei Tg gli eufemismi abbondano: è tregua sulla giustizia, quella di cui si parla.
In realtà il baratto non avrebbe dovuto neppure cominciare. Così accade quando la democrazia funziona, e l’eccezione italiana conferma
l’anestesia delle sue classi dirigenti, rese insensibili all’infrazione etica e ai suoi camuffamenti verbali. Ma in fondo, la minaccia di
rompere è ancora più assurda. Perché avviare trattative, se basta un giornale per stroncarle? Perché interromperle, dando a credere che i
metodi di Berlusconi sono una deludentissima sorpresa? Se tutto è scambiabile, perché perorare la morale («La legge è eguale per tutti.
Non si deroga solo perché si appartiene al ceto politico», ha detto venerdì Fini)? Perché promettere un sì al governo, mercoledì, se - così
ancora Fini - «questo è un momento buio della democrazia»? Come fidarsi di chi imputò a Prodi i rifiuti napoletani, e oggi che i rifiuti
tornano dichiara con Bertolaso: «C’è qualcosa che non mi torna»?
Può darsi che il divario fra parole e azioni sia prudenza: meglio aspettare l’ora in cui il premier sbaglierà i conti, perderà la maggioranza.
Resta il disagio procurato da una verità subordinata alle convenienze. Resta il dubbio che l’obiettivo non sia restaurare il senso della
legge, ma proteggere l’uno e/o l’altro contendente.
Difficile in queste condizioni che gli italiani riscoprano la legalità. Quel che scorgono è una lotta tra boss che si minacciano, si ricattano.
Le parole di Rossi nell’editoriale di FareFuturo sulla vergogna perdono peso: la testa s’alza o s’abbassa, a seconda. Si vota per le
intercettazioni a Cosentino, e intanto si preparano scudi immunitari. Si celebrano i veri eroi Borsellino e Falcone, e non si protesta per
l’indegno silenzio del premier sull’assassinio camorristico del sindaco Vassallo a Pollica.
Gli italiani sono meno colpevoli di quanto si creda. Nei sondaggi non vengono mai rivolte giuste domande (per esempio: approvate il
politico tutelato se delinque?). Mal informati, mal interrogati, mal trattati, per forza hanno idee torbide sulla legge. Oggi non vedono
battaglie per una democrazia pulita. Vedono, per tornare alle parole di Colombo, che la «società del ricatto» dilaga. Che «la giustizia è
l’unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il
contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni».
Molti stanno firmando una lettera di Giuseppe D’Avanzo al premier, in cui gli si chiede di rinunciare esemplarmente allo scudo. Non
stupisce che i firmatari siano oltre 105.000. Stupisce che non siano di più: vuol dire che sono ancora tanti, i legalitari che si nutrono di
vento.
(26 settembre 2010)
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La svolta autoritaria in “Presadiretta”. Intervista a Riccardo Iacona


Intervista a Riccardo Iacona di Mariagloria Fontana
Occhi piccoli ma vividi, maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, un modo di fare deciso e al contempo cortese, così appare
Riccardo Iacona, classe 1957, al pubblico intervenuto presso la libreria della Galleria Colonna di Roma per la presentazione del suo libro
“L’Italia in Presa Diretta” (Leggi un estratto). Iacona, autore e conduttore di "Presadiretta" su Rai Tre, è uno di quei rari giornalisti che
amano ’sporcarsi le mani’ andando fino in fondo alle storie. Dotato di un’acribia che lo ha portato a documentare meticolosamente cosa
accade in Italia e a scrivere il suo libro di esordio in una perfetta sintesi di idealismo, coraggio e determinazione.

Commentando il suo libro ha detto: “Adesso ho le prove che


l’Italia di Berlusconi è un paese meno libero. L’ho visto con i miei occhi”. Cosa ha visto?
Dico che l’ho visto con i miei occhi, perché ho attraversato il nostro Paese con i miei occhi, perché ho avuto il privilegio di attraversarlo
per tre anni e abbiamo prodotto 44 ore di programmi in prima serata. Vedo quello che trasmettono i telegiornali, quello che fanno gli
altri, e mi rendo conto che c’è una differenza enorme fra quello che si racconta e quello che si potrebbe raccontare. Addirittura, quando
si descrivono le cose che io reputo sia giusto raccontare, ad esempio la crisi economica, i respingimenti o le grandi questioni nazionali, le
si svuota di significato e di senso. Quasi a non voler riconsegnare al pubblico delle chiavi di interpretazione con le quali può
autonomamente giudicare l’azione del Governo. Anzi, al contrario, lo si racconta con tanta, troppa attenzione e deferenza nei confronti
del linguaggio, dei codici e dell’agenda stabilita dai partiti. Queste cose le ho ‘misurate’ maniacalmente, in questo senso scrivo che ho le
‘prove’. È una dinamica che fa venire le vertigini, perché mette in crisi il meccanismo democratico nel suo momento più importante che
è quello della formazione di un’opinione pubblica indipendente, autonoma, avveduta, ricca di punti di vista e che ha visto il mondo. È
necessario alimentare, invece, un’opinione pubblica che non deve semplicemente pendere dalle labbra del politico di turno che sta
facendo un dibattito in televisione per decidere se sta vincendo o l’uno o l’altro, come se fosse la discussione fra due tifosi della Roma e
della Lazio al bar dopo al partita.

Il sottotitolo del libro è: “Viaggio nel paese abbandonato dalla politica”. Quali sono i
motivi per i quali la politica ha abbandonato l’Italia?
In Italia si parla sempre di politica, ma la politica non fa il suo mestiere. Fare politica non significa occupare posti di potere, fare leggi ad
personam, lucrare con posizioni di rendita, infiltrarsi nell’economia. Questo non è fare politica. Questa è una classe dirigente che si sta
autoriproducendo e sta lucrando una posizione di potere. Invece dovrebbe occuparsi di tracciare l’Italia del futuro. Ciò significa
affrontare le questioni fondamentali: informazione, integrazione, uso dell’ambiente e sviluppo economico e poi dovrebbe costruire un
patto con gli italiani e dire: noi vogliamo andare da quella parte lì. Purtroppo, la politica attuale parla soltanto delle questioni a breve
termine per potersi vendere meglio il prodotto elettorale per la prossima campagna elettorale. È una politica che fa solo propaganda e
alimenta paura e insicurezza.
Rispetto a quanto ha appena asserito, la prima repubblica cosa faceva in più o in meno?
La prima repubblica era un altro mondo. I partiti, seppure mediando, avevano un rapporto con l’opinione pubblica. Ad esempio il
partito comunista parlava al suo popolo. C’erano dei meccanismi attraverso i quali era possibile costruirsi un’opinione e partecipare al
dibattito politico. Non voglio dire che la Rai a quel tempo fosse il posto in cui si rappresentavano tutti i punti di vista. Era un luogo
terribile anche allora, ma c’erano altri posti dove si potevano costruire rapporti sociali importanti, ad esempio il sindacato, la politica di
base, le sezioni dei partiti. Tutto questo è morto con la prima repubblica, la Rai ha accompagnato la morte di questo orribile modello di
repubblica che ha dato vita a tangentopoli e che era compromesso con la grande criminalità organizzata. Però c’è stato un momento, alla
fine della prima repubblica, in cui nel paese l’ossigeno ha girato. Invece di andare avanti, c’è stata una controriforma, una
controrivoluzione per usare un termine banale. Oggi stiamo facendo dei passi indietro. Stanno costruendo una non democrazia, una
democrazia minore, una democrazia semplice, usando un marketing moderno: modificano i partiti, occupano i posti dell’informazione,
trasformano gli elettori in consumatori. Non voglio assolutamente dire che la prima repubblica fosse migliore di quello che sta
accadendo oggi, ma l’esito di quel periodo non era scontato. Abbiamo perso un’occasione. La mia preoccupazione è che ci possa essere
un esito peggiore di quello attuale. Infatti, nel libro parlo di ’svolta autoritaria’. Uso un termine così forte perché sento il pericolo,
avverto l’allarme e cerco di dimostrarlo.
Il reintegro di Paolo Ruffini alla direzione di Rai Tre, le continue pressioni di Rai Due a Santoro con il suo ‘Anno
Zero’. In questo periodo, come si lavora in Rai e in particolare a Rai Tre?
Come si può lavorare in una rete dove il direttore fa il suo mestiere con l’elmetto in testa? Paolo Ruffini è stato reintegrato grazie a due
sentenze della magistratura, quindi disconosciuto dalla direzione generale, dopo che era stato rimosso a seguito di numerosi, espliciti,
attacchi di Berlusconi alla terza rete e dopo che il suo nome era anche uscito nelle intercettazioni nell’ambito dell’inchiesta di Trani. Un
direttore deve avere l’indipendenza e l’autonomia necessarie per svolgere il suo lavoro al meglio. Stiamo assistendo ad un processo di
centralizzazione burocratica, di stile un po’ sovietico. Siamo addirittura arrivati al ‘timbro’ sulla scaletta, cosa dobbiamo aspettare di più?
Non c’è molto altro da dire, questa è la condizione. Andiamo avanti per tigna, perché non vogliamo mollare il rapporto col pubblico,
perché questo mestiere ci piace e in qualche modo facendolo alimentiamo ancora il servizio pubblico, perché sentiamo la responsabilità
nei confronti del Paese, ma ci si sta avvicinando ad un punto di non ritorno. In questo senso spero in una liberazione, mi auguro che si
liberi il mercato, che si liberi la governance della Rai, che vengano spezzati i meccanismi di dipendenza dai partiti, la vicinanza fra la Rai
e i partiti. Non parlo della politica, ma dei partiti; è un’altra cosa.
In questi giorni il Financial Times ha definito “Berlusconi moment” l’operazione con cui il magnate austrialiano
Rupert Murdoch potrebbe mettere a segno la fusione fra NewsCorp e bSkyb. Si parla di pericolo per il pluralismo
dell’informazione britannica. Che differenza c’è fra Murdoch e Berlusconi?
La differenza è che loro si allarmano. Se valuteranno che c’è un problema di ‘monopolio’, mi auguro che mettano in essere le leggi che
servono a tenere il mercato pulito e ad evitare posizioni di privilegio e di rendita. Dopodiché li benedico e penso a noi. In Italia viviamo
nel duopolio Mediaset-Rai da quando è nata Mediaset. Aggravato dal fatto che Berlusconi, a più riprese, è diventato Presidente del
Consiglio e non è stata fatta nessuna legge contro il conflitto di interessi. Il tutto peggiorato dalla riforma della Rai che ha voluto
Gasparri, cioè quella che decide come si fa la governance della Rai, è terribile e ci ha riportato indietro di trent’anni. Oggi il direttore
della Rai non lo decide neanche il partito, ma l’uomo di un partito. Ecco, molti pensano che Berlusconi, il berlusconismo o quello che è
diventata l’Italia politica, rappresenti un ritorno al passato. Io invece credo che sia una proiezione del futuro. Mi spiego. In un certo
senso Berlusconi è moderno e può essere molto imitato in Europa, già si vede in tanti aspetti della politica di Sarkozy. Il fatto che lui ce
l’abbia fatta fino ad ora, è una vittoria. L’idea di un paese in cui la democrazia non sia brillante, in cui esiste un governo del fare che non
deve rendere conto del ‘come’, è una grossa tentazione per le classi politiche autoritarie dell’intera Europa.
L’opposizione in Italia in tutti questi anni cos’ha fatto?
Beh, aspettiamo. No?
Dall’inizio di quest’anno in Afghanistan il numero dei caduti occidentali è salito a 529. Non solo, l’autorevole
economista e consulente di Ban Ki Moon Jeffrey Sachs ha dichiarato che l’amministrazione Obama dal gennaio del
2010 ha speso 100 miliardi per la guerra in Afghanistan e solo 10 miliardi per gli aiuti all’Africa. A due anni dal suo
reportage “La Guerra Infinita”, in cui raccontava del Kosovo e dell’Afghanistan, cosa è cambiato?
Le cose che avevamo fatto vedere sono ancora così. Purtroppo, la situazione si è aggravata sia sul piano militare che su quello politico. Se
almeno sul piano politico si fossero fatti dei passi avanti, cinicamente uno potrebbe misurare e dire ‘quei morti sono serviti almeno a
questo’. La verità è che la guerra è persa. Lo sa il Presidente Obama, lo sa la Nato, lo sanno tutti. Adesso devono trovare il modo di
uscirne, così come è successo in Iraq. In verità, il problema grosso non è più l’Afghanistan, ma il Pakistan. La ‘Talebanizzazione’ è
arrivata sino ad Islamabad, che è una potenza nucleare in conflitto con l’India e con l’Iran. Mi piacerebbe che Obama aprisse un
negoziato politico internazionale con i paesi dell’area, perché siamo sull’orlo di un conflitto ancora più vasto. Se poi pensiamo che
esistono anche le tensioni fra Iran e America, il quadro che ci hanno lasciato i due interventi militari in Iraq e Afghanistan è più pesante
di quando entrarono con le armi. Spero che in Italia questo dibattito venga affrontato seriamente. Se non c’è una strategia politica, ogni
fucile in più serve solo ad aggravare la situazione.
(25 settembre 2010)
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GIOVANNI PASCOLI - LA CAVALLA STORNA


I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII
La "Torre", situata all'estremo limite di San
Mauro Pascoli, era al centro di quelli che
furono i possedimenti rurali di proprietà dei
La cavalla, detta "storna" a motivo del mantello Principi Torlonia di Roma, dei quali il
grigio-scuro con piccole e numerose macchie principe Alessandro fu il principale artefice
bianche che la rendevano simile al piumaggio di del restauro dell'imponente villa gentilizia
uno storno, era nata nei pressi di Ravenna, tra romana, trasformata in un enorme latifondo
una pineta, ed era docile solo nelle mani del suo di 145 poderi, avente, tra le altre cose, una
padrone, Ruggero, padre del Pascoli. Dopo il grande scuderia. La famiglia Pascoli vi abitò
delitto pare che avesse accettato di farsi guidare dal 1862 al 1867. Ora è di proprietà del
dal figlio primogenito Giacomo, appena Comune.
quindicenne.

Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che


un uomo non solo innocente, ma virtuoso,
sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia
morisse.
E io non voglio. Non voglio che sian morti.
(dalla Prefazione ai Canti di Castelvecchio, Ruggero Pascoli
dedicati alla madre)
coi figli Giacomo,
"Quest'anno per Agosto stamperò una specie di Luigi e Giovanni
narrazione fosca dei guai della mia famiglia. Io
non voglio morire senza aver fatto un (Archivio Casa
monumento al mio babbo e alla mia mamma. Pascoli,
Giacomo ebbe contristata l'agonia dal pensiero Castelvecchio di
che lasciava, per forza, invendicato il babbo: io Barga)
ne voglio fare la vendetta che posso, o almeno
protestare di non poterla fare. Sarà come la
prefazione a una sola lugubre poesia: quella
donde sono tratte le tre strofe stampate nelle
Myricae nella prefazione”
(da una lettera del Pascoli al Ferrari)

La lirica si riferisce all'assassinio, avvenuto il


La cavalla storna
10 agosto 1867 e rimasto insoluto, del
Nella Torre il silenzio era già alto.
padre di Giovanni Pascoli, Ruggero, il quale
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
era subentrato allo zio nell'amministrazione,
I cavalli normanni alle lor poste
a San Mauro, della tenuta agricola detta "La
frangean la biada con rumor di croste.
Torre", dei principi Torlonia di Roma. Prima
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
di questo lavoro egli faceva il Comandante
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
Civico del Comune di San Mauro.
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi. Quel giorno Ruggero si era recato a Cesena
Con su la greppia un gomito, da essa per incontrare un certo Petri, incaricato dal
era mia madre; e le dicea sommessa: principe romano Alessandro Torlonia di
nominare l’amministratore della tenuta.
"O cavallina, cavallina storna, Petri sarebbe dovuto arrivare in stazione,
che portavi colui che non ritorna; ma Ruggero non lo trovò, e sulla strada del
tu capivi il suo cenno ed il suo detto! ritorno, lungo la via Emilia, all'altezza di San
Egli ha lasciato un figlio giovinetto; Giovanni in Compito (Gualdo), poco prima
dell'ingresso di Savignano sul Rubicone, fu
il primo d'otto tra miei figli e figlie;
colpito da una fucilata di due sicari,
e la sua mano non toccò mai briglie.
morendo sul colpo. Il regio prefetto di Forlì
Tu che ti senti ai fianchi l'uragano, attribuì la fine di Ruggero ad ambienti del
tu dai retta alla sua piccola mano. repubblicanesimo estremista, che vedevano
Tu c'hai nel cuore la marina brulla, in lui un traditore, essendo stato un
tu dai retta alla sua voce fanciulla". repubblicano passato dalla parte, come
consigliere e assessore comunale, dei
La cavalla volgea la scarna testa liberali-monarchici (nel 1849 era stato
verso mia madre, che dicea più mesta: comandante della Guardia Civica). A quel
"O cavallina, cavallina storna, tempo in Romagna le tensioni erano molto
che portavi colui che non ritorna; forti, in quanto le componenti rurali non
sopportavano il nuovo ordine sabaudo. Non
lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
a caso il prefetto, attribuendo l'assassinio a
Con lui c'eri tu sola e la sua morte
terroristi mazziniani, ne approfittò per
O nata in selve tra l'ondate e il vento, scatenare forti repressioni.
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
Il prefetto, pur non avendo prove
sentendo lasso nella bocca il morso, schiaccianti, era convinto che l'omicidio non
nel cuor veloce tu premesti il corso: fosse stato l'effetto di odi privati o di
adagio seguitasti la tua via, inimicizia personale, bensì l'esecuzione di un
perché facesse in pace l'agonia...". accordo preso nelle Società Segrete di
Cesena, che minacciavano della stessa sorte
La scarna lunga testa era daccanto altri 27 proprietari terrieri e che avevano
al dolce viso di mia madre in pianto. colto a pretesto l'esportazione del grano
"O cavallina, cavallina storna, (con cui, per fare profitti, si finiva con
che portavi colui che non ritorna; l'affamare la gente del posto), per
ricominciare una serie di assassinii,
oh! due parole egli dové pur dire!
conclusasi l'anno prima.
E tu capisci, ma non sai ridire.
Per la famiglia Pascoli, invece, i due sicari
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
agirono su mandato di chi voleva
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
succedergli nel prestigioso incarico: un certo
con negli orecchi l'eco degli scoppi, Pietro Cacciaguerra, che però fece fortuna
seguitasti la via tra gli alti pioppi: solo dopo essere emigrato in Sudamerica
lo riportavi tra il morir del sole, (alcuni suoi discendenti sarebbero tuttora
perché udissimo noi le sue parole". viventi).

Stava attenta la lunga testa fiera. Il delitto rimase impunito per una diffusa
Mia madre l'abbraccio' su la criniera. omertà e archiviato dalla magistratura, dopo
ben tre processi, come "commesso da
"O cavallina, cavallina storna, ignoti". Ci furono degli arrestati (Raffaele
portavi a casa sua chi non ritorna! Dellamotta e Michele Sacchini, entrambi di
a me, chi non ritornerà più mai! San Mauro ed agenti di casa Torlonia), ma
Tu fosti buona... Ma parlar non sai! più tardi vennero liberati senza clamori. Altri
nomi più plausibili vennero fatti: quelli di
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa! Luigi Pagliarani, detto Bigeca, e Michele
Della Rocca, dell’ala estremista del
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
repubblicanesimo, che però restarono
esso t'è qui nelle pupille fise.
impuniti.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
La famiglia di Ruggero fu comunque
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come".
costretta ad abbandonare la Torre per la
Ora, i cavalli non frangean la biada: casa materna di San Mauro, che venderanno
dormian sognando il bianco della strada. qualche anno dopo, per le molte difficoltà
La paglia non battean con l'unghie vuote: economiche (la moglie di Giacomo, il
dormian sognando il rullo delle ruote. primogenito di Ruggero, dopo la morte del
marito, li mandò praticamente in rovina
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: pretendendo la parte di eredità).
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.
Dal 1867 al 1870 si consumò
definitivamente la tragedia dei Pascoli. Alla
morte di Ruggero la moglie Caterina, che
s'era unita a lui nel 1849, sopravvisse solo
pochi mesi e poco più tardi morirono i figli
Margherita (1868), Luigi (1871) e Giacomo
(1876). Altri due figli erano già morti nel
1862 e 1865, per questo nella poesia,
riferendosi al fratello Giacomo, il poeta dice
ch'era il primo di otto figli. Pascoli, nato nel
1855, era stato il quartogenito di dieci figli.
Aspetti metrici
La lirica è costituita da trentuno strofe di
due versi (distici) endecasillabi in rima
baciata (AA BB CC DD...).
Parafrasi
Nella Torre (della tenuta Torlonia di San
Mauro) era già calata la notte. Si
muovevano (per il vento) i pioppi del Rio
Salto (affluente del Rubicone).
I cavalli normanni stavano ai loro posti,
masticavano la biada facendo rumore. Là in
fondo c’era la cavalla, selvaggia, nata fra i
pini sulla salata spiaggia (del ravennate);
che nelle narici aveva ancora gli spruzzi
dell’acqua e le urla nelle orecchie (i rumori
del mare).
Sulla greppia (mangiatoia) mia madre aveva
appoggiato il gomito e le diceva a bassa
voce: "O cavallina, cavallina storna che
portavi colui che non c’è più (il marito
ucciso), tu obbedivi ai suoi gesti e alle sue
parole. Egli ha lasciato un figlio piccolo
(Giacomo), il primo di otto, che non è mai
andato a cavallo. Tu che corri veloce, tu
obbedisci alla sua piccola mano. Tu hai nel
cuore la vegetazione marina, dai retta alla
sua voce bambina".
La cavalla volse la sua testa magra verso
mia madre che diceva sempre più a bassa
voce: "O cavallina, cavallina storna, che
portavi colui che non c’è più, lo so che lo
amavi veramente! Con lui in quell’istante
c’eri solo tu e la morte. Tu che sei nata tra i
boschi, le onde, il vento, nel tuo cuore
spaventato, sentendo il laccio nella bocca
che tiene il morso, corresti via. Con calma
seguitasti per il tuo percorso perché morisse
in pace".
La magra lunga testa era accanto al dolce
viso di mia madre che piangeva. "O
cavallina, cavallina storna, che portavi colui
che non c’è più... Oh! due cose egli avrà pur
detto! E tu le hai capite, ma non le puoi
dire. Tu con le briglie sciolte tra le zampe e
negli occhi lo sparo, con negli orecchi l’eco
del colpo, proseguivi la tua via tra i pioppi:
lo riportavi a casa per il tramonto perché noi
sentissimo quello che aveva da dire".
Stava ferma con la testa alzata. Mia madre
le abbracciò il collo: "O cavallina, cavallina
storna, riporta colui che non c’è più! A me,
colui che mai più tornerà! Tu sei stata
buona... ma non sai parlare! Tu non lo sai
fare, poverina; altri che potrebbero non
osano parlare. Oh! ma tu devi dirmi una
cosa! Tu hai visto l’uomo che l'ha ucciso, lui
è ancora nei tuoi occhi. Chi è stato! Ti dico
un nome. E tu fammi un cenno. Dio t’insegni
a farlo".
Ora i cavalli non mangiavano: dormivano
sognando la strada (il tragitto percorso in
giornata), non calpestavano la paglia:
dormivano sognando il rumore delle ruote.
Mia madre alzò nella notte un dito e disse
un nome... Risuonò un forte nitrito.

Bozza originale della Cavalla storna, Archivio LA CAVALLA DEL PASCOLI


Casa Pascoli Sonò alto un nitrito
Castelvecchio di Barga quello della cavalla storna
che risuona all'infinito
come loop che torna e ritorna
come refrain d'una madre addolorata
con l'ingiustizia non riparata
come ritornello di salmo ebraico
per il mondo farisaico
Da madre a madre glielo disse
perché un bambino l'ascoltasse
e a tutti gli orfani lo ripetesse
Oh cavallina, cavallina storna
anche se porti chi non ritorna
sei nel cuore di tutti quanti
un padre non l'hanno avuto
e sono tanti
Ascolta La cavalla storna (mp3)
SUGGESTIONI E MISTIFICAZIONI NELLA CAVALLA STORNA
La cavalla storna, del marzo 1903, ha sempre avuto un fascino particolare, che la rende molto
commovente, il fatto cioè di saper trasformare una tragedia (l'assassinio del padre del poeta,
Ruggero Pascoli), compiuto il 10 agosto 1867, in una sorta di fiaba popolare, che ad alcuni
critici ha fatto venire in mente i canti bretoni, ma che in realtà non è molto distante dalle nenie
del mondo rurale nazionale, quelle che i più anziani recitavano ai più piccoli per farli
addormentare. Essa è inclusa nei Canti di Castelvecchio, dedicati alla madre del Pascoli,
mentre la raccolta Myricae era stata dedicata al padre (non a caso di questa i Canti vogliono
essere un prosieguo).
E' noto, negli ambienti scolastici, che, non essendovi forti innovazioni linguistiche,
generalmente la lirica non viene più scelta nei manuali antologici delle Superiori, benché nel
passato venisse considerata un "classico", soprattutto per la scuola dell'obbligo, proprio per la
facilità di comprensione e di memorizzazione.
La poesia infatti va recitata come una filastrocca, facendo bene attenzione a misurare il tempo
delle pause, dando enfasi alla musicalità dei versi, la cui rima baciata, presente in ogni distico,
sembra fatta apposta per essere ricordata anche dalla mente di un bambino. L'unico
enjambement che dà leggermente fastidio al periodare uniformemente cadenzato degli
endecasillabi è quello del verso 7, con quel suo "ancora" a capo, su cui si è costretti a far
cadere l'accento, rendendo meno evidente l'assonanza "spruzzi/aguzzi".
Non pochi critici, p.es. Nava e Perugi, hanno evidenziato, giustamente, la presenza qui di
significativi modelli omerici, in quanto la tecnica pare quella dell'epos popolare. Si potrebbe
anche dire di più. La cavalla storna appare come il coro d'una tragedia greca ma con molta più
emotività, in quanto il lettore (ma sarebbe meglio dire l'ascoltatore, perché qui l'orecchio deve
prevalere sull'occhio), in virtù di inequivocabili indizi, ha immediata la percezione che il poeta
stia descrivendo qualcosa di molto personale, evitando a bella posta di cercare un linguaggio
ricercato, filosofico, come appunto in quelle tragedie.
Vi è distacco solo là dove l'evento pare ineluttabile, come forza misteriosa di un perverso
destino, che pesa come un macigno sulla propria percezione di sé, tant'è che la cavalla, subito
dopo l'agguato mortale, proseguiva la via "adagio", "perché facesse in pace l'agonia", che è
forse il verso più "metafisico" dell'intera poesia. Ma vi è soprattutto profonda intimità, poiché
qui il soggetto è la cavalla, che umanizza un immenso dolore familiare, un lutto sconvolgente,
che viene raccontato all'interlocutore con l'incedere di una ninna nanna, perché si sappia che il
poeta, pur non volendo dimenticare una cosa vera (come dice con insistenza nella Prefazione
ai Canti), ha fatto di tutto per metabolizzarla, lasciando ad altri il compito di decidere se vi
fosse o non vi fosse riuscito.
Qui la poesia viene usata come una sorta di macchina del tempo, un "Ritorno a San Mauro"
(stando a una sezione dei Canti), ovvero a quel periodo in cui la mamma lo addormentava con
le sue cantilene (perché da questo si ricava la forma della lirica), anche se nel momento della
tragedia il poeta aveva già dodici anni. L'identificazione strettissima (di contenuto esistenziale)
è più con la tenera madre che non con la forte cavalla, che qui simboleggia ovviamente il
padre.
Pascoli sta descrivendo un episodio della sua preadolescenza, che gli sconvolse la vita, o che
comunque a lui parve sconvolgente, poiché, a partire da quel momento la precarietà
economica ed esistenziale lo costringerà a vivere una vita molto diversa da quella che avrebbe
voluto o immaginato. Quanto il fatto in sé sia effettivamente stato così imponente nel
condizionare il formarsi della sua personalità, o quanto invece abbia influito su questa
personalità l'incapacità di vederlo oggettivamente, nel suo contesto sociale e politico, è ancora
oggi materia di discussione.
E' fuor di dubbio che nell'ambito della famiglia Pascoli non vi fu nessuno, stando almeno alla
documentazione resa pubblica, che accettò la tesi del regio prefetto di Forlì secondo cui il
delitto andava visto in un più complesso comportamento delle plebi rurali (le Società Segrete
di Cesena), intenzionate ad opporsi a quei proprietari terrieri (tra cui appunto l'amministratore
Ruggero, ma ve n'erano altri 27!) che, esportando il grano per trarre migliori profitti,
affamavano la popolazione locale. Viceversa, per la famiglia Pascoli i due sicari agirono su
mandato di chi voleva succedere a Ruggero nel prestigioso incarico: un certo Pietro
Cacciaguerra, che però fece fortuna solo dopo essere emigrato in Sudamerica.
Sia come sia gli attori di questa tragedia poeticizzata nella forma della cantilena popolare
ambiscono a svolgere un ruolo destinato a commuovere, non a ricercare la verità. Qui si fa
poesia non storia, anche se l'autore nella Prefazione dice che vuol fare storia attraverso la
poesia. In realtà vuole suggestionare soltanto, col rischio però di mistificare.
I protagonisti vengono descritti secondo diversi piani e angolazioni, spesso tra loro intrecciati,
sovrapposti. P.es. la cavalla, che media tra il padre Ruggero, assassinato, e la madre, che
chiede conferma sul nome dell'assassino, rappresenta la forza del capofamiglia, lei ch'era stata
"selvaggia" (era quella da calesse, la preferita dal padre); ma rappresenta anche qualcosa
d'inconscio, quel che Pascoli stesso avrebbe voluto essere, e che in parte era stato nel periodo
universitario (quello politicamente il più significativo di tutta la sua vita), una persona sicura di
sé, insofferente alle angherie: una superiorità dovuta alla sola forza del carattere, alla
personalità intelligente.
Il poeta s'identifica anche con Giacomo, il primogenito che si assumerà la responsabilità della
famiglia orfana e che, per la sua morte precoce, non riuscirà nell'intento. Dopo la morte di
Giacomo, sarà lo stesso Giovanni a svolgere quel ruolo, ricostituendo il nido familiare con le
due sorelle tolte dal convento di Sogliano al Rubicone.
L'amore forte che qui la cavalla provava per il suo padrone, è analogo a quello che il bambino
Giovanni provava per suo padre, identico a quello ch'egli pensava/sperava/chiedeva d'avere da
parte del padre. Nei confronti del quale però (ma anche nei confronti della madre e del fratello
Giacomo e di tutta la famiglia) il poeta si sente in colpa, poiché la giustizia non ha fatto il suo
corso, visto che dopo un quarto di secolo egli deve ancora affidarsi al sotterfugio dell'animale
intelligente per rivelare il nome del mandante (a chi "non osa" neppure pronunciarlo per timore
di conseguenze).
La cavalla rappresenta, nella poesia - secondo le intenzioni del suo autore-, la parte offesa che
non può opporsi, il simbolo dei ceti deboli che attendono giustizia, che subiscono torti da parte
dei prepotenti. Pascoli qui si serve di un difetto della giustizia giuridica per evitare delle
considerazioni storiche, per le quali, se le avesse fatte, la cavalla avrebbe dovuto
rappresentare non l'oppresso ma l'oppressore, non il proletariato buono, incapace di difendersi,
ma il tutore degli interessi padronali, la cui bontà d'animo non avrebbe mai potuti metterli in
discussione.
Una vicenda storica può essere mistificata celando le vere motivazioni dell'agire e soprattutto
attribuendo tutti i torti a un solo protagonista della stessa. In tal senso si può dire che qui si
sta raccontando soltanto un sogno, in cui il poeta, tornato bambino, rivede la madre che
accarezza l'unico testimone del delitto (nella realtà invece ve ne fu più di uno, tant'è che i
sicari furono individuati, ma senza conseguenze). La cavalla, che "capisce, è buona, ma non sa
ridire", è come un'istanza di autenticità repressa, soffocata. Ha consapevolezza delle cose ma
non può far nulla per cambiarle. Che cosa rappresenta essa se non la vita stessa del Pascoli?
La verità può essere detta solo nel sogno e la madre che la cerca pensa di poter parlare
tranquillamente con un animale, come nelle fiabe. Anzi nel finale s'intravede una certa
suspence, che ricorda un giallista molto caro a Pascoli, Edgar Allan Poe, che in un suo
racconto, Il gatto nero, fa sì che sia un animale a svelare il nome dell'assassino. Infatti la
rivelazione avviene subito dopo che gli altri cavalli (quelli normanni, da soma, da tiro) han
finito di far rumore mangiando la biada (rompendo i chicchi d’avena con le forti mandibole) e
calpestando il selciato con gli zoccoli vuoti, mentre stanno sognando "il bianco della strada", "il
rullo delle ruote". In quel silenzio agghiacciante la cavalla fa la parte del testimone in grado di
parlare unicamente a chi è in grado di ascoltarla. La sua testa non è più "scarna", cioè magra,
affusolata, ma "fiera", cioè consapevole della propria superiorità non solo rispetto agli altri
cavalli ma anche rispetto a tanti esseri umani, qui ritenuti vili, codardi.
Solo una donna, novella Maria che schiaccia la testa al serpente, è capace di tanto, la madre
del poeta, che qui rappresenta la coscienza della verità sepolta, saputa ma taciuta, detta
privatamente ma negata pubblicamente. L'assassino è noto solo ai parenti del morto, per tutti
gli altri è solo un sospettato.
Questo spiega anche il motivo per cui i riferimenti contestuali del crimine siano stati ridotti al
minimo: una tenuta agricola denominata "Torre", cui si accede vedendo in lontananza un lungo
viale alberato di pioppi, che fiancheggia un fiumiciattolo, il rio Salto (affluente del Rubicone).
Che la tenuta fosse signorile lo si comprende dalle "poste" dei cavalli normanni. Non è
importante dire che ci si trova nei pressi di San Mauro (oggi Comune di San Mauro Pascoli). Se
avesse scritto "c'era una volta una grande villa principesca", sarebbe stato lo stesso. La favola
potrà diventare storia soltanto quando un giorno si saprà la verità, ma quel giorno avremo
perduto la poesia, cui si concede il diritto di avvalersi della finzione anche per celare la stessa
verità.
Biografia - Il gelsomino notturno - La via ferrata - Pascoli e Ulisse - Poeta e iniziato - Lettore di
Manzoni - Pascoli politico
Fonti
• Bonito Vito M., Pascoli, 2007, Liguori
• Pazzaglia Mario, Pascoli, 2002, Salerno
• Daverio Rossella, Invito alla lettura di Giovanni Pascoli, 1983, Mursia (Gruppo
Editoriale)
• Pagliarani Elio, Giovanni Pascoli, 1998, Ist. Poligrafico dello Stato
• Capovilla Guido, Pascoli, 2000, Laterza
• Di Berardino Andrea, Giovanni Pascoli, 2005, Genesi
• Cencetti Alice, Giovanni Pascoli. Una biografia critica, 2009, Le Lettere
• Pascoli socialista, 2003, Pàtron
• Capovilla Guido, La formazione letteraria del Pascoli a Bologna. Vol. 1: Documenti e
testi, 1988, CLUEB
• Robecchi Franco, L'ultimo Pascoli (1904-1911), 1990, Arcipelago Edizioni
• Ruggio G. Luigi, Giovanni Pascoli. Tutto il racconto della vita tormentata di un grande
poeta. In appendice un'ampia antologia dei suoi versi migliori, 1998, Simonelli
• Goffis Cesare, Pascoli antico e nuovo, 1969, Paideia
• Distante Carmelo, Giovanni Pascoli poeta inquieto tra '800 e '900, 1968, Olschki
• Pisani Carla, Filologia e poesia tra Pascoli e D'Annunzio, 2010, Marsilio
• Moressa Pierluigi, Giovanni Pascoli. La poesia del mistero, 2010, Foschi
• Venturelli Gastone, Pensieri linguistici di Giovanni Pascoli. Con un glossario degli
elementi barghigiani della sua poesia, 2000, Accademia della Crusca
• Elli Enrico, Pascoli e l'«antico». Dalle liriche giovanili ai poemi conviviali, 2002,
Interlinea
• Martelli Mario, Pascoli 1903-1904: tra rima e sciolto, 2010, Società Editrice Fiorentina
• Il latino del Pascoli e il bilinguismo poetico, 2009, Ist. Veneto di Scienze
• Traina Alfonso, Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, 2006, Pàtron
• Seriacopi Massimo, Pascoli esegeta di Dante. Con una raccolta di studi inediti pascoliani,
2009, Le Càriti Editore
• Capecchi Giovanni, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli. Con appendice di inediti,
1997, Longo Angelo
• Pascoli e la cultura del Novecento, 2007, Marsilio
• Cantelmo Marinella, Pascoli. Lo sguardo di Thanatos, 2007, Longo Angelo
• Nassi Francesca, Io vivo altrove. Lettura dei primi poemetti di Giovanni Pascoli, 2006,
ETS
• Bàrberi Squarotti Giorgio, La simbologia di Giovanni Pascoli, 1990, Mucchi
• Bisagno Daniela, La parola della madre. Saggio sui Poemata christiana di Giovanni
Pascoli, 1998, Jaca Book
• Caserta Giovanni, Giovanni Pascoli a Matera (1882-1884). Lettere dall'Africa, 2005,
Osanna Edizioni
• Roda Vittorio, La folgore mansuefatta. Pascoli e la rivoluzione industriale, 1998, CLUEB
• Salibra Elena, Pascoli e psyche, 1999, Bulzoni
• Mosconi Tonino, Romagna nella poesia di Giovanni Pascoli, 2000, Pazzini
• Sampaoli Luciano; Capaldi Donatella; Punzi Vito, Fiori notturni. L'amore oscuro di
Giovanni Pascoli, 2005, Il Ponte Vecchio
• Ebani Nadia, Pascoli e il Canzoniere. Ragioni e concatenazioni nelle prime raccolte
pascoliane, 2005, Fiorini
• Tomasello Dario, La realtà per il suo verso. E altri studi su Pascoli prosatore, 2005,
Olschki
• Rivista pascoliana. Vol. 3: Nel centenario dei canti di Castelvecchio. Atti del Convegno di
studi indetto dall'Accademia pascoliana San Mauro Pascoli, 2005, Pàtron
• Poeti romagnoli d'oggi e Giovanni Pascoli, 2005, Il Ponte Vecchio
• Capecchi Giovanni, Giovanni Pascoli. Prose disperse, 2004, Carabba
• Marcolini Marina, Pascoli prosatore. Indagini critiche su pensieri e discorsi, 2003, Mucchi
• Alfredo Caselli, Giovanni Pascoli. Carteggio (1912-1920), 2008, Pàtron
• Carteggio Pascoli-D'Annunzio, 2008, Pàtron
• Cencetti Alice, Un epistolario dell'Ottocento. Le lettere di Gaspare Finali a Giovanni
Pascoli (1892-1912), 2008, Compositori
• Corsi Antonio, Poesia, scuola, formazione umana. «Dentro» il Pascoli: un'immersione
divulgativa nel suo pensiero pedagogico, 2008, La Rondine
• Di Lieto Carlo, Il romanzo familiare del Pascoli. Delitto, «passione» e delirio, 2008,
Guida
• Carteggio Pascoli-De Bosis. Carteggio Pascoli-Bianchi, 2007, Pàtron
• Andreoli Annamaria, Le biblioteche del fanciullino. Giovanni Pascoli e i libri, 1995, De
Luca Editori d'Arte
SitiWeb
• www.fondazionepascoli.it
• www.accademiapascoliana.it
• www.casapascoli.it
• www.letteraturaitaliana.net/autori/pascoli_giovanni.html
• www.italialibri.net/opere/cantidicastelvecchio.html
• www.classicitaliani.it/pascoli/prosa/001_pascoli_narrazione_fosca.htm
Video
• video.google.com/videoplay?docid=6947126766869114738#
• www.youtube.com/watch?v=EPIRkuqbEWc
• www.youtube.com/watch?v=Pfs7Jn95XoI
• www.youtube.com/watch?v=jFpOcpKpuss
• www.youtube.com/watch?v=DugrxOpUqfc
• www.youtube.com/watch?v=RweB3z5WUK4&feature=related
• www.youtube.com/watch?v=9O_YD4pVnlQ&feature=related
• www.youtube.com/watch?v=TR6wMIp8XGI&feature=related
• www.youtube.com/watch?v=AemQCtY4O98&feature=related
• www.youtube.com/watch?v=OtUG2HI0M1U&feature=related
• www.youtube.com/watch?v=hN4jy0LPuB0&feature=related
• La Cavallina Storna, film del 1953
Download
• La cavalla storna musicata (pdf-zip)
• Canti di Castelvecchio (pdf-zip)
• Poemetti (pdf-zip)
• Nobel per la pace al cinese Liu Xiaobo
Pechino: “Il premio è un’ oscenità”
• Il dissidente dovrebbe ricevere oggi la notizia dalla moglie Liu Xia. Intanto il ministro degli esteri cinese convoca l'ambasciatore norvegese per
protesta


• Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, per la sua battaglia per i diritti civili in Cina. “I diritti civili e la pace sono fortemente
interconnessi” e lo status della Cina “come seconda economia mondiale le impone delle responsabilità”, ha dichiarato Thorbjoern Jagland,
presidente del Comitato norvegese per il Nobel , spiegando le motivazione del dell’assegnazione del premio. Non risulta che Liu Xiaobo abbia
ancora saputo di aver ricevuto il prestigioso riconoscimento per il suo ”decennale impegno pacifico e non violento per la difesa dei diritti umani
in Cina”.

A portargli la notizia, dovrebbe essere la moglie Liu Xia, che ieri sera è stata prelevata da casa dalla polizia allo scopo di farle raggiungere il
marito nella prigione di Jinzhou, dove Xiaobo sta scontando una pena a 11 anni per “istigazione alla sovversione”. Dissidenti e amici della
coppia che risiedono a Pechino affermano che oggi non sono stati in grado di parlare con la donna che ieri è riuscita sporadicamente a
contattare familiari e giornalisti. Il dissidente Wang Jinbo sostiene di aver saputo dal fratello della donna che Liu Xia è ”partita per Jinzhou
accompagnata dalla polizia”. Nell’ultimo sms inviato a Radio Free Asia la notte scorsa, Liu Xia aveva detto che stava ”preparando la valigia”
per recarsi accompagnata dalla polizia dal marito. Liu Xia ha detto ieri di essere felice di potere abbracciare Liu Xiaobo e di comunicargli la
buona notizia ma di ritenere che le autorità volessero allontanarla dalla capitale per impedirle di aver contatti con la stampa internazionale.

Pechino ha definito la scelta operata dal Comitato un’ ”oscenità’ e l’ambasciatore norvegese in Cina è stato convocato al ministero degli Esteri
cinese per protesta.

Accusato di essere tra i promotori di “Carta 08″, il documento favorevole alla democrazia firmato da 2000 cinesi, Liu era stato arrestato alla
fine del 2008 ma la condanna gli fu inflitta nel giorno di Natale del 2009, probabilmente nella speranza di ridurre la copertura dei mezzi
d’informazione occidentali.

Già ieri, appena diffusa la notizia, la polizia si era subito recata a casa del dissidente nalla speranza di bloccare la possibilità della moglie di
parlare con la stampa. Tuttavia, Twitter aveva dato subito la notizia in diretta. Persino la trasmissione in diretta della Bbc sull’annuncio del
premio Nobel era stata oscurata.

Nato nel 1955 a Changchun, città industriale nel nordest della Cina, Liu era un giovane professore universitario di letteratura quando scoppiò il
movimento studentesco del 1989 e fu tra gli intellettuali che si schierarono con i giovani, partecipando con i dirigenti studenteschi Wang Dan e
Wùer Xi alla fondazione della Federazione Autonoma degli Studenti che fu la struttura dirigente delle proteste. Più volte, Liu partecipò al fianco
degli studenti ai falliti tentativi di dialogo con le autorità. La situazione su piazza Tiananmen, occupata dagli studenti, precipitò tra la fine di
maggio e l’inizio di giugno, quando fu chiaro che i riformisti del Partito Comunista, guidati dal segretario Zhao Ziyang, erano stati sconfitti e
che il leader supremo Deng Xiaoping aveva scelta la via della repressione.

Il primo giugno Liu, insieme al popolare cantante taiwanese Hou Dejan, aderì allo sciopero della fame proclamato dagli studenti. Nelle ore e
nei giorni successivi Liu Xiaobo, secondo Andrew J. Nathan e Perry Link, autorevoli sinologi e responsabili della pubblicazione del libro The
Tiananmen Papers – che rimane la ricostruzione più completa di quei drammatici avvenimenti -, si adoperò per cercare di convincere i giovani
ad evacuare la piazza prima dell’intervento dell’esercito. Non ebbe successo, e il 4 giugno i soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare
sgombrarono la piazza con la forza, uccidendo centinaia di persone.

Pochi giorni dopo Liu Xiaobo, accusato di essere una delle “mani nere” che secondo il Partito Comunista Cinese manovravano gli studenti fu
arrestato e trascorse 18 mesi in prigione dopo essere stato condannato come “controrivoluzionario”. Nel 1995 fu condannato a tre anni in un
campo di “rieducazione attraverso il lavoro” per aver diffuso articoli critici verso il governo. Scontata la pena, gli fu vietato di continuare ad
insegnare. L’ ex-professore continuò a criticare il regime autoritario con saggi e articoli che venivano pubblicati all’estero e diffusi
clandestinamente in Cina. Negli anni precedenti al suo arresto, Liu era diventato uno dei principali punti di riferimento per gli dissidenti cinesi e
gli attivisti dei gruppi internazionali per i diritti umani.

Giornali liberi: impariamo dall'Algeria


pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno sabato 9 ottobre 2010 alle ore 17.27

Sabato 09 Ottobre 2010


Mentre nel nostro Paese non sono pochi i media caduti al livello di manifesti
pubblicitari o strumenti d'attacco contro interessi concorrenti, dall'Algeria ci giunge un
esempio che, pensiamo, debba farci riflettere non poco. Stiamo riferendoci ad "El
Watan", tradotto dall'arabo "La Patria", uno dei piu' affermati quotidiani algerini
indipendenti, che in queste ore ha compiuto 20 anni di attività e che, per l'occasione,
e' uscito in edicola con un numero speciale completamente dedicato alla sua
storia.Questo giornale si e'da sempre battuto per un'informazione libera e
indipendente, operando in un contesto territoriale estremamente difficile, opponendosi
decisamente al potere centrale e all'islamismo politico e riuscendo a sopravvivere alla
censura e agli attacchi di temibili gruppi armati.Attraverso una prima pagina firmata
dal noto vignettista algerino Hic, secondo il suo stile personale molto pungente, "El
Watan" ricorda di essere nato sotto il presidente Chadli, l'8 ottobre del 1990, di aver
sperato con Boudiaf, di aver resistito sotto Zeroual e di essere sopravvissuto a
Bouteflika. Anche nei momenti piu' difficili e bui del paese algerino, dopo il blocco del
processo democratico del 1992, con l'annullamento delle elezioni vinte dal Fronte
islamico per la salvezza (Fis), e l'esplosione delle violenze dei gruppi armati di matrice
islamica, ha scelto la via piu' difficile, ma certamente la più onorevole per un giornale
ed i suoi giornalisti, per mettersi in contrasto con la classe di potere vigente e contro i
suoi tentativi di instaurare l'islamismo politico.

Per moltissimo tempo i collaboratori tutti di questo giornale sono entrati ogni giorno in redazione
con la paura nello stomaco, senza sapere se quel giorno sarebbe stato l 'ultimo della loro vita per via
di un improvviso attentato, con in mente ancora fresco il ricordo dei tanti giornalisti già
assassinati,o dell'arresto di qualche collega. Ricordiamo che nel decennio nero della guerra civile
algerina, sono stati uccisi piu' di 100 giornalisti, oltre a uomini di cultura ed artisti. In molti sono
dovuti fuggire all'estero, soprattutto in Francia per cercare di sottrarsi alla repressione brutale del
potere. Molti altri giornalisti e scrittori hanno subito la dura esperienza del carcere. "El Watan" è
stato dunque un esempio di libertà ed indipendenza capace di offrire luce a molti giornalisti di ogni
paese, sulla strada che porta al vero giornalismo e per questo è stato premiato dai suoi lettori: dai
24,3 milioni di copie del 1993, ha raggiunto nel 2009 la tiratura annua di 47,3 milioni, una media di
127.290 al giorno. Come si vede, successo ed indipendenza dei media camminano insieme.

Gigi Trilemma

http://www.laveracronaca.com/index.php?option=com_content&view=article&id=645%3Amedia-
impariamo-dallalgeria&catid=1%3Aultime&Itemid=29

Campania, dove si muore per difendere il proprio territorio


pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno sabato 9 ottobre 2010 alle ore 19.15

E' trascorso un mese dal feroce assassino di Angelo Vassallo, il sindaco-pescatore di Pollica.
Un omicidio ancora senza colpevoli. E che aspetta verità e giustizia.

di Peppe Ruggiero
E mentre la comunità di Pollica ha ricordato in modo raccolto e silenzioso il suo Sindaco, un'altra
comunità a pochi chilometri di distanza, Atrani, piangeva il ritrovamento a largo dell'Eolie del
corpo della giovane Francesca, travolta dal fango omicida. Due tragedie. Due comunità colpite. Due
modalità diverse. Due facce di una stessa medaglia:quella della politica. La bella e la cattiva.
A Pollica un sindaco viene ammazzato per “buona” amministrazione, per aver difeso e tutelato il
territorio d speculazioni e affarismi. E per essere stato lasciato solo dalla politica. Ad Atrani una
giovane studentessa muore per una pioggia abbondante , travolta dalla melma e dal fango di un
territorio violentato, depredato. E dove la politica che per troppi anni ha trascurato i lavori
necessari alla tutela e alla manutenzione ordinaria del territorio per finanziare opere spesso inutili e
dannose. E spendendo molto e male. Il ricordo di Angelo e Francesca sono la fotografia dell'Italia
di oggi.
Dove il bello ed il brutto si contrappongono. Si intrecciano. Angelo aveva capito il valore
economico, sociale ed ambientale nell'investire nella sicurezza del territorio. Francesca è vittima di
quell'altra Italia dove gli equilibri ambientali, la sicurezza dei cittadini sono stati sacrificati in
modo sistematico al saccheggio del territorio e agli interessi criminali. Angelo e Francesca, due
nomi che devono rimanere scritti in maniera indelebile nel quaderno della nostra memoria.
Due nomi che devono rappresentare un monito costante e quotidiano per la nostra classe politica.
In Campania, si muore se si difende il territorio. E si muore anche perche' qualcuno quel territorio
non lo ha mai messo in sicurezza. Una contraddizione struggente. Succede nel nostro Paese nel
2010. Che rabbia!

Fonte: www.liberainformazione.org8 Ottobre 2010

Termovalorizzatori in Sicilia, l’ultimo affare di Cosa nostra. Una


torta da sei miliardi di euro
pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno venerdì 8 ottobre 2010 alle ore 21.56

Termovalorizzatori in Sicilia, l’ultimo affare di Cosa nostra. Una torta da sei miliardi di euro

E' quanto emerge dall'ultima relazione della commissione parlamentare sulle ecomafie. Il
documento tratteggia un'inquietante mappature degli interssi dei clan nel ciclo dei rifiuti

di Gaetano Pecoraro

Criminalità organizzata e rifiuti. Tradotto: gli interessi di Cosa nostra nel ciclo della monnezza. E’
questa la novità che si legge nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle
ecomafie presentato oggi a Palermo. Un focus inpressionate sulla situazione siciliana che
ilfattoquotidiano.it ha visionato in anteprima. Tutto parte dal cosidetto Piano di ciclo dei rifiuti per
la Sicilia. Questo il nome del progetto firmato nel 2002 dall’allora governatore e commissiraio
all’emergenza per la spazzatura Salvatore Cuffaro. La soluzione individuata dalla giunta regionale
prevedeva la costruzione di quattro termovalorizzatori. Uno a Palermo (Bellolampo), uno ad
Augusta, uno a Casteltermini-Castelfranco e a Paternò. Per un giro d’affari complessivo di 6
miliardi di euro. Denaro pubblico, ovviamente, in parte provenienti dai fondi europei. In realtà, per
il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo il progetto si traduce in
“una cooperazione tra mafiosi, politici, professionisti e imprenditori anche non siciliani”.

Nelle oltre quattrocento pagine del documento, la commissione, presieduta dall’avvocato Gaetano
Pecorella, senatore del Pdl, rivela come la mafia avesse già messo le mani sull’affare miliardario,
approfittando del suo ruolo dominante nel sistema dei rifiuti. Un patto denunciato dal successore di
Cuffaro, Raffaele Lombardo, durante la seduta dell’assemblea regionale siciliana del 13 aprile
2010. Il governatore aveva da pochi giorni emanato la legge regionale n. 9 2010, che di fatto
esclude la costruzione di inceneritori.

La storia oscura dei termovalorizzatori isolani parte da una ordinanza del 5 agosto 2002 . Salvatore
Cuffaro, commissario delegato per l’emergenza rifiuti, approva un “avviso pubblico per la stipula di
convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, prodotti dalla regione siciliana, al
netto della raccolta differenziata”. Il documento viene pubblicato il 9 agosto 2002 sulla Gazzetta
ufficiale della regione siciliana. Il 15 novembre dello stesso anno interviene la Commissione delle
Comunità europee che trasmette alle autorità italiane una lettera di richiesta di informazioni su
quanto fatto dal governo regionale. L’Europa contesta alla regione di avere seguito una strada dai
livelli di trasparenza insoddisfacenti, in violazione delle direttive Cee. Eppure, si legge nel
documento, “il 17 giugno 2003, Cuffaro stipula quattro convenzioni per la realizzazione degli
inceneritori, rispettivamente con la Tifeo energia ambiente scpa, la Palermo energia ambiente scpa,
la Sicil power spa e la Platani energia ambiente scpa”. Società mai coinvolte in procedimenti
giudiziari.

Eppure, per la commissione parlamentare “alcune aziende infiltrate sarebbero dentro” l’affare
inceneritori. In particolare si fa riferimento alla Altecoen, società riconducibile a Cosa nostra e
presente nell’elenco soci di una delle aziende aggiudicatarie degli appalti. In alcune gare d’appalto
sui rifiuti, la Altecoen, in passato, era stata sponsorizzata dal boss catanese, Nitto Santapaola. Il
suo amministratore delegato, fino all’anno 2004 è stato Francesco Gulino, già presidente
dell’Assindustria di Enna, arrestato nel 2005 su richiesta della procura distrettuale antimafia presso
il tribunale di Messina per concorso esterno in associazione mafiosa.

Nella relazione viene ripreso un report della Corte dei conti del 2007. Qui vengono messe in luce le
presunte responsabilità di Salvatore Cuffaro. In merito alla questione dei termovalorizzatori si
legge: “La presunta imperiosa urgenza nella conclusione delle convenzioni ha comportato la stipula
delle stesse a prescindere dall’acquisizione dell’informativa antimafia: tale comportamento è da
ritenersi particolarmente imprudente nella considerazione dei noti interessi della criminalità
organizzata nel campo dei rifiuti e del contesto ambientale siciliano”. Secondo la Corte dei conti,
Cuffaro non “poteva di certo ignorare” la presenza della Altecoen.

Al di là dei termovalorizzatori, quello che resta nelle carte redatte dalla commissione è
un’impressionante mappatura degli interessi mafiosi nella grande torta dei rifiuti in Sicilia. Nel
palermitano, ad esempio, c’è la Coinres (Consorzio intercomunale rifiuti, energia, servizi), che tra i
propri dipendenti aveva personaggi di spicco delle famiglie di Misilmeri, legata al boss Benedetto
Spera. A Messina, invece, la holding del crimine è composta da famiglie palermitane, catanesi e da
esponenti della ‘ndrangheta calabrese. Qui, secondo la commissione, il controllo del business dei
rifiuti avveniva attraverso la Messinambiente spa, la ‘Lex‘, di Nitto Santapaola e la
Termomeccanica, sponsorizzata da Angelo Siino, l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra.

L’intero ciclo dei rifiuti, compreso la possibile speculazione attorno ai termovalorizzatori, fa, poi,
registrare un salto di qualità da parte dei padrini. La commissione lo identifioca come il “terzo
livello”. I clan avrebbero infatti accostato “alla classica attività di estorsione (il primo livello); al
rapporto con amministratori pubblici (secondo livello), una pratica più invasiva e penetrante”.
Quella della gestione diretta delle principali attività del settore, gli inceneritori.

Uno scenario per il momento scongiurato dall’iniziativa del governatore Lombardo e dell’assessore
regionale dell’energia, Pietro Carmelo Russo. La legge regionale n.9 dell’8 aprile 2008, da loro
redatta, segna una discontinuità rispetto alla precedente legislatura. Un atto di indirizzo
programmatico definito dalla commissione parlamentare “ambizioso”, ma che “definisce gli
obiettivi sul recupero della materia che sono il vero obiettivo della raccolta differenziata”, e che
esclude la costruzione dei termovalorizzatori.<span> </span>Criminalità organizzata e rifiuti.
Tradotto: gli interessi di Cosa nostra nel ciclo della monnezza. E’ questa la novità che si legge nella
relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie presentato oggi a Palermo. Un
focus inpressionate sulla situazione siciliana che ilfattoquotidiano.it ha visionato in anteprima. Tutto
parte dal cosidetto Piano di ciclo dei rifiuti per la Sicilia. Questo il nome del progetto firmato nel
2002 dall’allora governatore e commissiraio all’emergenza per la spazzatura Salvatore Cuffaro. La
soluzione individuata dalla giunta regionale prevedeva la costruzione di quattro termovalorizzatori.
Uno a Palermo (Bellolampo), uno ad Augusta, uno a Casteltermini-Castelfranco e a Paternò. Per un
giro d’affari complessivo di 6 miliardi di euro. Denaro pubblico, ovviamente, in parte provenienti
dai fondi europei. In realtà, per il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di
Palermo il progetto si traduce in “una cooperazione tra mafiosi, politici, professionisti e
imprenditori anche non siciliani”.Nelle oltre quattrocento pagine del documento, la commissione,
presieduta dall’avvocato Gaetano Pecorella, senatore del Pdl, rivela come la mafia avesse già messo
le mani sull’affare miliardario, approfittando del suo ruolo dominante nel sistema dei rifiuti. Un
patto denunciato dal successore di Cuffaro, Raffaele Lombardo, durante la seduta dell’assemblea
regionale siciliana del 13 aprile 2010. Il governatore aveva da pochi giorni emanato la legge
regionale n. 9 2010, che di fatto esclude la costruzione di inceneritori.La storia oscura dei
termovalorizzatori isolani parte da una ordinanza del 5 agosto 2002 . Salvatore Cuffaro,
commissario delegato per l’emergenza rifiuti, approva un “avviso pubblico per la stipula di
convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, prodotti dalla regione siciliana, al
netto della raccolta differenziata”. Il documento viene pubblicato il 9 agosto 2002 sulla Gazzetta
ufficiale della regione siciliana. Il 15 novembre dello stesso anno interviene la Commissione delle
Comunità europee che trasmette alle autorità italiane una lettera di richiesta di informazioni su
quanto fatto dal governo regionale. L’Europa contesta alla regione di avere seguito una strada dai
livelli di trasparenza insoddisfacenti, in violazione delle direttive Cee. Eppure, si legge nel
documento, “il 17 giugno 2003, Cuffaro stipula quattro convenzioni per la realizzazione degli
inceneritori, rispettivamente con la Tifeo energia ambiente scpa, la Palermo energia ambiente scpa,
la Sicil power spa e la Platani energia ambiente scpa”. Società mai coinvolte in procedimenti
giudiziari.Eppure, per la commissione parlamentare “alcune aziende infiltrate sarebbero dentro”
l’affare inceneritori. In particolare si fa riferimento alla Altecoen, società riconducibile a Cosa
nostra e presente nell’elenco soci di una delle aziende aggiudicatarie degli appalti. In alcune gare
d’appalto sui rifiuti, la Altecoen, in passato, era stata sponsorizzata dal boss catanese, Nitto
Santapaola. Il suo amministratore delegato, fino all’anno 2004 è stato Francesco Gulino, già
presidente dell’Assindustria di Enna, arrestato nel 2005 su richiesta della procura distrettuale
antimafia presso il tribunale di Messina per concorso esterno in associazione mafiosa.Nella
relazione viene ripreso un report della Corte dei conti del 2007. Qui vengono messe in luce le
presunte responsabilità di Salvatore Cuffaro. In merito alla questione dei termovalorizzatori si
legge: “La presunta imperiosa urgenza nella conclusione delle convenzioni ha comportato la stipula
delle stesse a prescindere dall’acquisizione dell’informativa antimafia: tale comportamento è da
ritenersi particolarmente imprudente nella considerazione dei noti interessi della criminalità
organizzata nel campo dei rifiuti e del contesto ambientale siciliano”. Secondo la Corte dei conti,
Cuffaro non “poteva di certo ignorare” la presenza della Altecoen.Al di là dei termovalorizzatori,
quello che resta nelle carte redatte dalla commissione è un’impressionante mappatura degli interessi
mafiosi nella grande torta dei rifiuti in Sicilia. Nel palermitano, ad esempio, c’è la Coinres
(Consorzio intercomunale rifiuti, energia, servizi), che tra i propri dipendenti aveva personaggi di
spicco delle famiglie di Misilmeri, legata al boss Benedetto Spera. A Messina, invece, la holding
del crimine è composta da famiglie palermitane, catanesi e da esponenti della ‘ndrangheta
calabrese. Qui, secondo la commissione, il controllo del business dei rifiuti avveniva attraverso la
Messinambiente spa, la ‘Lex‘, di Nitto Santapaola e la Termomeccanica, sponsorizzata da
Angelo Siino, l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra.L’intero ciclo dei rifiuti, compreso la
possibile speculazione attorno ai termovalorizzatori, fa, poi, registrare un salto di qualità da parte
dei padrini. La commissione lo identifioca come il “terzo livello”. I clan avrebbero infatti accostato
“alla classica attività di estorsione (il primo livello); al rapporto con amministratori pubblici
(secondo livello), una pratica più invasiva e penetrante”. Quella della gestione diretta delle
principali attività del settore, gli inceneritori.Uno scenario per il momento scongiurato
dall’iniziativa del governatore Lombardo e dell’assessore regionale dell’energia, Pietro Carmelo
Russo. La legge regionale n.9 dell’8 aprile 2008, da loro redatta, segna una discontinuità rispetto
alla precedente legislatura. Un atto di indirizzo programmatico definito dalla commissione
parlamentare “ambizioso”, ma che “definisce gli obiettivi sul recupero della materia che sono il
vero obiettivo della raccolta differenziata”, e che esclude la costruzione dei termovalorizzatori.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/08/termovalorizzatori-in-sicilia-lultima-affare-di-cosa-
nostra-una-torta-da-sei-miliardi-di-denaro-pubblico/70174/

Il sud del Sudan chiede aiuto all’ONU


pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno sabato 9 ottobre 2010 alle ore 18.59

A gennaio si terrà un referendum sulla scissione tra nord e sud del paese. Entrambe le parti si
accusano di militarizzare il confine, il sud chiede aiuto all'ONU

9 ottobre 2010

Il presidente della regione meridionale del Sudan, Salva Kiir, ha chiesto al Consiglio di sicurezza
dell’ONU di inviare e schierare delle forze di pace sul confine che separa il nord dal sud del paese,
così da garantire sicurezza durante le operazioni di voto di un referendum che il prossimo gennaio
potrebbe sancire l’indipendenza del sud e riaprire le tensioni.
Il Sudan è uno dei paesi più devastati dalle guerre civili. Alle vittime del conflitto in Darfur si
sommano quelle delle guerre tra nord e sud del paese: dal 1983 al 2005, più di due milioni di
persone morirono e quattro milioni furono costrette a lasciare le loro case. Secondo gli accordi di
pace firmati nel 2005, a gennaio 2011 il sud avrà la possibilità di votare per la secessione con un
referendum. Fino a questo momento tutto sembra indicare che il governo di Karthoum cercherà di
boicottare il voto, e le dichiarazioni del presidente delle regioni meridionali mettono il dito nella
piaga: il confine tra le due porzioni di territorio è tutt’ora conteso e le parti si accusano a vicenda di
star schierando soldati nelle sue vicinanze.
Infatti la risposta del governo del nord è stata accusare nuovamente il Movimento per la liberazione
del popolo sudanese, principale partito politico del sud, di schierare il suo esercito attorno al
confine. “È una chiara violazione dei protocolli di sicurezza”, ha detto un portavoce del governo
sudanese. “Stanno cercando un pretesto per cominciare una guerra”, ha detto invece un portavoce
del partito, che ha sfidato poi le Nazioni Unite a venire sul posto e controllare chi sta facendo cosa.
In questo periodo il nord e il sud del paese stanno discutendo ad Addis Abeba delle regole per il
referendum: la composizione della commissione elettorale e i requisiti richiesti per votare. Fino a
questo momento, però, nessuna decisione è stata presa. Non è chiara infatti la nazionalità degli
appartenenti ad alcune tribù del sud del paese, anche perché si tratta di gruppi di persone che
secondo la stagione si spostano dentro e fuori il Sudan.

http://www.ilpost.it/2010/10/09/il-sud-del-sudan-chiede-aiuto-allonu/

Premio Liu Xiaobo, il testo della motivazione


pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno sabato 9 ottobre 2010 alle ore 18.18

09 ottobre

ROMA - Ecco il testo integrale della motivazione con cui il Comitato norvegese per il Nobel ha assegnato il premio per la pace al dissidente cinese
Liu Xiaobo, pubblicato sul proprio sito internet. ''Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu
Xiaobo per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato norvegese per il Nobel ritiene da
tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la 'fratellanza tra le nazioni' della quale Alfred
Nobel scrisse nel suo testamento. ''Nei decenni passati, la Cina ha raggiunto risultati economici difficilmente eguagliabili nella storia. Il Paese e'
oggi la seconda economia piu' grande del mondo; centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla poverta'.

Anche le possibilita' di partecipazione politica sono state ampliate. ''Il nuovo status della Cina deve
comportare una maggiore responsabilita'. La Cina viola diversi accordi internazionali dei quali e'
firmataria, cosi' come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani. L'articolo 35 della
Costituzione cinese sancisce che 'i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della liberta'
di espressione, di stampa, di assemblea, di associazione, di corteo e di manifestazione'. In pratica, e'
dimostrato che queste liberta' sono chiaramente limitate per i cittadini cinesi. ''Da oltre due decenni,
Liu Xiaobao e' un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali
anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; e' stato uno degli autori promotori
della Carta08, il manifesto di tali diritti in Cina che e' stato pubblicato nel 60/o anniversario della
Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008. L'anno successivo, Liu e' stato
condannato a undici anni di prigione e a due anni di privazione di diritti politici per 'aver incitato
alla sovversione contro lo Stato'.
Liu ha ripetutamente sostenuto che questa sentenza viola sia la Costituzione cinese che i diritti
umani fondamentali. ''La campagna per promuovere i diritti umani universali anche in Cina e' stata
intrapresa da molti cinesi, sia nella stessa Cina che all'estero. Attraverso le severe punizioni
inflittegli, Liu e' diventato il principale simbolo dell'intera battaglia per i diritti umani in Cina''.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2010/10/08/visualizza_new.html_1754670375.html
Sento un ribollire di acque, di schiuma che proviene dalla vasca degli squali. Quando un
pescecane è ferito, la sua scia di sangue eccita gli altri che cercano di divorarlo. Uno squalo
femmina è la Marcegaglia degli inceneritori. Uno le fu sequestrato nel silenzio assoluto
della Regione Puglia e della stampa di sinistra destra e centro (ma non del blog) nell'ottobre
del 2008 a Modugno in provincia di Bari grazie alla denuncia di ragazzi del Meetup Bari 2. Gli
inceneritori della Marcegaglia sono sovvenzionati dallo Stato attraverso la bolletta dell'energia
elettrica, il CIP6, una tassa “occulta”, del 7%, (destinata alle energie rinnovabili), di cui
beneficiano, con finanziamenti annuali miliardari, i proprietari di impianti che bruciano residui
petroliferi, i rifiuti e le cosiddette “biomasse” che producono tumori. Emma Marcegaglia ha le
palle, dichiarò nel marzo 2010: "Così come noi non ammettiamo nelle nostre organizzazioni ed
espelliamo chi è colluso con la mafia, anche la politica deve farlo, impedendo loro di ricoprire
incarichi pubblici". L'esempio viene dalla sua famiglia come riportò sempre il blog: "L'azienda
di famiglia nel 2008 ha patteggiato una sanzione di 500 mila euro più 250 mila euro di confisca
per una tangente di 1 milione 158 mila euro pagata a Lorenzo Marzocchi di EniPower, oltre a
500 mila euro di pena, e 5 milioni 250 mila euro di confisca della società N.e./C.c.t. spa
controllata dall'azienda. Il fratello Antonio Marcegaglia ha patteggiato 11 mesi di reclusione
con sospensione della pena per il reato di corruzione". E allora di che vogliamo parlare,
dell'aria fritta? Dell'acqua calda? Del presunto dossier della Marcegaglia?
Porro è responsabile per l'economia de Il Giornale, amico di lunga data di Arpisella,
responsabile della comunicazione della Marcegaglia. Il primo invia un sms al secondo che lo
avverte di un articolo contro la Marcegaglia. Arpisella si allarma, la Marcegaglia chiama
Confalonieri che, sembra, blocca ogni pubblicazione. Emma avverte la Procura che
perquisisce la sede de Il Giornale e ne indaga direttore e vice direttore per presunta attività di
dossieraggio in seguito alle critiche della Marcegaglia al governo. Sembra una telenovela, una
di quelle storie in cui il capo e la coda si alternano, si avviluppano, si trasformano fino a non
capirci più nulla. Se un giornalista dispone di una notizia ha il dovere di darla, anche Feltri,
così come un magistrato ha il dovere di indagare in caso di ipotesi di reato. La prossima volta
che il blog pubblicherà un post sulla Marcegaglia le invierò prima un sms di cortesia,
Speriamo che non mi denunci.
Addendum: Nelle intercettazioni tra Porro e Arpisella, quest'ultimo si riferisce a una entità
superiore ai teatranti della politica che governerebbe l'Italia, la chiama "cerchio
sovrastrutturale". Anche questa è una notizia vecchia. L'Italia è occupata da basi americane dal
1945 e il suo debito è in mano a Francia, Germania e Gran Bretagna. La data delle elezioni
l'hanno decisa loro come gran parte della nostra storia del dopoguerra.

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9 ottobre 2010

La guerra sempre meno segreta degli Stati Uniti in Pakistan


di Gianandrea Gaiani

A un mese dalle elezioni di Midterm l'amministrazione Obama perde i pezzi anche nel settore chiave della Difesa e Sicurezza con le dimissioni del
consigliere per la sicurezza nazionale, il generale James Jones, alle quali presto seguiranno quelle già annunciate del segretario alla Difesa, Robert Gates.
Vuoti pesanti da colmare proprio nel momento in cui vengono al pettine tutti i nodi mai risolti della controversa "strategia Afghanistan/Pakistan" messa a
punto dalla Casa Bianca l'anno scorso.

Le relazioni tra Washington e il Pakistan, l'alleato "amico dei nemici" nella guerra ai talebani e ad al-Qaeda, hanno raggiunto ormai aspetti
paradossali e a tempo stesso molto tesi, Paradossali perché mentre il Pakistan blocca alla frontiera i convogli logistici diretti alle truppe della Nato per oltre
due terzi statunitensi i velivoli da trasporto americani continuano a portare in Pakistan generi di prima necessità e aiuti umanitari per le popolazioni colpite
dalle alluvioni. Sempre più tesi perché le incursioni degli elicotteri e dei droni statunitensi nel Waziristan (oltre 20 incursioni in meno di un mese, l'ieri ha
ucciso nove miliziani) hanno determinato una reazione da parte di Islamabad che sembra nascondere qualcosa di più del leso orgoglio nazionale.

I pakistani non solo bloccano da sette giorni gli autocarri logistici ma li lasciano anche alla mercé delle milizie talebane che fanno capo al
"network Haqqani" che costituisce il bersaglio prioritario degli attacchi statunitensi. Il risultato sono decine di cisterne di carburante date alle fiamme almeno
una ventina di autisti uccisi o sequestrati e un danno considerevole alle forze alleate.

Un nuovo gruppo jihadista pakistano, il ''Mujahid-e-Islami Buraq'', ha rivendicato venerdì 8 ottobre gli attacchi nella provincia nord-occidentale di
Khyber-Pakhtunkhwa in cui decine di autobotti e mezzi pesanti con rifornimenti per la Nato in Afghanistan sono stati incendiatii. Il portavoce del gruppo,
Jehanzeb, ha detto per telefono al quotidiano The News che «gli attacchi continueranno fino a quando le truppe degli Usa e dei loro alleati non
abbandoneranno il l'Afghanistan. Ci vendicheremo per l'accresciuto numero dei raid dei droni americani sul Waziristan».

Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, è consapevole della vulnerabilità delle linee logistiche alleate ( metà dei materiali
necessari arrivano via Pakistan) e cerca di non irritare i pakistani minimizzando. Ieri ha Affermato che i transiti verranno presto riaperti e che le relazioni con
i pakistani non si sono deteriorate ma molti, anche a Washington, ritengono evidente che il doppio gioco di un Pakistan a parole alleato dell'Occidente
contro i jihadisti ma nei fatti complice e sponsor dei talebani è ancora una realtà.

Nel momento in cui, oltre ala "Shura di Quetta" che fa capo al Mullah Omar, anche il "network Haqqani" sembra aver aperto colloqui con il presidente
afghano Hamid Karzai, il Pakistan alza il livello della tensione lungo il confine schierandovi batterie antiaeree (come sostiene Arab News ) che dovrebbero
difendere il territorio nazionale dai raids della Nato. I missili pakistani puntati contro i teleguidati Predator e i Reaper statunitensi costituirebbero un altro
aspetto paradossale in questa vicenda se si considerano i 12 miliardi di dollari di aiuti militari forniti in nove anni da Washington a Islambad (inclusi alcuni
caccia F-16) e i Berretti Verdi delle forze speciali dell'Us Army che addestrano le truppe pakistane alla contro-insurrezione.

Secondo quanto riferito dal quotidiano britannico Guardian, una delegazione del clan Haqqani, che includeva un fratello e uno zio di Sirajuddin, il figlio del
fondatore, si sarebbe recata a Kabul per colloqui con funzionari afgani, in compagnia di esponenti dei Servizi di intelligence pachistani (Isi) .

«L'Isi vuole arrestare i comandanti che non obbediscono ai suoi ordini», ha detto un comandante talebano della provincia di Kunar al Wall Street
Journal che in un'ampia inchiesta ha evidenziato il ruolo dei servizi segreti militari di Islamabad nel tentativo di far fallire l'ipotesi di negoziati. «L'Isi vuole
che uccidiamo tutti: poliziotti, soldati, tecnici, insegnanti e civili afghani solo per terrorizzare la gente». Un altro leader talebano della provincia di Paktia,
sostiene che «l'Isi appoggia quelli sotto il suo controllo con denaro e armi e garantendo loro un rifugio in territorio pachistano».Funzionari Usa hanno riferito
di aver appreso delle pressioni pachistane da alcuni militanti catturati e da quanti stanno trattando per deporre le armi.

La maggiore pressione militare sulle basi talebane nell'Area Tribale pakistana è prevista dalla strategia del generale David Petraeus che guida le
forze alleate e sta fornendo ottimi risultati con l‘uccisione del capo di al.Qaeda in Afghanistan e Pakistan, l'egiziano Sheikh Fateh al Masri, mentre cinque
mesi prima era stato ucciso il su predecessore, Mustafa al Yazid. Successi bilanciati dalla cattura o uccisione di una trentina di leader talebani della "Shura
di Quetta"nelle ultime due settimane nell'area di Kandahar, Petraeus ha chiesto a Islamabad di fare di più per colpire i miliziani sul suo lato della frontiera.

Richiesta legittima considerato che secondo fonti d'intelligence confermate dai filmati dei velivoli teleguidati tra i miliziani che entrano in Afghanistan
ci sono membri del corpo paramilitare del Frontier Corps pachistano le cui caserme sul confine sono in parte divenute basi logistiche talebane. Islamabad
invece sembra concentrare gli sforzi militari sui movimenti talebani che minacciano la stabilità interna del Paese evitando accuratamente di colpire il
"network Haqqani" e i gruppi attivi solo in Afghanistan.

Il dossier pakistano si fa sempre più complicato per l'amministrazione Obama che, sempre in Afghanistan, deve fare i conti con la crescente
penetrazione iraniana a sostegno con armi e denaro gli insorti più irriducibili. Il 7 ottobre nella provincia meridionale di confine di Nimroz un container
proveniente dall'Iran ufficialmente pieno di pentole e utensili da cucina conteneva in realtà 19 tonnellate di esplosivo fonti ufficiali statunitensi e afghane
hanno denunciato già più volte il sostegno finanziario e militare offerto dall'Iran ai talebani afghani. Teheran, come Islamabad, ha sempre respinto le
accuse.

9 ottobre 2010

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Il Nobel per la pace a Liu Xiaobo Dissidente cinese in carcere


Il premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo scuote i rapporti tra oriente e occidente ma crea disaccordi anche
tra i suoi sostenitori che si dividono tra chi, come gli Usa, chiede a Pechino un gesto concreto in grado di
dimostrare che al salto economico si possa affiancare un'inversione di rotta sul fronte dei diritti umani, e
chi, come l'Europa, non trova la forza di una posizione unitaria e, ancora una volta, va in ordine sparso. E
desta anche qualche preoccupazione, come dimostra la reazione del segretario generale dell'Onu Ban Ki-
Moon che, soddisfatto per l'importante riconoscimento, esprime però la «sincera speranza» che il premio
non rappresenti un ostacolo a futuri progressi nell'agenda cinese sul fronte dei diritti umani.

LA MOGLIE LO INCONTRA IN CARCERE


Secondo il Centro d'informazioni sui diritti umani e la democrazia, che cita la suocera del dissidente,
l'incontro è avvenuto oggi nel primo pomeriggio locale nel carcere di Jinzhou, nel nord della Cina. Liu
Xiaobo, in prigione dalla fine del 2008, sta scontando una condanna a 11 anni di reclusione inflittagli per
«istigazione alla sovversione». La moglie del premio Nobel, Liu Xia, era scomparsa dalla notte di venerdì
scorso, quando era stata vista lasciare la sua abitazione di Pechino scortata da un drappello di poliziotti.
Prima di partire, Liu Xia aveva precisato che, pur essendo felice di poter incontrare il marito, lasciava la
capitale contro la sua volontà. Da allora il cellulare della donna e quella del fratello, che l'ha
accompagnata, sono risultati fuori servizio. Nè gli avvocati nè altri dissidenti cinesi sono riusciti finora a
parlarle. Il comitato norvegese del Nobel ha affermato di aver assegnato il premio a Liu, professore di
letteratura di 54 anni, sottoscrittore del documento a favore della democrazia Carta08, per «i suoi sforzi
costanti e non violenti in favore dei diritti dell' uomo in Cina».

DECINE DI ARRESTI
Almeno una ventina di dissidenti, che festeggiavano il Nobel per la Pace a Liu Xiabao, sono stati arrestati
a Pechino. Secondo quanto riferito dall'avvocato a tutela dei diritti umani, Teng Biao, gli arresti sono
avvenuti dopo le cinque del pomeriggio (ora locale, quando in Cina si è venuta a sapere la decisione di
Oslo) in diverse zone della capitale cinese e piccoli gruppi di attivisti si disponevano a riunirsi in bar e
ristoranti per celebrare la concessione del Nobel a Liu. «Si stavano preparando per celebrare il Nobel e
volevano incontrarsi in diversi punti della città», ha dichiarato l'avvocato raggiunto telefonicamente. Nel
pomeriggio ora locale il ministero degli Esteri cinese ha anche convocato per consultazioni l'ambasciatore
norvegese a Pechino, Svein Ole Saether.

Barack Obama ne chiede la liberazione, la Francia e la Germania sottoscrivono, il mondo intero si


congratula mentre Pechino grida all' «oscenità » e convoca l'ambasciatore norvegese in Cina.

La richiesta di liberare «al più presto» Liu, simbolo della lotta per i diritti umani che sta scontando una
condanna a 11 anni di carcere, è arrivata dal premio Nobel dello scorso anno, il presidente americano
Barack Obama, convinto che negli ultimi 30 anni la Cina abbia fatto «enormi progressi» nel campo delle
riforme economiche, «migliorando la vita della sua popolazione», ma anche che la riforma politica non
abbia «seguito lo stesso ritmo»e che i diritti umani debbano essere rispettati. Un gesto concreto, che
chiedono anche Francia e Germania, mentre Bruxelles si limita alle felicitazioni, senza alcuna richiesta
ufficiale. Come l'Italia, reduce dal vertice italo-cinese, che definisce il Nobel «un riconoscimento
internazionale per tutti coloro che lottano per la libertà e i diritti della persona».

Nessun commento arriva dal Vaticano, mentre i missionari «plaudono» alla decisione perchè, assicurano,
è così «caduta la muraglia di omertà che l'occidente ha mantenuto in questi anni nei confronti di una
situazione gravissima». Felicitazioni per il riconoscimento a Liu, arrivano dai nomi illustri che prima di lui
hanno ottenuto il Nobel. Primo fra tutti un altro 'dissidente', il Dalai Lama, la vera spina nel fianco del
regime cinese. «È un riconoscimento della comunità internazionale - dice- all'innalzamento della voce del
popolo cinese». Ma anche da Lech Walesa, premio Nobel nel 1983, che definisce il riconoscimento «una
sfida per la Cina e il mondo intero».

Parla di decisione «storica» Taiwan, mentre Amnesty International chiede a Pechino «la liberazione di
tutti i prigionieri di coscienza». Una voce fuori dal coro arriva invece proprio dal 'padre' della dissidenza
cinese Wei Jingsheng, convinto che l'intellettuale insignito del Nobel sia in realtà un moderato pronto a
collaborare. E che per questo abbia ricevuto il premio.
10 ottobre 2010

SERBIA

Gay Pride, scontri a Belgrado


l'estrema destra contro il corteo
Gruppi di ultranazionalisti cercano di impedire lo svolgimento della manifestazione, prevista in mattinata. Che rappresenta anche un
"test di democrazia" agli occhi della Ue. Lancio di pietre contro i cordoni della polizia. Nel 2001 la giornata dell'orgoglio omosessuale finì
nel sangue sempre per la protesta dell'estrema destra
Alcuni partecipanti
alla protesta anti Gay Pride

BELGRADO - Tredici poliziotti e circa venti persone sono rimaste ferite questa mattina a Belgrado nel corso di scontri fra forze
dell'ordine e gruppi di estremisti di destra ultranazionalisti che hanno cercato a più riprese di forzare i cordoni degli agenti per impedire
lo svolgimento del Gay Pride, previsto per la tarda mattinata. I fermati sono già alcune decine.

La manifestazione si è trasformata in un "test di democrazia" agli occhi dell'Unione europea: l'ultima sfilata dell'orgoglio omosessuale a
Belgrado, nel 2001, finì nel sangue sempre a causa delle proteste dei gruppi di estrema destra. Il capo della delegazione Ue in Serbia,
Vincente Degert e il ministro serbo per i Diritti umani e le minoranze, Svetozar Ciplic, hanno confermato la loro partecipazione.

I teppisti, al grido di "morte ai gay", "la caccia è cominciata", hanno affrontato il massiccio schieramento di agenti in assetto
antisommossa lanciando sassi e altri oggetti pesanti. La polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni e manganelli per respingere i violenti. Gli
scontri hanno avuto luogo in varie zone, a Terazje, Slavja, intorno alla Cattedrale di San Sava. Ieri nel centro della capitale serba decine
di migliaia di persone avevano già partecipato alla "Passeggiata della famiglia" per chiedere pacificamente l'annullamento della
manifestazione di oggi.

Belgrado, sin dalle prime ore del mattino, ha un aspetto spettrale, le strade dell'intera zona centrale sono deserte, presidiate da cordoni
impressionanti di polizia, appoggiate da reparti a cavallo e da elicotteri. Gruppi di preti ortodossi e credenti con icone e stendardi
religiosi affrontano i cordoni di agenti cantando preghiere "per salvare la Serbia". "Siamo qui per dire a tutti che quelli sono malati e che
solo Dio li può salvare", ha detto un prete con riferimento agli omosessuali, radunati nel Parco del Maneggio.

Si calcola che per il Gay Pride - che lo scorso anno era stato annullato per le minacce di gruppi violenti - siano stati mibilitati più di 5.000
poliziotti a fronte di un migliaio circa di partecipanti previsti.
(10 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

LE STORIE

La rabbia del militare ferito


"Che ci stiamo a fare qui?"
Le testimonianze dei soldati e l'angoscia al fronte: "È un inferno, siamo in guerra". Le paure di Cornacchia su Facebook. "In quella zona
si combatte sempre"
di GIAMPAOLO CADALANU
Luca Cornacchia, rimasto ferito a un piede

LO SAPEVANO bene, che sarebbero finiti nel girone più caldo dell'inferno afgano. "Li guardavamo nelle loro tende a Herat. Giravano in
accappatoio, passavano il tempo ad aspettare l'ordine di partire per il Gulistan. E pensavamo: poverini, vanno nel posto più brutto. Se
per noi è dura, per loro è dura il doppio", racconta un veterano dell'Afghanistan. Il settimo reggimento della brigata Julia doveva partire
già a luglio, per dare una mano agli americani in una delle zone più roventi. Ma l'ordine tardava. Il motivo: "Gli americani non avevano
tempo da perdere con problemi logistici. Lì si combatte di continuo".

La zona del Gulistan, Tripoli box nel gergo dei soldati, è un'area cuscinetto, che nelle intenzioni di Isaf dovrebbe essere gestita in futuro
autonomamente dal comando di Herat: qui passano i miliziani in arrivo dall'Helmand e da Kandahar, qui italiani e americani stanno
allestendo una base avanzata per fare argine e impedire l'accesso al vivo della zona Ovest. E la valle del Gulistan è quella che i militari
chiamano senza mezzi termini killing zone, una "zona di mattanza": un percorso obbligato che si restringe gradualmente come un
imbuto, portando in trappola chiunque cerchi di andare verso nord.

"La prova che Tripoli box è una zona ad altissimo rischio è nell'organizzazione dell'attentato: prima la bomba, con comando a distanza,
poi la sparatoria", dice un ufficiale appena rientrato dal teatro afgano: "Questa è la tecnica che i Taliban hanno imparato da Al Qaeda,
non è certo una scaramuccia con banditi o contrabbandieri".
Con quattro caduti, un ferito grave, e soprattutto un incremento continuo degli scontri, è cambiato qualcosa fra i soldati italiani. Un
ufficiale sintetizza: "Che cosa è cambiato? Stiamo combattendo. Adesso nessuno parla più di missione di pace, si parla di missione e
basta". E porta ad esempio la dinamica degli ultimi scontri: "In passato se un aereo senza pilota Predator scopriva qualcuno intento a
preparare una bomba stradale, noi andavamo semplicemente a disinnescarla. Nei giorni scorsi, dopo la segnalazione del drone una
squadra di truppe speciali è partita per acchiappare chi aveva messo lo Ied. E c'è stato uno scontro violentissimo, in cui abbiamo perso
Alessandro Romani".

Insomma, finalmente la guerra si chiama guerra. E anche fra i soldati qualcuno ammette apertamente un po' di disagio, magari
scegliendo di sfogarsi sullo schermo di Facebook. "Mi sono rotto di stare qui in Afghanistan, non si capisce nulla", scriveva il 3 ottobre
Luca Cornacchia, il militare abruzzese rimasto ferito nell'attentato. Francesco Vannozzi, che nell'esplosione ha perso la vita, aveva
scelto per la sua bacheca elettronica una frase del film di John Moore "Max Payne": "Io non credo nel paradiso, credo nel dolore, credo
nella paura, credo nella morte". E per spiegare come la pensasse sulla guerra, usava una citazione di Albert Einstein: "Non so con quali
armi combatteremo la terza guerra mondiale, ma nella quarta useremo sassi e bastoni".

C'è chi si sente tradito anche dal mezzo blindato Vtlm, quello che veniva chiamato "San" Lince perché negli anni scorsi aveva salvato
decine di militari. Adesso la guerriglia adopera bombe molto più potenti, e le corazze del Lince non bastano più. La Difesa ha promesso
l'arrivo degli ancora più robusti "Freccia", ma nel frattempo qualcuno ipotizza che negli ultimi attentati ci sia lo zampino di istruttori
stranieri, ex militari, capaci di sfruttare ogni possibile debolezza nelle macchine. Da Belluno Stefano Fregona, vicecomandante del
Settimo alpini, difende il blindato, "un mezzo eccezionale, che ha salvato molte vite", ma ammette: "Il clima è drammatico. La notizia ha
raggiunto l'anima dei miei ragazzi, che sono soldati preparati a tutto ma certamente non si è mai preparati abbastanza per queste
tragedie".
(10 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

DI PIETRO scarica DE LUCA: le ingenuità di un….ingenuo.??


pubblicata da Michele Pietrasanta il giorno lunedì 11 ottobre 2010 alle ore 21.47

Antonio Di Pietro pubblica una sua intervista, comparsa sulle pagine del Fatto Quotidiano
Pentito? “Non è esatto dire pentito. Italia dei Valori aveva deciso di sostenere Vincenzo De Luca
nella corsa a governatore della Campania perché De Luca aveva stretto un patto con noi fondato
sulla questione morale e sull’antiberlusconismo. Invece il sindaco di Salerno non è stato un uomo
d’onore, ha accettato la prescrizione nel processo per la discarica di Ostaglio, si è omologato ai
pensieri e alle politiche di Berlusconi che infatti vuole affidargli l’appalto del termovalorizzatore
salernitano.
Spero che De Luca non si ricandidi a primo cittadino, ma se lo farà non avrà il nostro
appoggio”. Parola di Antonio Di Pietro.

Il leader Idv che qualche mese fa, per aver dato il via libera a un politico plurimputato per le
varianti urbanistiche salernitane, affrontò un fuoco amico di critiche e contestazioni – tra le quali
spiccarono i durissimi editoriali di Marco Travaglio e Paolo Flores d’Arcais – per aver violato uno
dei principi fondativi del suo partito: il no alle candidature degli inquisiti. Ma Di Pietro difese con
veemenza una scelta dettata dalla realpolitik: “Non potevo assumermi la responsabilità di
consegnare la regione a Berlusconi”. Quella destra ha vinto lo stesso. E ora l’ex Pm di Mani Pulite
si sfila da una vittoria a Salerno che invece pare abbastanza probabile. In nome di un principio al
quale non vuole più derogare.

Il Fatto Quotidiano: Di Pietro, è vero che Idv non si alleerà con De Luca alle amministrative di
Salerno del 2011?
Antonio Di Pietro: Io mi auguro che non si ricandidi. Sindaco avvisato mezzo salvato… Sì,
comunque è vero.
----- Tonino, non incominciare con il piede sbagliato: se vi è coerenza non vi è quasi mai
ripensamento. Viceversa,il ripensamento deriva proprio dall’incoerenza dimostrata in quella
occasione.

Il Fatto Quotidiano: Perché ci ha ripensato su De Luca?


Antonio Di Pietro: Non è un ripensamento. È coerenza.
----- OK, andiamo avanti, prima che ci incazz…..

Il Fatto Quotidiano: Spieghi.


Antonio Di Pietro: Il Pd ci disse: o lo sostenete o vi prendete la colpa della rottura della coalizione
e della sconfitta. E De Luca venne a febbraio al congresso Idv…
----- Anche qui tutto nella norma. - (anche se il Bellini centra poco.)

Il Fatto Quotidiano: Che lo acclamò…


Antonio Di Pietro: …a garantirci che si candidava in alternativa e come argine a Berlusconi e al
berlusconismo. Io per senso di responsabilità ho accettato. Ma a condizione che non venisse meno
sulla questione morale.
----- Giusta e doverosa precauzione.!

Il Fatto Quotidiano: De Luca è imputato in due processi per reati gravi.


Antonio Di Pietro: E lui ci aveva assicurato che in caso di condanna si sarebbe dimesso.
----- Tonino, vedi che qui inizia a manifestarsi….l’incoerenza.-
Non si era detto di NON candidare inquisiti.?? Tu lo hai fatto e per giunta ti sei “fidato” della
parola.- Hai “documenti” che attestino queste promesse.?? Se si, allora tirali fuori.! Viceversa,
non continuare a prenderci per il culo.

Il Fatto Quotidiano: Aveva anche una condanna in primo grado per le irregolarità del sito di
stoccaggio di Ostaglio.
Antonio Di Pietro: Ci promise che avrebbe rinunciato alla prescrizione.
----- Tonino, Tonino, tu ti fai prendere per il culo e ora vuoi rifarti prendendo per il culo gli
Italiani.??

Il Fatto Quotidiano: In appello, pochi mesi fa, De Luca ha incassato la prescrizione.


Antonio Di Pietro: Ha rotto il patto di fiducia con noi. Non possiamo più ridargliela.
----- De Luca è un politicante nato.- Ha pensato bene (a modo suo) di tutelare i suoi “interessi” e
tenersi a…galla. – Ma tu tutto questo non lo hai messo in preventivo.??

Il Fatto Quotidiano: Si sente ingannato?


Antonio Di Pietro: Ha ingannato Idv e la coalizione. Compreso il Pd che si era fatto garante per De
Luca. Un uomo che tradisce un impegno preso davanti a 3000 persone che lo applaudono non è un
uomo d’onore. Dovrebbe essere l’intero centrosinistra a non ricandidarlo.
----- Allora perché non vai dal PD (Bersani) a chiedere di onorare l’impegno.??
Se uno si fa garante e concede fideiussione, paga lui per le inadempienze di De Luca.

Il Fatto Quotidiano: Già nel 2006 De Luca scese in campo e vinse a dispetto del no del suo partito,
i Ds.
Antonio Di Pietro: Se rivincerà, massimo rispetto per il voto degli elettori. Ma se rivincerà, sarà
senza di noi.
----- Quelli sono fatti loro, come pure le scelte di De Luca.

Il Fatto Quotidiano: Lei dice che De Luca doveva essere un argine al berlusconismo. Lo sa che il
premier vorrebbe affidargli l’appalto del termovalorizzatore di Salerno, a costo di far arrabbiare la
Provincia a guida Pdl?
Antonio Di Pietro: Alla luce delle recenti evoluzioni, dico che in realtà Berlusconi sta affidando il
termovalorizzatore a un suo uomo.
----- Tonino, fai il finto tondo.?? – Ma perché tu di voltagabbana, incoerenti, inciucisti ed
affaristi politici NON ti sei fatto già una esperienza in materia.?? – Non sai come vanno queste
cose nel mondo partitocratico, di cui fai parte a pieno titolo.??

Il Fatto Quotidiano: De Luca uomo di Berlusconi?


Antonio Di Pietro: Accettando una prescrizione disegnata dalle leggi del Cavaliere, ha aderito al
modello berlusconiano.
----- Qui non è questione di aderire ad un “modello”….sposandolo.- Il modello lo si può
prendere a prestito (come fate tutti voi), anche solo per le proprie esigenze ed….interessi del
momento.

Il Fatto Quotidiano: Ma Idv a Salerno è in maggioranza con De Luca. Il vostro consigliere


comunale, Dario Barbirotti, che è anche consigliere regionale, siede nel gruppo consiliare della lista
del sindaco.
Antonio Di Pietro: Barbirotti ci ha comunicato che uscirà da quel gruppo e fonderà il gruppo
autonomo Idv.
----- Barbirotti “forse” uscirà dal gruppo che sostiene De Luca, ma mi devi spiegare come fa a
formare un “gruppo autonomo”.- Ci sono i numeri e le condizioni.?? – E gli altri consiglieri
IdV,se ce ne sono, sai già il loro pensiero e quale…. strada prenderanno.??
Caro Tonino, prima di sparare “cazzate”, accertati di tutti i fatti, vedi e verifica le condizioni e gli
intendimenti, valuta le volontà dei tuoi.-
Poi potrai dire sempre “cazzate”, ma almeno saranno a…..ragion veduta.-
Come a dire:- cazzate con il copyright..!! ---

Fonte file originale:


http://www.antoniodipietro.com/2010/10/de_luca_ha_tradito_idv_e_la_co.html

Il mondo teme la Cina, dicono i giornali cinesi


pubblicata da INFORMAZIONE LIBERA il giorno lunedì 11 ottobre 2010 alle ore 9.34

Il mondo teme la Cina, dicono i giornali cinesi

Sulla stampa cinese qualcuno comincia a parlare del Nobel a Liu Xiaobo, ma per criticarlo. Ieri la
moglie di Liu aveva detto di essere agli arresti domiciliari a Pechino

11 ottobre 2010

Così come il governo cinese, che ha definito “un’oscenità” l’assegnazione del premio Nobel per la
pace a Liu Xiaobo, anche la stampa in Cina commenta criticamente la decisione del Comitato
norvegese. Lo scrive la Reuters, che cita alcuni passi degli articoli pubblicati sui giornali a
commento della premiazione.
“L’assegnazione del premio Nobel per la pace al ‘dissidente” Liu Xiaobo non è altro che un’altra
espressione del pregiudizio verso la Cina, e nasconde uno straordinario terrore nei confronti
dell’ascesa della Cina e del suo modello”, scrive il Global Times, popolare tabloid che guida gli
attacchi dei mezzi di informazione contro la decisione del Comitato. Liu Xiaobo è un noto
sostenitore della democrazia multipartitica, una strada che farebbe precipitare la Cina verso un
“rapido collasso”, così come accaduto “con l’ex Unione Sovietica e la Jugoslavia”.
Il Ta Kung Pao, un altro giornale cinese con redazione a Hong Kong, ha definito il premio a Xiaobo
“umorismo nero”: la dimostrazione che il Nobel è una cosa poco seria. “Questo premio è carta
straccia”. Gli stessi concetti erano stati espressi qualche giorno fa in un editoriale pubblicato anche
in inglese sul sito del giornale: Xiaobo viene definito “un criminale”.
Ieri la moglie di Liu Xiaobo, Liu Xia, aveva dato notizie di sé attraverso il suo account Twitter,
confermando di essere stata arrestata dalle forze dell’ordine cinesi come sospettato dopo la sua
scomparsa. Ha incontrato il marito in prigione e poi è tornata a Pechino dove, scrive la CNN, è
segregata nel suo appartamento senza la possibilità di fare telefonate e vedere persone.

“Fratelli, sono tornata. Sono stata arrestata l’8. Non so quando potrò vedere tutti. Hanno messo
mano al mio cellulare, e non posso ricevere telefonate. Ho visto Xiaobo. Il 9 la prigione gli ha dato
la notizia del premio. Il resto ve lo dirò più avanti. Per favore aiutatemi a diffondere. Grazie.”

e Liu Xiaobo non sarà liberato in tempo per il 10 dicembre, il giorno della consegna dei Nobel, Liu
Xia potrebbe ritirare il premio a Oslo per il marito. Le autorità cinesi potrebbero però decidere di
negare il permesso a Liu Xia per lasciare temporaneamente il paese.

http://www.ilpost.it/2010/10/11/xiaobo-reazione-giornali-cinesi/

Inps, è ufficiale: i precari saranno senza pensione. Silenzio dei


media o scatta la rivolta
pubblicata da "SIAMO TUTTI ANTIFASCISTI" *** LA PIU' GRANDE PAGINA ITALIANA ANTIFA *** il giorno lunedì 11 ottobre 2010 alle ore 22.33

La notizia è arrivata e conferma la peggiore delle ipotesi. Rimarrà sotto traccia per ovvi motivi,
anche se in Rete possiamo farla circolare. Se siete precari sappiate che non riceverete la pensione.
Icontributi che state versando servono soltanto a pagare chi la pensione ce l'ha garantita. Perché
l'Inps debba nascondere questa verità è evidente: per evitare la rivolta. Ad affermarlo non sono
degli analisti rivoluzionari e di sinistra ma lo stesso presidente dell'istituto di previdenza, Antonio
Mastropasqua che, come scriveAgoravox, ha finalmente risposto a chi gli chiedeva perché
l'INPS non fornisce ai precari la simulazione della loro pensione futura come fa con gli altri
lavoratori: "Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un
sommovimento sociale".
Intrage scrive che l'annuncio è stato dato nel corso di un convegno: la notizia principale sarebbe
dovuta essere quella che l'Inps invierà, la prossima settimana, circa 4 milioni di lettere ai
parasubordinati, dopo quelle spedite a luglio ai lavoratori dipendenti, per spiegare come consultare
on line la posizione previdenziale personale. Per verificare, cioè, i contributi che risultano versati.
La seconda notizia è che non sarà possibile, per il lavoratore parasubordinato, simulare sullo stesso
sito quella che dovrebbe essere la sua pensione, come invece possono già fare i lavoratori
dipendenti. Il motivo di questa differenza pare sia stato spiegato da Mastrapasqua proprio con
quella battuta. Per dire, in altre parole, che se i vari collaboratori, consulenti, lavoratori a progetto,
co.co.co., iscritti alla gestione separata Inps, cioè i parasubordinati, venissero a conoscenza della
verità, potrebbero arrabbiarsi sul serio. E la verità è che col sistema contributivo, i trattamenti
maturati da collaboratori e consulenti spesso non arrivano alla pensione minima.
I precari, i lavoratori parasubordinati come si chiamano per l'INPS gli "imprenditori di loro
stessi" creati dalle politiche neoliberiste, non avranno la pensione. Pagano contributi inutilmente o
meglio: li pagano perché l'INPS possa pagare la pensione a chi la maturerà. Per i parasubordinati
la pensione non arriverà alla minima, nemmeno se il parasubordinato riuscirà, nella sua carriera
lavorativa, a non perdere neppure un anno di contribuzione.
L'unico sistema che l'INPS ha trovato per affrontare l'amara verità, è stato quello di nascondere ai
lavoratori che nel loro futuro la pensione non ci sarà, sperando che se ne accorgano il più tardi
possibile e che facciano meno casino possibile.
Quindi paghiamo i nostri contributi che non rivedremo sotto forma di pensione. Se reagiamo
adesso, forse, abbiamo ancora la speranza di una pensione minima.

http://contintasca.blogosfere.it/2010/10/inps-e-ufficiale-i-precari-saranno-senza-pensione-silenzio-
dei-media-o-scatta-la-rivolta.html
11/10/2010

Voglia di bombe

La proposta di armare con bombe i nostri caccia in Afghanistan conferma solo la


natura bellica, quindi incostituzionale, di quella missione. E non ha nulla a che
fare con la protezione dei nostri soldati, bensì con ragioni politiche ed
economiche
Sfruttando cinicamente il lutto nazionale per i
quattro soldati italiani caduti in Afghanistan, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa,
propone di armare con bombe i nostri caccia impegnati in missione per fornire maggior
protezione alle truppe a terra.
Una decisione che, obiettano le opposizioni, trasformerebbe la natura della missione militare
italiana, da missione di pace a missione di guerra incostituzionale. Come se sganciare
bombe dagli aerei fosse un atto di guerra, mentre lanciare razzi dagli elicotteri Mangusta o
usare i loro micidiali cannoni rotanti, bombardare con mortai da 120 millimetri o sparare
cannonate con i carri cingolati Dardo - tutte cose che le forze italiane in Afghanistan fanno
regolarmente - fossero invece azioni pacifiche.
Ciononostante, c'è chi continua ipocritamente a difendere il carattere 'pacifista' della missione
militare. ''E' sbagliato parlare di guerra - ha dichiarato domenica il responsabile Esteri del Pd,
Piero Fassino - perché c'è una differenza sostanziale tra chi fa la guerra e una missione di
pace: nel primo caso si spara per primi, nel secondo si spara solo se attaccati e per
tutelare la popolazione. Dei 34 soldati morti in Afghanistan nessuno è caduto in un'azione
bellica offensiva. Noi non siamo là per fare la guerra a nessuno''.
L'onorevole Fassino non sa, o finge di non sapere, che finora le forze italiane in Afghanistan
non si sono limitate a rispondere al fuoco quando attaccate. Da anni i nostri militari - non
solo le forze speciali della Task Force 45 - 'sparano per primi' partecipando attivamente alle
prolungate offensive congiunte pianificate dai comandi Nato. Come quella del novembre 2007
nel distretto del Gulistan, o quelle ripetute (agosto 2008, maggio 2009 e giugno 2010) nella
zona di Bala Murghab: offensive durate anche settimane, con bombardamenti aerei e
d'artiglieria e con decine e a volte centinaia di 'nemici' uccisi.
Sgomberato il campo dall'ipocrisia della missione di pace, rimane l'interrogativo sul motivo
che spinge la Difesa a voler armare di bombe i nostri aerei. Scartata la spiegazione ufficiale
della maggior protezione per le truppe a terra - un bombardamento aereo non fornisce di
certo uno scudo alle imboscate, servono semmai blindati più resistenti - rimangono una
ragione politica e una economica.
La prima riguarda i rapporti con i nostri alleati della Nato, Stati Uniti in testa, che da anni
chiedono all'Italia di impegnarsi senza restrizioni in questa guerra. Dopo il ritiro dei Tornado
tedeschi, anch'essi vincolati dal 'caveat' che impedisce l'uso di bombe aeree, gli Amx italiani
rimangono gli unici caccia senza bombe della missione Isaf. Un'eccezione politicamente
imbarazzante per i rappresentanti del nostro governo, e anche per quelli dell'opposizione
(che nel 1999, per non sfigurare, mandarono i nostri Tornado a bombardare Belgrado).
L'altra ragione, quella economica, tocca invece gli interessi dell'industria bellica italiana.
A fine gennaio la Oto Melara, azienda del gruppo Finmeccanica, ha acquistato
dall'americana Boeing i componenti per assemblare nelle officine Breda di Brescia
cinquecento bombe aeree 'bunker-buster' Gbu-39 da 130 chili l'una (le stesse usate dagli
israeliani nell'operazione 'Piombo Fuso' a Gaza) che ora giacciono in magazzino pronte
all'uso.
"Perché comperare da Boeing, per 34 milioni di dollari, cinquecento bombe - scriveva lo
scorso 20 settembre su Panorama l'esperto militare Gaiandrea Gaiani - se poi non le
imbarchiamo sui nostri jet in Afghanistan? Che senso ha spendere centinaia di milioni di euro
per aggiornare i cacciabombardieri Amx e Tornado se poi non li si impiega per bombardare il
nemico?".
Enrico Piovesana

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Parole chiave: afghanistan, italia, bombe, aerei, amx


Categoria: Guerra, Economia
Luogo: Afghanistan

Scuola

Adro, aggredita militante Cgil


Romana Gandossi, delegata di zona dello Spi, stava accompagnando la nipote nella tanto discussa scuola Gianfranco Miglio, quando alcune donne si sono
avvicinate minacciosamente e l'hanno aggredita: "E' tutta colpa tua, tu non puoi entrare"

Tensione a Adro, la cittadina ormai nota alle cronache per la questione dei 700 simboli padani che
griffano la scuola intitolata a Gianfranco Miglio. Una delegata di zona dello Spi-Cgil, Romana Gandossi, ha
denunciato ai carabinieri di essere stata aggredita da un paio di donne del paese.

"Mi hanno aiutato solo le donne arabe", ha dichiarato la delegata sindacale aggredita. "Avevo
accompagnato la mia nipotina - spiega - all'interno della scuola perché era leggermente in ritardo.
Quando sono uscita alcune donne mi si sono avvicinate minacciosamente e una di loro, dopo avermi
stretto forte il braccio, ha gridato 'Tu non puoi entrare nella scuola, tutto quello che è successo è colpa
tua'. Io cercavo di chiamare i carabinieri con il cellulare, ma non ce la facevo. Poi sono riuscita a
richiamare l'attenzione dei vigili".

Romana Gandossi, 70 anni, pensa che "l'astio nei suoi confronti sia dovuto soprattutto al fatto d'essere
stata la prima a far sapere alla stampa cosa stava accadendo, nei mesi scorsi nella mensa di Adro". E
aggiunge: "Sono sulla lista di proscrizione del sindaco e quello che è successo stamani è anche a causa di
quella lista. La tensione è destinata solo a salire, ma io cercherò di mantenere la calma. E' molto
importante soprattutto stasera".

Esteri, Global Voices

La Russia nega il grano, stop alle esportazioni

stampa l'articolo |
Il divieto recentemente imposto da Putin all'export di cereali, fra i quali il grano, ha suscitato panico a livello mondiale per l'impatto sul prezzo del grano e
sulla sicurezza alimentare. Il paese è uno dei cinque maggiori esportatori del pianeta

di Juhie Bhatia, Global Voices


(Traduzione di Ylenia Gostoli, Global Voices)

Il divieto recentemente imposto dalla Russia all'esportazione di cereali, fra i quali il grano, ha suscitato
panico a livello mondiale sull'impatto che questa decisione potrebbe avere sul prezzo del grano e sulla
sicurezza alimentare globale. La Russia è uno dei cinque maggiori esportatori mondiali di grano, ma
quest'estate i raccolti sono stati compromessi dall'ondata di caldo record, accompagnato dalla grave
siccità e dagli incendi che si sono abbattuti sul Paese.

In un blog della Banca Mondiale dal titolo Prospects for Development, Hans Timmer scrive che la
produzione di cereali in Russia potrebbe diminuire addirittura di un quarto rispetto all'anno scorso. Di
conseguenza, il Premier russo Vladimir Putin ha annunciato il mese scorso che il Paese ha bloccato
l'esportazione di cereali, fra cui il grano, l'orzo, la segale e il mais, e provvederà a fornire aiuti finanziari
agli agricoltori.

In seguito, Putin ha dichiarato che il divieto si estenderà fino al 2011, nella speranza di assicurare le
riserve per l'anno prossimo e di prevenire aumenti dei prezzi alimentari sui mercati interni. Nel frattempo,
da giugno i prezzi internazionali del grano sono saliti di oltre il 50 per cento.

In un articolo per il Kyiv Post, Lauren Goodrich sostiene che il divieto potrebbe scongiurare eventuali
agitazioni sociali e politiche in Russia, come quelle che si verificarono in tutto il mondo quando i prezzi
degli alimenti lievitarono durante la crisi del 2007-2008. Ma le proteste sono già iniziate. La settimana
scorsa, in Mozambico, disordini [it] dovuti all'aumento del prezzo del pane hanno causato 13 morti e
centinaia di feriti e il malcontento è in crescita in paesi come l'Egitto e la Serbia. Il divieto sull'export del
grano ha scatenato il panico anche altrove, alimentando il timore di una crisi alimentare a livello globale e
di ulteriori aumenti dei prezzi. Simon Monger, che scrive per il sito di notizie finanziarie Sumfolio,
approfondisce il tema dei potenziali effetti del divieto sui prezzi:

"La decisione della Russia di vietare l'esportazione del prodotto... potrebbe avere enormi conseguenze sui
prezzi mondiali. All'annuncio della misura da parte del primo ministro Vladimir Putin, i prezzi sono saliti al
loro livello più alto negli ultimi due anni, mentre altri Paesi hanno seguito l'esempio, imponendo anch'essi
limiti sulle esportazioni.

E se i prezzi hanno subito un leggero ribasso nel momento in cui i produttori statunitensi hanno avviato
preparativi per aumentare la produzione interna, il mercato rimane molto incerto. D'altronde, il passaggio
alla produzione di grano potrebbe portare a una sovrapproduzione di questo e alla sottoproduzione di altri
cereali".

Questa situazione, insieme al previsto declino nella produzione di grano in paesi come il Canada, aumenta
i timori di ulteriori minacce alla sicurezza alimentare mondiale. Qualche giorno dopo l'annuncio di Putin, il
Programma Alimentare Mondiale (WFP), la sezione dell'ONU per la lotta contro la fame, ha dichiarato al
Dow Jones Newswires che il divieto ridurrà la quantità di aiuti alimentari che l'organizzazione potrà
consegnare ai paesi in via di sviluppo, lasciando potenzialmente milioni dei più poveri del mondo in preda
alla fame. Nel 2009, Il WFP ha fornito aiuti alimentari a più di 100 milioni di persone in 73 paesi. Più di un
terzo dei 2,6 milioni di tonnellate metriche di cibo comprato quell'anno fu grano; circa il 95 per cento di
questo grano proveniva dalla zona del Mar Nero.

Anatoly Karlin, un blogger di origine russa e studente universitario che vive in California, raccoglie articoli
dei media sulla siccità e gli incendi che hanno colpito la Russia nel suo blog Sublime Oblivion, dove
esprime la sua preoccupazione per come l'attuale situazione potrebbe nuocere ai paesi più poveri.

"La crisi dell'agricoltura in Russia potrebbe andare avanti per altri due anni, nel caso in cui la terra sia
troppo arida per seminare il raccolto invernale... Insieme al declino nella produzione agricola di altri paesi
(ad esempio, le alluvioni in Cina hanno ridotto la produzione di riso del 5-7% quest'anno) e all'ascesa del
protezionismo alimentare, il benessere sociale nei paesi poveri importatori di cibo, come l'Egitto e il
Pakistan, calerà nettamente. Anche se non ci sono le condizioni per un ripetersi della crisi alimentare del
2008, è comunque la conferma che la nostra è un'era di scarsità in aumento".
Il panico ha colpito la stessa Russia [it], non solo a causa del grano, ma anche per quanto riguarda il
grano saraceno [it]. Anche se tecnicamente non appartiene alla famiglia delle graminacee, il grano
saraceno è comunemente usato come un cereale ed è alla base della dieta russa. La siccità ha influito sul
raccolto, provocando clamore all'interno della blogosfera russa al rialzo dei prezzi. Due settimane fa,
Alexey Kovalev riportava su The Guardian che un pacco di grano saraceno da un chilo, che prima costava
circa 20 rubli (circa €0.50) ora costa 40 o anche 70 rubli, quando disponibile.

Il cittadino moscovita ed esperto di politica Oleg Volodin scrive sul suo blog che i fornitori stanno
contribuendo ad alimentare il panico [Ru]:

Понятно, что с урожаем-2010, мягко скажем, проблемы - но "продовольственная паника" их только


усугубляет. Давая поставщикам и торговым сетям прекрасный повод задирать цены - вызывая
новую волну истерики “видите, дорожает!”. Кстати, если статистика не врет - продажи круп,
макаронов и муки за последнюю неделю (!) выросли впятеро.

"È chiaro che ci siano, a dir poco, alcuni problemi con il raccolto del 2010. Ma il "panico da cibo" non fa
altro che peggiorarli. Per fornitori e rivenditori, è una scusa per aumentare i prezzi, causando così una
nuova ondata di isterismo: "Guarda, è più caro!" A proposito, se le statistiche non mentono, le vendite di
cereali, pasta e farina sono quintuplicate (!) durante la settimana passata".

A parte incitare al panico, causare l'incremento dei prezzi e potenzialmente colpire la sicurezza
alimentare, alcuni economisti sostengono che il divieto di esportazione sui cereali in Russia sarà nocivo
anche sotto altri punti di vista. Simon Black, in un articolo sull'EconomicPolicyJournal.com, spiega quali
potrebbero essere le conseguenze:

"Nel tentativo di ridurre l'inflazione, il governo ha deciso di imporre un divieto all'export, in pratica
impedendo agli agricoltori russi di generare i migliori profitti sul loro prodotto. Questo tipo d'intervento è
stato provato varie volte, notoriamente con il recente divieto sulle esportazioni di carne di manzo
dall'Argentina. Finisce sempre male: i produttori vanno in bancarotta, i lavoratori si ritrovano disoccupati,
l'economia ne risente, e la produzione di beni alimentari diminuisce a lungo termine… ma i politici non
imparano mai. Come minimo, la Russia subirà notevoli danni alla sua reputazione nell'ambito del
commercio internazionale"

Nonostante il panico, il prezzo del grano in borsa rimane comunque sopra i livelli del 2007-2008, e
l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao) ha dichiarato che al momento
non c'è motivo di temere una nuova crisi alimentare globale. Alla luce di questo, Azamat Abdymomunov,
un consulente di politiche pubbliche kazako, esplora i motivi di tanta agitazione sul blog KnowledgeMap.
Paul R. Gregory, esperto della Russia e ricercatore all'università di Houston, scrive su What Paul Gregory
is Writing About che, ora che le forze di mercato controllano l'agricoltura russa al posto dello Stato, ci
sono meno motivi di preoccuparsi:

"Considerate l'effetto del ritorno all'agricoltura di mercato sulla popolazione russa. La carestia sovietica
del 1932-33 vide una diminuzione della produzione di cereali pari a circa il venti per cento, una cifra
simile a quella preannunciata per quest'anno. La conseguenza più immediata fu la morte di almeno sei
milioni di persone… Nel 2010, il peggio che si aspetta la popolazione russa è un aumento dei prezzi. La
Russia fa parte della comunità economica internazionale. Nel peggiore dei casi, quest'anno importerà i
suoi cereali, e riprenderà a esportare quando le condizioni climatiche saranno tornate alla normalità".

La Fao ha annunciato la scorsa settimana la convocazione di un'assemblea speciale degli Stati membri,
prevista per il 24 settembre a Roma, ai fini di discutere la situazione dei prezzi del grano in aumento e
valutare al meglio il problema delle provviste alimentari.

Una notte lunga 30 anni: il caso De Palo/Toni


30 settembre 2010 - Cultura - Società

- di Erminia Borzì -

Graziella De Palo, 24 anni e Italo Toni, 51 anni, scomparsi a


Beirut (Libano), il 2 settembre 1980, erano entrambi giornalisti di Paese Sera, giornale del Pci negli
anni ’70-‘80. Graziella era una giovane promessa del giornalismo italiano, che si trovò coinvolta in
un gioco più grande di lei.
Laureata in lettere moderne, la De Palo scrisse alcuni pezzi sul rapporto tra “l’imperialismo”
americano e i Paesi del Terzo mondo e Medio oriente, suscitando molti consensi ed accattivandosi
la fiducia professionale di Giuseppe Fiori ed Andrea Barbato, i quali, fino al 1982, si alternarono
alla direzione di Paese Sera. La De Palo, pur non essendo ancora giornalista a tutti gli effetti,
prometteva un brillante futuro da cronista. “Graziella – ricorda la madre Renata De Palo – aveva
una grande sensibilità e un forte senso di protezione nei confronti dei più deboli, tanto da
abbracciare pienamente la causa palestinese. L’amica Loredana Lipperini ha dichiarato che
Graziella le ripeteva sempre questa frase: “…e comunque, agisci. Anche a vuoto, ma agisci. Non
stare ferma. Mai!”. Questa era la giornalista Graziella De Palo…

Graziella De Palo ed Italo Toni

Italo Toni, da maestro elementare di una piccola provincia marchigiana, divenne un promettente
giornalista di Paese Sera, come Giovanni Spampinato, firmando anche articoli sul traffico
internazionale di armi. A differenza del giornalista ragusano, però, le inchieste di Italo Toni si
esplicarono ad ampio raggio, trattando un giro continuo e redditizio di droga ed armi tra Africa,
Asia, Medio Oriente ed Italia. Traffici internazionali che violavano i patti sanciti dall’Onu,
scatenando vere e proprie guerre di aggressione nei Paesi del Terzo mondo ed alimentando il
terrorismo nel nostro paese. Italo era un giornalista “consumato”; conosceva come le sue tasche il
Medio oriente, tanto che, nel 1968, per Paris Match, scrisse un articolo che fece conoscere
all’Occidente la presenza di campi di addestramento di Al-Fatah, la guerriglia palestinese, fondata
da Yasser Arafat nel 1959.
Gli amici e colleghi del giornalista scomparso così lo ricordano: “Italo era sicuramente un
giornalista fuori dagli schemi, non integrabile nel sistema giornalistico italiano; era un free lander
con un grosso fiuto per le inchieste. Ha sempre corso rischi, ma sapeva calcolare i pericoli.
Sicuramente, prima del 2 settembre 1980, Italo si è sempre affidato anche alla fortuna…”.
Certamente Italo Toni vide in Graziella quelle doti di entusiasmo, capacità professionale e serietà
che egli richiedeva nei suoi collaboratori.
La Beirut degli anni ’80

guerra in Libano (1982)

Tra il 1975 e il 1991, nella capitale libanese ci furono 560 rapimenti di occidentali (religiosi,
militari, diplomatici, uomini d’affari e, soprattutto, giornalisti), che vi soggiornavano. La Beirut,
scenario del rapimento di Graziella De Palo e Italo Toni, era una città devastata dalla guerra. Se
prima del 13 aprile 1975, il Libano era considerato un’oasi di pace, lussi e divertimenti, dopo quella
data, questo Paese dovette piegarsi alla realtà. In un quartiere cristiano maronita della zona est,
durante l’inaugurazione di una chiesa, vennero esplose da una macchina in corsa raffiche di mitra,
che procurarono la morte del leader della comunità religiosa e di alcuni civili (4 morti e 7 feriti).
Come rappresaglia, i miliziani falangisti cristiani uccisero un gruppo di fedayn di ritorno da una
parata e un gruppo di civili palestinesi (27 morti). Fu l’inizio di una guerra che durò 17 anni e fu un
massacro etnico, perché a Beirut convivevano 13 comunità, tra le quali, le più numerose, quelle
degli sciiti, dei sunniti, dei palestinesi e dei cristiani maroniti. Quest’ultima etnia era sostenuta dagli
israeliani, mentre la comunità palestinese era sostenuta dai siriani e, dal 1979, in seguito alla
detronizzazione dello Scià, anche dall’Iran di Khomeini. Tutte le etnie di religione islamica si
raccolsero nel Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp o Olp). Con la
guerra il controllo pubblico e delle frontiere si affievolì e fiorirono i traffici di armi e droga.
Proliferarono faccendieri, spie e giornalisti; queste ultime figure spesso si identificarono tra di loro
e Beirut divenne anche la Mecca dello spionaggio. Il ricavato della vendita delle armi venne
impiegato in istituti di credito, aziende e banche internazionali con sede nella capitale libanese. Con
queste società ebbero anche a che fare personaggi noti legati alla P2, al Banco Ambrosiano di
Roberto Calvi e ai Servizi Segreti Italiani. Così La De Palo, in un articolo uscito su Paese Sera il 21
marzo 1980, titolò: False vendite spie e società fantasma: così diamo armi. Questo caos di intrighi
internazionali, a meno di due settimane dal loro arrivo, inghiottì Italo e Graziella.
Il viaggio senza ritorno
La prima tappa del viaggio di Graziella De Palo ed Italo Toni fu Damasco. Era il 22 agosto 1980 e i
due giornalisti erano appena arrivati in Siria. La prova è data da un telegramma che Graziella inviò
alla famiglia a Roma e che arrivò a casa De Palo il 26 agosto. Fu il primo e l’ultimo messaggio
della giornalista italiana alla famiglia; l’unica certezza di quel viaggio sfortunato. La mamma della
giornalista, Renata De Palo, dichiarò successivamente che non si era preoccupata da principio del
silenzio della figlia, perché la stessa l’aveva avvertita che, arrivata a destinazione, le possibilità di
comunicare con l’Italia erano molto improbabili. In seguito all’ufficializzazione della scomparsa da
parte dell’ambasciata italiana, il 15 settembre 1980, le autorità siriane negarono la presenza dei due
giornalisti italiani a Damasco, ma, in un secondo momento, furono costretti ad ammettere, sotto la
pressione della Farnesina, la loro presenza alla fine di agosto nella capitale siriana. Massimiliano
Scafi de Il Giornale, il 5-02-1983, titolò: In Libano bocche cucite sulla sorte dei due giornalisti
italiani scomparsi.
L’inchiesta dei due giornalisti
Prima della partenza, Graziella ed Italo si erano recati nella sede romana dell’Olp, che, nel 1980, si
trovava in via Nomentana. Secondo la versione dell’ex rappresentante dell’Olp in Italia, Nemer
Hammad, entrambi i giornalisti si presentarono come free landers, dichiarando di non avere
sufficienti possibilità economiche per affrontare il viaggio in Libia. Hammad si occupò del viaggio,
garantendogli la protezione del Fplp a Beirut e, il 24 agosto, Graziella ed Italo passarono in
macchina la frontiera tra Siria e Libano, arrivando lo stesso giorno a Beirut. I due giornalisti si
presentarono alla sede del Fplp della capitale libanese, ottenendo una stanza all’hotel Triumph e un
interprete, il prete palestinese, monsignor Ibram Ayad, con il quale la De Palo aveva avuto un
contatto meno di un mese prima del suo arrivo a Beirut. (L’intervista a padre Ayad è l’ultima di
Graziella: Un prete cattolico palestinese: “Ci resta solo la lotta armata”. Mons. Ayad: i violenti
sono loro).
Ufficiosamente Graziella ed Italo volevano documentare le condizioni di vita dei profughi
palestinesi e la situazione politico militare del Libano. In realtà, come dichiarerà lo stesso
monsignor Ayad, Italo Toni dimostrava di essere molto interessato al traffico di droga che arrivava
a Beirut e, solo in un secondo momento, a quello di armi. I due giornalisti si resero subito conto che
non era facile reperire informazioni, perché la città era divisa da una cortina presidiata dai gruppi
falangisti sulla via di Damasco. La zona ovest era controllata dalla milizia musulmana, della quale
facevano parte palestinesi, sciiti e sunniti. La zona est, invece, era controllata dalla milizia cristiana
maronita.
Probabilmente a causa di queste difficoltà, Graziella ed Italo, il giorno prima della loro scomparsa,
si recarono all’ambasciata italiana a Beirut, dichiarando di voler visitare il sud del Libano. Qualora
non fossero tornati entro tre giorni, l’ambasciata avrebbe dovuto allertare i soccorsi. Invece,
passarono più di dieci giorni dall’attivazione dei soccorsi da parte dell’ambasciata italiana a Beirut e
della Farnesina, suscitando l’ira di Renata De Palo, secondo la quale l’Italia si era disinteressata
completamente della figlia e del suo collega. In seguito, alcuni giornalisti documentarono il calvario
delle famiglie De Palo e Toni, come Rina Goren de Il Messaggero, che, il 5-02-1983,
scrisse: Totale disinteresse dell’ambasciata per le sorti dei due giornalisti. Il Secolo d’Italia titolò,
l’11-06-1983, La famiglia De Palo accusa il Ministero degli Esteri. Roberto Della Rovere del
Corriere della Sera, l’11-06-1983, scrisse: Da Pertini la mamma di Graziella De Palo: “Qualcuno
copre gli autori del rapimento”.
Il giorno della scomparsa
Il 2 settembre 1980, i due giornalisti italiani uscirono di buonora dal loro albergo per raggiungere
con una jeep l’Olp, situato su una delle linee più calde della guerra tra palestinesi ed israeliani: la
zona del castello di Beaufort. Probabilmente, in serata, al loro rientro in albergo, Graziella ed Italo
avrebbero dovuto incontrare un trafficante, ma è solo un’ipotesi, perché della loro scomparsa non ci
sono testimoni. E’ certo che il portiere dell’albergo, Gargi Chaker, fosse una persona di fiducia del
Fplp e che li controllasse. E’ probabile che, davanti all’hotel Triumph, i due giornalisti siano saliti
su un mezzo che li portò verso la morte. Il sequestro De Palo-Toni non ha un nome, non si
conoscono le motivazioni di tale atto. Forse ad Italo e a Graziella fu costruito ad arte il ruolo di
informatori, ovvero, di spie. Sono certe solo poche cose: in quel periodo, a Beirut, si rapiva per i
motivi più diversi, soprattutto se si era cittadini occidentali. In seguito Palestinesi e cristiani
maroniti si palleggiarono le colpe per la sparizione dei due giornalisti con il benestare di una parte
delle autorità italiane. E’ certo che non si volle approfondire l’appartenenza politica dei rapitori, al
fine di iniziare una trattativa. Il Libano non parlò mai di Graziella ed Italo, quasi che, non
parlandone, la sparizione non fosse mai successa. Molte autorità palestinesi ed italiane, ancora oggi,
probabilmente sanno ma non vogliono ancora chiarire i motivi della sparizione e dell’omicidio. A
distanza di trent’anni c’è ancora una enorme voragine che divide i comuni cittadini dalla Verità.
Carta del Medio oriente

Purtroppo, in questo caso, furono le famiglie ad occuparsi degli scomparsi e la famiglia De Palo, il
15 settembre, giorno previsto per il rientro in Italia dei due giornalisti, allertò l’ambasciata italiana
di Damasco, l’unico luogo certo per i genitori di Graziella dove la figlia aveva soggiornato.
Solamente il 29 settembre, i De Palo vennero a sapere che nell’albergo di Beirut, dove Graziella
alloggiava insieme ad Italo Toni, erano rimasti alcuni effetti personali di Graziella, tra i quali
l’agenda, trovata integra. Un’agenda ricca di nomi e cognomi, di appuntamenti e di posti da vedere.
Allora perché le indagini non partirono proprio da quell’agenda? Perché il Sismi e la Procura non
codificarono gli appunti di Graziella, trascurando completamente questa importante pista?
Dopo questo ritrovamento, agli inizi di ottobre, il Ministero degli Esteri decise di aprire un
fascicolo, affidando l’inchiesta al capo del Sismi, il colonnello Stefano Giovannone e non
all’ambasciatore italiano a Beirut, Stefano d’Andrea. Perché questa scelta?
Nemer Hammad parlò del capo del Sismi come di un patriota: “…durante la guerra in Libano aveva
la tessera di Al Fatah e gli era consentito passare a qualunque check-point!”. Questa opinione è in
contrasto con l’idea che Graziella De Palo aveva del colonnello. Poco tempo prima del suo viaggio
a Beirut, la De Palo titolò così un suo articolo: Novello Lawrence d’Arabia ovvero Giovannone. Il
nomignolo di un Colonnello che fa da sceicco di raccordo fra il nostro controspionaggio e l’Olp.
Adesso è nei guai. E’ chiaro che Graziella alludesse al traffico di armi tra Italia e il Medio oriente.
Traffici per i quali si puntava il dito contro Giovannone. A questo proposito l’ex sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio, onorevole Francesco Mazzola, dichiarò che non era da escludere uno
stretto legame tra il Sismi italiano e le milizie palestinesi. Legame che, probabilmente, era andato
oltre l’Accordo Moro.
Il colonnello del Sismi aveva ottime ragioni per diffidare anche di Italo Toni, che, “scorrazzando”
per tutto il Libano, costituiva un testimone oculare per quei traffici che dovevano rimanere segreti
(Il Giornale d’Italia, 28-10-1983: L’inchiesta sul traffico di armi: interrogato il colonnello
Giovannone). “Qualcuno, ancor prima che i due giornalisti partissero dall’Italia – affermò l’emiro
Faruk Abillamah – fece credere alla milizia dell’Olp e soprattutto alla Siria che Italo Toni era una
spia e questa notizia non poteva arrivare se non dall’Olp italiana”. Anche il giornalista Giampaolo
Pellizzaro (consulente della commissione di inchiesta parlamentare sulle stragi e sul terrorismo) si
dimostrò d’accordo con l’emiro Abillamah ed aggiunse che la segnalazione alla Siria e al Libano
che Italo Toni fosse un informatore arrivò quando i due giornalisti cercarono l’accreditamento da
Nemer Hammad. (Franco Nicotra de Il Messaggero, il 21-06-1984, scrisse: Avvertì l’Olp sulle armi
e la De Palo).
Un anno e mezzo dopo la scomparsa, il 18 Aprile 1981, la famiglia De Palo fu ricevuta a Damasco
da Arafat, il quale promise la liberazione di Graziella. I genitori e gli amici di Graziella intuirono
che, dietro la sua prigionia, ci fossero negoziati occulti e che Graziella fosse considerata merce di
scambio. Uno scambio che (come si resero conto molto presto) andò rapidamente in fumo. “Il
nostro governo”, affermò Renata De Palo, “era perfettamente a conoscenza di cosa fosse accaduto a
mia figlia e ad Italo Toni e chi fossero coloro con cui dovere trattare!” (Bruno Miserendino de
L’Unità, l’11-06-1983, scrisse:Accusiamo Santovito e i servizi per la fine di Italo e Graziella).
Il 12 giugno 1981, la milizia cristiano maronita smentì, attraverso un comunicato, la paternità del
rapimento. La prova era il luogo della scomparsa: Beirut ovest, territorio sotto il controllo dell’Olp.
I palestinesi respinsero l’accusa con un comunicato stampa al quale partecipò anche Nemer
Hammad, il quale difese anche Giovannone e il governo italiano. Perché questa difesa così diretta?
Eppure sul coinvolgimento dei Palestinesi e sul benestare del governo italiano vi erano molti
sospetti.
Quando il 14 gennaio 1982, il governo italiano decise di intervenire, l’istruttoria venne affidata al
dott. Giancarlo Armati, sostituto procuratore della Procura di Roma. In seguito, il giudice Armati
dichiarò che quella era stata l’inchiesta più ingarbugliata e complessa della sua carriera di Sostituto
Procuratore.
Il 24 gennaio 1983, la famiglia De Palo si recò in Libano, portando con sé una delegazione di
giornalisti italiani (Il 22-01-1983, il Giornale d’Italia titolò: Delegazione a Beirut per cercare i due
giornalisti scomparsi). La situazione politica era cambiata: i palestinesi avevano abbandonato
Beirut, dove si erano insediati i militari israeliani, per rinforzare l’esercito cristiano maronita. In
questo scenario politico-militare, i genitori di Graziella speravano di creare una breccia che potesse
concretizzare il ritorno di Graziella a casa. Questa speranza era alimentata da condizioni favorevoli,
che si rivelarono delle bolle di sapone e “per le quali”, ha dichiarato la madre di Graziella, “chi
sapeva continuava a non parlare”. L’esito del viaggio a Beirut per i coniugi De Palo fu deludente,
come pure il loro rientro: molti, infatti affermavano che Graziella ed Italo se l’erano andata a
cercare…. .
E’ chiaro che il dialogo che la famiglia De Palo voleva instaurare con il governo libanese non
poteva concretizzarsi, perché, se apparentemente la situazione politico-militare sembrava
“rasserenata”, il Libano viveva una situazione di completo caos, che, a distanza di più di trent’anni
è ancora evidente. Negli anni ’80, infatti, il Libano era uno Stato frammentato in tanti settori, che
cercavano di prevalere gli uni sugli altri.
Graziella De Palo, prima della sua partenza per Beirut, era in contatto con l’onorevole Falco
Accame, il quale, a seguito delle inchieste della giovane giornalista, formulò diverse e ripetute
interrogazioni parlamentari sui rapporti tra il colonnello Giovannone e l’Olp e il traffico di armi e
droga che dal Medio Oriente giungeva in Italia. Secondo Accame, la questione più delicata che
condannò a morte Graziella ed Italo fu il rifornimento di armi alla milizia palestinese di Al Fatah
(www.anavafaf.com, Falco Accame, Non c’è il fato nella lunga scia di morti ignote in Italia).
Il rapimento De Palo-Toni e i missili di Ortona
Tra l’autunno del 1979 e l’agosto 1980, grazie all’Accordo Moro, l’Italia garantiva alla Palestina
“un’impunità non scritta” a patto che il nostro paese non fosse coinvolto in atti terroristici. I fedayn
di ‘Arafat avevano libero accesso in Italia con il permesso di poter importare ed esportare armi,
senza che le autorità intervenissero. La Palestina avrebbe supportato le richieste di petrolio da parte
dell’Italia, in cambio di un appoggio alla causa palestinese in campo internazionale.
Questo patto fu violato quando i carabinieri sequestrarono, ad Ortona, nella notte tra il 7 e l’8
novembre 1979, due lanciamissili SAM-7 Strela con munizioni, arrestando tre appartenenti ad
Autonomia Operaia, di Roma: Baumgartner, Pifano, Nieri, insieme ad Abu Anzeh Saleh,
palestinese con passaporto giordano, in Italia dagli inizi degli anni ’70. Quest’ultimo, ufficialmente
nel nostro Paese in qualità di studente, in realtà era il responsabile della struttura militare
clandestina del Fplp; era anche legato al contrabbandiere venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto
Carlos, detenuto attualmente in Francia. Il 13 novembre, i carabinieri arrestarono anche George
Habbash, leader dell’Olp in Italia. Dopo questi arresti eccellenti, per coprire questa organizzazione,
intervenne anche il Sid, attraverso un documento ufficiale sull’Olp per evitare un conflitto
irreversibile tra Italia e Libia. Dopo l’arresto di Habbash e di Saleh, attraverso un comunicato
stampa, il Fplp accusò l’Italia di non aver rispettato i patti dell’Accordo Moro e annunciò pesanti
ritorsioni. Il processo contro Habbash e Saleh iniziò proprio nell’agosto del 1980, quando la De
Palo e Toni giunsero a Damasco. Il giudice Armati, basandosi sugli atti processuali, negò un
collegamento tra la vicenda di Ortona, l’arresto di Habbash e il caso De Palo-Toni, eppure le
coincidenze ci furono a cominciare dalle menzogne del colonnello Giovannone, relativamente al
fatto che Graziella fosse ancora viva. Probabilmente, il Sismi temporeggiava con il Fplp per la
scarcerazione di Habbash e Saleh. Nel 1981, durante il processo contro i due esponenti del Fplp il
Ministero della Giustizia italiano intervenne, affinché fosse ridotta la pena agli imputati. Il giudice
Armati chiese il rinvio a giudizio del colonnello Giovannone e del generale Santovito per
favoreggiamento, ma, a causa della morte di questi ultimi, l’inchiesta si concluse con un nulla di
fatto (Il Tempo, il 6-02-1984, titolò: E’ morto a Firenze il generale Santovito; Franco Coppola de
La Repubblica, il 6-02-1984: Santovito si porta nella tomba i misteri dei servizi anni 70; Claudio
Gerino de La Repubblica titolò: Morto il Colonnello Giovannone). Nel 1986, George Habbash fu
assolto in tutti i gradi di giudizio per insufficienza di prove. In primo grado, gli imputati,
Baumgartner, Pifano, Nieri e Saleh non vennero condannati per possesso di armi terroristiche, ma
semplicemente per la detenzione di armi. In Appello e in Cassazione gli imputati furono condannati
a sette anni di reclusione. Di fatto furono prosciolti gli uomini del Sismi che, a più riprese
inquinarono le prove. Abu Azen Saleh se la cavò con una condanna minima per possesso di armi
(La Sera, il 15-04-1983, scrisse,: Il Sismi inventò una pista falangista per proteggere l’Olp).
A distanza di trent’anni è ancora oscura la destinazione dei due lanciamissili terra-aria.
Il giornalista Pellizzaro ha affermato che “l’anello di congiunzione tra il ritrovamento dei missili ad
Ortona, l’arresto di Habbash, la strage di Bologna e la scomparsa dei due giornalisti sta negli
accordi segreti tra Italia e Palestina”. E’ importante ricordare, infatti, che il quartier generale del
Fplp in Italia era il capoluogo romagnolo e George Habbash doveva essere ad Ortona il giorno della
consegna dei due missili SAM-7, ma probabilmente qualcosa o qualcuno lo trattenne di modo che i
tre di Autonomia Operaia e Abu Anzeh Saleh fossero scoperti ed arrestati.
E’ possibile che la scomparsa di Graziella ed Italo sia stata una ritorsione per la cattura di Habbash
e Saleh e che, in seguito, si sia tentato uno scambio tra la De Palo e i due membri del Fplp? E’
possibile che il Sismi abbia imposto il silenzio dal parte delle autorità italiane sul caso De Palo-Toni
per evitare di pregiudicare la scarcerazione di Habbash e Saleh?
E’ più che probabile che sia stato proprio Habbash il mandante del sequestro De Palo-Toni. Il
giudice Armati accertò che i due giornalisti italiani furono prelevati all’hotel Triumph dai miliziani
di Habbash, interrogati e uccisi pochi giorni o poche ore dopo. (Da L’Unità Bruno Miserendino, il
10-02-1985, titolò: “Habbash li ha fatti sequestrare”. Scomparvero a Beirut, la verità è ancora
lontana; Daniela Mastrogiacomo di La Repubblica scrisse il 10-02-1985, I palestinesi di Habbash
hanno ucciso Toni e De Palo).
La ragione del rapimento e dell’assassinio e le ipotesi, i depistaggi e la Verità
Graziella e Italo avevano le prove che proprio da Beirut partissero armi da destinarsi all’Italia e che
questo traffico fosse diretto dal Fplp Questa ipotesi fu, in seguito, confermata da diverse procure
italiane che si sono occupate del caso. Dal Libano, inoltre, partirono parte dei depistaggi sulla strage
di Bologna, dei quali Graziella De Palo era a conoscenza, perché indagava sul 2 agosto 1980.
Graziella ed Italo erano determinati a far luce anche su questo fatto gravissimo. Giancarlo De Palo,
fratello di Graziella ricorda che, dopo la strage di Bologna, Graziella parlava della pista libanese e
Giancarlo ebbe un brutto presentimento: la paura che da quel viaggio Graziella non sarebbe più
tornata. Giancarlo ne parlò con Graziella, cercò di impedirle di partire, ma fu tutto inutile.
Miste ad un gran vuoto di notizie, le ipotesi, che si sono fatte nel corso di questi trent’anni sul
destino dei due giornalisti italiani, hanno trovato riscontri concreti nella realtà. A cominciare dal
soggiorno di Graziella ed Italo a Beirut e dalla “ragion di Stato” che, da sempre, soffoca gran parte
dei fatti più gravi che hanno afflitto l’Italia negli anni dellastrategia della tensione. Il caso De Palo-
Toni è stato, come afferma il giornalista Gian Paolo Pellizzaro, “insabbiato a più livelli e le famiglie
sono state tenute in un Purgatorio, dal quale non sono riuscite ad uscire neanche dopo trent’anni”,
come i familiari delle vittime di piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969); Montagna Longa,
(Carini, 5 maggio 1972); piazza della Loggia (Brescia, 28 maggio 1974); treno Italicus (San
Benedetto Val di Sambro, Bologna, 4 agosto 1974); DC 9 ammarato nei pressi dell’aeroporto di
Punta Raisi (23 dicembre 1978); strage di Ustica (27 giugno 1980); strage del Rapido 904 (galleria
dell’Appennino, 23 dicembre 1984); strage di Bologna (2 agosto 1980); strage di via dei Georgofili
(Firenze, 27 maggio 1993); strage di via Palestro (Milano, 27 luglio 1993); omicidio Alpi-Hrovatin
(20 marzo 1994).
Ciò che è evidente oggi sono i depistaggi, gli scenari inquietanti, ambigui e mai del tutto chiariti,
che hanno permesso la maturazione dell’assassinio di Graziella ed Italo. A proposito di depistaggi,
il 6 ottobre 1980, arrivò all’ambasciata italiana una telefonata anonima che segnalava la presenza
dei cadaveri dei due giornalisti italiani all’ospedale americano di Beirut ovest. Il 7-04-1983, Rina
Goren per Il Messaggero titolò: Un giallo nel giallo la visita all’obitorio di Beirut e il 15 Aprile,
sempre la Goren: Santovito conferma al giudice: “Sono stato all’obitorio di Beirut”. La notizia più
confacente alla realtà, invece, arrivò in Italia il 17 ottobre1980. L’ambasciatore D’Andrea, dichiarò
al Ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, che il rapimento di Graziella e di Italo era stato opera di
Al Fatah. I due giornalisti avevano scoperto qualcosa di grosso sui traffici palestinesi ed erano stati
fatti sparire. A smentire con l’ennesimo depistaggio, che in seguito ammise, fu il direttore del Sismi
Giuseppe Santovito, che, il 29 ottobre, su suggerimento di Giovannone, dichiarò al Parlamento che
Graziella De Palo e Italo Toni erano stati sequestrati dai falangisti cristiano – maroniti. La De Palo
era viva e le trattative per la sua liberazione erano iniziate. A questo proposito il giornalista
Francesco Cioce, collega di Graziella a Paese Sera, titolò un suo articolo: Davanti al Giudice,
Santovito ammette: “Ho mentito”; Gaetano Basilici de Il Resto del Carlino scrisse il 15-04-
1983, Santovito, perché ho detto il falso.
Dopo molti anni, a confermare le parole dell’ambasciatore D’Andrea è Lya Rosa, italiana
simpatizzante della causa palestinese, all’epoca dei fatti residente a Beirut. Su suggerimento
dell’onorevole Marco Boato, per aiutare le famiglie De Palo e Toni, Lya Rosa si mise sulle tracce
dei giornalisti scomparsi, ottenne informazioni proprio dal Fplp e dichiarò che allora c’erano delle
prove, mentre oggi, a distanza di tanti anni, è impossibile rintracciarle. Lya Rosa seppe da alcuni
esponenti di Al Fatah (probabilmente informati da Gargi Chaker), che Graziella ed Italo ricevettero
una telefonata molto breve in albergo e che poi parlarono tra di loro sul da farsi. Saliti in camera, i
due giornalisti prepararono le valigie, dicendo a Chaker che c’era una macchina che li sarebbe
venuti a prendere fuori dall’hotel. I sequestratori di Italo e Graziella erano esponenti di Al Fatah.
L’organizzazione aveva teso una trappola ai due giornalisti perché aveva ricevuto delle gravi accuse
su Graziella ed Italo. I due giornalisti italiani erano, secondo Al Fatah, spie al soldo degli israeliani
e della estrema destra italiana. Secondo Lya Rosa, Graziella ed Italo furono in un primo tempo
trattati correttamente e in seguito divisi. Lya Rosa dice anche che, al primo interrogatorio, il
giornalista Toni crollò, ammettendo di essere una spia. E’ chiaro che Italo fu picchiato e
probabilmente torturato; si sa che, sotto tortura, chiunque dice cose anche non vere per evitare le
sevizie. Lya Rosa è comunque convinta della colpevolezza di Italo Toni, il quale, viaggiando in
lungo e in largo per il Libano, aveva, secondo lei, fatto chissà quali scoperte compromettenti su Al
Fatah. Lya Rosa implicitamente da ragione ai palestinesi riguardo la condanna a morte inflitta ad
Italo, affermando ai microfoni de La Storia siamo Noi che una spia, in tutto il mondo, viene
condannata alla fucilazione. E’ da chiedersi, a questo punto, in quale mondo viva la signora Lya
Rosa. Quelle della signora Rosa sono parole agghiaccianti, che a stento trovano una giustificazione
valida in un paese democratico e civile.
Risulta alla Rosa che Graziella De Palo si sia comportata molto dignitosamente, durante tutta la
prigionia e che i miliziani non l’abbiano torturata, l’abbiano rispettata e, addirittura l’abbiano
ammirata per il coraggio dimostrato in quella drammatica circostanza. La signora De Palo ha
affermato che, molte delle cose dette da Lya Rosa coincidono con ciò che ha dichiarato anche il
colonnello Giovannone (Il Messaggero, il 10-07-1983: Il col. Giovannone del Sismi: “Sono stati
rapiti da una frangia Olp…”). Riguardo alle dichiarazioni di Lya Rosa su Graziella, la signora De
Palo affermò che si trattava di favole e che molto più probabilmente sua figlia era stata giustiziata
come Italo, perché considerata da Al Fatah una spia e una scomoda testimone.
L’opinione che Lya Rosa e l’Olp avevano sul conto di Italo uccise il giornalista più del colpo alla
nuca infertogli. L’accusa che il giornalista fosse una spia israeliana e della estrema destra italiana
costituisce per la famiglia Toni una infamia enorme perché riferita ad un uomo come Italo che
difeso apertamente la causa palestinese. Su Italo Toni furono trovati dei documenti, forse creati ad
arte dai nostri Servizi Segreti, che testimoniavano la presenza del giornalista italiano sul libro paga
degli affari riservati dell’ex ufficio degli interni. Al Fatah, probabilmente, ricevette dal generale
Santovito un’informazione errata e pensò che la richiesta di Toni e Graziella di visitare i campi
palestinesi nel sud del Libano avesse come intento lo spionaggio. L’emiro Faruk Abillamah
insistette sempre nel dire che i due giornalisti italiani furono attirati in una trappola, ordita ancor
prima della loro partenza da Roma.
Alvaro Rossi, cugino di Italo Toni, dichiarò che tale accusa era ridicola ed infondata perché il
giornalista non aveva altri introiti se non dalle sue inchieste e per questo motivo aveva chiesto aiuto
economico all’Olp italiano e la protezione del Fplp a Beirut. Se fosse stato in condizioni
economiche più agiate non avrebbe avuto bisogno di fare simili richieste. Stessa cosa vale anche per
Graziella De Palo (Il 23-06-1984, L’Unità: Giovannone rivelò le indagini di inviati del governo
italiano sul traffico d’armi a Beirut?; Franco Nicotra per Il Messaggero, il 22-06-
1984: Giovannone: “dovevo” passare quelle notizie all’Olp).
Queste notizie emersero dall’inchiesta del giudice Armati. La prova “regina”, secondo gli inquirenti
sarebbe un appunto in cui Italo costituiva fonti informative. In un processo dove quasi si temeva di
condannare Habbah e Saleh, dove furono quasi tutti gli imputati assolti per insufficienza di prove,
dove le vittime diventano gli accusati, è possibile parlare di prove certe?
Il giudice Armati afferma che indubbiamente esiste una responsabilità morale nella ritardata
ricostruzione della verità, che ha portato di conseguenza ad una faticosissima ricostruzione
processuale. Non vi sono prove di un complotto a monte e non vi sono riscontri oggettivi sulle
parole dell’emiro Abillamah. “Un giudice”, afferma il dott. Armati, “deve basarsi sulle prove
processuali raccolte. Non è da escludere, però, che qualcuno abbia dato ai palestinesi una
indicazione volutamente errata. Da chi non è dato saperlo”. Ma se le prove raccolte sono inquinate,
com’è possibile fare Giustizia e conoscere la Verità? E’ possibile, con un sistema giudiziario ed
investigativo come quello del nostro Paese, perseguire l’oggettività dei fatti? La risposta è scontata
e non riguarda solamente il caso De Palo Toni. E’ sicuro, anche grazie alle testimonianze in sede
processuale del generale Santovito, che il SISMI depistò ed “annacquò” le indagini di ambasciata e
magistratura, con il benestare del Libano, per occultare la faccenda di Ortona e l’importante ruolo
che Habbash e Saleh avevano in Italia come rappresentanti del Fplp.
A distanza di trent’anni
Ciò che chiedono i parenti di questi due giornalisti è condivisibile da parte di tutti coloro che
aspettano da anni la Verità sulla sorte dei propri cari, perché, in un paese democratico come il
nostro, non è accettabile un tale silenzio. Non basta intitolare, alla presenza delle autorità, una
strada o una piazza ad uno scomparso, lo Stato deve far valere la sua voce e reagire
all’oscurantismo, alla rassegnazione e alle verità soffocate. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno,
ha dichiarato che non è tollerabile, dopo trent’anni, bloccare verità e giustizia, le quali non sono
state “rallentate” dagli eventi. e da circostanze indipendenti dalla nostra volontà, ma proprio dagli
apparati dello Stato. Parole condivisibili da tutti, ma che devono trovare un riscontro concreto. Non
si può, come riempitivo ad una commemorazione, gettare parole al vento, che non abbiano in
seguito un riscontro con la realtà. Il caso De Palo-Toni deve essere riaperto dalla magistratura senza
che organi dello Stato intralcino il lavoro dei giudici!
Anche in questo caso misterioso, i servizi segreti hanno fatto la parte del leone. Come ha, infatti,
affermato Fabio De Palo, fratello di Graziella: “i servizi segreti hanno contribuito a depistare le
indagini” e la madre di Graziella ha concluso la cerimonia dicendo: “Questi trent’anni sono stati
una unica lunga e buia notte. Continueremo a lottare finché avremo vita”. Le famiglie dei due
giornalisti hanno tutta la nostra solidarietà, ma non basta, ci vuole di più. E’ da augurarsi che il
Caso De Palo-Toni non resti, come tanti altri nel nostro paese, una realtà ancora da scoprire.
Sono del parere che questa scomparsa sia la punta dell’iceberg di altri avvenimenti successi anni
prima e dopo, come la strage dei giochi olimpici di Monaco del 1972 (17 atleti israeliani uccisi); la
strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973 (32 morti ed oltre 15 feriti); l’attacco all’aeroporto di
Fiumicino (20 morti ed oltre 100 feriti) e a quello di Vienna (3 morti e più di 10 feriti) del 27
dicembre 1985. Probabilmente, trovando una soluzione al caso De Palo-Toni, si potrebbero trovare i
veri mandanti di queste stragi. Forse si tratta di utopia o solo di “fantastoria” oppure, più
verosimilmente, di stragi che non avranno mai giustizia.
Il caso De Palo/Toni in \”La storia siamo noi\” (Rai, a cura di Minoli)
http://casarrubea.wordpress.com/2010/09/27/una-notte-lunga-30-anni-il-caso-de-palotoni/
Processo Mori: Borsellino sapeva. Questa e’ l’unica cosa certa
29 settembre 2010 - (Anti)mafia

di Lorenzo Baldo

Si trasformerà in una guerra tra periti e consulenti il


processo che vede imputato il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per
favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, in special modo per quanto riguarda i documenti prodotti
da Massimo Ciancimino ed entrati nel faldone del pm per consolidarne i capi di
imputazione. L’udienza di ieri presso la IV sezione penale del Tribunale di Palermo si è aperta
proprio con la richiesta del Pubblico Ministero Nino Di Matteo di risentire il figlio di don Vito in
merito ad un’altra delle lettere del padre in cui si farebbe riferimento alla trattativa, elemento
fondamentale per questo processo, consegnata il 13 settembre scorso ai magistrati.
Nelle due paginette formato A4 battute a macchina e con alcune notazioni di suo pungo Don Vito
scrive: “Nonostante gli inviti ad andare avanti per l’unica strada possibile so che anche io sono a
rischio. Ho aderito alla richiesta fatta dal colonnello Mori lo scorso giugno, Lima Falcone
Borsellino Salvo ancora la lista è lunga so che se non interveniamo come ho suggerito non si
fermeranno. (…) Mori mi dice di essere stato autorizzato ad andare avanti per la mia strada. Ho
chiesto di potere incontrare in privato Violante. Sono ancora in attesa del passaporto promesso dal
colonnello e dal capitano (Giuseppe De Donno ndr) (…) Il piano folle messo a punto per la
destabilizzazione del nostro sistema politico-affaristico – spiega l’ex sindaco – ha avuto inizio con
l’inchiesta di tangentopoli. Oggi è stato compromesso tutto il sistema, Falcone aveva capito subito
cosa e che fine gli sarebbe riservata dopo l’omicidio Lima. Anche Borsellino aveva intuito il
terribile disegno, forse ancora prima del suo collega Falcone aveva intravisto scenari inquietanti.
Anche lui come Di Pietro era messo in conto». «Perché – si chiede – Di Pietro è stato avvisato a chi
serve che vada avanti? In questa logica si sta consumando il tutto» E si chiede: Che concreti rischi
corre oggi mio figlio Massimo?». Prosegue poi: “Se i mafiosi temevano che Falcone avrebbe potuto
pilotare le sorti del maxiprocesso in Cassazione lo avrebbero dovuto ammazzare prima
dell’introduzione del sistema di rotazione. È stato ucciso per profilassi non per quello che aveva
fatto, ma per quello che poteva fare da Roma». Il documento scritto a macchina si conclude con tre
righe manoscritte: «In questa logica – si legge – è stato assassinato Falcone e lui lo ha capito tant’è
che quando uccisero Lima ha scritto ‘Ora tocca a me’».
La difesa degli ufficiali rappresentata dagli avvocati Milio e Musco si è dapprincipio opposta per
poi riservarsi il diritto di avanzare una richiesta di supplemento d’esame per sentire Ciancimino
junior, non in merito alla lettera, ma anche su altre questioni.
Al centro del contendere vi è infatti l’autenticità delle missive consegnate da Massimo ai magistrati
e depositate al processo, già oggetto di molte speculazioni da parte dei media. E tanto per fissare un
punto fermo, il pm Di Matteo ha depositato la perizia che senza ombra di dubbio certifica la
veridicità della firma di don Vito, scritta in calce a molte delle lettere in questione. Per ora si tratta
dell’unico elemento provato, gli altri “pizzini” e lo stesso ormai famoso “papello” sono ancora in
cerca di autore, ma nemmeno sono stati smentiti come la solita banda dei detrattori vorrebbe far
credere.
E sulla veridicità dei documenti di Ciancimino si è dilungata la prima delle due dichiarazioni
spontanee concesse oggi al generale Mori che, munito di Power Point, ha mostrato alla Corte come,
a suo avviso, e secondo la sua fonte, il libro “Prego dottore”, scaricabile da internet, il rampollo di
Ciancimino avrebbe manomesso la lettera indirizzata da Don Vito a Dell’Utri e per conoscenza a
Berlusconi consegnata durante lo stesso processo l’8 febbraio scorso.
Secondo la dettagliata ricostruzione del generale la versione fornita alla Corte non corrisponderebbe
a quella pubblicata sul libro “Don Vito” edito da Feltrinelli, che sarebbe invece frutto di
manipolazione così come gli altri reperti che Mori non esita a definire falsi, tagliati, copiati e
incollati da quello che è diventato il suo peggior nemico.
In effetti, taglia e cuci a parte, dopo che Massimo Ciancimino ha raccontato la storia della trattativa
dal suo punto di vista, anticipandone la datazione, sono spuntati anche altri testimoni a confermare
che l’operazione di avvicinamento a don Vito è scattata molto prima di agosto come invece sempre
sostenuto dal generale.
Sul punto è stata sentita anche Liliana Ferraro, ex collega di Falcone all’Ufficio Affari penali, che
questa mattina in aula, visibilmente tesa, ha sostanzialmente ripetuto in aula quanto aveva messo a
verbale nei mesi precedenti.
Secondo i suoi ricordi, a circa un mese dalla strage di Capaci, il capitano De Donno le aveva
confidato che si stavano battendo tutte le strade pur di arrivare agli assassini di Falcone, compreso
un tentativo di dialogo con Vito Ciancimino, e per questo era venuto a chiedere una sponda politica.
La dottoressa avrebbe replicato che più che rivolgersi alla politica avrebbe dovuto rivolgersi a Paolo
Borsellino. Cosa che comunque fece lei stessa quando lo incontrò assieme alla moglie presso la
saletta vip dell’aeroporto di Roma dove il magistrato era in attesa di rientrare da un viaggio a Bari,
in compagnia della moglie.
Almeno un dato, dopo 17 anni è certo: Borsellino sapeva. Dettaglio che fino ad oggi si è sempre
cercato di confutare, dettagli che il generale Subranni, citato come teste della difesa, ha cercato di
rivoltare a suo vantaggio.
Smentendo il suo diretto sottoposto, Mori circa la sua conoscenza e addirittura supervisione degli
incontri con don Vito, Subranni ha cercato di sostenere che se, come attestano ormai le agende, la
sera del 11 luglio 1992 Borsellino aveva cenato con lui e con gli altri ufficiali in clima di cordialità,
significa che sebbene ne fosse a conoscenza, non vedeva nei “colloqui investigativi dell’ Arma con
Ciancimino, l’intenzione dello Stato di trattare con la mafia”.
Peccato che in tutti questi anni si è cercato di dire e smentire l’impossibile pur di negare che
Borsellino fosse al corrente di questi colloqui, persino spostando le date.
Si vorrebbe approfittare del passare del tempo per cercare di offuscare alle menti dei più la granitica
integrità del giudice che mai e poi mai avrebbe tollerato scorciatoie che passassero attraverso patti
con la mafia.
Tanto è vero che più volte in quei 57 giorni di vita residui più volte era tornato a casa stravolto e
alla moglie aveva confessato: “Sto vedendo la mafia in diretta” e ancor più furente, a pochi giorni
dalla morte: “Ho saputo che il generale Subranni è punciuto”, cioè mafioso.
Difficile a dirsi se queste rivelazioni, terribili, per il suo altissimo senso dello Stato gli siano giunte
prima o dopo quella cena, se le avesse correlate tra di loro e ancor di più se non abbiano concorso a
renderlo solo, vulnerabile e irrinunciabile merce di scambio.
La prossima udienza è prevista per il 12 ottobre. L’accusa ha deciso di non sentire il giudice
Fernanda Contri, ma di limitarsi, con il consenso della difesa, all’acquisizione del verbale che vi
riproponiamo qui di seguito in forma riassuntiva.
Fernanda Contri: “Mori mi disse di Ciancimino”
di Lorenzo Baldo -
Palermo. Lunedì 18 gennaio 2010 l’ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Fernanda Contri, viene sentita negli uffici della Procura nazionale antimafia di Roma dai
procuratori nisseni Lari, Gozzo e Marino insieme ai funzionari della Dia di Caltanissetta Buceti e
Ganci. «Ho chiesto di essere sentita dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta – esordisce la
Contri – perché avendo visto a più riprese trasmissioni televisive sulla “trattativa” tra Stato e Cosa
Nostra, mi sono ricordata di alcuni particolari relativi alle stragi del 1992 che ho avuto modo di
ricostruire attraverso le mie due agende che esibisco in questa sede». L’ex segretario generale
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché grande amica di Giovanni Falcone,
ricostruisce i suoi incontri con Mario Mori. Il primo avviene in un periodo a cavallo tra il 1986 e il
1990 quando la Contri faceva parte del Csm, ma di questo appuntamento non ha una traccia scritta
se non un vago ricordo. Il mattino del 22 luglio 1992 Fernanda Contri, nella sua veste di Segretario
Generale, appunta sulla sua agenda l’incontro con l’allora colonnello Mori. «Ricordo che Mori mi
disse che stavano sviluppando importanti investigazioni, precisando che si stava incontrando con
Vito Ciancimino, parlando di un’attività investigativa che a mio parere doveva ancora iniziare; ciò
affermo sulla base di un mio ricordo personale». In occasione di un altro incontro con Mori
avvenuto il 28 dicembre a Palazzo Chigi la dott.ssa Contri ricorda che in quell’occasione parlarono
anche dell’arresto di Bruno Contrada avvenuto quattro giorni prima. «Mori mi confermò che stava
incontrando Ciancimino; aggiungendo: “mi sono fatto un’idea che Ciancimino è il capo o uno dei
capi della mafia”. Ricordo il momento molto bene anche perché l’arresto di Contrada fu un fatto
eclatante; lo stesso Prefetto Parisi il giorno dell’arresto era venuto a Palazzo Chigi palesemente
turbato per l’accaduto, ritenendo l’arresto un fatto assurdo». Il virgolettato di Fernanda Contri si
interrompe. Sul fondo della pagina compare la scritta “omissis”. Nella pagina successiva la scritta in
latino è ripetuta in alto. Poi il verbale prosegue con la Contri che ricorda un ulteriore incontro con
Mori senza però riuscire datarlo nè tanto meno a definirne i contorni. «Tengo a precisare – ribadisce
successivamente l’ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – che non
avevo attribuito ai contenuti degli incontri con il col. Mori particolare rilevanza in quanto egli non
aveva effettuato nessuna richiesta né di copertura né di altro rispetto al suo operato. Certamente mi
aveva colpito la circostanza che egli avesse parlato di Vito Ciancimino come uno dei capi di Cosa
Nostra». I magistrati fanno notare alla dott.ssa Contri l’anomalia di una simile confidenza fattale dal
vice capo di una struttura investigativa come il Ros. L’ex segretario generale presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri non si sa spiegare la condotta di Mori e mostra appositamente agli
inquirenti l’appunto dell’incontro con l’ufficiale del Ros accanto all’annotazione “capo”. Gli
investigatori le chiedono quindi se la parola “capo” possa essere riferita al Presidente del Consiglio.
«Escludo che con l’annotazione “capo” volessi riferirmi al Presidente del Consiglio – afferma con
fermezza la Contri – in quanto in vita mia non ho chiamato mai nessuno “capo”». Sul foglio
compare nuovamente la dicitura «omissis». Fine del verbale.
Fonte: http://www.gliitaliani.it/2010/09/processo-mori-borsellino-sapeva-questa-e-lunica-cosa-
certa/
Studio legale camorra, la zona grigia che fa affari con il clan dei Casalesi
29 settembre 2010 - (Anti)mafia

da Il Fatto Quotidiano di Vincenzo Iurillo

http://antoniovergara.files.wordpress.com/2008/10/camorra01g.jpg
Corrompeva periti per far assolvere dei colpevoli di omicidio, faceva l’ambasciatore dei messaggi
tra camorristi in galera e camorristi a piede libero, suggeriva la demolizione di un capannone per
alterare la scena di un crimine e mandare in cavalleria le indagini accusatorie. E se necessario
faceva un passo indietro e consigliava di farsi revocare il mandato, in favore di colleghi che a suo
dire avevano feeling col presidente della Corte di turno. Benvenuti presso lo studio legale di
Michele Santonastaso, del foro di Santa Maria Capua Vetere, arrestato dalla Dia di Napoli con le
accuse di corruzione, falsa perizia, falsa testimonianza.
Qualcosa di più di un avvocato per i Bidognetti, fazione criminale tra le più feroci nella galassia dei
Casalesi. Il professionista, 49 anni, legale storico del clan, non si sarebbe limitato ad assistere i suoi
clienti nelle sedi preposte. Ma avrebbe contribuito a rafforzare gli interessi della camorra casertana,
con azioni che violavano la deontologia di un normale mandato difensivo. Nelle 169 pagine
dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Pia Diani su richiesta dei pm di Napoli
Antonello Ardituro, Francesco Curcio e Alessandro Milita, l’avvocato Santonastaso viene
tratteggiato come “abile, arguto, capace di uno studio vero, effettivo delle carte processuali” e anche
“dalla formidabile spregiudicatezza caratteriale”, che secondo numerosi pentiti si era ritagliato il
ruolo di “anello di collegamento all’interno dello stesso sodalizio tra capiclan detenuti e affiliati
liberi”.
Secondo gli inquirenti, l’instancabile lavoro di Santonastaso sarebbe la risposta alla domanda
riportata in una parte dell’ordinanza: “Come è stato possibile che capi di un’organizzazione
camorristica quali Francesco Bidognetti e Domenico Bidognetti (attualmente collaboratore di
giustizia) sono stati in grado, benché detenuti da lungo tempo ed in regime detentivo speciale, di
dirigere il loro sodalizio impartendo direttive criminali”. Quelle direttive viaggiavano attraverso
l’avvocato. In cambio di uno stipendio fisso erogato dal clan, la cui entità varia a seconda del
dichiarante: 10.000 euro mensili secondo Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti,
poi pentita; 5000 euro secondo altre fonti.
Alcuni passaggi del provvedimento appaiono inquietanti. Come la testimonianza di Oreste
Spagnuolo, relativa a un periodo tra fine 2007 e inizio 2008 “prima dell’inizio della mia latitanza
per il mandato di cattura per me e Giovanni Letizia in relazione all’estorsione denunciata da
Gaetano Vassallo. Letizia – dice Spagnuolo – organizzò con Santonastaso un incontro presso una
pompa di benzina e gli chiese perché Francesco Bidognetti non aveva inteso fare “il trentennale”
(ovvero sfuggire all’ergastolo attraverso un comportamento processuale diverso, ndr) e
Santonastaso replicò che era difficile mettere la cosa ‘in testa’ a Bidognetti perché non voleva farsi
chiamare ‘infame’ e si fece poi cenno alla collaborazione di Domenico Bidognetti. Parlando di ciò
Santonastaso disse che ‘i suoi parenti ancora parlavano e giravano per Casale’ e che Francesco
Bidognetti era amareggiato’”. Per i pm le parole dell’avvocato furono “un messaggio obliquo dal
deflagrante potere criminogeno, veicolando una precisa indicazione di Francesco Bidognetti sulle
determinazioni che dovevano prendersi nei confronti di alcuni soggetti non più graditi. Siamo,
ormai – si legge nell’ordinanza – oltre il limite che disegna il confine tra contiguità
all’organizzazione mafiosa e la fattiva partecipazione alla strategia criminale del gruppo”. C’è
inoltre da aggiungere che secondo il pentito Luigi Guida, detto ‘o Drink, Santonastaso era a tutti gli
effetti “un affiliato”. Altrimenti non lo avrebbe utilizzato per riferire messaggi di una certa
importanza a Francesco Bidognetti.
Non solo. Santonastaso è accusato di aver manipolato le prove di alcuni processi. Avrebbe corrotto
due periti fonici (anch’essi arrestati) su mandato di Anna Carrino per far attestare che le voci delle
intercettazioni telefoniche ed ambientali relative all’omicidio di Enrico Ruffano e Giuseppe
Consiglio, uccisi il 28 aprile 1999 su decisione del clan Bidognetti di Casal di Principe e del clan
Cimmino del Vomero di Napoli non erano quelle di Aniello Bidognetti e Vincenzo Tammaro,
imputati di quel delitto e assolti grazie alla falsa perizia. Lui, in qualità di avvocato avrebbe potuto
avvicinare i periti senza destare sospetti. E se li sarebbe ‘comprati’ con 100.000 euro che la Carrino,
sollecitata a far presto dal legale, dovette tirare fuori dal luogo dove li nascondeva in casa: uno
scarpone da sci. Santonastaso avrebbe inoltre contribuito alla fabbricazione di un falso alibi per il
capoclan Augusto La Torre ‘salvandolo’ da un’accusa di omicidio. E quando ci fu da affrontare il
procedimento per l’omicidio Pagliuca, Santonastaso non avrebbe esitato a suggerire a Bidognetti di
modificare la scena del crimine, abbattendo il capannone di proprietà dello zio di Domenico
Bidognetti dal quale era partito il gruppo di fuoco alla direzione di Teverola. Così sarebbe stata
impedita la ricognizione dei luoghi. “Vicenda – si legge – che svela la naturale tendenza a
percorrere scorciatoie e ordire frodi processuali”.
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/28/sutidio-legale-camorra-la-zona-grigia-che-fa-
affari-con-i-casalesi/65616/
La Rai boccia “Buongiorno europa” E i deputati di Strasburgo insorgono
29 settembre 2010 - Cultura - Società

La rubrica che racconta l’Unione europea è stata cancellata dal


palinsesto. Protesta del Movimento Federalista Europeo. Mentre l’Europa aumenta i suoi poteri,
diminuiscono gli spazi dedicati all’Europarlamento: secondo l’osservatorio di Pavia siamo fermi al
3 per cento
Più che un “buongiorno”, ha tutta l’aria di un addio. La dirigenza Rai ha annunciato qualche giorno
fa la cancellazione della rubrica di informazione settimanale “Buongiorno Europa” dal palinsesto di
Rai 3. La rubrica, nata dalla redazione del Tgr Rai di Milano nel 1991, offriva un’analisi degli
argomenti d’attualità con una prospettiva internazionale grazie anche al contributo dei
corrispondenti Rai dalle capitali europee. La rubrica, curata da Ezio Trussoni e Paolo Pardini
costituiva una delle pochissime finestre informative dedicate esclusivamente all’Europa nel servizio
pubblico di informazione italiano. Secondo un monitoraggio dell’Osservatorio sui media di Pavia,
condotto nei primi 4 mesi del 2008 su un campione di 21 emittenti radiotelevisive, il tempo
dedicato all’Ue è stato solo del 3% e proprio Rai3 è risultato il canale più “europeo”.
La decisione di viale Mazzini ha scatenato la reazione del Movimento Federalista Europeo fondato
da Altiero Spinelli nel 1943 che ha scritto al Presidente della Rai Paolo Garimberti e al consiglio di
amministrazione Rai affinché tornino sui loro passi. “Riteniamo questa decisione estremamente
grave. Nonostante il fatto che l’Unione europea giochi un ruolo sempre più importante nella vita dei
cittadini europei e dunque italiani, in Italia le notizie sull’Europa trovano invece pochissimo spazio
nei media e sulla stampa”. La lettera è stata sottoscritta da importanti personalità del mondo della
cultura, della politica e dell’associazionismo italiano come Vittorio Agnoletto (ex
europarlamentare), Monica Frassoni (Presidente Verdi europei) e Giuseppe Giulietti (Articolo 21).
Anche numerosi parlamentari europei, appartenenti a diversi schieramenti (dal Pdl al Pd, all’Idv),
hanno aderito all’iniziativa.
La cancellazione di Buongiorno Europa dal palinsesto Rai riflette un preoccupante calo di interesse
dei media nazionali nei confronti dell’Ue, riscontrabile anche dalla riduzione del numero dei
giornalisti italiani, ma anche stranieri, accreditati presso le istituzioni europee a Bruxelles. Secondo
dati dell’Associazione della stampa estera a Bruxelles (API) nel 2005 i giornalisti stranieri a
Bruxelles erano 1300, oggi solo 752. Pier Soldati, responsabile dell’ufficio accrediti della
Commissione europea, riferisce che nell’ultimo anno molti giornalisti non sono nemmeno passati a
ritirare la propria tessera. Un calo di interesse inspiegabile se si considera che con il nuovo trattato
di Lisbona entrato in vigore le competenze dell’UE aumentano notevolmente. Un’incongruenza
notata anche da un autorevole quotidiano straniero come il New York Times che in un articolo ha
messo in rilievo come “mentre l’Europa si allarga, l’interesse per l’Europa si restringe”.
Questo calo di interesse non è sfuggito al Parlamento europeo, che nella sessione di Strasburgo del
7 settembre ha votato una relazione su “giornalismo e nuovi media” intesa a creare una sfera
pubblica in Europa. Nel testo redatto dall’eurodeputato danese liberale Morten Lokkegaaard si
legge chiaramente che il “Protocollo di Amsterdam incoraggia gli Stati membri a includere la
copertura dell’UE al momento di determinare il mandato delle emittenti del servizio pubblico”.
Inoltre viene sottolineato come “le emittenti del servizio pubblico nazionale e regionale abbiano una
particolare responsabilità nell’informare il pubblico circa le politiche UE”. Poi aggiunge anche che
“gli Stati membri dovrebbero garantire l’indipendenza delle emittenti e del servizio pubblico”.
Come si dice, il condizionale è d’obbligo.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/28/la-rai-boccia-buongiorno-europa-e-i-deputati-di-
strasburgo-insorgono/65394/
Il traditore del Nord
29 settembre 2010 - Cultura - Società
da Il Fatto Quotidiano di Franca Rame

http://2.bp.blogspot.com/_t__mPtAaeRw/TF_YgBMYV9I/AAAAAAAAFMM/X8mPKBQmVkQ/
s400/bossi_dito_medio.jpg
Un esercizio di memoria. Umberto Bossi era il portaborse di Bettino Craxi. E’ una costola del
vecchio regime. E’ il più efficace riciclatore dei calcinacci del pentapartito. Mentre la Lega faceva
cadere il regime, lui stava nel Mulino Bianco, col parrucchino e la plastica facciale. Lui è un tubo
vuoto qualunquista. Ma non l’avete visto, oggi, tutto impomatato fra le nuvole azzurre? Berlusconi
è bollito. E’ un povero pirla, un traditore del Nord, un poveraccio asservito all’Ulivo, segue anche
lui l’esercito di Franceschiello dietro il caporale D’Alema con la sua trombetta. Io ho la memoria
lunga. Ma chi è Berlusconi? Il suo Polo è morto e sepolto, la Lega non va con i morti. La trattativa
Lega-Forza Italia se l’è inventata lui, poveraccio. Il partito di Berlusconi neo-Caf non potrà mai fare
accordi con la Lega. Lui è la bistecca e la Lega il pestacarne. Berlusconi mostra le stesse
caratteristiche dei dittatori. E’ un kaiser in doppiopetto. Un piccolo tiranno, anzi è il capocomico
del teatrino della politica. Un Peròn della mutua. E’ molto peggio di Pinochet. Ha qualcosa di
nazistoide, di mafioso. Il piduista è una volpe infida pronta a fare razzia nel mio pollaio.
Berlusconi è l’uomo della mafia. E’ un palermitano che parla meneghino, un palermitano nato nella
terra sbagliata e mandato su apposta per fregare il Nord.
Silvio Berlusconi
La Fininvest è nata da Cosa Nostra. C’è qualche differenza fra noi e Berlusconi: lui purtroppo è un
mafioso. Il problema è che al Nord la gente è ancora divisa tra chi sa che Berlusconi è un mafioso e
chi non lo sa ancora. Ma il Nord lo caccerà via, di Berlusconi non ce ne fotte niente. Ci risponda: da
dove vengono i suoi soldi? Dalle finanziarie della mafia? Ci sono centomila giovani del Nord che
sono morti a causa della droga. A me personalmente Berlusconi ha detto che i soldi gli erano venuti
dalla Banca Rasini, fondata da un certo Giuseppe Azzaretto, di Palermo, che poi è riuscito a
tenersi tutta la baracca. In quella stessa banca lavorava anche il padre di Silvio e c’erano i conti di
numerosi esponenti di Cosa Nostra. Bisognerebbe conoscere le sue radici, la sua storia. Gelli fece il
progetto Italia e c’era il buon Berlusconi nella P2. Poi nacquero le Holding. Come potrà mai la
magistratura fare il suo dovere e andare a vedere da dove vengono quei quattrini, ricordando che la
mafia quei quattrini li fa con la droga e che di droga al Nord sono morti decine di migliaia di
ragazzi che ora gridano da sottoterra? Se lui vuole sapere la storia della caduta del suo governo,
venga da me che gliela spiego io: sono stato io a metter giù il partito del mafioso. Lui comprava i
nostri parlamentari e io l’ho abbattuto. Quel brutto mafioso guadagna soldi con l’eroina e la
cocaina. Il mafioso di Arcore vuole portare al Nord il fascismo e il meridionalismo. Discutere di par
condicio è troppo poco: propongo una commissione di inchiesta sugli arricchimenti di Berlusconi.
In Forza Italia ci sono oblique collusioni fra politica e omertà criminale e fenomeni di riciclaggio.
L’uomo di Cosa Nostra, con la Fininvest, ha qualcosa come 38 holding, di cui 16 occulte. Furono
fatte nascere da una banca di Palermo a Milano, la banca Rasini, la banca di Cosa Nostra a Milano.
Forza Italia è stata creata da Marcello Dell’Utri. Guardate che gli interessi reali spesso non
appaiono. In televisione compaiono volti gentili che te la raccontano su, che sembrano per bene. Ma
guardate che la mafia non ha limiti. La mafia, gli interessi della mafia, sono la droga, e la droga ha
ucciso migliaia e migliaia di giovani, soprattutto al Nord. Palermo ha in mano le televisioni, in
grado di entrare nelle case dei bravi e imbecilli cittadini del Nord. Berlusconi ha fatto ciò che ha
voluto con le televisioni, anche regionali, in barba perfino alla legge Mammì. Molte ricchezze sono
vergognose, perché vengono da decine di migliaia di morti. Non è vero che ‘pecunia non olet’. C’è
denaro buono che ha odore di sudore, e c’è denaro che ha odore di mafia. Ma se non ci fosse quel
potere, il Polo si squaglierebbe in poche ore. Incontrare di nuovo Berlusconi ad Arcore? Lo escludo,
niente più accordi col Polo. Tre anni fa pensarono di farci il maleficio. Il mago Berlusconi ci disse:
“Chi esce dal cerchio magico, cioè dal mio governo, muore“. Noi uscimmo e mandammo indietro il
maleficio al mago. Non c’è marchingegno stregato che oggi ci possa far rientrare nel cerchio del
berlusconismo. Con questa gente, niente accordi politici: è un partito in cui milita Dell’Utri,
inquisito per mafia. La “Padania” chiede a Berlusconi se è mafioso? Ma è andata fin troppo
leggera! Doveva andare più a fondo, con quelle carogne legate a Craxi. Io con Berlusconi sarò il
guardiano del baro. Siamo in una situazione pericolosa per la democrazia: se quello va a Palazzo
Chigi, vince un partito che non esiste, vince un uomo solo, il Tecnocrate, l’Autocrate. Io dico quel
che penso, lui fa quel che incassa. Tratta lo Stato come una società per azioni. Ma chi si crede di
essere: Nembo Kid? Ma vi pare possibile che uno che possiede 140 aziende possa fare gli interessi
dei cittadini? Quando quello piange, fatevi una risata: vuol dire che va tutto bene, che non è ancora
riuscito a mettere le mani sulla cassaforte. Bisogna che Berlusconi-Berluscosa-Berluskaz-
Berluskaiser si metta in testa che con i bergamaschi io ho fatto un patto di sangue: gli ho giurato
che avrei fatto di tutto per avere il cambiamento. E non c’è villa, non c’è regalo, non c’è
ammiccamento che mi possa far cambiare strada… Berluscoso deve sapere che dalle nostre parti la
gente è pronta a fargli un culo così: bastano due secondi, e dovrà scappare di notte. Se vedono che li
ha imbrogliati, quelli del Nord gli arrotolano su le sue belle ville e i suoi prati all’inglese e
scaraventano tutto nel Lambro. Berlusconi, come presidente del Consiglio, è stato un dramma.
Quando è in ballo la democrazia, a qualcuno potrebbe anche venire in mente di fargli saltare i
tralicci dei ripetitori. Perché lui con le televisioni fa il lavaggio del cervello alla gente, col solito
imbroglio del venditore di fustini del detersivo. Le sue televisioni sono contro la Costituzione.
Bisogna portargliele via. Ci troviamo in una situazione di incostituzionalità gravissima, da
Sudamerica. Un uomo ha ottenuto dallo Stato la concessione delle frequenze tv per condizionare la
gente e orientarla al voto. Non accade in nessuna parte del mondo. E’ ora di mettere fine a questa
vergogna. Se lo votate, quello vi porta via anche i paracarri. Se cade Berlusconi, cade tutto il Polo, e
al Nord si prende tutto la Lega. Ma non lo faranno cadere: perché sarà pure un figlio di buona
donna, ma è il loro figlio di buona donna, e per questo lo tengono in piedi. Ma il poveretto di
Arcore sente che il bidone forzitalista e polista, il partito degli americani, gli va a scatafascio. Un
massone, un piduista come l’arcorista è sempre stato un problema di “Cosa sua” o “Cosa nostra“.
Ma attento, Berlusconi: né mafia, né P2, né America riusciranno a distruggere la nostra società. E
lui alla fine avrà un piccolo posto all’Inferno, perché quello lì non se lo pigliano nemmeno in
Purgatorio. Perché è Berlusconi che dovrà sparire dalla circolazione, non la Lega. Non siamo noi
che litighiamo con Berlusconi, è la Storia che litiga con lui.
(Una collezione di frasi pronunciate da Umberto Bossi fra il 1994 e il 1999 – Le date esatte
sono: 1,7,9,10,13 marzo 1994; 5 aprile 1994; 4,11,23,31 maggio 1994; 1,12,17 giugno 1994; 29
luglio 1994; 6,8,13 agosto 1994; 1 settembre 1994; 6,20,23 dicembre 1994; 14 gennaio 1995; 22
marzo 1995; 13 aprile 1995; 10 giugno 1995; 29 luglio 1995; 25 gennaio 1996; 14,19,25 agosto
1997; 18 giugno 1998; 22 luglio 1998; 13 settembre 1998; 3, 27 ottobre 1998; 24 febbraio 1999; 13
aprile 1999; 10 settembre 1999; 19 ottobre 1999)
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/28/il-traditore-del-nord/65501/
L’inceneritore di Acerra è morto: ora spunta il collaudo dei misteri
29 settembre 2010 - Ambiente

da Il Fatto Quotidiano di Redazione

http://www.emergenzarifiuticampania.it/erc/ERC_Foto/min3.jpg
Si potrebbe definire “il collaudo dei misteri”. E’ quello datato 16 luglio 2010 che avrebbe accertato
il pieno funzionamento dell’inceneritore di Acerra. La notizia di questo collaudo, del quale non si è
mai parlato in questi mesi, si ricava dal sito di Impregilo, la società milanese che ha costruito il
forno dei miracoli: “Merita opportuna evidenza – si legge – il positivo collaudo definitivo del
termovalorizzatore di Acerra, datato 16 luglio 2010. Tale risultato costituisce un’importante
evidenza dell’eccellenza qualitativa che contraddistingue l’operato del Gruppo nei suoi settori
strategici, con particolare enfasi in questo caso, stante la perdurante inadempienza delle
amministrazioni pubbliche competenti nel pagamento al Gruppo dei rilevanti crediti maturati per
tale opera, dalla quale le stesse amministrazioni stanno peraltro ottenendo significativi benefici sia
economici sia operativi”.
Un collaudo definitivo, dunque, che dovrebbe sbloccare i soldi da incassare: 355 milioni di euro.
Dalla provincia di Napoli (l’ente competente nella gestione dei rifiuti), fanno sapere che nessun
documento relativo al collaudo in luglio è stato acquisito, nonostante le richieste. Insomma, è un
mistero. “Il collaudo funzionale dell’impianto – si legge sul sito della protezione civile – è
terminato il 28 febbraio 2010. Con l’esito positivo del collaudo è terminata la gestione provvisoria.
E Partenope Ambiente ha assunto la gestione definitiva del termovalorizzatore di Acerra”. Peccato
che qualche settimana dopo il fatidico 16 luglio l’inceneritore si è fermato: ora è completamente
spento, nonostante le rassicurazioni dell’A2a, la società che lo gestisce e che ieri ha organizzato un
tour con i giornalisti, in versione embedded, per ribadire che è tutto nella norma. A meno di 24 ore
dal tour, la notizia: anche la prima linea di combustione è bloccata. Delle altre due linee che lo
compongono, già si sapeva. Bloccate. L’inceneritore al momento, che doveva trattare 2 mila rifiuti
al giorno, quasi un terzo di quanto prodotto in regione, è morto. “Riprenderà a funzionare entro un
giorno”, rassicurano dall’A2a. Anche sui collaudi in passato non sono mancate le polemiche: a
presiedere la commissione collaudi c’era Gennaro Volpicelli che ha seguito l’iter di sviluppo del
forno di Acerra, persona preparata e competente, ma in leggero conflitto, visto che dal luglio 2009
ha assunto il ruolo di direttore dell’Arpac, l’agenzia regionale di protezione ambiente che si
preoccupa di monitorare l’aria nei pressi dell’inceneritore.
Attorno al forno di Acerra si gioca una partita di soldi. L’Impregilo, i cui ex-vertici sono sotto
processo per la disastrosa gestione dei rifiuti, deve incassare 355 milioni di euro dalle istituzioni,
regione Campania o protezione civile che dovranno acquistare la proprietà dell’impianto. Qualcuno
aspetta i soldi. In Impregilo c’è Igli Spa, dentro il gruppo Gavio, Benetton e Ligresti, tra i
protagonisti anche dell’avventura in Cai. Ma un impianto fermo, come quello di Acerra, indurrebbe
ad una verifica di una commissione indipendente sulla reale efficienza della struttura, prima di
investire una somma così consistente.
Prima che si diffondesse la notizia che anche il primo forno è ko, un dirigente interno dell’A2a, che
preferisce l’anonimato, dichiarava: “Altro che manutenzione. Fisia Babcock, che ha costruito il
termovalorizzatore per conto di Impregilo, non ha messo le adeguate protezioni contro i fumi acidi
prodotti dall’incenerimento della spazzatura. Immagino per risparmiare soldi o tempo.
Inevitabilmente due forni su tre, il secondo e il terzo, sono saltati. Sono pieni di buchi. Vanno rifatti
e per questo sono fermi. Quanto al primo, è piuttosto malmesso anch’esso. Stiamo facendo il
possibile per tirare avanti, ma non escludiamo affatto che possa cedere da un momento all’altro”. E,
infatti, oggi si è fermata anche la prima linea. Problemi anche alle caldaie che, si vocifera in
assoluto anonimato, sarebbero made in China. Sarebbero. Le contraddizioni di un ciclo dei rifiuti
mai avviato sono legate alla mancata politica di riduzione, anche con ordinanze ad hoc a partire da
imballaggi e contenitori di plastica, fino all’assenza completa di un impianto di compostaggio in
regione.
In un territorio a “libertà vigilata” , dove se ti avvicini a una discarica o a un inceneritore vieni
fermato, la gestione di Bertolaso non ha prodotto, infatti, neanche un impianto per il trattamento
della frazione umida che rappresenta il 35-40% dei rifiuti e chi raccoglie l’umido in Campania deve
portarlo in Sicilia spendendo fino a 240 euro a tonnellata. Uno scandalo nello scandalo, un fiume di
denaro sperperato in trasporti e società che strozzano le già difficili finanze dei comuni.
di Nello Trocchia e Tommaso Sodano
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/28/l%e2%80%99inceneritore-di-acerra-e-morto-
ora-spunta-il-collaudo-dei-misteri/65570/

Is Right-Wing Senator DeMint the Biggest


Obstructionist in History?
By , Think Progress
Posted on September 30, 2010, Printed on October 11, 2010
http://www.alternet.org/story/148355/

by Faiz Shakir, Benjamin Armbruster, George Zornick, Zaid Jilani, Alex Seitz-Wald,
and Tanya Somanader
The Progress Report recently documented how the United States Senate has earned
its reputation as the world's greatest deliberative body -- not because of what is being
debated, but for how long the "debate," particularly because of the GOP minority --
carries on. Senate Republicans have brought the upper chamber to a virtual standstill,
abusing filibuster and hold rules and using delay tactics to block anything remotely
progressive from passing through. This week, Sen. Jim DeMint (R-SC) took that
obstruction to a whole new level, warning his colleagues on Monday night that "he
would place a hold on all legislation that has not been 'hot-lined' by the chamber or
has not been cleared by his office before the close of business Tuesday." Roll Call
noted that DeMint's office has objected to hot-lining -- or fast-tracking -- legislation
for years, but his "threat to essentially shut down legislation in the chamber is
remarkable." Republicans and Democrats said that DeMint "had essentially made a
unilateral decision to end legislative activity in the Senate."

SAME OLD DEMINT: "Hot-lining" is a process in which the two Senate leaders
poll their caucuses to see if any senator objects to passing a bill. If no one raises an
objection, than the bill is fast-tracked for passage. As the Wonk Room's Ian Millhiser
noted, "[u]nless all 100 senators agree to begin and end debate on a bill without
objection, the dissenting senators can force up to 60 hours of uninterrupted debate
before a final vote can take place" -- 30 hours after debate begins and 30 hours after
debate ends. The Huffington Post reported that one of DeMint's colleagues on the
other side of the aisle said that his obstruction has been ongoing since President
Obama came to office. "It is my understanding Jim DeMint has had a standing hold
on everything throughout this two year process," Sen. Jeff Merkely (D-OR) said
yesterday. "When I have had amendments on a couple of occasions, I have been told:
'Absolutely, we in the Republican leadership are fine but you are going to have to
clear it with Jim DeMint because he has a standing hold on everything.' So I'm not
sure this is a real change from what he has been doing."

NOTHING GETS DONE: Millhiser notes that 30 hours "may not seem like a lot,
but when you consider the sheer number of confirmations, bills, and appropriations
that the Senate must consider just to keep the country running, the ability to waste 30
hours before any one of these tasks can be accomplished empowers the dissenters to
prevent more than a fraction of the Senate's business from ever being completed."
Indeed, more than 300 bills that have passed the House, many of them
uncontroversial and passed unanimously, have not received a Senate vote. Moreover,
as Attorney General Eric Holder noted in a Washington Post op-ed yesterday, "23
judicial nominees -- honest and qualified men and women eager to serve the cause of
justice -- are enduring long delays while awaiting up-or-down votes, even though 16
of them received unanimous bipartisan approval in the Judiciary Committee." And
the vacancies are holding up the justice system as many federal courts do "not have
enough judges to promptly or effectively handle the court's caseload." "If we stay on
the pace that the Senate has set in the past two years -- the slowest pace of
confirmations in history," Holder wrote, "fully half the federal judiciary will be
vacant by 2020."

"MINORITY LEADER DEMINT": DeMint has been on a crusade to purify the


GOP, actively supporting right-wing tea party candidates for Senate. DeMint's
endorsements have often times gone against the candidates his GOP leadership
supports. "I'd rather have 40 Marco Rubios than 60 Arlen Specters," DeMint said
recently, referring to his desire to purge the GOP of moderates. "I hate to offend my
colleagues, but the fact is that there is a battle going on for the heart and soul of the
Republican Party," he said. Sen. Lisa Murkowski (R-AK), who just lost to DeMint
favorite Joe Miller in the state's GOP primary, said of the South Carolina
Republican, "I think he has made people uncomfortable. I think that he has kind of
rattled the cages, whether it advances to a full-on civil war, I don't know. What I'm
looking at right now is what's going on in my state." "I personally think it's very
counterproductive," said Sen. Kit Bond (R-MO) of DeMint's antics. DeMint has even
criticized Senate Minority Leader Mitch McConnell (R-KY), saying that "the
problem in the Republican Party is that the leadership has gone to the left." And if
elected, DeMint's new bloc of supporters may pose a leadership challenge against
McConnell. DeMint said it is not his "plan" to challenge the current Minority Leader
but he reportedly said "he's open to some kind of elected leadership once 10 to 15
new conservatives -- many of them supported by DeMint -- join the ranks as he
expects." And while DeMint provokes the GOP and its leadership, McConnell
appears to be idly standing by. "I wonder what Minority Leader McConnell thinks
about Minority Leader DeMint's unilateral declaration," said a spokesman for
Majority Leader Harry Reid (D-NV) of DeMint's "hot-line" announcement, who
added, "One thing I know for sure is if their Conference continues to follow the lead
of the junior Senator from South Carolina, then the only title that proceeds his name
or Sen. McConnell's name will be Minority Leader."

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È DeMint senatore di Destra il più grande ostruzionista


della storia?
By, Think Progress
Pubblicato il 30 settembre 2010, Stampato il 11 ottobre 2010
http://www.alternet.org/story/148355/

da Shakir Faiz, Armbruster Benjamin, Zornick George, Jilani Zaid, Alex Seitz-Wald,
e Tanya Somanader
La relazione sullo stato di recente documentata come il Senato degli Stati Uniti ha
guadagnato la sua reputazione come il più grande organo deliberativo del mondo -
non a causa di ciò che è in discussione, ma per quanto tempo il "dibattito", in
particolare a causa della minoranza GOP - prosegue. Repubblicani del Senato hanno
portato la camera superiore ad una fermata virtuale, abusando filibuster e regole
detenere e usare tattiche dilatorie per bloccare qualcosa di anche lontanamente
progressivo il passaggio. Questa settimana, il senatore Jim DeMint (R-SC) ha
adottato tale ostruzione a un livello completamente nuovo, l'allarme i suoi colleghi
nella notte di Lunedi che "si sarebbe luogo una presa su tutta la legislazione che non
è stato 'hot-allineati' dalla Camera o non è stata cancellata dal suo ufficio prima della
chiusura di Martedì. "Roll Call preso atto che l'ufficio DeMint ha contestato a caldo
rivestimento - o fast-tracking - Normativa per anni, ma la sua "minaccia di chiudere
in sostanza, stabilisce la legislazione in camera è notevole". Repubblicani e
democratici DeMint ha detto che "aveva in sostanza fatto una decisione unilaterale di
fine attività legislativa al Senato".

SAME OLD DeMint: "Hot-lining" è un processo in cui i due leader del Senato
sondaggio loro caucus per vedere se tutti gli oggetti senatore a passare un disegno di
legge. Se nessuno solleva obiezioni, che il disegno di legge è una corsia preferenziale
per il passaggio. Wonk Come la stanza di Ian Millhiser ha osservato che "[a] lla tutti
i 100 senatori decidono di iniziare e terminare dibattito su un disegno di legge, senza
opposizione, i senatori dissenzienti può costringere fino a 60 ore di un dibattito
ininterrotto prima di un voto finale può avere luogo "- 30 ore dopo la discussione ha
inizio e 30 ore dopo il dibattito si conclude. The Huffington Post segnalati che uno
dei colleghi di DeMint sul lato del corridoio detto che la sua ostruzione è in corso dal
presidente Obama è entrato in carica. "E 'la mia comprensione Jim DeMint ha avuto
una presa in piedi su tutto in tutto questo processo di due anni," il senatore Jeff
Merkely (D-OR) ha detto ieri. "Quando ho avuto emendamenti su un paio di
occasioni, mi è stato detto: 'Assolutamente, noi della leadership repubblicana vanno
bene, ma si sta andando ad avere per cancellarlo con Jim DeMint perché ha una
tenuta in piedi su tutto.' Quindi io non sono sicuro che questo è un vero cambiamento
da ciò che egli ha fatto. "

NULLA viene fatto: Millhiser rileva che 30 ore "può non sembrare molto, Ma se si
considera il gran numero di conferme, fatture, e gli stanziamenti che il Senato deve
prendere in considerazione solo per mantenere il paese in funzione, la capacità di
rifiuti di 30 ore prima di una di queste operazioni può essere compiuta autorizza i
dissenzienti per evitare che più di un frazione del business del Senato, da sempre in
fase di completamento. "Infatti, più di 300 bollette che hanno superato la Casa, molti
di loro non controversi e approvata all'unanimità, non hanno ricevuto un voto del
Senato. Inoltre, come procuratore generale Eric Holder notato in un Washington Post
op-ed ieri, "23 candidati giudiziaria - uomini onesti e qualificati e donne desiderosi di
servire la causa della giustizia - stanno sopportando lunghi ritardi, in attesa voti su-o-
down, anche se 16 di loro hanno ricevuto unanime approvazione bipartisan in
Commissione Giustizia. " E le offerte si stanno sollevando verso il sistema
giudiziario come molti tribunali federali fare "i giudici non hanno sufficiente per
gestire tempestivamente e con efficacia carico di lavoro della Corte." "Se vogliamo
restare sul ritmo che il Senato ha stabilito negli ultimi due anni - il più lento ritmo di
conferme nella storia", Holder ha scritto, "una buona metà della magistratura
federale, sarà disponibile entro il 2020."

"LEADER DeMint minoranza": DeMint è stata su un crociata per purificare il


GOP, Supportando attivamente i candidati di destra tea party per il Senato. DeMint
gli avalli sono spesso andato contro i candidati del GOP sostiene la sua leadership.
"Preferisco avere 40 Rubios Marco oltre 60 Arlen Specter, "DeMint ha detto di
recente, facendo riferimento al suo desiderio di eliminare il GOP dei moderati".Odio
di offendere i miei colleghi, Ma il fatto è che c'è una battaglia in corso per il cuore e
l'anima del Partito Repubblicano ", ha detto. Sen. Lisa Murkowski (R-AK), che ha
appena perso a Preferiti DeMint Joe Miller nella scuola primaria GOP dello Stato,
detto della Carolina del Sud repubblicano, "Credo che abbia reso le persone a
disagio. Penso che egli ha scosso il tipo di gabbie, se si avanza per un completo sulla
guerra civile, non lo so. Quello che sto cercando in questo momento è quello che sta
succedendo nella mia condizione. "" Io personalmente penso E 'molto
controproducente, "Ha detto il senatore Kit Bond (R-MO) di buffonate DeMint's.
DeMint ha anche criticato leader della minoranza al Senato Mitch McConnell (R-
KY), dicendo che" il problema nel partito repubblicano è che la leadership è passata
a sinistra. "E se eletto, nuovo blocco DeMint di sostenitori possono rappresentare una
sfida contro la leadership McConnell. DeMint ha detto che non è il suo" piano "per
sfidare l'attuale leader della minoranza, ma lui riferito ha detto "lui è aperto a qualche
tipo di leadership, una volta eletto 10-15 nuovi conservatori - molti dei quali
sostenuti da DeMint -. unirsi ai ranghi come lui si aspetta" E mentre DeMint provoca
il GOP e la sua leadership, McConnell sembra essere pigramente in piedi. "Mi
chiedo cosa McConnell, leader della minoranza pensa dichiarazione unilaterale
DeMint leader della minoranza", ha ha detto un portavoce per il leader della
maggioranza Harry Reid (D-NV) di DeMint l'annuncio di "hot-line", che ha
aggiunto: "Una cosa che so per certo è se la loro Conferenza continua a seguire
l'esempio del senatore junior da South Carolina, quindi l'unico titolo che procede il
suo nome o il nome del Sen. McConnell sarà leader della minoranza ".

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La protesta

Una croce sulle vittime del sangue infetto

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Negli anni 80 oltre 70mila persone furono contagiate da Hiv ed epatite a causa di trasfusioni infette. In finanziaria sparisce la rivalutazione dei magri
indennizzi, mentre il ministero propone risarcimenti iniqui

di Sara Picardo

"Sono stata contagiata da una trasfusione infetta nel 1982, al San Filippo Neri di Roma. Hcv, epatite C. Da
allora la mia vita non è stata più la stessa". Maria è solo uno dei 70mila contagiati da trasfusioni infette ed
emoderivati nei nostri ospedali negli anni 80, epoca che coincide almeno in parte con la direzione
generale di Duilio Poggiolini al ministero della Sanità. Epoca in cui il ministero stesso acquistò dalla
società Marcucci plasma ed emoderivati non controllati: è questa l'accusa principale sul capo di Poggiolini,
Marcucci e altri imputati in un processo ripreso a Napoli nel 2008 dopo anni di stop. L'accusa di aver
somministrato ai trasfusi sangue proveniente da alcune case farmaceutiche americane che lo avevano
raccolto a loro volta nelle carceri e nei quartieri più poveri. Sangue infettato appunto dai virus dell'Hcv,
Epatite B e C.

Oltre la metà di queste persone sono già morte in questi 20 anni, altre 7mila si stanno logorando piano
piano in una lotta estenuante per veder riconosciuti i loro diritti. Il 3 agosto, però, è arrivata per tutti loro
una doccia fredda: nell'ultima finanziaria è sparita la rivalutazione Istat dei loro già magri indennizzi
mensili di circa 500 euro, che percepiscono per curarsi dalle malattie contratte. Inoltre il ministero ha
proposto risarcimenti iniqui e differenti per le stesse categorie di trasfusi, per questo osteggiati da molte
vittime che si sono riunite nel Comitato spontaneo Blogspot 210/92 (Ndr: Come il nome della transazione
per ricevere l'indennizzo) e dal 15 settembre scorso sono in presidio permanente (guarda le foto) a
Roma, davanti a Montecitorio, nonostante le difficili condizioni di salute di molti di loro. "Resteremo qui
fino a che non verranno recepite le modifiche da noi richieste all'ultima Finanziaria e che ci sono state
promesse da più parti", aggiunge Miriam, 37 anni, contagiata dal virus dell'Hiv, che ha trasmesso
inconsapevole anche al figlio appena nato.

L'iniquità dei risarcimenti proposti dal ministero consiste nell'attribuire, a parità di malattia, 90 mila euro
lordi ai politrasfusi e vaccinati, che sono la maggioranza, e circa 400mila lordi a emofilici e ai talassemici.
Come se aver contratto il virus a causa di una trasfusione dopo un parto difficile avesse meno valore che
dopo una trasfusione infetta ricevuta da malato cronico. Inoltre, l'interpretazione lasciata ai giudici dei
tempi di prescrizione ha fatto sì che molti venissero esclusi da questo risarcimento concesso in ben 15
anni.

"Entro fine anno il governo ci aveva promesso che avrebbe emendato il comma della Finanziaria che
blocca i nostri indennizzi e che avrebbe riammesso le persone escluse per prescrizione dal risarcimento
attraverso un decreto legge ad hoc, ma ora hanno ritirato tutto adducendo come pretesto la crisi–
continua Miriam –, per questo abbiamo deciso di rimanere qui fino a che non avremo risposte. O fine a
che anche il restante di noi sopravvissuti alla mattanza del sangue infetto non morirà per buona grazia di
questo governo. Che prima riconosce le sue colpe, concedendoci un indennizzo, e poi ci nega quanto ci
deve, adducendo scuse di crisi economiche, prescrizioni dei termini e differenze di contagio".

"E' nostra intenzione manifestare fermamente sino a quando il ministero della Sanità risarcirà tutti, anche
se eventualmente prescritti, in modo uguale, perché un tumore al fegato non si accorge se sta uccidendo
un trasfuso occasionale o un emofilico. Anche un solo giorno per noi è importante".

Regioni

Campania, per la sanità solo tagli

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Il piano sanitario della giunta Caldoro rischia di eliminare servizi essenziali. "E' fatto unicamente di tagli, premiate le cliniche private". Blocco della vendita
diretta dei farmaci mutuabili, stipendi non pagati negli ospedali e nelle Asl

di Antonio Fico

Blocco della vendita diretta dei farmaci mutuabili, stipendi non pagati negli ospedali e nelle Asl di Napoli
(e ora anche Salerno rischia), un deficit strutturale che ha sfiorato i 750 milioni di euro: settembre nel
caos per la sanità campana. La giunta di centrodestra guidata dal neo governatore Stefano Caldoro ha
presentato a luglio il piano per il riordino ospedaliero, poi approvato dal governo, che dovrebbe fungere
da perno per una riorganizzazione della sanità campana e per riequilibrare il deficit.

Contro il programma dell’esecutivo regionale si stanno ricompattando le organizzazioni sindacali,


che lo giudicano "sbagliato" sia nel merito che nel metodo. Sbagliato nel merito perché "taglia in modo
indiscriminato senza procedere a una reale riorganizzazione sul territorio della sanità", avvantaggia la
sanità privata rispetto a quella pubblica, e crea uno squilibrio tra le città (Napoli, in particolare) e il resto
della Campania. Nel metodo perché la nuova amministrazione non ha ancora incontrato le parti sociali,
che hanno appreso del piano dai mezzi d’informazione.

La struttura commissariale – il commissario è il presidente della Regione affiancato dal sub


commissario Giuseppe Zuccatelli – con il nuovo piano punta a risparmiare 250 milioni di euro. In realtà il
valore dei tagli è superiore, fino a giungere a 400 milioni, inglobando anche i risparmi del piano originario
poi cambiato. Nel totale dei risparmi previsti 110 milioni verrebbero dalla dismissione di 1.110 posti letto
– 760 pubblici e 350 privati – della rete ospedaliera. Si noti che la chiusura dei nosocomi sotto i 100 posti
letto è imposta solo agli ospedali pubblici, mentre il settore privato è riuscito a limitare la norma alle
nuove cliniche.

Dietro i numeri vi è l’accorpamento di strutture ospedaliere, la soppressione di reparti definiti


"doppione" e la chiusura degli ospedali sotto i 100 posti letto, dicevamo prima, o ritenuti pericolosi. A
questo risparmio devono però sommarsi i 150 milioni di euro previsti dal piano originario per un totale di
circa 260 milioni preventivati nell’arco di un triennio. Altri 65 milioni sarebbero risparmiati con la
trasformazione di 907 posti letto per acuti in altrettanti per la riabilitazione e la lungo degenza.
Ulteriori 75 milioni giungono dall’insieme delle azioni relative agli interventi di razionalizzazione delle
gestione delle risorse umane e dalla riorganizzazione della rete territoriale. Che – fa osservare la Cgil – è
stata rimandata sine die. Ma è anche evidente che i tagli da soli non bastano a pareggiare il deficit
strutturale. Tra le ipotesi avanzate da Caldoro per rimpinguare le entrate vi è il raddoppio dei ticket
riguardanti i codici bianchi del pronto soccorso (da 25 a 50 euro), dei farmaci mutuabili e della
diagnostica, mentre si parla con maggiore insistenza dell’aumento delle imposte regionali Irpef e Irap, già
per la verità dal 2007 ai livelli massimi. Vista nel suo insieme la manovra sanitaria sembra necessaria e
non rinviabile. Ma molti contenuti del piano, come si ricordava sopra, sollevano le critiche del sindacato.

"I tagli e gli accorpamenti degli ospedali – osserva Teresa Granato, segretaria regionale della Cgil –
sono decisi senza aver pianificato la riorganizzazione delle risorse e delle strutture nel territorio". Il rischio
è di lasciare scoperte intere aree, privilegiando la presenza ospedaliera nelle città. Il tetto dei 100 posti
letto imposti alla sola sanità pubblica è per il sindacato il segno dell’enorme peso dei privati nelle scelte
amministrative.

"È una misura salva privati – sostiene Franco Petraglia, segretario regionale della Fp Cgil – che
soddisfa le richieste avanzate dall’Aiop (associazione di categoria dell’ospedalità privata), ma che non
valorizza i punti di eccellenza della sanità privata e non determina una riduzione della spesa, perché il
sistema dell’accreditamento è una delle fonti di spreco". "Si escludono i privati dalle regole di
riorganizzazione – evidenzia il sindacalista – e quindi si colpisce ulteriormente il pubblico, mentre si
premiano gli interessi delle lobby sanitarie".

Ma la stessa logica che guida la riorganizzazione degli ospedali fa temere una nuova centralità delle
aziende ospedaliere, a danno di una programmazione generale delle Asl. Petraglia ribadisce "la netta
contrarietà a qualsiasi ipotesi che preveda la separazione delle competenze delle Aziende sanitarie locali
da quelle delle Aziende ospedaliere con lo scorporo e il trasferimento della gestione dei presidi ospedalieri
dalle Aziende sanitarie a quelle ospedaliere. È una proposta che riporterebbe il Servizio sanitario
regionale indietro nel tempo, senza raggiungere alcun risultato positivo in termini di appropriatezza delle
prestazioni sanitarie erogate".

Il fatto che il piano della giunta Caldoro non sia condivisibile nulla toglie alla questione, drammatica,
del debito complessivo della sanità campana. Dal labirinto delle partite debitorie è complicato uscire.
Secondo una stima avanzata nel marzo di quest’anno da Il Sole 24 Ore, il disavanzo della sanità sarebbe
di di 5 miliardi 652 milioni, debito accumulato negli anni compresi tra il 2003 e il 2008, mentre il deficit
2009 giungerebbe alla cifra di 725 milioni di euro. Differente la valutazione del sub commissario
Zuccatelli: il debito sarebbe compreso tra i 2 e i 3 miliardi, in gran parte coperti da quote non trasferite
dallo Stato, mentre il deficit strutturale è di circa 750 milioni di euro.

Secondo la ricostruzione fatta dalla precedente amministrazione di centrosinistra, avallata dal


commissariato di governo, la Campania vanta crediti nei confronti dell’esecutivo pari a 1,7 miliardi di
euro, risorse raccolte attraverso l’aumento di Irpef, Irap, accise sui carburanti e bollo auto. L’inasprimento
automatico era scattato con il fallimento degli obiettivi indicati nel vecchio piano di rientro presentato
dalla giunta di centrosinistra. Accanto a queste risorse la Regione aspetta ancora 500 milioni di fondi Fas
per introdurre elementi di innovazione nella sanità. Soldi promessi ma mai erogati, che potrebbero
alleviare le condizioni del comparto. La Regione aveva avviato nel 2007 una strategia per colmare i debiti
correnti e pregressi, accorpando le Asl, ponendo tetti di spesa per forniture e servizi dai privati, attuando
il blocco del turnover e il licenziamento dei precari. Solo per queste ultime due voci sono usciti dalla
sanità pubblica 7mila lavoratori.

Ma i sacrifici non sono bastati. L’anno scorso la sanità regionale è stata commissariata, sottraendola
alle leve ordinarie. Era stato proprio il sub commissario a presentare un primo piano di riordino del
sistema ospedaliero che avrebbe permesso un risparmio di 150 milioni di euro, chiudendo nosocomi ma in
compenso avviando la "territorializzazione", cioè una rete di day hospital e strutture leggere sul modello
emiliano. Il piano è stato accantonato a favore del nuovo piano "tutto tagli" di Caldoro.
L’Italia ritorna al nucleare..Perchè?.. E’ nell’interesse della nazione.?
Ragioniamoci !!!
1 ottobre 2010 - Ambiente

L’Italia ritorna al nucleare..Perchè?.. E’ nell’interesse della


nazione.? Ragioniamoci !!!
Pubblicato da rlangone il 9/30/10

di Raffaele Langone

L’Italia dipende dall’estero per circa il 90% del fabbisogno di energia primaria, con la
prospettiva tendenziale di arrivare a quasi il 99% tra meno di vent’anni.
Questo dato, da solo, evidenzia l’esigenza di porre il tema dell’energia al centro delle
priorità della nazione. È indispensabile, quindi, creare per tempo un quadro organico in
cui ogni soggetto – istituzioni, imprese, cittadini – si muova di concerto con gli altri per
perseguire uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente nonché forniture
energetiche stabili e sicure.
In questa logica diventa strategico il ruolo dei territori e delle risorse energetiche
potenziali il cui utilizzo oggi è possibile grazie ai progressi della ricerca scientifica e
tecnologica.

Ogni territorio dovrà diventare un giacimento di energia; in ogni territorio dovranno


cogliersi tutte le possibili occasioni per produrre energia.
Ogni territorio dovrà fare quindi la sua parte; dovrà dare un contributo al più alto degli
interessi: quello della collettività, della nazione.

La logica da applicare alle scelte è dunque il superiore interesse nazionale e se così è


deve essere bandita ogni posizione ideologica per cui l’energia da fonti rinnovabili è di
sinistra e l’energia nucleare è di destra.

L’energia non è nè di destra nè di sinistra ma mezzo e risorsa al servizio della vita e


della produttività del Paese. Il problema dell’approvvigionamento e quindi della
disponibilità delle risorse energetiche è dunque centrale perché da esso dipende il
futuro della nazione più di qualunque altro bene e parametro economico.
Se questo ragionamento è corretto, nella ricerca e nell’approvvigionamento delle fonti
energetiche va privilegiato l’utilizzo di risorse economiche, professionali, tecnologiche
e le competenze presenti all’interno della nazione.
Prima ancora quindi di pensare a produrre energia da giacimenti e risorse non presenti
sul territorio del nostro Paese, se si ragiona in modo non ideologico, occorre verificare
complessivamente il valore potenziale dei giacimenti energetici presenti su tutti i
territori nazionali.
In sostanza prima di pensare al nucleare dobbiamo cercare di capire quando è grande
il “giacimento energetico “ nazionale e se possediamo, come sistema Italia, le
competenze professionali e tecnologiche per poterlo utilizzare.
Certamente non possediamo competenze e tecnologie per costruire e gestire centrali
nucleari; dobbiamo importare tutto dall’estero con un grandissimo esborso di risorse
economiche e finanziarie. Alla tecnologia, alle competenze, alla ricerca sul nucleare
abbiamo, come nazione, rinunciato a seguito del referendum abrogativo del 1987.
Ma se dovesse essere necessario, come parte del mix delle fonti energetiche dalle
quali approvvigionarci, il nucleare, perché no! Prima di tutto l’interesse nazionale.

Continuando il ragionamento, a questo punto dobbiamo porci la seguente domanda:


esistono dei criteri scientifici che permettano di valutare le tecnologie energetiche per
le loro reali prestazioni in modo oggettivo, al di sopra di ogni visione ideologica?
Questi criteri ovviamente non possono nè debbono basarsi solo sul prezzo dell’energia
prodotta; il prezzo è una variabile che dipende da troppe cose: sovvenzioni,
investimenti pregressi, percezione del mercato, oscillazioni, conversioni monetarie,
eccetera. Quello che oggi costa poco, potrebbe costare tantissimo domani. I dati da
prendere in considerazione sono invece quelli che visualizzano quanta energia utile
può produrre l’impianto comparato a quanta ce ne vuole per costruirlo, farne la
manutenzione e poi smantellarlo.
Questo concetto viene detto “energia netta” o “ritorno energetico” (EROEI) e
non è influenzato dalle follie dei mercati o dalle sovvenzioni statali.

La tecnologia migliore è quella che produce la maggiore “energia netta” o EROEI. Il


calcolo dell’EROEI è abbastanza complesso per cui in genere si preferisce considerare
uno dei parametri che hanno maggiore valore nel definire l’EROEI di una tecnologia,
“l’intensità energetica” che è il rapporto fra l’energia termica necessaria alla
produzione di energia elettrica da parte di un impianto (che usa una determinata
tecnologia) e l’energia elettrica prodotta.
Secondo questo criterio cosa è meglio?
I vecchi fossili, il nucleare o le rinnovabili?

tecnologia ……………………….. EROEI

Nucleare, acqua leggera ……………. 5.5


Nucleare, acqua pesante …………… 5.0
Turbine eoliche……………………. 15.1
Fotovoltaico …………………………. 3.0
Mini-idro ……………………………. 21.7

Fra nucleare e rinnovabili, le rinnovabili in forma di vento e idroelettrico vincono


nettamente. Il fotovoltaico rimane un pò indietro ma non di molto. Questi dati vanno
anche visti in termini dinamici, ovvero come varieranno nel tempo.

Qui, ci possiamo aspettare sostanziali progressi tecnologici sia nel campo dell’eolico
(per esempio con lo sviluppo del kitegen), del fotovoltaico (nuove generazioni di celle)
e anche del nucleare (con la “terza e quarta generazione” di reattori). Tuttavia, le
rinnovabili hanno il vantaggio di fondo sul nucleare che non hanno bisogno di
combustibili.

Il progressivo esaurimento dei minerali estraibili di uranio è destinato a ridurre l’EROEI


della tecnologia della fissione fino a renderla del tutto non competitiva in confronto
alle rinnovabili.

Si tenga presente che più alto è il valore dell’ EROEI migliore è la tecnologia.Questa
tabella ha un notevole valore in quanto tutti i dati sono stati ottenuti con lo stesso
metodo. Allora, fra nucleare e rinnovabili, chi vince? Il risultato è forse
inaspettato ma in realtà conferma altri dati che si trovano nella letteratura
seria.

http://www.gliitaliani.it/2010/09/litalia-ritorna-al-nucleare-perche-e-nellinteresse-della-nazione-
ragioniamoci/

Cronaca di un’intimidazione
30 settembre 2010 - (Anti)mafia

Dall’ordinanza di custodia cautelare a carico di 22 persone emessa


dal Gip di Reggio Calabria Domenico Santoro, che ha portato all’arresto di 15 persone questa notte,
con l’accusa di associazione mafiosa responsabile, tra le altre cose, dell’attentato dinamitardo
contro la Procura Generale, pubblico interamente la parte che riguarda il contesto e le modalità
operative con cui si è realizzato l’incendio della mia macchina.
Dagli insulti al paragone con Roberto Saviano. Fino alla fidanzata di uno dei simpatici pezzi di
merda arrestati oggi che gli confida di “aver sognato il giorno del loro arresto”.
ECCO IL TESTO
*****
Forse il più preoccupante dei danneggiamenti (sempre che si possa fare una scala di gravità di
tali azioni delittuose, destinate a minare la sicurezza della collettività e, pertanto, efficaci nel
senso di garantire la percezione dell’incombente alone di intimidazione mafiosa) è quello in
danno del giornalista MONTELEONE Antonino, che, come si vedrà, nessuna remora aveva
avuto a denunciare quelli che erano, all’epoca, i sospetti sull’autore del reato; sospetti che si
sarebbero rivelati fondati grazie agli esiti delle operazioni di intercettazione.
Nella notte tra il 04.02.2010 ed il 05.02.2010 viene commesso un danneggiamento a mezzo
incendio ai danni di un’autovettura FIAT IDEA targata DH571AJ, in uso a MONTELEONE
Antonino Salvatore, nato a Reggio Calabria l’01.02.1985, attività delittuosa questa che assume
particolare valenza in ragione delle motivazioni, che sottendono tale gesto.
Lo stesso MONTELEONE, nel denunciare il danneggiamento dell’autovettura a lui in uso,
avvenuto fra il 4 ed il 5 febbraio 2010 riferiva:
- che aveva visto gli autori del danneggiamento (due persone, una delle quali indossava un
giubbino di colore bianco);
- che il giubbotto bianco gli riportava alla mente una persona da lui conosciuta di nome NAVA
Ivan, sul quale aveva scritto un articolo sul suo BLOG in occasione dell’arresto di DE STEFANO
Giuseppe;
- di aver filmato, nel pomeriggio del 03.01.2010 nei pressi della Procura Generale, proprio il
NAVA Ivan mentre si trovava, in qualità di passeggero, a bordo dell’autovettura FIAT 600 targata
BY*121*XJ, unitamente ad altra persona che non conosceva;
- che il NAVA Ivan aveva fatto segno a CRUCITTI David di avvicinarsi e di avergli chiesto se
(MONTELEONE) lo avesse ripreso;
- che alla risposta del CRUCITTI, il NAVA, si allontanava dicendogli di riferire (al
MONTELEONE) di stare attento.
Il filmato a cui si fa riferimento è proprio quello girato dal MONTELEONE il pomeriggio del
03.01.2010 nei pressi di Piazza Castello di Reggio Calabria, in occasione della manifestazione di
solidarietà nei confronti della magistratura e che ritrae NAVA e LAVENA a bordo dell’autovettura
FIAT 600 targata BY*121*XJ, in uso al LAVENA.
In particolare dalle attività tecniche, sia ambientali che telefoniche, è emerso che:
- il danneggiamento è stato effettuato da NAVA Ivan Valentino, nato a Reggio Calabria
l’11.07.1985, PITASI Nicola, nato a Reggio Calabria il 28/02/1979 e BARBARO Antonino, nato
a Reggio Calabria il 26.12.1986;
- gli stessi si sono recati ad effettuate il danneggiamento a bordo dell’autovettura FIAT
600 targata BY121XJ, prestatagli da LAVENA Felice, nato a Reggio Calabria il 04.07.1982.
Alle ore 20.11 del 04.02.2010 (progr. 583) viene registrata una conversazione in entrata sull’utenza
n. 327/8238676 (RIT 83/10 DDA) in uso a BARBARO Antonino, dall’utenza n. 329/0780322 in
uso a NAVA Ivan Valentino. In particolare BARBARO e NAVA stabiliscono di vedersi a casa di
NAVA in tarda serata (trascrizione n. 143 dell’allegato A).
Ora registrazione: 04/02/2010 20.11.36
BARBARO:Oh. Ivan.
NAVA: Allora compare dove sei?
BARBARO: Io, sto andando a casa per mangiare
NAVA: Per mangiare?
BARBARO: Si
NAVA: Eh… come, come re…. come restiamo, che fai dopo?
BARBARO: Ci vediamo più tardi.
NAVA: Passi da me?
BARBARO: Si ma….. con il tardi però Ivan.
NAVA: Verso che ora passi?
BARBARO: Non lo so.
NAVA: Dopo che mangi dalla ragazza più tadri, intorno alle dieci.
BARBARO: No, più tardi.
NAVA: Più tardi?
BARBARO: Uh.
NAVA: Ah.
BARBARO: Tu sei a Reggio?
NAVA :No, io sono con la macchina, a te aspetto ora sono in giro.
BARBARO: Eh….. ma…. ci vediamo con il tardi però.
NAVA: Passi?
BARBARO: vengo io direttamente o no?
NAVA: Aspetto a te io? Dai.
BARBARO: Perchè io ora mangio e mi appoggio un pò
NAVA: Ti appoggi un poco?
BARBARO: Uh…. e poi vengo.
NAVA: Dalla ragazza?
BARBARO: Non è che te ne vai?
NAVA: No, che me ne vado a casa sono, a te aspetto, se mi dici un orario mi tengo preci…..mi
tengo… scendo.
BARBARO: Una volta che parto ti chiamo.
NAVA: Va bene, ok
BARBARO: Non andare a coricarti vedi ah?
NAVA: Che mi corico i coglioni? Se mi dici che passi, passi.
BARBARO: Ti ho detto che io passo, quando mi libero passo.
NAVA: Ciao.
BARBARO: Va bo, ciao.
NAVA: Ciao.
Alle successive ore 21.00 (progressivo 289) viene registrata una conversazione in entrata
sull’utenza n. 0965/29730 (RIT 40/10 DDA) attestata presso l’abitazione di LAVENA Felice,
dall’utenza n. 329/0780322 in uso a NAVA Ivan Valentino. In particolare NAVA Ivan contatta
l’abitazione di LAVENA, ma i familiari gli riferiscono che non è a casa (trascrizione n. 144
dell’allegato A).
Monica: Pronto.
NAVA: Monica, Ivan passami a Felice per favore.
Monica: Eh…. non c’è Ivan.
NAVA: Ah… non è a casa?
Monica: No non è….. io sono arrivata poco fa, ma non c’è.
NAVA: Ok ciao.
Monica: Ciao.
Dalle 21.51 il NAVA riprova più volte, a distanza di pochi minuti, a contattare LAVENA Felice sia
sull’utenza di casa che sul cellulare, senza però riuscirvi (sintesi n. 145 – 146 – 147 – 148 – 149
dell’allegato A).
Il contatto tra NAVA Ivan e LAVENA Felice avviene alle successive ore 22.29; infatti al
progressivo 1688 viene registrata una conversazione in entrata sull’utenza n. 392/4832768 (RIT
75/10 DDA) in uso a LAVENA Felice, dall’utenza n. 329/0780322 in uso a NAVA Ivan Valentino.
Nello specifico NAVA riferisce a LAVENA che ha provato invano a contattarlo e che comunque
sta per raggiungerlo (trascrizione n. 150 dell’allegato A):
NAVA: Ciao cugino dove sei?
LAVENA: A casa.
NAVA: Se sono passato e non ci sei.
LAVENA: Come non ci sono?
NAVA: Sono due ore che sono passato, ora torno dai, ciao.
La conferma dell’incontro tra i due si acquisisce alle successive ore 22.37. Infatti dall’analisi delle
intercettazioni ambientali registrate a bordo dell’autovettura Fiat 600 targata BY121XJ, in uso a
LAVENA Felice, si registra, al progressivo n. 300, (RIT 40/10 DDA) una conversazione tra
LAVENA e NAVA Ivan. Quest’ultimo, rivolgendosi all’altro, che rimane fuori dall’abitacolo
dell’autovettura, gli chiede se è normale che la frizione sia così dura. E’ chiaro, quindi, che NAVA
Ivan ha preso in prestito la macchina del LAVENA Felice. NAVA, quindi, si reca all’incontro con
BARBARO Antonino e PITASI Nicola (trascrizione n. 151 dell’allegato A).
Auto ferma.
NAVA: ma la frizione è normale che è così dura.
LAVENA: Ah?
NAVA: E’ normale la frizione che è dura?
LAVENA: No, è normale …inc…. mi raccomando vedi che …inc…
NAVA: Oh Felice!
22.37.23 Auto in movimento. A bordo NAVA Ivan.
Nessuna conversazione.
22.39.20 Auto ferma
NAVA Ivan: Ci avviamo? …inc…lasciato la mia macchina li sopra, da Bombolo. Vedi che …
inc…. le mie cose.
PITASI Nicola: Se ci fermano …inc…
BARBARO Antonino: La chiave dov’è?
NAVA IVAN: Lui ce l’ha.
PITASI Nicola: Bombolo?
BARBARO Antonino: Chi è…..da Bombolone?PITASI Nicola: Ah….NAVA Ivan: Ah?
PITASI Nicola: …la bottiglia?
NAVA Ivan: …inc… prendiamo un rotolone e ci facciamo un giro.
PITASI Nicola: Vedi che canzoni che ha questo cornuto!
NAVA Ivan: Sto bastardo bombolone, …inc…fatto.
PITASI Nicola: Eh…
NAVA Ivan: Peccato, è un bravo ragazzo.
BARBARO Antonino: Bombolone? Con chi era con Totò EROI?
NAVA Ivan: No, solo. Ha questo cazzo di coso….inc…ha questa cazzo di cosa che si…inc…
Cade il collegamento
La conversazione continua al successivo progressivo 302 (RIT 40/10 DDA); più in particolare:
- nella prima parte si capisce che gli stessi si debbano recare in un luogo di loro
conoscenza, ma che ancora sia presto per raggiungerlo. Inoltre NAVA commenta il fatto che
sarebbe meglio che lui non fosse visto, per evitare problematiche analoghe a quelle accadutegli in
precedenza;
- nel proseguo della conversazione si capisce che gli stessi stanno effettuando un
sopralluogo per individuare il punto in cui commettere il danneggiamento, poiché gli interlocutori
parlano del fatto che c’è gente (Eccola là, puttana non la vedi?) e che NAVA manda sicuramente
BARBARO a controllare che ci sia la macchina (con esito negativo);
- dal rilevamento satellitare emerge che l’autovettura, a quell’orario, si trovi nella zona
Archi. Ciò che è importante sottolineare è che quella non è la zona, dove NAVA, BARBARO e
PITASI, effettueranno il danneggiamento dell’autovettura un’ora dopo, ma è la zona dove il giorno
06.02.2010, NAVA, BARBARO e LAVENA danneggeranno, mediante incendio, l’autovettura di
ROMEO Emilio Antonio, di cui si parlerà nel paragrafo successivo.
- nel proseguo, gli interlocutori parlano ancora del fatto che la macchina non si trova
(trascrizione n. 152 dell’allegato A);
si riporta la trascrizione:
NAVA: Che c’è? …inc… Nino. Se aveva Agroschia sulla macchina? Lo sai che mandano a Totò
Agroschia Ah? O cinema!. Ma tu immagini, ma chi cazzo andava con Totò Agroschia a bruciare a
bruciare la macchina. Mannaia la Madonna! Te lo immagini a Totò Agroscia….. Oh scendi Nino
dobbiamo mettere la benzina..
BARBARO: …inc… mannaia a Dio.
NAVA: Te lo immagini a Totò Agroscia?..
Fuori dalla macchina continuano a parlare. Conversazione incomprensibile.
22:58:58 risalgono in macchina e riprendono la marcia.
NAVA: …inc…. ancora è presto
PITASI: Dove cazzo dobbiamo andare?
BARBARO: Che sò, tu avevi la busta, dove la busta?
NAVA: Vai a prendere la carta. ….inc…. dobbiamo andare più tardi.
Risata….
NAVA: Perchè la devi lanciare?
PITASI: ….inc…. perchè con l’accendino
NAVA: No…. perchè la lanci? No? Quanto prendi e la metti di lato. Una volta lo sai che ho fatto,
ho preso la carta e l’abbiamo lanciata, che ha fatto questa cazzo di carta, era una pezza gli ho fatto il
nodo, ….risata…. inc…. sono dovuto tornare indietro per prenderla.
PITASI: No è pericoloso …inc…
NAVA: Quale?
PITASI: …inc…
NAVA: Quella?
PITASI:anche a me è successo
NAVA: Quella?
PITASI: …inc…
NAVA: Ma quale?
PITASI: mi è successo anche a me …inc…..
Accendono l’autoradio, conversazione incomprensibile
…omissis…. fino a 23:02:10.
NAVA: Se mi vedono a me ce ne possiamo andare a casa, come mi vedono a me la, sai che è
successo, ti ricordi quando….
PITASI: Eh….
NAVA: Mi ha visto dopo tre giorni il figlio di …inc…. Peppe, sai che mi ha detto? Minchia
compare …inc… siccome sapeva che mi ero litigato, mi ha chiesto sei stato tu? Io gli ho detto
io. Fai che mi vedono a me?
PITASI: …inc….
NAVA: Era buono che pioveva.
….omissis….. fino a 23:07:11
NAVA: …inc…. vedi che ci sono le finestre aperte, dove cazzo mi metto con questa macchina.
incomprensibile fino a 23:10:30
NAVA: Si arriva in quel cortile Nino?
PITASI: Li dentro?
NAVA: Vedi la dove c’è luce …inc….
NAVA: Fatti una passeggiata
PITASI: No …inc….
NAVA: Dove?
PITASI: Eccola la, puttana non la vedi?
NAVA: Affacciata?
PITASI: Eh…
NAVA: Dove, non la vedo.
PITASI: Eccola la, di qua verso sotto.
NAVA: Luci accese, ma no che c’è gente.
PITASI: No, c’è una che ….inc….. risata.
BARBARO: Cammina Cola!
NAVA: Vai a vedere se c’è, se c’è scendi dai?
Apertura sportello
NAVA: Intanto vediamo se c’è gente.
Silenzio fino a 23:12:21
NAVA: C’è? Mannaia la Madonna!
Apertura sportello
NAVA: Non c’è? Non è tornato ancora? li parcheggia …inc…
PITASI: Andiamocene di quà, casomai ci vedono …inc….
NAVA: Ma non c’è nemmeno una di quella macchina.
BARBARO: (negazione ……)
NAVA: Ah?
BARBARO: (negazione……). Non ci sono nemmeno parcheggi dentro
….incomprensibile…
NAVA: L’avevo detto, torniamo più tardi, non c’è nemmeno quella di suo padre
…..incomprensibile…… parlano a bassa voce
PITASI: ripassiamo?
NAVA: Da qualche parte la deve avere
PITASI: ….inc….
NAVA: Dove andiamo?
….incomprensibile fino a 23:15:40
NAVA: Ma c’è il cassonetto nel cortile anche?
PITASI: Si, nel cortile
NAVA: Fatti una passeggiata di la, Nino
BARBARO: Nel cortile non c’è.
NAVA: No nel cortile, fatti una passeggiata a piedi verso la in quelle traversine. A piedi dobbiamo
andare Nino. Nino gira quelle vie a piedi, fatti una passeggiata.
BARBARO: Dove, la dentro?
NAVA: No, per la vai a piedi e poi te ne torni per quà. Verso quella via.
BARBARO: Ah?
NAVA: A piedi verso la, fatti una passeggiata
PITASI: …inc….
NAVA: Ah va be, lo vede qualcuno non è che vedono la macchina, si fa una passeggiata. Non
voglio andare io perchè se mi vedono ce ne possiamo andare, combiniamo casino (“na
padda”).
….inc….. parlano a bassa voce. 23:19:36 Apertura sportello.
NAVA: Hai visto da tutte le parti? Per la dentro non c’era?
BARBARO. Sono andato fino a la fuori e non c’è
NAVA: ….inc….
BARBARO: Se non c’è, vuole dire che non c’è.
NAVA: Può essere che la parcheggia da qualche altra parte.
BARBARO: Se no dove?
NAVA: Da qualche parte qui dietro
BARBARO: E dove, nel garage?
….inc…parlano a bassa e si accavallano le voci fino a 23:20:32
NAVA: Ti sei fatto tutte quelle traversine?
BARBARO: Ti ho detto di si, sono entrato la dentro, non c’è!
….inc…..
NAVA: Cola, da quant’è che …inc… si sono presi qualche garage
PITASI: …inc…. da qualche altra parte.
NAVA: ….inc…..
incomprensibile…. parlano a bassa voce fino a 23:23:29.
BARBARO: Andiamo più tardi, ti ho detto io.
NAVA: Più tardi, vedi che non è che ci possiamo coricare e poi alzarci dal letto Nino! certe volte
sei curioso
BARBARO: Più tardi …inc…
NAVA: Va bè sono già le undici e mezza
BARBARO: Si, però tieni conto che è dalle nove che siamo in giro.
NAVA: Compriamo le sigarette quì al bingo?
BARBARO: Certo!
Scendono dalla macchina.
Al progressivo 305 (trascrizione n. 153 dell’allegato A) si capisce chiaramente che i tre sono alla
ricerca di un’autovettura. Infatti, alla ore 00.01, BARBARO Antonino dice di aver visto altre
macchine, ma non quella che cercano e di fermarsi per andare a controllare meglio. NAVA Ivan
arresta la marcia e il BARBARO scende per effettuare il sopralluogo. Una volta risalito in macchina
dice all’autista di ripartire. NAVA fa riferimento al proprietario della macchina in questione,
dicendo che ha scritto un articolo su di lui e che è una vita che aspetta questo momento.
….omissis….. fino a 00.01.15.
NAVA Ivan: Ma io qua ho visto di pomeriggio
…inc…
NAVA Ivan: Ma è sicuro che la dentro abbiamo guardato.
BARBARO: Ci sono le macchina ma non c’è la sua.
PITASI Nicola: ….inc….
BARBARO: Vedi se è la dentro, fermati qua.
Barbaro scende dalla macchina.
NAVA Ivan: Ce ne andiamo subito non abbiamo tempo
00.03.00 BARBARO Antonino sale in macchina e dice: Andiamocene.
….omissis…… (parlano a bassa voce, accavallando le voci) fino a 00.06.29.
NAVA Ivan: Ora che facciamo la mettiamo nella macchina o ce la portiamo per Reggio?
PITASI Nicola: Eh…per metterla nella macchina hai bisogno del coso sempre …
NAVA Ivan: …inc…?
PITASI Nicola: …inc… solo questo c’è?
BARBARO: Che hai detto?
PITASI Nicola: Solo questo è che si deve fare?
NAVA Ivan: solo …inc…l’altro ma non so dove sta.
BARBARO: …inc…
…omissis…. (parlano a bassa voce, accavallando le voci) fino a 00.12.29.
NAVA Ivan: Il figlio di puttana, il giornalista, che scrive gli articoli contro le persone, ha fatto
un articolo a me …inc… il figlio di puttana.
BARBARO:quello che …inc…
NAVA Ivan: Pensava che era lui e non era questo
PITASI Nicola: Ma lascialo stare che se ci fermano con questa benzina, siamo inguaiati
ragazzi.
BARBARO: Che macchina ha?
NAVA Ivan: Quella! Minchia se parcheggia compare…. Ha parcheggiato!!! Minchia siamo
apposto …inc… minchia è una vita che lo aspetto, Una vita! …inc….
PITASI Nicola: Non è che ci sono le telecamere?
NAVA Ivan: Ma che cazzo ci deve essere…
BARBARO: Gira! girà fai il giro quando se ne va.
NAVA Ivan: Minchia …inc….. quello che mi ha scritto ….
…..omissis….. fino a 00.13.40 (i tre ridono in quanto vagliano la possibilità che hanno sbagliato
persona).
NAVA Ivan: Questo quà è un figlio di puttana, sai come scrive brutto sopra le persone
mafiose, le mogli a me mi ha scritto topo burlone, quando hanno arrestato a quello vicino a
casa mia, tipo che sono andato a salutarlo io mi ha scritto l’articolo.
…omissis…
A ciò va aggiunto che, al progressivo n. 304 (trascrizione n. 154 dell’allegato A), si registra un
ulteriore commento del NAVA Ivan. Quest’ultimo, infatti, fa dei commenti in merito ad un articolo
di giornale, nel quale veniva definito un “topo d’appartamento”.
PITASI Nicola: …inc…
NAVA Ivan: Mai.
PITASI Nicola: Ma eravano ragazzi.
NAVA Ivan: Ne ho rubati soldi a tutte parti, guarda, vedi che a me è uscito sul giornale
“TOPO D’APPARTAMENTO”. Vedi che è brutto topo d’appartamento, sul corso Garibaldi,
la mattina c’era la mia foto e quegli altri due scemi in prima pagina.
PITASI Nicola: Micheddo c’era anche.
NAVA Ivan: Eh….Topo d’appartamento, anche se mi mettevano tipo …inc… tabacchino. Mi
ricordo Pino e Franco ogni giorno mi sentivo.
PITASI Nicola: …inc…. stiamo scherzando, ha ragione …inc… stiamo scherzando ora.
NAVA Ivan: Ma non è per qualcosa, ma con quale faccia ti presenti?
PITASI Nicola: …inc… non è il fatto che ti prendono …inc…..
NAVA Ivan: Vedi che al carcere sono cose brutte per 3000€.
…omissis….
I tre proseguono con la stessa argomentazione anche al prog. 306 (trascrizione n. 155 dell’allegato
A) e addirittura il NAVA, con tono ironico, paragona il giornalista in questione a Roberto Saviano.
Alle 00.19 NAVA parcheggia e dice agli altri che lì vicino abita Roberto Saviano. Pochi secondi
dopo NAVA e BARBARO Antonino scendono dall’autovettura tant’è che PITASI Nicola dice agli
altri due di vedersela loro, chiedendo anche se gli serve l’accendino. Poco dopo i due,
adeguatamente attrezzati di bottiglie incendiarie (rif. prog. 300), scendono dalla macchina e vi
risalgono circa due minuti dopo. Dai commenti che seguono si intuisce chiaramente che hanno
raggiunto il loro scopo.
…omissis….
BARBARO: Ormai ci facciamo ….inc…
NAVA: Certo! Possiamo andare a coricarci ragazzi, ci siamo rotti i coglioni
BARBARO: …inc…
NAVA: Non possiamo andare a coricarci, una volta che l’abbiamo stretto (na vota che u
stringimmu)
BARBARO: Poi scrive l’articolo anche a te mpare Cola
NAVA: Tu si e per no che ti arrestano Cola scrive articoli a tutti, ma scrive articoli brutti contro
le persone, che fanno schifo
BARBARO: A tipo Roberto Saviano
NAVA: Bravo …inc….
NAVA: Saviano è no, non Flaviano
BARBARO: Naviano sono quelli di …inc…
NAVA: Saviano
NAVA: E’ una vita che …inc…. risata. Ma come cammina cornuto! Saviano è, Saviano sono
quelli che hanno preso …inc….
BARBARO: …inc…. Al Bart va.
NAVA: Tu dici? Di solito va al bart e si ferma la …inc… Li pago, li pago, li pago quando non
torno più, come gli ha detto?
BARBARO: Quando non torno più glieli pago
NAVA: Minchia è una vita che lo vado cercando, da quando te l’ho detto a te …inc… gli ho
dato uno schiaffone e non era lui …inc…. sessant’anni. Te lo ricordi poverino quanto
abbiamo riso Nino? Ma tanto forte gli ho dato botte Cola

PITASI: Uno scemo era


NAVA: Un bravo ragazzo era, che veniva nel bar da me
BARBARO: …inc…. se era un altro scendeva
NAVA: Certo ci dovevamo litigare. Gli ho chiesto subito scusa, scusa gli ho detto non pensavo
BARBARO: Roberto Saviano … inc….
NAVA: Come facciamo qui davanti alle persone
PITASI: Lo hai perso! Ti ha fottuto
NAVA: O ha girato di qua o …inc..
PITASI: Vai avanti
BARBARO: Sta parcheggiando? Nicola fermati un attimo qui
…inc…. si accavallano le voci.
BARBARO: Nicola dammi la bottiglia
PITASI: una sola?
BARBARO: …inc…. una tu e una io.
PITASI: …inc… l’accendino non lo vuoi.
Apertura sportello.
<00.22.52> Risalgono in macchina e riprendono la marcia.
BARBARO: No, se n’era andato sicuramente si è dimenticato qualcosa …inc…
…inc…. parlano a bassa voce e si accavallano le voci.
00:25:37 lunga retromarcia.
NAVA: …inc… Fino ad ora eravamo in giro come i comanci (ndr zingari) e tu vieni e mi dice
questo pensiero
PITASI: Sali da la.
NAVA: Che saliamo a fare, se già abbiamo visto
PITASI: E’ andato via
BARBARO: Io ti dico di salire fino a li con la macchina.
NAVA: Se mi vede non possiamo fare più niente.
PITASI: Perchè?
NAVA: E mi conosce.
PITASI: Ti metti il cappuccio.
Retromarcia.
00:30:46 Salgono in macchina. Auto in movimento
NAVA: Guarda se qualcuno guarda
L’analisi delle conversazioni sopra indicate, del percorso effettuato dall’autovettura utilizzata per
compiere il danneggiamento (effettuata attraverso la lettura dei dati del GPS), hanno permesso di
individuare il destinatario del danneggiamento e risalire a parte delle motivazioni che hanno spinto i
tre ad agire in tal modo. L’autovettura danneggiata risulta essere la Fiat Idea, targata DH571AJ, in
uso a MONTELEONE Antonino Salvatore, nato a Reggio Calabria il 01.02.1985, noto
giornalista di Reggio Calabria.
Dai dati del rilevamento satellitare GPS installato a bordo dell’autovettura Fiat 600 targata
BY121XJ, usata da NAVA Ivan, PITASI Nicola e BARBARO Antonino, per raggiungere il luogo
del danneggiamento, è emerso che alle ore 00°19’50’’ del 05.02.2010, l’autovettura si trovava in
sosta nelle vicinanze della via Trieste, ove si è verificato il danneggiamento per cui è nota.
La complicità del LAVENA Felice, e quindi il fatto che lo stesso fosse a conoscenza dell’evento
criminoso, è dimostrata anche dal contenuto della conversazione registrata la mattina seguente ed
intercorsa tra LAVENA Felice e la fidanzata EROI Francesca (progressivo 1711 – utenza
LAVENA).
In particolare la EROI riferisce al fidanzato di aver sognato il loro arresto e subito il LAVENA
testualmente le riferisce: “Uttana, e poi ieri sera non sai..non…non sai una cosa. Poi te lo
spiego”, chiaro riferimento a ciò che è accaduto in nottata (trascrizione n. 156 dell’allegato A).
EROI: Pronto?
LAVENA: Che c’è Francesca?
EROI: Che c’è ? Che ti arrabbi a fare?
LAVENA: Ora non posso parlare, ti chiamo io un altro poco.
EROI: Mi sono sognata……
LAVENA: Ah…
EROI: ……che ci arrestavano
LAVENA: Veramente?
EROI: Uh!
LAVENA: Uttana, e poi ieri sera non sai..non…non sai una cosa. Poi te lo spiego.
EROI: E poi c’era il figlio di quella grossa che tu hai nominato l’altra volta…CARUSO…..
LAVENA: Ah!
EROI: …….che ti ingiuriava…..infame, infame. Poi tu ti sei avvicinato nella macchina e mi hai
dato un bacio a me.
LAVENA: Uh!
EROI: Io mi sono messa a piangere…..Antonio pure.
Pochi i commenti imposti dalla chiarezza del dipanarsi degli eventi rappresentati attraverso le
conversazioni captate: certo è l’obiettivo, ovvero il giornalista MONTELEONE, reo di avere
scritto un articolo reputato dal NAVA offensivo, fatto segno di minaccia da parte del NAVA
già in precedenza – per come dichiarato dalla stessa persona offesa –, soggetto paragonato al
noto giornalista Roberto SAVIANO (in termini sicuramente inquietanti solo a voler
considerare come siano notorie le ripercussioni che l’opera letteraria del predetto ha avuto
sotto il profilo della sua sicurezza, essendo stato destinatario di plurime minacce da parte
della Camorra), chiare le modalità di consumazione del reato (peraltro preceduto da un
sopralluogo laddove, due giorni dopo, sarebbe stato commesso il danneggiamento
dell’autovettura di tale ROMEO), dimostrata la consapevolezza e condivisione del delitto da
parte del LAVENA, che, dopo aver dotato i complici della propria autovettura, onde evitare
al NAVA di poter essere in qualche modo individuato e, pertanto, reputato responsabile
dell’accaduto, si pregia di riferire alla fidanzata che le avrebbe dovuto raccontare quanto
occorso la sera prima, di cui era stato evidentemente portato a conoscenza.
http://www.antoninomonteleone.it/2010/09/30/cronaca-di-unintimidazione/
Ciarrapico l’antisemita alleato d’onore di Berlusconi
30 settembre 2010 - Politica
Grande Ciarra. Se non ci fossi bisognerebbe
inventarti.
Oggi l’editore ciociaro e afscistissimo, senatore della Repubblica, ha dato il meglio di sé nel suo
intervento sulla fiducia dopo il discorso di Silvio Berlusconi. In termini di apologia del partito
fascista e per quanto riguarda gravissime dichiarazioni di stampo razzista. Vediamo cosa ha
dichiarato il pregevole oratore.
“I finiani hanno già ordinato le kippah?”, ha chiesto il senatore del Pdl, Giuseppe Ciarrapico,
durante il suo intervento in Aula sulla fiducia. “Perche’ di questo – ha aggiunto Ciarrapico – si
tratta: chi ha tradito una volta tradisce sempre. Quando andremo a votare, perché andremo a votare,
vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini. I 35 parlamentari finiani, i 35 rinnegati della
Camera, non sarebbero mai stati eletti – ha aggiunto, rivolto al premier – se non li avesse fatti
eleggere Lei, signor presidente. Torneranno nell’ombra. Come nell’ombra tornerà la terza carica
dello Stato che Ella, molto generosamente, gli aveva affidato”.
“FINIANI HANNO TRADITO TORNERANNO IN OMBRA” – Nel suo intervento nell’Aula del
Senato Giuseppe Ciarrapico attacca duramente il presidente della Camera e i 34 deputati che lo
hanno seguito. ”Si tratta di 35 parlamentari – sottolinea Ciarrapico rivolgendosi a Berlusconi – che
non sarebbero stati rieletti e che torneranno nell’ombra”. Quindi, parlando sempre con il premier
avverte: ”Si ricordi che chi ha tradito una volta tradisce sempre”. E aggiunge: ”Non si tratta di
rinnegati casuali, ma di rinnegati che avevano una missione da svolgere”. ”Quella di Fini, se era una
missione personale, se la tenga – conclude Ciarrapico – vedremo cosa succedera’ alle elezioni
perche’ tanto si andra’ a votare. Vedremo quanti voti prendera’…”. Berlusconi, che ha ascoltato
l’intervento con grande attenzione, alla fine lo ringrazia alzando la mano in segno di
riconoscimento.
SU FINI, “CHI TRADISCE UNA VOLTA TRADISCE SEMPRE” – ”Chi tradisce una volta
tradisce sempre”. Giuseppe
Ciarrapico lo ripete due volte, scandendo lentamente le parole ai cronisti che a Palazzo Madama gli
chiedono di tornare sul suo intervento in aula, nel corso del quale ha duramente attaccato
Gianfranco Fini. Sono le parole sulla kippah, in particolare, quelle su cui si concentra l’attenzione
dei giornalisti. ”Io mi metto la kippah quando vado al Museo dell’Olocausto e non per passeggiare
– spiega Ciarrapico -. Fini, quando disse che il fascismo e’ il male assoluto, passeggiava a
Gerusalemme con la kippah. Io non ho nulla contro gli ebrei, la mia famiglia ha anche un ‘albero
dei giusti’, perche’ abbiamo difeso e nascosto gli ebrei quando erano perseguitati, ma conta la storia
personale, e’ quella che resta”. ”Mi ricordo – conclude il senatore – quando Fini venne al Secolo
d’Italia: lo accompagno’ un camerata, fece anticamera molte ore prima di poter vedere Almirante.
Da allora si e’ attaccato al polpaccio e non ce ne siamo liberati”.
CAMERA, IN AULA TUTI CONTRO. FLI,CHE DICE PREMIER? – E’ dura ed unanime
nell’Aula della Camera la condanna delle forze politiche per le affermazioni nell’Aula del Senato di
Giuseppe Ciarrapico (Pdl), che ha fatto riferimento alle ‘kippah’, il tradizionale copricapo degli
ebrei, per i parlamentari finiani. “L’orgoglioso fascista Giuseppe Ciarrapico, come lui stesso ama
definirsi, accusa dal Senato di ‘tradimento’ Fini e i suoi e si chiede se abbiano già ordinato le
kippah”, dice Emanuele Fiano dopo aver letto il testo di un’agenzia di stampa. “Erano decine
d’anno che non sentivamo risuonare in un’Aula Parlamentare parole del genere, parlare del
copricapo degli ebrei come di un disvalore. Forse Ciarrapico teme che ci sia quello che lui stesso
direbbe, c’é un complotto demo-pluto-giudaico. E’ una vergona. Quel Ciarrapico fascista e
antisemita si deve vergognare”, ha urlato tra gli applausi. Fiano riceve subito l’appoggio di Fiamma
Nirenstein “Quelle di Ciarrapico sono parole intollerabili anche per noi del Pdl; noi dobbiamo
opporci a qualunque tipo di antisemitismo, è intollerabile questo atteggiamento, è una questione di
civilta”, ha detto, mentre Giancarlo Lehner ha chiesto l’espulsione di Ciarrapico dal Senato.
Solidale anche Fli, con Luca Barbareschi di Fli secondo cui “parole scandalose e di tale imbecillità
sono una offesa per il nostro paese”, e con Silvano Moffa: “Non intendo rispondere a queste
volgarità, ma chiedo formalmente al presidente del Consiglio di prendere le distanze da un senatore
che tratta così volgarmente una questione così delicata”.
VITA (PD), DA CIARRAPICO VERGOGNOSO OLTRAGGIO KIPPAH – “E’ vergognoso aver
sentito in un’Aula parlamentare un senatore del Pdl oltraggiare le kippah”. Il senatore Pd Vincenzo
Vita esce indignato dall’aula di Palazzo Madama dopo che il senatore Pdl Giuseppe Ciarrapico,
attaccando il “traditore” Gianfranco Fini, ha aggiunto: “I finiani hanno già ordinato le kippah?
Perché di questo si tratta”.
GIARETTA (PD), PREMIER CONCORDA CON SUE PAROLE? – “Gli insulti rivolti dal
senatore Ciarrapico a Fini fanno parte dello stile dell’uomo, quello che nelle redazioni dei suoi
giornali continuava a tenere il ritratto di Mussolini. Non può essere invece passato sotto silenzio
affermazioni come ‘I finiani hanno già ordinato le kippah? Perché di questo si tratta’. Per il senatore
Ciarrapico, il Pdl dovrebbe essere un partito antisemita? E il presidente del Consiglio che ha
ascoltato con estrema attenzione e compiacimento le accuse di tradimento da parte di Fini, non ha
niente da dire su questo?”: è la domanda rivolta al premier dal senatore del Pd, Paolo Giaretta.
(Ansa)
Bisogna ammettere che a volte gli alleati di Berlusconi spesso superano il padrone (ops, ci è
sfuggito “padrone”) per quanto riguarda gaffe di stampo autoritario, razzista, sessista e fascista. Ma
questa uscita di Ciarrapico è stata davvero clamorosa.
http://www.gliitaliani.it/2010/09/ciarrapico-lantisemita-alleato-donore-di-berlusconi/

P3. Nei verbali di Martino il ruolo di Letta e Berlusconi


30 settembre 2010 - (Anti)mafia

di Monica Centofante
Ha lasciato ieri il carcere di Poggioreale per
raggiungere la sua casa a Napoli, dove rimarrà ristretto agli arresti domiciliari. Arcangelo Martino –
imprenditore partenopeo, ex assessore socialista, tra i principali indagati dell’inchiesta P3 – ha
ottenuto il primo “sì” dal gip Giovanni De Donato che ha accolto, ma solo in parte, la richiesta degli
avvocati Giuseppe De Santis e Simone Ciotti.
Per il loro assistito i due legali, con il parere favorevole della Procura di Roma, avevano infatti
chiesto la libertà, ma le dichiarazioni rilasciate da Martino agli inquirenti nel corso degli
interrogatori del 19 agosto e 24 settembre non hanno convinto del tutto il giudice. Che nel
provvedimento scrive: “Sono solo parzialmente veritiere e in buona parte elusive del reale ruolo
svolto”. Un tentativo di ridimensionare la sua posizione, quindi, che nella sostanza, se così fosse,
cambierebbe solo limitatamente le dichiarazioni rese ai magistrati durante gli interrogatori. Quando
Martino si è aperto con gli inquirenti fornendo dettagli di sicuro interesse investigativo.
Secondo indiscrezioni riportate dalla stampa l’imprenditore napoletano avrebbe infatti chiamato in
causa il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e il presidente Silvio Berlusconi.
Entrambi coinvolti, secondo le dichiarazioni messe a verbale, nei noti (presunti) tentativi di
condizionamento esercitati dalla P3 sulla Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sul “lodo
Alfano”. Così come sulla controversia fiscale Mondadori e sulle varie nomine di magistrati vicini
alla cricca.
“Lombardi e Gianni Letta si conoscono da 15 anni – sono le parole di Martino – e avevano un
rapporto di consuetudine. Capitava spesso che Lombardi lo chiamasse al telefono davanti a me. E
so che, spesso, lo andava a trovare di persona. In genere il mercoledì, quando saliva a Roma. In un
´occasione lo accompagnai a Palazzo Chigi, anche se rimasi ad attenderlo nell´anticamera”. Insieme
“parlavano di nomine, di candidature di deputati, senatori, sottosegretari”. Tutte “soluzioni”,
aggiunge Martino riferendosi a questo e ad altri temi, che come “Dell´Utri e Verdini ripetevano
spesso”, “andavano sottoposte a Berlusconi”. Al quale Martino e Lombardi avrebbero chiesto un
seggio in Parlamento, come ricompensa al loro lavoro “per la causa”.
“All’interno del partito a fare da tramite con Berlusconi”, avrebbe aggiunto Martino, “erano
Marcello Dell’Utri e Denis Verdini, in stretti rapporti soprattutto con Flavio Carboni. Pasquale
Lombardo faceva invece riferimento a Gianni Letta, cui si rivolgeva spesso per ogni questione di
suo interesse, per telefono o anche a Palazzo Chigi su appuntamento”. Ma Lombardo, a quanto mi
risulta, si incontrava anche con Berlusconi”.
“Un giorno – prosegue Martino – Lombardi mi chiese se volevo conoscere di persona il Presidente
e accompagnarlo da lui”. Proposta che Martino avrebbe rifiutato perché “Lombardi doveva essere
accompagnato da Nunzia De Girolamo e a me non piace parlare di questioni politiche in presenza di
una velina”. Alla replica dei pm, che hanno ricordato all’indagato che la De Girolamo è un
deputato, Martino ha ribadito: “Lo so, ma per me resta una velina”. Quella “velina” che avrebbe
partecipato, il 23 settembre 2009 (la De Girolamo ha già smentito), sempre a detta del Martino, ad
uno dei pranzi della cricca organizzati da Lombardo presso il ristorante romano Tullio. Tra gli ospiti
Flavio Carboni, Giacomo Caliendo, Antonio Martone, Arcibaldo Miller, il deputato Renzo Lusetti,
l’ex assessore campano Sica.
In quanto a Nicola Cosentino, si leggerebbe invece nel verbale depositato sempre ieri, ma
all’udienza del Riesame contro l’ordinanza di custodia cautelare a carico dell’onorevole del Pdl –
indagato a Napoli per concorso esterno in associazione camorristica – Martino ha raccontato ai
giudici napoletani quanto appreso da Lombardi. Ricostruendo la vicenda riguardante i tentativi della
P3 di influenzare l’iter del ricorso in Cassazione contro la stessa ordinanza (poi confermata a
gennaio dalla Suprema Corte, ma non resa effettiva perché la Camera di appartenenza non ha dato
l’autorizzazione) Martino ha confermato che Lombardi “si sarebbe interessato per Cosentino presso
la Cassazione e la Procura. Voleva ripulirlo per farlo candidare come governatore”.
Nello stesso verbale, datato 17 settembre, Martino avrebbe ammesso di essersi “comportato in
modo scellerato”, adoperandosi per “velocizzare” l’iter del ricorso, ma la maggiore responsabilità la
attribuisce al Lombardi. Che, parole sue, “di mestiere fa il giro delle procure per i suoi scopi”.
“Lombardi – continua – sosteneva la candidatura di Cosentino. Disse che avevano lavorato assieme
in un consorzio” e che se lo avesse aiutato in cambio “avrebbe ricevuto incarichi”. Tuttavia,
sottolinea l’imprenditore campano, non si “parlò mai direttamente di un´investitura di Cosentino per
intervenire sulla Cassazione”.
Ancora, Martino avrebbe aggiunto che Lombardi “esibiva conoscenza amplissima e confidenza
sorprendente” con molti magistrati, ma soprattutto con l´ex primo presidente della Corte di
Cassazione Vincenzo Carbone e con Antonio Martone, che non risultano indagati.
Le sue dichiarazioni sono ora al vaglio della Procura di Napoli mentre domani gli avvocati
Giuseppe De Angelis e Simone Ciotti chiederanno nuovamente l’annullamento dell’ordinanza di
custodia cautelare.
ANTIMAFIAduemila
Fonte: http://www.gliitaliani.it/2010/09/p3-nei-verbali-di-martino-il-ruolo-di-letta-e-berlusconi/
Berlusconi, l’apprendista stregone
30 settembre 2010 - Politica

di Marco Damilano

mago merlino
I piani del Cavaliere si sono incartati di fronte al moltiplicarsi dei partitini personali. E così il
premier si trova costretto a cercare visibilità
Quando alle cinque del pomeriggio la deputata dei liberaldemocratici Daniela
Melchiorre si è alzata per attaccare il suo discorso, «una via di mezzo tra il libro dei
sogni e la campagna elettorale», Silvio Berlusconi si è finalmente scosso dal suo
torpore, ha congiunto le mani a pera e ha alzato le mani: «Ma cosa dice? Cosa sta
dicendo?». Ma più che di attacco era un gesto di difesa. L’ennesimo, in una giornata
malinconica, quella del suo settantaquattresimo compleanno, di un Cavaliere
irriconoscibile.

Per due mesi si è attesa la resa dei conti parlamentare tra Berlusconi e Fini. Anticipata da roventi
campagne stampa, insulti via etere, dossier, killer, spie improbabiili sguinzagliate nei mar delle
Antille, morti e feriti sul campo. Il 29 settembre, data bizzarra dopo un agosto così agitato, scelta
apposta per perdere un altro mese prima del chiarimento, serviva in realtà a Berlusconi per
rafforzarsi sui due fronti. Quello esterno, tenuto vivo da Feltri e Belpietro, con l’inchiesta sulla
famiglia Tulliani e sulla casa di Montecarlo, alla ricerca dell’ultima carta, che avrebbe dovuto
inchiodare il presidente della Camera e costringerlo alle dimissioni. E quello per così dire interno,
con la caccia al deputato transfuga per raggiungere la fatidica quota 316, cioè la possibilità per la
coppia Berlusconi-Bossi di fare maggioranza senza l’odiato Fini, da sospingere all’opposizione per
appiccicargli addosso l’etichetta di traditore.
Arrivati all’appuntamento decisivo i duellanti sono estenuati, sfiniti. Fini è sotto scopa perché il
manganellamento mediatico è riuscito nello scopo di fargli implorare una tregua. Berlusconi
vorrebbe annientarlo ma è costretto a chiedergli il voto per proseguire, perché l’operazione
voltagabbana è fallita, i 316 non ci sono e senza i finiani la maggioranza non tiene. Il risultato è che
il giorno della chiarezza diventa il momento della massima ipocrisia. E l’Italia ripiomba
nell’atmosfera ovattata della Prima Repubblica, «il clima delle recite in famiglia», come le
chiamava all’epoca Enzo Forcella, che è sempre meglio del teatrino della politica. Fini imbalsamato
nel suo ruolo di presidente della Camera, stile Brunetto Bucciarelli Ducci, completo carta da
zucchero, ogni tanto scampanella pigramente, «ha chiesto di parlare l’onorevole Lo Monte, ne ha
facoltà…». E Berlusconi, beh questo Berlusconi rieducato dalla clinica del dottor Gianni Letta
medico della mutua a esaltare Il Parlamento che deve essere «libero e forte», «il bipolarismo maturo
in cui deve esserci riconoscimento reciproco tra gli avversari», «tra Parlamento e governo non può
esserci contrapposizione: questa è la mia profonda convinzione», questo Berlusconi ossequioso e
verboso supera in fattezze l’Andreotti del tira a campare, si proietta direttamente nel passato felice
degli italiani, quando in tv c’erano Canzonissima e Carosello e a Roma governava Mariano Rumor.
Sì, più andava avanti il Cavaliere, con il suo vuoto bla bla doroteo, attento a non scontentare
nessuno e a non dire nulla, smussare, sminuire, troncare, sopire, lo scontro bestiale con Fini
derubricato a «qualche divergenza», la «stabilità» come valore assoluto, la Salerno Reggio Calabria
da completare insieme alla statale che passa da Battipaglia, l’operazione Strade sicure, il ponte sullo
stretto che «entro dicembre sarà pronto il progetto»…, più procedeva con il suo brodino
rassicurante e la sua pioggia di banalità più il Cavaliere sceso in politica per rivoluzionare l’Italia
assomigliava al pio Mariano, doroteo di Vicenza cinque volte presidente del Consiglio, capace di
nascondere dietro una soffice nuvola di borotalco cattiverie indicibili. Fino a vantare che «la mia
indole personale è sempre aperta alla ricerca di soluzioni condivise», ma certo, signor Berlusconi,
basta chiedere a Montanelli o allo stesso Fini di quale pasta sia fatta la sua indole.
Eppure una differenza c’è: nella prima Repubblica la recita in famiglia sarebbe terminata qui. E
magari una bella crisi di governo stagionale avrebbe fotografato i nuovi equlibri nella maggioranza.
Nella Seconda Repubblica che tiene insieme il presidenzialismo di fatto senza contrappesi, i partiti
personali, le monarchie assolute su modello del sire di Arcore, e il trasformismo, le transumanze di
qua e di là, la compravendita dei parlamentari, l’hotel Gallia della politica, ti dò un Tanoni in
cambio di un Catone, Souad Sbai in comproprietà e chissà quant’è costato il cartellino dei siciliani
dell’Udc che mollano Casini, tutto questo non regge. E i piani del Cavaliere si incartano sul più
bello. Quota 316 si allontana, crollano le azioni degli offerenti che si ritrovano senza adeguate
contropartite. Berlusconi si ritrova impaludato nel giorno del suo compleanno (e se fosse un
vescovo di Santa Romana Chiesa, non esattamente un club giovanilistico, sarebbe l’ultimo anno di
servizio prima della pensione) nella più imprevista e micidiale delle trappole: la ricerca di visibilità.
La vanità.
Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2135301
Lewis e Sakineh: se i paesi liberali uccidono
30 settembre 2010 - Diritti Umani

di Federco Orlando

Molti erano stati facili profeti: se gli Stati Uniti,


“baluardo dei diritti civili” , uccideranno la loro cittadina Teresa Lewis, malata mentale, per duplice
omicidio confessato e provato, gli ayatollah del fanatismo iraniano, che non predicano diritti civili
ma punizioni in nome di Dio a chi fa peccato, avrebbero avuto sul piatto d’oro l’invito ad uccidere
Sakineh. Perfino i cow boy americani, fatti della stessa scorza dei cammellieri iraniani, potevano
capirlo. Ma hanno preferito immolare la loro vittima al loro dio, il consenso del popolaccio. “Al
Palazzo di Vetro – scrive Renzo Guolo su la Repubblica – mettendo il dito nella piaga della falsa
coscienza occidentale, Ahmadinejad ha chiesto come sia accettabile una condanna a morte quando
avviene negli Usa e non quando viene eseguita in Iran”. Per la prima e unica volta in vita nostra,
questa logica non ci sembra repellente. Invece ci va di traverso il ragionamento di Lucia Annunziata
sulla Stampa, che coglie, a Teheran, un piccolo progresso nel passaggio dall’età della pietra all’età
della corda, e rammenta che il processo americano è garantista e quello iraniano è teologico, anche
se alla fine “una pena di morte è una pena di morte”. Insomma, la crociata di Cesare Beccaria per
l’abolizione della tortura e della pena di morte, non ha vinto del tutto e non è finita, nemmeno nel
mondo liberale. E francamente non ci basta, in queste ore di ansia per la donna iraniana, che dà un
volto a tante migliaia di anonimi che ogni anno perdono la vita per mano del boia, la convinzione
del senatore Pietro Marcenaro, sull’Unità, che l’intervento di Frattini a favore di Sakinneh sarebbe
stato più “forte” s’egli avesse potuto svolgerlo anche in favore di Teresa Lewis. Ma a parer nostro il
problema è un altro: il problema è che, la battaglia contro la pena di morte nel mondo, contro le
mutilazioni genitali femminili, contro la fame, non rientra nei programmi quotidiani dei partiti
occidentali, con l’unica solitaria e pluridecennale eccezione dei nostri Radicali: bisogna
sintonizzarsi su Radio Radicale per conoscere i crimini contro i detenuti nelle carceri italiane
(evidentemente le procure della repubblica non l’ascoltano), o per sapere delle azioni di Emma
Bonino in Africa e altre aree “escissioniste”, o i richiami etico-politici di Marco Pannella, o il
continuo documentarsi e mobilitarsi di ”Nessuno tocchi Caino”. Se ci fossero partiti liberali in
Italia, i radicali non sarebbero soli; e le ipocrisie di un momento, facilitate dal bel volto di una
condannata a morte, non sarebbero dei semplici bidé della coscienza.
Fonte: http://www.articolo21.org/1831/notizia/lewis-e-sakineh-se-i-paesi-liberali-uccidono.html
Dopo Bossi, Ciarrapico: questa è la destra
30 settembre 2010 - Politica
Il becero senatore Giuseppe Ciarrapico che in aula crede di
insolentire Fini chiedendogli se si è già procurato la kippà, cioè il copricapo religioso ebraico, è il
simbolo della vergogna del centrodestra italiano che contiene al suo interno gli umori più beceri e
reazionari, fino all’antisemitismo. Berlusconi ha grattato il fondo del barile. Solo pochi giorni fa, a
Taormina, è andato a baciare la pantofola della Destra di Francesco Storace, promettendogli posti di
governo. Questa gentaglia è davvero convinta che dietro al dissenso di Fini si muova chissà quale
potentato internazionale, e alimenta gli stereotipi peggiori da cui la loro storia è macchiata. Nel
mentre Bossi chiede scusa ai romani per avergli dato dei “porci” -ma lo fa solo opportunisticamente
per salvare il posto da ministro- esplode una nuova contraddizione di questa maggioranza che
raduna nelle sue fila (non solo, ma anche) malavitosi e topi di fogna.
P.S.: Prevengo i furbacchioni che volessero ricordare l’amicizia fra Ciarrapico e Carlo Caracciolo
come se essa costituisse una prova di correità. Che il defunto editore di “Repubblica” frequentasse
anche cattive compagnie non può essere certo addotto a attenuante della loro bassezza.
Fonte: http://www.gadlerner.it/2010/09/30/dopo-bossi-ciarrapico-questa-e-la-destra.html
Puglia: ecomafie a tutto spiano
1 ottobre 2010 - Ambiente
da TerraNostra di direttore (online)

di Gianni Lannes

In soldoni facili rende più del pur fiorente traffico di


droga ed assai raramente si corrono rischi penali comunque lievi, anche in flagranza di reato, se non
proprio insignificanti. Nella terra di Peppino Di Vittorio, il degrado ambientale – sovente tollerato
dalle istituzioni – non risparmia neppure i luoghi della memoria cari al mitico uomo politico. Le
carte processuali parlano chiaro, basta esaminarle. Il campionario ufficialmente si apre nel 1987,
quando la Delta Sogepi di Fabio Rella trasferì da Bolzano in Capitanata – a bordo di vagoni
ferroviari delle compiacenti Ferrovie dello Stato – migliaia di tonnellate di scorie di magnesio. Da
allora l’assalto al territorio appulo è cresciuto vertiginosamente (anche la provincia di Lecce non è
stata risparmiata). Da Cerignola ad Apricena è un pullulare di discariche d’ogni genere, occulte o
alla luce del sole. Strano. Secondo l’attuale vulgata del governatore Nichi Vendola “in Puglia non
ha attecchito l’ecomafia”. Eppure è sufficiente grattare il suolo con un cucchiaino ma non
necessariamente scavare in profondità nel sottosuolo per smontare l’abracadabra del parolaio
terlizzese e scoprire l’agghiacciante realtà. Tra i numerosi faccendieri che grazie alle connivenze
istituzionali lucrano sul benessere della collettività, ecco concretamente chi pone a rischio almeno
da un buon decennio i cittadini della provincia di Foggia occultando nelle viscere della terra –
utilizzando ad aziende locali compiacenti – rifiuti industriali pericolosi. I nuovi campioni
dell’ambiente che dal nord Italia seminano scorie micidiali nel Mezzogiorno d’Italia rispondono al
nome di Delca Spa (sede a Vicopisano in provincia di Pisa) e Nuova Esa srl (sede a Marcon in
provincia di Venezia). Grazie ad una semplice azione di intelligence, il giornale ITALIA TERRA
NOSTRA pubblica ora una serie di documenti scottanti (in appendice) che attestano un luogo di
sepoltura, ovvero contrada Ponte Rotto in agro di Ordona, nei pressi del fiume Carapelle. Un
esempio tra gli innumerevoli documentati e probanti. La nota del formulario di identificazione
rifiuto serie e numero xrif 014188/01 emessa dalla società Nuova Esa, datata 2 luglio 2002, alla
voce “annotazioni” attesta: “vetro, plastica e legno contenenti sostanze pericolose o da esse
contaminati”. In questo specifico caso il vettore è “Garofalo trasporti e smaltimento rifiuti” con
sede ad Acilia in provincia di Roma. L’automezzo (targa BM 162 GS; e rimorchio: RM 89956) che
ha scaricato illegalmente 22.200 chilogrammi di spazzatura oltremodo “speciale” porta il nome di
Luca Leone. Impareggiabili “servizi ecologici” sono stati resi anche dalla toscana Delca. Infatti, si
legge nella bolla xrif. 4400/01 emessa il 3 ottobre 2001, sempre ad Ordona, presso l’azienda
Petruzzi Francesco in contrada Ponterotto. Di che si tratta? Niente di che, una delle solite tranche di
merda industriale del Settentrione vomitata nel Sud: soltanto 19.500 chilogrammi di rifiuti
pericolosi sotterrati in gran fretta. Ora a furia di scavare scoviamo la società Recyling Italia srl e la
Fin 4 srl con sede a Foggia in corso Roma 62. Questa ditta, però, oggi ha chiuso i battenti, ma ha
mietuto affari anche con il vicentino Giuseppe De Munari (vedi Giardinetto e poi muori). Un’altra
spa coinvolta in questo affare illecito è la Gio.Eco di Bari. A distanza di anni che effetto hanno
prodotto quei rifiuti sull’ecosistema naturale e sulla salute dei residenti?
Un passo indietro nella memoria impregnata di cronaca nera. Il 18 gennaio 2008 nell’aula del
Tribunale di Mestre il pubblico ministero Giorgio Gava ha parlato per quasi sei ore. Di cosa? «Dei
trucchi e dei sistemi che i trafficanti di rifiuti hanno usato per aggirare le norme ambientali,
inquinando mezza Italia con amianto, alluminio, idrocarburi, piombo, mercurio, cloruri, nitrati ed
altri veleni provenienti dalle produzioni industriali soprattutto del Veneto e della Lombardia. Sono
finiti a Bacoli, a Giuliano, a Qualiano e ad Acerra, in provincia di Napoli, ad Aversa, in provincia di
Caserta, tutte zone ora in piena emergenza rifiuti, ma sono stati scaricati anche nel Veneto (Paese,
Roncade, San Martino Buonalbergo, Malcontenta, Pernumia), in Puglia (ad Alviano e Modugno) e
in Sardegna». Si tratta di ceneri, di fanghi, di reflui di numerose e importanti aziende: il Consorzio
Dese Sile, l’Azienda Multiservizi Isontina, la Breda Sistemi Industriali, la Recordati spa, la
Montefibre, il Comune di Campagna Lupia, l’Ausimont, l’Azienda ospedaliera di Padova, la Pozzo
spa, il Consorzio Medio Chiampo, la Centrale Enel di Fusina, l’Italmec Chemical. Secondo gli
investigatori – gli uomini del Corpo Forestale dello Stato e i carabinieri del Nucleo operativo
ecologico – «la «Nuove Esa» in uno solo degli anni di attività preso a campione avrebbe piazzato
illecitamente venti milioni di chili di rifiuti pericolosi (quanto seimila camion allineati), evadendo in
un mese 300 mila euro di ecotassa». Ergo: «L’illegalità non sarebbe stata dettata «dall’occasionalità
o dall’incompetenza – ha sottolineato il pm – ma da una spregiudicatezza criminale indirizzata a
massimizzare i profitti». Il magistrato ha fatto alcuni esempi. Alla «Finadria di Paese sarebbero
finiti, in cinque mesi, 20 milioni di chili di rifiuti che non potevano essere stoccati in quel luogo,
che poteva ospitare solo terre e rocce provenienti da scavi. Invece ci sarebbero finiti i rifiuti del
Consorzio Dese Sile con tanta fibra di amianto e quelli della Cooperativa ceramica di Imola con
idrocarburi e metalli pesanti e nocivi. Il Consorzio aveva pagato 220 lire al chilo alla «Nuova Esa»
per lo smaltimento, mentre i modenesi avevano sborsato più di 300 lire. La società di Marcon, al
titolare della discarica trevigiana, aveva pagato per i primi 35 lire al chilo, per i secondi 7 lire. «La
Nuova Esa ha raccolto profitti anche fino al 5000 per cento» ha spiegato Gava. A Bacoli e a
Giuliano, invece, sarebbero finiti polveri e schiumature di alluminio e quelli della «Nuova Esa»
neppure avevano avvertito che si trattava di materiale da tenere all’asciutto perchè pioggia o
semplicemente l’umidità avrebbe provocato non solo l’emissione di ammoniaca ma anche il rischio
di esplosioni. Loro, però, non avvisavano mai perchè i rifiuti tossici li miscelavano con terra,
segatura e altro e li facevano figurare come fossero roccia e terra proveniente da scavi. Per anni
nessuno si sarebbe accorto di nulla a causa «della carenza di controlli da parte di pubblici ufficiali
distratti o compiacenti» ha sostenuto il pubblico ministero, eppure non sarebbe stato difficile perchè
le denunce di chi ci abitava vicino sono molte e alla «Nuova Esa» neppure avevano gli impianti per
trattare i rifiuti, come invece scrivevano di fare sui certificati fasulli. Provate a leggere attentamente
il testo di audizioni della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti (anno 2005) in calce e la
sentenza della Corte di Cassazione (terza sezione penale) numero 4502 del 2006.
Altri attori. Chi sono i Del Carlo (Domenico e Felicino) titolari della Delca Spa? Illuminante a tale
proposito uno stralcio del verbale di interrogatorio di un collaboratore di giustizia, a proposito delle
discariche dei casalesi (quelli che adorano Saviano alla follia). Dunque:
«Ditta POOL ECOLOGIA s.r.l. di CARDELLA Francesco con sede in Lucca di cui conoscevo
personalmente lo stesso amministratore Francesco CARDELLA ed alcuni suoi collaboratori tra cui
CATERINO Luigi di Torre del Lago e di origini si S.Cipriano d’Aversa. ….omissis … CATERINO
Paolo mi fece conoscere il cugino, poiché in quel periodo io avevo stipulato già un contratto con
un’altra ditta della Toscana,DELCA di DEL CARLO Candidino di Capannoni (LU) che mi dava
una somma mensile di quattro milioni di vecchie lire, soltanto per avere la disponibilità della
discarica,e conferire i rifiuti anche senza utilizzarla. Tale situazione durò per 5-mesi circa ,
successivamente iniziò a scaricare Pulper di cartiera(un rifiuto speciale). Visto ciò, che, cioè,
avevo dato disponibilità ad una ditta di fuori regione di scaricare rifiuti tossici e speciali, venne da
me il CATERINO Paolo, in compagnia del Luigi, chiedendomi di dare una mano al Luigi stesso e,
per il suo tramite, alla ditta che rappresentava, la POOL ECOLOGIA, al fine di farle scaricare gli
stessi rifiuti…OMISSIS…. Con tale ditta ho lavorato dal 1988 al 1992. La pool ecologia ha
scaricato nell’invaso da me individuato come 1 nel corso del sopralluogo che ho effettuato con la
p.g. in località schiavi della novambiente di Giugliano e nel 2 sito a Masseria del Pozzo di
Giugliano e nel sito nr. 3 di Giuliani Raffaele sempre a Giugliano Ditta S.C.M. di MARZIO
Venturino, con sede a Montecatini Terme (PT…OMISSIS… Se non sbaglio MARRANDINO
Francesco era parente del MARINO. Il Marrandino a metà degli anni ’90, mi chiamò chiedendomi
di fornire un appoggio per scaricare presso la mia discarica ad alcuni amici suoi . Si riprende il
verbale dopo una breve sospensione alle ore ore 16.00 Le persone che dovevano scaricare erano il
geometra SAURO, impiegato al comune toscano di Lamporecchio, Marzio VENTURINO – che
gestiva un centro di distribuzione di gasolio nello stesso comune di Lamporecchio -;l’accordo che
fu fatto era che io dovevo dare una percentuale fissa sui guadagni dello sversamento a favore di
MARINO Luigi e di MARRANDINO Francesco, pari a lire 10 per ogni chilo di prodotto sversato
dalla S.C.M. società di SAURO e VENTURINO. In particolare io mi facevo dare dalla scm una
somma maggiorata rispetto alla somma che richiedevo ordinariamente e la maggiorazione parti al
10 % dovevo versarla a Marrandino e a Marino Luigi perché gli stessi mi imposero tale tangente
per consentirmi di far scaricare i rifiuti alla scm che mi era stata presentata dagli stessi . Questo
accordo andò a buon fine, tanto che , al fine di fare loro acquisire alcuni macchinari, presentai al
SAURO il responsabile della ditta COLUCCI APPALTI spa di S.Giorgio a Cremano e così
iniziammo a fare i trasporti.Abbiamo lavorato insieme per qualche anno dal 1988 al 1992.Ricordo
che i germani Pietro e Franco COLUCCI unitamente al loro cugino Francesco COLUCCI della
COGEST utilizzavano la cocaina, spesso l’abbiamo tirata insieme nei loro uffici.Alle ore 16.15. si
sospende il verbale e si riapre alle ore 16.25 Ditta individuale ZAVAGLI OLIVIERO con sede in
Montecatini Terme (PT) della quale conoscevo il responsabile con cui ho partecipato anche ad
alcuni spettacoli televisivi trasmessi da Montecatini Terme, unitamente all’allora vice Sindaco
della stessa città amico dello ZAVAGLI che mi hanno dato i biglietti per alcuni trasmissioni . Non
ricordo chi mi abbia presentato tale ditta con la quale ho lavorato per molti anni dal 1988 al
1992.La Zavagli ha scaricato negli invasi nr.1. 2 3 da me indicati alla p.g. nel corso del
sopralluogo effettuato precedentemente …OMISSIS…Ditta F.lli VANNI, con sede a Viareggio
(LU),….La ditta ha scaricato negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del
sopralluogo effettuato precedentemente Ditta DEL . CA. S.p.a. dei F.lli DEL CARLO con sede a
Porcari o Capannoli (LU); La ditta è stata la prima azienda che ha scaricato negli anni 1988-
1992negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato
precedentemente. Ditta IDECO s.r.l. con sede in Pisa che ha scaricato negli anni 1988-1990negli
invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato precedentemente
– Ditta TRA. SFER. MAR. s.r.l di Ferdinando CANNAVALE di LA SPEZIA che ha scaricato negli
anni 1988-1992negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo
effettuato precedentemente. Ditta RECUPERI CARNEVALE s.r.l. di Biagio CARNEVALE con sede
a Velletri (ROMA) che ha scaricato negli anni 1988-1992negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3
alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato precedentemente.A volte gli sono stati da me fatturate
e timbrate delle bolle di materiale in realtà mai scaricato previo versamento di corrispettivo Ditta
ECOLMACI s.r.l. di MARINOZZI con sede a Cisterna di Latina (LT) che ha scaricato negli anni
1988-1992 negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato
precedentemente .A volte gli sono stati da me fatturate e timbrate delle bolle di materiale in realtà
mai scaricato dalla ditta predetta previo versamento di corrispettivo . Ditta NOCERA Antonio di
Nettuno ha scaricato negli anni 1988-1992:negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel
corso del sopralluogo effettuato precedentemente .Ricordo che anche dopo il 1992 gli sono stati da
me fatturate e timbrate delle bolle di materiale in realtà mai scaricato dalla ditta predetta previo
versamento di corrispettivo .Dopo il 1992 hanno utilizzato timbri falsi miei ed io li ho denunziati
Ditta CARTOFER dei f.lli DEL PRETE con sede ad Arzano (NA): ha scaricato negli anni 1998-
2003negli invasi da me indicati come nr.1. alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato
precedentemente. Ditta ECOLOGIA 89 s.r.l. di CERCI Gaetano con sede a Casal di Principe (CE);
ha scaricato negli anni 1988-1992negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del
sopralluogo effettuato precedentemente; Ricordo che anche dopo il 1991 gli sono stati da me
fatturate e timbrate delle bolle di materiale in realtà mai scaricato dalla ditta predetta previo
versamento di corrispettivo, ma in realtà i rifiuti venivano conferiti nella discarica AL.MA. gestita
da Luca Avorio in Qualiano (NA), quest’ultimo non poteva firmare per problemi amministrativa
che gli avevano sospeso l’autorizzazione; Ditta individuale DI PUORTO Francesco con sede a
Torre del Lago (LU) ha scaricato negli anni 1988-1992 negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3
alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato precedentemente; Ditta 3F. ECOLOGIA s.r.l. dei f.lli
FORNACIARI con sede a Porcari (LU), ha scaricato negli anni 1990-1991 rifiuti a seguito di circa
10 viaggi negli invasi da me indicati come nr.2 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato
precedentemente; Ditta di cui CARDIELLO Luigi è titolare insieme alla sua convivente di
nazionalità italiana di cui non ricordo il con sedi in Sant’Arsenio (SA) mentre entrambi abitavano
in Toscana;la ditta ha scaricato negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del
sopralluogo effettuato precedentemente negli anni 1988-1992 nonchè dal 1998 al 2003 nell’invaso
dei miei fratello Nicola ed Anotnio e Cesario;Ditta ECOLOGIA BRUSCINO s.r.l. dei f.lli
BRUSCINO con sede a S.Vitaliano (NA) ha scaricato negli anni 1988-1992 rifiuti liquidi negli
invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato ; Ditta
CRISTALL s.r.l. di Raffaele VEROLLA con sede a Lusciano che ha scaricato negli anni 1988-1992
negli invasi da me indicati come nr.1. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato; Ditta
S.I.S.E.R. s.r.l. di Generoso ROMA con sede a Villa Literno (CE) che ha scaricato negli anni 1988-
1992 negli invasi da me indicati come nr. 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo effettuato
precedentemente,nell’invaso 1 nell’anno 2002 mentre nel terreno dei miei fratelli Nicola,Antonio e
Cesario ha scaricato dal 1998 al 2003 Ditta R.F.G. s.r.l. di Elio ROMA con sede in Trentola
Dugenta ) che ha scaricato negli anni 1988-1992negli invasi da me indicati come nr. 1 2 .3 alla
p.g. nel corso del sopralluogo effettuato precedentemente,mentre nel terreno dei miei fratelli
Nicola,Antonio e Cesario ha scaricato negli anni 1998,2003; Voglio precisare che ci sono state due
fasi di smaltimento di rifiuti presso le mie discariche ed ovvero dal 1988-1992 e poi dal 1997 al
2003- Ditta AUTOESPURGHI CACCAVALE s.r.l. di Antonio CACCAVALE da Napoli, con sede in
Afragola nei pressi dell’aeroporto (NA) che ha scaricato negli anni 1988-1992rifiuti liquidi negli
invasi da me indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato,; Ditta
F.lli TORTORA gestita da due fratelli ,se ricordo bene originari del Salernitano con sede in
Campania, non ricordo di preciso l’intestazione delle due società e la località di ubicazione delle
stesse che ha scaricato negli anni 1988-1992 rifiuti liquidi e solidi negli invasi da me indicati come
nr. 1 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato Ditta individuale BORTONE
Domenico con sede in Cesa (CE); che ha scaricato negli anni 1988-1992,materiali inerti negli
invasi da me indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato ,ha
scaricato anche nel 1998 nell’ invaso 1 mentre nel terreno dei miei fratelli Nicola,Antonio e
Cesario ha scaricato negli anni 1998,2003 Ditta individuale MINALE Aniello, con sede in Aversa
(CE) che ha scaricato negli anni 1988-1992,materiali inerti negli invasi da me indicati come nr. 1
2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato; Ditta VILTEX s.r.l. di Ercolano (NA),e di
Pistoia di tale Villani non ricordo chi ne era responsabile; che ha scaricato negli anni 1988-
1992,balle di stracci negli invasi da me indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo
da me effettuato Ditta COLUCCI APPALTI s.p.a. con sede a S. Giorgio a Cremano (NA) che ha
scaricato negli anni 1988-1992,rifiuti speciali ed urbani negli invasi da me indicati come nr. 1 2 .3
alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato;…OMISSIS… Ditta ECOGEST di COLUCCI
Pietro con sede a S. Giuseppe Vesuviano (NA) che ha scaricato negli anni 1988-1992, negli invasi
da me indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato. Ditta SANTA
MARIA non ne ricordo bene il nome con sede nella provincia di Napoli zona vesuviana ma non
ricordo di preciso la località che ha scaricato negli anni 1988-1992,rifiuti negli invasi da me
indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g. nel corso del sopralluogo da me effettuato;in realtà si tratta di
conferimenti fittizi perché io mi sono limitato a mettere un timbro che attestava falsamente lo
smaltimento. Ditta Langella Mario nei pressi di Casalnuovo dopo Caloria in particolare che ha
scaricato negli anni 1988-1992,rifiuti speciali negli invasi da me indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g.
nel corso del sopralluogo da me effettuato. Ditta di tale PERNA Paolino con sede a Marigliano
(NA) che ha scaricato negli anni 1988-1992, negli invasi da me indicati come nr. 1 2 .3 alla p.g. nel
corso del sopralluogo da me effettuato. Voglio ancora precisare che a seguito della demolizione
delle Torri di Castelvoltruno che fu affidato ai fratelli Sergio e Michele Orsi ho smaltito nel 2002
-2003 i rifiuti conseguenti in parte nelle cave di sabbia e nelle mie discariche che già erano chiuse
Vorrei indicare alcuni particolari, in merito alla qualità e tipo di rifiuti trasportati dalle sopra
indicate ditte e società. In particolare le ditte che qui di seguito indico hanno conferito negli anni
dal 1988 al 1992 nei siti da me prima indicati rifiuti solidi urbani,scarti delle cartiere tecnicamente
denominati PULPER DI CARTIERA , e rifiuti speciali assimilabili agli urbani e rifiuti speciali
nocivi classificati secondo la Legge 915/82: POOL ECOLOGIA s.r.l. di CARDELLA Francesco
con sede in Lucca Ditta S.C.M. di MARZIO Venturino, con sede a Montecatini Terme (PT); Ditta
individuale ZAVAGLI OLIVIERO con sede in Montecatini Terme (PT); Ditta F.lli VANNI, con sede
a Viareggio (LU); Ditta DEL . CA. S.p.a. dei F.lli DEL CARLO a Capannori Ditta IDECO s.r.l.
con sede in Pisa; Ditta TRA. SFER. MAR. s.r.l di Ferdinando CANNAVALE di LA SPEZIA; Ditta
ECOLOGIA 89 s.r.l. di CERCI Gaetano con sede a Casal di Principe (CE); Ditta individuale DI
PUORTO Francesco con sede a Torre del Lago (LU); Ditta 3F. ECOLOGIA s.r.l. dei f.lli
FORNACIARI con sede a Porcari (LU); Ditta COLUCCI APPALTI s.p.a. con sede a S.Giorgio a
Cremano (NA) ;Ditta ECOGEST s.r.l. di COLUCCI Pietro con sede a S.Giuseppe Vesuviano
(NA);Le due ditte che indico adesso ovvero Ditta NOCERA Antonio di Nettuno;cioè quella di
NOCERA ha conferito esclusivamente rifiuti speciali e ospedalieri provenienti da altre regioni in
particolare dal Lazio , mentre la Ditta SANTA MARIA conferiva FITTIZAMENTE come vi ho detto
prima rifiuti provenienti dalla regione Campania.….OMISSIS… Le cinque ditte che indico,
trasportavano rifiuti speciali liquidi tossici e nocivi provenienti dalla produzione civile ed
industriale,in Campania. Ricordo che nel periodo estivo i percolati o il liquido caseario senza
alcun trattamento venivano utilizzati per innaffiare i piazzali delle discariche aridi e secchi; i
fanghi , il serio di mozzarella ed il percolato altamente tossico e nocivo venivano utilizzati anche
senza alcun trattamento per l’irrigazione e la concimazione dei campi di coltivazione di ortaggi e
frutta che ho indicato alla p.g. nel corso dei sopralluoghi. In particolare la ditta ECOLOGIA
BRUSCINO, trasportava i fanghi tossici e cenere provenienti dalle centrali ENEL, si trattava di
fanghi umidi palabili.La ditta Cristal di Verolla Isidoro trasportava percolati e fanghi liquidi,
prodotti caseari,e scaricava nell’invaso da me indicato alla p.g con il nr.1.,2,3 ,mentre la ditta del
CACCAVALE trasportava e scaricava i rifiuti tossici e fanghi palabili delle ditte MERIDIONAL
BULLONI di Torre del Greco o Annunziata e della CYBA-GAY azienda farmaceutica con sede
all’uscita dell’autostrada A3 di Castellammare di Stabia(NA).Il responsabile della Ciba Gaj era
ben a conoscenza che i rifiuti erano smaltiti illegalmente;ricordo infatti che talvolta sono venuti i
responsabili in più occasioni per verificare lo smaltimento in discarica –.La Ciba Gay attestava
che il materiale conferito era idoneo alla produzione dei legumi:posso dire che questo non era vero
perché sulla terra su cui veniva smaltito il rifiuto non ho visto mai nascere mai alcuna frutta o
ortaggio .I rifiuti liquidi erano talmente inquinanti che quando venivano sversati producevano la
morte immediata di tutti i ratti come ho potuto constatare di persona più volte dall’anno 1988 al
1992 negli invasi da me individuati precedentemente con i n° 1-2-3. Ricordo altresì che i rifiuti
liquidi della MERIDIONAL BULLONI, quando giungevano con cisterne speciali in acciaio inox
anticorrosive, gli stessi friggevano e scioglievano per esempio rifiuti in plastica.Ricordo fra le
varie ditte la ditta CSMI dell’ing. GALLO con sede a Napoli, conferiva agli invasi 1.2.3. negli anni
1986-1992 i fanghi provenienti dagli impianti di depurazione dei regi lagni di Villa Literno. Il
PERNA Paolino con sede a Marigliano (NA) non ricordo il tipo di società, trasportava ceneri
spente dell’ENEL di Brindisi sede di centrale termoelettrica. La Ditta F.lli TORTORA ,trasportava
e scaricava rifiuti liquidi speciali soprattutto nel periodo estivo anche nei fossi laterali ai margini
delle strade interpoderali nelle mie discariche La ditta Langella scaricava rifiuti speciali e d
ospedalieri Le due sottonotate ditte, conferivano rifiuti liquidi e solidi, provenienti da industrie,
aziende ospedaliere e insediamenti civili ed anche da aziende di oli esausti dalal zoan di
Velletri .Molte volte si trattava di conferimenti fittizi.Si tratta della Ditta ECOLMACI s.r.l. di
MARINOZZI con sede a Cisterna di Latina (LT);Ditta RECUPERI CARNEVALE s.r.l. di Biagio
CARNEVALE con sede a Velletri (ROMA); Le due sottonotate ditte conferivano rifiuti inerti
proventi da demolizioni di insediamenti civili e industriali senza alcuna autorizzazione al
trasporto.Ditta individuale BORTONE Domenico con sede in Cesa (CE)che ha scaricato nel
periodio 1998-2003 nell’invaso 1 e nel terreno dei miei fratelli Nicola,Antonio e Cesario oltre che
nell’anno 1998- 2002 nell’invaso da me indicato come 1,2,3, Ditta individuale MINALE Aniello,
con sede in Aversa (CE); La ditta Ditta VILTEX s.r.l. dei fratelli Villano di Ercolano (NA),
trasportava soltanto tessuti e balle di indumenti oggetto di scarto di lavorazione, provenienti da
Ercolano e da fuori regione,in particolare da Pistoia, sprovvisti di qualsiasi permesso. Le due
sottonotate ditte trasportavano fanghi non trattati di concerie e industrie varie provenienti da fuori
regione ;hanno scaricato nel periodo 1998-2003 nell’invaso 1 e nel terreno dei miei fratelli
Nicola,Antonio e Cesario oltre che nell’anno 1998- 2002 nell’invaso da me indicato come 1,2,3
alla p.g. in sede di sopraluogo Ditta S.I.S.E.R. s.r.l. di Generoso ROMA con sede a Villa Literno
(CE); Ditta R.F.G. s.r.l. di Elio ROMA con sede in Trentola Ducenta. La Ditta TRA. SFER. MAR.
s.r.l di Ferdinando CANNAVALE di LA SPEZIA è una società di intermediazione commerciale e si
interessava di trovare per conto di smaltire i rifiuti di qualsiasi genere dagli insediamenti civili, a
quelli industriali e ospedalieri,pulper di carteria La Ditta CARTOFER dei f.lli DEL PRETE con
sede ad Arzano (NA), rifiuti speciali tossici e civili provenienti dai propri cicli di lavorazione
relativa alla rottamazione dei veicoli ,batterie ed acidi esausti senza alcun tipo di fatturazione ed
autorizzazione al trasporto ed allo smaltimento nell’invaso da me indicato come nr. 1 alla P.g. nel
periodo 1998-2003 . Mi riservo di indicare altre ditte o indicare meglio i periodi in cui sono state
scaricate i rifiuti.P.Q.M.Letto l’art. 253 c.p.p.Dispone Il sequestro probatorio dei seguenti
immobili e siti: ubicato in località Schiavi in S. Maria a Cubito di Giugliano adibito a discarica già
gestita dalla società Novambiente s.r.l. dei fratelli Vassallo (di cui al verbale di sopralluogo della
Squadra Mobile di Caserta del 08.04.2008, indicato come Sito nr. 1) ubicato in località
Schiavi/Masseria del Pozzo nel Comune di Giugliano riferibile alla gestione di Giuliani Raffaele
(cd. “cava Giuliani”) (di cui al verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta del
08.04.2008 indicato come Sito nr. 3); ubicato in località S. Giuseppiello (Comune di Giugliano)
(costituito da un terreno apparentemente agricolo su cui insistono alberi di pioppo ed erbacee) di
proprietà di Vassallo Cesareo (di cui al verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta
del 08.04.2008 indicato come Sito nr. 5); ubicato in località S. Giuseppiello (Comune di Giugliano)
(posto a circa 50 metri dal sito prima indicato) costituito da un terreno apparentemente agricolo su
cui insistono alberi di frutta tra cui ciliegi di proprietà di Vassallo Renato e Nicola (di cui al
verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta del 08.04.2008 indicato come Sito nr. 6);
ubicato sulla strada privata Trentola/Ischitella nel Comune di Giugliano in Campania, di fronte
all’azienda “Sarachiello Legnami” costituito da un terreno apparentemente agricolo (di cui al
verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta del 08.04.2008 indicato come Sito nr. 7);
ubicato in località Torre di Pacifico del Comune di Lusciano, adibito a discarica abusiva, (di cui al
verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta del 09.05.2008 indicato come Sito nr. 1);
ubicato in località Torre di Pacifico del Comune di Lusciano adibito a discarica abusiva (di cui al
verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta del 09.05.2008 indicato come Sito nr. 2);
ubicato in località Schiavi in S. Maria a Cubito di Giugliano al confine con la discarica già gestita
dalla società Novambiente s.r.l. dei fratelli Vassallo, adibito ad uso discarica gestita attualmente
dal Consorzio “Na 1″ (di cui al verbale di sopralluogo della Squadra Mobile di Caserta del
09.05.2008 indicato come Sito nr.3) ».
1. Audizioni sui traffici illeciti di rifiuti pericolosi
2. Audizione del capo servizio area ambiente della provincia di Rovigo, Valeriano
Tessaro
3. CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. III, data (C.c 16/12/2005), Sentenza n.4502
4. DELCA S.P.A.
5. Traffico di rifiuti tossiconocivi: le condanne del tribunale di Venezia
Fonte: http://www.italiaterranostra.it/?p=7490
Wanted by the Hague for genocide... and by William Hague as a trading partner
Government demonstrates new foreign policy ethos by welcoming business delegation from Sudan
By Daniel Howden, Africa Correspondent
Friday, 1 October 2010

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Omar al-Bashir, the President of Sudan, stands accused of war crimes

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The Government is courting the regime of the indicted war criminal Omar al-Bashir by declaring
that relations with Sudan have entered a "new epoch". The announcement came as Britain
welcomed a trade delegation from the country which has near pariah status, for the first time since
warrants for President Bashir's arrest were issued by the International Criminal Court (ICC) in The
Hague, over atrocities in Darfur.
Khartoum's high-level delegation met British government officials and business leaders on
Wednesday to encourage investment in a country still targeted by US sanctions. It was the clearest
example yet of how problematic William Hague's new foreign policy, in which commercial
interests are to trump ethical concerns, will be for the Coalition to implement. The change has
already seen complaints that UK diplomatic missions have been reduced to commercial agencies to
drum up business.
The "Opportunities in Sudan" networking event on Wednesday brought a delegation including
senior members of Mr Bashir's NCP party together with British counterparts including the UK
ambassador to Sudan, Nicholas Kay. It comes after a visit by Henry Bellingham, the new minister
for Africa, to Khartoum in July to boost trade and business ties. He told reporters there that Britain
would be a "candid friend" to the regime in Sudan.

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Representatives of major British oil, engineering, agriculture and banking companies who attended
this week's event were told that Sudan was full of "untapped natural resources" and that there was
"a lot of money to be made".
A brochure for the meeting and "networking reception" said Sudan is "endowed with rich natural
resources, including oil, and has been emerging as a major oil producer". Those listed as attending
on a document handed out at the event included mining companies, investment banks and security
firms. Their representatives heard Mr Kay hail what he called "a new epoch" in relations between
Britain and the regime responsible for massacres in Darfur.
The pursuit of such friendly ties leaves the Coalition partners open to accusations of hypocrisy.
While in opposition the Tory party called Darfur the "world's worst humanitarian crisis" and senior
officials including Mr Hague, the current Foreign Secretary, and Andrew Mitchell, now the
International Development Secretary, backed the campaign to get UK companies to disinvest from
Sudan.
In a foreign policy advisory in 2007 Mr Mitchell wrote of the need to "change national and
international business behaviour in the face of manifest gross violations of human rights".
But last night a Foreign Office spokesman insisted that British companies were "free to pursue
legitimate commercial opportunities in Sudan", adding that "increased trade would benefit" the
country's people. He said that there was "no question of prioritising commercial links over the very
real and pressing human rights concerns".
The Liberal Democrat MP Tim Farron, co-chairman of the party's backbench committee on
international affairs, admitted that the Government's stance "was something to be concerned about".
But he defended the argument for trade. "You sometimes build relationships rather than chuck
bricks," he said. "It might not be the most pleasant prospect for people who feel strongly about
these issues, but it's about what you can do – how you can make a difference. Do we want to be
purist and make no difference, or be pragmatic and actually improve human rights?"
The rapprochement with Mr Bashir comes at a time of mounting international concern over the
future of Africa's largest and possibly most complex country. Barack Obama led a meeting of world
leaders at the UN in New York last week to address fears that a vital referendum which could see
the South vote to split Sudan in half is threatened by delays. The vote which is due in January was
the keystone of a 2005 peace agreement that ended a 20-year civil war between the Muslim-
dominated North and the predominantly Christian South that cost 2 million lives. Any collapse in
that deal could prompt a return to war.
Human rights groups are also warning that deeply flawed elections earlier this year that returned Mr
Bashir to the presidency have been followed by a fresh bout of political repression.
These concerns were ignored, according to participants at this week's meeting organised by the UK
Trade and Investment Authority. An accompanying investors' guide to Sudan devoted only three
lines to the myriad security concerns and insisted that the country had enjoyed 20 years of political
stability.
The British Government's new commercial priorities have outraged human rights groups. The
ongoing crisis in Darfur which has killed hundreds of thousands of people and displaced millions
more as well as the North-South arms race ahead of a vote on secession are summed up in the
investment booklet as small "exceptions" in "peripheral regions".
In sharp contrast to the UK approach, the US has a powerful package of economic sanctions that it
deploys against the Sudanese regime, which works in concert with an international arms embargo.
But that policy has also resulted in China's emergence over the past decade as the Sudanese
government's main backer to wield outsized influence in Khartoum. China has been heavily
criticised at UN Security Council meetings for protecting the same regime that the British
Government is now prepared to do business with.
The devastation in western Sudan prompted the ICC to add the charge of genocide to counts of war
crimes and crimes against humanity brought against Mr Bashir in July. The oil industry has
provided a lifeline for a regime in Khartoum that became an international pariah for its actions in
the western region of Darfur. Oil accounts for half of all Sudan government revenues and more than
90 per cent of export earnings. While this has meant fabulous riches for the political elite, such as
Mr Bashir's NCP party, and development in the capital, the total lack of investment in the regions
has been one of the key sources of conflict in Sudan's bloody history since independence.
The Chinese energy giant PetroChina and several Swedish firms are currently under criminal
investigation over alleged involvement in human rights abuses. "Entering Sudan's oil business
comes with a host of risks attached," warned Gavin Hayman, from resources watchdog Global
Witness. "For the average citizen in Sudan oil has been a source of long and bloody conflict rather
than a source of development. Companies have a duty not to just pour money into an opaque
government. Oil will either be the key to peace in Sudan or the cause of another war."

Congress Has Plans for an Internet Blacklist in the


Works -- Let's Stop This Now
By David Segal and Aaron Swarz, AlterNet
Posted on October 1, 2010, Printed on October 11, 2010
http://www.alternet.org/story/148377/

When it really matters to them, Congressmembers can come together -- with a


panache and wry wit you didn't know they had. As banned books week gets
underway, and President Obama admonishes oppressive regimes for their censorship
of the Internet, a group of powerful Senators -- Republicans and Democrats alike --
have signed onto a bill that would vastly expand the government's power to censor
the Internet.

The Combating Online Infringement and Counterfeits Act (COICA) was introduced
in late September, but it's greased and ready to move, with a hearing in front of the
Judiciary Committee this Thursday. If people don't speak out, US citizens could soon
find themselves joining Iranians and Chinese in being blocked from accessing broad
chunks of the public Internet.

Help us stop this bill in its tracks! Click here to sign our petition.

COICA creates two blacklists of Internet domain names. Courts could add sites to
the first list; the Attorney General would have control over the second. Internet
service providers and others (everyone from Comcast to PayPal to Google AdSense)
would be required to block any domains on the first list. They would also receive
immunity (and presumably the good favor of the government) if they block domains
on the second list.

The lists are for sites "dedicated to infringing activity," but that's defined very
broadly -- any domain name where counterfeit goods or copyrighted material are
"central to the activity of the Internet site" could be blocked.

One example of what this means in practice: sites like YouTube could be censored in
the US. Copyright holders like Viacom often argue copyrighted material is central to
the activity of YouTube, but under current US law, YouTube is perfectly legal as
long as they take down copyrighted material when they're informed about it -- which
is why Viacom lost to YouTube in court.

But if COICA passes, Viacom wouldn't even need to prove YouTube is doing
anything illegal to get it shut down -- as long as they can persuade the courts that
enough other people are using it for copyright infringement, the whole site could be
censored.

Perhaps even more disturbing: Even if Viacom couldn't get a court to compel
censorship of a YouTube or a similar site, the DOJ could put it on the second
blacklist and encourage ISPs to block it even without a court order. (ISPs have ample
reason to abide the will of the powerful DOJ, even if the law doesn't formally require
them to do so.)
COICA's passage would be a tremendous blow to free speech on the Internet -- and
likely a first step towards much broader online censorship. Please help us fight back:
The first step is signing our petition. We'll give you the tools to share it with your
friends and call your Senator.

© 2010 Independent Media Institute. All rights reserved.


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Congresso ha in programma di una black list di Internet


negli Works - Let's Stop This Now
Con David Segal e Swarz Aaron, AlterNet
Pubblicato il 1 ottobre 2010, Stampato il 11 ottobre 2010
http://www.alternet.org/story/148377/

Quando è veramente importante per loro, Congressmembers può venire insieme -


con uno spirito ironico e brio che non sapevi di avere. Come vietato settimana libri
sarà in corso, e il Presidente Obama ammonisce regimi oppressivi per la loro censura
di Internet, un gruppo di potenti senatori - repubblicani e democratici - hanno firmato
su una legge che avrebbe espandere notevolmente il potere del governo di censurare
Internet.
L' Lotta Violazione Online e legge Contraffazioni (COICA) è stato introdotto alla
fine di settembre, ma è ingrassato e pronto a muoversi, con un'audizione davanti alla
Commissione Giustizia questo Giovedi. Se le persone non parlano, i cittadini
americani potrebbero presto ritrovarsi unendo iraniani e cinesi a essere bloccato da
blocchi di massima per la rete Internet pubblica.

Aiutateci a fermare questo progetto di legge nella sua tracce! Clicca qui per
firmare la nostra petizione.

COICA crea due liste nere dei nomi a dominio Internet. I tribunali potrebbero
aggiungere siti alla prima lista, il procuratore generale avrebbe il controllo della
seconda. fornitori di servizi Internet e gli altri (tutti, da Comcast a PayPal per
AdSense di Google) sarebbe tenuto a bloccare tutti i domini nel primo elenco. Essi
beneficiano inoltre di immunità (e presumibilmente il favore del buon governo), se
bloccare i domini nella seconda lista.

Le liste sono per i siti "dedicati alla attività illecita", ma questo è definito in modo
molto ampio - qualsiasi nome di dominio in cui le merci contraffatte o materiale
protetto da copyright sono "centrali per l'attività del sito Internet" potrebbe essere
bloccato.

Un esempio di ciò che questo significa in pratica: siti come YouTube potrebbe essere
censurato negli Stati Uniti. titolari di diritto d'autore come la Viacom spesso
sostengono materiale protetto da copyright è fondamentale per l'attività di YouTube,
ma secondo le attuali leggi degli Stati Uniti, YouTube è perfettamente legale, purché
smontare materiale protetto da copyright quando sono informato su di esso - che è il
motivo Viacom perso con YouTube in tribunale.

Ma se COICA passa, Viacom non sarebbe nemmeno bisogno di provare YouTube sta
facendo niente di illegale a farlo arrestare - fintanto che può convincere i giudici che
sufficiente altri persone lo stanno utilizzando per violazione del copyright, tutto il
sito potrebbe essere censurato.

Forse ancora più inquietante: anche se Viacom non ha potuto ottenere un tribunale di
costringere la censura di YouTube o un sito simile, il Dipartimento di Giustizia
potrebbe mettere sulla lista nera secondo e incoraggiare gli ISP di bloccare ancora
senza un ordine del tribunale. (ISP sono ampie ragioni per rispettare la volontà dei
potenti DOJ, anche se la legge non formalmente li obbligano a farlo.)
passaggio COICA sarebbe un colpo tremendo per la libertà di espressione su Internet
- e probabilmente un primo passo verso la più ampia censura online. Per favore
aiutaci a lottare: Il primo passo è firma la nostra petizione. Vi daremo gli strumenti
per condividere con i tuoi amici e chiamare il senatore.

© 2010 Independent Media Institute. Tutti i diritti riservati.


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5 Ways to Keep the Internet from Destroying Your
Brain
By John M. Grohol, Psychotherapy Networker
Posted on September 27, 2010, Printed on October 11, 2010
http://www.alternet.org/story/148320/

Human beings are creatures of habit, and nowhere is the force of habit more apparent
than in the way most of us use the Internet. Few of us are disciplined enough to go
online, do one thing, and log off. While it may be fun to keep updating our Facebook
profiles or repeatedly accessing our various feeds throughout the day or merrily
multitasking round the clock, researchers are beginning to document the emotional
and psychological price we're paying for doing so. But the good news is that feeling
overwhelmed and lost online isn't an inevitable consequence of living in the Internet
Age—we can change how we behave when we go on online and how we interact
with the web.
Mindfulness training is a particularly handy tool for helping us become more aware
of our relationship with the Internet. It provides a number of effective ways to reduce
the feelings of stress and anxiety that arise from trying to organize and keep track of
too much information at once. The tips below will help you be more present when
using the Internet, improve your online efficiency, and reduce the stress that so often
accompanies multitasking and information overload.
1. The STOP Technique
Psychologist Elisha Goldstein has developed the STOP technique—adapted from
cognitive-behavioral research—to relieve the feeling of being overwhelmed by too
much information by bringing your mind back to what you really want to be doing.
This technique is especially helpful when you find yourself "lost" online, or you've
forgotten what you were searching for. The steps of the technique are:
S—Stop your online browsing or put your e-mail checking on hold.
T—Take a normal, full breath. "Breathe naturally and follow your breath coming in
and out of your nose," advises Goldstein. "You can even say to yourself 'in' as you're
breathing in and 'out' as you're breathing out, if that helps with concentration."
O—Observe your thoughts, feelings, and emotions. Goldstein notes, "You can reflect
about what's on your mind and also notice that thoughts aren't facts and they aren't
permanent. Just notice the thought, let it be, and continue on. Notice any emotions
that are there and name them. Recent research out of UCLA says that just naming
your emotions can have a calming effect. Then notice your body. How is your
posture? Any aches and pains?"
P—Proceed with something that will support you in the moment, whether that's
talking to a friend, taking a two-minute break from what you were doing online, or
running through a quick relaxation script in your mind. The key is that you need to
feel good about the very next thing you do, and then you can get back to what you
were doing after a couple of minutes.
2. Reduce Information Intake
A big problem in Internet use is the inability to stop pursuing random paths of
interest. If you focus on what you need, rather than on what others think you want,
you may be surprised at how much you streamline your time online and make it more
productive. For instance, if you're looking for reviews of different cell phones, don't
get bogged down in off-topic threads on a forum that has nothing to do with the cell
phone you're interested in. If you want the answer to a scientific question, write
down possible keywords, Google them, and stay on topic. Bookmark things that are
"off-topic" for later investigation, if you're interested.
3. Distinguish Between Work-Oriented and Personal Tasks
Many of us blur the distinction between "working" online and "having fun" online—
toggling back and forth between the two. You do this when you mix shopping for a
birthday present with finishing a weekly report or case study. Most people aren't
good multitaskers and don't switch gears as readily as they switch web pages.
Blurring the line between work and play means that neither is effective—you'll take
much longer getting your work done, and probably you'll have less fun.
Divide your time online between "work-oriented tasks" and "personal or social
tasks," being mindful of which task session you're in and sticking to it throughout
your time online. One way to stay mindful is to keep a reminder in sight of whether
you're concentrating on work or pleasure. Simple Post-It notes on your monitor work
just fine.
4. Set Time Limits
If we're receiving information 24 hours a day, we give our brains no time to relax, to
change modes, to just have fun. It just isn't good to always be "on-call" for new
information in every moment or situation. We all know colleagues who don't turn off
their cell phones during family events or when seeing a show. They believe that
being reachable at every moment of the day, every day, is more important than
relaxing or spending time with loved ones. Unless you're the president of the United
States (or his equivalent elsewhere), you have no need to be "on" and online 24/7.
Keep your eye on your computer's clock, and make a mental note of when you began
your online session. Keep track of what you're doing and how long you're spending
on each task. Setting time limits helps keep you present, and prevents you from
losing track of the time.
Consider keeping a task list for each time you sit in front of the computer. List no
more than five specific items you want to accomplish for that online session, and
allocate time for each. Your list might look like this:
-Check and reply to e-mail (10 minutes).
-Look up information on __________ (5 minutes).
-Update Facebook page and reply to Facebook inbox (5 minutes).
-Browse global and local news headlines on Google News (10 minutes).
5. Chunk Your Information
If you take in every bit of information with equal attention, it becomes harder to sort
and track. Our brains don't process large amounts of random information well, but
we can take in more if it's grouped—what psychologists call "chunking."
In the United States, we group our telephone numbers into three segments—a 3-digit
area code, a 3-digit prefix, and a 4-digit suffix. This method divides a 10-digit
number into easily managed "chunks" of information that our brains can store more
easily for long-term use. You can use the same method for keeping track of new
information. Organize it into smaller, more easily managed chunks, and you'll find
it'll stick longer.
For instance, you can more quickly and easily locate saved web addresses by
organizing them into logical subfolders in your Favorites or Bookmarks area, rather
than using one long unorganized list. You can do the same with e-mails—using
labels and automatic filtering to move e-mails into their respective organizational
bins or folders for future action.
None of This Will Stop Information Flow
These suggestions won't stop the (over)flow of information from invading our lives
—only we can do that. But we can make a conscious choice about how we spend our
time online and consume the information available. By staying present and focused
on our immediate online needs, we no longer have to feel that we're at the mercy of
the Internet. Remember that change takes time, but with some patience, and a lot of
repetition, you too can find yourself using the Internet in a more mindful manner.
John M. Grohol, Psy.D., is an expert in online psychology and behavior, a
developer, researcher, author, and founder of one of the leading mental health
networks online today, PsychCentral.com, named one of the 50 Best Websites of
2008 by TIME.com.

© 2010 Psychotherapy Networker All rights reserved.


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5 modi per mantenere Internet di distruggere il tuo


cervello
Di John M. Grohol, Networker Psicoterapia
Pubblicato il 27 settembre 2010, Stampato il 11 ottobre 2010
http://www.alternet.org/story/148320/

Gli esseri umani sono creature abitudinarie, e non è mai la forza dell'abitudine è più
evidente che nel modo in cui la maggior parte di noi utilizza Internet. Pochi di noi
sono abbastanza disciplinato per andare online, fare una cosa, e disconnettersi.
Mentre può essere divertente per mantenere aggiornando il nostro profilo Facebook o
più volte l'accesso al nostro feed varie per tutto il giorno o allegramente multitasking
ventiquattro ore su ventiquattro, i ricercatori stanno cominciando a documentare il
prezzo emotivo e psicologico stiamo pagando per farlo. Ma la buona notizia è che la
sensazione sopraffatto e online perduto non è una conseguenza inevitabile del vivere
in Internet Age-possiamo cambiare come ci comportiamo quando andiamo in online
e il modo in cui interagiscono con il web.
formazione consapevolezza è uno strumento particolarmente utile per aiutarci a
diventare più consapevoli del nostro rapporto con Internet. Esso prevede una serie di
modi efficaci per ridurre le sensazioni di stress e di ansia che nascono dal tentativo di
organizzare e tenere traccia delle informazioni troppo in una volta. I suggerimenti
che seguono vi aiuteranno ad essere più presente quando si utilizza Internet,
migliorare la vostra efficienza online, e ridurre lo stress che spesso accompagna il
multitasking e il sovraccarico di informazioni.
1. Il STOP Tecnica
Psicologo Elisha Goldstein ha sviluppato la tecnica di STOP-adattato dalla ricerca
cognitivo-comportamentale, per alleviare la sensazione di essere sopraffatti da troppe
informazioni portando la mente indietro a quello che si vuole veramente fare. Questa
tecnica è particolarmente utile quando ci si trova on-line "perse", o hai dimenticato
quello che stavate cercando. I passi di questa tecnica sono:
S-Stop tua navigazione online o mettere il controllo della posta elettronica in attesa.
T-Prendete un normale respiro pieno. "Respira naturalmente e seguire il tuo respiro
che entra dentro e fuori il naso", consiglia Goldstein. "Si può anche dire a te stesso 'a'
come si sta respirando e 'out' come si sta espirando, se questo aiuta con
concentrazione".
O-Osservate i vostri pensieri, sentimenti ed emozioni. Goldstein nota, "Si può
riflettere su ciò che hai in mente e anche notare che i pensieri non sono fatti e non
sono permanenti. Notate il pensiero, lascia che sia, e proseguire. Noti ogni emozione
che ci sono e assegnare loro un nome . ricerche recenti UCLA dice che solo
nominare le vostre emozioni può avere un effetto calmante. Poi notate il vostro
corpo. Com'è la tua postura? Qualsiasi dolori e dolori? "
P-Procedere con qualcosa che vi aiuta in questo momento, che se sta parlando con un
amico, di prendere una pausa di due minuti da quello che stavi facendo in linea, o
l'esecuzione di uno script attraverso il rilassamento rapido nella tua mente. La chiave
è che è necessario per sentirsi bene la cosa molto prossimo che fai, e quindi si può
tornare a quello che stavi facendo, dopo un paio di minuti.
2. Ridurre Informazioni di aspirazione
Un grosso problema dell'uso di Internet è l'incapacità di smettere di seguire percorsi
casuali di interesse. Se ti concentri su quello che ti serve, piuttosto che su ciò che gli
altri pensano che si desidera, si può essere sorpreso di quanto la possibilità di
ottimizzare il vostro tempo on-line e renderlo più produttivo. Per esempio, se siete
alla ricerca di recensioni di telefoni cellulari diversi, non impantanarsi in off-topic
discussioni su un forum che non ha nulla a che fare con il telefono cellulare siete
interessati poll Se si vuole la risposta alla una questione scientifica, scrivere possibili
parole chiave, Google, e rimanere in tema. Bookmark cose che sono "off-topic" per
le indagini successive, se siete interessati.
3. Distinguere tra le attività orientate al lavoro e personale
Molti di noi offuscare la distinzione tra linea "di lavoro" e "divertirsi" online-
toggling avanti e indietro tra i due. Per fare ciò quando si shopping mescolare per un
regalo di compleanno con finitura un rapporto settimanale o caso di studio. La
maggior parte delle persone non sono multitasking bene e non cambiare marcia così
facilmente come si passa pagine web. Confondere la distinzione tra mezzi di lavoro e
gioco che non è né efficace e avrete modo di prendere molto di più realizzare i tuoi
lavori, e probabilmente avrete meno divertente.
Dividete il vostro tempo on-line tra i "compiti di work-oriented" e "compiti personali
o sociali," essere consapevole del compito che si è in sessione e attenersi ad esso
tutto il vostro tempo on-line. Un modo per stare attenti è quello di mantenere un
promemoria in vista del fatto che si sta concentrando sul lavoro o di piacere. Simple
Post-It sul monitor il proprio lavoro bene.
4. Set Time Limits
Se siamo la ricezione di informazioni 24 ore al giorno, diamo il nostro cervello non
c'è tempo per rilassarsi, per cambiare modalità, per avere solo divertimento. E 'solo
non è buono per essere sempre "a chiamata" per le nuove informazioni in ogni
momento o situazione. Sappiamo tutti i colleghi che non spegnere i loro telefoni
cellulari in occasione di eventi familiari o vedendo uno spettacolo. Essi credono che
essere raggiungibile in ogni momento della giornata, ogni giorno, è più importante di
relax o di passare il tempo con i propri cari. A meno che non sei il presidente degli
Stati Uniti (o il suo equivalente altrove), non avete bisogno di essere "on" e online 24
/ 7.
Tenere d'occhio l'orologio del computer, e fare una nota mentale di quando ha
iniziato la sessione online. Tenere traccia di ciò che stai facendo e per quanto tempo
spendiamo per ogni attività. Impostazione limiti di tempo aiuta a rimanere presente, e
ti impedisce di perdere la cognizione del tempo.
Si consideri tenere un elenco di attività per ogni volta che si siede davanti al
computer. Lista non più di cinque elementi specifici che si desidera realizzare per la
sessione online, e dedicare un tempo per ciascuno. La tua lista potrebbe essere simile
a questo:
-Check e rispondere alle e-mail (10 minuti).
-Ricerca di informazioni su __________ (5 minuti).
-Update pagina di Facebook e risposta a Facebook casella di posta elettronica (5
minuti).
-Sfoglia notizie globali e locali su Google News (10 minuti).
5. Chunk vostri dati
Se si prende in ogni bit di informazione con uguale attenzione, diventa più difficile
per ordinare e pista. Il nostro cervello non elaborano grandi quantità di informazioni
casuali bene, ma possiamo fare in più se è raggruppata-ciò che gli psicologi
chiamano "chunking".
Negli Stati Uniti, abbiamo il nostro gruppo di numeri di telefono in tre segmenti: un
prefisso di 3 cifre, un prefisso di 3 cifre, e un suffisso di 4 cifre. Questo metodo
divide un numero a 10 cifre di facile gestione in "blocchi" di informazioni che il
nostro cervello in grado di memorizzare più facilmente per l'uso a lungo termine. È
possibile utilizzare lo stesso metodo per tenere traccia delle nuove informazioni.
Organizza in pezzi più piccoli e più facilmente gestibile, e lo troverete ci limiteremo
più a lungo.
Per esempio, si può più rapidamente e facilmente individuare salvato indirizzi web
organizzandoli in cartelle logiche in Preferiti o Segnalibri area, piuttosto che usare
una lunga lista non organizzati. Si può fare lo stesso con e-mail che utilizzano
etichette e di filtraggio automatico per spostare le e-mail nel loro bidoni rispettivi
organizzativa o cartelle per le azioni future.
Niente di tutto questo arrestare il flusso d'informazione
Questi suggerimenti non fermerà la (più) il flusso di informazioni di invadere la
nostra vita di sola noi può farlo. Ma possiamo fare una scelta consapevole su come
spendere il nostro tempo online e consumano le informazioni disponibili. Rimanendo
presente e concentrati sui nostri bisogni immediati online, non abbiamo più a sentire
che siamo in balia di Internet. Ricorda che il cambiamento richiede tempo, ma con
un po 'di pazienza, e un sacco di ripetizioni, anche voi potete trovare ad usare
Internet in modo più consapevole.
John M. Grohol, Psy.D., è un esperto in psicologia e del comportamento online, uno
sviluppatore, ricercatore, autore e fondatore di una delle principali reti di salute
mentale oggi in linea, PsychCentral.com, nominato uno dei 50 migliori siti web del
2008 da TIME.com.

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Meno male che un pazzo c’è


1 ottobre 2010 - Politica

da Il Fatto Quotidiano di Piero Ricca

Ci vuol poi tanto a trattarlo come merita? Anche nel dibattito alla Camera Antonio Di
Pietro si è rivelato l’unico leader parlamentare capace di cantarle chiare al ducetto di
Arcore.
Lo fa per galvanizzare gli elettori antiberlusconiani che guardano da casa,
personalizzando lo scontro con quel suo ruspante istinto insieme teatrale e questurino,
certo. Presenta anche lui i suoi punti deboli e le sue zone d’ombra da padre-padrone di
un partito personale, certo. Ma almeno lo fa. E per questo, solo per questo molti lo
votano, nonostante l’accolita di impresentabili che ha portato nelle istituzioni: riciclati,
faccendieri e mestieranti di ogni ordine e grado.Se i cicisbei del centrosinistra
“moderato” e “riformista”, in particolare i superstiti dirigenti del Pd che tante arie di
cultura di governo e professionalità politica ancora si danno, si fossero comportati
come lui da sedici anni a questa parte, invece di invitarci ad abbassare i toni, a
superare l’antiberlusconismo e a non demonizzare l’avversario (che al contrario ha
sempre criminalizzato e diffamato chiunque gli desse fastidio), oggi Antonio Di Pietro
con tutta probabilità coltiverebbe il suo campo a Montenero di Bisaccia mentre
Berlusconi si godrebbe la vecchiaia ad Hammamet o in qualche altro paradiso fiscale e
penale.
Degne di nota, visibili in altri video di youtube, anche le reazioni del ducetto e dei dignitari di
regime alle parole di Di Pietro. Le deputatesse biondochiomate, in attesa della festa delle favorite
prevista in serata a Palazzo Grazioli, lasciano l’aula in segno di disprezzo; Angelino Alfano, prima
di andare a rapporto da Mavalà Ghedini per gli ultimi ritocchi alle vergogne di giornata, tamburella
nervoso con volto più bronzeo del solito; Giulio Tremonti cerca di tener calmo il principe
sussurandogli paroline sottovoce; altri sugli scranni governativi scrutano il capo per sondarne gli
umori e altri ancora, rigidi, tengono il volto chino e fingono di leggere in attesa che il brutto
momento passi veloce.
Intanto dal lato destro dell’emiciclo i manipoli parlamentari, novelli cavalli di Caligola, figli di una
legge elettorale infame e di un criterio selettivo che premia i mascalzoni pronti a qualsiasi bassezza
– insultano e rumoreggiano per buttarla in vacca, per coprire le parole indicibili, in un ultimo,
disperato tentativo di difesa del padrone cui devono tutto. Il padrone abituato alle adulazioni dei
servi e agli ossequi degli oppositori ben educati, che maschera la livida insofferenza con gesti e
mimica irridenti – proprio non sopporta che qualcuno, sotto i riflettori che pretende di controllare,
in un’aula di quel parlamento che ritiene superfluo frequentare, lo chiami per nome e ricordi i suoi
misfatti – e poi si gira verso l’uomo da cui si sente tradito e che sta cercando di distruggere per
chiedere, ma per lui chiedere vuol dire ordinare, di interrompere l’orribile affronto. Invano,
l’incantesimo è rotto.
Checché ne dicano i commentatori morigerati, per i quali dire la verità senza giri di parole è da
cafoni, fa bene Di Pietro: a un personaggio del genere non si deve alcun rispetto, se non quello
dovuto alla carica istituzionale che indegnamente ricopre. Perché lui non rispetta, anzi cerca di
intimidire e infangare chiunque risulti d’intralcio ai suoi interessi privati e illeciti. Non è un self
made man, nè un uomo di Stato. Ma un avido e prepotente tipetto, un individuo amorale terrorizzato
dalla verità, con velleità da monarca, che sfrutta le istituzioni per evitare la galera, che deve tutto
alla corruzione della politica e al potere manipolatorio dei media: così andava e va trattato. Ha un
passato talmente inconfessabile, ha costruito un ambiente a tal punto asfittico e ipocrita, che basta
un accenno alla verità, a una parte della verità dei fatti documentati, per denudarlo.
Pochi, troppo pochi – nella politica, nel giornalismo, nella cosiddetta classe dirigente – hanno osato
farlo in pubblico e in questa viltà sta il nucleo del caso Italia.
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/?p=66582
REDIBILE COLPO DI SCENA, ULTIM’ORA: Studenti “soldato” nei licei? La “ritirata” La
Russa – Gelmini e il giallo dell’articolo scomparso su Famiglia Cristiana
Mai la scuola italiana aveva raggiunto, nel corso degli ultimi decenni, un livello così basso. Per
molti quasi un punto di non ritorno. Lo confermano i dati statistici, lo stato degli atenei italiani, le
difficoltà della didattica, gli scarsi risultati degli studenti (rispetto ai coetanei europei). La scuola
italiana è al collasso, si sa, nonostante le tante riforme (pseudo-riforme) di questi ultimi anni. Un
numero considerevole di tentativi che, invano, hanno cercato di dare un po’ di respiro al settore,
senza riuscirci. Anzi, quello che abbiamo davanti è un quadro sempre più cupo, senza prospettive. E
così, assistiamo, ad una serie di scandali, di decisioni eclatanti, spesso non conformi neanche alla
stessa legge italiana. Lo sa il Ministro dell’Istruzione Gelmini, lo sanno gli operatori della scuola, lo
sanno gli studenti. E dalla scuola di Adro al nuovo protocollo firmato fra il Ministro dell’Istruzione
Gelmini e il Ministro della Difesa La Russa, il passo è davvero breve. Forse l’ultimo colpo di coda
di un’estate “drammatica” per la scuola, che preannuncia un autunno davvero caldo, anzi,
incandescente.
Lo chiamano “allenati per la vita” ed è un corso valido come credito formativo rivolto agli studenti
dei licei. In realtà sembra un vero e proprio corso “paramilitare”. Non è uno scherzo. E’ un
protocollo già firmato fra la Gelmini e La Russa. Ma cosa prevederà? Con grande pace della
Gelmini, gli studenti dei licei impareranno a sparare con pistola (ad aria compressa), a tirare con
l’arco, ad arrampicarsi, a eseguire perfettamente “percorsi ginnico-militari”. E quale sarebbe
l’assurda spiegazione (motivazione) di questa nuova trovata “geniale” del Ministro Gelmini? Ecco
la laconica ed “ipocrita” risposta: “Le attività in argomento permettono di avvicinare, in modo
innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla protezione civile, alla croce
rossa e ai gruppi volontari del soccorso”. Si tratta, in buona sostanza, di veicolare la pratica del
mondo militare in quello della scuola: roba da altri tempi, tempi bui e, speriamo, non riproponibili.
Ma la speranza “muore” leggendo, di fatto, in cosa consisterà la prova finale per il nuovo corso
“allenati per la vita” (leggi corso “paramilitare”, ndr): “una gara pratica tra pattuglie di studenti”.
No, non è un errore di battitura. La circolare parla proprio di “pattuglie” di studenti. A dir poco
equivocabile e senza ritegno il termine utilizzato. Fosse solo il termine! E’ un progetto “innovativo”
passato nel silenzio assoluto delle opposizioni. Ma anche questa, purtroppo, non è una novità.
E con la nuova proposta Gelmini – La Russa , si allunga, di fatto, l’elenco degli incomprensibili
provvedimenti del Ministro dell’Istruzione. I tagli alle elementari hanno eliminato qualsiasi
potenzialità di realizzare il vero tempo pieno e ridotto gli spazi per progetti, uscite didattiche e
laboratori. Non c’è un insegnante di sostegno ogni due studenti disabili, come prevede la legge, a tal
punto che alcuni alunni vengono seguiti solo per cinque ore settimanali. Il provvedimento che
prevede il numero maggiore di studenti per classe, da 27 a 35, viola apertamente il testo sulla
sicurezza scolastica: Il D.M. Interno del 26/8/1992, recante “Norme di prevenzione incendi per
l’edilizia scolastica”, al punto 5.0 (“Affollamento”) stabilisce che, al fine dell’evacuazione delle
aule, il massimo affollamento ipotizzabile è fissato in 26 persone/aula ed al punto 5.6 (“Numero
delle uscite”) che le porte devono avere larghezza di almeno m 1,20 ed aprirsi nel senso dell’esodo
quando il numero massimo di persone presenti nell’aula sia superiore a 25 (quante scuole, in tutto il
territorio nazionale, non sono in regola? La maggioranza). E la riduzione del tempo scuola nei licei
artistici (11%) , nei licei linguistici (17%), negli istituti tecnici e professionali (diminuzione del 30%
delle ore di laboratorio) a quale esigenza didattica di rinnovamento rispondono? Forse servono a far
posto a pseudo-corsi di natura “paramilitare” come quello messo in campo dal duo Gelmini – La
Russa? Tante sono le domande, poche le risposte e le certezze. Quello che appare chiaro, tuttavia, è
che non basteranno anni di riforme e provvedimenti ad hoc per far risalire la china alla scuola
italiana. E la trovata degli studenti soldato nei licei, a dir poco bizzarra, non va in quella direzione.
Siamo al punto più basso della scuola italiana? Peggio di così non può andare? Seppur infinitamente
poco consolatoria, dateci almeno questa, di certezza.
Fonte: Giornale Italiano http://giornaleitaliano.info/gelmini-studenti-%E2%80%9Csoldato
%E2%80%9D-nei-licei-impareranno-a-sparare-il-declino-inarrestabile-della-scuola-italiana-3146
Fonte: Famiglia Cristiana
(http://www.famigliacristiana.it/Informazione/News/articolo/la-scuola-militare.aspx)
Emanuele Ameruso
emanuele.ameruso@libero.it

ANSA.it > Mondo > News

Svizzera: rimuove crocifisso, licenziato

Nell'Alto Vallese, dove il crocifisso non e' obbligatorio


11 ottobre, 21:41

Guarda la foto1 di 1

(ANSA) - GINEVRA, 11 OTT - Un insegnante di una scuola


media svizzera sarebbe stato licenziato per il suo persistente rifiuto di avere un
crocifisso in classe. Il docente della scuola media di Stalden (Alto Vallese), e' stato
licenziato venerdi' per la rottura del rapporto di fiducia. Ma per il docente la ragione e'
che un anno fa aveva rimosso il crocifisso appeso al muro nella sua aula; da li' e'
cominciato un lungo contrasto. Nel cantone Vallese non vi e' obbligo di appendere i
crocifissi nelle aule.

Un soldato delle forze afghane durante il blitz con la Nato

Potrebbe essere stato il fuoco delle forze americane intervenute a liberarla, a provocare la morte
della britannica Linda Norgrove, lo scorso 8 ottobre. Operatrice umanitaria, Linda era stata
sequestrata a settembre in Afghanistan, con altri tre colleghi dell’ONG.
Londra ha annunciato ora l’apertura di un’indagine:
“Linda – ha detto il premier David Cameron -potrebbe essere morta per l’esplosione di una granata
avvenuta durante l’assalto della squadra di intervento. Ma non è sicuro, lo attesterà un’ inchiesta
condotta da britannici e americani”.
Linda Norgrove, di 36 anni, era direttrice di un progetto Usaid destinato a creare piccole imprese in
Afghanistan. Proveniva da un angolo magico della Scozia, le Ebridi, dove abitava con i genitori
prima di scegliere una vita accanto alla popolazione afghana in difficoltà.
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Tags: Afghanistan, ONG, Regno Unito

Cambio l’immagine del mio profilo. “L’immagine di Garibaldi mi sembrava un atto di presunzione da parte
mia e la sostituisco con questa, che viene da “La tomba del tuffatore” a Paestum. Nella sua aerea
leggerezza essa rappresenta un giovane atleta sospeso nell’attimo di passaggio dalla vita alla morte.”
Tags? Tuffo, leggerezza, attimo, aereo, sospensione, nulla, vita, morte, nulla.

Scandalo CAMPANIA: Monnezza e tumori, il danno e la beffa.


pubblicata da Michele Pietrasanta il giorno mercoledì 13 ottobre 2010 alle ore 0.29

Sui veleni della discarica di Pianura - al centro della rivolta anti-rifiuti del 2008 - non ci sarà né
un’indagine né una class action. Questo perché in Campania non c’è praticamente traccia del
registro dei tumori istituito all’inizio del 2007, a causa dell’aumento esponenziale delle
malattie in alcune aree del napoletano e del casertano, maglie nere per lo smaltimento illecito
dei rifiuti tossici.

Nonostante la delibera regionale del 17 luglio di quell’anno, e l’ok unanime della giunta per
stanziare 2,5 milioni di euro, quel registro non esiste. Non è possibile, quindi, istituire
procedimenti penali per disastro ambientale o epidemia colposa. Il registro ufficiale dei tumori
in Campania è istituito solo in provincia di Salerno e presso la ex Asl Napoli4. C’è Acerra, ma
restano fuori i comuni a rischio, e soprattutto Napoli. >

È l’inizio del 2007 e la comunità scientifica internazionale lancia un allarme: c’è un aumento
esponenziale dei tumori in alcune aree del napoletano del casertano.
Tutto sarebbe legato allo smaltimento illecito dei rifiuti tossici, dall’inquinamento delle falde
acquifere.
L’opinione pubblica è allarmata e corre ai ripari la Regione che vuole vederci chiaro. E decide di
«allargare la quota di popolazione coperta da registri tumori, in particolare estendendo
l’osservazione alla provincia di Caserta e all’intera provincia di Napoli».
La delibera è del 17 luglio e arriva l’ok unanime della giunta per stanziare 2,5 milioni di euro. E
invece? E invece del registro non c’è traccia. Impossibile, quindi, istituire procedimenti penali per
disastro ambientale o epidemia colposa. Perché non bastano pubblicazioni scientifiche o pur serie
indagini epidemiologiche: occorre il registro ufficiale dei tumori che in Campania è istituito solo in
provincia di Salerno e presso la ex Asl Napoli4. Ci rientra per un pelo solo Acerra ma rimangono
fuori comuni considerati a rischio come Giugliano, Villaricca o Qualiano. E Napoli, soprattutto.
Tanto che ieri il pm Stefania Buda è costretta a chiedere l’archiviazione (si decide a novembre)
dell’inchiesta per i presunti veleni smaltiti nella discarica di Pianura. Perché non bastano i dati a
dispozione per dimostrare che abbiano inciso sulla salute di chi ha vissuto per anni accanto alla ex
Difrabi. E così sarà per ogni inchiesta simile a meno che la presunta fonte di inquinamento non sia
compresa nei 35 comuni dell’ex Napoli 4 o nel salernitano. Lo sappia in anticipo e si metta l’animo
in pace chi abita vicino la discarica di Chiaiano o accanto quella di Terzigno.
Nessuna inchiesta, nessuna ipotesi di futura class action senza il registro dei tumori.

Senza contare che la finalità dello strumento è anche quella di sorvegliare l’insorgenza di patologia
neoplastica in rapporto all’esposizione a sostanze cancerogene, biologiche e ad altri fattori di
rischio. Niente da fare, per ora. «Ci fu un allarme e decidemmo - spiega l’ex assessore regionale alla
Sanità Angelo Montemarano - di intervenire per evitare panico tra la popolazione. Coinvolgemmo
pure l’Istituto superiore della Sanità e il ministero della Salute che inviò i propri tecnici per
monitorare la situazione». E il registro per cui furono stanziati anche 2,5 milioni di euro?
«Onestamente da lì a poco - spiega - lasciai la carica. E non saprei dirle perché non se ne fece
nulla». Tre anni di buco, l’oblio sino alla richiesta di archiviazione per l’indagine di Pianura. Perché
per dimostrare eventuali nessi tra le discariche e le morti non basta il registro dei decessi. «Il
finanziamento fu stanziato ma non è mai seguito l’atto dirigenziale che erogava materialmente i
fondi per il registro», spiega Vittoria Operato, giovane avvocato specializzata in tematiche
ambientali e iscritta a Generazione Italia, l’associazione di Gianfranco Fini.
La legale segue l’associazione «la Terra dei fuochi», il gruppo che ogni giorno mette in rete i
video dei roghi appiccatti nel Giuglianese per smaltire rifiuti tossici. Materie plastiche e
copertoni, soprattutto. Miasmi terribili che appestano la salute della gente. «Se pure si
istituisse il registro domani, ci vorrebbero almeno un paio d’anni - spiega il legale - per istituire un
eventuale procedimento per il giuglianese. Altrimenti il muro delle risultanze probatorie non verrà
mai scavalcato. Il registro delle morti, infatti, non basta a dimostrare nell’inquinamento ambientale
la causa dei decessi».

BANCA DATI: Preziosa per la diagnosi e la prevenzione.

«Costituire il registro tumori è un’operazione complessa ma rimane uno strumento indispensabile


per le politiche sanitarie», spiega Nicola Mozzillo, docente della Federico II nonché direttore della
divisione Chirurgia B del Pascale e past president della Sico. L’oncologo non entra, è chiaro, nel
merito della richiesta di archiviazione dell’indagine sui veleni della discarica di Pianura, ma
conferma: «Napoli dovrebbe dotarsi al più presto di questo registro». Perché professore? «È
importantissimo per la programmazione di interventi sanitari preventivi. Conoscere a fondo
incidenza e prevalenza delle patologie tumorali, così come decorso e andamento, permette di
affrontare e programmare interventi specifici, ottimizzando risultati e risorse. Il registro
dell’incidenza dei tumori, a differenza di quello delle morti, ci danno informazioni preziosissime sin
dall’inizio dell’insorgere della malattia: è uno strumento importante sotto tutti i punti di vista». Del
tipo? «Ci sono tumori che hanno decorsi molto lunghi o che non portano alla morte, come quelli
della pelle. Capire come è l’andamento dei tumori, le fluttuazioni, è utilissimo per intervenire.
Anche per una semplice campagna informativa: è inutile, ad esempio, continuare ad investire molto
per sensibilizzare contro i rischi dei carcinomi al fegato che sono in declino e non concentrarsi su
comportamenti che portano ad altri tipi di cancro in alcune zone». Ad esempio? «In un’area come
quella casertana, caratterizzata da una certa depressione socioculturale, stiamo notando un maggior
numero di fumatori e una popolazione caratterizzata dall’obesità. Comportamenti da collegare ad
alcuni tumori». Nel luglio del 2007 la Regione Campania stanziò 2,5 milioni di euro proprio per
allargare il censimento dai comuni della ex Napoli4 all’intera provincia di Napoli e Caserta. Cosa
ne è stato? «Non posso essere io a risponderle. Tenga presente però che si tratta di un’operazione
complessa: grandissime banche dati, un lavoro lungo per coordinare le fonti e soprattutto gente
capace di leggere e confrontare i numeri che vengono man mano raccolti. Oltre ad una sensibilità ad
hoc». Ora scopriamo che questa banca dati serve anche nei procedimenti penali. «Perché
rimane uno strumento formidabile di valutazione, per calcolare l’incidenza tra alcune
patologie e le cause che le scatenano.
E parliamo di un lavoro imponente perché in alcuni casi il processo di oncogenesi è lunghissimo.
Ma, ripeto, occorre tener presente come il registro sia indispensabile anche alle politiche sanitarie e
alle campagne: fa capire come indirizzare le risorse ed evita sprechi di risorse».

http://sfoglia.ilmattino.it/mattino/view.php?
data=20101012&ediz=NAZIONALE&npag=33&file=obj_501.xml&type=STANDARD

Rai, sanzioni a Santoro 10 giorni di sospensione


pubblicata da BERLUSCONI chi è? il giorno mercoledì 13 ottobre 2010 alle ore 10.42

Il provvedimento disciplinare contenuto in una lettera al conduttore, dopo il


"vaffan'bicchiere" in diretta nella prima puntata della stagione, in polemica con il dg Masi

ROMA - Dieci giorni di sospensione e di mancata retribuzione a partire da lunedì 18 ottobre. Sarebbe questo, a quanto si apprende, il contenuto
della lettera consegnata stamattina a Michele Santoro dall'azienda dopo il richiamo delle direzione generale per la puntata d'apertura di Annozero

La tensione fra il conduttore e la direzione era nuovamente salita alle stelle dopo l'affondo di
Santoro in trasmissione contro il direttore generale Mauro Masi (l'ormai famoso "vaffan'bicchiere"),
in seguito al quale lo stesso dg aveva portato il caso in Consiglio e si era riservato di avviare
tempestive azioni disciplinari contro Santoro.
La puntata di domani andrà comunque regolarmente in onda.
13 ottobre 2010
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/13/news/sospensione_santoro-8001802/?ref=HRER1-1

13 ottobre 1913 - Muore fucilato l'anarchico e libero pensatore


spagnolo Francesc Ferrer i Guàrdia (R.I.P.) - 3 fotografie -
pubblicata da Italia Libera Civile E Laica = Italia Antifascista il giorno mercoledì 13 ottobre 2010 alle ore 21.39
13 ottobre 1913

Muore fucilato l'anarchico e libero pensatore spagnolo Francesc Ferrer i Guàrdia (R.I.P.)

Francisco Ferrer Guardia, o più semplicemente come Francisco Ferrer (Alella, 10 gennaio 1859
– Barcellona, 13 ottobre 1909), è stato un anarchico e libero pensatore spagnolo.

« (Taranto) Torquemeda disse ai monarchi : Uccidiamo il Pensiero! FERRER disse ai carnefici: Il


Pensiero non muore. La Scuola Moderna scriverà col mio sangue la vostra condanna. »
(Epigrafe di Mario Rapisardi)

Nato ad Alella, una cittadina nelle vicinanze di Barcellona, da genitori cattolici e agricoltori
benestanti, ben presto dimostrò il suo carattere libertario denunciando il parroco che aveva percosso
sia lui che suo fratello: era stato infatti punito per aver voluto rendere l'ultimo saluto al defunto zio
di idee libertarie che aveva voluto il funerale civile.

A 20 anni divenne controllore per le Ferrovie e approfittò del tempo libero per istruirsi; fu già da
allora che si pose il problema dell'istruzione e dell'educazione come strumenti per l'emancipazione.

Fu un seguace del capo repubblicano Ruiz Zorilla, ma il suo impegno politico gli procurò ben
presto dei problemi perché perse il posto di lavoro per aver aiutato dei rifugiati politici a
nascondersi sul suo treno. Inoltre nel 1885 fu esiliato a Parigi con la moglie Teresa Sanarti e i
quattro figli perché implicato nell'insurrezione di Santa Coloma De Fernet. Ben presto però
intervenne una crisi familiare dovuta sia all'educazione religiosa che la moglie impartiva ai figli in
contrasto con le idee libertarie di Ferrer, sia alla morte di due dei bambini. La crisi sfociò in modo
violento con una revolverata della moglie a Ferrer per costringerlo a fargli dire dove si trovavano gli
altri due bambini superstiti e finalmente divorziarono nel 1899. Ferrer si risposò poco dopo, con una
facoltosa insegnante parigina.

Nel 1901 tornò in Spagna e grazie all'eredità di una sua allieva (per racimolare qualche soldo Ferrer
impartiva anche lezioni di spagnolo) aprì la Escuela moderna per insegnare i valori sociali radicali
ai ragazzi della borghesia. Nel 1906 la scuola contava 1700 allievi distribuiti tra la sede di
Barcellona e le succursali. Quello stesso anno fu arrestato perché sospettato di essere coinvolto
nell'attentato del 31 maggio attuato da Mateo Morral al re Alfonso XIII, ma fu scagionato e
rilasciato nel giugno 1907. Durante la carcerazione la sua scuola, accusata di essere una facciata per
la propaganda anarchica, andò in fallimento e fu costretta a chiudere. Dopo il suo rilascio, scrisse
nel 1908 la storia della Escuela moderna in un libro dal titolo "Le origini e gli ideali della Scuola
Moderna".

Nel 1909 fondò a Madrid e Bruxelles la Lega Internazionale per l'Educazione Razionale. Si recò poi
a Londra per cercare dei testi che rispecchiassero "l'educazione razionale". Il 14 giugno dello stesso
anno tornò dalla sua famiglia per assistere alla morte della figlia di suo fratello.

In seguito alla dichiarazione della legge marziale nel 1909 durante la "Settimana Tragica", una
rivolta scoppiata il 26 luglio quando la popolazione si ribellò alla Guardia Civile che aveva il
compito di far imbarcare i coscritti (per la quasi totalità appartenenti alle classi povere) mandati a
combattere nelle guerra coloniali in Africa.

Ferrer fu arrestato il 31 agosto con l'accusa di essere il fomentatore della rivolta. Sottoposto ad un
processo farsa da parte del tribunale militare, venne condannato a morte con prove artefatte e
fucilato a Barcellona, il 13 ottobre di quell'anno.
Poco dopo la sua esecuzione, nacquero negli Stati Uniti varie "scuole moderne" sul modello di
quella di Ferrer, la prima e più importante delle quali fu costituita a New York nel 1911.

La Escuela moderna

Secondo Ferrer, il fine ultimo della civiltà è la libertà dell'individuo in una società retta da patti
liberi e sempre recidibili. Per realizzare questo fine è necessaria una educazione razionale e
scientifica da impartire fin dall'infanzia, in quanto il bambino non ha idee preconcette e l'educatore
dovrebbe rispettarne la volontà fisica, morale e intellettuale, anche se questo dovesse andare contro
gli interessi dello stesso educatore.

Nella scuola dovevano essere applicati i principi degli ideali sociali e umani di chi disapprovava le
convenzioni e i pregiudizi della società contemporanea a Ferrer.

Il pensiero di Ferrer era caratterizzato anche da un forte anticlericalismo, dovuto anche alla
situazione sociale della Spagna di quel periodo. Per Ferrer la fondazione di scuole libere avrebbe
potuto combattere sia la Chiesa e i suoi privilegi che lo Stato e il suo strapotere sui cittadini-sudditi.

Già dalla rivoluzione del 1868 gli strati più evoluti della classe operaia avevano creato delle scuole
laiche, tentando così di dare un'istruzione diversa ai propri figli. La Escuela moderna si presentava
diversa dalle altre scuole laiche perché aveva un carattere apertamente rivoluzionario, volto ad
emancipare i bambini delle classi povere rifiutando qualsiasi principio di autorità sia da parte dello
Stato che della Chiesa.

La scuola di Ferrer pubblicava anche dei bollettini ai quali collaborarono personaggi illustri del
tempo: il geografo Elisée Reclus, l'astronomo Camille Flammarion, lo scrittore e premio nobel
Anatole France, il filosofo Herbert Spencer, il biologo Ernst Haeckel, l'antropologo Pëtr Kropotkin
e Lev Tolstoj.

Quando gli chiesero da dove gli fosse venuta l'idea di creare la Escuela Moderna egli rispose:
semplicemente dalla scuola della mia infanzia, facendo però esattamente tutto il contrario.

La Memoria di Ferrer in Italia

In diverse città italiane sono presenti lapidi in memoria di Ferrer. A Carrara è presente una lapide
commemorativa di Francesc Ferrer i Guàrdia. La targa, realizzata in marmo bianco, raffigura in
altorilievo il mezzobusto di Ferrer; la lapide si trova nella centralissima Piazza Alberica. Ogni 1° di
maggio gli anarchici commemorano la figura di Ferrer deponendo alla base della targa una corona
di garofani rossi. Altre lapidi sono situate nelle piazze principali di Fabriano (AN), Arcevia (AN),
Novi di Modena (MO) e Campiglia Marittima (LI)a Perugia nella attuale Via Cesare Battisti, a
Brescia in Via del Sebino, a Marino Laziale (RM) in Corso Vittoria Colonna sulla facciata dell'
istituto d'arte e sempre a Marino Laziale vi è anche una strada a lui titolata. Un busto di marmo di
Francesco Ferrer,fatto togliere dal Fascismo ma non distrutto e conservato per molti anni
seminascosto in uno spogliatoio della scuola elementare del paese e ora,dopo molti anni,
nuovamente sul suo vecchio piedistallo,si trova anche a Roccatederighi (GR)

Bibliografia

Codello, Francesco (1995). Educazione e anarchismo. Ferrara: Corso. 1995.


Bertolucci, Franco. "La diffusione del mito di Ferrer nella Toscana prefascista (1909-1922)".
Rivista Storica dell'Anarchismo, 17 (2002), pp. 35-68.
Iurlano, Giuliana (2000). Da Barcellona a Stelton. Ferrer e il movimento delle scuole moderne in
Spagna e negli Stati Uniti. Milano: M&B Publishing. ISBN 88-86083-95-5
Ferrer Guardia, Francisco. La Scuola Moderna. Milano: M&B Publishing.
Ferrer Guardia, Francisco. La Scuola Moderna. Lugano: La Baronata. ISBN 88-88992-00-6
Maurizio ANTONIOLI, Andrea DILEMMI, Jorge TORRE SANTOS (a cura di), CONTRO LA
CHIESA. I moti pro Ferrer del 1909 in Italia
, BFS Edizioni, 2009
Iscrizione su un monumento dedicato a Francisco Ferrer Guardia a Barcellona. L'iscrizione recita: -----BARCELLONA RIPARA CON QUESTO
MONUMENTO MOLTI ANNI D'OBLIO E D'IGNORANZA NEI CONFRONTI DI UN UOMO MORTO PER DIFENDERE LA GIUSTIZIA SOCIALE, LA FRATELLANZA
E LA TOLLERANZA. ----- COMUNE DI BARCELLONA,FONDAZIONE FERRER I GUÀRDIA,13 ottobre 1990
Targa in memoria di Francisco Ferrer nella piazza antistante il municipio di Arcevia, (AN): ---- NELLA BASTIGLIA DI MONTSUICH FRANCESCO FERRER
EDUCATORE E PENSATORE CADDE SOTTO IL PIOMBO DEL RE E DEI GESUITI DI SPAGNA COL GUARDO FISSO NEI SECOLI CHE BENEDIRANNO COL
SANGUE DA UN MERIGGIO RADIOSO DI VERITÀ E GIUSTIZIA. P. GORI

È firmata Feltri l'offesa più grave de Il Giornale


di Giovanni Maria Bellututti gli articoli dell'autore

Se non si trattasse di Vittorio Feltri, che può anche fare di meglio, diremmo che è il livello più basso mai
raggiunto dal giornalismo italiano. Ecco come si conclude l’odierno editoriale de Il Giornale: “Solamente
un cretino poteva immaginare che in quattro mesi la nostra direzione fosse in grado di assorbire 22
milioni e rotti di disavanzo. A proposito, siccome si dice che la mamma dei cretini è sempre incinta,
aggiungeremmo che sarebbe ora che prendesse la pillola (e in certi casi estremi è ammesso persino
l’aborto)”. Accanto, un’enorme fotografia del direttore de l’Unità Concita De Gregorio.

O pillola o aborto, dunque. Questo alla fine di un editoriale intitolato “la signora in rosso” – ancora una
volta il direttore de l’Unità – nel quale Vittorio Feltri si mostra molto risentito per la nostra copertina di
ieri. E, mentre tenta di confutarlo, conferma il titolo che sintetizzava la condizione sua e di Alessandro
Sallusti: “Mantenuti”.

Mantenuti per la precisione dal presidente del Consiglio che, per l’interposta persona del fratello, è il
proprietario di fatto de Il Giornale. Feltri riconosce lo spaventoso deficit (22 milioni nell’agosto dello
scorso anno, scesi a 17 alla chiusura dell’esercizio del 2009). E tenta di far passare la riduzione del deficit
come un attivo di bilancio. Questo “attivo”, a quanto pare, andrà avanti fino al 2011, con un bel rosso di
sette milioni di euro. Cifra allarmante per qualunque giornale, non evidentemente per Il Giornale che
gode di una solidissima rete. Quella rappresentata appunto dalla famiglia Berlusconi che lo mantiene
assieme ai suoi dirigenti.
Questa la premessa alla chiosa dell’editoriale: la madre dei cretini, la pillola, l’aborto. Dove la “madre dei
cretini” è quella che ha partorito chi – il direttore de l’Unità – non ha capito la straordinaria opera di
risanamento del duo Feltri-Sallusti.

Dire “tua madre avrebbe dovuto abortire” è un insulto che viene declinato in varie lingue e in vari dialetti
dell’italiano. Spesso, negli ambienti in cui è in voga, provoca risse sanguinose. Non era ancora accaduto
di vederlo utilizzato in una polemica giornalistica. Feltri questa volta ha superato se stesso. Ma,
ripetiamo, può fare di meglio. Dove non c’è onore non c’è vergogna.
13 ottobre 2010

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Cultura

Saviano: il messaggio di Ken


di Roberto Saviano
Uno scrittore africano scomodo e odiato dalle multinazionali. Giustiziato dal regime nigeriano per le
sue parole di coraggio e libertà. L'autore di 'Gomorra' ha letto il suo diario dal carcere, appena uscito
in Italia. E ne ha tratto un insegnamento che vale in tutto il mondo
(12 ottobre 2010)

Una protesta contro il governo nigeriano


nell'anniversario dell'esecuzione di Saro-WiwaAvrebbe dovuto essere una notizia da prime pagine. Da rimbalzare a tutto
volume dai telegiornali. Una di quelle che fa scrivere migliaia di post nei forum di Facebook. Una notizia che avrebbe
dovuto far fermare il fiato ai lettori più colti e accelerare i battiti cardiaci a quelli più distratti. Una notizia che ti fa capire il
peso specifico dell'impegno, il valore della parola, il terrore del potere, il colore degli affari. Invece tutto passò sotto
silenzio. Nel rullo quotidiano delle notizie, eccone una come altre. Una meno interessante delle altre, perché proveniente
dall'Africa, il continente che genera meno titoli sui quotidiani e meno interesse in assoluto in Italia. Eppure la Shell, la
compagnia petrolifera anglo-olandese, una delle più grandi multinazionali del mondo, veniva rinviata a giudizio per la
morte di Ken Saro-Wiwa e di altri intellettuali nigeriani.

Una multinazionale, uno scrittore. Questa era la notizia (vedi box). Un autore di romanzi, articoli, libri, proclami. Un uomo
pacifico, fragile, solo: dall'altra una multinazionale, tra le più potenti del mondo. Per decenni, organizzazioni
ambientaliste, associazioni politiche hanno cercato di portare in tribunale le multinazionali per i disastri ambientali da loro
provocati, per come hanno sfruttato le risorse della Terra. Non ci sono mai riuscite, ma negli Stati Uniti una avvocatessa
Jenny Green del Center for Constitutional Rights di New York si è appellata a una legge meravigliosa che permette di
processare un'azienda anche se quell'azienda non è americana; è sufficiente che faccia affari in America. Così la Shell è
stata chiamata a rispondere della morte di Ken Saro-Wiwa. L'accusa: avere fatto pressioni sul governo nigeriano perché
eliminasse il disturbo mediatico principale. Non un politico, non un guerrigliero, ma uno scrittore, una persona che
parlava alla gente, un africano e che usava l'arma potente della letteratura, della narrazione. Alla fine la Shell ha evitato il
giudizio e ha pagato. Ha patteggiato dichiarando di non avere colpe, ma ha pagato. Quindici milioni di dollari. È questo,
evidentemente, il prezzo della vita di uno scrittore. Le pagine che questo scrittore ha datto alle stampe hanno raccontato,
facendole diventare universali, le store delle parti di mondo che dovevano restare isolate, se non per un accenno in
cronaca estera di una solita e banale guerra.

Oggi, Ken Saro-Wiwa torna in libreria in Italia con un'opera che racconta la sua prigionia. "Un mese e un giorno.
Storia del mio assassinio" (Baldini e Castoldi). In occasione del 15esimo anniversario della sua esecuzione, avvenuta
il 10 novembre 1995 insieme a quella di altri otto militanti del Mosop (il Movimento per la sopravvivenza del popolo
Ogoni), è stata infatti pubblicata una nuova edizione di questo libro - con la prefazione del Nobel Wole Soyinka - che
contiene il diario del mese e un giorno di detenzione dello scrittore. In realtà si tratta di una vera e propria autobiografia
politica, e anche del suo testamento, nonché di un atto d'accusa rivolto al giudice del tribunale militare che lo aveva
condannato. Nel libro poi ci sono varie lettere: corrispondenza con gli amici, messaggi di cordoglio inviate alla famiglia
da personaggi come Nelson Mandela, Ethel Kennedy, Chinua Achebe, Ben Okri, Harold Pinter, Salman Rushdie, Arthur
Miller, Susan Sontag, Nadine Gordimer. Infine: le commoventi parole scritte dal figlio dopo la morte del padre.
In questo libro è narrato tutto il rapporto tra Ken, uno scrittore, e la sua gente il popolo Ogoni. C'è il racconto di un'Africa
che sceglie la via pacifica per cercare di conquistare i diritti. Ken Saro-Wiwa scrive in questo diario della prigionia: "Ci
hanno fatto questo: hanno trasformato i nostri campi di melanzane rosse e di meravigliosi pomodori in una putrida e
fetida poltiglia". E ancora: "Dopo il massacro della nostra gioventù è arrivata la piaga delle piattaforme petrolifere e altra
morte per i terreni coltivati e per i santuari dove vivono i pesci e quelle eterne fiamme che trasformano il giorno in notte e
avvolgono la terra in finissima fuliggine". Lo scrittore venne arrestato dal regime nigeriano con un pretesto: lo accusano
di aver incitato all'omicidio alcuni avversari del suo Movement for the Survival of the Ogoni People (Mosop). Una balla
che il regime non riuscì mai a dimostrare. Non ci furono verifiche né interrogatori, non ci fu una possibilità reale di difesa.
È un meccanismo solito dei regimi e spesso anche delle democrazie. Quando un intellettuale riesce ad emergere e a
parlare a un gran numero di persone il potere trema, le imprese pure: è come se si trovassero di fronte a qualcuno che
sta svelando come funzionano le cose. E la paura cresce quando si tratta di uno scrittore, che lo sta facendo in modo
pacifico. Le accuse e i consigli sono sempre gli stessi: lo fa per arricchirsi, non seguitelo. E si dice che lo scrittore i suoi
nemici personali li elimina: in fondo è uguale al regime che critica. Tutti uguali, insomma. Saviano: il
messaggio di Ken
di Roberto Saviano (12 ottobre 2010)

Nel libro sono meravigliose e istruttive le pagine con le quali lo scrittore tenta di costruire la propria difesa. Non permisero che le leggesse al processo. Le
cito: "Tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra
generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita
decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali e intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho
dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa
potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale".
L'esecuzione di Ken Saro-Wiwa fu terribile. In Nigeria mancava il know how. I boia non uccidevano da moltissimo tempo. Hanno fatto male il nodo scorsoio
e per quattro volte hanno lanciato il corpo di Ken oltre la botola. Il cappio non gli spezzava il collo ma lo strozzava semplicemente, allora lo ritiravano su. E
lui - è scritto, lo ha testimoniato un poliziotto - ripeteva: "Ma perché mi fate questo? Com'è possibile?" Quattro volte. Alla quinta il nodo ha funzionato.

Era uno scrittore vero Ken Saro-Wiwa. Un autore che con la sua opera voleva svelare al mondo quanto stava succedendo in Nigeria. Nel romanzo
"Sozaboy" ha dato ai suoi lettori un'idea precisa della guerra di Biafra. Le immagini ormai famose dei bambini con il volto scheletrico, il ventre gonfio e le
gambe come stecchini, la vita dei ragazzi soldato, tutte cose che oggi diamo per scontate come tragedie dell'uomo conosciute dagli uomini, è stato lui a
farle scoprire. Èd e lui che è riuscito, attraverso la potenza della letteratura, a diffondere queste storie, a renderle materia di cui si parla. E se il petrolio è il
centro della battaglia letteraria, intellettuale e politica di Ken, occorre ripeterlo, era la parola la sua arma. Oggi i guerriglieri del delta del Niger, che si
identificano con la sigla del Mend (Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger) riferendosi senza citarlo a Ken dicono: "Qualcuno ha usato la parola
ed è stato impiccato". Ecco perché loro imbracciano i fucili: peccato.

La morte di Ken ha significato per la Nigeria la fine della lotta pacifica. Lo scrittore voleva una cosa semplice, che le grandi compagnie petrolifere, la Shell
innanzi tutto, dividessero al 50 per cento i guadagni con chi vive sulle terre che davano i giacimenti petroliferi da loro sfruttati. Voleva che i proprietari
naturali delle risorse che queste terre custodiscono, avessero un modo per vivere meglio grazie a quelle risorse. Non aveva una visione luddista o bucolica
della realtà. Non pretendeva che non arrivasse nessuna trivella, o che ad avere gli appalti dovessero essere delle inesistenti società africane. Era un vero
intellettuale, sapeva benissimo quale era la direzione che aveva preso la storia. Sapeva che l'Occidente aveva i mezzi, e l'Africa le risorse. Non era un
delirante "difendi balene" come chiamava gli ecologisti radicali occidentali. Combatteva perché quel petrolio diventasse cultura: scuola, teatro, stadio,
musica, palazzi, progetti, università. Voleva che quel petrolio fosse vita. E infatti Ken era famoso anche perché era stato autore e produttore della prima e
la più vista sit-com africana, "Basi and Company", che nelle sue intenzioni doveva far conoscere la realtà del Paese a un grande pubblico, divertendo.
Veniva mandata in onda più o meno negli anni in cui in Italia si programmavano "Casa Vianello", "I Robinson", "A-Team", "Miami Vice". Ken faceva paura al
potere perché le sue storie circolavano, perché se ne parlava a Londra, a Parigi, ma soprattutto in Nigeria.
In Italia Ken Saro-Wiwa lentamente sta arrivando a molti lettori. Fortunatamente sempre più italiani scoprono l'immenso talento di questo narratore africano
che scriveva una lingua impastata di suggestioni coloniali, uno slang che se letto in originale inglese, dà la sensazione come se la lingua danzasse tra i
denti e rimbalzasse sul palato. È quasi impossibile tradurla. I bravi interpreti italiani (vedi box) ne rendono spesso bene le sonorità. E allora dobbiamo
ringraziarli. Così come bisogna dire grazie al Teatro degli Orrori, un gruppo che ha dedicato un suo brano allo scrittore, e anche a Socrates il suo primo
editore italiano (pubblicò le poesie "Foreste di Fiori": opera poetica, di primissimo livello). E, infine, grazie a Baldini e Castoldi che ripubblica le sue opere.
Quando finiscono le pagine di "Un mese e un giorno. Storia del mio assassinio", quando terminano le pagine con le lettere che Ken scriveva a Ken junior
suo figlio, torna alla mente una meravigliosa poesia scritta da lui in cella: "La vera prigione", e che il figlio adorava citare. Quelle parole sono la sintesi più
vera di tutta la sua opera.
Eccole:
La vera prigione
Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nell'umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni di cibo
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un'intera generazione
È il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L'inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
È questo
È questo
È questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.

Copyright 2010 by Roberto Saviano / Agenzia Santachiara

IL PRESIDENTE IRANIANO IN VISITA AL CONFINE CON ISRAELE

Ahmadinejad nel Sud del Libano


"Lo Stato ebraico deve scomparire"
Affiancato dai leader di Hezbollah, ha lanciato i soliti proclami: "Il mondo deve sapere che i sionisti sono mortali"
dal nostro inviato ALBERTO STABILE
Una supporter di Ahmadinejad

BINT JBEIL (SUD DEL LIBANO) - Le macerie sono scomparse da Bint Jbeil, uno dei paesi del Sud del Libano che ha maggiormente
subito l'impatto dell'artiglieria e dell'aviazione israeliane durante la guerra dell'estate 2006. Al loro posto, lunghi porticati in perfetto stile
islamico sorreggono edifici nuovi di zecca. Siamo nel cuore di quella che lo stesso Ahmadinedjad avrebbe chiamato la "frontiera
dell'Iran con Israele". La linea di confine più insicura del mondo è ad appena 4 chilometri. Non è per caso che il presidente iraniano
abbia voluto lanciare da qui l'ultimo anatema contro lo stato ebraico: "Il mondo deve sapere che i sionisti sono mortali... Non hanno altra
scelta che arrendersi e ritornare nei loro paesi d'origine".

In realtà, siamo nel regno dell'Hezbollah che da Teheran trae appoggio economico, sostegno militare e nutrimento ideologico nella
condivisone della comune fede sciita. Non soltanto le strade di Bint Jbeil, ma anche quelle di Marun Al Ras, Tbin, Marj Ayun e giù, giù
fino a Nabatyeh sono pavesate con le bandiere gialle del Partito di Dio unite al tricolore iraniano. In arabo e in farsi, Ahmadinejad è il
benvenuto.

Il motivo di questa entusiastica accoglienza è semplice: l'Iran non ha risparmiato nel finanziare la ricostruzione (un miliardo di dollari)
come si deve ritenere che non abbia risparmiato nell'armare le milizie sciite libanesi. Ma gli Hezbollah, contrariamente a quanto avrebbe
fatto la burocrazia di Beirut con gli aiuti
occidentali, ha speso bene i soldi di Teheran. Strade asfaltate, scuole nuove di zecca, servizi efficienti. Con un occhio inevitabile alla
propaganda.

Basta salire alla periferia di Marun al Ras, due chilometri da Bint Jbeil, e appena qualche centinaio di metri dal confine. Il "giardino
iraniano", come si legge nella scritta che campeggia all'ingresso era il luogo da dove, secondo alcuni giornali libanesi e arabi,
Ahmadinedjad, in segno di sfida, avrebbe dovuto lanciare delle pietre verso il territorio israeliano. La notizia è stata smentita in tutte le
salse. Il presidente iraniano da Marus el Ras non c'è neanche passato. Ma il "giardino", un parco giochi costruito dagli architetti di
iraniani a tempo di record è lì a un tiro di schioppo dal confine, a dominare i vigneti della Galinea con una gigantografia di Ahmadinedjad
e un modello in scala ridotta, e tuttavia imponente del Duomo della Roccia, la moschea dalla cupola d'oro simbolo di Al Quds, la
Gerusalemme araba.

Chiediamo a Suleiman, il direttore del parco se anche lui pensa che questa sia la frontiera dell'Iran con Israele. "Questa è la frontiera
del libano - risponde deciso - ma questa frontiera non esisterebbe più da un pezzo se non ci fosse stato l'Iran".

E questo, in sintesi, è quello che pensa la gente del Sud del Libano a proposito dei rapporti che legano Teheran agli Hezbollah, un
specie di catena della sopravvivenza, un cordone ombellicale. Altrimenti non si spiegherebbe come mai decine di migliaia di persone,
donne (non tutte velate), famiglie, anziani si siano riversate nel campo sportivo di Bint Jbeil e nelle strade circostanti, provenienti anche
dalla Valle della Bekaa per applaudire Ahmadinedjad e riservare una salva di buuu al giovane premier Saad Hariri, quando viene
nominato dallo stesso Ahmadinedjad, pur con l'appellativo di "fratello

Naturalmente, Ahmadinedjad, non s'è discostato dalla tattica seguita dal primo momento in cui ha messo piede in Libano, una tattica
che lo ha visto presentarsi come un grande sostenitore "dell'unità del popolo libanese". Perché, in realtà, le sue invettive contro il
"regime sionista" non aggiungono nulla di nuovo alle invettive già pronunciate da tutti i pulpiti. Mentre il pericolo di uno scontro inter
religioso tra sciiti e sunniti, intorno alle risultanze delle indagini sull'attentato che è costato la vita all'ex premier Rafik Hariri, padre del
giovane Saad, è lo spettro che incombe sulla società libanese.
(14 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

VATICANO

Papa istituisce nuovo dicastero


per combattere la secolarizzazione
Monsignor Fisichella presenta la lettera apostolica di Benedetto XVI in cui annuncia la nascita del pontificio consiglio per la nuova
evangelizzazione. "È il momento di dire una parola forte e coraggiosa"
CITTA' DEL VATICANO - "Non rimaniamo in silenzio davanti al distacco di molti fedeli dalla Chiesa" per effetto della secolarizzazione e
della scristianizzazione. "Se forse lo siamo stati davanti a queste situazioni, ora è il momento di riprendere la nostra parola forte e
coraggiosa perché siamo araldi del Vangelo". Così monsignor Rino Fisichella spiega la ragion d'essere del nuovo dicastero di cui è
presidente, il pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, istituito nella lettera apostolica 'motu proprio'
Ubicumque et Semper di Benedetto XVI. Il presule ha ricordato che "i cristiani sono chiamati a essere presenti in politica, nella cultura,
nella scienza e devono dare una testimonianza coerente. I laici, in particolare, possono agire laddove solo loro possono agire".

Tra i compiti specifici del neo pontificio consiglio, Bendetto XVI sottolinea la necessità di "studiare e favorire l'utilizzo delle moderne
forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione". "Dovremo evitare anzitutto - spiega Fisichella - che 'nuova
evangelizzazione' risuoni come una formula astratta. Dovremo riempirla di contenuti teologici e pastorali e lo faremo forti del magistero
di questi ultimi decenni" afferma Fisichella spiegando il primo impegno del neonato dicastero, definito una "provocazione" nei confronti
del mondo contemporaneo. A una domanda di un giornalista sul rischio di "burocratizzazione" del nuovo dicastero, il presidente ha
assicurato che "il Papa non è un uomo della burocrazia, ma dell'annuncio che con profonda intelligenza teologica ha saputo individuare
questo spazio per impegnare la chiesa in un missione concreta". "Questa è la prima garanzia. E io neanche sono un uomo della
burocrazia". Per questo, ha concluso monsignor Fisichella, "non vedo pericoli di burocratizzazione, ma un'azione tipicamente pastorale
del santo padre".

(12 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

L'ANALISI

Trattare con i Taleban


di DANIELE MASTROGIACOMO
I funerali di un soldato americano

Adesso anche la Nato è pronta a sostenere il dialogo con i Taleban. Con un'accelerazione più tattica che strategica, tutti gli attori
presenti sul teatro afgano si allineano a quella che sembra la strada più veloce per cercare una pace possibile e gettare le basi per
un'exit strategy onorevole e non più rinviabile.

Fa impressione registrare la dichiarazione ufficiale del segretario generale della vecchia alleanza atlantica durante il vertice di
Bruxelles, quello chiamato a fissare l'agenda della riunione della prossima settimana a Lisbona quando i paesi impegnati in Afghanistan
decideranno se far prevalere la politica alle armi. Il processo di riconciliazione e pacificazione è un processo "a guida afgana" ha
premesso Andres Fogh Rasmussen, "ma la Nato è pronta a fornire assistenza al dialogo con i Taleban". Di quale tipo di assistenza non
viene precisato. Ma i corsi e ricorsi della storia ci hanno insegnato che anche l'impossibile alla fine si può realizzare. Se fino a qualche
mese fa parlare solo di dialogo con gli studenti coranici equivaleva ad un'eresia, in queste ore si arriva a ufficializzare una trattativa
iniziata in gran silenzio in Arabia Saudita e proseguita con l'aiuto di emissari, capi clan, signori della guerra, vecchi saggi nelle scorse
settimane.

Hamid Karzai sembra incassare un importante risultato. Forse il primo da quando è stato eletto nuovamente alla guida del paese.
Ha fortemente voluto la nascita di una Commissione, composta da settanta personalità influenti e di spicco dell'Afghanistan, per avviare
un dialogo di pace con gli insorti. E' stato osteggiato a lungo. Dagli stessi Taleban che non hanno esitato a lanciare una selva di razzi
mentre si svolgeva l'assemblea costituente a Kabul. E dalle forze Isaf, ma soprattutto Usa, alle prese con una doppia esigenza: cercare
una soluzione militare in un momento di grande difficoltà sul terreno, giustificare un dialogo con responsabili di oltre 800 militari uccisi in
dieci anni di guerra. Ma alla fine ha prevalso la real politik. Tutti, con molti distinguo e tante perplessità, hanno dovuto accettare l'unica,
apparente soluzione ad una disfatta imminente. Gli stessi Taliban cedono alle pressioni dell'Arabia Saudita. Per la prima volta non
hanno replicato all'ennesimo appello al dialogo di Karzai. Non c'è stata alcuna reazione, non è stato respinto al mittente il messaggio
conciliante. Il silenzio è stato interpretato come un nuovo segnale di disponibilità.

Restano, sullo sfondo, le dichiarazioni roboanti di alcuni capi militari dei Taliban. Reazioni scontate che rispondono più a interessi di
bottega, agli equilibri interni alla Shura di Quetta, l'organo esecutivo del Movimento degli studenti coranici, che a una strategia
complessiva. La data dell'inizio del ritiro delle truppe Usa resta confermata. A fine agosto 2011 mancano poco più di dieci mesi: il tempo
necessario per mettere a punto un accordo tra Taleban e governo centrale di Kabul e avviare un processo di pace su cui nessuno, per il
momento, è in grado di scommettere. L'ex presidente afgano Burhanuddin Rabbani, attuale capo della nuova Commissione per la
conciliazione, si dice fiducioso. "I Taleban hanno posto alcune condizioni per iniziare il processo di pace", ha spiegato, "questo ci ha
dato la speranza che vogliono dialogare e negoziare. Stiamo facendo i primi passi. Credo che ci siano persone tra i Taleban che
vogliono il dialogo. Loro sono pronti".
Tra le condizioni posti dagli insorti c'è ovviamente la sospensione delle operazioni militari. Il segretario generale della
Commissione, Mashsoom Stanikzai lo ha spiegato chiaramente. "Il sostegno della Nato al processo di pace è essenziale. Deve
sospendere le operazioni militari in una regione dove gli insorti sono pronti a negoziare". Ma i 15 ministri degli Esteri e della Difesa della
Nato hanno comunque deciso di appoggiare la decisione del Consiglio di sicurezza che estende per un anno la missione della Forza
Internazionale di assistenza e per la Sicurezza (Isaf) in Afghanistan. L'ala dura dei Taleban, quella contraria ad ogni forma di dialogo,
ne ha approfittato per stigmatizzare la decisione. "Rinnovare il mandato", hanno fatto sapere, "significa gettare benzina sul fuoco. Il
Consiglio di sicurezza dovrebbe lavorare per mettere fine alla guerra e all'occupazione. Solo in questo modo ritroverà la sua credibilità
perduta e salverà gli afgani dalla angosce di una guerra ingiustificata".

Il momento è delicato e decisivo. Le dichiarazioni restano contrastanti. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha offerto una mano. "Se
guardiamo ai conflitti in giro per il mondo", ha detto in un'intervista alla Abc, ", non si fa la pace con i propri amici": Ma non ha nascosto
il suo scetticismo: "Stiamo assistendo al tentativo da parte dei combattenti di livello più basso di lasciare la battaglia. Ma credo che sia
molto improbabile che la leadership talebana che ha rifiutato di consgenare Bin Laden nel 2001 possa mai partecipare alla
riconciliazione". Robert Gates, segretario alla Difsa, si è spinto oltre: "Siamo consapevoli che il processo di riconciliazione è una parte
della soluzione. faremo tutto quello che possiamo fare per sostenere questo processo".

La Nato continuerà con le sue incursioni e i suoi bombardamenti "mirati". Si colpiranno i santuari di al Qaeda e dei gruppi più
ostici tra i Taleban. Il Pakistan vuole fare la sua parte. Non ha nessuna intenzione di uscire dalla partita. Con la sua strategia ondivaga
fatta di incursioni armate e di consigli, discreti, al vertice dei Taleban. Oggi il capo dell'esercito di Islamabad, Ashfaq Pervaiz Kayani, si
dice pronto a "sradicare i terroristi nel nord Waziristan": un modo di colmare le gravi accuse dei giorni scorsi che vedevano il Pakistan
agire in combutta con gli insorti. La partita è in pieno svolgimento. Ma non è escluso che presto vedremo trasportare con gli aerei della
Nato una delegazione di Taleban, avvolti nei loro turbanti neri, a Kabul. E magari scoprire che gli stessi marines, finora impegnati in
battaglie furibonde, costretti a contare sempre più morti, verranno spiegati attorno al palazzo presidenziale per difendere la trattativa
finale.
(14 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

Un socialismo da definire insieme senza dogmi e preconcetti.


Lettera aperta del gruppo di Volpedo al congresso di SeL
pubblicata da Giovanni Scirocco il giorno sabato 16 ottobre 2010 alle ore 11.08

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Un socialismo da definire insieme senza dogmi e preconcetti


Gruppo di Volpedo, 15 ottobre 2010, 14:31
Dibattito a sinistra Lettera aperta del gruppo di Volpedo a Sinistra Ecologia Libertà in
occasione del suo primo congresso (Firenze 22-24 ottobre 2010)
<!-- -->

Care compagne e cari compagni di Sinistra Ecologia Libertà Il Gruppo di Volpedo saluta il vostro
Congresso, e desidera porgervi i più sinceri auguri di proficuo e buon lavoro. Il Gruppo di Volpedo
è una rete di associazioni; ovvero un coordinamento di circoli di ispirazione socialista e libertaria
dell'area del Nord Ovest d'Italia.Il nome del Gruppo deriva dal fatto di avere scelto come propria
sede sociale e come luogo di riferimento il paese dei colli tortonesi, Volpedo appunto, ove nacque,
operò e morì il pittore Giuseppe Pellizza (alias Pellizza da Volpedo), l'autore dei celeberrimi quadri
"Quarto Stato" e "La Fiumana", icone mondialmente conosciute del Socialismo e del movimento
dei lavoratori.Nelle associazioni, che fanno del Gruppo, militano e lavorano compagne e compagni
non iscritti ad alcun partito, accanto ad altri iscritti al PD, al PSI e a SEL, e insieme con attivisti
sindacali e semplici cittadini interessati ad un lavoro di elaborazione e di impegno politico-
culturale. Uno degli aspetti precipui del Gruppo - così come si può ricavare dall'Appello di Volpedo
del 2008 e dal Manifesto del Gruppo di Volpedo del 2009 - risiede in ogni caso nell'individuazione
del Socialismo Europeo come una prospettiva, cui doversi necessariamente riferire e rapportare.
Questo convincimento nasce essenzialmente da due considerazioni: la prima è che l'Europa
costituisce ormai un orizzonte politico imprescindibile, per cui si rende sempre più necessario, ed
anzi indispensabile, immaginare forme di iniziativa politica che superino la dimensione prettamente
nazionale.
I tempi ci pongono, infatti, sempre più nitidamente alle prese con problemi economici, sociali e
ambientali che non possono più trovare una soluzione soltanto all'interno dei singoli Stati, ma
richiedono viceversa lo sforzo di mettere in atto politiche di più ampia portata. Da qui nasce una
duplice esigenza : da un lato quella di dare un forte impulso alla costruzione di un'Europa dei
cittadini, con un vigoroso potenziamento degli istituti democratici comunitari, e la creazione di un
vero Stato federale Europeo, e dall'altro quella di dover pensare necessariamente anche a forme e
contenitori politici di dimensione non più soltanto nazionale, e dunque alla creazione di veri e
propri partiti europei.In Europa le forze di Sinistra democratica e riformatrice si riconoscono
principalmente nel Socialismo europeo e nel PSE. Se in anni passati diversi partiti socialisti,
laburisti e socialdemocratici europei hanno, in effetti, indugiato, talora anche con eccessiva
baldanza, verso suggestioni di impronta neo-liberista, oggi è in corso un rapido processo di
riposizionamento. Il Congresso di Praga del PSE dello scorso anno ne ha dato un primo evidente
segnale, al quale hanno fatto seguito la svolta a Sinistra della SPD e l'importante documento
congiunto SPD-PSF, dello scorso luglio per non parlare della recente Conferenza dei Laburisti
inglesi. La Sinistra italiana dovrebbe impegnarsi a partecipare e contribuire a questa evoluzione
politica, e invece sembra optare per non decidere, quasi fosse prigioniera in una sorta di alterigia
autoreferenziale.
Noi del Gruppo di Volpedo pensiamo che per la Sinistra italiana vi sia la necessità di rapportarsi al
Socialismo europeo, non come momento burocratico e formale di adesione al PSE, ma come scelta
di un rapporto politico con esso e con i suoi partiti. Per una sinistra italiana degna di questo nome,
che voglia essere forza di governo e, quindi, intervenire sugli assetti e le politiche europee
diventano prioritari il confronto e la collaborazione con il Socialismo Europeo, (anche se non
esclusivamente con esso), per prendere parte e contribuire ai fermenti che in esso si stanno
manifestando.Ci sembrerebbe importante se queste valutazioni fossero condivise anche da SEL o
che, comunque si aprisse un confronto sul punto, affinché il vostro Congresso riuscisse a prendere
su questo tema delle posizioni chiare di apertura al dialogo.

La Sinistra italiana, peraltro, appare, in questo momento, indiscutibilmente come la più debole d'Europa. Questa
condizione di debolezza - che coinvolge in realtà anche le altre forze d'opposizione - è tanto più preoccupante
perché l'avversario non è una normale Destra conservatrice, che non ponga problemi di affidabilità democratica,
ma è viceversa un populismo becero, con tratti xenofobi e intolleranti, e con un leader svincolato da ogni lealtà
costituzionale ogni volta che sente minacciato il suo potere e i suoi personali e materiali interessi, Così, mentre
gli interessi generali del Paese, quelli delle parti più svantaggiate e deboli della società e quelli relativi ai diritti
individuali e collettivi sono sostanzialmente ignorati o calpestati, dilagano inquietanti pulsioni intolleranti e
razziste, si diffonde un clericalismo, che in forme così vistose non si era mai manifestato nella storia dell'Italia
unita, e proliferano l'affarismo e i poteri criminali.Proprio per questo bisogna che la sinistra italiana apra una
stagione di dialogo al suo interno per ripristinare legalità, laicità dello stato, modello di economia mista, difesa
di stato sociale e beni e servizi pubblici.

SEL celebra dunque il proprio Congresso in uno dei periodi più difficili e instabili del nostro
sistema politico. Le degenerazioni sono sotto gli occhi di tutti, ed evidenti sono i rischi di una
crescita esponenziale dell'antipolitica e di disaffezione verso le istituzioni e le procedure
democratiche. Né meno vistose appaiono le insufficienze ed i limiti delle opposizioni parlamentari,
il che pone con tanta più urgenza il problema di una ridefinizione e di un rilancio della Sinistra.
SEL è certamente uno dei soggetti politici (anche se non può presumere di essere il solo a nostro
modo di vedere) su cui incombe l'onere di farsi carico di tale rilancio.E' un compito non facile, per
quanto concerne SEL, soprattutto in considerazione del fatto che ad esso si aggiunge evidentemente
anche la sfida di dover amalgamare le storie diverse dei soggetti costituenti di Sinistra Ecologia e
Libertà.Tra questi soggetti non si riconosce, però, a differenza della Linke tedesca, una consistente
componente socialista, e in questo a noi pare di cogliere un limite serio. Sinistra e Libertà,
quell'alleanza plurale che si era immaginata in occasione delle elezioni Europee del 2009, si era in
effetti proposta come il possibile embrione di un innovativo soggetto politico della Sinistra italiana.
Era l'idea, a nostro avviso feconda, di una Sinistra, nuova, ampia, aperta e plurale. Quel progetto
non è purtroppo decollato, come hanno poi dimostrato, nel loro complesso, le vicende delle elezioni
regionali di appena un anno dopo.
Il fatto che quell'idea sia stata abbandonata non può essere un dato di cui rallegrarsi, poiché
l'appannarsi della prospettiva di un'aggregazione di quel tipo ci pare abbia costituito un'occasione
perduta (l'ennesima occasione perduta nella storia della Sinistra italiana).Oggi, è certamente
possibile andare alla ricerca delle responsabilità maggiori o minori di questa o di quella
componente, o di questo o quel gruppo dirigente. Farlo sarebbe forse un opportuno lavoro di
chiarezza. Sarebbe, tuttavia a nostro avviso, anche un esercizio di critica politica in definitiva
piuttosto sterile. e nella situazione attuale non essenziale. A noi sembrerebbe viceversa prioritario
che ciascuno facesse la propria parte per creare una nuova occasione da non mancare. Si dovrebbe
cioè fare uno sforzo comune per realizzare le condizioni e i presupposti, perché anche in Italia, così
come nella maggioranza dei paesi europei, possa affermarsi una forza di Sinistra in grado di
competere per la guida del paese con propri uomini e donne, e con propri programmi,
democraticamente legittimati in libere competizioni elettorali.La scelta di Firenze, come sede di
questo Congresso, ci pare da questo punto di vista altamente simbolica. Firenze è la città in cui nel
1998 si tennero gli Stati Generali della Sinistra, che avrebbero dovuto dar vita ad un partito del
Socialismo Europeo anche in Italia. Purtroppo è stata anche la città in cui tale progetto è stato di
fatto seppellito, dopo che l'ultimo Congresso dei DS sancì la fine di quel partito ed il suo
scioglimento nel PD. Ora Firenze potrebbe forse essere il luogo di una ripartenza o di "un nuovo
inizio".
Certo, Socialisti e Comunisti non sono più, oggi, le uniche componenti della Sinistra italiana e,
forse, se si guarda ai risultati elettorali dei partiti, che nel loro nome o logo espressamente si
richiamano a quelle esperienze, non sono neppure le due realtà più importanti. Socialisti e
Comunisti incarnano, però, indiscutibilmente due tradizioni politiche assai significative e cariche di
storia, dalle quali non si dovrebbe prescindere..Sono tradizioni che nel corso del Novecento si sono
anche aspramente contrapposte, ma che proprio per questo richiedono - oggi - di poter essere
superate. Finché cioè si useranno le parole "Comunista" e "Socialdemocratico" come epiteti
reciprocamente ingiuriosi, finché non si farà uno sforzo intenso e profondo di aggiornamento
culturale, non si faranno in realtà passi avanti, perché alle già grosse difficoltà politiche e
programmatiche si aggiungeranno gli strascichi di un improduttivo arroccamento identitario.Il
superamento delle antiche contrapposizioni della Sinistra del secolo XX appare dunque un obiettivo
necessario per costruire una Sinistra che sia davvero all'altezza delle sfide del secolo XXI.
Naturalmente, superare le divisioni del Novecento, non significa dimenticarne o rimuoverne le
ragioni di fondo.
Sarebbe difficile ad esempio negare che il Comunismo, come sistema politico, e come modello
economico-sociale, che pretendeva di proporsi come un Socialismo realizzato anzi l'unico
realmente esistente, sia sostanzialmente fallito, anche in paesi come Cuba, che pure avevano
suscitato tante speranze e avevano inizialmente lasciato presagire un diverso esito. La stessa
constatazione non si può certo estendere in modo altrettanto radicale al Socialismo Democratico,
che ha avuto certamente dei limiti e delle insufficienze, ma che nel contempo ha dato corso a grandi
realizzazioni sul piano della creazione di avanzati sistemi di welfare, della riduzione delle
diseguaglianze e della redistribuzione delle ricchezze, senza mai rinunciare alla democrazia e senza
intaccare le grandi conquiste delle libertà "liberali". Semmai ai partiti socialisti democratici europei
si può rimproverare di non essersi sempre attenuti ai loro principi, quindi una critica politica anche
dura, per la loro arrendevolezza nei confronti della deriva liberista dell'ultimo ventennio, ma non
certamente una critica di principio all'esperienza di coniugare welfare, libertà e democrazia.
Nel ricomporre le lacerazioni del XX secolo si tratta dunque, evidentemente, anche di soppesare e
valutare con ponderatezza ciò che la storia del Novecento ha ripetutamente proposto e dimostrato.
Soprattutto si tratta di operare un profondo aggiornamento e arricchimento culturale e progettuale,
che muova dall'assunzione piena e consapevole di altri più recenti filoni ideali: dall'ambientalismo
al femminismo, dal pacifismo alle lotte per l'estensione dei diritti civili e umani, politici e sindacali,
per non parlare dell'apporto del liberalismo democratico e progressista (radicale in politica ed anti-
monopolista in economia).
E' questa una sfida che riguarda l'intero Socialismo Europeo, ma è anche una sfida che investe
appieno la Sinistra italiana e che dunque investe direttamente anche il vostro congresso. L'auspicio
che si formula è che SEL dunque sappia cogliere quest'opportunità, e che questo Congresso non
diventi un altro momento di autoreferenzialità identitaria, ma segni viceversa l'inizio di un percorso
di costruzione di quella Sinistra ampia, rinnovata e plurale di cui si avverte indubbiamente il
bisogno. Una sinistra unitaria e plurale non può essere una sinistra senza aggettivi, anzi deve averne
molti, per raccogliere donne e uomini, di diversa provenienza e esperienza, che decidono di
diventare compagne e compagni perché ritengono, che un mondo migliore è possibile, un mondo
dove ogni cosa, compresi i sentimenti, non sia ridotta a merce, ed ogni comportamento non sia
dettato dal profitto o dall'interesse personale. Per noi questa società diversa, di là dei nominalismi, è
il socialismo: un socialismo da definire insieme senza dogmi e preconcetti.
Economia sommersa, illegale e criminale

di Franco Archibugi, Alessandro Masneri, Giorgio Ruffolo e Elio Veltri

La classificazione congiunta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e dell’Ufficio di


Statistica della Commissione europea (Eurostat) distingue le varie componenti dell’economia
non direttamente osservabile in: economia sommersa (economia legale che sfugge al controllo
e alle rilevazioni della pubblica amministrazione a causa dell’evasione fiscale – il cosiddetto
“sommerso d’impresa” – nonché della mancata osservanza della normativa previdenziale e
giuslavoristica, ovvero il “sommerso di lavoro”); economia illegale e criminale (attività di
produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione e possesso sono proibite dalle norme
penali ovvero svolte da personale non autorizzato); economia informale (attività legali svolte su
piccola scala con rapporti di lavoro basati su relazioni familiari o personali e scarsa divisione
dei fattori produttivi, capitale e lavoro).

L'economia sommersa

La dimensione dell’economia sommersa in Europa viene stimata fra il 7 per cento e il 16


percento del Prodotto interno lordo (PIL) degli stati membri (dal 5 per cento dei paesi
scandinavi e dell’Austria al 20 per cento dell’Italia e della Grecia).
La stima più contenuta dell’economia in nero viene fornita dall’ISTAT che la valuta per l’anno
2006 tra il 15,3 e il 16,9 del PIL con un’evasione fiscale di circa 110 miliardi di euro e
contributiva di circa 50 miliardi, e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che indicava il
gettito delle imposte perdute pari al 7 per cento del PIL, l’evasione contributiva al 10 per cento
ed il valore aggiunto dell’economia sommersa al 18 per cento. Altri – come il professore
Friedrich Schneider, economista dell’Università di Linz – la valutano, in linea con il Fondo
Monetario Internazionale, pari al 26,2 per cento circa del PIL.
Il Fondo Monetario Internazionale ha analizzato per gli anni 1999-2001 l’incidenza del
sommerso sul PIL in 84 paesi. Tra i paesi dell’OCSE l’Italia occupava il secondo posto con un
incidenza del 27 per cento, dopo la Grecia, a fronte di paesi come gli USA, Austria, Svizzera la
cui incidenza non superava il 10 per cento, di altri come Russia, Bulgaria collocati tra il 30 e
40per cento e Nigeria, Thailandia, Bolivia con oltre il 70 per cento. Rispetto ai paesi OCSE, nei
quali negli ultimi 10 anni il sommerso è stato pari al 15-20 per cento del PIL, il sommerso
italiano supera la media di oltre il 60 per cento.
L’Eurispes nel 2007 dava valori ancora più elevati: 549 miliardi di euro equivalente alla somma
del PIL di Finlandia (177 mld), Portogallo (162 mld), Romania (117 mld) e Ungheria (102 mld),
con una integrazione in “nero” del reddito familiare pari a circa 1.330 euro mensili e ne
individuava la cause nella insufficienza e permissività dei controlli, nell’eccesso di
burocratizzazione e regolamentazione, nella struttura industriale fatte di piccole e micro-
aziende.
Il 19 dicembre 2007 in una videoconferenza nazionale, Mario Notaro, chiamato a Roma nel
2004 da Roberto Maroni (allora Ministro del Welfare) per rimettere in sesto il servizio ispettivo
del ministero, ha dichiarato: «Dal 2005 al 2007 sono state ispezionate 846 mila aziende e oltre
522 mila sono risultate fuori regola con oltre il 61 per cento di irregolarità; sono stati trovati
534 mila lavoratori sotto-inquadrati, 337 dei quali in nero».
Il 12 aprile 2010 Sergio Rizzo cita una stima di Kris network of business ethics pubblicata nel
corso del 2008 che valuta l’evasione fiscale italiana in 300 miliardi di euro, una quarantina dei
quali ascrivibili alla criminalità organizzata, «compatibili con le gigantesche proporzioni
dell’economia sommersa del nostro Paese».
L’ultimo aggiornamento è dell’Ufficio Studi della Confindustria, coordinato da Luca Paolazzi. I
ricercatori dell’CSC nello studio pubblicato il 13 Settembre 2010 scrivono: «C’è una parte
dell’economia italiana che non ha subito recessione: il sommenso». In effetti di tratta di un
incremento di almeno tre punti di PIL rispetto ai dati Istat con un balzo che raggiunge nel 2010
il 20 per cento del Prodotto interno lordo e una pressione fiscale effettiva ben oltre il 54 per
cento del PIL, pari a più di 125 miliardi di euro, l’evasione più elevata in Europa.

Conseguenze

Secondo uno studio della Banca d'Italia, «L’uscita dall’economia legale delle imprese determina
una riduzione delle entrate dello Stato, il quale a sua volta dovrà decurtare i servizi pubblici
ovvero aumentare la pressione fiscale, riducendo ulteriormente l’incentivo a permanere
nell’economia legale. Il sommerso contribuisce al non corretto funzionamento dei mercati di
beni e servizi e del lavoro, introducendo una distorsione della concorrenza all’interno del paese
e tra i paesi e favorisce i legami tra attività criminali e attività legali. Nuoce ai lavoratori
coinvolti, che rimangono privi di protezioni e garanzie…» (Roberto Zizza, Metodologie di stima
dell'economia sommersa: un'applicazione al caso italiano, dicembre 2002).
In effetti, dal momento che una parte consistente della ricchezza prodotta sfugge a qualsiasi
controllo dello Stato, è necessario distinguere tra pressione fiscale “apparente” e pressione
fiscale effettiva. La distinzione, necessaria, è tra l’enorme quantità di economia sommersa
“legale” che viene computata nel PIL dei singoli Paesi e quella illegale e criminale che ne resta
fuori perché, essendo la valutazione molto difficile, rischierebbe di stravolgerne i dati effettivi.
Rischio che l’Europa non vuole correre perché i contributi dei singoli Paesi all’Unione sono
calcolati sul PIL.
Ora, mentre la pressione fiscale “apparente” si aggira sul 42 per cento ed è nella media
europea, la pressione fiscale effettiva – dovuta all’economia sommersa e a quella criminale –
per chi le tasse le paga è superiore di circa 8-10 punti percentuali.
Secondo il Centro Studi Investimenti Sociali (Censis) nel 2006 la prima oscillava tra il 40 e il 44
per cento come in Francia ed in Germania, la seconda era pari al 50,4 per cento e cioè la più
alta in Europa. Secondo le stime 2007 dell’Eurispes «a fronte di una pressione ufficiale tra il 42
per cento ed il 43 per cento, si sarebbe avuta una pressione effettiva, sui contribuenti che
versano regolarmente le imposte, oscillante tra il 52 per cento ed il 53 per cento».
La stima dell’Eurispes è confermata da Francesco Giavazzi il quale sul “Corriere della Sera” del
26 agosto 2009 scrive che la «pressione fiscale effettivamente subita da chi non evade è
maggiore di quella ufficiale di circa 11 punti».
Per cui, nel mettere mano alla riforma del fisco, sembrerebbe necessario e doveroso tenerne
conto, affrontando contestualmente il problema di circa un terzo della ricchezza prodotta che
non rispetta le leggi dello Stato o, come quella criminale, viola il codice penale.

Le opinioni degli italiani

Secondo l’indagine campionaria condotta nel 2004 dall’Eures, tra i principali motivi che portano
il cittadino ad evadere le tasse vengono indicati: l’elevato livello di imposizione fiscale (60 per
cento); la scarsa cultura della legalità fiscale e contribuiva (35,3 per cento); i controlli troppo
blandi degli organi competenti (33,6 per cento); i condoni fiscali (16,4 per cento).
Come si vede sono tutte indicazioni di carattere politico e quindi gli interventi non possono
essere tecnici. Il Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a sua volta sottolinea che tra le cause
dell’evasione fiscale c’è anche «l’asimmetria tra una economia largamente diffusa sul territorio
e una macchina fiscale che è invece totalmente accentrata» (“Il Sole 24 Ore”, 24 maggio
2008).

Dimensioni dell’economia criminale-mafiosa


Il metodo più usato per calcolare le dimensioni dell’economia criminale-mafiosa è il Currency
demand approach, che calcola il rapporto tra il denaro circolante e le transazioni che
avvengono in contanti.
In un recente articolo de “Il Sole 24 Ore” il sommerso complessivo in Italia equivale a 420
miliardi di fatturato, di cui 170 riguardano l’economia mafiosa e al suo interno, al primo posto,
il ricavo del traffico di stupefacenti. D’altronde, il Return of Investiment (ROI) della cocaina è di
1 a 3. E cioè su 1.000 euro di cocaina la prima settimana se ne guadagnano 3.000, la seconda
9.000, la terza 27.000, ecc. Nessuna attività imprenditoriale ha guadagni di questo tipo. Il
volume dei traffici di droga è in costante espansione a causa dell’aumento contestuale
dell’offerta dovuta all’aumento della produzione e della domanda dei cittadini-consumatori, che
in Italia superano il milione. Gli arresti e i sequestri di ingenti quantità di droga non cambiano la
situazione perché – afferma il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso – «il ricambio dei
trafficanti è assicurato con prontezza, le cosche dispongono di personale umano inesauribile,
non necessariamente associato, anzi, preferibilmente esterno e sfuggono quasi sempre i
meccanismi e le procedure di pagamento, gli intermediari di cui si servono, i canali di
riciclaggio dei profitti» (25 febbraio 2010).
Pietro Grasso, sottolinea che «l’attenzione è puntata sul reato di detenzione della droga, sicché
l’operazione si ritiene conclusa con il sequestro delle quantità di droga detenute da uno o più
spacciatori, con il loro arresto, mentre poca o nessuna attenzione viene dedicata alla ricerca
della “rete” degli organizzatori, finanziatori, fornitori». Invece, sarebbe necessario «individuare
i canali di rifornimento, individuare e neutralizzare i canali del riciclaggio e tutto ciò a livello
internazionale o quanto meno europeo».
Il fatturato annuo delle mafie italiane, valutato da organismi diversi, si aggira all’incirca sui
170-180 miliardi di euro ed è uguale alla somma del PIL di Estonia (25 mld), Romania (97 mld),
Slovenia (30mld) e Croazia (34 mld).
Un rapporto del Censis (realizzato per la Commissione Parlamentare Antimafia) rileva in quattro
regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Campania e Calabria) presenza mafiosa in 610 comuni con
una popolazione di 13 milioni di abitanti pari al 22 per cento della popolazione italiana e al 77
per cento della popolazione delle 4 regioni. A questo 22 per cento corrispondono il 14,6 per
cento del PIL nazionale, il 12,4 per cento dei depositi bancari ed il 7,8 per cento degli impieghi.
Nel 2007 il PIL pro capite delle quattro regioni interessate era il più basso del mezzogiorno
mentre il tasso di disoccupazione era il più alto. I dati smentiscono l’ipotesi, ancora
caldeggiata, secondo la quale la mafia, investendo il denaro illecito nel Sud, ne favorirebbe lo
sviluppo. Nella relazione a commento dell’indagine Censis, il Presidente della Commissione
Parlamentare Antimafia, Giuseppe Pisanu, ha sottolineato che «In Italia a 150 anni
dall’unificazione nazionale, il divario Nord e Sud, invece di attenuarsi, aumenta. Mentre Berlino
risorgeva come una splendida capitale, Napoli affogava nell’immondizia». Inoltre, «nelle aree
svantaggiate della Germania e della Spagna gli investimenti pubblici complessivi sono stati in
tutti questi anni costantemente superiori a quelli delle aree più dinamiche».
Il Ministro dell’Interno Roberto Maroni, a margine di un convegno organizzato da Aspen
Institute a Milano ha affermato: «Il Fondo Monetario Internazionale stima che l'attività di
riciclaggio del denaro mafioso sia in Italia di 118 miliardi di euro. Il denaro pulito, al netto della
spesa di riciclaggio, è di circa 90 miliardi di euro» (3 maggio 2010).
La mafia S.p.a. è la prima azienda italiana per fatturato e utile netto e una delle più grandi per
addetti e servizi. Il solo ramo commerciale della criminalità mafiosa e non, che incide
direttamente sul mondo dell’impresa, ha ampiamente superato i 92 miliardi di euro anno. Così
ogni giorno una massa enorme di denaro passa dalle mani dei commercianti e degli
imprenditori italiani a quelle dei mafiosi: qualcosa come 250 milioni di euro al giorno, 10 milioni
l’ora, 160.000 euro al minuto.
La mafia è diventata una grande impresa multinazionale che opera nell’economia globale
esattamente come una qualsiasi multinazionale. Non ha più bisogno di uccidere perché
corrompe e compra.
In periodi di crisi economico-finanziaria – quale quello che stiamo vivendo – «le imprese hanno
difficoltà a stare in piedi e ci sono situazioni di difficile accesso al credito» mentre, osserva il
Presidente di Confindustria Sicilia, «le organizzazioni mafiose trovano un terreno fertile e
possono entrare in una relazione devastante con gli imprenditori. In un momento di crisi, di
restrizione di credito (credit crunch), a maggiore ragione tutti noi dobbiamo vigilare con molta
attenzione, perché queste condizioni rendono più facile l'accesso delle imprese mafiose alle
imprese legali».
Negli ultimi tempi in molte città italiane del centro e del nord sono stati sequestrati beni per
decine di milioni di euro. Il caso più significativo è quello di Modena dove il Procuratore della
Repubblica, Vito Zincani, rivolto ai modenesi ha dichiarato: «Se per magia avessi il potere di
sradicare il crimine dalla città, mi caccereste perché l’avrei rovinata».
A Modena 600 aziende sono in odore di mafia. E a Milano? In una mappa pubblicata dal
“Corriere della Sera” la città appare circondata da cosche della 'Ndrangheta di cui è
certamente la capitale.
In uno studio condotto dal Senatore John Kerry con la collaborazione dell’Università di
Pittsburgh, diventato successivamente un rapporto al Congresso degli Stai Uniti e poi un libro
(The new war. The web of crime that threatens America's security, ignorato in Italia), l’ex
candidato alla Casa Bianca esamina il rapporto mafia-economia e mafia-democrazia delle
cinque mafie più potenti del mondo (cinese, giapponese, russa, italiana, sudamericana) e
conclude affermando che esse costituiscono la terza potenza economica mondiale, capaci di
stravolgere le regole del mercato e di condizionare fortemente l’economia legale e la
democrazia. Per quanto riguarda le mafie italiane (indicate come mafia) Kerry sottolinea che
«per assicurarsi protezioni ad alti livelli i mafiosi italiani si concentrano sui politici, comprano
numerosi ufficiali di grado elevato e corrompono politici di altri paesi. Inoltre sono rispettate
perchè hanno fornito alle altre il know how».
Il 30 maggio del 2008, prima di lasciare la Casa Bianca, George Bush ha inserito la 'Ndrangheta
nella lista nera delle organizzazioni “canaglia” istituita con il Kingpin Act del 1999. La notizia è
clamorosa ma anch’essa ignorata in Italia.
Secondo i dati accertati da una società olandese, la Inter Risk Management, che si occupa di
riciclaggio, all’inizio del terzo millennio il PIL della criminalità organizzata ha toccato i 1.000
miliardi di dollari, cifra superiore ai bilanci di 150 paesi membri dell’ONU.
«La battaglia contro le mafie è una battaglia di libertà, anzi una guerra di liberazione».
L’affermazione è del Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Giuseppe Pisanu, il
quale aggiunge: «Ogni anno si riversano sul paese fiumi di danaro sporco che inquinano
l’economia, insidiano la vita pubblica e infangano la nostra reputazione nel mondo. Non a caso
ci troviamo in posizioni umilianti nelle graduatorie mondiali sulla corruzione, le libertà
economiche e gli investimenti stranieri». I beni consolidati delle mafie italiane vengono stimati
1.000 miliardi di euro. La loro confisca risolverebbe il problema del debito pubblico. Ma i
sequestri vanno a rilento e costituiscono il 10 per cento dei patrimoni mafiosi e di questi solo la
metà arriva a confisca. Il che significa che finora è stato confiscato solo il 5 per cento dei
patrimoni, di cui una parte consistente non è stata nemmeno assegnata. Per cui «è evidente la
sproporzione fra la ricchezza e la complessità delle leggi e i risultati effettivamente raggiunti
sul terreno nevralgico della repressione delle accumulazioni finanziarie illecite e della loro
utilizzazione a fini di infiltrazione dell’economia legale» (Pietro Grasso). Volendo essere più
chiari si può affermare che «la ricchezza di elaborazione normativa sembra quasi inversamente
proporzionale alla dimensione dei risultati concretamente conseguiti». Come sempre, la
moltiplicazione delle leggi è inutile e dannosa e non consegue gli obiettivi. L’approvazione di un
testo unico della legislazione antimafia e il funzionamento a pieno ritmo della “Agenzia
nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata” potranno dare un contributo positivo alla soluzione del problema.
Confesercenti informa che nel 2009 sono state sequestrate 595 aziende di cui 9 al nord, 19 al
centro, 42 nel Lazio e le rimanenti nelle regioni meridionali.
Secondo un’opinione diffusa, la mafia italiana rimane un problema del Sud. Questo è il più
grande errore che si possa commettere. Il fenomeno mafioso ormai si è esteso a tutto il
territorio nazionale ed ha invaso l’Europa. La capitale della mafia è indiscutibilmente Milano:
non a caso più di un terzo delle segnalazioni sospette di riciclaggio degli operatori finanziari
(5695 su 14.500) sono state eseguite in Lombardia, mentre le segnalazioni dei professionisti in
tutto il Paese ammontano a 139.
Dal 1992 al 2008 secondo la Confesercenti sono stati sequestrati beni per 6,7 miliardi di euro
circa e ne sono stati confiscati per 1,4 miliardi di euro circa. L’associazione, alla luce dei
ritrovamenti di pizzini, libri mastri e files fornisce un’informazione dettagliata anche degli
stipendi mensili ai vari livelli: capo clan (amministratore delegato) 10.000/40.000 euro; capo
zona (direzione e progettualità) 5/10.000 euro; vice capo zona (direzione e progettualità) 3/5-
6.000 euro; autori attentati e omicidi (operatività) 2.500/25.000 euro; esattore (operatività)
1.500/2.000; pusher (operatività) 1.500/2.000, se minorenne 1.000 euro; sentinella/palo
(operatività) 1.000/500 euro.
A sua volta il Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha fornito alla Commissione Antimafia i
seguenti dati: i beni sequestrati dal 7 maggio 2008 al 20 marzo 2010, suddivisi per categorie,
sono 15.490 per un valore complessivo di 7.829.539.406,65 euro; i beni confiscati dal 7 maggio
2008 al 20 marzo 2010 sono 4.228, per un controvalore di 1.965.740.252,00 euro.
Secondo il Ministero della Giustizia, i beni complessivi sequestrati sono stati 51.793 e i 28.959
relativi agli ultimi cinque anni evidenzia una costante che si mantiene nel tempo: gli immobili
(15.868 nel 2005-2009) sono sempre più della metà dei beni oggetto di indagine, mentre i beni
mobili registrati (5.184) sfiorano il 20 per cento; i beni mobili (3.399) si mantengono al di sopra
del 10, soglia non raggiunta singolarmente dai beni finanziari (2.480) e dalle aziende (2.028). I
beni immobili confiscati e assegnati sono 3.441 di cui 506 assegnati allo Stato e 2.935 ai
comuni.
Nonostante questo ancora tanto deve essere fatto se «nella più gran parte degli uffici giudiziari
e di polizia italiani non è dato rilevare alcuna applicazione delle misure preventive patrimoniali
del sequestro e, soprattutto, della successiva confiscaii» e se viene lamentato dal Procuratore
Grasso che «da tempo il mio ufficio segnala che le indagini patrimoniali a fini di sequestro e di
confisca degli enormi profitti del narcotraffico hanno uno sviluppo limitato connesso alla
perdurante riluttanza degli apparati giudiziari e di polizia ad investire le risorse disponibili in
attività tanto onerose ed ardue quanto essenziali alla tenuta di ogni ambizione di effettività
dell'azione di contrasto così come sottolineato nelle raccomandazioni de Consiglio dell'Unione
Europea» (Pietro Grasso).
Come si vede, inoltre, i numeri variano da una banca dati ad un’altra e il problema si potrà
risolvere solo quando la “Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” funzionerà a pieno ritmo e con personale
qualificato. In ogni caso, rispetto alle stime riportate si tratta veramente di poca cosa.
In conclusione, la globalizzazione ha reso evanescente la dicotomia tra economia e criminalità,
favorita dalla caduta delle frontiere e dalle nuove tecnologie come internet oltre che dalla
mancanza di organizzazioni internazionali con poteri necessari per fare rispettare le leggi ed il
diritto, che rimane confinato entro le frontiere degli Stati nazionali. Per cui si combatte contro
iniziative e interessi globali con armi spuntate.
Questo vale in particolare per il riciclaggio di denaro sporco che trova nei paradisi fiscali,
spesso irraggiungibili, i luoghi adatti per le transazioni e il lavaggio in modo che possa entrare
nel circuito dell’economia e della finanza legale.
A questo si aggiunge l’inadeguatezza della legislazione italiana che esclude la responsabilità
per reato di riciclaggio di chi ha compiuto o concorso a realizzare il reato presupposto, per il
quale spesso sono previste pene inferiori a quella per riciclaggio. I processi per riciclaggio che
arrivano a sentenza definitiva sono pochissimi. Eppure, ogni giorno nel mondo viene ripulito più
di 1 miliardo di dollari e l’Italia vi concorre in maniera determinante fungendo da canale
riciclatore per almeno l’80 per cento dell’intera somma.

Riciclaggio e paradisi fiscali

Secondo il Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (GAFI) il riciclaggio si articola in tre fasi:
collocamento (placement stage) con il quale ci si “sbarazza” del denaro contante proveniente
dalle attività criminali, con trasformazione del contante nella “moneta scritturale”,
rappresentata da saldi attivi dei rapporti costituiti presso intermediari finanziari;
completamento del camuffamento del denaro (layering stage) ed eliminazione delle tracce
contabili del denaro “sporco” tramite ulteriori trasferimenti; inserimento nel mercato legale del
denaro “centrifugato” (integration stage).
La prima fase avviene regolarmente nei paesi off-shore, cosiddetti paradisi fiscali, agevolata
dallo sviluppo della rete informatica, formidabile strumento di promozione del commercio e di
circolazione della “moneta elettronica” in grado di assicurare anonimato, convertibilità,
trasferibilità, economicità ed efficacia senza precedenti. Con il sistema delle garanzie –
costituite da titoli come primary bank guarrantees, prime bank notes, prime bank stand-by
letters of credits, ecc. – che sfugge a qualsiasi controllo, i capitali sporchi restano immobili
mentre si muovono le garanzie tramite triangolazioni fra istituti bancari ai quali intermediari e
mafiosi chiedono anche prestiti garantiti.
Tutto ciò evidenzia che senza interventi europei e mondiali sui paradisi fiscali, a cominciare
dalla rottura delle relazioni economiche e finanziarie e da embarghi finanziari, limitati per ora
alle buone intenzioni e alle affermazioni di principio nei meeting dei capi di governo, non si va
da nessuna parte. Si calcola che le società off-shore presenti nei paradisi fiscali sono 680.000 e
le banche 10.000. Ma esistono anche sistemi bancari paralleli che operando al di fuori dei
sistemi ufficiali, sfuggono anche agli obblighi formali e agli strumenti di vigilanza e di controllo
delle autorità competenti. Vale la pena ricordare che il paese che conta più “paradisi” è
l’Inghilterra, e lo Stato più impenetrabile è la Città del Vaticano nella quale opera l'Istituto per
le Opere di Religione (lo IOR, la banca vaticana), al riparo da qualsiasi controllo internazionale.
Non si sa quante siano le rogatorie richieste ma è certo che nessuna di esse è stata concessa
dallo Stato del Vaticano.
venerdì, 15 ottobre 2010 - link - commenti

Corriere della Sera, 14 novembre 1974

Cos'è questo golpe? Io so


di Pier Paolo Pasolini
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di
"golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia
i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle
stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima
fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli
greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata
anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia,
si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la
protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un
potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la
tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre,
senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e
importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che
operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a
dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno
scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a
disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi
colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di
conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che
coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un
intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare
l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il
mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i
suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e
romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione
della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi
anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il
mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale
del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente
degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario
coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per
definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né
prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha
escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove
ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei
entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi
con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed
indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad
entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a
dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si
deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi
morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito
(come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una
gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione
è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito
comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il
Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese
disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un
Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista
italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e
votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è
divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi
avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si
tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono
incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su
queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal
completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati
confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche
il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella
degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di
costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese
nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi
come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno
deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo
mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un
traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno
- prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e
delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui
distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica.
E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non
funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione
di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a
iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare
pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è
opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può
e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato
e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa
contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo
nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è
quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo
quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma
piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei
colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o
almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di
concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di
Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso
con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come
nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
Il tamburo di lotta
A trent'anni dagli scioperi del Baltico – prima parte
di Giovanni Giovannetti

Alcuni probabili retroscena sugli scioperi del Baltico


che nell'agosto 1980 hanno cambiato il volto dell'est
..
europeo. Una pacifica rivoluzione operaia in un Paese
socialista iniziata in sordina e che via via sfuggirà di mano un po' a tutti: a Wałęsa che sping eva per un accordo sindacale, al
partito che aveva sottovalutato la protesta sociale, all'Unione Sovietica, il cui declino passa per Danzica: negli anni a seguire
con effetto a catena a ovest dei cantieri Lenin cadrà un muro, a est cadrà un impero.

Danzica, 14 agosto 1980, giovedì. È un giorno assolato, le ferie di luglio sono un ricordo, le scuole stanno per riaprire. Gli ultimi
irriducibili turisti tedeschi oziano ancora sulle spiagge di Gdynia e Sopot, a nord di Danzica, favoriti dal mercato nero della
valuta e da alberghi e ristoranti a buon mercato per chi arriva dall’occidente. L’improvviso blocco delle comunicazioni
telefoniche tra le città del Baltico e il resto del Paese infastidisce qualche giovane, ma è tollerabile. Del resto, molti degli
abituali villeggianti estivi sono nati proprio qui, quando Gdańsk era la germanica Danzig e, dal 1919, “città libera” sotto il
controllo della Società delle Nazioni.
Strano mondo. Qui i migliori ristoranti hanno ampie vetrate e buona cucina: si paga in marchi, dollari, franchi, lire. Da quelle
vetrate, le lunghe file davanti ai negozi di generi alimentari con poca merce sembrano cose di un mondo lontano. Ma è il
mondo della gente comune ormai abituata alla carne razionata, allo zucchero acquistato con la tessera, all’aumento dei prezzi,
all’inflazione e al degrado morale di una classe dirigente che vive anch’essa in un mondo a parte. L’altro mondo preme su quei
vetri e a giorni trasformerà una rivendicazione sindacale in una pacifica rivoluzione nazionale politica e sociale.

Nonostante Wałęsa

Il 14 agosto i cantieri sono fermi. Gli operai scesi in lotta chiedono che sia riassunta Anna Walentynowicz, 50 anni, trenta
passati in fabbrica. Pluridecorata per meriti di lavoro, attivista dei sindacati liberi non ufficiali fondati nel 1978, è stata
licenziata a cinque mesi dalla pensione. Chiedono anche la riassunzione di Lech Wałęsa, licenziato quattro anni prima per il suo
attivismo sindacale, e 2000 złoty di aumento salariale, una quota di indennità di carovita, sindacati liberi e la garanzia che gli
scioperanti non saranno denunciati. Ai cantieri Lenin inizia subito la trattativa con la direzione. Con Wałęsa, vi prendono parte
tre rappresentanti per ogni reparto. Sabato 16 le parti raggiungono un accordo sugli aumenti salariali e il ritiro dei
licenziamenti. Wałęsa annuncia la fine dello sciopero e, insieme al direttore, invita gli operai ad abbandonare i cantieri entro la
sera di sabato.
Tadeusz Pruchnicki lavora ai cantieri Remontowa, adiacenti ai Lenin. Sono scesi in sciopero anche loro. I cantieri sono separati
da un cancello e da lì Tadeusz vede quelli del Lenin che se ne tornano a casa. «E noi?», urla. Dall’altra parte alzano le spalle:
«Eravamo rimasti soli».
Wałęsa è stato messo a capo dello sciopero perché è «uno di loro» e sa
come parlare ai colleghi operai. In quelle ore Bogdan Borusewicz, un
intellettuale membro del Kor, il comitato di autodifesa sociale, fingendosi
operaio dei cantieri, con un casco giallo in testa sta girando di fabbrica in
fabbrica a fomentare scioperi. Borusewicz va anche alle officine dei trasporti
urbani. È una missione particolarmente difficile, perché nel dicembre 1970 -
nonostante lo sciopero, l’esercito che ha sparato e le decine di morti - i
trasporti urbani non si sono fermati. Bogdan avvicina Zenon Kwoka, un
giovane e intraprendente operaio che si dice abbia ascendente sui
compagni. Kwoka organizza lo sciopero dei trasporti urbani a Danzica, ...

Gdynia e Sopot. Subito il Comune propone agli autisti un aumento di 2100


złoty, pari alla metà del loro salario, ma Kwoka e gli altri non si lasciano
comprare e continuano lo sciopero di solidarietà con le aziende ancora in
lotta. Il 16 agosto Kwoka va ai cantieri, giusto in tempo per incrociare gli
operai che se ne stanno andando.

Wałęsa picchiato a sangue. Non dalla polizia

La sera di sabato 16, ai cantieri Lenin, su 17.000 operai sono rimasti in 300, ...
disorientati e indecisi. Ma al cantiere La Comune di Parigi di Gdynia, al
Remontowa e al Nord di Danzica e in altre aziende baltiche lo sciopero di mutua solidarietà non si è mai fermato. Qualcuno
intuisce che è arrivato il momento, che si può chiedere di più, che l’accordo separato dei cantieri Lenin è stato un errore.

Per richiamare gli operai, quella


domenica viene organizzata una messa.
Tocca a Tadeusz Fiszbach - primo
segretario del Poup nella regione di
Danzica, comunista e influente membro
dell’ala riformista del partito - autorizzare
quella funzione religiosa, perché Fiszbach
vuole calmare gli animi. Tornano in 5000,
altri 2000 assistono all’esterno. Celebra
padre Henryk Jankowski, il battagliero
parroco anticomunista di Santa Brigida; il
suo territorio ospita i cantieri e lui stesso
ha mandato bambini e studenti di casa in
casa ad avvisare gli operai. Lo sciopero
continua, Wałęsa torna alla sua guida.
Ma restano alcuni conti da regolare.
Pruchnicki: «All’annuncio della ripresa
...
della lotta Wałęsa ci voleva con loro. Che
ipocrita! Gli abbiamo chiuso il cancello in faccia e uno di noi, più arrabbiato degli altri, lo ha picchiato a sangue». Da allora il
futuro presidente della Repubblica gira scortato da imponenti guardie del corpo.
Con la ripresa degli scioperi Kwoka diventa il suo segretario, sta con lui giorno e notte, partecipa anche agli incontri informali:
«Era evasivo sui punti politici: sindacati liberi, censura, libertà dei prigionieri politici. Bisognava tenerlo sotto pressione,
altrimenti era superficiale, cercava la popolarità, lavorava per se stesso».

I ventuno punti (e i due tolti all’ultimo momento)

Il 22 agosto, fuori dei cantieri Lenin, due grandi tabelloni appesi al cancello 2 spiegano alla popolazione le rivendicazioni
politiche e sindacali in ventuno punti: si richiedono sindacati liberi, il diritto di sciopero, la libertà di parola, la liberazione dei
prigionieri politici, alcuni interventi concreti per fare uscire il Paese dalla crisi, il rifornimento di generi alimentari per il mercato
interno, l’abolizione dei prezzi commerciali e la vendita in valuta straniera
sul mercato interno, sabato libero e così via. Altri due punti, in una prima
versione più radicale, chiedevano libere elezioni e la soppressione della
censura. Bogdan Borusewicz e Andrzej Gwiazda (altro esponente di spicco
dei sindacati liberi e futuro vicepresidente di Solidarność) li hanno tolti:
sanno che l’autolimitazione e la ricerca di un compromesso ragionevole
favoriranno la sopravvivenza del movimento.

Nel dicembre 1970 era mancata una leadership politica e sindacale che
guidasse lo sciopero: gli operai erano usciti dalle fabbriche formando cortei ...

combattivi, l’esercito aveva sparato a Danzica e Gdynia, davanti ai cantieri


Lenin e presso quelli della Comune di Parigi. Anche gli operai si erano armati con pistole sottratte alla Milicja, avevano divelto
l’acciotolato delle strade e lanciato bombe molotov. Si erano contati 43 morti, ma si calcola che in realtà essi sono stati più di
500. Dopo la strage, Władysław Gomułka, padre-padrone del Partito operaio unificato polacco (Poup), aveva lasciato il partito a
Edward Gierek, alimentando alcune speranze nella società. Ma la nuova industrializzazione, finanziata dalle banche occidentali,
soprattutto tedesche, non decolla. In compenso, aumentano l’indebitamento con l’estero e le esportazioni, a tutto svantaggio
dei consumi interni. Come lava in eruzione, il crescente disagio sociale trova negli scioperi del Baltico il modo per emergere. In
quei giorni si crea una saldatura tra operai e intellettuali, inedita in Polonia.

Una lettera da Roma

Tutto è avvenuto come per caso. Zbigniew Lis, un tecnico disegnatore dalle buone capacità organizzative, viene nominato sul
campo responsabile del servizio d’ordine interno. Il territorio dei cantieri è posto sotto il controllo di una milizia operaia, che si
riconosce dal bracciale bianco e rosso. I Comitati di sciopero di Gdynia e Danzica hanno chiesto e ottenuto dalle autorità locali
che siano proibiti gli alcolici finché dura la lotta. Nessun corteo ha varcato il cancello 2, sono banditi anche gli slogan e, a un
eventuale intervento poliziesco, gli operai opporranno la resistenza passiva e si faranno portare via di peso.
Sul cancello 2, tra i fiori e le bandiere polacche e vaticane, è appeso il ritratto del Papa. Da quando non è più perseguitata - ha
osservato Maurice Duverger – la Chiesa polacca è lo strumento principale di un pluralismo fondato sull’opposizione tra due
organizzazioni monolitiche: a essa guarda l’opposizione sociale. In un telegramma al primate di Polonia cardinal Wyszyński,
Giovanni Paolo II ha pregato «affinché l’Episcopato Polacco […] possa ora aiutare questo Popolo nel difficile sforzo che compie
per il pane quotidiano, per la giustizia sociale e per la salvaguardia degli inviolabili diritti alla propria vita e allo sviluppo».
Padre Jankowski viene mandato a leggerlo agli operai in sciopero. Il papa polacco si schiera con gli operai: «Sono insieme con
voi, ai piedi di Nostra Signora di Jasna Góra, con la mia sollecitudine, con la preghiera e con la benedizione». Fina lmente papa
Wojtyła indica all’esitante clero polacco la via da seguire. Giovanni Paolo II parla da Roma a un anno dal suo trionfale ritorno in
patria. È evidente quanto quella visita abbia influito sugli eventi del 1980.

(prima parte - continua)


Il tamburo di lotta
A trent'anni dagli scioperi del Baltico – seconda parte
di Giovanni Giovannetti

Le aziende che fanno parte del Comitato


interaziendale di sciopero (Mks) di Danzica sono ora
..
156, i membri del Comitato direttivo sono diventati
18. Il numero delle imprese aderenti a questo Comitato sale a 253 il 19 agosto; alla fine saranno più di 600. Alla televisione
Edward Gierek, il segretario del Poup, annuncia concessioni salariali ma respinge le rivendicazioni definite politiche: evocando
lo spettro dell’invasione sovietica invita alla vigilanza contro gli «elementi antisocialisti».
Navi militari in avvicinamento

...

Presso i cantieri Remontowa la situazione è più calda: due o tre volte al


giorno navi militari entrano dal mare in canale. Annota Pruchnicki: «Noi del
cantiere siamo della riserva. Con la divisa da marinai ci siamo messi uno
accanto all’altro, 2500 operai lungo la riva. Gridavamo ai militari delle navi
di unirsi a noi. Da quel giorno non sono più venute».
Il 19 agosto il vice primo ministro Tadeusz Pyka, che è a capo della
commissione governativa, avvia negoziati separati presso la prefettura di
Danzica. Il 21 agosto, a Pyka subentra il vice primo ministro Mieczysław
Jagielski, ora incaricato dei negoziati. Anche Jagielski tenta la via della ...
trattativa fabbrica per fabbrica. Gli scioperi toccano anche le acciaierie di
Nowa Huta presso Cracovia, le miniere di rame di Głogów e Słupsk, Ustka, Świnoujście e Toruń.
La sera di sabato 23 agosto, ai cantieri Lenin, Jagielski si incontra per la prima volta con i rappresentanti operai. Ora il Comitato
interaziendale di sciopero è affiancato da una commissione di esperti, guidata da Tadeusz Mazowiecki, che dirige la rivista
cattolica “Więź”. Ne fanno parte storici, sociologi, economisti. La trattativa è ascoltata in presadiretta dentro e fuori i cantieri.
Un corpo a corpo che dura fino a domenica 31 agosto, fino al «21 volte sì»di partito e Governo alle rivendicazioni operaie.

La transizione

Nei mesi successivi 10 milioni di


polacchi, più di un quarto della
popolazione, si iscrivono a
Solidarność, il sindacato libero ma
anche il nuovo punto di riferimento
dell’antagonismo sociale al regime. Il
dialogo tra società e potere si
chiuderà bruscamente 500 giorni
dopo, con lo stato di guerra e la
...
legge marziale del generale Wojciech
Jaruzelski. L’emergenza nazionale
durerà otto anni, durante i quali
Solidarność manterrà una sua
struttura clandestina. Torna il sereno
con il compromesso della Tavola
rotonda (il confronto a tutto campo
tra Solidarność e potere) e le prime
elezioni semilibere del giugno 1989,
nelle quali Solidarność otterrà quasi ...
un plebiscito (al Senato, 92 seggi su
100). Il cattolico Tadeusz Mazowiecki diventa capo del Governo e il golpista Jaruzelski presidente della Repubblica. Nel
settembre 1990 Jaruzelski lascia la presidenza e le nuove libere elezioni sono vinte da Lech Wałęsa. Sono gli anni della
cosiddetta terapia d’urto sull’economia e di un radicale programma di stabilizzazione. Il passaggio all’economia di mercato,
tuttavia, non è indolore perché aumenta la disoccupazione.
Resta il problema della bilancia commerciale in passivo: 15,8 miliardi di dollari nel 2000, l’8 per cento del Pil; 20 miliardi di
dollari nel 2003, quasi il 10 per cento del Pil; secondo il Governo, il deficit è di 45,5 miliardi di złoty, circa 10 miliardi di euro, il
5,3 per cento del Pil. Restano i problemi della ristrutturazione industriale sempre più urgente e di una agricoltura arretrata che
occupa circa il 25 per cento della popolazione attiva e che contribuisce al Pil solo per il 3,4 per cento. La riforma dell’agricoltura
è forse il maggiore. Dal marzo 1999 la Polonia fa parte della Nato: uno schiaffo a Mosca, che ha peggiorato i già cattivi rapporti
tra i due Paesi.
Dopo il successo di Azione elettorale Solidarność (AwS, il movimento di Marian Krzaklewski), dal 1997 al 2000 il Paese è
governato da una coalizione di centrodestra guidata dal primo ministro Jerzy Buzek (AwS) e dal suo vice, il liberal Leszek
Balcerowicz (Uw, Unione della libertà), padre della radicale riforma economica che, a partire dal 1992, ha traghettato il Paese
verso l’economia di mercato. Il 6 giugno 2000 Balcerowicz e i suoi ministri hanno lasciato il timone a un Governo Buzek di
minoranza, con l’appoggio esterno di Uw e un programma incentrato sulla rapida integrazione del Paese nel resto dell’Europa.
L’anno dopo tornano a governare i postcomunisti di Alleanza della sinistra democratica (Sld, nata nel 1990 dopo lo
scioglimento del Poup; è stata al Governo anche dal 1993 al 1997), guidata da Leszek Miller e appoggiata da Aleksander
Kwaśniewski, presidente della Repubblica dal 1995. Cambia il Governo, ma non l’intento europeista. Nel giugno 2003, la
maggioranza dei polacchi, il 77 per cento (ha votato il 59 per cento degli aventi diritto), ha detto «sì» all’ingresso della Polonia
nell’Unione europea.

Il tamburo di lotta
A trent'anni dagli scioperi del Baltico – terza parte
di Giovanni Giovannetti

Il vento del nord non porta più aria di libertà, come ai


tempi del comunismo, ma di crisi. Nella città dei
..
cantieri non si fabbricano più navi e la disoccupazione
supera il 18 per cento (il 21 nella regione della Pomerania). In alcuni distretti, come Brani ewo, Nowy Dwór Gdański o Lębork, è
senza lavoro e senza sussidi più del 30 per cento della popolazione. In una lettera drammatica, pubblicata dalla stampa locale,
il capodistretto di Lębork Witold Piórkowski ha chiesto aiuto al primo ministro: «Da soli non ce la faremo», scrive. Davanti
all’Ufficio del lavoro di Nowy Dwór le lunghe file dei disoccupati evocano cupamente quelle di un tempo davanti alle macellerie.
Ritorno a Danzica

Prospettive? Poche o nessuna. Fino a qualche anno fa sarebbe bastato


andare a Danzica e cercare lavoro. Oggi è meglio non spendere i soldi del
biglietto ferroviario. Nelle città baltiche (Danzica, Gdynia e Sopot confinano
tra di loro e costituiscono di fatto una grande metropoli), anche le
municipalità hanno dovuto tagliare le spese.
Lavorano i cantieri, ma quasi solo per manutenzioni, perché la costruzione
di navi non è più remunerativa, a fronte della concorrenza dei cantieri
sudcoreani e giapponesi, e uno złoty troppo forte non favorisce le
esportazioni. Cosi i cantieri licenziano o tengono i dipendenti senza
stipendio e bussano alle banche per ottenere crediti. Molte aziende
dell’indotto sono vicine alla chiusura: la Cegielski di Poznań, che lavorava
prevalentemente per i cantieri di Stettino, e ha dovuto sospendere le
maestranze al 75 per cento del loro stipendio. Stettino era fino a poco
tempo fa il quinto polo cantieristico mondiale e leader nelle esportazioni
(nel 1995 sono state vendute 21 navi per 440 milioni di dollari).

Anche a Gdynia, nel novembre 2001, i cantieri licenziano (i cantieri di


Danzica e di Gdynia fanno parte dello stesso gruppo), ma di scioperi di
solidarietà non si parla neanche: è troppo forte la paura di perdere il posto
dei 600 operai rimasti. Lo sciopero si fa qualche mese dopo, contro il ...
congelamento delle paghe per tutto l’anno e i tagli alle sovvenzioni per le
spese sociali. Ma la minaccia di nuovi licenziamenti fa esaurire la protesta nel breve giro di una settimana. Perdono il lavoro
solo tre rappresentanti del sindacato Stoczniowiec. Intanto, ai cantieri di Danzica, ormai una versione minore di Gdynia, sono
licenziati altri 500 dipendenti.
C’è chi licenzia e chi - come la Istpol, un’azienda che lavora per i cantieri di Danzica - offre lavoro in nero e sottopagato a russi,
ucraini, bielorussi, lituani e bulgari. Nel febbraio 2002, le guardie di frontiera e gli ispettori dell’Ufficio del lavoro di Danzica
hanno fermato 101 stranieri. Nei cantieri sono stati assunti a tempo indeterminato 300 ucraini e (gennaio 2002) 11 coreani,
con un contratto annuale. Il sindacato ha tiepidamente protestato, perché <<si assumono stranieri e si licenziano polacchi>>:
proteste solo formali, perché si temono ulteriori licenziamenti e perché in passato si è visto di peggio, a partire dal 1977,
quando i cantieri hanno chiuso e 7200 dipendenti sono stati licenziati. Una brutta storia, che tuttavia era servita a porre fine al
vecchio modo assistenzialista di guardare al lavoro. Ora c’è il capitalismo con le sue luci e ombre, inedite per la Polonia: il
lavoro non è più garantito e tutto funziona secondo le regole dell’economia di mercato, il nuovo vangelo.

Luna-Park Solidarność

I cantieri, 3500 posti di lavoro, ora sono in mani private. Dal 1998, la gestione dei terreni, nonostante le polemiche e gli
strascichi giudiziari, passa ai businessmen di Synergia 99, una società controllata dai cantieri Gdynia (55 per cento) e da Evip
Progress. A un anno dalla vendita dei cantieri di Danzica, Synergia 99 aumenta il suo capitale grazie all’apporto dei diritti sui
terreni da parte dei cantieri Danzica - Gruppo cantieri Gdynia. Entro breve tempo le quote sono annullate e Synergia 99 paga ai
cantieri Danzica 69 milioni di złoty, vale a dire che un metro quadro di terreno edificabile al centro della città è costato alla
società 100 złoty (22 euro). Qualche mese dopo, a condizioni ritenute di estremo favore, in Synergia 99 entrano le americane
Tda e Capital Partners, sostenute da un’agenzia del Governo statunitense. Oggi, i partner americani detengono il 24 per cento
delle azioni e la maggioranza relativa; il resto appartiene ai cantieri Gdynia.
C’è di più: negli anni che seguono, i cantieri hanno trasferito ogni loro
attività sull’adiacente isola di Ostrów, liberando così 73 ettari di terreno
edificabili, una trentina dei quali sono a ridosso del centro cittadino. Entro
un ventennio, negli stessi luoghi che hanno visto esplodere la protesta
operaia del 1970 e del 1980 sorgeranno case, alberghi, ristoranti, strade,
discoteche. Un progetto della Sasaki di Boston prevede a sud un nuovo
centro commerciale e a nord un ”parco tecnologico” con edifici
avveniristici, un enorme acquario marino e un centro congressi che, nelle
intenzioni dei progettisti, dovrebbero diventare il biglietto da visita della
città. Un altro progetto prevede il ripristino delle fortificazioni intorno alla ...

città vecchia di Danzica, come già nel XIX secolo, in una simbolica
separazione dalla città moderna.
Per ora, tutto questo è solo un sogno a matita. Secondo gli esperti, per
realizzare la Città giovane - così è stata chiamata - non basteranno
trent’anni e 2,5 miliardi di dollari. Intanto Synergia 99 ha ceduto una
vecchia centrale telefonica ad alcuni giovani artisti, allo scopo di animare
l’area, ravvivarne l’immagine e attirare gli investitori: nel palazzo c’è
spazio per un teatro, per gallerie d’arte, per caffe-club e oltre venti ateliers.
Tra i primi a trasferire i loro studi, il musicista Tomek Lipnicki e la pittrice
...
Magdalena Zięba.
Più che all’attività dei giovani artisti, gli investitori sembrano interessati ai 27 lotti edificabili che il Comune vuole mettere in
vendita: gli acquirenti aspettano il piano regolatore, ma il Consiglio comunale di Danzica procede con calma, perché subito
dopo ci sarebbero nuovi costi da sostenere e le casse municipali sono vuote. Synergia 99, che non intende aspettare a lungo,
ha allora donato alla città i terreni dei cantieri destinati alla costruzione delle strade di accesso ai lotti edificabili: lontani da
ogni secondo fine speculativo, quelli di Synergia 99 dicono di voler favorire i collegamenti tra la futuribile Città giovane e il
Centro Solidarność, un edificio multifunzionale e ultramoderno che dovrebbe sorgere nelle vicinanze del cancello 2 e che
rappresenterebbe simbolicamente l’ingresso nella nuova città.
Lo storico cancello 2 diventerà monumento nazionale; la sala conferenze, quella degli accordi, diventerà il museo di
Solidarność; davanti al cancello 2 domina già l’imponente monumento in memoria degli operai uccisi nel 1970; ovviamente,
non mancheranno chioschi di gadget. Insomma, l’area intorno al cancello 2 e al monumento ai caduti del 1970 sarà
riconsacrata al consumo storico-turistico.
Per ora, da quel cancello entrano ed escono ancora gli operai: bulgari, ucraini, coreani, polacchi. Anche di sabato, nonostante
la richiesta numero 21 degli accordi del 1980 prevedesse per tutti il sabato libero, come ammonisce una lapide in bronzo che,
a pochi metri dal cancello, riproduce i ventuno punti di quella piattaforma rivendicativa.
Le aziende esterne che operavano nell’area dei cantieri pagavano a Synergia un affitto per terreni e macchinari. Alcune
affittavano gli impianti per uno o due mesi; altre, come la Cenal (500 operai per sette-otto navi l’anno) o la Marine Metal (350
operai, specializzata nelle costruzioni meccaniche), vi avevano sede stabile. O, almeno, così sembrava. La Cenal ha chiuso nel
2001; qualche mese più tardi la Marine Metal ha ridotto drasticamente l’attività. Alle ditte esterne è subentrata una decina di
società totalmente controllate dai Cantieri Danzica-Gruppo Cantieri Gdynia: Euroluk, Euromal, Eurocynk, Euroship,
Eurosprzątanie, Kuźnia Gdańska, finanziate da Janusz Szlanta, l’ex presidente del consiglio di amministrazione del Gruppo
Cantieri Gdynia; a poco a poco stanno acquistando terreni. Come spiega Jerzy Borowczak, vice capo di Solidarność nei cantieri,
«Le nuove società, satelliti dei cantieri, praticano prezzi anche cinque volte superiori a quelli di una qualsiasi ditta esterna; i
cantieri non pagano il dovuto e cedono loro i terreni, a saldo dei conti». Borowczak è un altro protagonista degli scioperi del
1980 ai cantieri, dove lavorava dal 1979. Dopo l’accordo, è uno dei 150 operai manuali su 15.000 che passano al lavoro
sindacale: «Ormai i cantieri Danzica non fabbricano più navi. Facciamo soltanto dei lavori per Cantieri di Gdynia, come una
della ditte committenti». Il sindacato ha denunciato alla Procura le autorità dei cantieri per comportamenti contro l’interesse
dell’azienda. Janusz Szlanta è finito sotto inchiesta: avrebbe causato danni per 31 milioni di złoty a una società da lui
controllata.
Altre nubi si profilano all’orizzonte. I due scali navali dei caniteri potrebbero essere cancellati dalla pianta della città e sancire
così la definitiva chiusura dei cantieri: sorgono su terreni edificabili vicino al centro cittadino, dove Synergia 99 prevede la Città
giovane. Nel 1999 i cantieri hanno ceduto i terreni a Synergia 99 per 41 milioni di złoty e la condizione di conservare l’utilizzo
degli scali. Nel giugno 2000 il Consiglio di amministrazione dei cantieri ha rinunciato a far valere i diritti su di essi.

(terza parte - continua)


Il tamburo di lotta
ultima parte

Wojciech Jaruzelski (1923) «Lo Stato di guerra fu inevitabile, era il


male minore. Non fu un colpo di Stato, perché io ero il primo ministro
legalmente riconosciuto anche dalla comunità internazionale e la
Costituzione mi consentiva di ricorrere all’intervento militare per
fronteggiare una situazione che si faceva ogni giorno più grave. L’ Unione
Sovietica ci aveva tagliato il 50 per cento delle forniture di gas e il 70 per
cento del petrolio, e minacciava il blocco totale a partire dal gennaio
1982. Ci avrebbero affamati. Insomma, una vera catastrofe, aggravata
dagli aumenti salariali e dal contemporaneo calo di 18 punti della
produzione industriale.

Da oltre un anno si erano intensificate le manovre militari del Patto di


Varsavia lungo i nostri confini. Oggi sappiamo che già un anno prima a
Mosca c’era un articolato piano di invasione della Polonia, ipotesi per noi
inaccettabile. Un rischio concreto, nonostante il contemporaneo impegno
dell’Armata rossa in Afghanistan, nonostante la crisi economica e
tecnologica, campo nel quale la Russia ormai da tempo era stata
surclassata dagli Stati Uniti.
Allora decidemmo di fare da soli, per evitare una nuova Ungheria o una
nuova Cecoslovacchia, a noi e a loro. Oggi penso che lo stato di guerra
del dicembre 1981 abbia evitato una pericolosissima reazione a catena ...

assai più traumatica, che avrebbe aggravato il conflitto tra i due blocchi.
Venti anni dopo, il nostro mondo è radicalmente cambiato grazie alla spinta propulsiva di Solidarność, ormai esaurita, e grazie
a chi ha saputo governare la transizione democratica degli anni Ottanta e Novanta».

Il tamburo di
lotta

Verità e Giustizia per Niki Aprile Gatti: la Telecom-Fastweb e l’agguato a Roma!


3 ottobre 2010 - Giustizia
Come promesso parlerò degli sviluppi dell’inchiesta Telecom-Fastweb portata avanti dal
bravoMagistrato Capaldo, e inaspettatamente, arricchita con la notizia dell’agguato di mercoledì
che ha coinvolto un noto avvocato.
Sto seguendo con interesse questa Inchiesta per ovvie ragioni, perché, a differenza dell’inchiesta
Premium che ha portato all’arresto di Niki Gatti e alla sua uccisione nel carcere di Sollicciano,
essa presenta tutti gli elementi che noi avevamo già anticipato prima ancora che scoppiasse:
stesso schema di flussi di denaro tramite società off-shore che comprendono l’asse Londra-San
Marino, coinvolgimento le società delle telecomunicazioni e dell’informatica, elementi di
delinquenza non comune ma legate alla ‘ndrangheta e personaggi che in qualche maniera hanno
legami con esponenti della ex Banda della Magliana.
Ma c’è un imputato fondamentale che nell’Inchiesta Premium non compare, mentre quella seguita
dalla Procura di Roma no: la Telecom!
Come mai?
Sarà stata questa la condanna a morte di Niki? Se parlava su come svolgeva il suo lavoro, forse
la Telecom sarebbe stato un elemento primario e non privo di importanza? Non lo sappiamo, forse.
Eppure come feci notare in un mio vecchio articolo, nel 2008 l’antitrust condannò anche la Telecom
assieme alle altre società incriminate.
Nel frattempo l’Inchiesta Telecom-Fastweb potrebbe far emergere altre importanti novità utili a noi
che pretendiamo Verità e Giustizia per Niki.
Qualche giorno fa, e precisamente il 20 settembre, Fabio Arigoni, 57 anni, imprenditore nel ramo
del telecomunicazioni, ha deciso di tornare in Italia e di mettersi a disposizione degli inquirenti.
Egli è un personaggio chiave nell’inchiesta e ha rafforzato ancora di più l’imputazione rivolta a
Gennaro Mokbel, la moglie di questo, Giorgia Ricci (detenuta a Sollicciano), l’ufficiale della Gdf
Luca Berriola, il consulente di tlc Carlo Focarelli.
Inoltre, e questa è la novità importante, è che sarebbero stati chiamati in causa dal manager degli
“alti dirigenti”. Una novità di non poco conto.
E come al solito quando scoppia una novità che potrebbe mettere in luce altri aspetti scomodi, si
mette in moto tutta quella “raffinatissima” macchina dei servizi segreti, criminalità organizzata e
faccendieri che cerca di mettere a tacere tutto. Magari depistando, insabbiando e come sappiamo
uccidere o far tacere tutto tramite un avvertimento, messaggi chiari da decifrare.
E infatti, non a caso, mercoledì sera verso le 20 davanti al proprio studio legale dei Parioli, quartiere
romano, due uomini hanno gambizzato un avvocato.
Ma non uno qualunque.
L’avvocato che ha subito questo agguato si chiama Piergiorgio Manca, noto avvocato per aver
difeso gente coinvolta in questioni importanti. Ma soprattutto è uno dei difensori del commercialista
Marco Iannilli, implicato guarda caso nell’Inchiesta Telecom-Fastweb.
E attenzione, anche Iannilli sarebbe un personaggio chiave perché avrebbe ricostruito ai magistrati
la vicenda Digint: la società informatica che ha messo in contatto Finmeccanica con l’imprenditore
Gennaro Mokbel, ritenuto uno degli ideatori della maxitruffa.
Attenzione, soffermiamoci sulla Digint!
Questa società aveva come maggior azionista lo stesso Mokbel, imprenditore legato alla
‘ndrangheta, estremismo nero ed ex appartenenti alla Banda della Magliana.
E questa stessa società avrebbe acquistato la Ikon, specializzata nella progettazione di sofisticati
software spia, tuttora in uso a procure e servizi segreti, e coinvolta nel dossieraggio.
Vi rendete conto? Sofisticati software spia che erano in mano a dei criminali!
A questo punto le due vicende, ovvero il ritorno dell’imprenditore Fabio Arigoni e la
gambizzazione dell’avvocato, sono assolutamente legate l’una con l’altra.
Una domanda. Perché Fabio Arighoni era rimasto tutto questo tempo latitante a Panama? Voleva
sfuggire dalla Giustizia, oppure dalla morte?
Forse non voleva fare la stessa fine di Niki Aprile Gatti? Forse.
E nel frattempo, noi tutti ci chiediamo, ma l’Inchiesta Premium è chiusa oppure rimarrà per sempre
in quel Limbo che con tutta franchezza non mette in buona luce l’operato di alcuni settori della
Magistratura?
http://www.agoravox.it/Verita-e-Giustizia-per-Niki-Aprile.html
La Gara del Ponte, Madre di tutte le Turbative
2 ottobre 2010 - (Anti)mafia

di Antonio Mazzeo

stretto di messina
«Entro dicembre sarà pronto il progetto esecutivo, già molto avanzato, del Ponte di Messina», ha
dichiarato Berlusconi. «Era stato dato anche l’appalto ad una cooperativa di imprese italiane dopo
che eravamo riusciti, prodigando molti sforzi, ad evitare la partecipazione all’appalto di grandi
imprese straniere, perché volevamo che quest’opera fosse un orgoglio tutto italiano. Con
l’intervento del Governo della sinistra il piano è stato accantonato. Avevo personalmente, con il
sottosegretario Letta, partecipato a 32 riunioni per il varo di questo piano, sino a giungere
all’appalto, che è stato dato. In cinque minuti il Governo della sinistra ha accantonato il progetto.
Cinque anni per costruire e cinque minuti per distruggere».

Un’esternazione shock che ha spinto due senatori del Partito Radicale, Donatella Poretti e Marco
Perduca, a presentare un’interpellanza urgente alla Presidenza del Consiglio dei ministri. «Il
presidente Berlusconi si è autodenunciato per avere diretto la gara d’appalto per il Ponte di
Messina», scrivono i parlamentari. «Non solo ha candidamente ammesso di avere fatto di tutto per
evitare che alcune imprese partecipassero solo perché straniere, ma anche che vincesse una italiana.
Berlusconi dovrà spiegare in aula in cosa sono consistiti i suoi “molti sforzi” e se le 32 riunioni
citate erano state fatte per la realizzazione del piano per arrivare ad un appalto realizzato su misura
per la cooperativa di imprese».

In verità, non scorre nulla di nuovo sotto il Ponte. Berlusconi, infatti, ha ripetuto in Parlamento
quanto aveva impunemente dichiarato nel corso di un comizio tenuto nel novembre 2008 durante la
campagna elettorale per l’elezione del Governatore della regione Abruzzo. «Sapete com’è andata
col Ponte sullo Stretto?», aveva esordito il premier a L’Aquila. «Avevamo impiegato cinque anni a
metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d’appalto ma in
consorzio… Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in
modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi
avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche».

L’ammissione di aver blindato (o turbato?) la gara del Ponte giungeva dopo che
parlamentari, ambientalisti e ricercatori avevano denunciato anomalie ed evidenti conflitti
d’interesse nell’espletamento dei bandi. Tra le carte dell’inchiesta della procura di Monza su
presunti reati societari in ambito Impregilo (la società di costruzione che guida l’associazione
general contractor del Ponte), conclusasi con il rinvio a giudizio dei vecchi amministratori Paolo
Savona e Pier Giorgio Romiti, uscì fuori un’intercettazione telefonica dove l’economista Carlo
Pelanda, rivolgendosi al Savona, si dichiarava sicuro che «la gara per il Ponte sullo Stretto la
vincerà Impregilo». Nel corso della stessa telefonata, avvenuta alla vigilia dell’apertura delle
offerte, Pelanda sosteneva di avere avuto assicurazioni del probabile esito della gara «dal senatore
di Forza Italia Marcello Dell’Utri».

Incuriositi dalla singolare vocazione profetica dell’interlocutore, i magistrati lombardi interrogarono


l’ex presidente d’Impregilo. «Era una legittima previsione», rispose Paolo Savona. «Il professor
Pelanda mi stava spiegando che noi eravamo obiettivamente il concorrente più forte». Carlo
Pelanda, editorialista del Foglio e del Giornale, ricopriva al tempo l’incarico di consulente del
ministro della difesa Antonio Martino, origini messinesi e uomo di vertice di Forza Italia. Pelanda
era pure un intimo amico di Marcello Dell’Utri, al punto di aver ricoperto l’incarico di presidente
dell’associazione “Il Buongoverno”, fondata proprio dal senatore su cui pesa una condanna in
appello a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Ad interessarsi al possibile esito della gara del Ponte c’era pure Francesco Cossiga (recentemente
scomparso), di cui proprio il Pelanda era stato consigliere durante il settennato trascorso da
Presidente della Repubblica. Nel corso di una puntata di Porta a Porta dedicata alle intercettazioni
telefoniche, in onda il 5 ottobre 2005, fu lo stesso Cossiga a dire: «Sono stato intercettato mentre
parlavo con un mio amico, un imprenditore che brigava pesantemente per ottenere gli appalti del
ponte». Poi l’ex Presidente si rivolse all’avvocata Giulia Buongiorno (oggi parlamentare di Futuro e
Libertà), presente in studio: «Avvocato che faccio? Lo sputtano questo Pm o mi consiglia di lasciar
perdere?». «Presidente, io difendo quell’imprenditore e il Pm mi ha garantito che il suo nome non
comparirà. Stia tranquillo», rispose con imbarazzo la Buongiorno. Nell’inchiesta di Monza non c’è
traccia del nome dell’amico di Cossiga che «brigava» per gli appalti nello Stretto.

«Quella che è stata una delle gare d’appalto più rilevanti della storia d’Italia, presenta pesanti ombre
ed anomalie», scrivono i ricercatori di Terrelibere.org, che agli interessi criminali del Mostro
sullo Stretto hanno dedicato inchieste e un libro-dossier. «Si sono registrati, ad esempio, un
impressionante ribasso d’asta di 500 milioni di euro, una controversa penale che impegnerebbe le
istituzioni alla prosecuzione dei lavori, ed infine la misteriosa defezione delle grandi imprese estere.
A questo si aggiungono i conflitti di interesse tra finanziatori e finanziati, controllori e controllati e
soprattutto gli incroci, le ricorrenze di nomi e società, le partecipazioni multiple che fanno pensare
ad una maxi lobby che da anni sponsorizza e promuove le grandi opere».

Terrelibere.org ha denunciato, in particolare, come nella speciale commissione giudicatrice istituita


dalla Società Stretto di Messina che ha assegnato l’appalto alla cordata Impregilo, ha partecipato
l’ingegnere danese Niels J. Gimsing. «Oltre ad essere stato membro (dal 1986-1993) della
commissione internazionale di valutazione del progetto di massima del Ponte, risulta aver lavorato
nella realizzazione dello Storbelt East Brigde, progettato dalla società di consulenza Cowi di
Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d’imprese guidato da Impregilo ha affidato “in
esclusiva” l’elaborazione progettuale del Ponte sullo Stretto».

«Tra i più stridenti conflitti d’interesse nella gara per il general contractor del Ponte – aggiungono i
ricercatori di Terrelibere – c’è quello legato alla partecipazione delle Coop “rosse”, su schieramenti
contrapposti, con i due gioielli più rappresentativi del settore costruzioni, il CCC Consorzio
Cooperative Costruzioni di Bologna (in associazione con Astaldi) e la CMC Cooperativa
Muratori & Cementisti di Ravenna (in associazione con Impregilo). Con l’“anomalia”, sempre
tutta italiana, che proprio la CMC di Ravenna risulta essere una delle 240 associate, la più
importante, della cooperativa “madre”, CCC di Bologna. Ciò avrebbe comportato la violazione
delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la
partecipazione ad una gara di imprese che “si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo”,
ovverosia di società tra esse “collegate o controllate”». L’ipotesi di violazione di queste norme da
parte delle coop durante la gara per il Ponte è stata pure sollevata dal WWF Italia e dalla
parlamentare Anna Donati. Il WWF è anche ricorso davanti all’Autorità per i Lavori Pubblici e alla
Commissione Europea per chiedere, inutilmente, l’annullamento della gara.

Nonostante i pesanti rilievi, la Società Stretto di Messina scelse di non intervenire, ma alla vigilia
dell’apertura delle buste, il Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna scomparì
provvidenzialmente dalla lista delle società della cordata Astaldi. La coop “madre” lasciò il campo
libero alla coop “figlia” che si aggiudicò con Impregilo il bando di gara. Forse era a queste
“cooperative d’imprese” che si è riferito erroneamente il Presidente del Consiglio nel suo ultimo
intervento in Senato. In realtà la vincitrice della più che sospetta gara del Ponte è “Eurolink”,
l’associazione temporanea costituita da Impregilo con una quota del 45%, Sacyr (18,7%), Società
italiana per condotte d’acqua (15%), CMC di Ravenna (13%), Ishikawajima- Harima Heavy
industries (6,3%) e Consorzio stabile Aci (2%).
Fonte: http://www.agoravox.it/La-Gara-del-Ponte-Madre-di-tutte.html
Ua holding da tre miliardi per le madonne piangenti
4 ottobre 2010 - Economia
Boom dei luoghi di culto non riconosciuti dalla
Chiesa. Quando le apparizioni mariane non sono accertate, i pellegrinaggi
sono vietati. Ma solo formalmente. In rete decine di siti sulle lacrime
portentose dove si possono acquistare magliette e fare offerte
di JENNER MELETTI
IN ALCUNI casi la memoria è di ferro. “La Madonnina di Pantano, 12 chilometri da Civitavecchia,
per la prima volta ha pianto sangue alle ore 16.20 del 2 febbraio 1995. A vedere le lacrime furono la
bimba Jessica Gregori e suo papà Fabio”. La Mamma della Pace è apparsa in sogno a Gian Carlo
Varini detto Gianni, di Gargallo di Carpi, il 3 dicembre 1984. Gli ha detto: “Gianni, non sono la tua
mamma. Io sono La Mamma. Il mondo si salverà se saprete tenere i figli lontano dalla
televisione””. “La Regina dell’Amore ha parlato per la prima volta a Renato Baron il 25 marzo
1985. Lui stava pregando davanti alla statua della Madonna del Rosario quando la sentì parlare: “Ti
aspettavo anche ieri. Da oggi verrai sempre qui…””. Se però si parla di denaro – subito dopo la
Madonna appaiono i pellegrini che accendono candele, fanno offerte in attesa di una grazia e
chiedono la costruzione di un santuario – la memoria si fa più flebile. Silvano Cosaro, ad esempio, è
l’amministratore dell’associazione Opera dell’Amore, che a Schio continua l’opera del veggente
Renato Baron, scomparso nel settembre 2004. “Il bilancio della nostra associazione? Non ricordo
bene. Sa, ci sono le offerte, le donazioni, i lasciti… So però che dobbiamo mettere 300.000 euro
all’anno per ripianare il deficit della nostra “casa di accoglienza per gli anziani soli e abbandonati”.
Insomma, il bilancio è di qualche milione di euro. Quanti di preciso? Non ho con me i numeri”.
I conti sui pellegrinaggi si fanno ancora in dollari e secondo il Wto – World tourism organization,
agenzia delle Nazioni Unite – sono almeno 300 milioni all’anno i pellegrini del mondo, con un
bilancio da Finanziaria italiana: 18 miliardi di dollari. In Italia i “viaggiatori religiosi” sono 40
milioni, con oltre 19 milioni di pernottamenti. Il fatturato è di un’industria potente: 4,5 miliardi di
dollari, all’incirca 3,3 miliardi di euro l’anno. Ci sono i santuari importanti (Loreto, San Giovanni
Rotondo con San Pio, Assisi, Padova con Sant’Antonio e naturalmente Roma con le sue basiliche)
ma l’ossatura vera di questa macchina che profuma di fede e di soldi è composta da centinaia di
luoghi di culto, riconosciuti dalla Chiesa, non riconosciuti o ancora “sotto osservazione”. Anche il
pellegrino, come il turista “normale”, è mordi-e-fuggi (lo dimostra il fatto che nemmeno la metà si
ferma a dormire una notte fuori casa) e soprattutto è attratto dalle novità. Mentre i santuari storici
languono (c’erano dieci bancarelle, davanti alla basilica della Madonna di San Luca a Bologna, ora
tutte chiuse) c’è invece la corsa ai nuovi luoghi delle apparizioni. Si prendono il pullman o l’aereo
per Medjugorje in Erzegovina e fra le mete italiane si cercano quelle dove l’apparizione è ancora
cronaca e non storia, senza badare troppo ai divieti o alle dissuasioni della Chiesa ufficiale. Ma cosa
succede dopo una “apparizione”? Quale macchina organizzativa si mette in moto?
IL VERO PRODIGIO
Non è un caso che la Madonna di Civitavecchia (la statuetta) sia stata acquistata a Medjugorje. E
naturalmente la città, subito dopo l’annuncio della lacrimazione, si è candidata a diventare la
Medjugorje italiana. Ora gli entusiasmi si sono raffreddati, ma non troppo. “Il progetto del nuovo
santuario – dice il parroco, monsignor Elio Carucci – per ora è stato accantonato. Era un
megaprogetto, del costo di svariati miliardi di lire”. L’idea era copiare il santuario della Madonna
delle Lacrime di Siracusa, alto 103 metri, 6 mila fedeli a sedere, 11 mila in piedi. La lacrimazione
siracusana avviene fra il 29 agosto e il 1° settembre del 1953, nella casa di una giovane coppia di
sposi, ma il vero miracolo arriva dopo: in meno di quattro mesi, il 13 dicembre dello stesso anno, i
vescovi di Sicilia, riuniti a Bagheria, concludono unanimemente che “non si può mettere in dubbio
la realtà della lacrimazione”.
C’era ancora la paura del comunismo, nella campagna elettorale del ’48 si era vista l’importanza
delle Madonne Pellegrine. La Madonnina delle lacrime di Civitavecchia attende ancora la sentenza
della Chiesa. Il sangue ritrovato sul volto ha un dna maschile ma già dal 1995 la statuetta è nella
chiesa parrocchiale di Pantano, meta di migliaia di fedeli. “Il boom dei primi anni – dice monsignor
Elio Carucci – per fortuna è cessato. Arrivavano qui anche i pullman dei “viaggi delle pentole”, che
potevano fermarsi venti minuti in tutto, nemmeno il tempo di una messa. Adesso ci sono meno
curiosi e più fedeli. Due messe al giorno, sei la domenica. Per l’assistenza spirituale sono arrivati
anche 5 sacerdoti e 10 suore della Spiritualità di Fatima. Hanno costruito due case a fianco della
chiesa. La curia ci ha spiegato che dobbiamo essere sobri. I numeri? Posso dire che 8 mila persone,
ogni mese, fanno qui la comunione”.
Ci sono decine di siti sulle “lacrimazioni della Madonna”. In quello dedicato alle “Profezie del terzo
millennio” si legge che Pantano è diventato un luogo di evangelizzazione. “Si verificano molte
conversioni e circa mille famiglie dissestate a causa di divorzi e separazioni si sono ricomposte. I
numerosi ex voto e due cassette di sicurezza piene di oggetti d’oro vogliono testimoniare le grazie
ricevute”. Amina Ricci in Quartili, titolare della trattoria Amina, conferma. “I fedeli continuano ad
arrivare, ma non come prima. È vero, tante famiglie si ricompongono. Ci sono anche guarigioni.
Nella casa dei veggenti Gregori si sente un profumo misterioso. Le casse con gli ori? Sì, c’era una
stanza piena di braccialetti, collanine, medaglie… Ora non ci sono più. Che fine abbia fatto l’oro,
non lo so”. Un cartello annuncia: menù turistici per i pellegrini della Madonnina di Pantano.
“Quindici euro il menù di carne. Hanno aperto anche un agriturismo e un’altra trattoria, ma con la
crisi economica si fa fatica. I 50 pullman al giorno dei primi anni sono un ricordo. Non solo non
hanno costruito il santuario, qui non tagliano nemmeno i rovi e le siepi. Ci sono i prati pieni di serpi
e topi”. Ma come si muove la Chiesa, quando un veggente annuncia di avere visto Maria?
TRA DIVIETI E ACCORDI
A San Martino di Schio ci sono ancora i cartelli della curia di Vicenza che vietano “pellegrinaggi e
celebrazioni”, perché le annunciate apparizioni della Regina dell’Amore a Baron “non hanno
carattere soprannaturale”. Ma anche quando si proibisce, se l’apparizione trova un seguito popolare
si arriva poi a un tacito accordo. La Chiesa ne prende atto e non rompe i ponti. Il segno di tregua, se
non di pace, è l’arrivo di “un sacerdote diocesano come assistente spirituale del movimento”.
“Anche noi – dice Silvano Cosaro, l’amministratore dell’Opera dell’Amore – abbiamo un sacerdote
della curia che ci segue. Renato se n’è andato da sei anni ma noi continuiamo la sua opera e i
pellegrini continuano ad arrivare. Fra un mese apriremo una casa d’accoglienza per i pellegrini, 54-
60 posti. Abbiamo una chiesa da 300 posti, più un tendone all’esterno. È pronto il progetto di una
casa per i giovani, con un salone per le riunioni e sale per la sosta. Stiamo diventando sempre più
importanti: ormai arrivano anche pellegrini russi, sloveni, ungheresi. Ogni anno, qui da noi, almeno
10 mila donne e uomini si consacrano alla Madonna. Sì, il bilancio è di qualche milione di euro ma
le spese sono tante”.
Grazie a internet, apparizioni e luoghi miracolosi prima conosciuti solo con il passaparola ora sono
a portata di clic. Da Gargallo di Carpi (Mamma della Pace) a Monzambano di Mantova (la
Messaggera delle Grazie vista dall’ex carabiniere Salvatore Caputa), fino a Montichiari di Brescia
(Rosa Mistica, apparsa a Pierina Gilli nel 1946), i veggenti o i loro eredi cercano di annunciare le
migliaia di messaggi ricevuti dall’alto. Riaffiorano dal passato anche apparizioni lontane. In rete
puoi comprare, ad esempio, la “medaglia miracolosa della Madonna del Miracolo”. Apparve a
Santa Caterina Labouré nel 1830 e ancora oggi si assicura che “tutte le persone che porteranno
questa medaglia riceveranno grazie, specialmente portandola al collo”. Assieme alla medaglia
arriva un bollettino postale. “Non è una fattura, serve per un’offerta”. Le vecchie cassette per
monete e banconote spesso sono un ricordo. Meglio mettere, come fa il santuario della Madonna
delle Lacrime di Civitavecchia, i codici Iban per bonifici in Bancoposta o presso la banca di Credito
cooperativo.
I nuovi santuari più importanti entrano anche nei circuiti dei tour operator e la Chiesa deve
attrezzarsi per non lasciare la torta in mano ai privati. “L’interazione tra evangelizzazione e
marketing – ha spiegato Maurizio Arturo Boiocchi, dottore di ricerca all’università Iulm di Milano
all’ultima edizione di Aurea, la borsa del turismo religioso – per quanto possa sembrare
inopportuna, trova giustificazione nella stessa visione di Giovanni Paolo II, convinto che l’azione di
animazione pastorale debba utilizzare gli “strumenti del suo tempo””. I nuovi pellegrini non hanno
più bisaccia, bastone e mantello. Viaggiano in aereo o su pullman con ogni comfort e dormono in
accoglienti hotel. Secondo un’indagine sul gradimento del cliente, curata da Boiocchi, il 43% sono
maschi, il 57% femmine. Nel 74% dei casi l’età è superiore ai 51 anni. Perché si va oggi in
pellegrinaggio? Il 68% degli intervistati dichiara: per fede. Il 14% per cultura, il 13% per cercare un
contatto con il sacro, il 4% per curiosità. Quasi tutti i viaggiatori del sacro (il 90%) dichiarano di
provare emozioni, soprattutto nei luoghi santi (55%), nella preghiera (21%), nel cammino (17%) e
nell’eucarestia (7%). La maggioranza (65%) è senza figli. I diplomati sono il 38%, i laureati il 16%.
Secondo la Cei gli operatori turistici non debbono limitarsi all’organizzazione del viaggio religioso.
“Devono infatti essere in grado di contestualizzare il discorso secondo finalità ecclesiali, affinché la
fruizione dei beni culturali e la visita ai luoghi devozionali non si riduca al mero senso estetico ma
diventi strumento di catechesi e di annuncio evangelico”. Alla Chiesa, da parte dei pellegrini, non
arrivano solo le offerte. Conventi e case di accoglienza sono stati trasformati (grazie anche ai
contributi statali per il Giubileo) in hotel a 3 o più stelle, che pagano l’Ires al 50% e non pagano
l’Ici. A Roma e nel Lazio questi “alberghi della fede” sono un centinaio, e si calcola che l’Opera
Romana pellegrinaggi – solo nella Capitale – accolga 6 milioni fra pellegrini o semplici turisti. Ma
come si fanno i conti in tasca a un santuario?
LE AZIENDE-SANTUARIO
In un mondo dove parlare di denaro e bilanci sembra una bestemmia, per capire quanto renda una
“azienda-santuario” bisogna andare a San Damiano piacentino, un luogo che gli italiani sembrano
avere già dimenticato. Qui la Madonna delle rose, sarebbe apparsa a Rosa Quattrini, una contadina,
il 16 ottobre 1964. In un giorno feriale, il paesino (70 abitanti) sembra abbandonato. Chiuse le sette
baracche per la vendita di souvenir, chiusi i tre negozi con Madonne e padre Pio. “Ma appena arriva
un pullman – dice Piergiorgio Quattrini, figlio di mamma Rosa – qualcuno avverte e almeno una
baracca viene subito aperta”. L’uomo non finge di avere dimenticato i numeri del bilancio. “Nel
1981, quando mia madre ci ha lasciati, c’era un patrimonio di 5 miliardi di lire, soprattutto in
immobili. Fu offerto alla Chiesa, che lo rifiutò. Adesso il patrimonio è valutato 10 milioni di euro.
Riceviamo offerte e lasciti che variano dai 200 mila ai 400 mila euro all’anno, e il bilancio annuale
è di circa 750 mila euro. Come associazione abbiamo due hotel, una casa di riposo, un campeggio.
Fuori da questi conti ci sono i privati che vivono con il denaro dei pellegrini e non sappiamo quanto
incassino. Ci sono un altro hotel, quattro piccole pensioni, due case del pellegrino proprietà dei
seguaci del vescovo Lefèbvre, oltre alle sette baracche e ai tre negozi di souvenir e una trattoria”. I
pellegrini, adesso, arrivano soprattutto dall’estero, Francia, Germania e Svizzera in testa. Non sono
mordi-e-fuggi. Restano almeno per i tre giorni di un triduo o i nove di una novena. Alle 5 del
mattino il primo rosario completo, all’aperto anche in inverno. Lodi, santa messa, vespri e ancora
rosari per tutto il giorno. “Mamma Rosa ci accompagni sul cammino della santità. Lei parlava con
Maria e ci ha spiegato cosa dobbiamo fare: aiutare i fratelli più bisognosi, pregare, amare, offrire,
soffrire, tacere”. Ci sono ancora luoghi dove il codice Iban non è il messaggio prevalente.
http://www.nuovaresistenza.org/2010/10/03/una-holding-da-tre-miliardi-per-le-madonne-piangenti/
Leggere incoerenze nel nome del cristo
4 ottobre 2010 - Politica

Oggi, che è domenica un post didascalico sulla bestemmia di Berlusconi.


Bhe, diciamo che la barza di Berlusconi, a onor del vero, a me è piaciuta e, devo dire, l’ha
raccontata anche bene. Eccola:

Ora: Fisichella, il monsignore reazionario, amico del potere che pontifica contro il relativismo
culturale (che per i preti sarebbe la rovina della società) intervistato a proposito della deroga di
Berlusconi al2° comandamento “non pronuncerai il nome di dio invano” ha detto:
“Bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose”
Tradotto dal linguaggio pretesco: “Se il contesto è Berlusconi, che comanda, bisogna fare dei
distinguo”
Cioè avalla completamente la deroga morale di Berlusconi. Il suo “orcodio” diventa moralmente
e cristianamente accettabile.
Insomma: dopo l’eucarestia ad personam, anche la menzione divina ad personam. La chiesa ha
pienamente incorporato la modalità “ad personam” come ha insegnato Berlusconi. Davvero un
modello esemplare di espletamento dei doveri verso l’autorità, secondo la dottrina del dottore
angelico St. Thomae: evidentemente Berlusconi è da costoro considerato “un nuovo messia” cui
tributare obbedienza.
A me non piace per niente Rosy Bindi, con quell’aria da attempata compagnuccia rassicurante
penso che sia l’alter ego di Santanchè: quella che da sinistra cerca di rappresentarne il suo
contrario: ma si sa, i contrari si armonizzano e creano un -seppur temporaneo- “campo magnetico”
stabile. In questo caso il campo magnetico stabile è la nostra situazione socio-politica italiana
che fa cagare, si regge su un’economia che è al crollo e culturalmente ha uno spessore sotto le
suole.
Però Rosi Bindi gliel’ha fatto notare a Fisichella che nelle sue parole c’è un minimo debito di
coerenza e non ha usato mezzi termini nell’illustrare il pericolo che un simile inquinamento della
morale con l’incoerenza mina alle basi la credibilità stessa della religione, che pretenderebbe di
incarnare la verità di un dio. Ed è sulla credibilità di una dottrina che si fonda il mistero dell’uomo
che si fa pecora.
C’è solo un punto su cui sono in leggero disaccordo con le parole della Bindi. Quando dice:
Come si puo’ condurre in modo credibile la battaglia contro il relativismo etico e la perdita di
valori della nostra societa’ se poi nel giudizio ci si ferma davanti alla soglia dei potenti?
.
E forse è questo leggero disaccordo che segna la differenza radicale tra il mio modo di pensare e
quello della Bindi, che comunque scrive a Fisichella un documento impeccabile. Non è che i
cattolici si fermino sulla soglia dei potenti e basta. Il problema, vero, storico, specifico della
Chiesa cattolica e sempre uguale a se stesso è che, pur avendo gli strumenti culturali per riscattare
l’umanità se davvero lo volessero, sulla soglia dei potenti ci si sdraiano proprio davanti, a mo’
di zerbino e non importa se i piedi che si faranno passar sopra sono quelli di un torturatore
assassino come Pinochet: la chiesa è come una grande casa di perdono: da Pinochet a Torquemada,
da Videla a Bartolomeu Pizzarro essa accoglie e perdona tutti: ultimamente la casa di dio ha accolto
anche quel brav’uomo di Tony Blair che ha coronato la sua brillante carriera con la conversone al
cattolicesimo. Come anche Magdi Allam che vorrebbe vedere dispersi i palestinesi per onorare la
sua nuova fede.… Figurarsi se non ti perdona un berlusconi che, almeno finora, campi di
concentramento non ne ha ancora aperti (vabhe, se si escludono i CPA e le caserme dove menano la
gente).
http://www.cloroalclero.com/?p=4997
Tutte le anti-Adro dove a vincere è il tricolore
3 ottobre 2010 - Lotte-Resistenze

Nel Veronese strisce pedonali bianco-


rosso-verdi. Nel Canavese la clamorosa protesta di un sindaco. Mentre il
Carroccio espone il Sole delle Alpi, c’è un’altra Italia che esibisce il vessillo
italiano
di PAOLO BERIZZI
A Isola della Scala, un paese in provincia di Verona, le strisce pedonali sono state dipinte con i
colori della bandiera
MILANO – In principio fu la signora Lucia. Correva l’anno 1997 quando, alla prima performance
del suo cursus honorum di “resistente” antipadana, l’ormai mitologica patriota veneziana Lucia
Massarotto esibiva il tricolore sul balcone di casa facendo imbestialire il popolo leghista radunato
sul sacro suolo di Riva Sette Martiri. Ora la “signora della bandiera” non può più prodursi nel suo
numero (urticante per i leghisti) di fiera oppositrice della padanizzazione: è stata sfrattata da casa.
Persino Bossi ha smussato l’avversione verso di lei.
In compenso da quel giorno di 13 anni fa – in un meccanismo quasi surreale per cui a fare notizia,
soprattutto al Nord, non è più tanto l’ostensione del Sole delle Alpi e di altri simboli della Lega ma
quello del vessillo che rappresenta l’unità nazionale – la signora Lucia ha fatto scuola. Si sfoggia
sempre più spesso il tricolore per reazione al marketing padano, per opporsi alla deriva della
monocultura cromatica del Carroccio e ribadire, sembra incredibile, che il territorio del Nord-Italia
è Italia e non Padania. Nei vessilli e nelle leggi.
La bandiera dello Stato non viene più esposta solo nelle occasioni “classiche” – raduni militari
(soprattutto feste degli alpini), vittorie della Nazionale di calcio, parate della destra sociale: oggi il
pretesto è offerto più che altro dalle esuberanze leghiste. E allora Adro, per dire l’ultima. Tra le
reazioni alla “marchiatura” a colpi di soli delle Alpi dell’istituto Gianfranco Miglio, fortemente
voluta dall’amministrazione del paese, ce n’è stata anche una in carne e ossa.
Il 18 settembre, convocati dal blogger Pietro Ricca, quello che diede del buffone a Berlusconi, un
gruppo di manifestanti si è dato appuntamento in piazza Costantino Ruggeri, a Adro, per dire no
all’incontinenza leghista tracimata nel battesimo simbolico della scuola della discordia. Erano gli
stessi che il 12 settembre hanno denunciato di essere stati aggrediti a Venezia mentre sfilavano,
tricolori in mano, sfidando l’invasione leghista per il classico raduno di fine estate.
Quel giorno, in realtà, dopo tredici anni, la città aveva provato a scrollarsi di dosso l’etichetta
leghista: Venezia ha accolto i militanti del Carroccio con 500 tricolori affissi su finestre e balconi.
“Veneziani tutti italiani” era lo slogan della contromanifestazione organizzata dal Pd (con il
sostegno anche di Idv, Psi, Rifondazione comunista, Verdi, Udc, Sinistra e Libertà e dei partigiani
dell’Anpi) e dalla signora Anna Maria Beccaris. “Venezia è nell’Italia che esiste e non
nell’inesistente Padania” fu la tesi degli autoconvocati dell’orgoglio italiano.
L’insofferenza verso i simboli del Carroccio spalmati nelle città e nei paesi del Nord – nell’arredo
urbano, nelle piazze, sulle strade, sui ponti, sui mezzi dei servizi sociali e sui notiziari dei Comuni,
persino nelle scuole – è aumentata di pari passo con la loro diffusione. Una settimana dopo Venezia,
per solidarietà con i manifestanti aggrediti dai leghisti e per esprimere il suo dissenso nei confronti
del sindaco di Adro, c’è stato un sindaco che è addirittura salito sul tetto di casa per issare il
tricolore su un pennone.
È Renzo Galletto, primo cittadino di Montalto Dora (Torino): all’insolita iniziativa ha assistito tutta
la giunta comunale e qualche cittadino. “Sono profondamente indignato: cinque ragazzi che
esibivano il tricolore in opposizione alla festa della Lega sono stati perseguiti come soggetti
provocatori. E un sindaco ha voluto affermare che prima viene la sua appartenenza politica e poi la
sua funzione istituzionale”.
L’ultima moda degli amministratori leghisti sono le strisce pedonali verdi. O, anche in aggiunta, i
dossi per l’attraversamento davanti alle scuole. In provincia di Verona è andata in scena una
battaglia: a Veronella il sindaco ha fatto dipingere le strisce con il colore del Carroccio. Per tutta
risposta il suo collega di Isola della Scala ha varato le strisce pedonali tricolori. Inevitabile il
formarsi di due fazioni avverse (politicamente e di conseguenza nei gusti estetici) di cittadini a
pochi chilometri di distanza. Pensandoci bene è una vecchia-nuova sfida, quella tra sostenitori della
Padania e difensori dell’Italia. Lo sanno bene gli esponenti del Carroccio: e cioè gli stessi creatori
della mitologia e della simbologia “verde”. La reazione “italiana” alle loro bordate non si è mai
fatta attendere.
Negli ultimi anni sono stati diversi i comizi di Bossi e di altri parlamentari leghisti (Borghezio su
tutti) “macchiati” da qualche contestatore (solitario o in gruppo) che ha esibito il tricolore o almeno
cercato di farlo. Provocatori? Forse sì. Per i big padani, di sicuro. Il “Trota” Renzo Bossi non era
ancora assurto alla carica di consigliere regionale. Le sparate contro Roma, il Sud e la Nazionale
italiana (lui è team manager di quella padana) forse le stava preparando.
Di certo la Lega era già lanciatissima nella sua campagna di avversione del tricolore. Anche a costo
di andare contro la Costituzione (articolo 12: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano:
verde, bianco e rosso”). “Non basta più, accanto servono le bandiere regionali”, ha tuonato l’anno
scorso il capogruppo in Senato Federico Bricolo (che ha presentato una proposta di legge). In
precedenza c’era stata la proposta di inserire un crocifisso nel tricolore (ala cattolico-integralista del
Carroccio, ben rappresentata da Borghezio). La bandiera nazionale, per ora, è ancora lì, uguale a se
stessa. Con lo spicchio verde distribuito in ugual misura a quello bianco e a quello rosso.
http://www.nuovaresistenza.org/2010/10/03/tutte-le-anti-adro-dove-a-vincere-e-il-tricolore/

La Catena di San Libero n. 388


4 ottobre 2010
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Qua comandano quelli della Trabant


Fare macchine che non si vendono, coi soldi dello Stato, e alla fine accusare gli operai

La Trabant non si vende e il Partito accusa gli operai. “Dovete lavorare di più - dice il Partito - E'
che siete abituati troppo bene. Ma d'ora in poi vi faremo vedere....”.
Tutti gli apparatnik, tutti i politici, tutti i giornali annuiscono gravemente.

Nessuno propone la soluzione più logica (nazionalizzare la Trabant e metterla in mano agli
ingegneri) anche perché, in teoria, la fabbrica è già nazionalizzata: vive dei soldi pubblici,
produce pessime macchine ed è gestita da gente che di partito s'intende forse, ma di
automobili assai meno. Gli unici rimedi che conoscono sono: uno, più sacrifici; due, più polizia.

Esattamente la situazione della Fiat. Cacciati gl'ingegneri dai vertici (qualcuno si ricorda ancora
di Ghidella?), sostituiti da gente fidata del Partito (Romiti nell'88, adesso l'ineffabile
Marchionne), le macchine vengono male e nessuno ne vuole.

Fra tutte le consolidate auto europee, la Fiat è quella (- 26 per cento) che va peggio. Non per
colpa dei coreani o dei cinesi: soffre Psa, Volkswagen, le europee.

Buttare fuori a calci il compagno Marchionnov? Non se ne parla nemmeno. Sacrifici,


licenziamenti e, se qualcuno protesta, polizia. E siccome qui in Unione Sovietica c'è un partito
solo, nessuno seriamente protesta (seriamente vuol dire vendita forzata o nazionalizzazione).

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Cose Nostre

Trasferito d'autorità un poliziotto, Raffaele Mascia, che faceva indagini sulle infiltrazioni
mafiose in città.
Minacciato (testa di capretto mozzata) un compagno, Roberto Giurastante, che faceva
inchieste sui traffici di rifiuti nella regione.
Queste due notizie vengono, rispettivamente, da Imperia e da Trieste.

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Il Quarto Reich di Brighella

Che fa un capo dello Stato riformista anzi semplicemente democratico anzi, mi voglio rovinare,
addirittura conservatore e di destra se il sindaco di un paese propugna la superiorità della
razza bianca locale e vuole insegnarla per forza ai bambini innocenti delle scuole? Manda
messaggi? Si appella alla buona volontà di un minisstro? Lascia intendere che forse non va
bene?.Manda direttamente la truppa, reparti delle Forze armate, che disperde la folla razzista a
calcio di fucile e fa ala ai bambini neri.

Non l'ha fatto Di Pietro o Vendola e nemmeno Bersani. L'ha fatto un presidente degli Stati Uniti,
il repubblicano Eisenhower,, a Little Rock nell'Arkansas nell'autunno del '57. Pochi anni dopo,
nel '62, fu Kennedy a mandare quattrocento federali nel Mississippi, dove i razzisti locali -
governatore in testa – pretendevano di fare i razzisti nell'università.

Anche qui, le baionette spianate e qualche buon spintone fecero un buon lavoro. Ad Adro, nel
Quarto Reich di Brighella, il sindaco ribelle e razzista invece è ancora lì.

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La vera notizia

«La vera notizia a me l'ha detta Eva, una ragazza del Centro per disabili con cui lavoro -
racconta Mauro Biani - "Hai sentito? - mi ha detto - Sakineh non l'ammazzano più, la
impiccano". Una frase che vale più di cento editoriali»

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Giudici a Berlino

Qua in Sicilia, a Catania i giudici non hanno la tradizione di Palermo. Un modo eufemistico per
dire che negli anni 70 mettevano in galera l'ingegnere Mignemi che denunciava scandali edilizi,
negli anni '80 indagavano sui conti di Giuseppe Fava, negli anni '90 coprivano i Cavalieri e un
paio di anni fa non si accorgevano che i Santapaola scrivevano editoriali sui giornali di Ciancio.
Qualche giorno fa, fra la sorpresa generale, sono piombati sull'unico giornale non di Ciancio
della Città, Sud, che - a quanto avevano sentito dire - aveva intenzione di parlar male del
presidente Lombardo.

Sarebbe bellissimo se Catania prima o poi diventasse una città normale, a cominciare dal
Palazzo di Giustizia e da coloro che l'abitano. Non sembra un momento vicino.
Ci sono magistrati borbonici (quelli cresciuti col vecchio Di Natale: il persecutore di Fava, per
intenderci), ci sono magistrati liberal (quelli del caso Catania di qualche anno fa: i persecutori
di Scidà, per intenderci).

Tutt'e due, fra di loro, si fanno a quanto pare una gran guerra, dando notizie, negandole,
incriminandosi - per interposta persona - a vicenda, ciascuno coi suoi notabili, i suoi amici, le
sue bestie nere. Noi (salva la solidarietà coi colleghi di Sud - solo i colleghi) noi non c'entriamo,
siamo di un altro mondo, forse – ci pare a volte - di un altro pianeta.

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Parlare di "politica"? Bravo chi ci riesce

E' diventato impossibile parlare di “politica” perché ormai la divaricazione fra il mondo Vip e
quello nostro è tale, che pare di ragionare con gente di pianeti diversi.
I nostri problemi (di noi di questo pianeta) sono i seguenti:

1) E' morto il sistema industriale con cui l'Italia era uscita dal Terzo Mondo. Morto ammazzato,
con l'eliminazione di Keynes, la fine (teorizzata) del sindacato, la riduzione (proclamata) del
rapporto di lavoro a mero fatto occupazionale, “militare”. Tutto ciò, naturalmente, ricaccerebbe
in dieci anni l'Italia fuori dell'Occidente (l'Argentina “prima” era un paese prospero e avanzato)
ma ai grandi manager non gliene frega niente perché loro – individualmente e come ceto - non
sono italiani, sono multinazionali. La Fiat, che comanda in Italia, non è italiana affatto.

2) Il potere politico (anzitutto la finanza, e poi anche la “politica” e le regioni) in metà del Paese
è tout-court mafioso e nell'altra metà assedia le poche roccaforti ancora indipendenti.

A questi due problemi, ciascuno dei quali basterebbe a a distruggerci come Nazione, si
aggiunge quello della Lega, cioè di un potere dichiaratamente eversivo che siede alla pari con
gli altri poteri.
Le interviste di Bossi qui non ci fanno ridere affatto; ci fanno pensare invece a titoli del tipo “Il
Presidente della Repubblica (o il sindaco di Peretola, o l'ambasciatore del Belgio, o chi volete
voi) si è incontrato ieri col capo delle Brigate Rosse Renato Curcio” ecc.

I danni della Lega risultano per fortuna limitati dalla sua povertà culturale. Riesce
semplicemente ad assorbire e “politicizzare” inciviltà preesistenti. In più, tradisce il nord -
senza neanche accorgersene - aprendo le porte alla mafia, che per lei è semplicemente uno dei
tanti poteri con cui far “politica” furbesca all'italiana.
(Senza accorgersene, certamente. Ma si è accorta benissimo, e l'ha portato a fine cinicamente,
del primo tradimento, quello fondativo, con cui ha permesso la deindustrializzazione del nord
svendendo cent'anni e passa di civiltà – operaia e industriale – questa sì “padana”).

Di questi due problemi (due e mezzo) nella “politica” italiana non si ritrova traccia, se non
formale. La Fiat non ha avuto oppositori. L'Espresso dedica una copertina molto benevola a
Marchionne (e questi sono i liberal, figuriamoci gli altri). Il resto degl'industriali s'è già
accodato.
Quanto alla mafia...beh, lasciamo andare.

Soltanto nelle assemblee dei ragazzi, oramai, si trova la politica reale. Nel paesino sperduto,
alla prima assemblea antimafiosa, vengono rudimentalmente dibattuti i problemi reali del
Paese. A Roma no. Nei convegni, nelle redazioni, nei precongressi, nei partiti si parla sempre e
disperatamente – weimarianamente – d'altro. E uno dovrebbe mettersi seriamente a
commentare il nuovo partito, o non-partito, di Veltroni, o la precisazione di Chiamparino, o
l'ultima intervista di Renzi,?

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Il dopo-Ciancio

A Catania, una buona notizia (una notizia improvvisa, eppure attesa): è nato un giornale nuovo,
al di fuori di Ciancio, e per la prima volta non è uno di quelli fatti da noi ma ha degli
imprenditori che lo finanziano.
La notizia non è il giornale (si chiama “Sud”; il direttore, non nostro, è un bravo ragazzo; esce
ogni due settimane), la notizia sono gli imprenditori. Per la prima volta dopo secoli degli
imprenditori catanesi si son tirati su mutande e brache e hanno timidamente iniziato a fare il
loro mestiere.

Questa è una svolta. Comincia, con questa piccola storia, il dopo-Ciancio.


Ci coglie con sentimenti diversi: simpatia, diffidenza, sorrisi, scuotimenti di testa...
Adesso, il cammino sarà in discesa. Non sarà breve o facile, ma sarà la seconda parte della
strada. La prima è durata venticinque anni.

Io spero che i colleghi di “Sud”, e persino i loro imprenditori, abbiano un buon successo in
questa impresa, che certo non sopravvaluto ma nemmeno voglio sottovalutare. Il suo valore di
segnale è indiscutibile, conferma le nostre analisi, c'incoraggia nel lavoro; ma potrà avere
anche – lo vedremo nei prossimi mesi – un buon peso anche di per sé, giornalisticamente; ed è
ciò che auguriamo.

Quanto a noi, abbiamo avuto una fortuna grandissima in tutti questi anni ed è stata quella di
avere accanto – dopo il gruppo iniziale dei Siciliani – dei colleghi e compagni molto superiori a
quel che meritavamo. Coraggiosi, costanti, solidali, amici: nello sfacelo generale, essi pochi
hanno tenuto duro. E sono ancora qui al loro posto, all'inizio – speriamo – di una stagione meno
dura, nata soprattutto grazie a loro

Non mi ricordo più, alle volte, qual era l'obbiettivo finale dei Siciliani. Forse semplicemente
questo: essere degni del nome, essere i Siciliani. Non c'è dubbio che Fabio, Graziella, Piero,
Giovanni, Toti, Maurizio, Luca, Sonia, Massimiliano, Lillo, Sebastiano e tutti gli altri l'abbiano
conseguito.

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Sei amici

Il dottore Nastasi, veterinario, s'era fatto tutta la ritirata di Russia a piedi, con gli alpini. Mio
padre aveva la rotula sinistra di metallo, completamente ricostruita, e varie schegge non
estraibili in corpo. L'altro Nastasi, quello che insegnava ginnastica, s'era fatto Grecia, Libia e
Albania. Idem Alfano e Ruvolo, tutti in fanteria. Ghetti, un anno e mezzo nei sommergibili: ne
tornarono una decina, dei sottomarini atlantici, e "alla parata di Napoli eravamo ottantuno". Di
questi sei amici non ce n'era uno che non bestemmiasse quando sentiva "gerarchi" e
"mussolini".

Nessuno di questi sei era pacifista, nel senso che intendete voi adesso. Ma odiavano la guerra
e chiunque ne parlasse bene. "La guerra, la guerra...". "Eh. Non potete capire, voi giovani,
quant'è bella la pace". Uno sospirava, l'altro tirava un colpo di toscano.

Non si sono mai fatti guardare, da me bambino, come eroi. Stavano anzi molto attenti a non
farlo. Di tutta la guerra, l'unica racconto che ho di mio padre è delle sigarette che s'erano
scambiati, sotto la tenda dell'ospedale da campo, con il maggiore inglese che forse l'aveva
ferito. E un'altra volta in cui, con tutti noi bambini a naso in su davanti ai premi del tiro a
segno, dopo lunga esitazione e vergognandosi prese la carabina ad ariacompressa e a uno a
uno li buttò giu tutti. "Ero tiratore scelto" mormorò come scusandosi, distribuendo le bambole e
gli orsacchiotti di pezza.

Non so quante ferite e medaglie avessero quei sei amici, tutti insieme. Ma mi hanno insegnato
la pace, poiché erano dei soldati.
Oggigiorno un politico - culomolle, gerarca, mai stato al fuoco, mai rischiata la pelle per il suo
paese - vorrebbe invece insegnare la guerra (peggio: giocare alla guerra) ai ragazzini. Ma mio
padre e i suoi amici, nelle loro varie e diverse idee politiche, concordemente avrebbero avuto
orrore di lui.

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I termini della questione

Angelo Vassallo, Nicola Cosentino.


Pio La Torre, Vito Ciancimino.
Piero Gobetti, Amerigo Dumini.
Questi sono i termini della questione qui ed ora.
Se siamo ancora in politica, il tipo di politica in cui siamo è questo.

***

Il regime uccide i suoi oppositori. Non ci sono ordini dall'alto. Ma non ce n'erano neanche
prima. Non è stato Mussolini a ordinare di uccidere don Minzoni. Non è stato Ciancimino a dare
l'ordine di uccidere Peppino Impastato. Ma quelle uccisioni erano "necessarie", erano nella
struttura intima di tutto un regime.

Per quale motivo il sistema mafioso (che comprendeva, allora, vertici della Dc siciliana)
avrebbe dovuto non uccidere uno come Impastato: che pericoli c'erano a farlo? Un
lottacontinua d paese: chi se ne sarebbe accorto? E che guai srebbero mai potuti venire
dall'uccisione di un povero prete di campagna come don Minzoni? Tutt'e due dannosissimi,
localmente. Facili da soffiare. Davvero c'era bisogno di andare a chiedere gli ordini al Capo, di
disturbarlo per così poco?

Però Badalamenti era uno degli pilastri palermitani - con Spatola - dell'era democristiana. Però
Italo Balbo era uno dei quattro "quadrumviri" del regime. E il capo dei berlusconiani in
Campania è un uomo intercettato in conversazioni servili con camorristi, ed è ancora un
gerarca, ed è Cosentino.
Fra tutti, è stato ancora Don Ciotti a dire la cosa giusta. "Fermatevi tutti un attimo, alla stessa
ora, per ricordare Vassallo". Che frase semplice e "apolitica", da prete. Che frase
profondamente politica, rivoluzionaria, da - negli anni Venti - "comunista".
"Sciopero generale, contro il fascismo, un attimo di silenzio e ricordo per Matteotti!". Questo ha
detto don Ciotti, con le sue parole. Sciopero per un attimo, perché questo siamo in grado di
fare ora. Solo un attimo. Ma basta, se è un attimo tutti insieme. Perché ci vuole poco a
trasformare quel momento in un'ora, e quell'ora in un giorno, e quel giorno in uno
"Sciopero generale contro la mafia - contro il fascismo".

Ecco, la politica è questa. Qui ed ora è questa - lo sciopero generale contro il regime -, la
politica che ci serve, non la trattativa. Non sono Del Bono e Vecchi, non è Federzoni e non è
Ciano - non è nemmeno Sua Maestà il Re e imperatore - il nostro interlocutore. E' quel ragazzo
che organizza quel mometno di sciopero - solo un momento, ora - nella sua scuola. E' quel
sindacalista che si ricorda dei suoi antichi ("No al fascio - pane e libertà"). E' quel muratore
rumeno - tutti i muratori di Roma sono rumeni oggigiorno, come già un tempo erano tutti
meridionali terroni, o tutti burini - che non sciopererà, adesso, ma per un attimo bofonchierà
qualcosa al compagno vicino, là sull'impalcatura.

(Dimenticavo. Vassallo era un esponente dell'odiato "Pi Di meno Elle", esattamente come
Matteotti era un "traditore riformista" e Pio La Torre un "moderato" del Pci. "Uniti si vince"
dicevamo ua volta, quando si vinceva).

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Parlando di noi

Caro G. e cari tutti,


mi dispiace molto di non poterci essere ora, vi seguo con attenzione e vi auguro buon lavoro.
Buon *lavoro*, non buona commemorazione o buona autoconsolazione o buona ripetizione
delle cose che già tutti sappiamo. E nemmeno - ma questo a voi non c'è proprio bisogno di dirlo
- buona autoglorificazione, una categoria che un tempo era quasi assente e ora ahimè è fin
troppo presente nelle occasioni pubbliche dell'antimafia.

Lavorare vuol dire non essere nè geni nè eroi, e anzi guardarsi accuratamente dall'esserlo e
considerare con diffidenza un uso troppo frequente di queste parole. Le guerre le vincono i
comuni soldati - e la vostra è una guerra - e non i generali e neppure i cavalieri a cavallo.
Bisogna che vi abituiate subito a pensare così, per quanto fuori moda sia; a lavorare
pazientemente e modestamente, ma con serietà e con costanza, senza grandi parole ma senza
mollare mai nemmeno per un istante. Ma questa nel caso vostro è una predica superflua, visto
che vi conosco e so che persone siete. Diciamo che è una cosa in più, un pericolo che vi
segnalo.

Certo, potrà capitarvi (è capitato ad alcuni dei presenti) di dovere affrontare situazioni
durissime, momenti in cui - come si dice - non è neanche sicuro di riportare a casa la pelle. Ma
se vi toccheranno affrontatele senza tante parole, come un muratore su un'impalcatura difficile
o un ferroviere su una linea rischiosa. Noi siamo stati così, Pippo Fava è stato così. Se volete
imitarlo - ed è bello imitare uno come Pippo Fava - cominciate da questo: niente grandi parole!

E un'altra cosa vorrei dirvi, un'altra cosa un po' anomala, del Direttore: non era un giornalista
d'inchiesta. Lo era stato a suo tempo (con Liggio, con Genco Russo, coi mafiosi di allora) ma
non quando ha diretto i Siciliani. E allora perché l'hanno ammazzato? Perchè non Claudio o me
o Miki, che invece le inchieste le facevamo proprio allora?

Perché il giornalismo d'inchiesta non è che una parte del giornalismo, e nemmeno la parte
principale. La parte principale è quella (fra virgolette) "politica" ed è come leader politico che
Pippo Fava è stato ucciso. Ma come, i leader politici vanno in giro così, senza potere nè
cravatta, senza nemmeno un partito cui appartenere?

Proprio così. La politica vera è raccontare i dolori della gente, e le loro speranze, e i volti dei
potenti che l'opprimono, con arte, mettendoci tutti se stessi, cervello e cuore. Allora, e soltanto
allora, la verità colpisce davvero.
Tra voi ci sono tre ottimi giornalisti - Carlo, Graziella e Pino - che hanno pagato moltissimo per
quello che hanno fatto. Hanno fatto inchieste bellissime ma ciò che non gli è stato perdonato è
stato prima di tutto il loro ruolo "politico" e civile.
Quando Graziella non solo indaga su un episodio ma anche organizza i Siciliani, quando Carlo si
fa esempio vivente di rottura dell'omertà del notabilato locale, quando Pino non solo denuncia i
Fardazza ma li schernisce e porta la gente a ridere di loro, ebbene, questa è politica e questi
sono i nostri militanti politici, non solo e non principalmente i nostri giornalisti. Bravi, concreti,
complessivi e quindi non digeribili in alcun modo. "Pericolosi".

E così spero si possa dire di voi, in tutti i campi. Un saluto affettuoso e ancora buon lavoro.

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Peppe Sini <nbawac[at]tin.it > wrote:

< Il governo del colpo di stato razzista è ipso facto un governo fuorilegge, avendo violato la
Costituzione della Repubblica Italiana ed i fondamenti stessi dello stato di diritto.
Occorre ottenere le dimissioni del governo del colpo di stato razzista; e non attraverso una
congiura di palazzo, ma attraverso una insurrezione nonviolenta del popolo italiano in difesa
dei diritti umani di tutti gli esseri umani.
Dimissioni immediate del governo hitleriano della guerra e del razzismo, delle stragi e delle
persecuzioni, dell'anomia e della barbarie.
Viva la Costituzione della Repubblica Italiana! >

________________________________________

Tindaro La Rosa, sindacalista siciliano, wrote:

Non siamo tutti gli stessi

< Una sola cosa accomuna gli uomini:


la morte dopo la vita;
ma nessuna cosa accomuna tutti
nella vita.
La politica aggrega,
ma nella diversità di scelte;
educa sul come vivere,
organizzarsi e agire.

Non siamo e non potremo mai essere


tutti gli stessi,
perchè partiamo da posizioni tanto diverse
per andare in direzioni tanto diverse,
per raggiungere obiettivi distanti
e contrastanti.

Non siamo tutti gli stessi


e non è vero che sono tutti gli stessi,
sia sul piano generale che particolare,
sia collettivamente
che individualmente >
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--- Sab 25/9/10, Redazione Attac Italia <redazione@attac.org> ha scritto:

Da: Redazione Attac Italia <redazione@attac.org>


Oggetto: [ATTAC] INFO 216 - SALVATE IL (BAMBINO) SOLDATO KHADR
A: granello.di.sabbia@attac.org
Data: Sabato 25 settembre 2010, 09:59

GRANELLO DI SABBIA (n°216): SALVATE IL (BAMBINO) SOLDATO KHADR


Bollettino elettronico quindicinale di ATTAC
Venerdì 24 settembre 2010

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Vi preghiamo di diffondere il Granello nella maniera più ampia possibile.


Numero di abbonati attuali: 7 876

Archivio:
http://www.italia.attac.org/spip/rubrique.php3?id_rubrique=3

Per abbonarsi o cancellarsi : redazione@attac.org


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SALVATE IL (BAMBINO) SOLDATO KHADR

Promemoria

Dal 1° gennaio al 24 settembre 2010:

770 morti sul lavoro


19 251 invalidi
770 064 infortuni
Indice degli argomenti

1) Salvate il (bambino) soldato Khadr


di Nicola Sessa

2) Iraq, la grande fuga


Si ritira l'ultima unità combattente Usa, prima del 31 agosto, lasciando gli iracheni al loro
destino.

3) I pirati hanno distrutto Eutelia


di Andrea Demontis

4) I novecentomila «invisibili»senza studio né lavoro


I dati dell'ufficio studi della Confartigianato sulla generazione che va dai 15 ai 29 anni
Un giovane su sei risulta fuori da ogni attività

5) "Una grande stagione di sensibilizzazione sociale sul tema dell’acqua"


Appello assemblea movimenti per l’acqua

_____________________________

1) Salvate il (bambino) soldato Khadr


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di Nicola Sessa

Inizia a Guantanamo il processo Khadr, il bambino soldato prelevato in Afghanistan dalle forze
speciali Usa quando aveva solo quindici anni.

Sono bastate due udienze preliminari, lunedì e martedì, per vagliare le condizioni di
procedibilità e la composizione della giuria che ha nelle mani il futuro di Omar Khadr, il
ventitreenne cittadino canadese rinchiuso da sette anni nel campo di prigionia di Guantanamo,
Cuba. Un terzo della sua giovane vita nel carcere più infame del pianeta, dal momento che
quando le forze speciali Usa lo prelevarono nel villaggio afgano di Ayub Kheyl, Omar di anni ne
aveva solo quindici.

Era il 27 luglio del 2002: nel corso di un combattimento tra gli uomini della Delta Force e un
gruppo di talebani, Omar Khadr - classe 1986 - lanciò una granata che uccise un ufficiale
statunitense e provocò il ferimento di altri due soldati: 1) omicidio, 2) tentato omicidio, 3)
cospirazione, 4) affiliazione terroristica, 5) spionaggio, sono i cinque capi d'accusa di cui il
bambino soldato Khadr deve rispondere davanti alla commissione militare di Guantanamo. È il
primo procedimento dell'era Obama (che aveva promesso la chiusura di Gtmo entro il 1°
gennaio del 2010 e che, soprattutto, aveva aspramente criticato il sistema delle commissioni
militari), e gli Stati Uniti sono il primo paese, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi,
a processare un bambino soldato.

Omar è arrivato sorridente davanti agli uomini che lo giudicheranno, in giacca e cravatta,
all'occidentale, diversamente dalle tuniche bianche musulmane che negli anni hanno sfilato sul
banco degli imputati. Gli avvocati della difesa - il canadese Dennis Edney e il tenente
colonnello Jon Jackson - hanno chiesto al giudice col. Patrick Parrish di stralciare dai verbali la
confessione di Omar Khadr, inattendibile - ad avviso della difesa - in quanto estorta sotto
minaccia e tortura. La corte la ritiene invece valida e attendibile, nonostante nel maggio scorso
un ufficiale dell'esercito Usa avesse ammesso che nella prigione di Bagram, Afghanistan, (dove
Omar è stato trattenuto prima del trasferimento a Cuba) la sua squadra avesse minacciato il
quindicenne di stupro collettivo e di morte se non avesse collaborato. L'unico atto di indulgenza
della corte arriva quando il col. Parrish interrompe l'accusa per invitare i giurati a tenere conto
dell'età del ragazzo al tempo in cui risalgono i fatti. Difatti è proprio questo il perno su cui si
basa l'impianto della difesa: Omar non sarebbe un feroce talebano ma solo un ragazzino
capitato in una brutta situazione. L'unica colpa del bambino soldato è quella di essere figlio di
Ahmed Said Khadr, cittadino canadese di origini egiziane trasferitosi in Pakistan a metà degli
anni ‘80, sospettato di essere stato finanziatore di al-Qaeda per il tramite di un'oscura Ong.

La difesa ha sperato fino all'ultimo in un intervento del presidente Usa Obama che "ha invece
deciso di scrivere un nuovo, triste e patetico capitolo nel libro delle commissioni militari" di
Guantanamo. Diverse organizzazioni umanitarie stanno seguendo da vicino l'andamento del
processo che potrebbe portare Omar Khadr alla sentenza del carcere a vita. L'Unicef, l'agenzia
delle Nazioni Unite che si occupa dell'infanzia, ha espresso forti dubbi sulla legalità di questo
processo, in primis perché i paesi sottoscrittori (tra cui gli Usa) del "Protocollo opzionale sul
coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati" devono prestare assistenza ai bambini soldati
per il loro recupero sociale e la loro reintegrazione e in secondo luogo perché questo processo
potrebbe costituire un gravissimo precedente che mette a rischio il futuro e la vita di centinaia
di migliaia di bambini soldati impiegati nei conflitti in tutto il mondo.

Omar Khadr quel 27 luglio del 2002 ha perso un occhio ed è stato colpito alla schiena da due
proiettili, è stato sottoposto a molte delle pratiche presenti nel catalogo della "dottrina
Cheney", nei suoi confronti non è stato applicato l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra né
alcun trattato sulla Giustizia minorile internazionale. In una lettera indirizzata ai suoi avvocati,
Omar ha rifiutato il patteggiamento della pena, ha voluto che questo processo si celebri perché
"Io ho l'obbligo di mostrare al mondo ciò che succede quaggiù. Sembra che quanto fatto finora
non sia bastato, ma forse funzionerà se il mondo vedrà gli Usa condannare un bambino al
carcere a vita. E se nessuno dovesse accorgersi di nulla, in quale mondo verrei rimesso in
libertà? In un mondo fatto di odio e di discriminazione".

it.peacereporter.net 12 agosto 2010

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2) Iraq, la grande fuga


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Si ritira l'ultima unità combattente Usa, prima del 31 agosto, lasciando gli iracheni al loro
destino.

Lo spiegano tutti i manuali militari, per coloro che trovano interessanti un certo tipo di letture,
come un grande esercito debba ritirarsi da un teatro di guerra. In silenzio, senza offrire punti di
riferimento ai nemici che - dall'avvento della guerriglia - avrebbe un bersaglio molto facile nelle
elefantiache colonne in ritirata.

Gli statunitensi, alla chetichella, hanno applicato alla lettera la tradizione bellica e ieri l'ultima
unità combattente Usa ha abbandonato l'Iraq. L'operazione Iraqi Freedom, iniziata il 20 marzo
2003, chiuderà comunque i battenti il 31 agosto prossimo, come era già deciso dal 2008, ma
per non esporre i militari a stelle e strisce ad agguati dei ribelli iracheni il ritiro è avvenuto in
tempi diversi.
Restano 52mila uomini, con compiti di consulenza e addestramento per le truppe dell'esercito
iracheno e della polizia, che saranno il motore della nuova operazione statunitense in Iraq, la
New Dawn (Nuova alba), che inizia ufficialmente il 1 settembre prossimo ed è destinata a
durare per tutto il 2011, ma con la possibilità di essere prolungata.

L'ansia della classe politica e dei militari iracheni non è servita a convincere l'amministrazione
Obama a rinviare il ritiro delle truppe combattenti. L'accordo, del resto, è stato scritto nel 2008
dall'allora presidente Usa George W. Bush e dal premier iracheno Nouri al-Maliki. Obama, vinte
le elezioni, si è limitato a ereditarlo e a confermarlo. D'altronde, sempre più la politica militare
Usa si affida in toto alle intuizioni del generale David Petraeus, ora comandante del fronte
afgano. Proprio la battaglia in Afghanistan, per il governo Usa, è quella determinante. A
Washington sperano che, come in Iraq, Petraeus s'inventi quell'exit strategy che i politici
repubblicani e democratici Usa non hanno saputo immaginare né per Baghdad né per Kabul.

Petraeus, in Iraq, ha preso in mano una situazione rovente. Nel 2006, dopo tre anni di conflitto,
la medie delle vittime era di 3mila al mese. Ha avuto un'intuizione chiave, il generale.
Coinvolgere i sunniti nella pacificazione del Paese. Non ci voleva un genio, ma dall'invasione
del 2003 i sunniti erano stati purgati dalla società, dalla politica, dai ranghi militari. L'arrivo dei
combattenti del jihdaismo internazionale, sotto le insegne vere o presunte di al-Qaeda,
avevano creato un ginepraio nel quale hanno perso la vita più di 4500 militari Usa e quasi un
milione di iracheni. Petraeus tratta con i clan sunniti, affidando alle loro milizie, i Consigli del
Risveglio (al-Sahwa), il compito di combattere i miliziani 'stranieri'. L'hanno fatto e la situazione
è cambiata.

L'attentato dei giorni scorsi alle reclute dell'esercito iracheno, in fila davanti al ministero della
Difesa a Baghdad, costato la vita ad almeno settanta persone, dimostra come la situazione sia
tutt'altro che pacificata. Solo che i ribelli, adesso, puntano su attentati singoli che facciano più
danni possibile, mentre per anni lo stillicidio era quotidiano e terribile. Anche la classe politica
irachena non è pronta e lo dimostra il fatto che il 7 marzo scorso si è votato, ma ancora non si
è potuto formare un governo, tra sciiti moderati e filo-iraniani, curdi e sunniti da coinvolgere
nel potere.

La realpolitik, però, non può fare soste e adesso l'Afghanistan è la priorità del governo Usa. E'
là che serve Petreaeus, è là che serve il grosso della macchina militare Usa, sempre più
costosa e sempre più tallone d'Achille di un'economia statunitense che fatica a riprendersi. Nel
periodo di massima espansione, il contingente Usa in Iraq contava 170mila uomini.
Un'enormità. L'alba nuova di oggi è sorta sui marines, piegati sotto i loro zaini, che si dirigono
verso il Kuwait e l'Arabia Saudita. Resta da da capire se anche per l'Iraq è un nuovo giorno.

it.peacereporter.net 19 agosto 2010

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3) I pirati hanno distrutto Eutelia


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di Andrea Demontis

Volete costruire un patrimonio sulle spalle dei dipendenti della vostra azienda? Provate un
irresistibile sentimento di odio verso chi da oltre trent’anni manda avanti l’informatica in Italia,
e volete distruggere, depredare, spolpare ciò che rimane della gloriosa Olivetti? Non vi turba il
sonno il fatto che più di mille persone non percepiscano più il loro stipendio mentre voi vi
dilettate tra paracadutismo e altri sport estremi? Sembrerà strano, ma nel nostro paese, il
paese delle libertà, fare tutto ciò è possibile.

Se andate a raccontarla in giro, la vertenza Eutelia, e non avete con voi le prove di ciò che
state dicendo, correte il rischio di essere rinchiusi nel primo manicomio disponibile. Se invece
siete a conoscenza del caso, non potete che indignarvi di fronte alla spregiudicatezza e alla
tracotanza dell’allegra combriccola di delinquenti che si è inspiegabilmente trovata a dover
gestire una delle più grandi aziende di telecomunicazioni e servizi informatici rimaste in Italia.

Per chi ancora non lo sapesse, tutto ebbe inizio il 15 giugno del 2009, giorno in cui Eutelia,
controllata dalla famiglia Landi, cede il ramo di Information Technology “Agile S.p.a.”, e i suoi
2000 dipendenti, per 96mila euro ad Omega, società con a capo due noti fallimentaristi,
Claudio Marcello Massa e Sebastiano Liori: 14 fallimenti in due, un curriculum alle spalle di
tutto rispetto quando si parla di lucrare sulle spalle dei lavoratori.

Il 22 ottobre, Omega dà il via al processo di licenziamento collettivo che vede coinvolti 1192
dipendenti di Agile sui 1880 totali: da quel momento centinaia di famiglie verranno
letteralmente abbandonate al loro destino, senza un lavoro e senza uno stipendio con il quale
campare, con le istituzioni spettatrici non paganti di uno degli spettacoli più macabri mai
prodotti dal capitalismo di rapina di stampo italiota. Non si tratta, come per i precedenti crac
Parmalat o Cirio, di un dissesto finanziario o di un default scaricato sulle spalle dei
risparmiatori. Infatti, tra scatole cinesi e società offshore create ad hoc per spolpare l’azienda
principale, il caso Eutelia è l’unico ad avere la sottrazione indebita di fondi come primo
obiettivo aziendale.

Lavoratori "senza volto"

I personaggi coinvolti nella vicenda, per la loro levatura criminale, sembrano provenire
direttamente dal film “Romanzo criminale”, ma più che i componenti della Banda della
Magliana, questi loschi figuri ricalcano alla perfezione il personaggio di Virgil Starkwell, il
maldestro ladruncolo interpretato da Woody Allen nel film “Prendi i soldi e scappa”. Uno di loro,
infatti, Samuele Landi, amministratore delegato Eutelia e probabile vertice del sodalizio
criminale, ha pensato bene di rifugiarsi nel Dubai, riuscendo a sfuggire agli arresti del 9 luglio
2010 che hanno visto finire in manette sette persone: Pio Piccini, amministratore delegato
Omega, Leonardo Pizzichi, presidente Eutelia e nel collegio dei sindaci Mps, il già citato Claudio
Marcello Massa, amministratore Agile-Omega, Marco Fenu, tesoriere Omega, Salvatore
Riccardo Cammalleri amministratore unico Agile, Antonangelo Liori “dominus” Omega, Isacco
Landi del cda Eutelia.

L’accusa della procura di Roma è di bancarotta fraudolenta con quasi 16 milioni di euro distratti
dal bilancio Agile attraverso vorticosi giri di transazioni illegali all’estero. A pagare il salato
prezzo dei traffici, scontato dirlo, i lavoratori Eutelia-Agile, che da ormai cinque mesi presidiano
Piazza Montecitorio a oltranza, in segno di protesta, in attesa che la vertenza giunga ad una
conclusione positiva.

Il blog dell’isola dei cassintegrati seguirà questo caso di lavoro e diritti negati, una vicenda che
ci mostra con tutta la sua limpidezza, la faccia oscura di una parte dell’imprenditoria italiana.
Come non ricordare infatti le parole pronunciate al telefono dal “dominus” del gruppo Omega,
quell’Antonangelo Liori che disse al fratello Sebastiano: “Se fallisce Eutelia, io continuo ad
avere la mia macchina, il mio autista, il mio elicottero, la mia villa…tutto uguale, e loro non
hanno più lavoro. Questa è la storia!”.

Ecco, dubitiamo che questo amorevole personaggio, possa ancora godere delle sue proprietà,
trovandosi ora in carcere. Chi troppo vuole, nulla stringe. Il problema è che troppo spesso nulla
stringe e rimane a piedi anche chi ha, come unico auspicio, quello di poter lavorare come ha
sempre fatto.

www.isoladeicassintegrati.com 16 agosto 2010

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4) I novecentomila «invisibili» senza studio né lavoro


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I dati dell'ufficio studi della Confartigianato sulla generazione che va dai 15 ai 29 anni
Un giovane su sei risulta fuori da ogni attività

Pure loro sono tecnicamente «invisibili». Ancora più degli esponenti di quelle tante categorie di
lavoratori autonomi che non hanno protezione sociale. Invisibili per la scuola o l'università,
l'Inps, il fisco. Perfino per gli uffici di collocamento. Sono i 641 mila giovani italiani fra i 15 e i 24
anni che non studiano, non lavorano ma nemmeno lo cercano, il lavoro. Un numero
impressionante, considerando che si tratta del 10,5 per cento di tutte le persone di quell'età. E
il bello è che di questi «invisibili» i due terzi circa sono al Sud: 415 mila, ovvero il 16,2 per
cento di tutti i giovani meridionali. Quasi tre volte rispetto al Nord. Nelle regioni settentrionali
coloro che si trovano in questa condizione sono 157 mila, ovvero il 6,5% del totale. Ancora
meno, il 6,3 per cento, nel Centro: dove il loro numero non raggiunge i 70 mila, un sesto nei
confronti del Mezzogiorno. Per un Paese sviluppato qual è il nostro si tratta di un fenomeno
decisamente rilevante. Se poi la fascia d'età «giovanile» di estende dai 24 ai 29 anni, ecco che
gli «invisibili» diventano addirittura 908 mila. E il loro peso sale ancora al 18,7% dell'intera
popolazione italiana compresa in quella fascia d'età. Ciò significa che fino ai 29 anni è
«invisibile» un giovane su sei.

Un segnale chiaro, secondo l'ufficio studi della Confartigianato che ha elaborato questi dati:
con la crisi si è ancora accentuato nel nostro Paese il fenomeno della concorrenza sleale nei
confronti delle piccole imprese regolari. Segnale che troverebbe conferma in altri dati
preoccupanti. Per esempio la diminuzione del tasso di attività fra gli italiani della fascia d'età
25-54 anni. Fra il primo trimestre del 2008 e lo stesso periodo di quest'anno è calato dell'1,2
per cento, passando dal 78,2 al 77 per cento. E questo mentre negli altri Paesi europei, dove il
tasso di attività dei cittadini non più considerati in età scolare né ancora pensionabili è
superiore a quello nostrano, si registravano aumenti pur modesti. Anche qui, se il
peggioramento ha riguardato tutta Italia, è al Sud che il fenomeno si è sentito di più: nel
Mezzogiorno la flessione è stata del 2,5 per cento. La Confartigianato ha stimato che durante la
crisi economica ben 338 mila adulti fra i 25 e i 54 anni siano usciti dalla forza di lavoro, e di
questi ben 160 mila donne: categoria che da noi ha il poco invidiabile primato europeo del
minore tasso di attività (appena superiore al 46 per cento). Ben 230 mila sfortunati, pari al 68
per cento dell'intera platea, sono meridionali: 143 mila uomini e 97 mila donne.

Considerando tutto il Paese, nel primo trimestre di quest'anno i maschi «inattivi» non più in età
scolare ma non ancora pensionabili erano un milione 361 mila, contro 4 milioni 628 mila donne.
Totale: 5 milioni 989 mila persone, il 10 per cento dell'intera popolazione italiana. Più di un
milione dei quali (esattamente un milione 69 mila) nella sola Campania. In questa regione i
maschi fra 25 e 54 anni «inattivi» sono 277 mila, il 21 per cento del totale.

Per non dire poi dell'aumento del lavoro «autonomo» irregolare o «abusivo», come lo definisce
l'organizzazione degli artigiani. La quale ha calcolato, sulla base dei dati dell'Istat, che tra il
2008 e il 2009 il numero degli occupati indipendenti non regolari è aumentato dal 9,2 al 9,4 per
cento del totale della forza di lavoro autonoma, raggiungendo 639.900 unità. Parliamo di una
cifra pari al 62 per cento di tutti gli occupati indipendenti nel settore manifatturiero. Si tratta
anche di una quantità di persone pressoché identica a quella dei giovani «invisibili» fra i 15 e i
24 anni. Una semplice coincidenza, ma significativa.

Secondo la Confartigianato il flusso del lavoro irregolare viene alimentato anche da politiche
del welfare profondamente distorsive. L'indagine porta l'esempio dei sussidi di disoccupazione
in agricoltura che spettano a chi ha lavorato in un anno almeno 51, 101 o 151 giornate secondo
i casi. E non manca di citare il Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali di due
anni fa nel quale il ministero del Lavoro denuncia apertamente «distorsioni e comportamenti
collusivi». Nel 2007 hanno goduto delle varie indennità di disoccupazione, secondo l'Inps, ben
504.377 individui, cioè il 48,9 per cento di tutti gli operai agricoli attivi in Italia. Ma se nel Nord
Ovest la quota dei beneficiati non è andata oltre il 14,4 per cento, al Sud è arrivata a uno
stratosferico 65,4 per cento del totale. Dei 504.377 operai agricoli sussidiati dall'Inps, ben
422.337, ossia l'83,7 per cento, è nel Mezzogiorno.

Il top si tocca in Calabria, con 100.757 disoccupati: numero pari quasi ai tre quarti (il 74,3 per
cento) di tutti gli operai agricoli calabresi. Su livelli paragonabili anche la Sicilia, dove i
destinatari di trattamenti di disoccupazione sono stati nel 2007 ben 116.589, il 74,2 per cento
del totale. Seguono la Puglia, con 111.049 beneficiati (il 60,3 per cento), e la Campania, con
63.982 disoccupati (65,7 per cento). All'opposto, la Lombardia, dove nel 2007 sono state
corrisposte appena 5.024 indennità (l'11,1 per cento).

Ma se le cose stanno così, come meravigliarsi se proprio la Calabria è l'area della penisola dove
l'illegalità nel mercato del lavoro raggiunge i livelli più elevati? Sempre nel 2007, ha stimato
l'Istat, i lavoratori «irregolari» erano in quella regione il 27,3 per cento di tutti quanti gli
occupati. E quel che è più grave, il loro numero risultava superiore dell'1,3 per cento rispetto a
quello del 2001, anno nel quale il governo (allora presieduto da Silvio Berlusconi) aveva
approvato una legge con l'obiettivo di favorire l'emersione delle attività in nero. Provvedimento
che si sarebbe però rilevato un sostanziale fallimento, come dimostrano proprio questi dati.

www.controlacrisi.org 17 agosto 2010

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5) Una grande stagione di sensibilizzazione sociale sul tema dell’acqua


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Appello assemblea movimenti per l’acqua

Firenze, 18-19 Settembre 2010


Noi donne e uomini dei movimenti sociali territoriali, della cittadinanza attiva, del mondo
dell’associazionismo laico e religioso, delle forze sociali, sindacali e politiche, del mondo della
scuola, della ricerca e dell’Università, del mondo della cultura e dell’arte, del mondo agricolo,
delle comunità laiche e religiose
che in questi anni e in tutti i territori
abbiamo contrastato la privatizzazione del servizio idrico, perché sottrae alle collettività un
diritto essenziale alla vita;
abbiamo promosso e partecipato, nel Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua o in altri
percorsi, a iniziative ed azioni, socializzando i saperi e le esperienze, rafforzandoci
reciprocamente, allargando la sensibilizzazione e il consenso;
abbiamo promosso con oltre 400.000 firme una legge d’iniziativa popolare per la
ripubblicizzazione dell’acqua e la sua gestione partecipativa;
abbiamo promosso mobilitazioni territoriali, manifestazioni nazionali e appuntamenti
internazionali per riappropriarci di ciò che a tutti appartiene, per garantire a tutte e tutti un
diritto universale, per preservare un bene comune per le future generazioni, per tutelare una
risorsa naturale fondamentale;
abbiamo promosso una campagna referendaria che si è conclusa con lo straordinario risultato
di oltre un milione e quattrocentomila firme raccolte;
consapevoli del fatto che
il voto referendario apre una stagione decisiva per l’affermazione dell’acqua bene comune e
della sua gestione pubblica e partecipativa;
la battaglia dell’acqua è assieme una battaglia contro il pensiero unico del mercato e per una
nuova idea di democrazia;
la privatizzazione e la mercificazione dell’acqua e del servizio idrico è incompatibile con
conservazione della risorsa acqua, degli ecosistemi e più in generale dell’ambiente;
una vittoria ai referendum della prossima primavera potrà aprire nuove speranze per un
diverso modello economico e sociale, basato sui diritti, sui beni comuni e sulla partecipazione
diretta delle persone;
facciamo appello
a tutte le donne e gli uomini di questo paese
perché, in questi mesi che ci porteranno al referendum si apra una grande stagione di
sensibilizzazione sociale sul tema dell’acqua, e si produca, ciascuno nella sua realtà e con le
sue attitudini e potenzialità, uno straordinario sforzo di comunicazione sull’importanza della
vertenza in corso e sulla necessità del coinvolgimento di tutto il popolo italiano, con l’obiettivo
di arrivare all’affermazione dei tre referendum abrogativi.
Tutte e tutti assieme possiamo affermare l’acqua come bene comune, sottrarla alle logiche del
mercato, restituirla alla gestione partecipativa delle comunità locali.
Tutte e tutti assieme siamo coinvolti nel problema e possiamo divenire parte della soluzione.
Il tempo è ora. Perché si scrive acqua e si legge democrazia.
Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Comitato Promotore dei referendum per l’Acqua Pubblica
per adesioni segreteria@acquabenecomune.org

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SUGGESTIONI DI LETTURA
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Se il mondo perde il senso del bene comune


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di Stefano Rodotà
La Repubblica, 10 agosto 2010

Pochi giorni fa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che
riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L’anno scorso il
Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet.
Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni
internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di
diritti fondamentali all’accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l’acqua) e per
garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).

Nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti,
Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta
politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di
battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che
per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente
dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza, ai patrimoni
culturali e ambientali – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le
cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello
schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell’acqua; in Italia la questione dell’acqua è
divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta
di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una
libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche
documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non
può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.

Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l’inadeguatezza degli schemi tradizionali e
i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità, le Dolomiti sono
oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse
lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi,
mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o
privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra
la debolezza dell’argomento, usato per l’acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in
mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la
natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni
collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali.
I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti
devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere
amministrati muovendo dal principio di solidarietà.
Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse
delle generazioni che verranno.
In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità".

Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei
beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un
compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra
beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l’acqua non può essere considerato una
merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure"
proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in
Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole
a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della crescita
della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato
dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato
desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive,
consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare.
La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un
limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi
del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla
necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione
scientifica e tecnologica.
Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le
chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben
può essere quello di "un’erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui
s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli
interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni.
Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente
che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame
sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze.
Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di
garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo.
Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non
tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni
che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che
beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda
delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione
della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.

Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con
problemi interamente nuovi.
Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato.
Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la
proprietà dev’essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell’articolo 43, indica una sorta di
terza via tra proprietà pubblica e privata.
Qui è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono
affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.

--Allegato al messaggio inoltrato--


To: ra09577spq@racine.ra.it
Subject: ULTIME NOTIZIE DALL\'ECUADOR!
Date: Fri, 1 Oct 2010 12:05:52 +0200
From: segreteria@giannimina.it

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ULTIME NOTIZIE
DALL'ECUADOR!

Colpo di stato in Ecuador: l’America latina


integrazionista è più forte del gollismo

“Chi ha
versato il sangue di compatrioti sappia che non dimenticheremo né
perdoneremo”. E’ questo un passaggio non banale del discorso di Rafael
Correa davanti a migliaia di sostenitori dopo 11 ore di sequestro in un
ospedale della polizia e dopo essere stato liberato solo da un blitz
dell’esercito. In queste parole c’è il seme dell’America latina
nuova, che non abbassa più la testa e non ha più paura di processare i
criminali e oggi, non bastano certo le declamazioni ma centinaia di
violatori di diritti umani e stupratori della democrazia in carcere lo
testimoniano- il cancro dell’impunità.
Ma, al di là delle
parole, Rafael Correa ha già vinto la propria sfida. Ha sfidato i
golpisti invitandoli a sparare, ad ucciderlo se ne avevano il coraggio.
Quindi, per 11 ore, i golpisti avevano preteso che il presidente umiliasse
se stesso e la Costituzione dell’Ecuador accettando di trattare,
barattando la sua incolumità personale con la rinuncia sostanziale a quel
progetto di un nuovo Ecuador dove tutti fossero cittadini. Ma Correa non ha
chinato la testa e, a quel punto, il blitz, anticipato di due ore da
Giornalismo partecipativo, è apparso l’unica soluzione.
Gli
avvenimenti di Quito, dopo l’ennesima settimana di demonizzazione
dell’America latina integrazionista da parte dei grandi media mondiali,
rimettono in maniera chiara come il sole, per chiunque sia in buona fede,
le cose al loro posto. Come ha affermato nella notte il Presidente
brasiliano Lula ancora una volta è stato testimoniato che non è la
sinistra ad attentare alla democrazia in America latina. La sinistra, i
governi integrazionisti che stanno riscattando il Continente dalla notte
neoliberale, sono la democrazia in America latina. Lula stesso e Dilma
Rousseff, Hugo Chávez, Cristina Fernández, Rafael Correa, Pepe Mujica,
Evo Morales, perfino Cuba, per quanti errori possano aver compiuto e
continueranno a compiere, stanno dalla parte dei popoli che vogliono
riprendersi la storia, vogliono una vita più dignitosa e stanno ridando
un senso a parole d’ordine in Europa dimenticate come uguaglianza e
giustizia sociale.
E’ invece la destra ad attentare sempre alla
democrazia in America latina, come ha dimostrato in Venezuela, in
Honduras, in Ecuador con i colpi di stato e in in Bolivia col
secessionismo, partendo da quello strumento goebblesiano che in tutti i
paesi prende la forma del complesso mediatico commerciale.
E’
sotto gli occhi di tutti quanto è avvenuto questa settimana.I media
commerciali di tutto il continente, ma anche europei ed italiani, si sono
dedicati sistematicamente a demonizzare i governi democratici di Brasile e
Venezuela. Il primo, con all’attivo forse il più positivo bilancio al
mondo perfino in termini di crescita capitalista dal 2003 in avanti, il
secondo che ha appena vinto con maggioranza assoluta le elezioni
parlamentari, sono stati costantemente sotto tiro. Nel caso venezuelano la
vittoria è stata ridicolamente e sistematicamente presentata come una
sconfitta e una campana a morto per il governo bolivariano. Anche
sull’Ecuador i disinformatori sono al lavoro: “tranquilli non è un
golpe” hanno sviato tutto il giorno e anche adesso occultano evidenze,
testimonianze e prove per presentare il complotto come un semplice
conflitto sindacale sfuggito di mano per focosità naturale (sic) delle
popolazioni andine.
Conflitto sindacale un corno! Le parole e i
fatti devono avere ancora un senso, anche per chi di mestiere lavora
sempre per edulcorare. Il presidente è stato malmenato, colpito con gas
lacrimogeni, infine sequestrato per 11 ore in un’ospedale all’interno
di una caserma, con almeno un tentativo solido di portarlo altrove,
frustrato solo perché nel frattempo migliaia di cittadini avevano
circondato la caserma, riproducendo per molti versi l’epopea dei giorni
dell’aprile 2002 in Venezuela, quando il popolo si sollevò contro il
golpe riportando Hugo Chávez a Miraflores. Il popolo pacifico che non
accetta più la prepotenza è la cifra dell’America latina del XXI
secolo. Anche dove la violenza infine trionfa, come è successo in
Honduras, nessuno abbassa più la testa.
Ma non è solo il sequestro
del presidente, che pure è la prova provata e legale dell’avvenuto
colpo di stato, a testimoniare la gravità degli eventi: durante ore sono
state sotto controllo golpista le due principali città del paese e i due
principali aeroporti del paese sono stati chiusi. Anche in città come
Cuenca e Manabi ci sono state manifestazioni di appoggiAggiungi un
appuntamento per oggio al golpe, mettendo in piazza quella massa di
manovra, gli “studenti di destra”, già visti all’opera in varie
parti del Continente, da Santa Cruz in Bolivia a Caracas, scesi in piazza
in appoggiAggiungi un appuntamento per oggio ad un governo civico-militare
che per almeno un paio d’ore è sembrato potesse prosperare.
Altrove, invece, la strada è stata presa da civili leali alla
Costituzione, in ore di tensione intensa che hanno già fatto cadere le
teste del capo della Polizia e, la notizia non è ufficiale ma è stata
confermata a Giornalismo partecipativo, del ministro degli Interni Gustavo
Jarlkh. La televisione pubblica, altro atto gravissimo, è stata assaltata
e ridotta al silenzio per oltre un’ora da elementi sicuramente
riconducibili all’ex-presidente fondomonetarista Lucio Gutiérrez.
Dov’è la SIP, la società interamericana della stampa (la confindustria
degli editori di media latinoamericani), dov’è Reporter Senza Frontiere,
così solerti a strapparsi le vesti quando un media commerciale è
ricondotto al rispetto delle leggi in Bolivia o in Brasile o in Venezuela
e sempre silenziosi quando la libertà di stampa dei media non omologati
viene vilipesa? Per ore molti giornalisti sono stati sequestrati nella
stessa caserma del presidente e almeno un cameramen è stato gravemente
picchiato e la sua telecamera distrutta. Cosa importa…
All’estero la CNN ha impiegato otto ore prima di ammettere che il
presidente Rafael Correa si trovasse sotto sequestro. Ammettere il
sequestro voleva dire ammettere la rottura dell’ordine costituzionale e
quindi il golpe in atto. Strana maniera di lavorare per un canale all-news
che deve la sua fortuna al tempismo con il quale dà le notizie. El País
di Madrid ha dovuto rinculare e spiegare che c’era stato un sequestro
solo quando ha dovuto prendere atto del blitz per porvi fine. Vergogna per
un quotidiano che con coraggio si oppose al golpe Tejero un 23 febbraio di
troppi anni fa in Spagna! Fondo Monetario Internazionale, destra
tradizionale, non solo personaggi come Lucio Gutiérrez ma anche il
sindaco di Guayaquil Jaime Nebot erano dietro al tentativo golpista, il
simbolo della destra della costa che in Ecuador viene chiamata
“pelucones”, parrucconi. Inoltre si moltiplicano le informative che
testimoniano come proprio la polizia nazionale ecuadoriana, individuata
come punto debole nella lealtà alla Costituzione, sia stata
sistematicamente infiltrata e profumatamente corrotta fin dal 2008 dai
soliti noti, a partire da USAID.
Ai golpisti è andata male su tutta
la linea. I presidenti latinoamericani, escludendo una volta di più
Washington, hanno attraversato il continente nella notte per riunirsi a
Buenos Aires e mostrarsi uniti come mai. Non facevano eccezione quelli di
destra, Juan Manuel Santos, Alan García, Sebastían Piñera, contro il
terzo golpe in otto anni nella regione, senta contare altri rumori di
sciabole dalla Bolivia al Paraguay. Nel frattempo il governo degli Stati
Uniti si limitava a “monitorare” la situazione e, solo quando è stato
evidente l’isolamento dei golpisti nel paese e nel continente, è passato
dal monitoraggio alla condanna. Far finta di non vedere una regia dietro
questa giornata che si conclude con un bilancio di due morti e una
settantina di feriti e descrivere gli avvenimenti di Quito come casuali e
spontanei è un cosciente atto di disinformazione. Altro che conflitto
sindacale!
Sul sito www.gennarocarotenuto.it la cronistoria
degli eventi seguita minuto per minuto in diretta.

http://www.giannimina-latinoamerica.it/archivio-notizie/609-colpo-di-stato-in-ecuador-lamerica-
latina-integrazionista-e-piu-forte-del-gollismo
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Un giovane compagno di Lecco non assunto perché iscritto alla FIOM!
4 ottobre 2010 - Lavoro

FIOM
Riportiamo di seguito la lettera scritta da un ex lavoratore della ditta “Badoni Costameccanica”, che
abbiamo conosciuto durante la lotta coraggiosa nella quale, assieme ai suoi colleghi, aveva cerato di
salvare quell’importante realtà produttiva.
La lettera è stata inviata a noi e a diverse realtà politiche e sociali che hanno a cuore il lavoro ed i
lavoratori. Pubblichiamo volentieri la lettera, che suscita in noi lo sdegno più assoluto. Il ricatto a
cui Davide è stato sottoposto è indice di un clima generale in cui la reazione del padronato,
capitanato dalla Fiat di Marchionne, sta cercando di schiacciare la Fiom, unica erede della
tradizione sindacale che ha reso grande il movimento operaio italiano, per cercare di ridurre i diritti
dei lavoratori e quindi poterli sfruttare meglio e tenere alto il profitto del capitale.
Questa lettera è la prova del coraggio e della gigantesca dignità dei lavoratori italiani e della
necessità di fare fronte comune con la Fiom: partecipiamo numerosi alla manifestazione di sabato
16 ottobre a Roma!

L’argomento è ampio e complicato e temo che di segnalazioni come questa ne


riceviate molte. Vi chiedo tuttavia la pazienza di voler leggere anche queste poche
righe: esse riportano l’ennesimo esempio di quello che i lavoratori come me sono
costretti ad affrontare quotidianamente.

Questo dunque, in sintesi, quello che mi è capitato pochi giorni fa. Come sapete sono un ex
dipendente Badoni-Costameccanica; da luglio mi trovo in regime di CIGS e sono alla ricerca di un
nuovo posto di lavoro. Riesco ad ottenere un colloquio con il direttore amministrativo della “Caimi
Export Spa” di Novedrate (CO), un’azienda produttrice di articoli di arredamento in metallo e di
accessori per mobili.
A colloquio avvenuto vengo invitato a presentarmi il giorno successivo per sostenerne un secondo:
il direttore ammette di essere rimasto favorevolmente impressionato.Mi presento quindi il giorno
seguente ed incontro, oltre al direttore amministrativo, anche il direttore dell’ufficio tecnico e la
dott.ssa Adele Caimi, proprietaria dell’azienda.
Il colloquio procede molto bene. La mia figura professionale corrisponde in tutto e per tutto a
quanto stanno cercando: le mie conoscenze tecniche vanno ben oltre quelle richieste dal settore in
cui opera questa azienda; conosco già i softwares per il disegno utilizzati in azienda; parlo
correttamente l’inglese e sono disponibile a trasferte nel caso di fiere e saloni espositivi; conosco il
funzionamento delle macchine normalmente utilizzate in una officina ed ho la capacità di interagire
direttamente con la produzione per la risoluzione di problemi e la ricerca di nuove soluzioni
costruttive e… via di questo passo…
Insomma: sono la persona che stanno cercando (parole loro).
Ci accordiamo perciò per il giorno seguente: mentre io “farò un giro” nell’ufficio tecnico, loro
prepareranno la proposta economica da sottopormi. Stiamo quindi per alzarci dal tavolo quando,
con un sorriso sprezzante sul viso, la proprietaria, dott.ssa Caimi, mi fa l’ultima domanda:
“Non è che lei per caso ha a che fare con qualche sindacato, vero?”
“Si, sono iscritto alla Fiom-Cgil. Perchè?”
“Ah, bene, sappia che io per principio non assumo nessuno che abbia la tessera di un qualsiasi
sindacato…”
“Beh, io invece, proprio per principio, da quando ho cominciato a lavorare sono iscritto alla Fiom.”
“Allora può andarsene: nella mia azienda siamo più di cento e non ci sono mai stati né dipendenti
tesserati né RSU. Nella mia azienda sono io che comando senza dover sottostare a nessuno. Nella
mia azienda il sindacato sono io.”
Chi di voi mi conosce personalmente può immaginare la mia reazione di fronte ad una affermazione
del genere ed all’evidenza del ricatto (…tu hai bisogno di lavorare e noi abbiamo bisogno di una
figura come la tua ma, se vuoi questo posto, devi stracciare la tessera della Fiom…).
Seguono perciò dieci minuti di discussione (decisamente animata) sul ruolo del sindacato all’interno
di una azienda e, più in generale, all’interno della società civile, fino a quando vengo nuovamente
“invitato” ad uscire e ad andarmene.
La perdita di una seria opportunità di lavoro è stato il prezzo da pagare per rimanere coerente alle
mie idee ed ai miei principi.
Quello che mi fa letteralmente imbestialire però, è la certezza che questa sia la realtà che
abitualmente sono costretti ad affrontare i lavoratori in Italia. Tutti quei lavoratori che
quotidianamente, e loro malgrado, devono sottostare a palesi ricatti ed ad ogni forma possibile di
coercizione, all’arroganza, allo spregio delle regole, alla volgarità e all’ignoranza di questi
personaggi che, a torto, si ostinano a volersi definire “imprenditori” e che in realtà continuano a
comportarsi semplicemente da “padroni”.
Scoprirò in seguito che la dott.ssa Caimi, in qualità di amministratore delegato della “Equipe Spa”
(altra società del gruppo Caimi), ha già avuto modo di far parlare di sé a causa di licenziamenti
“mirati” e di comportamento antisindacale.
Grazie.
Davide
http://rifondazionenichelino.blogspot.com/2010/10/un-giovane-compagno-di-lecco-non.html
Era Pino Arlacchi
4 ottobre 2010 - Politica

Alla notizia che Pino Arlacchi aveva lasciato l’Idv ho scritto un sms ad
Antonio Di Pietro: “L’addio di Arlacchi all’Idv è la migliore notizia dal giorno in cui hai fondato il
partito”. Il Professorone, celebrato dagli italiani (vedremo perchè non dagli “stranieri”) per il suo
“stile”, per lasciare il partito aspettava una scusa plausibile, che gli consentisse di smarcarsi e
passare al Partito Democratico: manovra ampiamente programmata nei dettagli. La manna dal cielo
si chiama Schifani: il 4 settembre il presidente del Senato, in passato socio in affari di alcuni
mafiosi, si trova a Torino ospite d’onore della festa del Partito Demoratico. Un gruppo di Agende
Rosse vicine a Salvatore Borsellino, unitamente agli amici di Beppe Grillo, lo contestano. Con
fischi e senza alcuna violenza, ovviamente, e non perchè è brutto, o meglio, non solo per quello, ma
per quei contatti pericolosi con la mafia. Il mondo politico unanime condanna i manifestanti, l’unico
a difenderli è Di Pietro: “questi sono difensori della legalità, resistenti, altro che contestatori”.
Arlacchi non aspettava altro, è il giorno più bello della sua vita: lui, che si celebra come massimo
esperto di lotta alla mafia e non sa nulla delle oscure vicende che hanno coinvolto Schifani, il 6
settembre dichiara: “Ho deciso di autosospendermi dal partito. Così non si può andare avanti. Il
rischio è che diventi un cattivo maestro. I partiti hanno una responsabilità nell’educazione politica
alla quale non ci si può sottrarre. Invece Di Pietro non lo riconosco più. Mani pulite è stato un altro
grande esempio di democrazia che si è fatta sentire. Però i processi non si sono mai svolti su
Facebook e sui giornali ma nei tribunali. Inseguire quelle posizioni estreme, gliel’ho detto più volte,
non paga. E allontana il progetto di rendere l’Idv un grande partito di popolo capace di parlare a
tutti. Si sta cacciando in un cul de sac. Per questo mi autosospendo. E finché non vedo
un’inversione di rotta non torno indietro”. Ovviamente la contestazione non c’entra. Il motivo è
donna e si chiama Sonia Alfano: Arlacchi non ha digerito che Di Pietro abbia affidato a lei e non al
professorone la direzione del Dipartimento Antimafia del partito. Un colpo mortale all’ego e
all’orgoglio di Mr. Pino: come spiegare ai suoi tifosi questo smacco?
Il 30 settembre, giusto il tempo per non far apparire la cosa programmata da tempo, Arlacchi
annuncia di passare al Pd. Con un’imbarazzante lettera chiede umilmente a Bersani di “farmi
tornare a casa, riaccogliendo me e ciò che rappresento (cosa?, nda) tra le fila di un partito che è
l’unica forza in grado di costruire un’alternativa di governo capace di far riprendere all’Italia il
cammino interrotto del processo dell’equità”. Ovviamente l’esperto di qui e l’esperto di là si guarda
bene dal compiere un gesto eticamente obbligatorio: lasciare lo scranno al Parlamento Europeo
raggiunto candidandosi con l’Italia dei Valori grazie al grande appoggio avuto in campagna
elettorale da Di Pietro in persona. L’etica bla bla, la coerenza bla bla ma quando si tratta di essere
lineare (sono stato eletto con Idv, su un programma votato dagli elettori Idv, se abbandono quel
programma e quegli elettori devo per forza lasciare anche il seggio raggiunto grazie a loro) Arlacchi
è distratto. Come concordato, Bersani gli fa trovare pronta una letterina di benvenuto, abbastanza
fredda e retorica: “Caro Pino il tuo ”rientro a casa” nel Partito Democratico, come tu stesso lo
definisci, rappresenta per me un fatto positivo e incoraggiante”.
Poi si baciano e sul più bello pubblicità, arrivederci alla prossima puntata. Dal punto di vista umano
e politico questa vicenda mette, spero, un punto alla carriera di questo signore, che troppo spesso
recrimina amicizie illustri: proprio il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, si dissocia dalle parole
di Arlacchi, che aveva pure definito l’agenda rossa del giudice come “un’agendina”, al pari di
Filippo Facci che l’aveva definita una “cazzata”: “Dissento profondamente da quanto affermato da
Pino Arlacchi in merito alla sacrosanta dimostrazione di Torino. Eviti soprattutto Arlacchi, per
sostenere le sue tesi e denigrare i giovani delle Agende Rosse, di mostrarsi disinformato o sostenere
falsità. L’Agenda Rossa di Paolo non era una “agendina” ma una agenda usata da Paolo anche
durante le deposizioni di collaboratori di Giustizia del calibro di Gaspare Mutolo per appuntare
anche quello che non poteva essere immediatamente verbalizzato. Ed è falso che Falcone non
tenesse diari, lo dice lo stesso Paolo nel suo ultimo discorso pubblico nella sala della Biblioteca
Comunale di Palermo”. La sconfessione del professorone arriva anni dopo la sonora balla
pronunciata al vertice contro la criminalità di Palermo: «Ormai la mafia è vinta», seguita da un coro
unanime di sdegno e proteste, culminate in una lettera delle sorelle di Giovanni Falcone ai
quotidiani.
Ultimo punto, ma non meno importante e anzi il più gustoso, è il Pino Arlacchi internazionale; lui si
celebra e viene celebrato come “sociologo esperto mondiale di mafia” giunto sino al vicesgretariato
generale dell’Onu, dal 1998 al 2002: prima di lui c’era solo Kofi Annan. Troppo poco però si è
parlato di come sia andata a finire quell’esperienza. Nel settembre del 1997 Arlacchi viene
addirittura nominato direttore della Agenzia antidroga delle Nazioni Uniti (Undccp). E qui iniziano
le vicende che lo porteranno a perdere la faccia e a dire, sei mesi prima della fine del mandato, di
non essere disponibile ad una riconferma. Forse sapeva che nessuno gliel’avrebbe riproposta. Tutta
la vicenda è stata seguita con rigore dai Radicali Italiani, in particolare da Maurizio Turco e Marco
Cappato. Sul sito di Turco (www.maurizioturco.it) è reperibile l’intero dossier su Arlacchi. Una
serie di documenti che lasciano senza parole. Il più importante è senza dubbio la lettera di Michael
Von de Schulenburg, Direttore della divisione Operazioni ed Analisi dell’UNDCP. Il tutto comincia
del 2000, quando Francisco Thoumi, responsabile del World Drug report 2000, si rifiuta di accettare
le modiche inserite nel rapporto da Arlacchi: “mi disturba il fatto che così tardi Lei voglia cambiare
lo schema di base di questo rapporto, eliminare alcuni capitoli e ridurne altri. Il Capito 3 sulle
droghe sintetiche è molto importante. Come Lei ben sa, queste droghe costituiscono una fiorente
industria illegale. Trovo difficile pensare a un World Drug Report senza un capitolo a loro dedicato.
[…] Nel caso specifico del World Drug Report Le devo dire che, senza volerlo, Lei è diventato un
impedimento”.
Il 4 dicembre del 2000 arrivano le dimissioni dell’alto dirigente Michael Von de Schulenburg, che a
quanto pare, così come Thoumi, non ha mai contestato Schifani e non è amico di Di Pietro. La
lettera in realtà è una relazione dettagliata di tutto ciò che non ha funzionato nei due anni precedenti
sotto la direzione Arlacchi. Suggerisco la lettura integrale del documento sul sito di Turco, e qui mi
limiterò ad alcuni punti: “mi auguravo di trovare in Lei un direttore esecutivo non ortodosso ma
determinato, una persona che racchiudesse in sé la visione e la forza di trasformare l’UNDCP in una
organizzazione delle Nazioni Unite mirata, orientata al risultato, trasparente e rispettata a livello
internazionale. Al momento attuale vedo un’organizzazione che ha accresciuto la sua visibilità
internazionale, mentre, al tempo stesso, si sgretola sotto il peso di promesse che non è in grado di
mantenere e di una linea di gestione che ha demoralizzato, intimidito e paralizzato il suo organico”.
Congressi, congressi, congressi: “Nonostante queste conferenze siano importanti nel campo della
sensibilizzazione su questioni di interesse internazionale inerenti il crimine e la droga, la loro utilità
in termini di concreti risultati è spesso discutibile. Molte conferenze hanno richiamato un livello di
partecipanti sensibilmente più basso del previsto, alcune sono state addirittura cancellate all’ultimo
momento per mancanza di adesioni da parte degli alti livelli”.
Libere spese in libero stato: “In particolare rimangono oscure le modalità secondo le quali attuiamo
i programmi e i progetti. Il bilancio consuntivo, appena sottoposto all’attenzione della Commissione
delle Nazioni Unite sulle Droghe Narcotiche (CND), notifica che l’esecuzione dei programmi da
parte dell’UNDCP è stata incrementata di un ulteriore 16%. In tale modo l’esecuzione dell’UNDCP
arriva quindi a circa il 40% del totale del bilancio per i programmi. Si tratta di una tendenza molto
pericolosa e io L’ho personalmente messo in guardia più volte dall’intraprendere questa strada a
meno di non sviluppare appropriati meccanismi di attuazione interna che assicurino una piena
responsabilità”.
Io, io, io: “Lo stile di gestione che Lei ha portato all’UNDCP è caratterizzato da un estremo
accentramento di tutto il controllo nelle mani di una sola persona, dall’inesistenza di decisioni
collettive, dalla noncuranza nei confronti delle strutture organizzative, dalla mancanza di delega
dell’autorità e dalla totale assenza di una qualsiasi politica trasparente a proposito delle risorse
umane. Si ricorderà che, un anno fa, il 6 dicembre 1999, i rappresentanti del Consiglio del Personale
delle Nazioni Unite, hanno preso l’insolita decisione di diramare una circolare indirizzata a tutto
l’organico in modo da esprimere le crescenti preoccupazioni del personale in merito “alla mancanza
di trasparenza nelle scelte decisionali, alle aree oscure nell’applicazione del regolamento del
personale, e all’effetto intimidatorio che un apparente comportamento scorretto nei confronti di
alcuni colleghi aveva sugli altri membri dell’organico”.
Fuori sede: “Questo problema è aggravato dal fatto che Lei è raramente a Vienna e opera come una
sorta di “dirigente assente”. Quando è a Vienna si trasforma in un “dirigente nascosto” che rimane
inavvicinabile per la grande maggioranza del suo personale. Lei non mantiene alcun contatto con il
Suo organico, che non la vede praticamente mai. Molti dei Suoi dirigenti di alto livello non L’hanno
mai incontrato. Pochissimi tra noi, neanche tra i Suoi alti dirigenti, sanno quando Lei è a Vienna o
la destinazione dei Suoi viaggi. A causa della paura di venire criticati per aver preso una qualsiasi
decisione che non è stata sanzionata da Lei, il Suo personale tende a recarsi in “pellegrinaggio”
presso il Suo segretariato in cerca di consigli”.
Bye bye Mr. Arlacchi: “Sette dirigenti di livello D-2 (Richard van der Graaf nel dicembre 1997,
Bertrand de Fondaumiere nel gennaio 1999, Francesco Bastagli nel marzo 1999, Christian
Komevall nel maggio 1999, Eduardo Vetere nel giugno 1999, Denis Beissel nel giugno 1999,
Michael v.d. Schulenburg nel dicembre 2000) hanno lasciato il loro incarico da quando Lei è
diventato direttore esecutivo dell’ODCCP/UNOV soltanto tre anni fa. Altri colleghi di alto livello
stanno lasciando l’organizzazione, inclusi, in numero crescente, alcuni di quelli che Lei ha scelto
personalmente per far parte della squadra. […] Nel corso degli ultimi venti mesi Lei ha cambiato il
direttore del Suo segretariato e la maggior parte del suo staff quattro volte. Invece di stabilire chiari
obbiettivi per i nostri responsabili di settore e delegare conseguentemente l’autorità, Lei esercita una
“direzione per esclusione”. Chiunque esca dalle Sue grazie viene semplicemente escluso dagli
incontri, dalle informazioni e dalle decisioni”.
Risorse umane: “L’aspetto più sconvolgente della Sua linea di gestione consiste nella Sua
indifferenza, se non addirittura disprezzo, nei confronti del personale. Sono sconvolto
dall’insensibilità del Suo modo di agire nei confronti del personale, specialmente se si considera che
Lei proviene da un partito politico che si vantava di mettere in cima alle sue priorità i diritti dei
lavoratori. […] Circola la voce allarmante che qualsiasi cosa possa essere percepita come “sleale”
potrebbe essere riferita e conseguentemente condurre alla propria rovina. Talvolta, in realtà, sono
state attuate azioni che sanno più di vendetta personale piuttosto che di decisioni obbiettive e
razionali, addirittura nei confronti di personale di livello più basso. Nominando la signora Valle,
non soltanto Lei ha scelto una persona che non possiede praticamente alcuna conoscenza del
sistema delle Nazioni Unite, ma anche qualcuno che gode di poco rispetto da parte
dell’organizzazione. Ne risulta che il segretariato ha aumentato il Suo isolamento all’interno
dell’organizzazione e i Suoi dirigenti di alto livello vengono consultati ancora meno che in
passato”.
Cordiali saluti: “Lei è anche il peggior dirigente che io abbia mai incontrato. Si dice che le gare
automobilistiche vengano vinte ai box. Questo principio credo che si possa applicare anche a noi”.
E ora la domanda da 100 milioni di pistacchi: è questa la “fama internazionale” di cui gode
Arlacchi? Io ne farei a meno, fossi in lui e ribadisco: l’Idv senza Arlacchi ha una marcia in più.
http://www.facebook.com/notes/benny-calasanzio/ero-pino
Brasile

Vittoria a metà per l'erede di Lula

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Dilma Rousseff, designata del presidente, ottiene il 46,5% al primo turno: è prima ma per l'elezione diretta non basta. Andrà al ballottaggio, il 31 ottobre, con
il socialdemocratico Setta che partirà dal 32,7%. Affermazione a sorpresa dei Verdi

di rassegna.it

Dilma Rousseff, erede designata del presidente uscente Lula, vince il primo turno delle presidenziali in
Brasile ma non ha la maggioranza assoluta. Andrà dunque al ballottaggio con il socialdemocratico José
Serra. Questi i dati quasi definitivi diffusi dal Tribunale elettorale superiore: Roussef ha ottenuto il 46,5%
dei voti, Serra il 32,7%. A ostacolare il trionfo immediato di Rousseff, da molti dato per scontato, è stato
l'expoit della candidata dei verdi, Marina Silva, che ha conquistato a sorpresa il 19,5% dei voti, circa sei
punti in più di quanto pronosticato dai sondaggi.

"Siamo agguerriti: andremo al ballottaggio con grinta ed energia", ha assicurato la candidata del Partido
dos trabalhadores (Pt), nel suo primo, e breve, discorso dopo il primo turno. In vista del ballottaggio, l'ex
guerrigliera ha rinviato le domande dei cronisti, limitandosi a complimentarsi con i suoi avversari, in
particolare la candidata verde Marina Silva, vera sorpresa del voto di ieri. "Siamo abituati alle sfide. Siamo
gente che sa come affrontare un secondo turno elettorale: siamo molto buoni nei metri finali...', ha
aggiunto la pupilla del presidente Lula, intervenendo nel quartier generale del Pt a Brasilia.

Per il Pt quanto accaduto ieri alle urne è però un brutto colpo, visto che il partito fondato dal presidente-
operaio nel 1980 era chiaramente ottimista, e contava con far diventare Rousseff prima presidente
'mulher' (donna) del Brasile. Nel calo dei consensi sembra avere pesato proprio l'ottima prestazione
elettorale della Silva: fin dai primi dibattiti nella nottata, gli analisti si chiedevano se il Brasile è alle porte
di una nuova 'ondata verde' guidata proprio dall'ex ministro dell'ambiente di Lula. Sul voto ha pesato
anche lo screzio in questi giorni fra la Rousseff e la comunità evangelica - molto consistente in Brasile - a
causa di una dura polemica sulle ambiguità evidenziate dalla candidata del Pt nelle tematiche dell'aborto
e del matrimonio gay.

TAGS brasile
04/10/2010 09:42

spero di non diventare mai così vecchio da diventare religiosoNotizia

5 ottobre 2010
Una nuova perizia per verificare se le lesioni provocate dal presunto pestaggio avvenuto nel tribunale di Roma abbiano provocato la
morte di Stefano Cucchi, il geometra romano deceduto nell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo il suo
arresto per detenzione di droga. E’ stata chiesta oggi dai familiari del giovane al gip Rosalba Liso al vaglio della quale c’è la richiesta di
rinvio a giudizio di 13 tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano.
Il magistrato si e’ riservato di decidere sulla richiesta basata sul convincimento dei familiari che nella vicenda debba essere contestato
l’omicidio preterintenzionale e da tenersi tramite incidente probatorio. Lo stesso gip, che oggi ha ammesso come parte civile il Comune
di Roma nel corso della seconda udienza, ha fissato altre due udienze, oltre a quelle gia’ programmate per il 19 e 26 ottobre prossimi: si
terranno rispettivamente il 9 e il 30 ottobre.

aduc

Lolli (PD): da Bertolaso minacce oscure e inquietanti contro L’Aquila


Inserito da Patrizio Trapasso - 5 ottobre 2010

La protezione Civile ha diffuso, attraverso una nota, una risposta


sconcertante e gravissima alla conferenza stampa promossa dal Sindaco de L’aquila Massimo Cialente e dall’Assessore Stefania
Pezzopane.
Verso la fine di questo comunicato è presente una oscura ed inquietante minaccia dove viene affermato che, dopo la conferenza
stampa, ci saranno inevitabili ripercussioni non utili ad accelerare le opere e gli interventi.
Mi sembra molto chiaro, quindi, che di fronte alle dichiarazioni del Sindaco Cialente, che ha osato criticare la Protezione Civile, si pensi
di far pagare le conseguenze a noi cittadini aquilani.
E’ inaudito che un organo istituzionale dello Stato, come è la Protezione Civile, possa formulare simili minacce.
I due amministratori si sono limitati ad indicare alcune gravi criticità nella situazione abitativa degli sfollati che sono sotto gli occhi di
chiunque venga a L’Aquila. Criticità dovute ad evidenti errori nel modo in cui si è affrontato un problema, certamente, molto complesso.
Indicare problemi e responsabilità non è solamente un diritto ma un dovere del Sindaco con l’obiettivo di correggere gli errori
per fare fronte ai problemi dei cittadini.
Nell’anno e mezzo che ci separa dalla notte del sisma la Protezione Civile ha, peraltro, sempre puntigliosamente indicato ritardi e limiti
dell’azione del Comune dell’Aquila
Per il Dottor Bertolaso viviamo in un mondo in cui, evidentemente, si può criticare il Sindaco de L’Aquila Cialente, si può criticare il
Presidente della Regione Chiodi, si può criticare perfino il Governo e Berlusconi ma non si possono criticare lui stesso e la
Protezione Civile.
Inviterei il Dottor Bertolaso e la Protezione Civile ad accettare l’idea che viviamo in un mondo in cui ci sono opinioni diverse e il diritto di
critica; che in una vicenda difficile e complessa come quella del terremoto aquilano sono stati commessi numerosi errori e ognuno di noi
porta la sua parte di responsabilità compresa, ovviamente, la Protezione Civile.
Segnalare questi errori, chiunque li commetta, non è lesa maestà ma è la condizione per correggere, ed io auspicherei tutti
insieme, le cose che non funzionano.

http://www.6aprile.it/featured/2010/10/05/lolli-pd-da-bertolaso-minacce-oscure-inquietanti-contro-laquila.html
Quanti scudi umani ha il premier
• 5 ottobre 2010 22:45

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Quanti scudi umani ha il premier


di Marco Travaglio
La biografia del Cavaliere è zeppa di devoti pronti a immolargli vita, faccia e carriera senza un apparente tornaconto. E nonostante molti
finiscano in rovina, restano contenti e silenti

(05 ottobre 2010)

Igor MariniDue notizie all’apparenza scollegate. La prima: il 16 settembre il ministro


della Giustizia di St. Lucia, Rudolph Francis, scrive un appunto riservato al suo premier in cui afferma che il proprietario della casa
affittata a Montecarlo da Giancarlo Tulliani è lo stesso cognato di Fini; la lettera rimbalza sulla stampa di Santo Domingo e di lì su quella
italiana, rovinando la reputazione dell’atollo caraibico che campa sulla riservatezza garantita agli esportatori di capitali e alle loro società
offshore.

La seconda: il 20 settembre i carabinieri di Strambino (Torino) arrestano Igor Marini, che deve scontare una pena di 5 anni per aver
calunniato il pm Beatrice Barborini, accusandola di aver insabbiato le sue accuse a Prodi, Fassino e Dini sullo scandalo Telekom
Serbia; il processo per le calunnie di Igor a Prodi & C. è ancora in corso a Roma. Francis e Marini, geograficamente e
antropologicamente lontani le mille miglia, sono apparentati da un paio di denominatori comuni: hanno screditato due avversari di Silvio
Berlusconi e ne hanno pagato pesantissime conseguenze. Ma non sono casi isolati.

La biografia del Cavaliere è zeppa di scudi umani pronti a immolargli la propria vita, faccia e carriera senza un apparente tornaconto,
poi finiti in rovina, ma contenti e silenti. Previti corruppe un giudice per regalare la Mondadori a Berlusconi, poi fu condannato, arrestato
ed espulso dalla Camera. Dell’Utri, secondo i giudici di Palermo, fece da “cerniera” fra Cosa Nostra e Berlusconi e, se la Cassazione
confermerà la sua condanna in appello a 7 anni, traslocherà dal Senato al più vicino penitenziario.

I marescialli Giovanni Strazzeri e Felice Corticchia si attivarono nel 1995-96 per supportare le “notizie agghiaccianti” che Berlusconi
aveva portato alla Procura di Brescia per far incriminare il pool Mani Pulite, poi finirono in manette e patteggiarono 2 anni per calunnia.

L’avvocato David Mills aprì per conto di Berlusconi decine di società offshore nei paradisi fiscali, testimoniò il falso in due processi per
“salvare Mr. B da un mare di guai”, poi fu scoperto, processato, lasciato dalla moglie e dai clienti, condannato in primo e secondo grado,
salvato dalla prescrizione in Cassazione, ma costretto a sborsare 250 mila euro di risarcimento alla presidenza del Consiglio.

Flavio Carboni, già socio e confratello piduista di Berlusconi, è in carcere da due mesi per le pastette giudiziarie della P3 a beneficio di
“Cesare” (il solito Berlusconi). Il mese scorso un consulente del mobilificio romano Castellucci e la sua consorte rinunciavano al posto
di lavoro per poter rivelare al “Giornale” certe voci su una cucina da 4.500 euro acquistata da Fini e dalla Tulliani e destinata, a loro dire,
all’appartamento di Montecarlo. L’elenco degli scudi umani si ferma qui, per motivi di spazio. Chi osa insinuare che siamo un paese di
furbi materialisti, si vergogni e arrossisca.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2135274

Cecenia: la polveriera del Caucaso che non trova pace


19 ottobre, 10:43

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ROMA - La Cecenia, dove oggi un commando di guerriglieri ha dato l'assalto al parlamento di
Grozny, è la repubblica più turbolenta della federazione russa; dopo un periodo di relativa calma, la
violenza dei ribelli separatisti è tornata a crescere negli ultimi mesi. La Cecenia, con il suo territorio
quasi interamente montuoso ha una popolazione in larga parte musulmana, con una reputazione di
irriducibili combattenti, da quando Sheik Mansour guidò una guerra santa contro i russi nel 18.mo
secolo. Da allora è una spina nel fianco sud della Russia. Sotto l'Unione Sovietica, Stalin - che
temeva la scarsa lealtà dei ceceni - deportò l'intera popolazione in Asia centrale nel 1944; Nikita
Krusciov, nel 1957, permise il loro ritorno nelle terre d'origini.
Al collasso dell'Urss nel 1991, l'Inguscetia (che era stata accorpata alla Cecenia, con Grozny
capitale) scelse di diventare una repubblica della federazione russa, mentre la Cecenia dichiarò
l'indipendenza. Nel dicembre 1994 il presidente Boris Ieltsin inviò le truppe per schiacciare il
movimento separatista: dopo due anni sanguinosissimi di guerra, si arrivò a una tregua e Mosca
ritirò le sue truppe nel 1996. Le forze russe sarebbero tornate nel 1999, dopo che il presidente
Vladimir Putin accusò i ceceni di una serie di attentati. Era l'inizio di una seconda guerra contro gli
indipendentisti, che terminò 10 anni dopo. Tra le azioni più clamorose dei ribelli ceceni, si ricorda
l'attacco a un teatro di Mosca nel 2002, quando furono presi 850 ostaggi, con la richiesta di metter
fine alla guerra. Circa 120 persone furono uccise.
Nel settembre 2004, terroristi ceceni assaltarono una scuola a Beslan, nell'Ossezia del nord: ci fu
una strage, con 330 morti, metà dei quali bambini. Nel marzo di quest'anno, due donne kamikaze
uccisero 39 persone in due stazioni della metro di Londra. L'attentato fu rivedicato dal leader ribelle
Doku Umarov, l'uomo più ricercato di tutta la Russia. Putin ha insediato personaggi locali a lui
fedeli alla testa del governo di Grozny. L'attuale presidente, Ramzan Kadyrov, è il figlio del
presidente Akhmat Kadyrov, assassinato nel 2004

Parigi, 19-10-2010
Sesta giornata di sciopero generale dopo l'estate, in Francia, contro la riforma delle pensioni. Ieri incidenti
durante le manifestazioni dei liceali e le tensioni alle stazioni di servizio, ormai a secco, con lo sciopero che
prosegue a oltranza in dieci delle dodici raffinerie del Paese.
Prosegue intanto l'esame del testo al Senato, dove il voto, previsto per domani, potrebbe arrivare giovedì
sera. Ieri il presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, ha ribadito che la riforma è "essenziale" e che
la Francia "la metterà in opera". Per il partito socialista, invece, questa sarà "una settimana decisiva" per le
contestazioni.
Secondo il quotidiano Le Monde, sono previste oggi 266 manifestazioni in tutta la Francia. Liberation esulta:
finalmente la protesta anti Sarkozy si è allargata, in questo contesto l'invito a una maggior serenità del
portavoce dell'Ump è "indecente", perché ignora che qui sono in piazza migliaia di lavoratori che rinunciano
a una giornata di lavoro.

Ma la radicalizzazione della protesta e i maggiori disagi per i francesi non suonano sgraditi neppure a Le
Figaro, che oggi a tutta pagina sottolinea l'irruzione nel movimento dei casseurs e spiega la determinazione
di Sarkozy con la consapevolezza che proprio in questi giorni il presidente si gioca le chances di riconquista
del suo elettorato di centrodestra in vista delle prossime presidenziali nel 2012.

Sono circa 290 i 'casseurs' (manifestanti violenti) fermati nelle ultime 24 ore nelle manifestazioni
studentesche contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy, mentre
cinque poliziotti sono rimasti feriti. Durante le proteste di venerdi' scorso, i fermati erano stati 264, di cui 192
posti in stato di fermo giudiziario.

La Tribune intanto avverte: sugli aumenti di carburante denunciati dalle associazioni di consumatori il
ministeri dell'Economia ha avviato ispezioni.
Notizie collegate
Il 60% dei 12500 distributori in Francia sono gestiti dalla grande distribuzione e il 40% dalle società
petrolifere. Ieri Casino Carrefour Auchan Leclerc che dispone di 4800 stazioni di servizio ha annunciato
che aveva già 1500 punti di vendita a secco e che a questo ritmo di rifornimenti saranno tutti chiusi
entro la fine della settimana
Disagi nei trasporti
Sciopera la Francia che non vuole la riforma delle
pensioni
Due milioni in piazza e trasporti a singhiozzo in tutta la Francia. E' l'obiettivo che si pongono gli organizzatori
del sciopero contro la riforma delle pensioni. I settori più colpiti dall'agitazione sono quello ferroviario e la rete
urbana di un centinaio di città. Ma anche il trasporto aereo sta subendo notevoli disagi.
Sindacati pronti allo sciopero

Regionali alle porte, Sarkozy sulle pensioni prende


tempo
"Pensioni: Sarkozy vuole una legge in settembre". Nel titolo d'apertura di Le Figaro l'attenzione va posta
sull'ultima parola: perché prima dell'autunno di riforma delle pensioni si parlerà molto ma senza nessun voto
parlamentare. I sindacati preparano già le barricate e incombono le Regionali di marzo.
La polizia disperde i manifestanti

In Francia barricate contro la riforma delle


pensioni
Polizia in assetto anti-sommmossa ha lanciato gas lacrimogeni per sedare un gruppo di giovani che avevano
incendiato un'auto e lanciato pietre all'esterno di una scuola, in un quartiere periferico di Parigi. I camionisti
bloccano le strade a Nord, file di decine di chilometri nei dintorni di Lille.
Cgt: ieri hanno scioperato 3 milioni di persone. Per il governo 850 mila

Francia paralizzata dalla protesta sulle pensioni


Guerra di cifre governo-sindacati sul numero di manifestanti scesi in piazza in Francia per protestare contro
la riforma delle pensioni. Il ministero dell'Interno parla di un totale di 825.000 manifestanti, il 'livello piu'
basso' di adesione mai registrato dai primi di settembre, quando e' iniziata la mobilitazione autunnale contro
la manovra previdenziale del presidente Sarkozy. Sono 'circa 3 milioni', dice invece la Cgt (Confédération
Générale du Travail), il piu' importante sindacato di Francia.
Tgcom

19/10/2010

Francia, Franceschi chiese visita


L'italiano aveva forti doloti al petto

Il quotidiano la Reppubblica è venuto in possesso di una lettera di Daniele Franceschi, l'italiano morto in un carcere francese, in cui
l'uomo chiedeva una visita medica. "Io, Franceschi Daniele, chiedo di poter essere visitato in un ospedale esterno, dato che sento un forte dolore
al cuore e alla spalla sinistra. È urgente!". La richiesta è datata 24 agosto, il giorno prima della sua morte. Dall'autopsia non risultano segni di
violenza tranne il naso rotto.
Dal carcere di Grass spiegano che la mattina del 25, poche ore prima del suo decesso, Franceschi venne sottoposto ad una visita
cardiologia dall'infermeria del carcere segno che quella sua lettera aveva sortito l'effetto desiderato. Jean-Michel Cailliau,
procuratore di Grasse, incaricato delle indagini ha difeso l'operato dei medici del carcere di Grasse.

"Franceschi ha manifestato dolori il 25 agosto che potevano far pensare a una patologia cardiaca. Sono stati praticati gli esami clinici,
l'elettrocardiogramma e le analisi del sangue, dopodiché non è stato ritenuto necessario il ricovero del detenuto, il quale è deceduto poche ore
dopo di infarto. Riteniamo infatti che al 95-98% sia questa la causa del decesso stando all'autopsia. Ne avremo la certezza quando
arriveranno i risultati delle analisi tossicologiche, che mi sono state promesse per il 31 ottobre, e quelle anatomo-patologiche, per il 15
novembre, ma questa può slittare".

"Non tralasceremo alcuna ipotesi - ha assicurato Cailliau - ma grazie alle analisi tossicologiche potremo essere sicuri che la vittima non
abbia assunto sostanze o prodotti pericolosi o che non ci siano stati errori o ritardi da parte dei medici". L'unica certezza,
secondo Cailliau "è che non ci sono segni di percosse". L'unica ferita "è un taglio di 6 millimetri sotto il naso, che non ha mai
sanguinato e non ha prodotto ematoma".

Probabilmente risale al momento della morte di Franceschi, anche se il legale della famiglia del giovane, Aldo Lasagna, é stato categorico: "A noi
risulta che si tratti di frattura del setto nasale". Restano ancora molti dubbi sulle condizioni con cui la salma è tornata dalla Francia:
completamente svuotata degli organi interni, senza gli occhi, e in putrefazione, con una laconica dicitura nel verbale di consegna del cadavere:
"cause della morte sconosciute".

"Mai vista una cosa simile", sottolinea il dottor Alessandro Grazzisi, il medico legale dell'ospedale Versilia di Viareggio che ha eseguito
l'autopsia. "Il cadavere ha solo le ossa e i muscoli". Probabilmente la giustificazione che daranno sarà quella di aver conservato i visceri per
esami tossicologici più approfonditi.

Finalmente dopo molte polemiche cominciano ad arrivare non tutte, ma alcune risposte dalla Francia. La procura di Grasse, del resto, è
stata messa sotto pressione dal console generale di Nizza, Agostino Chiesa Alciator, e soprattutto da Carla Bruni. La premiere
dame è stata chiamata in causa proprio da Cira Antignano, madre di Daniele, ed ora non solo sta seguendo la vicenda ma risponderà
all'appello della madre del 36enne di Viareggio.

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Francia: pensioni, 6/a giornata protesta

Blocchi stradali, treni in sciopero e benzina col contagocce


19 ottobre, 10:28

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(ANSA) - PARIGI, 19 OTT - E' partita con blocchi stradali dei camionisti,
treni in sciopero e benzina col contagocce la sesta giornata di sciopero e
manifestazioni in Francia contro la riforma delle pensioni, la cui approvazione
definitiva in Parlamento e' slittata a giovedi' sera. Manifestanti bloccano l'accesso
all'aeroporto di Bordeaux, mentre da quello di Lille parte soltanto un volo su 3. Molto
difficile anche il decollo e l'arrivo a Parigi. Per la prima volta grossi disagi anche sui
treni internazionali.

Cecenia: parlamento, 4 ribelli uccisi


Guerriglieri si erano introdotti e barricati nell'edificio
19 ottobre, 10:19

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(ANSA) - MOSCA, 19 0TT - Le forze di sicurezza hanno


ucciso quattro guerriglieri che questa mattina si sono introdotti nell'edificio del
Parlamento a Grozny. Lo riferiscono fonti ufficiali russe. 'Quattro persone armate che si
sono introdotte e barricate nell'edificio del Parlamento ceceno sono state uccise dalle
forze di sicurezza durante l'operazione che ha posto fine all'attacco', ha detto il
portavoce del comitato investigativo della procura russa Vladimir Markin.

Notizie > Europa


I ribelli assaltano il parlamento ceceno, ma vengono tutti uccisi dalle forze di
sicurezza
di Stefano NatoliCronologia articolo19 ottobre 2010Commenti (1)

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2010 alle ore 08:23.

Tutti i ribelli islamici che hanno attaccato stamattina il parlamento della Cecenia sono stati uccisi dalle forze governative. Lo riferisce una fonte della polizia
locale citata dall'agenzia di stampa russa Interfax. L'attacco, iniziato con un'azione kamikaze e proceduto con un tentativo di assalto all'edificio che ospita
l'assemblea parlamentare a Grozny, è costato la vita a tre guardie della sicurezza, un civile e tre ribelli. Il kamikaze si è fatto esplodere su un'automobile
all'arrivo di una vettura con a bordo dei deputati.

Si tratta della sfida più eclatante al presidente ceceno Ramzan Kadyrov e, indirettamente, al potere centrale moscovita, dopo l'attacco lanciato lo scorso
agosto da un gruppo di ribelli islamici al villaggio dello stesso Kadyrov. L'attacco è stato sferrato proprio nel giorno della visita nella capitale caucasica del
ministro dell'interno russo, Rashid Nurgaliyev.

Mosca sta cercando da tempo di contrastare l'offensiva sempre pù aggressiva dei ribelli separatisti islamici.

La questione cecena era tornata d'attualità nel marzo scorso quando un ordigno azionato con un cellulare devastò il metro di Mosca. Fu proprio
un'inchiesta sulla Cecenia a provocare il 7 ottobre di 4 anni l'omicidio di Anna Politkovskaya, la più scomoda giornalista russa. Un omicidio che l'ex
presidente Mikhail Gorbaciov ha definito "politico".

Da secoli spina nel fianco della Russia. La Cecenia è una repubblica caucasica che fa parte della federazione russa, guidata attualmente da un governo
fedele a Mosca. Il paese ha vissuto una lunga stagione di guerra con il governo centrale di Mosca a partire dagli anni Novanta. La prima guerra, lanciata
nel 1994 da Mosca per tentare di riprendere il controllo dopo la
dichiarazione di indipendenza, finì con una bruciante sconfitta dei russi
nel 1996. La seconda - voluta da Vladimir Putin nel 1999 - è terminata
con la vittoria militare dei russi, ma con pesanti strascichi di terrorismo e
instabilità.

Nel corso degli anni la guerriglia ha reagito con numerosi attentati


terroristici fra cui l'assalto al teatro Dubrovka di Mosca (2002) e l'assalto
alla scuola di Beslan nel confinante Daghestan. Negli ultimi anni il
presidente ceceno Ramzan Kadyrov, appoggiato da Putin, è riuscito a
imbrigliare i ribelli, tuttavia le tensioni si sono propagate e amplificate
nelle repubbliche confinanti di Inguscezia e Dagestan.
Contemporaneamante, il giovane Kadyrov si ritrova a dover
fronteggiare nuove sfide sul fronte interno, come conferma l'attacco
odierno a Grozny. Si tratta della più eclatante sfida a Kadyrov (e,
indirettamente, al potere centrale moscovita), dopo il blitz lanciato lo
scorso agosto da un gruppo di ribelli islamici al villaggio del presidente,
Tserentoi.

Cecenia, il Parlamento MULTIMEDIA

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BLOG Milena Gabanelli, il martello dei fatti ALESSANDRA


Ciàrls Bucoschi, Sciàrl Bodlèr, Giéms Giòis, COMAZZI

Fiòdor Dostoiéschi, Zvetàeva,


Sciopenàuer,
20 ottobre 1944 - I nazifascisti fucilano l'eroico Partigiano Mario
Bastia "Marconi" e altri eroici Partigiani (R.I.P.)
pubblicata da Italia Libera Civile E Laica = Italia Antifascista il giorno mercoledì 20 ottobre 2010 alle ore 18.51

Mario Bastia

20 ottobre 1944
I nazifascisti fucilano l'eroico Partigiano Mario Bastia "Marconi" e altri eroici Partigiani
(R.I.P.)
Nato a Bologna l'8 settembre 1915, fucilato a Bologna il 20 ottobre 1944, studente
d'Ingegneria, Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
Era stato esonerato dal servizio militare perché mutilato della mano sinistra. Ciò non gli impedì,
subito dopo l'armistizio, di partecipare all'organizzazione della Resistenza a Bologna.
Militante del Partito d'Azione, Mario Bastia (col nome di copertura di "Marconi"), svolse la sua
attività soprattutto nell'ambiente universitario.
Fu suo merito se i tedeschi non poterono requisire un importante quantitativo di radio dell'Istituto
radiologico, conservato presso l'ospedale di Sant'Orsola.
Fu anche suo merito se l'Ateneo bolognese divenne una munita base dell'8a Brigata GAP.
Nelle cantine e nell'abitazione del bidello dell'Università erano, infatti, occultate casse di armi e
munizioni, che i patrioti avevano asportato dalla caserma della Polizia ausiliaria di via Maggiore.
Il pomeriggio del 20 ottobre del 1944, mentre Bastia si trovava con altri cinque studenti all'interno
dell'Ateneo, i nazifascisti (forse per una delazione), fecero irruzione in forze nell'edificio. I ragazzi
decisero di opporre resistenza armata e, salendo di piano in piano, risposero al fuoco dei tedeschi e
dei fascisti. Giunti sul tetto si batterono sino a che, terminate le munizioni, furono uccisi.
Una lapide, posta sul muro dell'Università, ricorda il sacrificio dei sei valorosi e i loro nomi: Mario
Bastia, Ezio Giaccone, Leo Pizzigotti, Luciano Pizzigotti, Stelio Ronzani, Antonio Scaravilli.
Dopo la Liberazione, a Mario Bastia è stata intitolata una via di Bologna.
L'Università gli ha conferito la laurea in Ingegneria "ad honorem" alla memoria.
La motivazione della decorazione al valor militare dice:
"Animato da forte amor di Patria, durante il periodo della dominazione nazifascista nell'Emilia,
affrontava serenamente i pericoli della lotta clandestina dedicando ad essa tutto se stesso.
Organizzatore entusiasta e capace, costituiva e dirigeva servizi di grande importanza per i reparti
partigiani. Condannato a morte in contumacia, si dedicava all'azione con maggiore ardore
catturando armi, viveri, materiali sanitari, in audaci colpi di mano. Alla testa di un nucleo di
gappisti da lui guidato nel combattimento, per la difesa dell'Università di Bologna, dette prova di
indomito coraggio, finché, catturato dal nemico, veniva fucilato sul posto, chiudendo con l'estremo
sacrificio la sua eroica esistenza di apostolo della Libertà".
Il business delle armi non conosce crisi
L'Italia è al quarto posto nella classifica degli esportatori di armi convenzionali alle nazioni del Sud del Mondo. Nel pacchetto clienti figurano anche quei
paesi che non rispettano i diritti umani

Con una mano spediamo aiuti umanitari, con l’altra vendiamo mitra e carri armati. La grande ipocrisia della politica estera italiana (e di tutto l’Occidente)
nei confronti del Terzo mondo è stata impietosamente messa a nudo da un rapporto destinato ai membri del Congresso americano, intitolato
“Conventional Arms transfers to developing world, 2002-2009”, che analizza trend e numeri delle forniture di armamenti ai paesi in via di sviluppo.

L’anno scorso il nostro Paese ha firmato contratti militari per 2,4 miliardi di dollari, cifra che lo pone al 4° posto nella classifica degli esportatori di armi
convenzionali alle nazioni povere. Davanti ci sono solo Usa, Russia e Francia. Il business per le fabbriche tricolori è in netta crescita, se si considera che
nel 2008 l’export era stato di “appena” 1,3 miliardi. L’Italia produce il 9,16% delle armi esportate nel mondo: di queste più della metà (il 59,3%) finisce
negli arsenali delle nazioni in via di sviluppo. Tra il 2006 e il 2009 il Belpaese ha consegnato agli eserciti africani armi per 500 milioni di dollari. Ma il
mercato emergente è il Medio Oriente: negli ultimi tre anni sono stati firmati contratti per 3 miliardi e 700 milioni. Sbocchi importanti anche in Asia, dove gli
ordinativi sono passati dai 300 milioni del 2002-2005 a 1 miliardo e 300 milioni nell’ultimo triennio.

L’Italia è in buona compagnia: nel solo 2009 le vendite di armamenti al terzo mondo ha fruttato all’Occidente 45 miliardi di dollari. Usa e Russia, principali
fornitori dai tempi della guerra fredda, continuano a dominare il mercato, ma i produttori europei sono ormai temibili concorrenti. Secondo il rapporto,
Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia sono in grado di fornire una “larga varietà di armi altamente sofisticate”. Per convincere i compratori scendono in
campo premier e ministri. I Paesi europei, insiste il dossier, “hanno aumentato la loro competitività attraverso un forte supporto di marketing da parte dei
governi”. Un esempio? La visita compiuta da Silvio Berlusconi in Kazakistan l’anno scorso. Poco tempo dopo, la Selex Galileo (gruppo Finmeccanica)
concluse un importante contratto per equipaggiare i vecchi tank sovietici T-72 con avanzati sistemi ottici. Un accordo di cui la stessa azienda si vanta sul
suo sito. Ma l’affare sembra in contrasto con il Codice di condotta adottato dall’Ue nel 2005, che pone rigide condizioni per l’export di armi. Tra queste, al
punto 2, c’è il rispetto dei diritti umani da parte del compratore. Non sembra che ciò accada in Kazakistan, dove Nazarbaev è al potere da 20 anni e nel cui
parlamento siedono solo esponenti del partito del presidente-padrone.

Il codice d’altronde resta spesso lettera morta, oscurato dalle ragioni economiche. Nessuno si fa troppi scrupoli nel vendere aerei, navi e cannoni ai Paesi
del Golfo, che non brillano per libertà civili. Tra il 2002 e il 2009 l’Arabia Saudita ha speso più di tutti: 40 miliardi di petrodollari. Le tensioni mediorientali
sono il volano principale di un mercato in cui a fare affari d’oro sono soprattutto gli Usa, che vendono i caccia F16 sia a Israele che all’Egitto, mentre gli
elicotteri Black Hawk vanno a ruba negli Emirati Arabi. La Russia invece guarda all’Asia: nel 2009 ha venduto al Vietnam sei sottomarini classe Kilo per 1
miliardo e 800 milioni. La Cina è l’esportatore emergente in Africa, dove sono richieste soprattutto armi leggere e caccia meno sofisticati di quelli
occidentali. In questo modo Pechino accresce il suo status di potenza nell’area e si avvantaggia nella corsa alle risorse naturali del Continente nero.

La torta è ricchissima e tutte le potenze partecipano al banchetto: nel terzo mondo vengono spedite armi di terra, di acqua e di mare. Un dato su tutti:
nell’ultimo triennio gli Usa hanno venduto al terzo mondo 446 tank, la Russia 420, i “grandi” europei 230. La domanda non si ferma mai, nonostante la crisi
economica. E l’Occidente è sempre pronto a soddisfarla.

20 ottobre 1967 - Muore l'eroico Partigiano dirigente azionista e


socialista Riccardo Fabbri torturato dai fascisti (R.I.P.)
pubblicata da Italia Libera Civile E Laica = Italia Antifascista il giorno mercoledì 20 ottobre 2010 alle ore 18.45

20 ottobre 1967

Muore l'eroico Partigiano dirigente azionista e socialista Riccardo Fabbri torturato dai
fascisti (R.I.P.)

Nato a Siena l'8 maggio 1920, deceduto a Roma il 20 ottobre 1967, dirigente azionista e
socialista.

Attivo antifascista, militò sin da giovanissimo nel movimento "Giustizia e Libertà".


Per questo suo impegno, prima della caduta di Mussolini fu più volte arrestato dalla polizia fascista.

Dopo l'annuncio dell'armistizio, il giovane azionista partecipò alla Guerra di liberazione nelle file
della Resistenza romana.

Catturato dai repubblichini della banda Koch, Fabbri fu condotto dai fascisti nella famigerata
Pensione Jaccarino e poi in via Tasso, dove sopportò stoicamente le sevizie a cui fu sottoposto e che
l'avrebbero reso invalido per tutta la sua breve vita.

Dopo la Liberazione, Riccardo Fabbri contribuì alla rinascita della Camera del Lavoro della
Capitale e, nel 1958, fu nominato segretario generale della Federazione Postelegrafonici. Membro
della Direzione del Partito d'Azione, quando il partito si sciolse Fabbri decise di aderire al PSI.
Consigliere comunale di Roma, nel 1958 fu candidato dal Partito socialista alle elezioni per la
Camera dei deputati. Eletto, fu riconfermato nelle elezioni del 1963.

In Parlamento fu stimato vicepresidente della Commissione Trasporti, ai cui lavori contribuì con
grande intelligenza sino alla morte prematura.

LA LETTERA

"Caro Garimberti,
così non andiamo in onda"
Lo scrittore scrive al presidente Rai sul caso "Vieni via con me": una "favola" i compensi astronomici. "Il danno economico per la Rai
sarebbe non mandarla in onda". "Sono i contenuti che fanno paura e su questo non siamo disposti a trattare"
di ROBERTO SAVIANO

Caro presidente Rai, una dichiarazione del direttore generale Masi assicura che Vieni via con me andrà in onda senza problemi.
Purtroppo non è vero. La favola sui compensi "astronomici" degli ospiti - agitata dai vertici Rai - è appunto, una favola, un ultimo
pretesto per metterci i bastoni tra le ruote. Tutte le persone che abbiamo invitato si sono dette pronte a dimezzare i loro compensi e
persino a intervenire gratis, pur di partecipare al nostro progetto: eppure, oggi, a meno di tre settimane dalla prima puntata nessuno dei
loro contratti è stato ancora firmato.

Ma a parte il fatto che sarebbe ingiusto chiedere a chiunque di lavorare gratuitamente, la verità è che i soldi non c'entrano: anche
perché Vieni via con me sarebbe comunque un grande affare per la Rai, viste le cifre a cui sono stati già venduti gli spazi pubblicitari. Il
danno economico per la tv di Stato sarebbe cancellarlo.
La Rai ha fatto di tutto in questi mesi per boicottare il nostro lavoro: ci hanno ridotto lo studio, gli attori, gli ospiti, hanno tentato di
tagliare le puntate da quattro a due, ci hanno messo in programma prima contro le partite di coppa e poi contro Il Grande fratello. Nel
continuo braccio di ferro con l'azienda abbiamo avuto al nostro fianco solo la direzione di Raitre. Alla fine è stato chiaro, ci troviamo di
fronte ad un paradosso: un editore che, non avendo la forza per bocciare una trasmissione, fa di tutto per farla andare male, per ridurne
al minimo l'audience e costringerla in una nicchia dove non dà più fastidio. Noi avremmo voluto fare un programma ambizioso, di
qualità, con ospiti importanti e destinato ad un grande pubblico per raccontare un'Italia che raramente appare in tv. Volevamo parlare di
macchina del fango, di mafia e politica, di come funzionano i voti di scambio, delle bugie sul terremoto, del business dei rifiuti: guarda
caso, quando i dirigenti Rai hanno conosciuto la scaletta delle trasmissioni, tutto è diventato più difficile. È allora evidente che sono i
contenuti della trasmissione a fare paura: ma sui contenuti nessuno di noi è disposto a trattare, sono la nostra libertà.

In questo clima, con un editore che rema contro, e che fa di tutto per ridurre mezzi, spazio, possibilità, non possiamo né vogliamo
lavorare. Non ci sono la condizioni per andare in onda. I vertici dell'azienda hanno fatto di tutto per dimostrarci di non volere Vieni via
con me. La Rai dimostri che non è così, se ne è capace. Caro presidente, ci dica con chiarezza se questo programma si può fare
liberamente, oppure no.
(20 OTTOBRE 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

20 ottobre 1941 - Sterminio nazista in Serbia a Kragujevac


(R.I.P.) ----> 5 FOTO NEL POST
pubblicata da Italia Libera Civile E Laica = Italia Antifascista il giorno mercoledì 20 ottobre 2010 alle ore 18.27

20 ottobre 1941

Sterminio nazista in Serbia a Kragujevac (R.I.P.)

In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l’autunno del 1941. Pochi mesi dopo la
dissoluzione del regno di Jugoslavia, la penisola balcanica è insorta contro l’occupante
nazifascista. Alla rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della popolazione civile.

Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l’invasione tedesca della Jugoslavia, nei due Ginnasi di
Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città serba posta nel centro della regione della Šumadija, le
lezioni iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la sintassi della lingua
serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la fisica. In una classe, un professore croato, un
profugo fuggito dal regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il valore della
libertà. Poco lontano, un altro spiega l’opera di un poeta serbo del romanticismo risorgimentale.
La mente rivolta alle secolari lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente
che cresce irresistibilmente, anch’egli parla di libertà. La voce calma e profonda che illustra i
versi del poeta: “La libertà è un nettare che inebria / Io la bevvi perché avevo sete”, ne nasconde a
fatica la tensione, che aleggia anche nell’aula, che grava su tutti, sulla cittadina, sui suoi abitanti,
e che l’eco strozzata di fucilerie lontane da alcuni giorni alimenta.

Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una vasta azione di rappresaglia,
che i tedeschi stanno conducendo con spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della
Serbia. La ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica contingente. La
rapida vittoria dell’Asse ha dissolto uno Stato, il regno dei Karadjordjevic, ma non ha prostrato i
popoli della Jugoslavia. L’illusione tedesca di una comoda permanenza in quella terra è stata
presto delusa. Sin dai primi giorni dell’occupazione, i tedeschi hanno avuto filo da torcere. La
guerra, che anche in Šumadija i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e
diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee telefoniche e telegrafiche
vengono tagliate, ponti e strade ferrate saltano. Il movimento di resistenza cresce così
rapidamente, ben presto è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling serbo
Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si sentono troppo esposti, isolati,
preferiscono arroccarsi in città. La lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la
conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una razza inferiore, da sterminare.
La traduzione pratica di questo principio è all’altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado,
una moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella capitale, in sette mesi
fucilano 4700 ostaggi.

Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la propaganda questo pugno di ferro
che calano sul paese. Le argomentazioni che diffondono sono quelle care alla “dottrina”
nazifascista dell’Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di averli salvati dagli ebrei e
dai capitalisti, e promettono anche di salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere
sicuramente sconfitto sul fronte orientale.
L’itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla grande carta geografica che
campeggia nel centro della città. Una croce uncinata segna la progressione delle forze dell’Asse in
direzione di Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione, lusinghe,
denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire il sostegno alla lotta partigiana, a
ridurne il seguito. A dare contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non
mancano. La carta geografica dell’Asse viene bruciata in pieno giorno. Il fuoco divora anche una
delle fabbriche militari della città. Un treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea
Kragujevac-Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e occupanti, i
tedeschi si trovano nella condizione di assediati.

È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da kraguj, dal rapace grifone che
popolava i sui boschi, che alimenta la Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni
nazionali e socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia. Gli operai comunisti
che costituiscono il nerbo delle formazioni partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue
case dai cento nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le armi, le
munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini e ragazzi portano quotidianamente ai
combattenti del bosco.

Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di bande, che è lotta di popolo e che
sconvolge gli schemi bellici dei signori nazisti della guerra, già alla fine dell’agosto 1941
Kragujevac conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma i due battaglioni
e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre
compagnie partigiane che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di
bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione anzi si fa sempre più audace,
punta sul risultato militare, ma ricerca anche l’effetto psicologico. Per i partigiani, importante è
non soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a sperare, a vivere. Una notte
d’agosto, cento metri di ferrovia vengono fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.

È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e il desiderio di vendetta dei
tedeschi crescono quotidianamente. Quando nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la
Serbia, e conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il generale Boehme,
comandante delle forze tedesche nel Paese, considera che la misura è colma. Il prestigio dei suoi
soldati deve essere risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una spietata
repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere più chiara la direttiva che passa ai
subalterni, e che precisa la “filosofia” del comando tedesco, Boehme ricorda che “una vita umana
non vale nulla”, e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una “crudeltà senza eguali”. A
metà settembre i tedeschi passano all’azione. La macchina si mette in moto.
Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio. A decine villaggi grandi e
piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono
a migliaia, uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai 14 ai 70 anni che
rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento muoiono durante una marcia fatta fare al passo
di corsa per 46 chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10 ottobre, a Valjevo,
2200 ostaggi: finiscono al muro. “Pagano” 10 tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è
“sentenziata” la punizione di Kraljevo, un’altra città che resiste. I plotoni di esecuzione lavorano per
cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra impossibile immaginare una strage ancora più grande.
Eppure, l’allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore. Lo farà a
Kragujevac, e nel suo circondario. La “spedizione punitiva” comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel
quartiere operaio di Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li trascinano dietro
nella puntata che fanno contro il paese vicino, Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a
rimuovere tronchi d’albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo contro i
partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di pastori. Vivono un’agonia che ha fine solo
con il grande massacro, nel quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al
paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio conto che avevano in
sospeso. Anche per questa impresa però devono pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi
fuori combattimento dai partigiani, che attaccano senza sosta.

Di fronte a questo “smacco” la logica tedesca della ritorsione non tarda a scattare. Sarà Kragujevac
a pagare, con la vita di 100 cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito.
Duemilatrecento persone sono condannate a morte.

La rappresaglia punta per primo sui “nemici storici” del Reich: comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi,
e un certo numero di comunisti, 66 persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno successivo, il 19 ottobre, una massiccia
operazione ha luogo nell’immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre chilometri,
sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac, Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A
Meckovac, donne e bambini sono costretti ad assistere all’esecuzione. Lo stesso macabro rituale è
imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di Dimitrjie Ljotic. Il paese quel
giorno celebra la festa del patrono. I fascisti serbi strappano il pope dall’altare con il vangelo ancora
in mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della comunione ortodossa. Vengono
falciati tutti lì vicino, con le mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di morte.
La prova generale è compiuta. Ora si passa al “grande massacro”.

L’azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell’alba, gli accessi a Kragujevac
vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla
città, nessuno può più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso. È quanto
accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio che in città muove verso il mercato.
Agli ordini del maggiore Koenig, tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all’uomo. Nessuno
sfugge, nessuno è “dimenticato”. Il gruppo di operai che lavora tranquillamente a un torrente, i tre
popi di una chiesa, che sperano di trovare la salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare
ovunque. Gli impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani, pubblico, dal tribunale.
Dalle abitazioni vengono tratti anche gli ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al
suo cliente, che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia insaponata, l’altra no.
Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L’apparizione di quelle uniformi verdi
armate di fucili e parabellum, infrange la normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il
barone Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato presidi, professori e
genitori di severe sanzioni se i ragazzi non frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le
vie della città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in aula, sempre. L’ufficiale
tedesco, che da civile è insegnante, combatte l’assenteismo degli studenti non certo perché mosso
da passione pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano presenti, egli fa
apparire di voler esercitare un controllo; che però si trasforma in una trappola. In realtà, egli non
dimentica che i ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più violenta
opposizione all’occupante. Un giovane è finito impiccato dopo uno scontro con la polizia. Il barone
sa pure che anche in quelle aule la Resistenza attinge, per alimentare i suoi “gruppi d’azione”, i suoi
propagandisti e sabotatori.
L’ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti dal barone sono pronti.
Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi hanno cancellato i loro nomi dall’elenco. Precauzione
inutile. Non c’è appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano. Hinaus, fuori tutti
quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido che si trascina con la stampella, per il quale
invano una professoressa intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di salvare. Ai
soldati che si affacciano, il professore dice, per rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco.
Mente. E mente una seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi. Quindici
dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel momento un alunno si alza dall’ultimo
banco. È lo spilungone della classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori
tutti.

I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa. Con loro, ci sono anche Mile
Novakovic, insegnante di chimica, celibe, e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui
rifugiato in Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della Croazia. Quel giorno i
due professori non hanno lezione. Ma quando hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi
che la scuola non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere insieme ai loro ragazzi.
Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante,
solo le donne non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i professori e gli alunni, e
“cento berretti levarsi in segno di saluto”. I ragazzi credono ancora che torneranno.

Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella immensa rete gettata sulla città.
Chi vi riesce, va a unirsi ai partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a migliaia,
ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I
razziati sono quasi 10.000, su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno
tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono, con comunisti ed ebrei, i
primi ad essere fucilati.

Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte, la sera di quel 20 ottobre i
prigionieri sentono le prime scariche di fucileria. È l’avvio della grande carneficina. Contando sulla
sorpresa, e sulla iniziale “distrazione” dei fucilatori, alcuni dei condannati riescono a salvarsi.
Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra
anche se non è colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco. Tenta di nuovo la
fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli sfiora l’inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di
grazia nella spalla invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L’uomo striscia tutta la
notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i
fascisti serbi, che lo riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di vita,
tanto vale lasciarlo morire. Ma l’uomo non muore.
Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue freddo che riescono ad avere
anche in un tale frangente. A mano a mano che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i
tedeschi fanno la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per esempio, gli
elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di
tirare fuori i loro amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi. Arrivano a offrire
dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un
paese alleato dell’Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un dalmata si dichiara
italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a
salvarsi, e a salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la sua “autorità” di
“alleato”, che non ha ancora 16 anni. Un serbo, invece, mostra un certificato bulgaro qualunque,
rilasciato dalle truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da parte.

Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore, insegnante di religione, che invece
potrebbe. Tutti sanno che è un fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che
alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua. Basterebbe che dica chi è.
Kalafatic invece tace. Tace anche quando passano i fascisti serbi per la “loro” selezione. Forse,
nelle lunghe ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera natura dell’Ordine
Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche
due vecchi genitori che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in due
gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla testa di un gruppo vi è il preside del
ginnasio. L’altro gruppo marcia verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero
danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano “Hej Slaveni!”, l’inno antico e
comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.

Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci chilometri, fuori della città le armi
crepitano fino alle 14 del giorno 21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60
anni cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più che triplicato il
“coefficiente dichiarato” di rappresaglia. I graziati sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti
rientreranno a piangere un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato
successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il giorno dei morti, vuole anche che
per ogni morto sia accesa una candela gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da
benedire con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti rimasti a Kragujevac sono
solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le
candele, presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano l’antica preghiera della
liturgia veteroslava. Dandosi il cambio pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.
Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla strage, alterando registri, imbrogliando
le cifre, esumando e cremando cadaveri. Kragujevac ha fatto il “suo” appello. È la prova che
Zivotjin Jovanovic, l’uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di Norimberga: “…
Quell’ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più di settemila bandiere nere… nella chiesa
vennero presentati e benedetti in un giorno più di settemila pani… E furono accese settemila e
trecento candele…”.

ANTONIO PITAMITZ
articolo tratto da “Storia Illustrata” del gennaio 1979

http://www.lsmetropolis.org/2009/10/20-ottobre-1941-sterminio-nazista-in-serbia/
EST - Ue, il “Sakharov” a Fariñas e il rischio gelo tra Bruxelles e l’Avana
Roma, 21 ott (Il Velino) - Il premio Sakharov alla libertà di coscienza andrà al dissidente cubano Guillermo Fariñas. Medico, 45 anni, Fariñas è stato il
protagonista di un prolungato sciopero della fame, 135 giorni, indetto per chiedere al governo castrista la liberazione di carcerati in cattive condizioni di
salute. La scelta di Fariñas, scrive il quotidiano El Mundo, porta la firma degli eurodeputati popolari, liberali, oltre che dei tories e dei conservatori cechi e
polacchi. Uno “scacco” ai socialisti che avrebbero voluto un riconoscimento per Birtukan Mideksa, dissidente etiope. Evitando che Bruxelles irritasse
l’Avana proprio nei giorni in cui il governo spagnolo si sarebbe impegnato a chiedere ai Ventisette di rivedere la posizione comune. Iniziativa già tentata da
Madrid durante il semestra di presidenza spagnolo.

Si tratta di rimuovere una scelta strategica che Bruxelles varò nel 1996, sotto l’impulso dell’allora presidente spagnolo José Maria Aznar, e che lega la cifra
della cooperazione con l’Avana alla qualità dei diritti umani applicati sull’Isola. Una strada sempre più tortuosa da percorrere, però. Non solo perché la
selezione del vincitore del “Sakharov” certifica l’attuale lettura dell’Europarlamento nei confronti del regime castrista, ma anche perché è venuto a mancare
lo sponsor principale del possibile cambio di rotta nei confronti di Cuba: l’ormai ex ministro degli Esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos da molti criticato
proprio per l’indulgenza nei confronti dei paesi socialisti e “bolivariani”. Una assenza che peserà alla riunione dei ministri degli Esteri in agenda lunedì
prossimo, quando più forti saranno presumibilmente le voci dei difensori della “posizione comune”, Repubblica ceca e Slovacchia in primis.

Diego Antognoni la gente reagisce in base a ciò che vive e si "educa" di conseguenza,,,,,donne
italiane stuprate, ogni giorno c'è un furto in appartamento,,la percentuale di rumeni che viene
per delinquere è spaventosa....le persone a violenza reagisocno con violenza,,,,,e così sta
andando...gli italiani sono stanchi....è tutto un circolo che va fermato
Valerio Battaglini il lavoro da infermiere ai tanti laureati in infermieristica senza lavoro,
ITALIANI, e c'è ne sono credetemi.... lavora l'italiano e siamo piu contenti, la rumena non
moriva, il ragazzo non va in carcere e siamo tutti piu contenti! via i rumeni e gli immigrati
dall'italia ci sono tanti italiani senza lavoro nella loro propria terra...... basta organizziamoci e
cacciamoli via..................
Patrizia Bava se non si vuole le mani addosso non bisogna metterle e lei non mi sembra che
non lo abbia fatto anzi mi dispiace che sia morta ma pero continuava a menarlo queste cose
non le havete viste? e poi non ha fatto notizia che al tabaccaio che ha testimoniato gli hanno
dato fuoco alla macchina ecco in che paese siamo sono molto piu tutelati loro che noi quindi
hanno poco da dire che siamo razzisti ci stanno facendo diventare loro razzisti!!
Melania Bella secondo me dobbiamo cercare di capire meglio la situazione: non è giusto
applaudire ad un omicidio ma a mio parere qui tanto non si parla a mio avviso di origine ma dei
fatti che avvengono ogni giorno e che sono spesso opera degli stranieri... contro gli italiani... ok
noi italiani non siamo tutti "brava gente" e non si dovrebbe generalizzare sui stranieri anche
perchè posso dire che molti dei rumeni e non solo non compiono atti criminali e non
danneggiano nessuno,anzi al contrario,si fanno un mazzo quanto noi... io credo che la donna
non fosse però tanto santarellina come appare e ci sono state persone che dicono di averla gia
vista fare storie nella metrò come è accaduto a questo ragazzo,Burtone ha fatto un errore
però:appena l'ha vista a terra poteva fermarsi o almeno se voleva spingerla poteva moderarsi
invece di spintonarla in quel modo... ma poi non so se l'avete notato ma come cavolo ha fatto
Maricica a cadere a peso morto in quel modo? a me sembra un tantino anomalo....
Michele Calabrese si ma dite tutta la verità ..........nessuno dice che cosa ha fatto lei prima
troppo comoda.........
Michele Calabrese non è un discorso di razzismo bisogna capire ke cmq lei poteva evitare di
certo lei ha provocato e ha continuato...............
Cristina Cognigni senza dubbio la folla ha sbagliato ad applaudire un gesto cosi orrendo
dimostrando che gli stranieri non sono graditi ma come mai i giornali non racconatano mai
tutto tutto?se si ascolatano programmi di approfondimento viene spiegato che la... signora
aveva offeso lui,dava calci e schiaffetti di continuo al signore per un fatto di precedenza o roba
simile.quindi di certo anche la signora non era una persona tranquilla e civile ma è capitata
male con quel signore che si è fatto prendere dai nervi e l'ha stecchita..quindi non ha sbagliato
solo lui ma secondo me è stata anche lei che in un certo senso se lè cercata..mai passare alle
mani.. e di conseguenza chi di noi non reagisce alla violenza con violenza???ora la signora è
morta e il fatto è diventato eclatante ma se lui la avesse soltanto colpita con meno forza o
presa a parole..tutto questo clamore neanche ci sarebbe!ilproblema è un altro:siamo in una
società in cui la maggior parte si innervosisce e arrabbia per poco,per stupidaggini..di
conseguenza..chi provoca l'altro in maniera pesante, raramente ne esce "illeso"!dobbiamo
rilassarci un pò tutti e lasciar perdere questa vita frenetica a mio parere.
io Crow Cardillo Il ragazzo dovrà pagare per ciò che ha fatto, questo è certo!
Ma i rumeni mi han rotto le balle, fuori a calci! Sono stato in Irlanda, lì le ragazze camminano
tranquille alle 5 di mattina, perchè se gli stranieri lì fanno qualcosa di storto,... li mettono in
aereo e li sbattono a casa loro. Perchè a Roma nelle metropolitane le ragazze da sole non
possono andarci di sera? Ok, ci sono anche gli italiani che stuprano e ne sono convinto anche
io, ma la gente straniera che non rispetta la civiltà in Italia dovrebbe essere trattata per quel
che è, uno straniero!
Poi che ci sia gente che lavora onestamente non lo metto in dubbio, ma ora mi son rotto di
sentire RUMENI tentano lo stupro, rumeni rubano in casa ecc... a calci nel culo a casa loro. Per
quel che riguarda questa donna, sinceramente dico che il ragazzo la deve pagare, ma la
tolleranza ai rumeni, non in questo caso, la signora sembra sia solo vittima, è FINITA!
Mario Crow Cardillo Ragazzi, io non ho mai avuto tendenze nè fasciste, nè razziste, ma ripeto,
all'estero lo straniero appena sbaglia lo puniscono. In Italia no, il problema dei romeni in Italia è
che la maggior parte di loro sono delinquenti che non lavorano,... allora io è questo che
combatto. Non mi interessa il romeno che lavora e fa vita CIVILE rispettando le nostre leggi, ma
quelli che sbagliano se ne vadano via. La signora qui sopra non mi interessa se avesse ragione
o torto, ho appreso la notizia in modo vago senza approfondire, sono uno dei pochi che non
vede la tv in Italia, l'italiano la deve pagare, come qualsiasi romeno o marocchino o senegalese
che commette reati. Non è un argomento xenofobo, è un semplice discorso del tipo, l'italiano
sbaglia che PAGHI, e così i romeni e tutti gli altri stranieri.
Daniel Crivellaro Cesso di una donna...se fosse stata furba non avrebbe reagito e sarebbe stata
zitta...quando te le cerchi, hai solo da non lamentarti dopo...soprattutto perché qua in italia gli
stranieri non sono visti come brava gente, che siano rumeni o inglesi...poco cambia!
Kiara De Simone io nn giustifico la violenza ke il ragazzo ha avuto nei confonti della donna, ma
anche lei per un biglietto..andare dietro alla persona prenderla a spintoni e offenderla!!!nn ci
siamo in nessun fronte!!! la violenza deve essere punita al is...tante e di qst sono + ke
daccordo, ma sarebbe da cambiare il cervello delle persone ce' troppa frenesia e agitazione in
giro....dovremmo darci tutti una bella calmata!!!e nn scordiamo il fattaccio della rumena ke
ammazzo' la ragazza romana sotto la metro levandogli un occhio cn l ombrello!!!italiani brava
gente...nn credo ma nn facciamo di tutta un erba un fascio!!!!
Annarita Fanelli VISTO CHE SIAMO BRUTTA GENTE, SE NE POSSONO RESTARE IN ROMANIA!
Annarita Fanelli Non ho mai pensato che sia giusto ciò che ha fatto, ma, ricordiamo che anche
a causa della cattiva informazione, dobbiamo camminare con gli occhi sgranati! Certo ci sono
anche italiani schifosi ma, lei poteva anche evitare di rincorrerlo e minacciarlo per un semplice
biglietto! Con questo, non dico che sia giustificabile l'uccisione!
Annarita Fanelli Un'ultima cosa, non è una questione di nazionalità! Ma sti romeni hanno rotto,
vengono in Italia,non pagano le tasse, mangiano, bevono, ci tolgono il lavoro xkè si fanno
pagare una miseria e violentano le donne! Questo è il sentire comune e non facciamo gli
ipocriti!!
Marco Golin mi passi davanti, te lo faccio notare e mi inizi a insultare, me ne vado e mi
insegui insultandomi e dandomi uno spintone e prendendomi a schiaffi...un spintone io te lo
mollerei tutta la vita(il tipo non doveva tirarle un pugno forte in vo...lto ma non è giusto
rimanesse li a prnedere mazzate) e non c'entra che la tipa sia rumena, congolese o tedesca...si
è comportata di merda( anche se non meritava certo di morire per questo)...ci vorrebbe più
rispetto da parte di tutti...il tipo non va applaudito ma non va eccessivamente condannato,
infatti sarà fuori tra 5 anni.
Lorena Fiore Accanto al letto della povera maricicla giace un giovane in fin di vita picchiato da
una banda di rumeni...questo non ha fatto notizia...E' ovvio che non ha senso giustificare un
reato ma secondo me questo ragazzo è stato molto sfortunato ...lui e la sua vittima ed è
diventato il capro espiatorio della cattiva coscienza di certi nostri politici e su di lui si è
imbattuta improvvisamente la necessità della durezza quando la dinamica dei fatti avrebbe
suggerito maggiore prudenza nell'invocare un carcere PREVENTIVO che spesso non fanno
nemmeno i peggiori criminali.
Antonella Gangemi Io penso solo che chi sbagli è giusto che paghi, Burtone, nel caso merita
una giusta punizione, MA DELLO CHOC IN ROMANIA poco mi interessa, dove stanno quando si
parla delle bestialità che compiono i loro connazionali in una terra straniera NO mi sembra,
quindi pregassero per quella Donna e cucissero le loro bocche.
Costanza Giordano Rimango della mia idea............ che lui ha fatto malissimo, ma che lei se l'è
andata a cercare, e con molta insistenza. E questo a prescindere dal fatto
italiano/rumena...........se sei un'attaccabrighe, prima o dopo in qualche casino ti ci infili, è
matematico
Costantino Ikas Orihara Non vedo cosa c'entri il razzismo con questa storia, un ragazzo è stato
provocato da una donna, in un luogo poco sicuro. Io avrei avuto paura,forse l'ha avuta anche
lui e le ha mollato un pugno, avesse voluto infierire l'avrebbe presa a calci mentre era a terra.
Potete anche schifare la violenza, ma cosa avreste fatto voi se una persona (anche uomo) vi
avrebbe seguiti insultandovi e spingendovi? Meditate gente e non siate moralisti, anche quel
ragazzo merita rispetto c'è gente peggiore in giro
Massimo Innocenti La signora prima del tragico evento causato dallo sconsiderato pugno
"bastava prendergli il braccino e girarglielo" si stava comportando da stronza chi ha visto il
video integrale, non solo la fine, puo facilmente capirlo ora che sia romena o no non è
importante l'importante e che le mani non si alzano per primi ne se sei uomo ne se sei donna
se non vuoi correre il rischio di prenderle.
Rosaria Mangione ....x lui la storia era chiusa alla biglietteria, ma lei ha insistito!Poi, tutti bravi
a parlare, vorrei vedere noi al èposto del ragazzo, nn credo che saremmo stati fermi.......mi
dispiace x lei, come qualsiasi vita umana, ma sono dalla parte del ragazzo........
Massimo Mastracci sono completamente daccordo con gli applausi. 80% dei rom criminale di
varia natura(ubriaco,ubriaco al volante, molestatore,stupratore, rissoso, ladro,
assassino,...........). se li dobbiamo tenere per quel 20% che si comporta bene, mi dispiace ma io
personalmente non ci sto.
Massimo Mastracci @simone zini. io non avrei mai sposato una donna che aizza un ragazzo per
questi futili motivi.semplicemente perchè ci avrei litigato tutti i giorni. se lei fosse stata
tranquilla il ragazzo non si sarebbe mai sognato di rispondere agli sc...hiaffetti e alle parole
della romena confermate dalla bigliettaia come "guarda che noi romeni non perdoniamo, te la
faccio pagare". questa gentaglia che ripeto è criminale all'80% (e il 20% non criminale non
giustifica l'accettazione della loro comunità) non può pretendere un bel trattamento dopo che
si comportano come sentiamo (e io personalmente ho anche sperimentato... un'aggressione di
2 ragazzi ubriachi in strada e un furto nella mia abitazione con tanto di bigliettino sfottente). Io
non li voglio e non saranno i commenti di alcuni come voi che non li hanno mai sperimentati
vicino casa loro, o dentro casa propria o non ci si sono mai scontrati, a farmi cambiare
idea.ribadisco che mi sarei unito agli applausi per il ragazzo provocato e minacciato.
Il Vitto Mesorteina A TUTTI COLORO CHE HANNO COMMENTATO PRIMA DI ME, RICORDO CHE
SONO LIBERISSIMI DI ANDARSENE ALL'ESTERO INSIEME A BERLUSCONI... La parità dei sessi va
bene, ma se la donna picchia per prima, si deve assumere tutta la responsabilità della
provocazione.
Monica Nto Dico Ma ke kazo di ragionamenti ora xke un italiano a ucciso una rumena quel
poraccio e in karcere....ma qnd un rumeno uccide dei ragaxi o stupra o scippa no stiamo
tranqui.....a mio parere mandateli al paese loro
Gaetano Ori Saitta caxxi sui....a lei chi gliello a detto di andare...a cercalo...ora seila fotte lei...
pero non è manco giusto che il ragazzo le molasse un pugno...
Gaetano Ori Saitta @Giuseppe Borriello perche non stai zitto...solo un pò zitto non molto cmq
cavoli sui....il ragazzo non doveva fare quello che a fatto...pero la ragazza o Rumena o Italiana
non devava mettersi...contro un uomo...è stato da cretini fare quella azione
Gaetano Ori Saitta wow basta ormai è morta...basta + parlare...è inutile che parliamo tutti nella
pagina di facebook...:( :( spero che li su trovera qualche cosa
Sabrina Jld Pellegrini sono cose che non devono accadere!!!quella donna deve avere
giustizia...ma voglio però dire una cosa....si sa che viviamo in un mondo dove la gente non sai
più come reagisce...e forse anche lei doveva finire la discussione nel bar senza poi continuare
ad attaccare!!!finisco però col dire che l'atto del ragazzo non è giustificato!!e dagli applausi di
tutta questa gentaccia mi rendo sempre più conto del presente che vivo e del futuro che
vivrò....senza parole!!
Dario Plebani è lei che ha iniziato a litigare...
Dario Plebani Ma voi che FATE L MORALE se una vi spintona e vi insulta come reagite?non
penso con carezze e belle parole...
Claudio Pozzato tra italiani sarebbe finita subito la discussione un vaffa e tutto finiva li.perche
lei ha insistito ad attaccarlo .lo ha detto anche l'edicolante che era lei che continuava a
picchiarlo ed offenderlo.è stato sfortunato mi dispiace per tutti e 2
Il Principe della Notte ragazzi il ragazzo ha sbagliato alla grande visto che in passato è stato
anche denunciato ma ora non facciamo passare la rumena x santa maria goretti.lui ha
sbagliato ma è stato anche provocato...nel filmato lui stava x fatti suoi..
Francesco Raciti per punizione verso l' Italia dovrebbero ritirare tutti i rumeni che si trovano qui
......zingari compresi.....cosi' ci puniscono!!!!!!!!!!
Luciana Roberti x quello ke ho sentito i 2 avevano gia litigato nella biglietteria.ke l'ha rincorso a fa quello li. se la
signora si faceva i fatti suoi nn faceva la svelta lei era viva e lui nn andava in galera x omicidio. nn si sa ki si può in
contrare x strada certe volte è meglio perdere e riportare la pelle a casa.Luciana Roberti
Scancella Fabrizio
Linda Sorace
Orazio Stefanucci Che ridere chi dice che siamo razzisti qualunque cosa contro uno straniero è
razzismo alora facciamoci provocare senza far nulla se no siamo razzisti noi,ma andate a
fanculo moralisti del cazzo...
Silvia Tabasso scusa, ma io non sono del tutto d'accordo. L'esempio con l'altra donna uccisa è
diverso, perchè il ragazzo stava facendo una rapina, quindi non era uno stinco di santo
..mentre in questo caso stavano litigando per la coda in biglietteria, q...uindi nessuno dei due
era intento a compiere un atto illegale come una rapina..inoltre nelle registrazioni si vedeva
che era la donna a seguire il ragazzo e continuare a protestare...a un certo punto lui si è
stufato, non lo so, e ha provato ad allontanarla, non riuscendo in altro modo le ha tirato un
pugno..ora, a me dispiace tantissimo per lei, che è morta lasciando due bimbe piccole, ma
capisco in parte anche lui..se io mi trovassi davanti una persona che vuole litigare,mi
spaventerei e cercherei di allontanarla in qualche modo...poi il fatto che è straniera spaventa
anche un pò, lo so è ingiusto ma un pò naturale, aver paura del diverso ecc, poi sentendo
sempre parlare alla tv dai crimini compiuti dagli stranieri, uno è un pò prevenuto..quindi,
ovvio,mi dispiace per lei e capisco che vogliano giustizia i parenti, ma non mi sento di dire dove
il ragazzo ha sbagliato, visto che non tanto tempo fa, per un motivo simile è stata la straniera a
ficcare un ombrello nell'occhio all'italiana, un gesto a mio parere molto più pericoloso e
intenzionale di un pugno...in generale per un pugno cadi ti fai un pò male, ti distrai e parmetti
all'aggressore di allontanarti..ma è difficile morire...o almeno questo è quello che avrei pensato
io, persona assolutamente estranea alla boxe ecc...a quanto ho sentito la sfortuna ha voluto
che lui colpisse un punto particolarmente sensibile e pericoloso..
Dario Tirelli bene bene...devo dire che il commento pui giusto per me è quello di Francesco
Raciti..per punizione e indignazione lo stato Rumeno ritirasse tutti rumeni compresi i zingari
( cor cavolo che lo fanno)
Jessica Tommasi visto che noi Italiani siamo "brutti e cattivi",ve ne state in Romania e siamo
tutti felici

Egregi Signori, visto che mi viene negato l'accesso alla pagina abbonati nonostante io sia abbonato, mi servirò di questo mezzo
per comunicarvi che non intendo rinnovare l'abbonamento. 290 € per me sono veramente troppi. Comprerò Il Fatto in edicola
quando ne avrò voglia. FRANCO RICCI VIA ALFREDO ORIANI 35 RAVENNA

Maricica Hahaianu. Gli applausi a Burtone.


Riporto qui sotto una "Antologia Minima" dei commenti all'articolo "Gli applausi a
Burtone, assassino di Maricica, uno choc in Romania: italiani brava gente?" che
"Informazione Libera" riporta da "Blitz quotidiano". Prevalgono i commenti di persone
indignate per l'episodio che ha visto come protagonista un gruppo di giovani fascisti
solidali con il loro camerata Burtone, ma sono tanti purtroppo i commenti simili a quelli
che seguono. Li si può dividere in 4 categorie che si intrecciano alcune volte tra loro
nello stesso intervento:I solidali in tutto e per tutto. Ha fatto bene, anch'io farei così. I
razzisti generalizzanti. Tutti i Rumeni sono delinquenti. (Si arriva a confondere Rom con
Rumeno). Quelli con molti se e molti ma. Ma anche lei aveva.. Se lei non avesse... Non è
giusto applaudire, ma... Gli equanimi. Di questa categoria non porto esempi per ragioni
di tempo, ma li potete nell'articolo citato. Lei è morta, lui andrà in galera
(praticamente 0 - 0). Sì, c'è stato quest'episodio, ma non dimentichiamo che... C'è
persino quello che dice che non va bene applaudire Burtone, ma non va neanche bene
applaudire contro Burtone (una forma di par condicio?). Quel che si nota subito è il tipo
di italiano che viene usato. Quando (raramente) è corretto, è un italiano piatto,
"televisivo", con locuzioni e lessico tipici di quel giornalismo e con frequenti errori di
battitura (quanto costa rileggere quel che si è scritto? o si ha paura di
vergognarsi?)Quando l'italiano è scorretto scopriamo ancora una volta quanto è vera
quell'affermazione di N. Moretti in "Palombella rossa", cito a memoria: "Chi parla male
pensa male e vive male". Il tutto è reso ancor più orripilante dal birignao dello stile
"messaggino telefonico" (ke, quanto 6 scemo, xò e via andando). Almeno in un caso tra
gli esempi riportati (20, 20a, 20b, 20c), non sono nemmeno riuscito a capire cosa
pensasse lo scrivente. Le argomentazioni spesso non vengono sviluppate, ma si
spengono in varie serie di punti di sospensione. Le affermazioni anche più azzardate
vengono scodellate come verità note a tutti (qui i media hanno pesanti responsabilità.
"L'ha scritto il giornale." "L'ho visto in tv."). Frequente è l'abuso di punti esclamativi, a
volte anche in serie di 4 o 5 e più (ma non negli esempi qui sotto riportati). Veniamo alla
sostanza, anche se pure la forma è sostanza. Leggendo questi interventi ci si scontra con
un tipo di mentalità che non si può definire né fascista, né nazista, né razzista. Siamo
alla dantesca "matta bestialità", al latrato, al grugnito o, peggio, alla Babele
delle affermazioni più incredibilmente dis- e anti-umane esposte in ben tornite frasette,
un po' come se l'adorata mogliettina si rivolgesse al marito con un: "Caro, butta giù il
bambino, ché l'acqua bolle." E questi sono forse i dati più preoccupanti di una società
che sta familiarizzando con l'orrore. 1 la gente reagisce in base a ciò che vive e si
"educa" di conseguenza,,,,,donne italiane stuprate, ogni giorno c'è un furto in
appartamento,,la percentuale di rumeni che viene per delinquere è spaventosa....le
persone a violenza reagisocno con violenza,,,,,e così sta andando...gli italiani sono
stanchi....è tutto un circolo che va fermato
2 il lavoro da infermiere ai tanti laureati in infermieristica senza lavoro, ITALIANI, e c'è
ne sono credetemi.... lavora l'italiano e siamo piu contenti, la rumena non moriva, il
ragazzo non va in carcere e siamo tutti piu contenti! via i rumeni e gli immigrati
dall'italia ci sono tanti italiani senza lavoro nella loro propria terra...... basta
organizziamoci e cacciamoli via..................
3 se non si vuole le mani addosso non bisogna metterle e lei non mi sembra che non lo
abbia fatto anzi mi dispiace che sia morta ma pero continuava a menarlo queste cose
non le havete viste? e poi non ha fatto notizia che al tabaccaio che ha testimoniato gli
hanno dato fuoco alla macchina ecco in che paese siamo sono molto piu tutelati loro che
noi quindi hanno poco da dire che siamo razzisti ci stanno facendo diventare loro
razzisti!!
4 secondo me dobbiamo cercare di capire meglio la situazione: non è giusto applaudire
ad un omicidio ma a mio parere qui tanto non si parla a mio avviso di origine ma dei
fatti che avvengono ogni giorno e che sono spesso opera degli stranieri... contro gli
italiani... ok noi italiani non siamo tutti "brava gente" e non si dovrebbe generalizzare
sui stranieri anche perchè posso dire che molti dei rumeni e non solo non compiono atti
criminali e non danneggiano nessuno,anzi al contrario,si fanno un mazzo quanto noi... io
credo che la donna non fosse però tanto santarellina come appare e ci sono state
persone che dicono di averla gia vista fare storie nella metrò come è accaduto a questo
ragazzo,Burtone ha fatto un errore però:appena l'ha vista a terra poteva fermarsi o
almeno se voleva spingerla poteva moderarsi invece di spintonarla in quel modo... ma
poi non so se l'avete notato ma come cavolo ha fatto Maricica a cadere a peso morto in
quel modo? a me sembra un tantino anomalo....5 si ma dite tutta la verità
..........nessuno dice che cosa ha fatto lei prima troppo comoda.........
5a non è un discorso di razzismo bisogna capire ke cmq lei poteva evitare di certo lei ha
provocato e ha continuato...............
6 senza dubbio la folla ha sbagliato ad applaudire un gesto cosi orrendo dimostrando
che gli stranieri non sono graditi ma come mai i giornali non racconatano mai tutto
tutto?se si ascolatano programmi di approfondimento viene spiegato che la... signora
aveva offeso lui,dava calci e schiaffetti di continuo al signore per un fatto di precedenza
o roba simile.quindi di certo anche la signora non era una persona tranquilla e civile ma
è capitata male con quel signore che si è fatto prendere dai nervi e l'ha stecchita..quindi
non ha sbagliato solo lui ma secondo me è stata anche lei che in un certo senso se lè
cercata..mai passare alle mani.. e di conseguenza chi di noi non reagisce alla violenza
con violenza???ora la signora è morta e il fatto è diventato eclatante ma se lui la avesse
soltanto colpita con meno forza o presa a parole..tutto questo clamore neanche ci
sarebbe!ilproblema è un altro:siamo in una società in cui la maggior parte si innervosisce
e arrabbia per poco,per stupidaggini..di conseguenza..chi provoca l'altro in maniera
pesante, raramente ne esce "illeso"!dobbiamo rilassarci un pò tutti e lasciar perdere
questa vita frenetica a mio parere.7 Il ragazzo dovrà pagare per ciò che ha fatto, questo
è certo!
Ma i rumeni mi han rotto le balle, fuori a calci! Sono stato in Irlanda, lì le ragazze
camminano tranquille alle 5 di mattina, perchè se gli stranieri lì fanno qualcosa di
storto,... li mettono in aereo e li sbattono a casa loro. Perchè a Roma nelle
metropolitane le ragazze da sole non possono andarci di sera? Ok, ci sono anche gli
italiani che stuprano e ne sono convinto anche io, ma la gente straniera che non rispetta
la civiltà in Italia dovrebbe essere trattata per quel che è, uno straniero!
Poi che ci sia gente che lavora onestamente non lo metto in dubbio, ma ora mi son rotto
di sentire RUMENI tentano lo stupro, rumeni rubano in casa ecc... a calci nel culo a casa
loro. Per quel che riguarda questa donna, sinceramente dico che il ragazzo la deve
pagare, ma la tolleranza ai rumeni, non in questo caso, la signora sembra sia solo
vittima, è FINITA!7a Ragazzi, io non ho mai avuto tendenze nè fasciste, nè razziste, ma
ripeto, all'estero lo straniero appena sbaglia lo puniscono. In Italia no, il problema dei
romeni in Italia è che la maggior parte di loro sono delinquenti che non lavorano,...
allora io è questo che combatto. Non mi interessa il romeno che lavora e fa vita CIVILE
rispettando le nostre leggi, ma quelli che sbagliano se ne vadano via. La signora qui
sopra non mi interessa se avesse ragione o torto, ho appreso la notizia in modo vago
senza approfondire, sono uno dei pochi che non vede la tv in Italia, l'italiano la deve
pagare, come qualsiasi romeno o marocchino o senegalese che commette reati. Non è un
argomento xenofobo, è un semplice discorso del tipo, l'italiano sbaglia che PAGHI, e così
i romeni e tutti gli altri stranieri.8 Cesso di una donna...se fosse stata furba non avrebbe
reagito e sarebbe stata zitta...quando te le cerchi, hai solo da non lamentarti
dopo...soprattutto perché qua in italia gli stranieri non sono visti come brava gente, che
siano rumeni o inglesi...poco cambia!9 io nn giustifico la violenza ke il ragazzo ha avuto
nei confonti della donna, ma anche lei per un biglietto..andare dietro alla persona
prenderla a spintoni e offenderla!!!nn ci siamo in nessun fronte!!! la violenza deve
essere punita al is...tante e di qst sono + ke daccordo, ma sarebbe da cambiare il
cervello delle persone ce' troppa frenesia e agitazione in giro....dovremmo darci tutti
una bella calmata!!!e nn scordiamo il fattaccio della rumena ke ammazzo' la ragazza
romana sotto la metro levandogli un occhio cn l ombrello!!!italiani brava gente...nn
credo ma nn facciamo di tutta un erba un fascio!!!!10 VISTO CHE SIAMO BRUTTA GENTE,
SE NE POSSONO RESTARE IN ROMANIA!
10a Non ho mai pensato che sia giusto ciò che ha fatto, ma, ricordiamo che anche a
causa della cattiva informazione, dobbiamo camminare con gli occhi sgranati! Certo ci
sono anche italiani schifosi ma, lei poteva anche evitare di rincorrerlo e minacciarlo per
un semplice biglietto! Con questo, non dico che sia giustificabile l'uccisione!
10b Un'ultima cosa, non è una questione di nazionalità! Ma sti romeni hanno rotto,
vengono in Italia,non pagano le tasse, mangiano, bevono, ci tolgono il lavoro xkè si
fanno pagare una miseria e violentano le donne! Questo è il sentire comune e non
facciamo gli ipocriti!!11 mi passi davanti, te lo faccio notare e mi inizi a insultare, me
ne vado e mi insegui insultandomi e dandomi uno spintone e prendendomi a schiaffi...un
spintone io te lo mollerei tutta la vita(il tipo non doveva tirarle un pugno forte in
vo...lto ma non è giusto rimanesse li a prnedere mazzate) e non c'entra che la tipa sia
rumena, congolese o tedesca...si è comportata di merda( anche se non meritava certo di
morire per questo)...ci vorrebbe più rispetto da parte di tutti...il tipo non va applaudito
ma non va eccessivamente condannato, infatti sarà fuori tra 5 anni.12 Accanto al letto
della povera maricicla giace un giovane in fin di vita picchiato da una banda di
rumeni...questo non ha fatto notizia...E' ovvio che non ha senso giustificare un reato ma
secondo me questo ragazzo è stato molto sfortunato ...lui e la sua vittima ed è
diventato il capro espiatorio della cattiva coscienza di certi nostri politici e su di lui si è
imbattuta improvvisamente la necessità della durezza quando la dinamica dei fatti
avrebbe suggerito maggiore prudenza nell'invocare un carcere PREVENTIVO che spesso
non fanno nemmeno i peggiori criminali.13 Io penso solo che chi sbagli è giusto che
paghi, Burtone, nel caso merita una giusta punizione, MA DELLO CHOC IN ROMANIA poco
mi interessa, dove stanno quando si parla delle bestialità che compiono i loro
connazionali in una terra straniera NO mi sembra, quindi pregassero per quella Donna e
cucissero le loro bocche.
14 Rimango della mia idea............ che lui ha fatto malissimo, ma che lei se l'è andata
a cercare, e con molta insistenza. E questo a prescindere dal fatto
italiano/rumena...........se sei un'attaccabrighe, prima o dopo in qualche casino ti ci
infili, è matematico
15 Non vedo cosa c'entri il razzismo con questa storia, un ragazzo è stato provocato da
una donna, in un luogo poco sicuro. Io avrei avuto paura,forse l'ha avuta anche lui e le
ha mollato un pugno, avesse voluto infierire l'avrebbe presa a calci mentre era a terra.
Potete anche schifare la violenza, ma cosa avreste fatto voi se una persona (anche
uomo) vi avrebbe seguiti insultandovi e spingendovi? Meditate gente e non siate
moralisti, anche quel ragazzo merita rispetto c'è gente peggiore in giro
16 La signora prima del tragico evento causato dallo sconsiderato pugno "bastava
prendergli il braccino e girarglielo" si stava comportando da stronza chi ha visto il video
integrale, non solo la fine, puo facilmente capirlo ora che sia romena o no non è
importante l'importante e che le mani non si alzano per primi ne se sei uomo ne se sei
donna se non vuoi correre il rischio di prenderle.
17 ....x lui la storia era chiusa alla biglietteria, ma lei ha insistito!Poi, tutti bravi a
parlare, vorrei vedere noi al èposto del ragazzo, nn credo che saremmo stati
fermi.......mi dispiace x lei, come qualsiasi vita umana, ma sono dalla parte del
ragazzo........
18 sono completamente daccordo con gli applausi. 80% dei rom criminale di varia
natura(ubriaco,ubriaco al volante, molestatore,stupratore, rissoso, ladro,
assassino,...........). se li dobbiamo tenere per quel 20% che si comporta bene, mi
dispiace ma io personalmente non ci sto.18a io non avrei mai sposato una donna che
aizza un ragazzo per questi futili motivi.semplicemente perchè ci avrei litigato tutti i
giorni. se lei fosse stata tranquilla il ragazzo non si sarebbe mai sognato di rispondere
agli sc...hiaffetti e alle parole della romena confermate dalla bigliettaia come "guarda
che noi romeni non perdoniamo, te la faccio pagare". questa gentaglia che ripeto è
criminale all'80% (e il 20% non criminale non giustifica l'accettazione della loro
comunità) non può pretendere un bel trattamento dopo che si comportano come
sentiamo (e io personalmente ho anche sperimentato... un'aggressione di 2 ragazzi
ubriachi in strada e un furto nella mia abitazione con tanto di bigliettino sfottente). Io
non li voglio e non saranno i commenti di alcuni come voi che non li hanno mai
sperimentati vicino casa loro, o dentro casa propria o non ci si sono mai scontrati, a
farmi cambiare idea.ribadisco che mi sarei unito agli applausi per il ragazzo provocato e
minacciato.19 A TUTTI COLORO CHE HANNO COMMENTATO PRIMA DI ME, RICORDO CHE
SONO LIBERISSIMI DI ANDARSENE ALL'ESTERO INSIEME A BERLUSCONI... La parità dei sessi
va bene, ma se la donna picchia per prima, si deve assumere tutta la responsabilità della
provocazione.
20 Ma ke kazo di ragionamenti ora xke un italiano a ucciso una rumena quel poraccio e
in karcere....ma qnd un rumeno uccide dei ragaxi o stupra o scippa no stiamo
tranqui.....a mio parere mandateli al paese loro
20a caxxi sui....a lei chi gliello a detto di andare...a cercalo...ora seila fotte lei... pero
non è manco giusto che il ragazzo le molasse un pugno...20b perche non stai zitto...solo
un pò zitto non molto cmq cavoli sui....il ragazzo non doveva fare quello che a
fatto...pero la ragazza o Rumena o Italiana non devava mettersi...contro un uomo...è
stato da cretini fare quella azione20c wow basta ormai è morta...basta + parlare...è
inutile che parliamo tutti nella pagina di facebook...:( :( spero che li su trovera qualche
cosa
21 sono cose che non devono accadere!!!quella donna deve avere giustizia...ma voglio
però dire una cosa....si sa che viviamo in un mondo dove la gente non sai più come
reagisce...e forse anche lei doveva finire la discussione nel bar senza poi continuare ad
attaccare!!!finisco però col dire che l'atto del ragazzo non è giustificato!!e dagli applausi
di tutta questa gentaccia mi rendo sempre più conto del presente che vivo e del futuro
che vivrò....senza parole!!
22 è lei che ha iniziato a litigare...
22a Ma voi che FATE L MORALE se una vi spintona e vi insulta come reagite?non penso
con carezze e belle parole...
23 tra italiani sarebbe finita subito la discussione un vaffa e tutto finiva li.perche lei ha
insistito ad attaccarlo .lo ha detto anche l'edicolante che era lei che continuava a
picchiarlo ed orffenderlo.è stato sfortunato mi dispiace per tutti e 224 ragazzi il ragazzo
ha sbagliato alla grande visto che in passato è stato anche denunciato ma ora non
facciamo passare la rumena x santa maria goretti.lui ha sbagliato ma è stato anche
provocato...nel filmato lui stava x fatti suoi..
25 per punizione verso l' Italia dovrebbero ritirare tutti i rumeni che si trovano qui
......zingari compresi.....cosi' ci puniscono!!!!!!!!!!
26 x quello ke ho sentito i 2 avevano gia litigato nella biglietteria.ke l'ha rincorso a fa
quello li. se la signora si faceva i fatti suoi nn faceva la svelta lei era viva e lui nn
andava in galera x omicidio. nn si sa ki si può in contrare x strada certe volte è meglio
perdere e riportare la pelle a casa.
27 ahahah..i romeni di solito le italiane le stuprano....ma non è questo il punto quel
tipo ha sbagliato paghi punto e basta...
Linda Sorace quel ragazzo ha sbagliato ma nel suo gesto ripeto non giustificato cosa è
successo prima?a volta i romeni sono davvero strafottenti e sembra quasi che le cercano
le sberle..chissà come mai?per il resto lui non voleva certo ammazzarla..pagherà questo
è sicuro!Orazio Stefanucci Che ridere chi dice che siamo razzisti qualunque cosa contro
uno straniero è razzismo alora facciamoci provocare senza far nulla se no siamo razzisti
noi,ma andate a fanculo moralisti del cazzo...Silvia Tabasso scusa, ma io non sono del
tutto d'accordo. L'esempio con l'altra donna uccisa è diverso, perchè il ragazzo stava
facendo una rapina, quindi non era uno stinco di santo ..mentre in questo caso stavano
litigando per la coda in biglietteria, q...uindi nessuno dei due era intento a compiere un
atto illegale come una rapina..inoltre nelle registrazioni si vedeva che era la donna a
seguire il ragazzo e continuare a protestare...a un certo punto lui si è stufato, non lo so,
e ha provato ad allontanarla, non riuscendo in altro modo le ha tirato un pugno..ora, a
me dispiace tantissimo per lei, che è morta lasciando due bimbe piccole, ma capisco in
parte anche lui..se io mi trovassi davanti una persona che vuole litigare,mi spaventerei e
cercherei di allontanarla in qualche modo...poi il fatto che è straniera spaventa anche
un pò, lo so è ingiusto ma un pò naturale, aver paura del diverso ecc, poi sentendo
sempre parlare alla tv dai crimini compiuti dagli stranieri, uno è un pò
prevenuto..quindi, ovvio,mi dispiace per lei e capisco che vogliano giustizia i parenti,
ma non mi sento di dire dove il ragazzo ha sbagliato, visto che non tanto tempo fa, per
un motivo simile è stata la straniera a ficcare un ombrello nell'occhio all'italiana, un
gesto a mio parere molto più pericoloso e intenzionale di un pugno...in generale per un
pugno cadi ti fai un pò male, ti distrai e parmetti all'aggressore di allontanarti..ma è
difficile morire...o almeno questo è quello che avrei pensato io, persona assolutamente
estranea alla boxe ecc...a quanto ho sentito la sfortuna ha voluto che lui colpisse un
punto particolarmente sensibile e pericoloso..Dario Tirelli bene bene...devo dire che il
commento pui giusto per me è quello di Francesco Raciti..per punizione e indignazione
lo stato Rumeno ritirasse tutti rumeni compresi i zingari ( cor cavolo che lo fanno)Jessica
Tommasi visto che noi Italiani siamo "brutti e cattivi",ve ne state in Romania e siamo
tutti felici

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