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CAPITOLO 1

“RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E STORIA MONDIALE”

1. Globalizzazione come azione umana


Il termine Globalizzazione, così come utilizzato da Gozzini, fa riferimento a movimenti
internazionali di merci, capitali e persone. Questo tipo di definizione permette di cogliere
alcuni aspetti fondamentali:

a) Innanzitutto è che la globalizzazione rappresenta una modalità d’azione che


contraddistingue il genere umano fin dalla sua comparsa sulla Terra, poiché la
migrazione costituisce una necessità vitale per popoli raccoglitori e cacciatori ed è
stato solo con la rivoluzione neolitica (e l’invenzione dell’agricoltura) che si sono
diffusi insediamenti stanziali dei gruppi umani;

b) A guidare l’ascesa e il declino dei popoli sono stati proprio gli esseri umani in
movimento che hanno portato con sé le innovazioni attraversando i confini delle
civiltà: le radici delle culture europee, dunque sono molto più globali e intrecciare di
quanto si creda;

c) Il terzo punto contraddice la tesi secondo cui la globalizzazione sia un processo che
da Occidente si diriga ad Oriente poiché almeno fino al 1000 d.C. appare soverchiante
l’egemonia tecnologica esercitata dall’Impero Celeste. Fu solo a metà del XV secolo,
con la proibizione delle spedizioni transoceaniche, che la burocrazia imperiale dei
mandarini impedì preventivamente l’emergere di un nuovo ceto mercantile
potenzialmente antagonista, consegnando di fatto alle potenze europee il dominio
dei mari. Sarà proprio il controllo dei mari ad avviare l’ascesa dell’Occidente;

d) Infine la globalizzazione appare come un processo reversibile e soggetto a drastici


capovolgimenti, come dimostra il periodo compreso tra le due guerre durante il quale
i flussi commerciali si arrestano a causa della chiusura protezionistica degli stati
nazionali.

2. Il paradigma eccezionalista

A partire dalla rivoluzione industriale, il mondo appare come un’entità divisa tra paesi ricchi e
poveri. Fino a quella data, il mondo rimane costretto in una trappola maltusiana, per garantire il
sostentamento attraverso l’accrescimento demografico, ottenendo tuttavia solo una perdurante
stasi della produttività. Proprio l’innovazione tecnologica che consegue la rivoluzione industriale,
moltiplica il prodotto del lavoro umano ed estende il numero di bocche che è in grado di sfamare.
L’equilibrio statico delle società maltusiane lascia il posto al concetto di sviluppo, cioè di crescita
tendenzialmente illimitata delle capacità e delle risorse.
Secondo alcuni studiosi, invece, l’Europa era già più ricca degli altri ben prima della rivoluzione
industriale: l’industria moderna nasce grazie all’accumulazione del capitale, che si verifica già nel
500 in seguito alla scoperta e allo sfruttamento del patrimonio di oro e argento provenienti dal
Nuovo Mondo, e alla presenza di un ceto imprenditoriale dinamico, intraprendente e che sa
sfruttare i risultati del proprio ingegno. All’interno di questo approccio anti-malthusiano, David
Landes individua le ragioni della vittoria occidentale nelle diversità culturali (VISIONE
ECCEZIONALISTA DELLA STORIA DELL’OCCIDENTE):
 Tradizione giude-cristiana di sottomissione umana della natura
 Spirito di libertà personale e tolleranza cattolica nei confronti dello schiavismo
 Diritto privato di proprietà e sfruttamento economico (in contrapposizione al
dispotismo politico esercitato dai grandi imperi extra-europei)
 Vivacità di un ceto commerciale in perenne lotta con il potere feudale
 Mobilità sociale e creazione di un ambiente intellettuale più dinamico e aperto.

Il tema dell’ascesa dell’Occidente è oggi un tema classico della ricerca storiografica che si
occupa del confronto e della comparazione ad ampio raggio tra civiltà diverse. Bisogna
tuttavia osservare che la convinzione di una superiorità occidentale tra gli studiosi si afferma
relativamente tardi: negli anni 60 del 900 con William McNeil, in contrapposizione polemica
ad un punto di vista radicalmente antitetico e profondamente pessimista sul futuro della
civiltà occidentale che si afferma all’indomani della Grande Guerra.
E’ solo in concomitanza della ripresa post-bellica e del processo di decolonizzazione che nelle
scienze sociali si afferma un PARADIGMA DELLA MODERNIZZAZIONE , attraverso cui la storia
innescata dalla rivoluzione industriale assume le vesti di un modello di sviluppo lineare e
univoco fatto di libero mercato, industrializzazione, consumi di massa, democrazia
parlamentare, che viene proposto ai paesi in via di sviluppo. Da felice accezione nel
panorama della storia universale, la storia dell’Europa si trasforma in polo espansivo e
potenzialmente attrattivo per una nuova convergenza globale.
Secondo la visione di Wallerstein, si delineano i confini di un’economia mondo capitalistica
che, a differenza degli imperi precedenti e coevi, si configura come un sistema multi statale
organizzato sulla base di una divisione internazionale del lavoro e retto da un centro
localizzato in Europa (contraddistinto da lavoro salariato e stati forti) che egemonizza una
periferia (governata da lavoro coatto e stati deboli) e anche una semiperiferia (governata da
patti agrari misti come la mezzadria).

3. Il revisionismo globalista

Alla visione eurocentrica si oppone la visione revisionista secondo cui il mondo deve essere
inteso come un sistema globale e plurale di relazioni e interdipendenze reciproche.
Emergono così diverse economie mondo, ciascuna con propri centri localizzati fuori d’Europa
e saldamente fondati sulle autonome capacità competitive di sistemi produttivi e
commerciali. Visti con gli occhi del paradigma della modernizzazione, questi sistemi hanno
un’importanza residuale e accessoria, meramente funzionale e subordinata alla penetrazione
del capitalismo occidentale.
Al contrario il paradigma della globalizzazione considera l’intero pianeta come un’entità
organica e indivisa, dunque, le economia preindustriali extraeuropee non vengono oscurate
poiché assicurano la sussistenza ad un’enorme fetta di popolazione mondiale. Considerata
sotto questa luce globale di lungo periodo, la rivoluzione industriale mantiene il proprio
carattere di spartiacque storico decisivo, all’origine della grande divergenza tra occidente e
resto del mondo. Si apre allora un ciclo di espansione delle economie occidentali, sanzionato
anche dal dominio coloniale, che stringe in un angolo le altre economie del paese, ma solo
temporaneamente poiché nella seconda metà del novecento, Asia e America Latina
sembrano incamminarsi verso il ripristino della posizione produttiva occupata nel mondo fino
alla vigilia della rivoluzione industriale.

4. Vele e cannoni

Ma come si spiega allora l’ascesa dell’Occidente? Secondo Braudel e Wallerstein,


dipenderebbe dalla connessione tra dominio militare ed egemonia commerciale, che
racchiude anche la capacità di tutelare e garantire il diritto di proprietà privata e l’osservanza
dei contratti. In realtà, bisogna considerare anche altri elementi. Molte analisi del
sottosviluppo (specie in Africa) colgono nell’assenza di questa capacità un elemento
determinante: la relativa debolezza delle istituzioni, l’instabilità politica, la corruzione
della burocrazia, la sovrapposizione di usi e diritti comunitari che rendono più incerta,
precaria e vulnerabile la vita economica.
Tuttavia, i diritti consuetudinari di origine etnica e culturale, insieme alla gestione collettiva
della terra, mostrano una forte capacità di resistenza, che rendono difficile l’introduzione di
rapporti moderni di proprietà privata, il che dimostra come sia necessario il coinvolgimento
delle forme tradizionali di autogoverno locale per mobilitare le energie lavorative e
imprenditoriali locali.
Non avere un pregiudizio eurocentrico dà la possibilità di trovare una nuova strada per
avviare l’industrializzazione.

5. Le Macchine

Con la rivoluzione industriale cambia in profondità il modo di produrre e consumare della


maggioranza della popolazione e il cuore di questa trasformazione è rappresentato dalla
macchina a vapore: nuova forma di energia, facilmente reperibile e riproducibile, capace di
sostituire le vecchie forme di energia naturale (forza umana e animale, vento e corsi d’acqua)
con risorse del sottosuolo (carbone, petrolio, gas).
L’innovazione tecnologica che crea la divergenza tra Ovest e resto del mondo, è anche il
prodotto dinamico di un ambiente sociale e civile, in grado di recepire, trasmettere e far
diventare routine seriale le innovazioni. L’Illuminismo in Occidente è l’unico movimento
culturale della storia umana che deve il suo carattere irreversibile alla capacità di tradursi in
sviluppo economico.
Il moto indipendentista delle colonie britanniche in Nord-America, le rivoluzioni di GB e FR, le
unificazioni di Germania e Italia, aumentano il grado di mobilità delle rispettive società
nazionali, facilitando la diffusione di spiriti imprenditoriali e innovativi.

CAPITOLO 2
“INEGUAGLIANZA GLOBALE”

1. IL GIOCO DEGLI SPECCHI


Spesso ciò che viene raccontato non corrisponde alla realtà. Nel descrivere le culture
extraeuropee si è ricorso il più delle volte ad immagini deformate funzionali alla penetrazione
degli interessi commerciali europei. Eppure come dimostrano alcune testimonianze nella Francia o
GB di primo Ottocento, le condizioni di vita di parte della popolazione europea erano ben peggiori
di quelle degli indigeni africani o dei popoli cinesi. Nonostante ciò la percezione del mondo extra-
europeo è quello di un mondo statico, immobile, che non dispone di dinamismo manifatturiero e
che non è predisposto all’industrializzazione.

Immagine del resto del mondo non industrializzato che legittima l’intervento europeo. La
costruzione delle identità altre serve a rafforzare o a mettere in discussione la propria identità, in
un continuo gioco reciproco di specchi e di rinvii tra coppie oppositive che definiscono
contemporaneamente li altri e se stessi: tradizione e modernità, religione e ragione, maschile e
femminile, dinamismo e stagnazione, liberalismo e dispotismo.

2. Dispotismo e Agricoltura: LA CINA

Quella cinese è un’agricoltura che sfrutta in maniera intensiva la manodopera e che garantisce un
livello minimo di sussistenza, poiché si limita alla produzione del necessario e che non si traduce in
crescita urbana e pregiudica ogni trasformazione in senso capitalistico e industriale (TRAPPOLA DI
EQUILIBRI AD ALTO LIVELLO: l’efficienza delle vie d’acqua interne e l’alta produttività del suolo
cinese garantiscono la sussistenza e scoraggiano innovazioni). Dallo studio dei contesti storici non
occidentali emerge spesso una traiettoria evolutiva che non segue il modello europeo di
passaggio dal labor-intensive al capital-intensive piuttosto l’ampia disponibilità di terra e
manodopera favorisce in Asia una dinamica opposta fondata sulla valorizzazione di terra e
lavoro, senza ricorso sistematico all’innovazione tecnologica (avversione al rischio). Questo tipo
di tecnica genera in Cina, e maggiormente in Africa, prima del Settecento, una situazione di
maggiore benessere poiché la produzione di riso, grazie alla maggiore resa e al più alto potere
nutritivo favorisce la naturale produttività del suolo. Un miglioramento che si spinge fino al
punto di rendere gli standard di vita dei contadini cinesi alla fine del 700, comparabili, se non
addirittura superiori, a quelli dei loro omologhi in Europa e GB. Tra occidente e oriente si
manifesta una differenza generale tra colture agricole umide (riso), che incoraggiano la densità
demografica e le ridotte dimensioni delle unità lavorative per via della loro caratteristica labor
intensive, e colture agricole secche (grano) che richiedono più terra e più energia.

Quello che manca alla Cina e all’India, è uno stato capace di forzare gli equilibri naturali attraverso
un’organica e coerente politica economica. In effetti tra i fattori della divergenza pesa il basso
livello di urbanizzazione che impedisce la creazione di nuovi centri urbani capaci di assorbire le
eccedenze di popolazione e fornire forza lavoro alle nuove manifatture, come invece avveniva in
GB. Determinante per la riproduzione nel tempo di questi equilibri ad alto livello è il controllo
sociale delle campagne esercitato dallo stato cinese e dalla sua conseguente e attiva
penalizzazione di città e manifatture.
CAPITOLO 3
“QUANTITA’ E QUALITA”
1. Il prodotto interno lordo

Il primato dell’Occidente poggia su 3 punti fondamentali:


 Modernità culturale e organizzativa
 Dominio dei mari, egemonia militare e subordinazione coloniale
 Deindustrializzazione forzosa e sostanziale del possibile concorrente manifatturiero
In effetti, laddove la sottomissione dei nativi è facile (Oceania, Nord America) la proprietà della
terra si fraziona, i rapporti civili sono più egualitari e lo sviluppo ha modo di diffondersi. Altrove
(Africa, America Latina) prevale l’economia di tratta (scambio tra importazione di manufatti ed
esportazione di materie prime) o di piantagione estensiva, spesso fondata su lavoro
paraschiavistico. In ultimo, se lo si ritiene potenzialmente concorrente e/o rivale, avviene la
deindustrializzazione forzosa del paese sottomesso (India). I diversi ritmi di crescita innescati dalla
rivoluzione industriale sono alla base dell’ineguaglianza globale.
Esistono strumenti capaci di misurare l’ineguaglianza globale riuscendo a cogliere l’evoluzione
economica di certi sistemi e a compararli tra loro? Lo strumento fondamentale usato per misurare
le economia nazionali è stato il PIL, ovvero la somma dei beni e dei servizi prodotti, soprattutto
dopo la crisi del 29, quando si impose la stringente necessità di monitorare con attenzione e
costanza l’andamento delle economie nazionali, al fine di prevedere e possibilmente prevenire le
congiunture negative. All’inizio degli anni 30 risalgono le prime stime del reddito nazionale in GB
e USA che articolano l’attività economica nazionale in :
- Produzione (costi e ricavi dalla vendita di beni e servizi)
- Consumi (redditi e spese per l’acquisto di beni e servizi)
- Accumulazione (risparmi ed investimenti)
- Rapporti con l’estero (exp e inp)
Un’ulteriore distinzione riguarda REDDITO PRIMARIO (lavoro, proprietà e trasferimenti sociali) e
REDDITO DISPONIBILE (al netto delle tasse).
Tuttavia il principale problema in cui si incorre nel confronto tra PIL è il diverso potere d’acquisto
fra aree diverse del mondo: il confronto di grandezze monetarie ponderate tra loro avviene
attraverso i cambi ufficiali delle diverse valute nazionali, tuttavia la stessa quantità di denaro è in
grado di comprare una quantità di beni molto differente a NY e a Delhi.

2. Reddito e Durata della Vita

Diversi studi evidenziano l’incapacità degli indicatori economici, come il PIL, di considerare anche
le transazioni non commerciali, ovvero le attività di produzione e di scambio che avvengono nelle
microeconomie locali di sussistenza e che spesso non sono contabilizzate dalle indagini nazionali.
Oppure non tengono nemmeno conto del rapporto tra lavoro e tempo libero, che, soprattutto per
le fasce della popolazione più povera, è spesso sperequato in favore del secondo termine. Così
come non si tiene conto del nesso tra benessere e misura del proprio reddito. Nel 1974 Easterlin
elaborò un paradosso che fece molto discutere: in base ad esso, oltre una certa soglia di reddito, il
grado di felicità personale smette di aumentare proporzionalmente e, anzi, una volta sfumati gli
effetti di soddisfacimento momentanei, tende addirittura a diminuire.
Esistono infatti beni relazionali (rapporti affettivi, comunitari, civili) che l’accumulo di ricchezza non
p in grado di garantire e, anzi, riducendo il tempo libero, rischia di ridimensionare. Ciò implica
che, sebbene tra reddito e felicità esista un nesso evidente, anche una misura elementare del
grado di benessere, come la lunghezza della vita, non sempre mostra una correlazione diretta e
stringente con l’aumento del prodotto lordo. Infatti la lunghezza media della vita dipende in larga
misura dalla mortalità infantile e quindi da livelli di benessere ma anche da efficienti sistemi
sanitari. Queste riflessioni hanno condotto alcuni studiosi ad elaborare una serie di teorie che
tengano conto di questi aspetti non economici:
TEORIA DELLA DECRESCITA Latouche, che teorizza la possibilità di un ritorno a situazioni
precapitalistiche (del tutto impensabile perché un ritorno agli equilibri precedenti è impossibile e,
senza una parallela crescita economica, si rischierebbe una catastrofe senza precedenti).
TEORIA DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE sviluppo che tenga conto anche della componente
ambientale.

3. Rivoluzione demografica, Donne, Scolarità

Alla base della rivoluzione demografica che attraversa i paesi poveri nel corso del 900 è dovuta
principalmente a 3 fattori:

1. MIGLIORIA SANITARIA
2. CONTROLLO DELLE NASCITE, nell’ambito delle politiche governative di pianificazione
dello sviluppo che vanno dalla brutale “politica del figlio unico” introdotta in Cina nel
1979 a più miti compagne di informazione in favore di famiglie meno numerose.
3. DONNA SCOLARIZZATA, in effetti numerose indagini mostrano l’alta correlazione tra
scolarizzazione delle madri e parallele riduzioni dei tassi di mortalità infantile e di
fecondità, con la trasformazione delle gravidanze da fatto naturale e ripetitivo durante
il ciclo di vita fertile delle donne, a scelta attiva, consapevole e deliberata. Tutto ciò
porta ad altri mutamenti culturali di fondo. Come l’innalzamento dell’età media di
matrimonio delle ragazze, diffusione dei contraccettivi.

Grazie al calo della mortalità cresce la quota di popolazione giovane e attiva, mentre nel contempo
diminuisce il tasso di dipendenza (rapporto tra popolazione attiva ed inattiva, rappresentata dalle
classi di età infantile ed anziane). Se accompagnato da una parallela espansione della
scolarizzazione e da un tempestivo calo della natalità, questo dividendo si rivela determinante per
innescare potenti processi di crescita: come è avvenuto per i paesi che hanno vissuto il miracolo
asiatico nel corso del Novecento ( Giappone, Corea Sud, Cina, India ecc). Viceversa, laddove non si
verifica un abbassamento altrettanto rapido dei tassi di natalità (come nell’AfricaSubsahariana),
l’esplosione demografica determina una drastica contrazione delle risorse a disposizione.

A partire dal 1956, con Robert Solow, entra a far parte del modello teorico dello sviluppo
economico, la categoria dello HUMAN CAPITAL: terra lavoro e capitale non sono sufficienti a
spiegare un incremento della produttività che, tra i suoi fattori costitutivi, ha anche la
qualificazione della forza lavoro e quindi il suo livello di scolarità e di formazione.
Tuttavia la rivoluzione industriale non produce immediati vantaggi per i lavoratori qualificati ma
sembra piuttosto premiare quelli meno qualificati e più idonei a un modo di produzione seriale e
ripetitivo come quello introdotto dalle macchine. E’ pur vero che il processo di industrializzazione
si svolge in società che nel tempo sono inevitabilmente destinate ad innalzare il proprio capitale
umano. Applicato alla storia recente dei paesi poveri, il MODELLO SOLOW, conferma buona parte
della sua capacità esplicativa: accumulazione di capitali, contenimento della crescita
demografica e livelli di scolarizzazione sono i 3 fattori che contribuiscono a spiegare in misura
determinante le differenze di crescita del reddito pro-capite.
4. Sviluppo Umano e curva di Kutznets
Le indagini moderne mostrano che non è la scuola a determinare la crescita economica, ma è
l’aumento dei redditi a rendere disponibili le risorse necessarie per far studiare i figli. Inoltre una
quota crescente dei migranti che oggi si muovono dai paesi poveri ai paesi ricchi è infatti composta
da personale altamente qualificato, con alti livelli di scolarizzazione. Proprio i paesi poveri vedono
partire per l’estero, alla ricerca di stipendi migliori, la maggioranza dei medici, degli ingegneri, dei
tecnici formatisi in patria vanificando i consistenti capitali investiti nella loro scolarizzazione. La c.d.
BRAIN DRAIN, fuga dei cervelli, annulla i progressi compiuti sul fronte scolastico, disperdendo
all’estero il capitale umano potenzialmente disponibile per la crescita interna. Solo in minima
parte il macroindicatore economico riesce a rendere conto di queste dinamiche. Non a caso, la
più nota e diffusa unità di misura ad esso alternativa, lo HUMMAN DEVELOPMENT INDEX
elaborato dalle NU, include, accanto al prodotto lordo pro capite, proprio l’aspettativa media di
vita e l’indice di scolarità.
Lo sviluppo umano ha due aspetti:
1. La formazione delle capabilities1 umane, come il miglioramento della salute, della
conoscenza e della preparazione
2. E l’uso che la gente fa delle proprie capabilities acquisite, nel tempo libero, per
scopi produttivi o nel campo culturale, sociale e politico.
Nel corso degli anni novanta, a questo indice, se ne affiancano altri che tengono conto delle
donne o L’INDICE DI POVERTA’ UMANA, che misura il prodotto lordo intermini di povertà e
probabilità di morte, e quello che concerne la corrispondenza tra l’incremento della potenza
produttiva, crescita del reddito individuale e innalzamento del tenore di vita.
Anche lo Human Development Index non è esente da critiche: è accusato di essere poco sensibile
alle ineguaglianze interne ai singoli paesi, di trascurare i diritti umani politici e civili, di privilegiare
l’alfabetizzazione alla scolarizzazione e di essere troppo dipendente dalla dimensione del prodotto
interno lordo (84% dello HDI è spiegato dal PIL).
Proprio in riferimento all’ineguaglianza interna, Simon Kutznets ha elaborato un modello di curva
dello sviluppo sull’ineguaglianza interna dei paesi occidentali, specie usa, GB e Germania, a forma
di U rovesciata: l’ineguaglianza aumenta nella fase iniziale del processo di industrializzazione
quando reddito, profitti, investimenti si aggregano attorno ai poli catalizzatori che attraggono
capitale, lavoro, tecnologia. Ma l’ineguaglianza tende nuovamente a scendere quando le
dimensioni del settore manifatturiero superano quelle del settore agricolo e la diffusione
dell’industria redistribuisce ricchezza al resto del corpo sociale sottoforma di posti di lavoro e
salari. Le distanze sociali sono quindi un male necessario ma destinato a passare col tempo.
SGOCCIOLAMENTO: lo sviluppo naturalmente e automaticamente gocciola verso il basso, dalle
elite imprenditoriali che ne sono artefici e prime beneficiarie verso il resto del corpo sociale.
Tuttavia il problema dell’industrializzazione è la CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA, che
comporta un aumento dell’ineguaglianza interna dei paesi dovuta alle differenze retributive.
Quindi l’esperienza concreta smentisce il modello della curva di Kutznets, secondo cui a lungo
andare , la crescita economica produce più uguaglianza.

5. Terzo Mondo
Molti studiosi si sono interrogati sulle possibili cause del sottosviluppo dei paesi terzi e
principalmente si individuano due orientamenti principali:

1
Sintesi tra capacities e ability
- Chi come Paul Bairoch crede che l’arretratezza dei paesi poveri sia un fatto relativamente
recente , effetto di una mancata diffusione dello sviluppo economico generato dalla
rivoluzione industriale
- E chi crede sia dovuta a cause più strutturali, climatiche e geografiche, tali da mettere in
discussione le opportunità storiche, ovvero l’apertura commerciale, tecnologie
importabili, che la situazione del dopoguerra e i paesi ricchi possano offrire ai paesi
sottosviluppati.
Il dato indiscutibile è che lo sviluppo dell’industria moderna approfondisce la divisione del mondo
in paesi ricchi e poveri. Inoltre, i processi di urbanizzazione sono normalmente considerati una
misura indiretta della trasformazione industriale: lo sviluppo economico delle nazioni si identifica
con un prolungato incremento del reddito procapite o per lavoratore, molto spesso accompagnato
da un aumento della popolazione e normalmente da drastici cambiamenti strutturali nella
distribuzione della popolazione tra campagna e città PROCESSO DI URBANIZZAZIONE.
E’ anche vero, tuttavia, che il nesso tra urbanizzazione e sviluppo non appare così lineare e
univoco, dunque è impossibile specificare con esattezza le cause che favoriscono o al contrario
diminuiscono l’ineguaglianza.

Capitolo IV
Colonialismo e ineguaglianza

1. LE MIGRAZIONI DI PERSONE

Molti storici ritengono che tra fine 800 ed inizio 900 si verifichi un’anticipazione della
globalizzazione odierna. Arthur Lewis, premio Nobel per l’economia, è uno dei primi a notare
come nella fase precedente alla Grande Guerra, un processo di convergenza economica si
estenda dall’Inghilterra alla “inner Europe” (Belgio, Olanda, Spagna, Italia, Austria etc.), ai
paesi di popolamento europeo (USA, Canada, Brasile, Argentina etc.) e al Giappone. Tutti
questi paesi sperimentano crescite più o meno rapide del prodotto interno lordo, processi di
ampliamento della base industriale, trasferimenti di innovazioni tecnologiche. Viceversa i
paesi tropicali vengono coinvolti nel processo di globalizzazione economica degli scambi
internazionali, ma non conoscono pressoché alcuna accelerazione del reddito o la formazione
di una base industriale. La spiegazione per questo mancato effetto di convergenza per Lewis
risiede nelle “unlimited supplies of labour”, cioè nell’offerta tendenzialmente illimitata di forza
lavoro, determinata dai flussi migratori che si sviluppano sulle ceneri della tratta degli schiavi.
La disponibilità di tale manodopera a basso costo direttamente o indirettamente manovrata
dagli imperi coloniali previene di fatto ogni convergenza di salari, prezzi, consumi, capacità
produttive. Ma mentre i movimenti di popolazione del bacino atlantico vantano un’antica
tradizione di ricerca, quelli che hanno luogo nel continente asiatico a fine Ottocento sono stati
a lungo trascurati da un approccio troppo eurocentrico. In realtà invece, esiste una storia
asiatica di flussi migratori non soltanto schiavistici, che contraddice la tradizionale visione
statica di quelle società. Se dall’India partono milioni di persone destinate al lavoro nelle
piantagioni o nelle miniere di altre colonie britanniche, i movimenti migratori dalla Cina non
avvengono sotto l’egida di un impero coloniale, ma dietro la spinta di periodici disastri naturali
(come carestie e inondazioni) e di un’accentuata instabilità politica (come le guerre dell’oppio)
e di forti eccedenze di popolazione nelle campagne che provocano intensi fenomeni di
urbanizzazione tanto che nel 1893 l’imperatore cinese decise di abrogare il divieto di
emigrazione. Nonostante le aspre polemiche, l’emigrazione cinese venne gestita da compagnie
private occidentali (soprattutto inglesi e portoghesi) in accordo con trafficanti locali. Il
“pericolo giallo” agitato dalle organizzazioni sindacali, diventa negli USA di fine Ottocento un
problema politico cruciale, che suscita allarmismi e rigurgiti xenofobi. Per quanto riguarda le
ricadute che questo fenomeno provoca nel medio periodo, secondo un modello teorico
formalizzato da Hekscher e Ohlin (entrambi svedesi = terra di emigrati), l’emigrazione di massa
alleggerisce la pressione demografica sul mercato del lavoro dei paesi di partenza e provoca
un rialzo dei salari reali insieme a un aumento dei risparmi, grazie alle rimesse inviate a case
dai migranti; al contrario di ciò che avviene nei paesi di arrivo, dove vi è un aumento della
congestione sul mercato del lavoro e ribasso dei salari. Eppure le migrazioni asiatiche non
riescono a produrre gli stessi effetti di convergenza economica che si verificano tra uno sponda
e l’atra del’Oceano Atlantico. Questo perché, secondo Lewis, nei circuiti migratori indentured
(cioè sottoposti a contratti pluriennali con obbligo di residenza nel nuovo luogo di lavoro), i
flussi di popolazione rappresentano una riserva illimitata di forza lavoro a basso costo che
determina un equilibrio di basso livello, senza investimenti e senza innovazione. Ciò implica
che la coercizione extraeconomica esercitata dai regimi coloniali contribuisce a far sì che i
flussi migratori risultino poveri di effetti benefici sia nei paesi di origine (dove l’alleggerimento
della pressione demografica sul mercato del lavoro non si traduce in rialzo dei salari) che in
quelli di arrivo (dove i proventi delle attività agricole ed estrattive non vengono reinvestiti in
loco). Oggi, le migrazioni internazionali non riescono a mettere in moto un processo di
convergenza economica paragonabile a quello avvenuto tra le due sponde dell’atlantico
100anni fa, né a contrastare l’ineguaglianza su scala mondiale, in quanto il flusso migratorio
non alleggerisce le strutture demografiche dei paesi di partenza e i ritorni e le rimesse dei
migranti non contribuiscono allo sviluppo. La sociologia storica dei fenomeni migratori tende
a superare i due approcci paradigmatici “assimilazionista” (fondato sulla cancellazione
definitiva delle culture originarie dei migranti) e “multiculturalista” (cioè il recupero
autonomo e separato delle proprie radici da parte delle diverse comunità etniche di
immigrati), accorgendosi che l’identità dei migranti è un’identità mobile e multipla, con
mediazioni e intrecci tra culture dei paesi di origine e culture dei paesi di destinazione: si
acquisiscono elementi delle secondo senza tuttavia cancellare le prime
(TRANSNAZIONALISMO).

2. I MOVIMENTI DELLE MERCI

Dopo il 1815 il ritmo medio annuo di espansione del commercio mondiale si quadruplica rispetto
al secolo precedete, sopravanzando largamente la crescita della produzione. L’Europa occidentale
esercita un ruolo di fulcro, diventando l’unica importatrice netta di prodotti agricoli, materie prime
e minerali e, nello stesso tempo, l’unica esportatrice netta di manufatti e prodotti industriali.
Quest’ultimi tuttavia sono per lo più esportati nell’area atlantica settentrionale e solo in piccole
percentuali verso paesi come l’Asia, America Latina e l’Africa, che, invece, esportano l’85% dei loro
prodotti agricoli verso le nazioni industriali. Globalizzazione delle merci e globalizzazione delle
persone si integrano reciprocamente, ma con effetti opposti nel Nord e nel Sud del mondo: di
convergenza industriale nel primo, di congelamento dell’agricoltura estensiva di piantagione nel
secondo.

APPROVIGGIONAMENTO DI MATERIE PRIME


RESTANO GLI OBIETTIVI PRINCIPALI
RICERCA DI NUOVI SBOCCHI COMMERCIALI

Rispetto ad un secolo prima, la rivoluzione dei trasporti internazionali (navigazione a vapore,


canale di Suez) e dei metodi di conservazione delle merci (refrigerazione, inscatolamento), genera
una nuova divisione globale del lavoro che colloca stabilmente i paesi che oggi noi consideriamo
poveri, nel ruolo di esportatori di materie prime ed importatori di manufatti. Il risultato di questa
trasformazione è la creazione di un mercato mondiale intercomunicante, favorito soprattutto
dall’espansione delle ferrovie. Ma in ambito coloniale e particolarmente in Africa, le ferrovie
sembrano piuttosto funzionali alla commercializzazione dei prodotti agricoli e minerari, collegando
perlopiù gli insediamenti produttivi con i porti della costa. Anche dove invece servono in
prevalenza al trasporto di passeggeri, come in India, solo una piccola percentuale è prodotta e
gestita “in loco”, mentre quasi la totalità del capitale che finanzia la loro costruzione, proviene
dalla City londinese. Il ruolo delle compagnie private nell’esercizio è quindi preponderante, mentre
il capitale pubblico funziona da garante di un livello minimo di profitti: al governo vanno le
eccedenze su tale margine. Inoltre la scarsa produttività delle ferrovie indiane è spiegata da un
lato, con il facile ricorso alla manodopera indigena a basso costo, che scoraggia l’innovazione
tecnologica e gestionale, e dall’altro il basso livello di qualificazione di tale forza lavoro costituisce
un ostacolo insormontabile al miglioramento del’intensità delle prestazioni.

3. Gli investimenti esteri

Il trasferimento delle tecnologie rappresenta un aspetto peculiare della globalizzazione a cavallo


tra otto e novecento, tuttavia l’asservimento coloniale, che impedisce l’accumulo di capitali
material e umani, contribuisce a spiegare il differenziale di utilizzo produttivo nell’uso delle
macchine. La “tacit knowledge”, il bagaglio di conoscenze contenuto nella progettazione, messa a
punto e manutenzione dei macchinari, o l’adattamento delle tecnologie ad ambienti climatici
diversi; il “learning by doing”, cioè l’apprendimento costante dall’esperienza connessa
all’implementazione costante dell’organizzazione del lavoro, sono tutti fattori che rinviano ad un
deficit originario di scolarizzazione e formazione della manodopera nei paesi poveri in particolare.

La storia dei paesi che oggi consideriamo poveri è solo in minima parte una storia di isolamento e
autosufficienza: la stessa esperienza coloniale è per molti aspetti un’esperienza traumatica di
inserimento nei flussi di merci e persone della globalizzazione internazionale, che tuttavia non si
traduce in crescita economica auto sostenuta né in diffusione delle tecnologie industriali. I
movimenti di capitale appaiono complementari agli altri flussi della globalizzazione nella
creazione di spazi economici interconnessi e interdipendenti. Si assiste tra la fine dell’800 e
l’inizio del 900, ad un aumento esponenziale dell’investimento estero dei paesi europei nei paesi
poveri, ma tali investimenti non sono indirizzati allo sviluppo della colonia, alla crescita
economico-produttiva del territorio in cui si realizza l’infrastruttura, quanto piuttosto al
mantenimento di quel mercato globale. Lo stato coloniale, come sostiene Fieldhouse, NON E’ UNO
STATO SVILUPPISTA, delle proprie colonie, non contribuisce alla loro crescita economica. Anche
l’estrazione petrolifera delle compagnie statunitensi nei paesi latinoamericani si risolve
nell’erogazione di “royalties”, cioè pedaggi ai governi indigeni nella vendita del prodotto sui
mercati internazionali, quasi senza ricadute significative sull’economia che ospita gli investimenti
stranieri.

Tradizionalmente, la storiografia dell’età coloniale distingue tra due diversi modelli di governo:

- Quello “inglese” che associa in funzione subordinata elitè e tradizioni indigene, INDIRECT
RULE;
- Quello “francese”, proteso alla diffusione graduale e limitata di una nuova cultura della
cittadinanza che tende a cancellare le usanze locali, DIRECT RULE;

La fase coloniale, dal punto di vista dell’ineguaglianza globale, sembra incrementare


costantemente le differenze tra paesi ricchi e poveri. Un primo dato interessante è quello che
mostra come nel corso dell’800 l’ineguaglianza interna alle nazioni attraversi una fase di stasi
(within country) mentre significativo è l’aumento dell’ineguaglianza tra le diverse nazionin
(between country). La rivoluzione industriale sposta il baricentro della ricchezza, dalla proprietà
della terra (fonte decisiva di ineguaglianza fino all’avvento dell’agricoltura stanziale), verso il lavoro
umano e non sembra approfondire in modo drastico le distanze sociali.

Il secondo dato interessante è quello che mostra come tra 1820 e 1950, l’aumento
dell’ineguaglianza mondiale appare essenzialmente determinato dai più bassi ritmi di crescita del
continente asiatico, dove risiedono i 2/3 della popolazione terrestre. Il dominio coloniale si
traduce inoltre, in un espansione consistente delle terre messe a coltura.

4. la Divisione Internazionale del Lavoro

Colonia britannica, però, è a anche l’Australia, che paradossalmente tra Otto e Novecento è
protagonista di un processo di crescita superiore a quello della stessa Gran Bretagna.
L’inserimento dell’Australia nei mercati internazionali avviene tramite l’esportazione di materie
prime (lana) e un livello “sudamericano” di ineguaglianza interna. La caduta dei prezzi
internazionali delle materie prime che si verifica nell’ultimo decennio dell’Ottocento, produce una
grave crisi depressiva dell’economia australiana, che tuttavia reagisce con una significativa
diversificazione delle esportazioni (grano, burro, frutta) e soprattutto con un effettivo decollo
industriale. L’Australia riesce a reimpiegare i dividendi della divisione internazionale del lavoro
imposta dall’Occidente verso un legame efficiente tra sviluppo agricolo e sviluppo industriale,
evitando di cadere nella trappola di una struttura concentrata sulle esportazioni e quindi troppo
esposta alle fluttuazioni dei mercati internazionali. Dunque, da esportatrice quasi esclusivamente
di lana, diventa esportatrice anche di grano, burro e frutta. Ma per il resto dei paesi tropicali la
regola rimane quella di puntare sull’esportazione di pochi prodotti di nicchia “cash crops”,
commercializzabili con profitto sui mercati internazionali, oltre che facilmente coltivabili ed
estraibili dal sottosuolo: come in Brasile, dove caffè e gomma prendono il posto di cotone e
zucchero. Un’agricoltura estensiva di piantagione a bassa produttività, un largo impiego di
manodopera immigrata a basso costo, ristagno della domanda interna ed un elevata ineguaglianza
sociale, sono le caratteristiche fondamentali di un modello di crescita “staple export led”, tirato
dall’esportazione di pochi prodotti chiave (derivati della Palma in Nigeria, tè e gomma a Ceylon,
caffè e cacao in Costa d’Avorio, cacao e oro in Costa d’Oro, arachidi in Senegal, gomma e avorio nel
Congo Belga).

Il mercato globale ha favorito, soprattutto per quei paesi come GB e FR, che si procedesse verso
un’organizzazione internazionale del lavoro che andasse verso una differenziazione della
produzione nelle colonie nel senso di produrre un determinato prodotto in un paese che veniva
organizzato e strutturato affinché diventasse MONOPRODUTTORE, quindi si sceglieva la colonia
che garantiva le condizioni più economiche per produrre quel determinato bene. Questo tipo di
politica ha finito col precludere a molti paesi colonizzati di avviarsi verso la strada della
“RIVOLUZIONE INDUSTRIOSA”, rendendo le economie delle ex colonie particolarmente vulnerabili
alle oscillazioni della domanda e dell’offerta mondiale, dei cambi valutari, delle ragioni di scambio
internazionali. Un altro aspetto a svantaggio delle ex colonie riguarda proprio questa eccessiva
dipendenza dai mercati internazionali, perché come insegnano le teorie economiche, ci si
protegge dall’instabilità del mercato attraverso la diversificazione delle proprie attività produttive,
cosa che non accade nelle ex colonie. Questa pericolosa dipendenza dai mercati internazionali è
testimoniato dal c.d. DUTCH DESEASE che coglie l’economia olandese dopo la scoperta e la
valorizzazione di giacimenti di gas naturale nel Mare del Nord, avvenuta negli anni 60 del 900. Il
successo immediato di quello sviluppo staple export led ha infatti conseguenze positive: provoca
un apprezzamento della valuta olandese sui mercati internazionali che danneggia altre
esportazioni e scoraggia investimenti in altri settori produttivi. Qualcosa di simile accade anche
nelle economie di molte ex colonie: il prodotto di punta dell’agricoltura di piantagione destinato
all’esportazione drena risorse umane e materiali degli altri settori agricoli e rende
preventivamente più difficile ogni significativa diversificazione produttiva così come ogni
investimento di natura industriale. L’avvio di un vero processo di industrializzazione diventa
possibile solo per quei paesi che sono in grado di attuare delle politiche protezionistiche, in modo
da limitare l’afflusso di manufatti stranieri: una strada che però fu preclusa a buona parte delle
colonie possedute dagli europei. Tuttavia anche paesi indipendenti e protezionisti, come quelli
latino americani, si trovano a fronteggiare una situazione di predominio della grande proprietà
terriera che ostacola e spesso pregiudica la modernizzazione industriale. GIAPPONE ED AUSTRALIA
SONO ECCEZIONI, che presentano una miscela particolare di fattori diversi: piccola proprietà e
produttività agricola, protezionismo, rivoluzione statale dall’alto, bassa ineguaglianza nel primo,
integrazione internazionale, alta ineguaglianza e diversificazione nella seconda. La sottomissione
coloniale, ad ogni modo, non può essere considerata condizione necessaria, sufficiente ed
esclusiva del sottosviluppo. A determinare quest’ultimo concorrono diversi fattori (condizioni
climatiche, sbocchi al mare, dotazioni naturali di risorse, politiche governative in campo sociale e
formativo), tuttavia è la parentesi coloniale sembra avere effetti determinanti soprattutto nel
lungo periodo perché si lega alla mancata diffusione dei processi di industrializzazione nei paesi
che ne subiscono le conseguenze. La globalizzazione determinata dall’età degli imperi coloniali,
non determina uno sviluppo auto sostenuto e costante per molti paesi extraeuropei, perché
l’agricoltura e l’industria che si accompagnano riflettono una definita gerarchia economica
internazionale, in larga misura fatta di scambio ineguale tra manufatti dei paesi colonizzatori e
materie prime dei paesi colonizzati. In questi ultimi, senza l’intervento di un “developmental
state”, come in Giappone, e di una diversificazione produttiva, come in Australia, gli effetti positivi
di crescita non si trasmettono all’insieme della base economica e della vita sociale, ma rimangono
delimitati a ristrette elite indigene e piegati a logiche ed interessi stranieri. Uno studio comparatico
condotto sugli odierni paesi a basso reddito, mostra che un consistente periodo di sottomissione
coloniale nel passato è significativamente correlato nel presente a più bassi livelli di
scolarizzazione, più alta conflittualità interna, minore stabilità politica e minore crescita economica
(l’esempio del continente africano appare particolarmente significativo). Ma l’eredità più comune
e più grave del dominio coloniale risiede nella formazione di una elite indigena
corresponsabilizzata nell’esercizio del potere politico che, al momento dell’indipendenza, appare
spesso destinata a rivelarsi improduttiva, privilegiata dall’inserimento nella burocrazia
amministrativa, esentata dal pagamento delle tasse, vulnerabile alla corruzione e diffidente nei
confronti di ogni libera dinamica imprenditoriale. L’età degli imperialismi costruisce un mondo
dove persone, merci e capitali attraversano le frontiere degli stati con maggiore facilità e libertà
rispetto a prima. Ma di conseguenza, l’esplosione dell’ineguaglianza internazionale è il risultato di
un minor grado di efficienza nell’utilizzo di questi fattori da parte dei paesi destinati ad accumulare
un crescente ritardo nella corsa dello sviluppo.

Capitolo V

Colonialismo e identità
1. Autocoscienza dell’Occidente

L’età degli imperialismi appare altrettanto decisiva anche sul piano delle “identità culturali”.
L’orientalismo di primo ottocento definisce le civiltà umane per differenze, irrimediabilmente
fissate dal clima e dalla razza oppure ordinate secondo una scala gerarchica evolutiva che
comunque assegna all’Occidente il ruolo di stella polare e punto d’arrivo per tutti gli altri popoli. La
conquista militare di fine Ottocento, invece, rappresenta il segno di un’evidente superiorità
tecnologica, che porta alla diffusione di un“darwinismo sociale” che identifica proprio nella
tecnologia lo strumento principe per dominare l’ambiente e garantire la sopravvivenza della specie
e assegna all’Occidente la responsabilità della guida del mondo, secondo l’idea del “fardello
dell’uomo bianco” di Kipling, che dipinge l’avventura coloniale come missione civilizzatrice.
Chamberlain parlerà di una grande tenuta (in riferimento alle proprie colonie), di cui lo stato
civilizzatore deve occuparsi. E’ chiaro comunque che nella cultura politica delle elite europee di
fine ottocento, il tema dello sviluppo autonomo dei paesi poveri compare solo in misura
marginale.

L’apporto occidentale si misura come edificazione di uno stato-nazione che nelle colonie si ritiene
assente per effetto di cause diametralmente opposte che vanno dal dispotismo orientale, alle
società stateless africane. Proprio in quest’ultimo caso, la classificazione minuziosa di etnie, caste,
gruppi religiosi, appare funzionale ad un tradizionale metodo di governo imperialistico (divide et
impera), che si risolve nella negazione di autonomia alle popolazioni sottomesse e nell’uso politico
della frammentazione e delle rivalità interne come preventive alla nascita di movimenti nazionali
indipendentistici. Tuttavia, non mancano in ambito occidentale anche voci diverse, le quali si
rifiutano di considerare la tecnologia e il progresso come metro di misura per la civiltà, fino a
rivalutare le antiche culture orientali come fonte di una saggezza più umana e nello stesso tempo
più naturale. William Sumner, liberista ed antisocialista, elaborerà il concetto di “etnocentrismo”
proprio per riferirsi all’atteggiamento secondo cui il proprio gruppo è considerato il centro di ogni
cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso.

Nell’intreccio culturale di ineguaglianza e diversità che contraddistingue l’età degli imperi,


confluisce anche il motivo della DIFFERENZA SESSUALE: pigri e indolenti i coloni, maschio
dominatore e colonizzatore l’occidente.

2. Imperi e Bazaar

Secondo molti storiografi, l’impero coloniale non si configura soltanto come qualcosa di impositivo
ma soprattutto come logica di negoziato con le società indigene. In effetti, gli imperi europei in
Asia si intrecciano con i flussi commerciali (sia di beni che di persone e capitali) che si svolgono
nell’Oceano Indiano tra zone agricole tradizionali e aree minerarie, realizzando quindi una sorta di
continuità con il passato precoloniale. Il quadro che appare è quello di un complesso equilibrio
dinamico tra i settori direttamente controllati dai poteri militari ed economici dell’Occidente, le
economie monetizzate di sussistenza sulla terraferma e i network di commercio e di credito a
lunga distanza gestiti da mercanti indigeni. Quest’ultimo livello intermedio, viene definito da Rajat
Kanta Ray come “economia di bazaar”, in base alla quale i mediatori asiatici risultano essere in
grado di reagire in modo adattivo all’arrivo del colonialismo occidentale. In tali casi il colonialismo
si configura come un gigantesco esercizio di “dominio senza egemonia (culturale)”, cioè un tipo di
rapporto di tipo economico e strutturale, che non è seguito da penetrazione culturale, quindi non
si ha una replica meccanica del modello occidentale. L’elemento culturale d’identità più forte è
quello religioso, che rappresenta in molti casi fattore di forte resistenza al modello occidentale. Di
questi intrecci tra Oriente ed Occidente è tipico esempio la produzione di oppio, che nel corso
dell’Ottocento si estende dall’India britannica a diverse zone della Cina rurale. Gli alti proventi
garantiti dalla nuova coltura, rivoluzionano non solo l’economia agricola di queste aree, ma anche
la mappa interna del commercio e della finanza. Nel 1890 l’oppio, ormai prodotto in loco, perde il
primato nella graduatoria delle importazioni a tutto vantaggio dei prodotti lavorati in cotone.
L’apertura colonialista dell’immenso mercato cinese, piegato con la forza omicida del
contrabbando degli stupefacenti, rappresenta gli effetti non sempre positivi dell’integrazione
commerciale globale. Lo scambio oppio – tè che l’impero britannico governo tra Cina ed India, si
inserisce funzionalmente in un processo di divisione internazionale del lavoro. Gli alti profitti
assicurati con l’oppio vengono reimpiegati per lì introduzione del tè, nuovo prodotto di
esportazione tipicamente tropicale della colonia indiana, in grado di non recare più fastidi agli
imprenditori cotonieri inglesi, liberi di penetrare il mercato cinese aperto dall’oppio. Gli stimoli
seppur positivi della produzione di quest’ultimo, non si traducono in una spinta all’espansione
produttiva e all’aumento del reddito, bensì inaugurano una spirale negativa di declassamento
dell’economia cinese Qing nel contesto asiatico e mondiale. Strangolati il tè e il cotone dalla
concorrenza straniera, il prodotto cinese per eccellenza torna ad essere la seta grezza: altra tipica
merce di esportazione coloniale in grado di inserirsi senza problemi nella spartizione dei mercati
globali controllati dalle potenze e dalle compagnie commerciali occidentali. Tale declassamento
riflette la “grande divergenza” di transizione alla modernità tra la Cina e il Giappone della
restaurazione Meiji, dove il processo di costruzione dello stato è molto più determinato e
coerente. In questa “grande divergenza”, un fattore centrale è dato dalla stasi delle manifatture in
Cina che risultano coprire solo il 6% del PIL. Ma secondo i dati raccolti da Clark sul settore
cotoniero, ancora agli inizi del XX secolo, i più bassi costi del lavoro, oltre che la disponibilità in
loco delle materie prime, garantirebbero un invidiabile vantaggio competitivo alla Cina (persino
rispetto all’Inghilterra ad esempio, che deve invece importare materie prime), tanto da
compensare ampiamente le maggiori spese per l’importazione dei macchinari e
l’approvvigionamento energetico. Ma sebbene i manager (direttori) delle imprese cotoniere
indiane e cinesi fossero per la maggior parte inglesi, si andò costituendo un equilibrio di basso
livello, che scambia bassi salari con meno disciplina, tempi di lavoro più rilassati e flessibili, più
elevati tassi di assenteismo. In altre parole: la forza lavoro asiatica è molto poco qualificata e
largamente analfabeta; gli scarsi investimenti nell’organizzazione del lavoro si accompagnano ad
altrettanto scarsi investimenti in formazione di “capitale umano” tranne in Giappone, dove la
chiave dell’incremento produttivo nel settore tessile si spiega proprio con una manodopera
femminile e quasi universalmente dotata di un grado di scolarizzazione primario. Se questo in
India non accade, è per il peso della coercizione extraeconomica coloniale, che impedisce all’India
sia di avere una scuola e una formazione professionale adeguata, sia di proteggere con barriere
protezionistiche la propria industria cotoniera, di costruire materiale ferroviario ed essere
obbligata ad importare macchinari inglesi. La sfera della proprietà terriera è probabilmente quella
in cui le differenze tra Occidente e resto del mondo si manifestano con maggior forza. In Africa,
l’idea occidentale di un possesso individuale privato della terra e insieme, della sua natura di bene
commerciabile, si confronta con una situazione di generale scarsità demografica e di un
conseguente minor valore attribuito alle linee di confine di proprietà. Tale minor valore si traduce
in diritti consuetudinari di “sfruttamento comunitario” dei suoli, difficilmente riconducibile allo
schema giuridico europeo: il risultato è una lunga stagione di conflitti legali. In Africa, la
penetrazione delle leve statuali ed economiche dell’Occidente stravolge in profondità il
“dinamismo conservatore” delle società precoloniali, caratterizzato da un equilibrio di basso livello
che assume come priorità la redistribuzione delle risorse esistenti secondo rituali di deferenza e
reciprocità tra clan. Con il passaggio alla dominazione coloniale diretta e formale, il conflitto viene
risolto con la forza tramite la “requisizione delle terre” che vengono classificate come incolte. Il
risultato è molto spesso quello di una polarizzazione sociale delle campagne, tra un elite
proprietari disposta a collaborare con le amministrazioni coloniali e una massa di contadini senza
terra, messi in forzosi movimento verso le piantagioni o verso i centri urbani alla ricerca di un
impiego salariato (Kenya, Sudafrica). Laddove viene introdotta l’imposizione fiscale, si ha una
monetizzazione delle economie comunitarie, che rafforza la loro attrattiva per i mercati locali
maggiori, distruggendo però i circuiti commerciali locali dei nativi. In alcune società africane
(arachidi Sierra Leone, Costa D’Avorio cacao, olio di palma Nigeria, cotone in Uganda) l’economia
di tratta si fonda su una struttura produttiva largamente decentrata in mano ai nativi: il
miglioramento dei loro redditi si lega al più facile accesso ai mercati e alle innovazioni che il
colonialismo porta con sé. Ma lo sviluppo che ne consegue, essendo trainato dalle sole
esportazioni, incide in maniera del tutto marginale sulla parallela crescita della domanda e dei
mercati interni. In Africa cosi, lo stato coloniale esercita un doppio ruolo:

1. Favorisce la crescita di compagnie occidentali incoraggiandone gli investimenti esteri


diretti.

2. Mette loro a disposizione una forza lavoro espulsa dalle tradizionali economie indigene e
in cerca di salari in denaro erogati sulle piantagioni.

La questione economica della proprietà della terra si collega strettamente alla questione politica
dei rapporti tra amministrazione coloniale e tradizionali sistemi di potere indigeni, suscitando
ambizioni espansive dei capi locali e mettendo in crisi relazioni ed equilibri tra clan. Inoltre, la
diffusione missionaria delle confessioni cristiane stravolge i sistemi di culto locali, che tuttavia
raramente scompaiono del tutto e molto spesso si mischiano alle nuove religioni. Al contrario,
Cina e India mostrano apparati di culto molto più omogenei e compatti, storicamente legati a
imperi centralizzati, con una capacità di resistenza assai maggiore. Sulla spinta della “grande
paura” suscitata dalla rivolta dei Boxer, il primo esteso movimento di resistenza, per quanto
ideologicamente tradizionalista e immaturo, all'imperialismo , l’impero cinese vieta nel 1906, il
commercio dell’oppio, dando prova di un nazionalismo reattivo, stimolato dalla sfida innescata
dalla penetrazione occidentale in Cina, sebbene tuttavia la completa cancellazione delle colture di
oppio si avrà solo nel 1949 e l’avvento del regime comunista . Le risposte delle popolazioni
sottomesse alla sfida del colonialismo europeo, mettono in luce un impasto contradditorio tra
paradigma “della modernizzazione”, che tende a mutuare dalla cultura occidentale forme e
categorie del progresso, e paradigma “nazionalista”, che punta al recupero della propria
autonomia e propria identità.

3. Modernizzazione e nazionalismo

William Ferguson, medico dell’esercito britannico, viene nominato nel 1841 primo governatore
nero della Sierra Leone (il paese ripopolato dagli schiavi liberati in Europa) e lega il proprio nome
alla battaglia condotta in difesa dell’agricoltura tradizionale di villaggio e della sua rete di traffici
locali, contro i mercanti di schiavi e le società commerciali occidentali. Il primo invece, a porre
esplicitamente la questione dell’indipendenza dell’intero continente africano Julius Africanus
Beale Horton, per il quale ciò che manca alla regione, è una classe media di imprenditori capaci di
mettere a frutto la naturale fertilità del suolo: c’è bisogno quindi di università scientifiche e di
sovrani illuminati, scelti tra famiglie africane, ma eletti a suffragio universale.

In Liberia, terra d’arrivo degli schiavi liberati negli Stati Uniti, l’opera di Alexander Crummell è
considerata la progenitrice della c.d. “negritude”. La sua fede occidentale acquisita lo induce ad
un’ardua lotta contro l’arretratezza sociale dell’Africa: una lotta che può essere condotta solo dai
neri in prima persona, ma ripercorrendo il tragitto occidentale verso lo sviluppo economico, fino al
punto di auspicare un protettorato statunitense sulla Liberia per imporre la democrazia. Questi tre
personaggi appartengono ad una prima generazione di teorici panafricanisti, che condividono
l’esperienza di essere esponenti e portatori di “travelling cultures”, che attraverso le frontiere delle
nazioni e si muovono tra una cultura occidentale di nascita e una cultura africana locale
incontrata e vissuta nella seconda parte della loro vita, al momento del loro ritorno in Africa.
Anche nell’Oceano Indiano si afferma una “diasporic patriotism” dei popoli hindu dispersi dagli
inizi del Novecento in tutta l’area compresa tra Africa occidentale e Sud-Est asiatico. Si tratta in tal
caso, di un patriottismo a distanza. Il vero primo teorico di una Africanness (primo programma
rivendicativo dell’indipendenza) è Edward Blyden, originario delle Antille Olandesi, il quale
sostiene che il cuore dell’africa sono le radici comunitarie dell’economia di sussistenza, che
contengono valori antitetici all’individualismo acquisitivo occidentale e indicano una strada di
sviluppo diversa. La mitizzazione di una Gemeinschaft (comunità) originaria costituisce motivo di
fondo per un incipiente nazionalismo reattivo nei confronti del Rise of the West. Anche Blyden
afferma come sia difficile “decostruire” una Africanness autonoma e separata, capace di
rappresentare un valore identitario fondante, superiore a tutti gli altri. Il nascente nazionalismo
africano mette in luce come nell’ideologia panafricanista compaiano fin dall’inizio tratti costitutivi
di importazione europea, quasi che per esprimersi, la sostanza della Africanness abbia bisogno di
una forma occidentale.

4. Comunità e società

I motivi identitari del movimento panafricano occupano gran parte della scena , mentre la
tematizzazione dello sviluppo economico dell’Africa viene relegata ad un ruolo marginale,
nonostante che su questo argomento le differenze con l’Occidente siano visibili e concrete.
Sembra quasi di verificare un paradossale scarto tra il livello dell’ideologia panafricanista e il
programma rivendicativo che matura localmente nelle diverse situazioni africane. Il tema della
Gemeinschaf (che ritroviamo anche nel caso indiano, consistente nel recupero di radici culturali
ed identitarie unificanti) non viene preso in considerazione invece, dal nazionalismo occidentale,
che si presente altresì come un modello centralista di modernizzazione “anticomunitarista”, che
esclude strumenti di rappresentanza politica non elettiva (consigli di anziani, assemblee di
villaggio), tipici delle tradizionali forme di vita comunitaria. I rapporti civili e giuridici inoltre, si
presentano come rapporti diretti tra individui ed istituzioni senza l mediazione di corpi intermedi
naturali (famiglia, parentela, comunità). La Gesellschaf, la società moderna, si esprime nello
Stato-Nazione antiassolutista e sopprime gli istituti, le norme, i legami consuetudinari, retaggi di
un antico regime che intralciano le nuove relazioni di cittadinanza. Il primo consigliere municipale
eletto a Freetown – Sierra Leone si chiama Samuel Lewis, il cui programma riprende la consueta
rivendicazione di una precedenza dell’agricoltura sul commercio ma, a differenza dei predecessori,
Lewis non nasconde la scarsa qualità del suolo e la bassa produttività dei metodi di coltivazione.
L’unica condizione per aggirare tali vincoli è rappresentato da una “qualificata istruzione tecnica”
(nel 1876 in Sierra Leone nasce la prima Università africana). L’approccio micro locale di Lewis
però, si scontra con un mercato regolato dal predominio commerciale dell’Occidente anziché dai
principi della libera concorrenza: nel 1896 sulla Sierra Leone si istituisce il protettorato inglese.
Negli stessi anni, in Senegal, Louis Huchard propone un approccio macro al problema a differenza
di quello micro di Lewis, secondo il quale, ambito centrale deve essere la pianificazione
centralizzata di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella diversificazione agricola. Sul suo
giornale egli sostiene che in Senegal converrebbe impiantare la lavorazione del caucciù, del cacao,
del cotone, del tabacco. Lo scopo è quello di rompere il monopsonio delle compagnie private
francesi sul mercato delle arachidi (fino ad allora “staple export led”) e di combattere la
congiuntura depressiva internazionale di calo dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime.
Al tempo stesso Huchard è molto critico nei confronti delle strutture tradizionali della società
senegalese: il suo parere è che i capi locali debbano essere eletti, per cancellare la corruzione e
l’oscurantismo che spesso si accompagnano al loro potere autocratico. Non casualmente la
differenza di approccio di Lewis e Huchard, riflette le diverse modalità di esercizio del dominio
imperiale:

- La filosofia della “assimilation” che produce una maggiore vicinanza al paradigma della
modernizzazione e un atteggiamento lealista e negoziale nei confronti del governo
francese, di cui si mutuano gli strumenti e le categorie di intervento nella realtà.
- L’ ”indirect rule” sembra invece favorire maggiormente il paradigma nazionalista e un
percorso di autogoverno dal basso, attraverso la rivalutazione e il miglioramento
dell’agricoltura comunitaria di villaggio. L’unica voce tra quelle viste che immagina
un’Africa futura senza europei è quella di Blyden. Questa linea di difesa dei poteri indigeni
rappresenta la chiave ricorrente del paradifma nazionalista che si viene affermando nelle
colonie di lingua inglese e conosce nel corso del Novecento una doppia declinazione:
- Quella “culturalista” di cui si fa interprete un romanzo autobiografico, Ethiopia Unbound,
che racconta il ritorno in Costa d’Oro, dopo gli studi in Inghilterra, di Joseph Casely
Hayford. Quivi si riprende il mito della vita spirituale, semplice, solidale della comunità
tradizionale africana, in contrapposizione al modo di vita frenetico e concitato degli
europei. Il paradigma nazionalista, con la sua mitizzazione della Gemeinschaft, si oppone
cosi frontalmente al paradigma della modernizzazione e al suo auspicio della formazione
di una middle class africana, istruita ed intraprendente. L’”approccio culturalista” e
“l’invenzione della tradizione” comunitaria restano i motivi identitari largamente
prevalenti in seno al movimento panafricano.
- Quella “pragmatica”, rappresentata da Herbert Macaulay, fondatore del primo partito
politico nigeriano, cioè rappresentante di una nuova borghesia urbana degli impieghi, che
la crescente burocrazia dell’amministrazione coloniale viene espandendo e che appare
tradizionalmente diversa da quelli che sono i ceti rurali caratteristici della società africana.
E’ protagonista della battaglia in difesa delle prerogative dei capi delle comunità, dei
contadini ricchi e dei loro diritti di proprietà sulla terra. Nel 1921 viene stabilito il principio
del risarcimento dei legittimi proprietari in caso di confisca, ma ancora nel 1945 Macaulay
è costretto a combattere contro la logica dell’economia di piantagione e il pericolo di
esproprio da parte delle compagnie straniere. Raramente però i capi locali delle comunità
emergono come soggetti protagonisti di queste battaglie, mentre più spesso i protagonisti
sono soggetti di un elite cresciuta e formata in Occidente, che con quei capi e quelle
comunità intrattengono rapporti occasionali e indiretti. In ogni caso,per i popoli dell’Africa,
come per quelli dell’Oceano Indiano, la Prima Guerra Mondiale segna uno spartiacque:
inquadrati nell’esercito britannico 100000 indiani muoiono nelle Fiandre e 20000
maghrebini nelle schiere francese vanno incontro allo stesso destino. Il loro sacrificio
rafforza in modo decisivo la richiesta di parità dei popoli colonizzati. Nel Gennaio del 1918
i Quattordici punti di Wilson prevedono l’istituzione dl “mandato”, che stabilisce il
principio della salvaguardia degli interessi dei popoli nativi e attribuisce al controllo
coloniale una funzione propedeutica al raggiungimento della capacità di
autodeterminazione di quegli stessi popoli.
Capitolo VI
Il caso indiano
1. UN PASSATO PESANTE

Il caso indiano rappresenta un osservatorio particolarmente significativo del nesso


colonialismo e sviluppo, sia per l’impegno profuso dall’amministrazione imperiale britannica,
sia per il precoce emergere di un movimento nazionalista2 : nel 1885 nasce il partito dell’India
National Congress con più di mezzo secolo di anticipo sugli omologhi africani.

Anche in India, le prime reazione alla penetrazione britannica sono di natura culturale ed
identitaria anziché politica ed economica. Per molti aspetti, l’obiettivo polemico appare l’opera
di James Mill, che rappresenta il testo – base delle autorità coloniali e nella quale si definisce il
passato precoloniale indiano come “mezza civiltà”. Contro questa definizione, nella seconda

2
Conte preferisce nazionalitario, poiché se i nazionalisti vogliono imporre la loro nazionalità sigli altri, i
nazionali tari sono quelli che amano la propria comunità e rivendicano solo una propria autonomia e
governo
parte del secolo, intellettuali indiani di diversa estrazione (hindu e musulmana) convergono
verso una rivalutazione dell’antica eredità spirituale indiana in quanto radice di diversità,
alternativa all’Occidente. In varie forme, dunque, il nazionalismo indiano sintetizza un
progetto culturale di riappropriazione del passato sotto una forma spiritualista, da cui si cerca
di eliminare l’apporto dell’Islam (che invece Mill considera superiore per civiltà di governo
rispetto alla società hindu). A metà secolo inoltre, il passaggio dall’imperialismo informale
della East India Company a quello formale dell’impero inglese, avviene per reazione difensiva
sotto la spinta della rivolta dei “Sepoys”, le truppe indigene del Bengala, contro l’uso di
pallottole lubrificate con sego bovino e strutto di maiale: un doppio affronto nei confronti
delle due religione del paese. Nella ricostruzione di Ranaijit Guha, le origini del nazionalismo
indiano vanno ricercate nelle forme di resistenza contadine che si muovono al confine (con il
furto, l’illegalità, il sabotaggio), ma anche in ambienti urbani, associazioni e rituali a carattere
religioso, sovrapponendo logiche di classe e appartenenze di casta, entro una generale
opposizione al diritto astratto degli stranieri per consolidare invece trame quotidiane di
relaizoni comunitarie solidali. MITO DELLA GEMEINSCHAFT LOCALE. Questo imprinting
religioso del nazionalismo indiano (cui la predicazione antimoderna, antindividualista e
anticapitalista di Gandhi darà forma compiuta nel corso del Novecento) emerge con forza dalla
biografia di Dabadhai Naoroji, sacerdote e commerciante di cotone, presidente dell’India
National Congress nel 1886 e primo indiano ad entrare nel Parlamento britannico nel 1892.
Nairoji sostiene l’ingiusta soggezione indiana al potere ponendo all’attenzione il problema del
“drain”, il drenaggio di risorse operato dall’impero alle spese sell’economia indiana per
finanziare le forze armate inglesi. Si forma allora l’idea si un “left-nationalism paradigm”, cioè
che la dominazione britannica abbia significato il declino dell’India. Secondo il pensiero
inglese, il drain è stato condizione necessaria per la crescita economica dell’India, poiché in
un primo momento è servito a stabilire le infrastrutture amministrative, per poi finanziare
servizi ed investimenti produttivi (ferrovie, canali d’irrigazione) funzionali allo sviluppo
dell’India. A differenza di quanto accade in Africa, dove la ferita inferta dall’Occidente con la
tratta degli schiavi investe i diritti umani fondamentali, in India la questione del drain si
collega ad uno scontro principalmente economico, in quanto si contesta il passaggio da un
passato di splendore,m non solo religioso ma anche produttivo, ad un presente di dipendenza
poiché l’India, da esportatore di prodotti finiti, diventa sotto la dominazione inglese
esportatore di cotone greggio.

2. Agricoltura dualista

Il costo di questa ridislocazione mondiale in India viene pagato dal lavoro tessile a domicilio che
praticamente scompare (il movimento nazionalista ricorda tale declino tramite l’immagine –
simbolo di Gandhi che fila il cotone a mano) insieme all’Hindu equilibrium, che sotto l’impero
moghul si consolida attorno all’economia di villaggio, alla gerarchia delle caste e alla famiglia
estesa. Tale equilibrio di stagnazione sembra essere il più adatto a resistere in un ambiente
climatico difficile a causa dei monsoni e contraddistinto dalla bassa densità di popolazione e scarsa
centralizzazione del potere. D’altra parte, sul piano degli assetti sociali delle campagne, la
penetrazione inglese somiglia ad un terremoto: infatti tra Sette e Ottocento l’imposizione fiscale
sulla grande e piccola proprietà diminuisce, decretando l’aumento dei redditi di queste fasce
sociali medio-alte, mentre cala il reddito dei lavoratori agricoli senza terra, che crescono di
numero e vengono privati dei loro tradizionali diritti comunitari di sfruttamento delle risorse.
Inoltre a ciò si aggiunge, nella parte finale del XIX secolo, l’aumento di carestie che comportano
l’esaurimento delle scorte e sul mercato non si riescono più a soddisfare i bisogni soprattutto dei
ceti popolari. Alle crisi di sussistenza si accompagnano varie rivolte contadine. Una delle tesi di
Naoroji è che la responsabilità principale delle carestie sia da attribuirsi all’espansione delle
colture da esportazione, che sottrae risorse all’agricoltura di autoconsumo e ne riduce la funzione
assicurativa. Gli investimenti inglesi riducono le risaie per avvantaggiare la produzione di cotone
greggio. In realtà gli anni di carestia corrispondono a un perdurante e ininterrotto surplus della
bilancia commerciale (riso e grano), a conferma della tesi di Amartya Sen secondo cui, le crisi di
approvvigionamento dell’età contemporanea solo raramente dipendono da un calo effettivo della
disponibilità di cibo e assai più spesso dipendono da restrizioni di carattere extraeconomico
(esclusione di natura castale) all’accesso delle risorse. Tra il 1870 e il 1913 ka crescita riprende
seppur su ritmi inferiori a quelli del resto dell’Asia e del continente Africano.Nelle campagne
indiane crescono le differenze tra le zone irrigue toccate dalla rete ferroviaria e la altre più interne.
Le prime si specializzazione nelle colture “cash crops” di esportazione, mentre le seconde
rimangono funzionali ad un’economia di sussistenza fondata sul riso. L’intensificarsi delle crisi può
essere visto come un vero “Dutch disease3”, che drena risorse e forza lavoro dai settori arretrati
dell’agricoltura verso i settori avanzati e commercializzati, producendo però la crisi dei primi a
vantaggio dei secondi. Questo sistema comporta un DUALISMO SOCIALE E GEOGRAFICO poiché da
una parte si verifica l’impoverimento delle masse di contadini e dall’altra l’arricchimento di quegli
indiani che hanno rapporti con gli imprenditori inglesi. Proprio la successiva sostanziale assenza di
crisi di approvvigionamento nella prima metà del novecento si spiega appunto con il graduale
asservimento dell’economia rurale indiana: sia pure attraverso un aumento complessivo
dell’ineguaglianza e forti differenze regionali, infatti, l’agricoltura indiana riesce soddisfare la
domanda interna di cibo e sostenere l’incremento demografico.

PARADOSSO: la coscienza nazionale del popolo indiano si rafforza proprio nel periodo storico in cui
crescono e diventano più ampie e percepite le diseguaglianza interne tra ceti sociali, città e
campagne, tra aree arretrate e avanzate. Ma il risultato complessivo è un equilibrio di basso livello
vicino ai minimi di sopravvivenza, determinato da un ritmo molto lento di espansione della
produzione agricola destinato ad essere ingoiato da una ripresa della crescita demografica che si
verifica dopo il 1920. Ad una bassa produttività del settore si accompagna un livello
particolarmente alto della rendita fondiaria, cosa che non accade invece negli altri paesi asiatici,
caratterizzati dalla disponibilità di forza lavoro e ridotta dimensione della proprietà terriera. La
“curva di Ishikawa” descrive, infatti, un percorso storico(principalmente del Giappone tra epoca
Togukawa e restaurazione Meiji) distinto in due fasi successive:

- La prima prevede l’aumento dei rendimenti della terra tramite l’uso intensivo e crescente
del lavoro umano organizzato all’interno delle famiglie rurali, su piccoli appezzamenti di
terra.
- Nella seconda si assiste all’introduzione di innovazioni tecnologiche “labor-saving”
(fertilizzanti, macchine agricole) capaci di liberare forza lavoro per attività extra agricole
verso le città e gli insediamenti industriali.

Di tale curva l’India sembra percorrere solo la prima fase. In effetti la ridotta proprietà terriera
distingue allontana molte zone del continente asiatico dal destino di ineguaglianza e autoritarismo
che invece caratterizzano l’America latina dove il latifondo è una realtà inamovibile, tuttavia, allo
stesso tempo, nemmeno le avvicina alla fisionomia democratica e sviluppista dell’appoderamento
3
Dalla diversificazione produttiva alla concentrazione produttiva del cotone greggio
frazionato degli USA. Influisce in questo senso il controllo coloniale inglese che cristallizza la
rendita dell’elite agraria e il potere subalterno da essa esercitato nelle campagne. Cosi, mentre il
regime del “free trade” (l’india del 1914 è stata definita il paese più liberista del mondo) fornisce
un grande mercato alle industrie inglesi e nello stesso tempo contribuisce a scoraggiare gli
investimenti, cosi anche la struttura dualistica dell’agricoltura indiana resiste nel tempo,
congelando gli equilibri di rendita fondiaria, da un lato, e quelli dell’economia di sussistenza non
monetizzata e non globalizzata dall’altro.

3. Analfabetismo e base industriale

Il risultato è quello di un doppio ritardo:

- In primo luogo, l’investimento in “capitale umano” appare al di sotto degli stessi, minimi,
standard dell’età coloniale. Nel 1951 ancora l’81% della popolazione è analfabeta e il tasso di
scolarizzazione è solo del 18%. Questo specifico ritardo dell’India è spiegato soprattutto dagli
imponenti flussi migratori che coinvolgono le sponde dell’Oceano Indiano nella prima metà del
XX secolo, i quali creano un mercato del lavoro sovranazionale e contraddistinto da una netta
prevalenza di maschi soli, dequalificati e sottopagati. Ma in larga misura l’analfabetismo
dell’India appare una scelta consapevole e deliberata delle autorità coloniali britanniche. In
tal caso la politica inglese risulta caratterizzata da un doppio standard di natura esplicitamente
razziale: infatti la protezione e la scolarizzazione dei minori indiani vale meno di quella dei loro
coetanei inglesi. Inoltre influenza molto anche il modello hindu che persegue uno sviluppo
futuro fondato sulla COMUNITA’ e non sull’individuo quindi economia di sussistenza nazionale
piuttosto che sviluppo umano.
- Il secondo ritardo prevede la perdurante stasi degli addetti al settore industriale, che per
tutto l’arco del Novecento risultano essere intorno al 10% della popolazione totale.
Nonostante l’output manifatturiero cresca, il problema risulta essere il carattere
concentrato e parziale di tale sviluppo. La produzione di cotone e iuta, infatti, esercita
stabilmente per tutta la durata della dominazione britannica la parte del leone, coprendo
assieme all’industria alimentare e a quella del tabacco più di metà del prodotto lordo
indiano. Alla “concentrazione merceologica” corrisponde la “concentrazione degli impianti
produttivi”, i quali si addensano nelle tre aree di Bombay, Calcultta e il confine tra Bengala
e Bihar. Inoltre il costante saldo positivo della bilancia commerciale indiana è possibile
grazie al sostegno dato dalle esportazione di materie prime, mentre la voce di gran lunga
prevalente nelle importazione sono proprio i manufatti in cotone. Quindi, la
modernizzazione industriale dell’India rimane fossilizzata nella produzione di materiali
grezzi,come il cotone, senza generare quelli che Hirschman definisce processi di
integrazione verticale a valle e a monte con altre industrie produttrici di beni strumentali e
di generi di consumo collettivi. Più che di reindustrializzazione bisogna parlare invece di
“periferizzazione”, cioè di incorporazione subalterna dell’industria indiana nel mercato
mondiale, tramite la mediazione decisiva dell’impero britannico. L’assenza di dotazione
adeguata di capitali indigeni e larinuncia allo sviluppo di una base produttiva organica e
diversificata non consentono l’aumento del reddito pro capite indiano. A metà dell’800,
l’India idventa il primo mercato per le macchine tessili inglesi, una dipendenza destinata a
durare fino agli anni 60 del Novecento per cui la mancanza di un comparto industriale
metalmeccanico diffuso e articolato continua a rappresentare il punto debole
dell’economia indiana.
Nella seconda parte del XIX sec. Prende piede il movimento “swadeshi”, cioè di “autosufficienza
comunitaria locale”, il quale opera un vero e proprio boicottaggio delle merci inglesi, fino ad
arrivare ad una vera e propria rivolta a Bombay, provocata dall’ennesimo rialzo delle tasse sui
vestiti di produzione indigena. Ma è lo stesso movimento nazionalista che si divide precocemente
tra marxisti modernizzatori filo industriali e tradizionalisti antioccidentali e antindustriali, schierati
a difesa del corporativismo sociale incarnato dal sistema delle caste. Tale contrasto è spesso
riassunto nella polarizzazione tra Gandhi, incline a rintracciare nell’industrializzazione la vera
causa della povertà indiana, e Nehru, fautore di una modernizzazione industriale moderata
dall’esigenza di salvaguardare comunque l’industria domestica. Fino all’indipendenza, tuttavia,
l’accumulazione di capitali rimane in India su livelli relativamente molto bassi. L’imprenditoria
indiana preferisce seguire la propria sofisticata tradizione di specializzazione nel commercio e
nell’intermediazione finanziaria e assicurativa a lungo raggio, ritagliandosi così un ruolo
principalmente speculativo, refrattario ai rischi d’impresa, complementare all’impero britannico
(come dimostrano le proteste dei mercanti che difendono l’esportazione di riso e grano nei periodi
di carestia). Tale vocazione “risk averse” dipende anche dalla debolezza del sistema bancario
indiano: solo nel 1935 l’India si dota di una Banca Centrale. Né tantomeno gli investimenti
britannici riescono a colmare la cronica scarsità di capitali indigeni, poiché essi sono perlopiù
utilizzati per la macchina governativa e per le ferrovie. Raffrontando il caso indiano con quello
giapponese, si nota come il Giappone supera l’India nella produzione del cotone nel 1913,
arrivando finanche a raggiungere gli stessi livelli di sviluppo dell’Occidente. Questo grazie ad un
alto tasso di scolarizzazione, anche femminile, che alza enormemente il livello di qualificazione del
lavoro e della produttività.

4. Cercate prima il regno

Il caso indiano sembra confermare il giudizio complessivo di Fieldhouse: lo stato coloniale non è
uno stato sviluppista. Tuttavia, la dominazione britannica non si traduce in un “drain” predatorio e
in un blocco generalizzato, imposto allo sviluppo naturale dell’economia indiana, come sostiene
Naoroji; poiché nel corso dell’Ottocento si modernizzano le strutture amministrative, cambiano gli
assetti proprietari delle campagne, aumenta la rete ferroviaria e dei canali di irrigazione, Calcutta
viene dotata di un sistema fognario che contribuisce al dimezzamento dei tassi di mortalità. E’
vero anche però che in India, la liberalizzazione delle importazioni, la divisione dualistica
dell’agricoltura, i limiti del sistema creditizio, i vincoli coloniali imposti alla produzione indigena, il
peso delle spese militari, impediscono la crescita della produttività agricola, rendono problematici
gli investimenti industriali e mantengono a livelli particolarmente bassi i tassi di scolarità nella
popolazione.
Tale bilancio complessivo del caso indiano assume maggior significato se raffrontato con la
dominazione olandese dell’Indonesia. Il modello olandese, definito “sviluppista”, si fonda su due
assunti principali:

- Forti investimenti nell’agricoltura, anziché nel commercio, nel tentativo di favorire la


nascita di un ceto di medi e piccoli proprietari.
- Ruolo determinante riconosciuto alle “istituzioni pubbliche”, anziché alle compagnie
private, non solo nell’indirizzare verso la domanda interna la produzione agricola, ma
anche nell’incentivare la formazione di una forza lavoro qualificata mediante
- la scolarizzazione primaria.

L’olanda è molto più orientata allo sfruttamento del suolo e del sottosuolo indigeno che a garantire
mercati sussidiari e integrativi per i prodotti della madrepatria. Al tempo stesso, però, non cambia
il carattere “staple export led” dell’economia indonesiana. Infatti, coltura della canna da zucchero
e del riso coesistono, identificando in maniera separata l’economia di esportazione dei coloni e
quella di sussistenza degli indigeni. Secondo le stime di Maddison, la colonia olandese registra una
crescita assai più consistente del reddito medio pro capite rispetto all’India. Questo anche perché
la crescente privatizzazione di nuovi prodotti da esportazione (petrolio, gomma, stagno presenti
nell’isola di Sumatra) risulta fare la differenza in una bilancia commerciale molto più diversificata
rispetto a quella indiana, anche se ad essa accomunata per la sostanziale assenza di manufatti.
L’economia indonesiana appare più globalizzata di quella indiana, anche se tale integrazione non si
traduce in un aumento delle condizioni di vita della popolazione indigena. Tuttavia la presenza
olandese si mostra non meno predatoria in campo sociale, rispetto a quella inglese: infatti , a
dimostrazione di ciò, il tentativo di riconquista dell’isola per via militare, progetto ingloriosamente
naufragato. Laddove la crescita economica viene favorita con coerenza e determinazione da stati
indipendenti (come nel caso di Giappone, Australia e Nuova Zelanda), i vincoli ambientali non
riescono a fermare lo sviluppo. Ma laddove le autorità coloniali seguono una logica “staple export
led” (come accade in India e Indonesia) i condizionamenti ambientali mostrano una forza
perdurante nel tempo. I risultati economici che si realizzano all’indomani della fine dell’età
coloniale appaiono frastagliati e difformi, perché sono il risultato degli intrecci tra la
globalizzazione dei mercati, la qualità delle istituzioni frutto dei metodi di governo dei
colonizzatori, il background storico, sociale ed economico e civile precoloniale di ciascun paese, i
condizionamenti climatici ed ambientali. “L’indipendenza non rappresentò una bacchetta magica”
commento Lloyd Reynolds analizzando questo risultato.

[Seguito del capitolo VII (La parola sviluppo)]

2. la svolta: protezionismo, agricoltura e demografia

Per i paesi poveri gli effetti della de globalizzazione non sembrano negativi: infatti, nel quadro
generale della brusca frenata al commercio internazionale, gli scambi atlantici calano a tutto
vantaggio di quelli africani ed asiatici. Tra il 1900 e il 1936 aumenta la produzione media annua dei
prodotti coloniali (banane, cacao, tè, caffè, caucciù, cotone, zucchero) tuttavia la crisi del 1929
infatti produce un calo dei prezzi internazionali delle materie prime rispetto a quello dei manufatti,
facendo calare gli introti da esportazioni dell’America Latina e Asia per due terzi del totale e
dell’Africa per quasi il 40%. Gli unici paesi a conservare un saldo positivo sono quelli legati
all’oligopolio di tipici prodotti locali di nicchia: la gomma della Malaysia, il tè di Celyon, le banane
della Giamaica. Il risultato complessivo è un rafforzamento della struttura staple export led delle
economie coloniali e le esportazioni continuano a concentrarsi su due –tre prodotti tropicali ( cash
crops, ovvero prodotti agricoli che si coltivano per il loro valore economico sul mercato
internazionale). Significativi episodi di diversificazione produttiva prendono piede con lo
sfruttamento dei giacimenti naturali di diamanti in Sierra Leone e di petrolio in Trinidad, il cacao in
Costa d’Avorio o di gomma in Malaysia e Ceylon. Nelle miniere però il ruolo preponderante delle
compagnie straniere non produce alcuna ricaduta positiva per l’economia indigena ( ad esempio in
Rhodesia i giacimenti di metalli preziosi diventano il terminale di un flusso migratorio che
contribuisce ad alimentare la popolazione delle campagne dei paesi vicini). Inoltre i metodi
familiari di conduzione economica adottati che antepongono la redistribuzione egualitaria dei
margini di guadagno agli investimenti produttivi, seguendo in prevalenza comportamenti
imprenditoriali risk averse, poco inclini ad approfondimenti intensivi della specializzazione
produttiva e molto esposti alle fluttuazioni di mercato, non favoriscono la produzione. (E’ il caso
della Liberia, dove la Firestone dal 1926 aveva coltivato le sue piantagioni di caucciù attraverso
contratti di fitto del terreno di 99 anni. Nel 1932, sotto la minaccia di un intervento militare degli
Usa, la compagnia concluse un accordo con la Liberia che prevedeva un prestito di 5 milioni di
dollari al governo liberiano, ottenendo in cambio i diritti di esplorazione e sfruttamento del suolo
in regime di esenzione fiscale). Nel 1930 compagnie europee o nordamericane controllano metà
delle exp di Cuba, Cile, Perù, Venezuela, Rhodesia del Nord ecc. La trasformazione in compagnie
multinazionali obbedisce alla doppia esigenza di acquisire vantaggi competitivi attraverso il
controllo all’origine delle materie prime e di minimizzare le incertezze e le instabilità dei mercati
stranieri. Ma l’emergere delle multinazionali non è l’unica novità nel periodo compreso tra le due
guerre, poiché

 prima l’Italia fascista, poi la Germania nazista, adotteranno politiche protezionistiche in


campo agricolo con lo scopo di raggiungere una tendenziale autosufficienza produttiva.
Ma anche in altri paesi europei alle barriere tariffarie si affiancano i sussidi diretti alla
produzione.

 In secondo luogo, nei paesi ricchi aumenta a dismisura la produttività agricola (tramite
l’uso di fertilizzanti etc.) che tende a ridurre l’iniziale vantaggio competitivo fornito dal
basso costo della manodopera nei paesi poveri. Questo comporta la riduzione delle
importazioni di prodotti agricoli dai paesi poveri e dal punto di vista di quest’ultimi, tale
cambiamento significa la chiusura di molte opportunità di espansione e diversificazione
della propria base produttiva. Di fatto la loro economia di esportazione si consolida entro
una nicchia di prodotti tropicali tipici, soggetti alle fluttuazioni dei prezzi internazionali e
alla forza contrattuale delle compagnie commerciali occidentali.

 Infine nei paesi poveri, entrano in movimento dei processi di acceleramento demografico
destinati ad accelerare nella seconda parte del secolo: la loro popolazione infatti
raddoppierà.4

3. l’economia dello sviluppo

La Carta Atlantica, sottoscritta da Churchill e Roosevelt, muove da una condanna


dell’espansionismo nazista che suona implicitamente come un allontanamento da qualsiasi forma
di impero coloniale, in omaggio all’antico principio di autodeterminazione dei popoli. Inoltre nella
seconda parte della Carta, si intende promuovere la progettazione di un ordine economico
mondiale in grado di stimolare il libero accesso alle risorse insieme ad un avanzamento economico
per tutti i paesi ricchi e poveri.

4
La cirsi del 29 aprì un periodo di recessione economica, poiché al crollo della borsa conseguì il crollo dei
prezzi, un aumento della disoccupazione, contrazione del commercio, fallimento di banche ed imprese
industriali. Col ritorno al protezionismo i governi si proposero di riservare i residui sbocchi di mercato alle
industrie nazionali e di tutelare gli interessi dei ceti agricoli che erano i più colpiti dal fenomeno generale
della caduta dei prezzi.
Nel ’41 vengono evidenziati quelli che sono i maggiori problemi che si oppongono allo sviluppo
delle colonie:
 Bassi prezzi dei cash crops di exp
 Interessi passivi del debito estero
 Assenze di capitali e di imprese
 Cattiva qualità delle istituzioni centrali e periferiche
Sono questi gli anni dell’istituzione della Food and Agriculture Organization (FAO) delle Nazioni
Unite, del Fondo Monetario Internazionale (FMI) fondato su cambi fissi tra oro e dollaro, oltre che
la Banca Mondiale5. L’FMI ha lo scopo di garantire la stabilità del nuovo sistema monetario,
concertando con gli stati membri le fluttuazioni di cambi tra valute internazionali e mettendo a
disposizione risorse finanziarie per risolvere eventuali crisi della bilancia dei pagamenti. Viceversa,
la Banca Mondiale è concepita come prestatore di denaro, per progetti di investimento finalizzati
allo sviluppo dei paesi poveri e alla ricostruzione dei paesi funestati dalla guerra. Pur facendo
parte delle Nazioni Unite, la Banca inizialmente esclude i paesi del blocco comunista e soprattutto
prevede un sistema di voto ponderato in base alla quota di contributi versati da ogni singolo
paese, che riserva in sostanza un vero e proprio diritto di veto del Presidente del USA nelle
decisioni della Banca, oltre che il suo “diritto” a nominarne il Presidente.

In questa generale atmosfera di entusiasmo, prende corpo l’economia dello sviluppo, che trova il
suo fondamento nel saggio di Rosenstein- Rodan, economista passato alla Banca Mondiale: egli
individua cinque aree arretrate (estremo e medio oriente, africa, america latina ed europa
orientale) il cui sviluppo è possibile attraverso investimenti esteri dei paesi ricchi, che abbiano un
obiettivo preciso: quello della diversificazione produttiva, innanzitutto agricola.

Ma la figura più rappresentativa degli esordi dell’economia dello sviluppo è Arthur Lewis, primo
professore di colore alla London School of Economics, il quale afferma che la penetrazione
coloniale produce economie dualistiche, composte da un settore avanzato export led di
piantagioni estensive, governate da compagnie straniere, e da un settore tradizionale fondato
sull’agricoltura di sussistenza ed autoconsumo delle unità produttive locali a conduzione familiare
e comunitaria. Tale regime di offerta illimitata di forza lavoro, consente un equilibrio di basso
livello, contraddistinto da bassi salari e bassi contenuti tecnologici. Lewis in tal modo afferma che
bisognerebbe puntare su:

- La “mass education”, cioè cospicui investimenti pubblici per una scolarizzazione di massa
a forte contenuto tecnico, capace di motivare i ceti rurali all’innovazione e di sostenere
l’incremento di produttività agricola nelle piccole proprietà familiari.
- Una “riforma agraria” che consenta la redistribuzione delle terre a favore dei contadini
espropriati dalle compagnie straniere e costretti a lavorare nelle piantagioni per
incrementare la produttività.

Il continente africano resta il fanalino di coda della classifica mondiale, sia per rendimenti della
terra, sia per produttività del lavoro, e condivide con l’Asia un sensibile ritardo nei processi di

5
Sistema di Bretton Woods ripristina un regime di cambi fissi, aggiungendo il dollaro (gold Exchange
standard) poiché vi era scarsità di oro in circolazione e molte nazioni non riuscivano a garantire una diretta
corrispondenza tra la quantità di oro detenuta e la quantità di banconote in circolazione a causa
dell’eccessiva emissione di denaro per sostenere le spese belliche. Inoltre il dollaro era l’unica moneta
abilitata a svolgere contemporaneamente il ruolo di moneta nazionale e valuta internazionale, cioè valuta di
riferimento per gli scambi.
meccanizzazione: per effetto di un incremento demografico record, la disponibilità di terre pro
capite si dimezza. Seppur l’Africa aumenta la superficie coltivata e il volume della produzione
agricola, si tratta solo di una rivoluzione estensiva, condizionata dalla carenza di capitali e
destinata a rivelarsi inadeguata data l’eccedenza di popolazione.

4. Decolonizzazione:

Ghana

Mel 1945 al quinto Congresso panafricanista emergono per la prima volta leader africani al posto
di quelli afroamericani. Tra di loro vi è Nkrumah, insegnante in costa d’Oro (Ghana), nonché
Presidente dopo il trionfo alle elezioni nel 1951. Il nome dato alla nuova nazione è Ghana, una
regione africana diversa da quella occupata dalla Costa d’Oro, ma significativo per il richiamo
orgoglioso ad una tradizione autoctona di stato forte e centralizzato. Raggiunta l’indipendenza nel
1957, profittando della favorevolissima congiuntura del prezzo internazionale del cacao avoca allo
stato stesso il surplus di entrate derivante dalle esportazioni di cacao, anziché favorire i produttori
indigeni locali. E’ una scelta che in parte riflette la preoccupazione per l’emergere di leadership
alternative, come quella della National Liberation Movement di Asante, ed in parte risponde ad
un’impostazione nazionalista di stampo occidentale, fondata su uno stato-nazione centralizzato
come strumento di lotta al tribalismo localista e alle sue tradizioni.

Obiettivi di Nkrumah sono

 Incremento e diversificazione della produzione agricola


 Processo di unificazione del mercato che conduca rapidamente al superameno delle
economie comunitarie di sussistenza ed autoconsumo.
Nel 1957 Lewis accetta un incarico di consigliere economico da Nkrumah. Il suo piano economico
quinquennale si muove da una logica di pianificazione leggera e graduata, finalizzata alla
mobilitazione dell’imprenditoria indigena. Proposta troppo distante dall’idea di sviluppo
industrialista e pianificato di Nkrumah (per contro Lewis sosteneva uno sviluppo ruralista e
cooperativo), come dimostra la costruzione della diga di Akasombo, per una cifra che raddoppia
l’importo originario dell’intero piano quinquennale. Anche la scelta del partito unico non è
condivisa da Lewis (il divorzio tra i due appare consensuale al termine del primo mandato), che
scoraggia la crescita di forme intermedie di rappresentanza e finisce per cristallizzare le divisioni
della società civile6. In effetti, la maggior parte delle èlite che guidano i processi di indipendenza in
Africa prediligono il modello della “political consolidation”, cioè la stabilizzazione politica ottenuta
tramite la forte tassazione del ceto medio rurale per garantire le entrate del nuovo stato, ma nello
stesso tempo prevenire anche la formazione di centri di potere economico potenzialmente
antagonisti ed alternativi. La stessa scelta compita nel 1963 dalla Prima Conferenza
dell’Organizzazione dell’Unità Africana di ratificare i confini fissati dalla conferenza di Berlino,
nasce proprio da una fiducia nello stato nazione di importazione occidentale come leva di
modernizzazione a tutto discapito delle radici e del passato indigeni.
Questo urban bias, pregiudizio urbano, si rivela capace di condizionare fino ai giorni nostri le
politiche economiche, con forti problemi di legittimazione e consenso per i ceti politici dei paesi in
via di sviluppo. Ricerche econometri che evidenziano come le carestie siano più frequenti nei paesi

6
Nel 66 Nkrumah verra rovesciato involuzione politica in senso autoritario
con governi autoritari e corrotti, fondati su un patto sociale con i ceti urbani del pubblico impiego
e delle forze armate, che esclude il mondo agricolo più povero e meno dotato di rappresentanza
politica. Ora gli studiosi convengono nel raffigurare lo stato postcoloniale africano, come una
traduzione drammaticamente involutiva dello stato-nazione di origine europea: un “quasi
stato” neopatrimoniale, entro cui una formale istituzione governativa di imitazione occidentale,
si accompagna con la sostanziale autorità di governi personali e autocratici, fondati sul
nepotismo e la corruzione, esercitati a favore di una componente etnica della popolazione
contro le altre.
Tale degenerazione viene spiegata diversamente:

- Da un lato vi è chi attribuisce tale degenerazione nella mancanza di una politica


redistributiva delle risorse in direzione dello sviluppo.
- Dall’altro, si enfatizzano le pesanti responsabilità dell’impero coloniale nella cooptazione
di èlite indigene che si prestano al mantenimento di rapporti economici ineguali seppur
informali.

Costa D’Avorio

Qui il leader del movimento indipendentista, Boigny, apertamente anticomunista, emerge dalle fila
dei produttori indigeni di cacao: il suo partito democratico appare meno dipendente dalle elite
urbane rispetto a Nkrumah. La costa d’avorio, ex colonia francese, aveva visto incoraggiata
l’emersione di una elite terriera che aveva sostenuto Boigny e le sue politiche in favore del
mercato e dell’agricoltura. In ghana al contrario, le istituzioni britanniche contribuirono a creare un
ceto di piccoli contadini, incapace di mobilitarsi politicamente. Questo aveva impedito loro di
opporsi alle scelte di Nkrumah. Boigny e nkrumah, anche se ideologicamente opposti, erano
accomunati dalla scelta del partito unico e dalla restrizione di liberta e di pluralismo. Ma il
sostegno offerto dal leader ivoriano alle elite rurali si era tradotto in risultati migliori in termini di
SVILUPPO ECONOMICO che era maggiore di quello ghanese, incoraggiando e sostenendo
l’industria del cacao, laddove il ghana cercava di ridimensionarla.
Fino ai primi anni settanta la differenza cruciale tra i due paesi risiede nell’andamento della
produttività agricola (in aumento in Costa d’Avorio e diminuzione in Ghana) oltre ad una
significativa diversificazione delle esportazioni attuata dalla Costa d’Avorio (exp in aumento
costante) rispetto al Ghana (diminuzione costante). Quindi la differenza fondamentale viene dalla
politica interna e quindi dal modo differente di aprirsi ai mercati internazionali. Sebbene tuttavia i
benefici del governo di Boigny vengano assorbiti in misura prevalente dalla minoranza agiata della
popolazione: nel 1975 l’indice di sviluppo umano è maggiore in Ghana rispetto alla costa d’avorio
per effetto di una maggiore efficienza del sistema scolastico e sanitario.

In definitiva la decolonizzazione arriva in un periodo storico di forte incremento demografico, per


cui il problema dello sviluppo si deve confrontare con un’emergenza costante, con la quale devono
fare i conti i leader politici e le loro scelte. Ma non si tratta di un vincolo assoluto: paesi come il
Ghana e la Costa d’Avorio mostrano come politiche economiche differenti, producono risultati
differenti.
Capitolo VIII
Il paradigma industrialista

 La guerra fredda

Alla fine della WW2 nasce una nuova disciplina scientifica definita economia dello sviluppo :
sviluppo dei paesi poveri che si intreccia alle vitali necessità statunitensi di contenimento del
pericolo sovietico e alla prevenzione di ogni possibile crisi di sovrapproduzione e crisi deflattiva,
come quella del ’29. La guerra fredda conferisce alla nascente economia dello sviluppo una
strumentalità esterna finalizzata alla gestione dei rapporti tra centro e periferia di un’area di
influenza, diversa dai vecchi imperi coloniali ma pur sempre legata a tutele e condizionamenti di
potere. In questo passaggio storico il tema dell’ineguaglianza tra le nazioni acquista una nuova
dimensione: ciò che fino a quel momento è stato trattato come problema interno alle necessità
degli imperi coloniali, diventa materia cruciale per la rifondazione di equilibri internazionali sulla
base del nesso pace e sviluppo. La storia dell’economia dello sviluppo è la storia del susseguirsi di
“paradigmi”, cioè teorie dominanti che orientano individui e istituzioni , fino a quando non
irrompe dall’esterno un riorientamento che mette in discussione il paradigma precedente e lo
sostituisce con uno nuovo. Il piano Marshall si inserisce proprio in questo quadro complessivo di
rilancio delle economie dei paesi poveri. Tuttavia i primi destinatari della generosità statunitense
nono sono i paesi poveri, bensì quelli dell’Europa Occidentale (13 mld di dollari), i quali hanno
economie sviluppate in fase di incipiente ripresa, allo scopo prioritario di risolvere i loro deficit
commerciali e consentire così le importazioni necessarie dall’area del dollaro, stabilizzando le altre
valute e garantendo la crescita del commercio atlantico. Il rilancio delle economie europee (che le
ricerche recenti tendono ad attribuire prevalentemente a motivi endogeni piuttosto che agli aiuti
statunitensi) viene portato a conferma del
 modello Harrod-Domar, secondo cui la crescita dei paesi in via di sviluppo è questione di
“big push”, cioè una potente spinta esterna data da pesanti iniezioni di capitali e
tecnologie. Si fissa così un prima paradigma dell’economia dello sviluppo, caro soprattutto
all’analista finanziario Nurkse, sostenitore della teoria secondo cui il cuore del problema è
rappresentato dalla formazione di capitali. Questo modello parte dell’assunto che poiché
arretratezza e povertà generano una trappola di basso equilibrio, non vi sono capitali;
dunque l’assenza di capitali deve essere colmata attraverso un intervento esogeno che
apporti capitali e tecnologie.

 Negli anni cinquanta la materia dell’economia dello sviluppo si colora di ideologia politica:
un esempio è la contrapposizione al termine tecnico utilizzato da Rodan, cioè “aree
arretrate”, con una nuova terminologia che definisce tali aree come “underdevelopment
countries”, paesi sviluppati, coniato per primo da Gunner Myrdal. Quest’ultimo, partendo
dall’analisi dell’ineguaglianza interna negli USA tra bianchi e neri (che secondo lui può
essere risolta solo tramite la redistribuzione del reddito) tende a sostenere un nuovo
approccio a livello globale dell’economia dello sviluppo: l’inclusione della demografia
nell’ambito teorico-pratico della scienza economica. Senza un intervento dello stato
redistributivo la disparità razziale è destinata a riprodursi. Il suo punto di partenza
coincide con l’idea dell’insufficienza del free trade come strumento naturale di diffusione
della modernità industriale, aggiungendo a ciò l’elemento drammatico della rivoluzione
demografica in atto nei paesi a basso reddito: senza una strategia di contenimento delle
nascite si rischia di provocare una circolazione causale viziosa della povertà, riducendo
ulteriormente le risorse a disposizione di ciascuno. Per Myrdal allora, sono i governi dei
paesi poveri a dover prendere in mano il destino delle proprie nazioni, senza importare
modelli dalla storia dei paesi occidentali, ma senza nemmeno contare sugli aiuti delle
nazioni ricche. Viene così suggerito un nuovo campo d’azione per i governi : FONDAZIONE
CUMULATIVA DELLO SVILUPPO basato su politiche di controllo delle nascite,
nazionalizzazione dei servizi pubblici, impulso alle exp di manufatti industriali, formazione
del capitale umano attraverso la scolarizzazione di massa.

 Nonostante l’elaborazione di queste tesi resta dominante il PARADIGMA INDUSTRIALISTA:


l’industrializzazione appare il motore determinante per produrre una distribuzione più
equa della ricchezza nazionale rispetto al passato, in accordo con il modello della
rivoluzione industriale proposto da Kuznets. Lo dimostra il fatto che nell’immediato
dopoguerra, i paesi ricchi e industrializzati vantano una distribuzione del reddito più equa
di molti paesi poveri. Come osserva Singer, membro del segretariato delle NU, un paese
sottosviluppato è povero perché non ha industria; e un paese sottosviluppato non ha
industria perché è povero. E questa povertà dipende soprattutto dalla carenza di capitali,
tecnologie, scolarizzazione e dall’incremento demografico. Quest’ultimo in particolare,
rischia di somigliare ad una “trappola maltusiana” che, senza una crescita produttiva
parallela e proporzionata, come la rivoluzione industriale di primo ottocento, rende i
paesi a basso reddito simili a chi tenta di salire al contrario su una scala mobile che
scende.

E’ questa la c.d. ETA’ DELL’ORO: (POST ww2 --- ANNI 70) :


 fiducia nella grande industria come fulcro di sviluppo ed emergenza demografica
 espansione senza precedenti del commercio internazionale nel secondo dopoguerra,
favorita dal sistema di Bretton Woods
 progressiva riduzione delle barriere doganali tra i paesi ricchi
 aumento del benessere e dell’ottimismo
 aumento massiccio di investimenti nell’industria
 l’aumento dello scambio di manufatti e semilavorati industriali
In realtà, l’import-export mondiale sembra segnato da una linea divisoria tra Nord e Sud: i prodotti
industriali rappresentano la maggioranza delle esportazioni dei paesi ricchi, seguendo tuttavia una
direttrice Nord-Nord, mentre le materie prime seguono la direttrice Sud-Nord. Ciò vuol dire che il
commercio Sud-Sud rimane marginale nella crescita degli scambi globali. Accanto a questa
posizione di svantaggio sui mercati internazionali, per i paesi poveri si profila un’altra, inedita
difficoltà: il ristagno dei capitali stranieri. Infatti mentre la quota di investimenti esteri globali
raddoppia, la parte destinata ai paesi poveri rimane stabile, poiché i grandi paesi investono
“orizzontalmente”, impiantando repliche di sé stesse nei paesi e nei mercati più idonei a recepire i
loro prodotti. La vicinanza del consumatore diventa più importante della vicinanza delle materie
prime e della forza lavoro a basso costo.

 Economia dello sviluppo e scienze umane

 Dinanzi questo quadro, Singer è uno dei primi formulare la tesi (contraria al teorema
ricardiano dei vantaggi comparati, secondo cui il libero mercato premia lo scambio delle
risorse naturali a disposizione di ciascuno) del deterioramento delle ragioni di scambio tra
manufatti industriali e materie prime. Si va delineando così il “paradigma di sostituzione
delle importazioni”: senza una barriera doganale contro l’afflusso di importazioni di
manufatti dai paesi ricchi, diventa impossibile far crescere l’industria nei paesi poveri.

 Ad elaborare in forma più compiuta tale passaggio è un funzionario della Federal Reserve,
Hirschman, il quale considera insufficiente il modello Harrod-Domar in situazioni, come
quelle del Terzo Mondo, dove non esistono o sono minime, le energie imprenditoriali. Lo
sviluppo, secondo Hirschman, non consiste solo nella semplice rimozione di ostacoli per
liberare capacità latenti, né al trasferimento naturale di risorse umane e finanziarie da
settori arrestrati verso settori moderni, ma consiste in una “crescita sbilanciata” diretta dal
potere politico a tutto vantaggio del settore moderno industriale. Tale concetto si lega con
l’argomento di “un’industria nascente di stato” non necessariamente protetta da vincoli
doganali: anzi le importazioni, possono favorire in una prima fase la crescita industriale. Il
protezionismo dettato dalla “sostituzione delle importazioni” può essere efficace invece,
solo in un secondo momento, quando il decollo industriale è ormai in peno corso. deve
essere lo stato a sostituire il ceto imprenditoriale per avviare il decollo industriale
(pianificazione economica).

Il nesso tra pace e prosperità sancito dalle Nazioni Unite come principio della ricostruzione
postbellica, cancella (almeno sulla carta) ogni idea di equilibrio gerarchico del mondo e ogni
possibile distinzione tra civilizzatori e civilizzati. In questo senso, sotto la spinta del progetto
Unesco di costruire una “storia dell’umanità”, vi è una nuova impetuosa carica stimolata sull’onda
del processo di Norimberga, che conduce il tribunale alleato alla formulazione di una nuova figura
giuridica: il crimine contro l’umanità, cioè il tentativo di sopprimere ogni gruppo (etnico, religioso,
etc.) componente il genere umano, si configura non più solo come un crimine contro le
popolazioni, ma come un crimine contro la “biodiversità”, e quindi un crimine contro la ricchezza e
il patrimonio dell’umanità. Appare allora una forte contraddizione tra l’ascesa economica
dell’Occidente e le ambizioni politiche di indipendenza dei paesi poveri, che si aggiungono alle
rivendicazioni di progresso. Si apre così nel periodo della guerra fredda, una polarizzazione
fortemente ideologica:

- Da un lato, l’Occidente torna ad una versione dura del “paradigma della modernizzazione”
sostenendo che il sottosviluppo è solo una questione di mero ritardo nel processo di
industrializzazione, che Europa e Nord America indicano al resto del mondo. Un esempio è
la formulazione di un piano sequenziale a stadi del processo di industrializzazione (decollo,
maturità tecnologica, consumi di massa) proposto da Rostow.
Dall’altro, l’antico “paradigma nazionalista” e nuovo “paradigma industrialista-protezionista”, si
coniugano negli studi della “dependency school”, che negli anni sessanta radicalizza il tema della
dipendenza e della funzionalità reciproca tra sviluppo dei paesi ricchi e sottosviluppo dei paesi
poveri. Attraverso lo scambio ineguale di manufatti con materie prime, il neocolonialismo
informale dell’economia sostituisce il colonialismo formale degli imperi. La strada dei paesi poveri
verso il progresso si configura come necessariamente alternativa e antagonista a quella liberale
percorsa dal mondo occidentale: pianificazione statale dello sviluppo, redistribuzione egualitara
dei redditi e delle proprietà, solidarietà commerciale e tecnologica tra le nazioni del Terzo Mondo.
BARRIERE DOGANALI E INDUSTRIA DI STATO le parole d’ordine.

 America Latina

Per le ex-colonie asiatiche ed africane l’adozione di barriere doganali nel secondo dopoguerra
rappresenta una sostanziale novità rispetto al “free trade” imposto dai regimi coloniali, mentre per
le ex-colonie latinoamericane, indipendenti da oltre un secolo, tali misure costituiscono una
pratica ordinaria esercitata con successo fin dall’Ottocento. Tale esperienza protezionistica
ottocentesca accompagna una precoce e significativa divergenza tra Sud America e resto dei paesi
poveri, poiché la crescita del prodotto pro-capite latino americano tra il 1870-1913 è eguagliata
solo dagli USA. Inoltre tra 1870-1950 l’America Latina raddoppia la sua quota di popolazione
mondiale ma triplica quella sul prodotto lordo globale. La crisi del 1929 poi segna una drastica
inversione di un ciclo sostanzialmente positivo delle ragioni di scambio che ha premiato a lungo le
importazioni dall’America meridionale. Ne deriva un generalizzato aumento delle barriere tariffarie
che, tra gli anni trenta e quaranta, si lega all’insediamento di governi ad impronta nazionalista e
populista )Cabrenas in Messico, Peron in Argentina, Paz Estenssoro in Bolivia). A sancire il drastico
isolamento del Sud America intervengono anche il drastico calo degli investimenti esteri e la
diminuzione secca del commercio. Le politiche populiste qui, rappresentano un caso particolare di
“urban bias”: imprenditori industriali legati allo stato e lavoratori sindacalizzati danno vita ad
alleanze eterogenee, incentrate su ideologie nazionaliste. Supporto cruciale di queste ultime è
spesso le nazionalizzazioni delle risorse naturali. Grande risonanza ebbe l’esproprio delle
compagnie petrolifere statunitensi in Messico, attuato dal presidente Cardenas, senza eccessive
resistenze da parte del governo statunitense (che richiese solo un indennizzo), dimostrando così
un forte calo del potere contrattuale esercitato dalle grandi imprese multinazionali nei confronti
sia dei governi che ospitano i loro investimenti, sia dal governo che ospita la loro casa madre.
Rispetto al Terzo Mondo, l’America latina si differenzia per il nesso tra indipendenza politica ed
industrializzazione: se in Africa e in Asia gli addetti al settore industriale sono solo il 6-7% della
forza lavoro totale, in America Latina, sfiorano il 21%, il che l’avvicina alla situazione del resto del
mondo sviluppato. Stesso discorso se si utilizza come dato comparativo l’urbanizzazione: in Asia e
in Africa la popolazione urbana corrisponde a meno di un quinto della popolazione, in America
Latina la quota di abitanti die centir urbani (41%) non è molto lontana da quella dei paesi
sviluppati (52%). Secondo Priebisch, direttore della Economic Commission for Latin America, il
deterioramento delle ragioni di scambio, rende urgente nei paesi poveri l’adozione di misure
protezionistiche, indispensabili per lo sviluppo di una base industriale capace di sostenere e
soddisfare una domanda interna crescente e diversificata. Tuttavia molto spesso, tali politiche
protezionistiche risultano rappresentare più un modo rapido e facile (ed elettoralmente meno
costoso dell’imposizione fiscale) di reperire risorse per i governi centrali, più che un disegno
organico di industrializzazione. Il risultato è che, fin dalla metà dell’Ottocento, le èlite politiche
sudamericane accentrano una ricchezza, la cui distribuzione risulta fortemente sperequata, sia
rispetto ai livelli medi dei paesi ricchi relativi all’ineguaglianza interna, sia rispetto a quelli dei paesi
poveri. Secondo i dettami della curva di Kuznets, il processo di industrializzazione avviato in Sud
America dovrebbe pian piano sottrarre quote di reddito al settore agricolo tradizionale,
contribuendo cos’ ad un calo dell’ineguaglianza complessiva. Ma in effetti, le èlite agrarie si
riciclano, monopolizzando le opportunità di investimento industriale e conservando rapporti
privilegiati con le istituzioni da cui ottengono favori (licenze, concessioni, sgravi fiscali), più vicini
alla corruzione che non ad una effettiva pianificazione, mentre i piccoli contadini vanno ad
alimentare le sacche di economia informale e di lavoro nero nelle città, mantenendo così bassi i
livelli di capitale umano. Nel corso degli anni sessanta tale ineguaglianza si radicalizza (stimolata
dalla rivoluzione cubana) favorendo una involuzione autoritaria delle istituzioni. A partire dal 1962
si apre un ciclo di golpe militari che mette fine alla storia democratica del continente, ad eccezione
del Messico.

Proprio tali avvenimenti mettono in luce la debolezza del “paradigma di sostituzione delle
importazioni”, il quale porta scarsa attenzione al problema dell’ineguaglianza interna, che deriva
da un eccessiva fiducia kuznetsiana nella innata e naturale capacità del libero mercato di far
gocciolare sviluppo e ricchezza verso la parte più bassa del corpo sociale.

 Le vie dell’Asia

Corea sud-taiwan

Solo i paesi asiatici di nuova industrializzazione, guidati dalla Corea del Sud, riescono a ricalcare
l’esempio del Giappone, fondato sul modello di sviluppo export led del settore industriale:

 Integrazione nel mercato mondiale


 Sostegno dello stato alle imprese private
 Forti investimenti pubblici nella scolarizzazione, per la formazione di una classe operaia
qualificata
 Bassa qualità democratica delle istituzioni

Ma paesi come Corea del Sud e Taiwan sono accomunati anche dalla presenza di barriere
doganali, in vigore fino alla metà degli anni 60, e da riforme agrarie particolarmente incisive che
abbassano drasticamente i livelli di ineguaglianza rurale. Riforma agraria e scolarizzazione
consentono lo sviluppo di attività extra agricole e una modernizzazione industriale più equilibrata
e graduale, riuscendo a conquistare quote crescenti nell’export mondiale di manufatti industriali.
MIRACOLO ASIATICO

Cina
La Cina comunista incarna una variante traumatica del paradigma di sostituzione delle
importazioni, tramite il “Grande balzo in avanti” che condensa in tale parola d’ordine, lo sforzo di
autonomia dal modello sovietico. Le comuni rurali infatti rappresentano un’alternativa più
egualitaria rispetto alla panificazione forzata e pesante condotta da Stalin, mirante a stimolare
l’autosufficienza economica. Si tratta di superficie ad uso comune fondate sulla convivenza di
metodi produttivi tradizionali e moderni su scala domestica, come le fornaci di cortile. Ma la
confisca di ogni residuo di proprietà privata e di iniziativa privata in aggiunta alla frammentazione
dei centri di potere decisionale determina una caduta della produzione industriale, a cui seguì una
spaventosa carestia che mette in ginocchio l’agricoltura e spinge la Cina a massicce importazioni di
cereali. 7

India

In India invece, il Presidente Nehru fissò la lotta alla povertà come obiettivo prioritario della
politica economica governativa. La sua visone industrialista è antitetica a quella di Gandhi: la via
maestra da seguire infatti per Nehru, è quella della migrazione di forza lavoro dal settore agricolo a
quello industriale a capitale pubblico. Ma a metà degli anni cinquanta i risultati appaiono tutt’altro
che soddisfacenti: il drenaggio di risorse dall’agricoltura verso le nuove industrie pesanti di stato
peggiora i redditi contadini e sfavorisce i consumi dei prodotti dell’industria leggera. La quota di
addetti al settore secondario cresce di poco e rimane lontana a quella dei paesi come la Corea del
Sud. Anche il secondo piano quinquennale riflette una filosofia nazionalista di autarchia e scarsa
fiducia nelle exp, che continua a fondarsi sulla centralità dell’industria pesante. Ma l’andamento
non cambia e anzi le pesanti barriere tariffarie imposte al commercio internazionale penalizzano le
esportazioni indiane, mentre aumentano i costi della burocrazia pubblica sempre più estesa. A tale
bassa performance economica fa paradossalmente riscontro un alto grado di coesione sociale, che
fa sorgere una profonda differenza di qualità istituzionale tra l’India e la Cina: nonostante conflitti
sanguinosi a sfondo religioso e crisi internazionali ripetute, la più grande democrazia del mondo
tiene nel tempo. Il grave ritardo dell’India rispetto alle altre nazioni asiatiche, risiede nella ridotta
capacità infrastrutturale e sociosanitaria, nonché dalla particolare condizione di esclusione delle
donne, sia dalla vita economica che da quella scolastica. L’obiettivo prioritario della lotta alla
povertà risulta disatteso. Fino alla rivoluzione verde alla fine degli anni 60, la povertà dell’India si
collega strettamente alla bassa produttività delle campagne. Che si ricollega al tipico hindu
equilibrium di baso livello che è destinato a riprodursi nel tempo. Già all’inizio degli anni settanta
numerosi studi econometrici dimostrano la correlazione lineare tra chiusura commerciale,
sottosviluppo e mancata riduzione della povertà, determinate dal “paradigma nazionalista –
industrialista”.

7
La fallimentare politica agraria del Grande balzo, che ridusse le forniture alimentari a livelli da carestia, fu
seguita da una graduale de-collettivizzazione negli anni sessanta e in seguito alle riforme di Deng Xiaoping
dopo il 1978.
Capitolo IX
Il capitale umano

o Il primo decennio dello sviluppo

Nel corso degli anni 60 la parola sviluppo diventa la parola chiave delle nazioni unite e di molte
altre organizzazioni che nascono con questa missione specifica:
 Nel 64 nasce il Gruppo dei 77 dove una serie di nazioni africane, latino americane,
mediorientali e asiatiche, firmano una dichiarazione congiunta sulla salvaguardia degli
interessi commerciali dei paesi poveri, che si sovrappone in parte al movimenti dei paesi
non allineati della Jugoslavia, Egitto e India.
 Nel 64 nasce il programma di sviluppo delle Nu con lo scopo di razionalizzare la
trasmissione di tecnologie e conoscenze finalizzate alla pianificazione della crescita
economica
 Nel 1965 prende nasce la UNIDO (org. Delle NU per lo svil. Industr.) con l’obiettivo
specifico di favorire i processi di industrializzazione dei paesi meno sviluppati.
L’economia dello sviluppo conosce così un processo di burocratizzazione tuttavia tra la politica
delle istituzioni internazionali e il dibattito sull’economia dello sviluppo si apre però una
divergenza: mentre la prima continua a seguire il “paradigma industrialista”, il secondo ne avvia
una revisione che poggia su due punti fondamentali:

- La rivalutazione dell’agricoltura come fattore di sviluppo;


- L’innalzamento qualitativo del capitale umano come condizione indispensabile per il
decollo industriale;

L’opera di maggior impatto in tal senso è quella di Schultz, il quale sostiene che la comunità rurale,
possieda livelli di razionalità ed efficienza produttiva capaci di rivelarsi indispensabili complementi
dinamici al processo di industrializzazione. Tale attenzione al settore primario e alla piccola
proprietà come fattori determinanti per la crescita, serve per mettere in discussione non tanto il
paradigma della modernizzazione occidentale, quanto la possibilità imitativa dello stesso da parte
dei paesi poveri. Altro tema molto caro in tal senso, è quello della formazione del capitale umano:
infatti, senza di esso, le tecnologie più complesse rischiano di rimanere sottoutilizzate: la scuola, in
altre parole, si colloca accanto alla famiglia e alla comunità come strumento alternativo di crescita
economica dei paesi sottosviluppati. Tale nesso tra istruzione e sviluppo comincia a riverberare
anche negli Stati Uniti che, dopo il lancio sovietico dello Sputnik, deve effettuare una doverosa
autocritica, accorgendosi di un vero e proprio ritardo tecnologico che viene imputato
all’inefficienza del sistema scolastico nazionale.

E’ in tale clima che Gary Baker arriva ad elaborare la categoria degli “human capital”:
l’investimento nella scolarizzazione dei figli, si dimostra economicamente razionale e
vantaggioso, quando il tasso di fecondità cala e il mercato del lavoro premia con vantaggi
retributivi la manodopera qualificata e le professioni specializzate. Esiste un caso specifico che
con crescente evidenza conferma sul campo questi orientamenti teorici: l’”effetto Fenice” messo in
mostra soprattutto dal Giappone, i cui ingredienti base sono risparmi, capitale umano e
tecnologia. Infatti la scolarizzazione di massa accompagna l’urbanizzazione della forza lavoro; la
parcellizzazione della proprietà terriera garantisce una tradizionale compattezza culturale, assieme
a bassi livelli di ineguaglianza e disoccupazione; la semplicità del tenore di vita dei giapponesi
permette alti tassi di risparmi e investimenti; l’asse tra governo politico dell’economia e le grandi
aziende private sostiene una pronta ricezione delle innovazioni tecnologiche, oltre che una
crescita delle esportazioni di manufatti senza eguali al mondo. Ma Singer mette in guarda dalla
facile illusione che tale esempio possa fare da guida al resto del Terzo Mondo: infatti, il costo degli
investimenti per il sistema scolastico (che in Giappone ammontano al 7-8% del PIL) rischia di
sottrarre risorse ad altre emergenze difficilmente rinviabili, come la nutrizione e la sanità.

2. Scolarizzazione di massa

A partire dagli anni ’50 si registra una straordinaria accelerazione del processo di scolarizzazione di
massa: tra 1960 e 1990 la quota di paesi con obbligo scolastico primario passa dal 28 al 90% e del
tutto rilevante appare lo sforzo dei paesi poveri in termini di risorse pubbliche destinate
all’istruzione, anche l’africa sub sahariana impiega stabilmente una quota del prodotto interno
lordo nell’istruzione. Puntualmente però, le indagini locali sul campo, rintracciano nei paesi poveri
(ma anche in quelli ricchi) gravi deficit nella preparazione degli studenti. Il caso emblematico è
rappresentato dall’India dove, nonostante il 93% dei bambini risulti essere iscritto alle scuole
elementari, in realtà oltre un terzo di essi non riesce a leggere e quasi la metà ha problemi con la
matematica. Vi è comunque un largo accordo tra gli studiosi nello stimare una significativa
riduzione percentuale del tasso di analfabetismo tra il 1960 e il 2000, riduzione confermata da un
aumento degli anni medi di scuola pro capite a livello mondiale che si concentra nei paesi in via di
sviluppo ma con significative differenze interne. Il problema è dunque, la qualità dell’istruzione
impartita, nonché dalla sua capacità di migliorare effettivamente le condizioni di lavoro e di vita
delle persone che ne beneficiano. L’elaborazione dei dati Unesco sembra confermare che il cuore
della battaglia sul fronte scolastico, si colloca nel passaggio dal ciclo primario dell’istruzione a
quello secondario. Evasioni e abbandoni dell’obbligo scolastico si sommano ai mancati
proseguimenti negli studi, determinando un ritardo complessivo particolarmente pesante nel caso
dell’Africa Subsahariana dove i tassi di scolarizzazione sembrano funzionare a corrente alternata,
soprattutto nelle nazioni che vedono il registrarsi di cruenti conflitti armati (Etiopia, Somalia,
Rwanda, Mozambico). Ma in questa area, incide anche la contrazione della spesa pubblica
destinata all’istruzione, determinata dalle disposizioni di BM e FMI, che subordinano la
concessione di prestiti al ridimensionamento del deficit pubblico: ma in queste zone, data la
generalizzata povertà e l’impossibilità di elevare la pressione fiscale, il pareggio di bilancio si
traduce in tagli alla spesa pubblica. L’efficienza del sistema scolastico appare come una variabile
dipendente, soggetta a dinamiche esterne capaci di condizionarne profondamente l’evoluzione. La
rimonta dei paesi asiatici in tal senso, sussiste grazie alla presenza di fattori esterni, quali una
diversa stabilità delle istituzioni, una più ridotta crescita del numero di giovani in età scolare, come
anche ritmi più intensi di crescita economica che si riflettono in una più ampia disposizione delle
famiglie a spendere per la scuola dei propri figli. Quindi istruzione dei genitori e reddito familiare
contribuiscono a spiegare l’aumento di scolarità, in misura molto maggiore di altri variabili
(distanza dalla scuola, etc.). Del resto, anche la storia dei paesi più sviluppati mostra un medesimo
nesso causale tra crescita economica e diffusione della scolarità: infatti, studi dimostrano che solo
una parte dello sviluppo educativo statunitense può essere attribuita all’entrata in vigore di leggi
sull’obbligo scolastico e contro il lavoro minorile; l’incremento della scolarizzazione secondaria
dipende invece principalmente dall’aumento e dalla ripartizione della ricchezza.

3. Scolarizzazione e sviluppo

Le agenzie internazionali come la BM e il FMI lavorano sulla base di modelli teorici della
“razionalità economica dell’investimento pubblico e privato in istruzione, i cui ritorni attesi si
misurano in termini di incremento della produttività del lavoro e delle retribuzioni della forza
lavoro più qualificata e scolarizzata. Ne sono esempi il Messico e il Brasile, dove i lavoratori che
hanno completato il ciclo di istruzione primario guadagnano mediamente il doppio dei lavoratori
senza titolo di studio. Il problema è che i modelli reagiscono male alle verifiche sul campo,
soprattutto in situazioni, come spesso quelle dei paesi meno sviluppati, di forte instabilità del ciclo
economico, dei salari reali, delle politiche governative, della stessa qualità di istruzione fornita.

Caso emblematico è quello dello Zimbabwe che, negli anni ottanta, investe più di qualunque altro
paese al mondo nella scuola: il tasso di analfabetismo crolla dal 40 al 15%, ma a questo balzo
straordinario della scolarizzazione corrisponde però il ristagno del reddito medio pro capite delle
famiglie e del numero dei posti di lavoro. Il risultato è un aumento della disoccupazione e un
drastico taglio alla spesa pubblica per l’istruzione all’inizio degli anni novanta. Una scolarizzazione
senza sviluppo è inevitabilmente destinata a incentivare il “brain drain”, cioè la fuga delle èlite
universitarie, contribuendo paradossalmente all’impoverimento dei paesi a basso reddito.
Naturalmente sostenere che il nesso causale tra scolarizzazione e sviluppo procede in misura
preponderante dal secondo al primo non significa sostenere che gli investimenti nel sistema
scolastico siano inutili poiché la presenza di una forza lavoro qualificata rimane condizione
necessaria, anche se non sufficiente, per generare produttività e sviluppo. Ma a pesare ancora
molto sull’ineguaglianza globale in materia di istruzione, è anche una differenza di genere
provocata dal pregiudizio: si stima infatti che circa due terzi degli analfabeti globali, siano donne.
L’aspirazione di una scuola primaria globale si scontra quindi con processi di esclusione, frutto di
radicate tradizioni culturali che si rafforzano in situazioni di povertà. E’ ampiamente documentato
che la scolarizzazione delle madri è strettamente collegata all’abbattimento dei tassi di mortalità
infantile. In assenza di un contenimento delle nascite, questo incremento del numero di minori
complica ulteriormente la prospettiva della loro scolarizzazione universale: la scarsità delle risorse
rende più probabile l’esclusione della scuola delle figlie femmine. Allo stesso tempo però che la
scolarizzazione delle donne e il conseguente aumento di potere contrattuale all’interno delle
famiglie, è anche correlata ad una migliore redistribuzione delle risorse ed un abbassamento dei
tassi di denutrizione. Non solo: madri più istruite corrispondono anche ad una maggiore capacità
di controllo delle nascite e di esercizio del diritto ad una maternità consapevole. Meno ragazze che
accedono al ciclo secondario di istruzione sono correlate a cicli più alti di fecondità. A loro volta,
famiglie meno numerose permettono di concentrare la spesa per la qualità di educazione dei figli,
riproducendo attraverso le generazioni la tendenza ad una mobilità sociale verso l’alto. Il ruolo
della donna appare spesso cruciale per garantire che gli incrementi di reddito siano investiti nel
miglioramento delle condizioni di vita e di scuola dei figli. La scuola si colloca così alla radice dei
processi di “emancipazione” femminile e di miglioramento delle statistiche vitali di base nei paesi
poveri. Quanto il livello di ricchezza rappresenti la variabile indipendente, lo si vede dai dati relativi
ai bambini che lavorano anziché studiare: in situazioni di scarsità di reddito e di perdurante
pressione demografica, l’investimento scolastico è costretto a competere con l’investimento nel
lavoro minorile. La loro presenza si concentra per 2/3 in Asia e ¼ in Africa Sun sahariana. Nel 1989
le Nazioni Unite approvano una Convenzione sui diritti dell’infanzia, che invita i Paesi membri a
fissare un’età minima per l’ingresso sul mercato del lavoro. I rappresentanti di molti paesi in via di
sviluppo (guidati da India, Brasile ed Egitto), si oppongono alla misura, ritenendola una minaccia
alla propria competitività internazionale nel campo delle esportazioni di manufatti industriali a
basso prezzo. Dal 1997 in seguito ad un accordo tra Nike, Reebook, Nazioni Unite e governo
pakistano, si è riusciti a far partire un progetto che è effettivamente riuscito a cancellare il lavoro
minorile dall’industria produttrice di palloni da calcio, tramite l’eliminazione del lavoro a domicilio
e la predisposizioni di servizi prescolastici che sono serviti a far iscrivere alla scuola primaria circa
5000 bambini che prima lavoravano. E’ bene ricordare che anche negli odierni paesi ricchi la
strada per abolire il lavoro minorile è stata lunga: infatti, il ricorso al lavoro dei bambini e donne
rappresentava uno strumento di pressione contrattuale sulle retribuzioni della manodopera adulta
maschile, il cui ribasso genera a sua volta un circolo vizioso di depressione dei bilanci domestici
delle famiglie di lavoratori e la conseguente necessità di impiegare in fabbrica anche i bambini. Al
contrario, il mutamento culturale che sottende le leggi contor il lavoro minorile adottate a cavallo
tra otto e novecento marcia di pari passo con processi anche molto diversi tra loro: il rialzo dei
salari reali, la riduzione dei tassi di fecondità, l’evoluzione tecnologica del lavoro industriale e la
conseguente richiesta di personale qualificato ecc.

4. scuola e ineguaglianza

L’utilizzo di lavoro minorile si ricollega alle c.d. trappole legate ad equilibri di basso livello,
garanttiti e riprodotti nel tempo da economie comunitarie e familiari di sussistenza. Ad esempio in
Brasile ed Etiopia, dove manca l’accesso all’acqua pulita, i tassi di iscrizione alla scuola primaria
calano perché il rifornimento idrico diventa una gravosa incombenza quotidiana che le famiglie
addossano ai figli. In Vietnam, al contrario, l’aumento del prezzo del riso produce una crescita
della scolarizzazione, poiché i maggiori ricavi sostituiscono il contributo lavorativo dei figli. In
Bangladesh, la fornitura di sussidi alimentari in cambio della scolarità dei figli riduce il lavoro
minorile. Difficilmente la condizione di questi minori può cambiare senza un innalzamento relativo
ai bilanci familiari e delle loro condizioni di vita. L’investimento nella scolarizzazione può costruire
una leva determinante per rompere le “trappole di povertà” di tipo dinastico; la rottura di questi
condizionamenti ereditari diventa possibile grazie ad una miscela d fattori: scolarizzazione ed
emancipazione delle madri, rialzo dei redditi familiari, politiche attive per l’obbligo e la gratuità
dell’istruzione.

Per quanto riguarda invece della spesa pubblica per l’istruzione universitaria, questa finisce col
diventare appannaggio della sola componente ricca della popolazione a conferma
dell’ineguaglianza within country che caratterizza molti dei paesi a basso reddito. Un saggio di
Moses Abramovitz rileva che ormai oltre un ventennio di vita economica postcoloniale autorizza a
constatare che il trasferimento di capitali e tecnologie dai paesi ricchi a quelli poveri, non riesce ad
innescare una crescita auto sostenuta e costante nei secondi. Tale arretratezza perdurante dei
paesi poveri, viene identificata con un deficit di produttività, che però non sembra risiedere nelle
tecnologie o nei metodi, bensì in altri fattori, quali il ritardo nella preparazione della forza lavoro,
ma anche la scarsità di capitali e l’eccedenza demografica. La povertà dei paesi a basso reddito
viene interpretata in termini di “imperfezioni di mercato”, cioè condizionamenti esterni che
impediscono il dispiegarsi della redditività degli investimenti, della libera concorrenza e dello
sviluppo economico. Ma tali imperfezioni, per Hirschman, costituiscono solo una parte delle cause
del sottosviluppo: infatti, egli sostiene che non sia necessario solo liberare le energie che
sarebbero latenti o soggette a vincoli esterni, ma si tratta di incentivarle, sostenerle e farle
crescere. Ma la strada da lui proposta di sostituzione dello stato all’iniziativa privata, ha prodotto
solo autoritarismo, corruzione e scarsi risultati nella lotta alla povertà. Al contrario, le energie
incarnate dal “capitale umano” possono crescere e formarsi in modo libero soltanto tramite una
“scuola pubblica”, che sia luogo di crescita civile attraverso il confronto e la convivenza delle
differenze etnico-religiose. L’istruzione così, costituisce una condizione indispensabile per
affrontare l’ineguaglianza globale e dovrebbe rappresentare una priorità assoluta tra le voci di
spesa pubblica. Al tempo stesso la scuola non è sufficiente. O quantomeno non è in grado di
garantire effetti immediati sul piano dello sviluppo economico: ha bisogno di tempo.
[Continuo de il Capitolo X - La svolta del Sessantotto]

All’Africa tocca ancora una volta la parte peggiore: infatti, gli investimenti esteri in questa parte del
mondo seguono perlopiù le strade già percorse nel periodo coloniale, cioè
 il controllo delle materie prime alla fonte (petrolio innanzitutto),
 profitti non reinvestiti in loco,
 scarsi legami con indotti produttivi locali.
A partire dal 1995 in sede Ocse viene negoziata una proposta di accordo – quadro tra investimenti
esteri privati e governi nazionali, che prevedeva la razionalizzazione e la liberalizzazione degli
spostamenti internazionali di capitali, proteggendo il loro immobilizzo in paesi esteri dai rischi di
ingerenze degli stati ospitanti e prevendendo una sede giuridica sovranazionale per la risoluzione
delle dispute.
Come risposta, è scoppiata una violenta reazione sia delle nazioni non appartenenti all’Ocse,
determinate a far valere le ragioni della sovranità nazionale, sia di movimenti e organizzazioni non
governative preoccupati dalla forza contrattuale esercitata dalle compagnie multinazionali nei
confronti dei paesi poveri. Questo segna la fine del progetto di un “governo globale degli
investimenti”: la materia viene affidata alla selva eterogenea degli accordi bilaterali. E’ la prova di
quanto sia difficile trovare regole condivise di gestione della globalizzazione.

4. delocalizzazione

Altro fattore significativo e recente della globalizzazione è lo spostamento di posti di lavoro


industriali e soprattutto manifatturieri da Europa e Nord America verso paesi a minor costo e a
minor livello di sindacalizzazione della manodopera, sebbene una stabile quota di maggioranza
della popolazione attiva mondiale è occupata in agricoltura. Ma la delocalizzazione di posti di
lavoro industriali rappresenta il tratto maggiore di differenza tra la globalizzazione odierna e quella
di 100 anni fa, che si sovrappone ad un ribaltamento merceologico del commercio a tutto
vantaggio dei manufatti industriali rispetto alle materie prime. Il risultato è che il rapporto tra
paesi ricchi e paesi poveri si rovescia completamente: tra il 1950 e il 2000 la quota sul totale
mondiale della forza lavoro industriale che risiede nei secondi cresce da uno a due terzi del totale.
Cina e India in particolare, passano da circa 30 milioni di addetti a più di 200 mettendosi alla testa
di un mutamento epocale: lo spostamento del baricentro della produzione industriale globale
verso l’Asia. Ma questo non vale per l’Africa che continua a mostrare, rispetto all’Asia, una
perdurante marginalità, segno che gli effetti positivi della globalizzazione, in termini di creazione di
nuovi posti di lavoro, qui non si diffondono come altrove. . Nel 1968 a Teheran la prima conferenza
dell’ONU sui Diritti Umani, mostra una contrapposizione ideologica tra diritti civili formalmente
garantiti dai paesi ricchi e diritti socioeconomici reclamati dalle “dittature sviluppiste” del Terzo
Mondo. Si crea un asse tra vecchi e nuovi regimi politici, accomunati dal rifiuto della democrazia
interna e dalla rivendicazione di uguaglianza economica sul piano internazionale (Senghor,
Selassiè). Si comincia a parlare di un mondo diviso, non solo tra Est e Ovest, ma anche tra Nord e
Sud. I risultati concreti di questo cambio di atteggiamento dei paesi in via di sviluppo, si ravvisano
nel progressivo disimpegno del flusso di aiuti ai paesi poveri. La BM, guidata in quel periodo
dall’ex-ministro della Difesa statunitense MacNamara, corre ai ripari con il varo di una
commissione indipendente presieduta dall’ex premier canadese Pearson. Il rapporto Pearson
consacra un’immagine di distanza crescente tra paesi ricchi e poveri, (WIDENING GAP) destinata a
diventare uno dei luoghi comuni più diffusi in materia di ineguaglianza. Diagnosi non confermata
da altri studi che invece sottolineano la crescita di un nucleo intermedio di paesi in via di sviluppo
meno poveri di altri grazie a incipienti processi di industrializzazione o alle exp petrolifere (Cina,
Brasile, Hong Kong, Messico, Singapore, Taiwan, Corea del Sud, Algeria, Iraq, Iran, Kuwait, Libia,
Arabia Saudita, Venezuela).

Il decennio immediatamente successivo al rapporto Pearson mette in luce una significativa


convergenza tra pesi in via di sviluppo e paesi sviluppato confermato dal fatto che tra il 1965 e il
1975 i primi crescono più dei secondi. Dall’altro lato, però, i paesi sviluppati mostrano un grado
assai maggiore di omogeneità delle tendenze di medio periodo, al contrario di quelli in via di
sviluppo che manifestano una crescente eterogeneità interna. L’Asia si mantiene infatti su livelli alti
e stabili di crescita, mentre Africa e America latina subiscono tutto il contraccolpo dello shock
petrolifero del 1973 e precipitano in piena recessione nel corso dei primi anni 80.

Dietro il widening gap c’è una cruciale differenza di metodo di misurazione dell’ineguaglianza.
L’ONU e le agenzie ad esso collegate confrontano tra loro redditi medi nazionali, assegnando un
peso uguale ad ogni singolo paese e questo mette in luce una sostanziale stabilità nelle distanze
tra redditi medi nazionali (tra la metà del XX e i primi anno 80) e un successivo incremento
ininterrotto. Percui se risulta che paesi come Nord America e Oceania, oltre a Giappone e Sud
Corea, mostrano una convergenza verso i redditi medi nazionali dei paesi ricchi occidentali,
dall’altro fa riscontro la divergenza del resto del mondo, i cui redditi medi si allontanano sempre
più da quelli del nucleo dei paesi ricchi.

Gozzini fa notare come dal punto di vista dell’ineguaglianza esistano dati non concordi:

 se da un lato nell’ultimo ventennio del novecento, una parte significativa della


popolazione più povera migliora la propria condizione economica (soprattutto in Cina e in
India), e, al tempo stesso, si riduce il peso demografico relativo della popolazione abitante
nei paesi più ricchi con effetti di RIDUZIONE DELL’INEGUAGLIANZA GLOBALE

 dall’altro crescita demografica e ristagno dei redditi di altre aree povere del mondo, in
particolare l’Africa sub sahariana, rappresentano altrettanti vettori di AUMENTO
DELL’INEGUAGLIANZA GLOBALE.
Va sottolineato però che dal punto di vista degli equilibri mondiali, il peso preponderante dell’Asia
sposta le considerazioni verso l’affermazione di un calo dell’ineguaglianza globale: gli abitanti di
Cina e India sono più giovani di quelli occidentali e comprendono più lavoratori.

Capitolo XI
Nord e Sud
o Petrolio e Debito

Nel 1960 viene fondata l’OPEC (L'Organizzazione dei Paesi Esportatori di petrolio) fondata in
primis da Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela, alle quali si aggiungono nel 1971 Qatar,
Indonesia, Libia, Emirati arabi, Algeria e Nigeria. Tra il 1973 (g. Kippur tra Israele e Egitto/Siria) e il
1979 (rivoluzione khomeneista8 , g. tra Iraq e Iran9) il prezzo del petrolio si moltiplica per 4. Fin
dall’immediato dopoguerra, il settore petrolifero è soggetto ad un alto grado di cartellizzazione,
(esempio le 7 sorelle, le sette più ricche compagnie petrolifere mondiali, in base al fatturato) e
fondato su un sistema di royalties10 riservate ai paesi ospitanti dalle compagnie private. D’altra
parte le politiche estere di USA e GB seguono la logica comune di controllo dei giacimenti
petroliferi concordato con i paesi arabi, anche se determinata a rovesciare i regimi potenzialmente
ostili come quello iraniano di Mossadeq. La fondazione dell’OPEC corrisponde ad una logica di
cogestione globale del petrolio da parte del nazionalismo arabo, in una fase di prezzi calanti e di
moltiplicazione delle compagnie operanti sul mercato internazionale del greggio. A differenza del
contesto latino americano, solo alcuni paesi arabi (algeria, libia e iraq) si muovono verso una
nazionalizzaizone di giacimenti e raffineria, ma per tutti i membri dell’OPEC, la guerra del Kippur
del 1973, è l’occasione per usare il sistema di tetti alla produzione, prezzi e royalties, come arma
politica contro l’Occidente. Nell’Ottobre del 1973 vene proclamato un embargo totale nei
confronti dei paesi importatori ritenuti filoisraeliani (USA, Olanda, Portogallo, Sud Africa,
Rhodesia) e il prezzo del petrolio decolla. Lo schock del 1973 si traduce in una doppia evoluzione:

8
Repubblica islamica di stampo teocratico violentemente antioccidentale e antiamericana

9
Per alcuni paesi contesi da tempo fra le due nazioni, durò 8 anni e si concluse con l’intervento dell’ONU
risolvendosi in un’inutile carneficina)

10
si indica il diritto del titolare di un brevetto o una proprietà intellettuale, ad ottenere il versamento di una
somma di danaro da parte di chiunque effettui lo sfruttamento di detti beni con lo scopo di poterli sfruttare
per fini commerciali e/o di lucro
- Una crescita di potere negoziale dei paesi produttori di materie prime.
- Una conferma della perdurante influenza delle compagnie petrolifere sui governi
occidentali di riferimento.

Ma il decollo del prezzo del petrolio, che riversa fiumi di denaro nei paesi esportatori
(petrodollari), non viene utilizzato per investimenti produttivi, ma al contrario viene reimpiegato
in aumento delle riserve statali, in depositi presso banche straniere, in acquisto di titoli di stato e
azionari. Con due conseguenze decisive:

- Un incremento dei flussi finanziari globali che si collega alla sospensione della
convertibilità del dollaro in oro decisa dal presidente statunitense Nixon nel 1971 e si
traduce in una libera espansione della massa monetaria (eurodollari), la quale causa un
lungo ed intenso ciclo inflattivo in tutti i paesi sviluppati. In parallelo cresce il mercato dei
derivati, contraddistinto da un rapporto solo mediato e virtuale con l’economia reale.
- Il decollo dell’indebitamento estero dei paesi poveri importatori di petrolio, i quali devono
fronteggiare un’inflazione tre volte maggiore di quella che investe i paesi ricchi. Tale costo
aggiuntivo viene coperto ricorrendo a prestiti elargiti da FMI e dall’OPEC stessa. Ma alla
fine del 1979, la decisione della Federal Reserve di rialzare i tassi di interesse dall’11 al
20%, provoca una spinta fuori controllo dell’indebitamento di molti paesi poveri. Ne è un
esempio il Messico, che nel 1982 dichiara la propria insolvenza rispetto agli impegni presi
ed è la prima grande crisi di un’economia nazionale legata al debito estero, risolta dal FMI
con la rinegoziazione di un nuovo prestito.

Alla fine del decennio saranno molti i casi di rinegoziazione che per molti paesi a basso reddito si
configura una prospettiva illusoria di una crescita trainata dall’indebitamento. E’ il caso della
Nigeria11 dove la guerra civile nel Biafra, inaugura un periodo di forte instabilità politica che appare
strettamente legata alla “maledizione della risorsa naturale” incarnata dal petrolio, per tre diversi
ordini di motivi:

- La nazionalizzazione del settore sancito dal primo dei governi militari che si sono
succeduti, apre la strada a un complesso regime di accordi tra compagnia petrolifera di
stato e compagnie occidentali, che trasforma il paese in una mono-crop economy, sola
esportatrice di petrolio). Lo stato nigeriano, parallelamente, accentua la propria fisionomia
di stato “rentier”: nel 1988 le entrate petrolifere arrivano a coprire il 77% delle entrate
statali. Ne deriva un rigonfiamento della spesa pubblica (aumentano infatti gli stipendi dei
pubblici dipendenti e le spese per la difesa), che in larga misura serve e privilegiare il
potere dello stato federale rispetto alle regioni, oltre che le urban bias dello sviluppo del
paese, poiché le etnie rurali vengono penalizzate, in quanto marginali rispetto alla crescita
economica. .
- La rendita petrolifera si traduce in un classico caso di “Dutch Disease”, con effetti
depressivi sul resto dell’economia nazionale. A causa delle migrazioni verso le città, il
paese si de-ruralizza, provocando l’esclusione dello stesso dai mercati internazionali
agricoli e costringendo il paese ad importare prodotti agricoli, senza peraltro riuscire a
scongiurare l’insorgere di carestie, soprattutto nella zona del Biafra.
- La centralità della rendita petrolifera espone la Nigeria alla volatilità delle ragioni di
scambio dei mercati internazionali. Infatti, il crollo del prezzo internazionale del petrolio
negli anni ottanta, provoca una crisi delle entrate statali che si traduce in un decollo del
11
Dal 71 la Nigeria farà parte dell’OPEC, ma lo sfruttamento dei giacimenti risale alla fine degli anni 50
debito estero, paradossale per un paese produttore di petrolio. Nelle valutazioni delle
agenzie internazionali inoltre, la Nigeria conquista il titolo negativo di regime tra i più
corrotti al mondo.

La parallela esperienza del Botswana, dove i diamanti, scoperti nel 1965, coprono circa il 30% del
PIL e più del 40% delle exp, dimostra come la dotazione di risorse naturali non costituisce sempre
una maledizione. Nonostante l’esistenza di vari handicap strutturali rispetto alla Nigeria (assenza di
sbocchi al mare, forte incidenza della pandemia dell’HIV, maggiore livello di ineguaglianza interna),
il Botswana conserva nel tempo un’alta qualità della politica, che si fonda sull’integrazione delle
tradizionali forme locali di autogoverno comunitario nelle istituzioni statali. Tale logica inclusiva e
anti-urban bias, riesce a garantire diritto di voce e rappresentanza alla società civile, ricevendone
in cambio lealtà e consenso. Il risultato per il Botswana è meno guerra, meno corruzione, meno
tasse, assieme ad uno straordinario incremento del reddito pro capite.

2. Paure, protezioni, egoismi dei ricchi

La svolta del 1973 approfondisce la separazione tra paesi ricchi e poveri: ciò che si perse negli
anni 70 fu la solidarietà internazionale. L’obiettivo dell’1% del PIL dei paesi ricchi in aiuti (fissato
dalle Nazioni Unite) rimane infatti ben lontano da uno sforzo che fino al 1995 continua ad oscillare
tra lo 0,2 e lo 0,3%. Al tradizionale protezionismo agricolo dell’Occidente, si affianca altresì il
protezionismo industriale, che sottopone ad un regime di accordi bilaterali l’esportazione di
prodotti tessili da paesi poveri a basso costo della forza lavoro. Nonostante l’estensione di tale
regime a nuovi prodotti e nuovi paesi, gli effetti riscontrati sono scarsi. Cala infatti la quota di
mercato die paesi firnitori più consolidati, come Corea del Sud, Taiwan, ma aumenta quella di altri
paesi poveri meno soggetti all’accordo come l’Indonesia, il Bangladesh, dove spesso sono gli stessi
paesi asiatici a de localizzare le proprie industrie del tessile e dell’abbigliamento per aggirare le
barriere commerciali dei paesi sviluppati. Perdita degli imperi coloniali e di quote significative del
mercato internazionale, l’affermarsi delle fibre sintetiche, il risparmio di lavoro dato dalle
innovazioni tecnologiche, sono solo in minima parte addebitate alla penetrazione di merci
straniere a baso costo. Anche sul fronte delle politiche di controllo dei flussi migratori, in molti
paesi occidentali, prevalgono decisioni restrittive che si acuiscono all’indomani della crisi
petrolifera. Ma anche in questo caso, la scelta protezionistica si rivela inefficace, poiché i flussi
migratori continuano ad aumentare fino alla fine del secolo, alimentando il peso esercitato dalla
criminalità organizzata nel traffico illegale delle migrazioni clandestine.. Le stime dell’immigrazione
clandestina, composta in prevalenza dagli overstayers (persone entrate legalmente ma rimaste
oltre il periodo loro consentito), parlano di un flusso globale annuo di immigrati compreso tra 1 e
2 milioni di persone. Purtroppo le politiche di contenimento europee, servono più che altro a
generare facili consensi suscitati dall’allarmismo piuttosto che cercare di governare il problema.
Sul piano dell’economia dello sviluppo, si fa stra un nuovo modello elaborato da Chenery,
economista voluto al Development Police Staff da MacNamara, per il quale i modelli fondati sullo
sgocciolamento “trickle down” della curva di Kuznets, proprio delle economie occidentali, ha un
valore relativo in una situazione come quella dei paesi in via di sviluppo. Secondo Chenery, la
maggiore ineguaglianza “within-country” rende urgenti politiche di redistribuzione non solo dei
redditi, ma anche dell’accesso a scuola e sanità. Infatti i paesi che hanno saputo coniugare crescita
economica e aumento di reddito della popolazione più povera (Israele, Giappone, Corea del Sud,
Taiwan) mettono in mostra un modello convergente che prima ridistribuisce capitale fisso (con
riforme agrarie di frammentazione della proprietà terriera) e accumula capitale umano (tramite la
scolarizzazione di massa), poi innesca processi di crescita industriale “labor-intensive”, spesso
trainati dalle esportazioni. E’ quindi la “depauperization” che produce sviluppo. A questo
ribaltamento si ispira anche la strategia dei “basic needs”: la BM infatti, cerca di definire un
pacchetto di diritti inalienabili delle persone (cibo, riparo, vestiario, acqua potabile, servizi sanitari,
trasporti, educazione) cui ispirare le politiche sociali sia nazionali che internazionali, a prescindere
dagli obiettivi di crescita economica.

3. la ragion di Stato12 delle Nazioni Unite

C’è una contraddizione di fondo: in molti paesi a basso reddito, la spesa pubblica ha effetti
redistributivi assai minori di quanto non avvenga nei paesi industriali. Lo stato sociale manca
laddove sarebbe più importante, anche perché la voce dei ceti sociali che ne avrebbero più bisogno
esercita un peso specifico minore rispetto a quella dei ceti urbani e del pubblico impiego. La
povertà dei paesi in via di sviluppo si concentra nelle zone rurali. Ma l’urban bias che guida le èlite
postcoloniali impedisce spesso l’adozione di politiche redistributive a vantaggio del settore
primario. Eppure la “ragione di stato” conduce quasi di necessità le agenzie internazionali
specializzate nella cooperazione internazionale, a legittimare e consolidare èlite politiche che sono
spesso le prime artefici dell’ineguaglianza sociale e della povertà dei loro paesi e la cui corruzione
si alimenta anche dal flusso di aiuti provenienti dai paesi ricchi. Tale contraddizione viene messa in
luce Peter Bauer, contrario all’intervento degli stati nella regolazione dei prezzi dei prodotti
agricoli e fautore della crescita autonoma dei piccoli produttori sul libero mercato. Il suo approccio
prettamente microeconomico, rifugge dai grandi piani governativi e dalle astute misurazioni
statistiche: il problema è connettere piccoli produttori e mercato, allo scopo di conquistare margini
di guadagno da reinvestire in innovazioni e aumento della produttività. Ma Bauer rimane
inascoltato. Nel Settembre 1973, in seguito alla rielezione di MacNamara alla BM viene coniata la
categoria di “povertà assoluta”, definita come condizioni di deprivazione che si collocano al di
sotto di ogni definizione razionale di umana decenza, in contrapposizione alla “povertà relativa”
che affligge le nazioni industriali. Da questo momento in poi, l’impegno prioritario della BM
diventa quello di implementare gli strumenti e le procedure di misurazione quantitativa e
qualitativa delle condizioni di povertà, considerata il parametro più efficace per valutare la qualità
delle politiche di sviluppo. Il rapporto del 1975 stabilisce che i poveri ammontano a 750 mln di
persone e sono in maggioranza poveri rurali: contadini senza terra sufficiente per sopravvivere,
lavoratori agricoli disoccupati o sottoccupati cui fanno riscontro i ceti marginali urbani che vivono
nelle grandi metropoli. La scoperta di una perdurante povertà di massa si accompagna ad una
riproposizione del paradigma della modernizzazione. Proprio Chenery guida un gruppo di ricerca
attorno all’idea di una trasformazione in senso strutturale dei paesi poveri del XX secolo simile alla
transizione da rurali a industriali dei paesi europei e nordamericani nel secolo precedente. Ma
l’obiettivo di creare un “Nuovo ordine internazionale” si riduce però, alla rivendicazione degli stati
rispetto allo sfruttamento delle proprie risorse naturali, che si esprime nel diritto alla
nazionalizzazione e alla regolazione e supervisione delle attività delle compagnie transazionali.
(ragion di stato). Lo scopo è quello di combattere il deterioramento delle ragioni di scambio delle
materie prime rispetto ai manufatti, considerando come naturale ed immutabile il ruolo dei paesi
poveri di esportatori delle prime ed importatori dei secondi. Contro tale scambio ineguale vale
12
Interesse nazionale, ovvero insieme di obiettivi ed ambizioni di un paese in campo militare, economico e
culturale
solo la protezione di tariffe doganali meno svantaggiose. Il nuovo ordine economico mondiale
resta di fatto un principio piuttosto che una pratica, perché come sintetizza Krugman “ esso si
concentrava sul tentativo di aumentare il prezzo delle materie prime piuttosto che a far entrare i
paesi del terzo mondo nel moderno sistema industriale”

4. Il rapporto Brandt

nel 1975 a Lomè (Togo), la CEE, 46 paesi africani e altri caraibici e del Pacifico, sottoscrivono una
convenzione che prevede l’impegno di stabilizzare i prezzi dei prodotti di maggiore importazione
in Europa. Ma nello stesso tempo, la crisi petrolifera e la seconda guerra fredda (originata
dall’aggressività militare sovietica nel Corno D’africa nelle ex colonie portoghesi di Angola e
Mozambico, in Afghanistan). risospingono i paesi ricchi verso l’orizzonte ristretto degli egoismi
nazionali. Sempre più spesso i rappresentati degli in seno agli organismi dirigenti votano contro
progetti di sviluppo in paesi poveri, suscettibili di configgere con gli interessi della economia e
politica estera USA. A questi anni risale inoltre, la prima formulazione del “dilemma del
samaritano” proposto da Buchanan: conviene aiutare sempre e comunque, oppure fermarsi a
valutare le reazioni dell’aiutato? Alla base di tale dilemma, vi è un giudizio scettico sull’efficacia
dell’assistenza economica occidentale ai paesi in via di sviluppo. Più che a rispondere a imperativi
morali, sostiene Buchanan, l’assistenza dovrebbe soddisfare criteri razionali e funzionali al
conseguimento di obiettivi e risultati, che però faticano a vedersi. MacNamara reagisce a tale
situazione con una mossa del “cavallo”: istituisce una commissione indipendente che si occupi dei
problemi dello sviluppo economico, con a capo Willy Brandt (ex cancelliere generale della
Germania Ovest e artefice della Ostpolitik di riconciliazione con la DDR). Il c.d. “Rapporto Brandt”,
pubblicato nel 1980, è il frutto di due anni di lavoro e mette al centro fin dal titolo (Nord e Sud:
un programma per la sopravvivenza), l’idea di una reciprocità di interessi tra paesi ricchi e
poveri. Tra i fattori “intersistemici” che dovrebbero evidenziare tale reciprocità figurano il
depauperamento delle risorse della Terra, la tutela dell’ambiente, lo sfruttamento degli oceani, la
corsa agli armamenti. Il rapporto prende la forma di una sorta di elenco di “raccomandazioni”
rivolte soprattutto ai paesi ricchi e fondate sul solidarietà umana e aspirazione ad una giustizia
sociale universale, incluso il ruolo cruciale della donna nello sviluppo. Il rapporto Brandt non
critica compiutamente le politiche di sostituzione delle importazioni, sostiene il modello dei
primi NIC asiatici (riforma agraria e scolarizzazione, crescita equilibrata di agricoltura ed
industria, sviluppo trainato dalle esportazioni di manufatti ad alto contenuto tecnologico), ma
per tutti gli altri paesi poveri (ancora prevalentemente rurali) individua la chiave di volta nel “big
push”, rappresentato dall’iniezione di capitale straniero tramite il meccanismo degli aiuti
internazionali. Alle raccomandazioni non seguite si aggiungono gli obiettivi non raggiunti: la
delocalizzazione nel terzo mondo della ricerca scientifica applicata, l’aumento degli aiuti ai paesi
poveri. Tra le poche promesse (seppur lungimiranti) mantenute dal Rapporto Brandt, figura il
decentramento dello staff della BM.

5. Urbanizzazione senza sviluppo

In Occidente, il Rapporto Brandt viene accolto con una sostanziale indifferenza, su cui pesa la
difficile recessione economica. Inoltre il programma di riscossa neoliberista avviato da Reagan e
Thatcher evidenzia una presa di distanze da organismi internazionali ritenuti troppo succubi di
interessi estranei a quelli nazionali. Il caso simbolo di tale svolta è rappresentato dalla guerra delle
Falkland che la Gran Bretagna combatte con l’Argentina, nel 1982, per la riconquista delle isole al
largo della costa argentina. Il prestigio delle Nazioni Unite sembra così indebolirsi drasticamente e
forse in modo irreversibile. In questi anni altresì, matura una nuova svolta epocale, dopo quella
agraria e demografica degli anni cinquanta. Infatti, a cavallo tra anni sessanta e settanta la
popolazione urbana dei paesi poveri assume la guida della crescita demografica mondiale,
arrivando per la prima volta nella storia umana, a superare la popolazione rurale. Sebbene tuttavia
l’urbanizzazione dei paesi poveri non dipende solo dai flussi immigratori dalle campagne: per lo
più dipende dal’incremento demografico naturale. Il problema è che molto spesso
l’urbanizzazione nei paesi poveri non si traduce in una spinta al processo di industrializzazione,
bensì espande sacche parassitarie e degradate di disoccupazione ed economia sommersa. Gli
scontri tra studenti neri e polizia che avvengono nella town-ship di Soweto in Sud Africa, accende i
riflettori mondiali, sulla realtà urbana del Terzo Mondo e in particolare sul regime di Apartheid.
Snodo cruciale di questa novità è la cosiddetta “economia informale”, che rappresenta il tessuto
connettivo dei quartieri urbani più poveri e viene stimato in rapida crescita, soprattutto in africa
centrale. I protagonisti di tale tipo di economia sono in genere maschi adulti, con tassi di
scolarizzazione bassi o nulli, in maggioranza provenienti dalle campagne. Le loro occupazioni si
concentrano nel settore dei servizi (pulizie, produzione e vendita di cibo da asporto, riparazioni) e
sono contraddistinte dalla totale assenza di regole codificate simili a quelle vigenti nel settore
formale. L’economia informale è accompagnata da altri deficit sociali e civili: ridotta
sindacalizzazione, scarsa incidenza di sistemi contributivi di sicurezza sociale, bassi livelli di
scolarità. Tra economia informale e slum (quartieri poveri edificati nei sobborghi delle metropoli)
esiste un rapporto diretto ma non esclusivo. Assai spesso l’economia informale sostiene il
consolidamento di quartieri cittadini cresciuti in modo improvvisato e abusivo, privi di qualsiasi
accesso ad acqua o elettricità. Nel corso degli anni ottanta, molti governi africani cercano di
demolire con la forza tali slum, ma si rendono ben presto conto del loro costante e caparbio
rifiorire. Le strategie di sopravvivenza si dimostrano più forti degli interventi repressivi. Si comincia
allora a pensare a questa sfera non regolata dei rapporti socioeconomici, come uno stato
permanente, strutturato e funzionale, capace di attrarre migranti, reddito e riprodursi nel tempo.
Nella Dichiarazione di Copenaghen si evidenzia la necessità di rafforzare il settore informale dei
paesi poveri, tramite interventi mirati, finalizzati alla crescita delle attività economiche informali,
fino alla loro trasformazione in attività formali a pieno titolo. Spesso inoltre accade che i sobborghi
delle metropoli mettano in mostra un alto grado di ineguaglianza interna, con fenomeni di
vicinanza e prossimità tra famiglie povere e famiglie di reddito medio-alto. Inoltre, la segregazione
e la concentrazione spaziale peggiorano la qualità di vita. Ma le indagini statistiche sul campo
evidenziano come la lotta contro la povertà globale si combatte nelle campagne: è li che vivono tre
quarti dei poveri del mondo ed è li che nascono i flussi destinati ad alimentare crescita urbana dei
paesi a basso reddito. La crescita industriale può assolvere un ruolo importante per contrastare il
pauperismo di massa di queste zone, ma la strada del risanamento dei quartieri degradati delle
megalopoli, passa anche per un più diffuso accesso ai servizi che è servito a far crescere in qualità
e sicurezza mestieri, abitazioni, vite. Rimane il fatto che la svolta del sessantotto introduce un
decennio di forti contrapposizioni politiche e ideologiche, tra paesi ricchi e poveri. Di fatto, la
crisi petrolifera del 1973 dissolve il clima di speranza e collaborazione seguito dalla stagione
della decolonizzazione: lo stesso prestigio delle Nazioni Unite ne risulta intaccato. Solo la BM
guidata da MacNamara, pone le basi per la revisione dell’approccio alla povertà, non riuscendo
però a cambiare il quadro generale: il Rapporto Brandt, infatti, cade nel vuoto.
Capitolo XII
Regolazione strutturale

1. Washington consensus

Negli anni Ottanta, la quasi cinquantennale egemonia delle politiche keynesiane (fondate
sull’espansione della spesa pubblica in funzione antidisoccupazione) viene scalzata da un nuovo
corso che assume l’inflazione come pericolo prioritario e ne ricava rigide ortodossie monetariste:
riduzione del ruolo economico dello stato, pareggio dei conti pubblici, impulso all’imprenditoria e
al libero commercio, tagli alle politiche assistenziali, liberalizzazione commerciale. (POLITICHE NEO
LIBERISTE)Col tempo ci si riferisce a questo complesso di idee con il termine di “Washington
Consensus”, individuando così una ritrovata sintonia dei luoghi chiave del poter politico finanziario
degli Stati Uniti con le maggiori istituzioni internazionali attive nel campo dell’assistenza ai paesi
poveri, che hanno sede nella stessa capitale americana. Torna così in auge una rinnovata fiducia
nel metodo di “sgocciolamento” trickle down del libero mercato e della curva di Kuznets. Ma ciò
avviene proprio quando, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si manifesta un aumento
dell’ineguaglianza economica “within-country” dopo oltre mezzo secolo di efficaci politiche
redistributive e di welfare: aumenta la dispersione salariale assieme alla quota di reddito del
quinto più ricco della popolazione, cui si accompagna una crescente regressività dei sistemi fiscali,
che tendono ad alleggerire il carico contributivo sui ceti più abbienti. Una parte di tale
ineguaglianza interna nei paesi ricchi, è dovuta alla globalizzazione: afflusso di merci a basso costo
dai paesi poveri che espellono dal mercato le industrie tradizionali, immigrazione di lavoratori che
mettono sotto pressione il mercato del lavoro e facilitano il calo dei salari, delocalizzazione dei
posti di lavoro nei paesi a basso reddito e conseguente disoccupazione tra le qualifiche operai più
basse. Ma il cambiamento maggiore deriva dall’innovazione tecnologica. Infatti, la c.d. “container
revolution”, della metà degli anni 50, riduce drasticamente i costi di trasporto e i tempi dei
movimenti internazionali delle merci. I lavoratori immigrati si trovano a competere con i nativi
meno qualificati, ma risultano tuttavia complementari e non sostituibili a quelli dotati di maggiore
specializzazione, che sono in aumento in tutti i paesi sviluppati, grazie anche ai processi di
terziarizzazione dell’economia (gruisti e operatori dei computer).

Gli studiosi convergono sul fatto che l’arrivo di immigrati non sembra incidere più di tano sulle
dinamiche salariali complessive dei paesi che li accolgono. A determinare invece le differenze
“between-country”, concorrono in misura significativa le politiche fiscali e le spese per
trasferimenti sociali. Ne emerge una tendenziale polarizzazione tra sistemi capitalistici europei e
quelli anglosassoni. In realtà, anche i paesi europei segnalano un aumento di ineguaglianza dovuto
soprattutto all’accesso all’occupazione: le rigidità di un welfare state così pesante proteggono gli
occupati, ma aumentano le distanze con gli esclusi da un lavoro stabile.
2. Commercio di manufatti

Gli anni ottanta sono caratterizzati inoltre dalla sostituzione di MacNamara alla presidenza della
BM con Tom Clausen, presidente di Bank America, e al posto di Chenery viene posta Anne
Krueger, severa critica delle politiche stataliste di sostituzione delle importazioni e paladina del
liberismo commerciale. Il cambio alla guida della BM è determinato soprattutto per la crescente
preoccupazione per il debito estero dei paesi poveri. L’effetto quasi immediato è quello di un
nuovo corso che subordina i prestiti a un criterio di “conditionality”: di scambio di aiuti
internazionali vincolati a determinate condizioni e avvio concertato e monitorato di politiche di
“regolazione strutturale” dei bilanci statali dei paesi beneficiari, attraverso la liberalizzazione
commerciale, la contrazione della spesa pubblica, la privatizzazione delle industrie e dei servizi
pubblici. Alla base del nuovo corso vi è anche la presa d’atto di un mutamento epocale nel
commercio internazionale. Dopo il 73 vi è lo spostamento del baricentro produttivo e commerciale
di molti paesi poveri verso l’esportazione di manufatti industriali. Grazie all’incremento della loro
quota di export in manufatti, Asia, Africa e America latina coprono oggi un terzo del valore
complessivo delle esportazioni mondiali, quasi solo per merito dell’Asia. A ritardare lo sviluppo
industriale dell’Africa sub sahariana sono la bassa densità di popolazione e le ridotte dimensioni
delle imprese. Tale debolezza strutturale deve confrontarsi con serie difficoltà ambientali e
climatiche, che innalzano i costi delle unità produttive e di trasporto delle merci, rendendo più
problematici gli investimenti. Si spiegano così la scarsa presenza di filiali estere di compagnie
multinazionali e lo scarso afflusso di investimenti esteri, concentrati perlopiù nel settore delle
risorse naturali e in pochi paesi del continente. Tra i prodotti che nell’ultimo ventennio del XX
secolo crescono di più tra le esportazioni, vi sono quelli legati all’informatica e alle
telecomunicazioni. Per ciascuno di questi prodotti si individua la presenza dinamica dei Nic asiatici
di prima generazione (Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Hong Kong), che seguono una traiettoria
di approfondimento tecnologico della propria base produttiva, che consente loro di innalzare
verso l’alto la penetrazione commerciale nei mercati esteri. La leva fondamentale per questo
incremento della qualità tecnologica della produzione di paesi asiatici, è la domanda del
Giappone, che fino al 1985 cresce a livelli record proprio nel settore dell’elettronica e
dell’informatica. Tale domanda si rivolge in primis ai paesi vicini (anatre in volo) con manodopera a
basso costo e sbocchi più facilmente raggiungibili e controllabili per gli investimenti esteri delle
compagnie nipponiche: schema che si ripete nel tempo con i Nic di seconda generazione
(Malaysia, Singapore, Vietnam, Indonesia) e poi con la Cina. A penalizzare l’Africa, è anche
l’assenza di un paese “starter” negli investimenti esteri, capace di innescare processi diffusivi -
imitativi dello sviluppo industriale. La “divergenza asiatica” rispetto al Terzo Mondo prende corpo
in primis con le riforme agrarie dell’immediato dopoguerra e con la modernizzazione del settore
primario I margini di produttività ad esse connessi si accompagnano a costanti progressi sul fronte
della scolarizzazione e della riduzione dei tassi di fecondità. Il ruolo delle politiche governative
appare quindi cruciale per determinare non solo l’iniziale protezione doganale delle industrie
nascenti, ma anche un basso livello d ineguaglianza sociale che precede e accompagna tutta la
fase di avvio del processo di industrializzazione. Esiste una corposa letteratura che sottolinea gli
effetti negativi sullo sviluppo di livelli eccessivi di ineguaglianza sociale e dei conflitti sociali che ne
possono derivare. L’esperienza dei NIC (PAESI DI NUOVA INDUSTRIALIZZAZIONE) mostra qualcosa
in più: politiche attive di redistribuzione del reddito possono rivelarsi prerequisiti determinanti per
la crescita economica, marcando una netta differenza con il modello storico della rivoluzione
industriale inglese che muove da livelli di ineguaglianza within country nettamente superiori.
Negli anni ottanta, dice Gozzini, si diffonde l’interpretazione secondo cui l’apertura al commercio
internazionale sia l’unico dato significativo per spiegare i successi asiatici così come i ritardi latino
americani o africani. Paul Krugman, premio Nobel per l’economia del 2008, nella sua teoria di
commercio internazionale afferma che il commercio non rappresenta una soluzione universale.: la
diversificazione della base produttiva, ce fa la differenza tra paesi vincitori e vinti della
globalizzazione, dipende infatti da molteplici fattori che i modelli teorici ancora non riescono a
comprendere: le condizioni geografiche, i flussi di capitale, le politiche governative in materia di
capitale umano. Inoltre, possono intervenire altri fattori (qualità delle istituzioni politiche,
efficienza del sistema scolastico) potenzialmente più importanti del regime di protezione
doganale, che invece sono ignorati da ricerche che puntano invece a trovare la “formula magica
universale”. Non bisogna dimenticare che nel corso degli anni novanta si consolida una tendenza
alla costituzione di blocchi regionali tendenzialmente autosufficienti (Unione Europea, il Nafta,
l’Asean, il Mercosur) favorendo il commercio Nord-Nord. Il commercio Sud-Sud tra paesi in via di
sviluppo, seppure raddoppi, si riduce all’aumento degli scambi in Asia che a sua volta compensa il
ridimensionamento del ruolo globale in Africa e America Latina, dove risultano ancora alte le
barriere protezionistiche. Il commercio interasiatico, frutto dello scambio di beni intermedi
all’interno di processi industriali di frazionamento della catena del valore aggiunto, che hanno
spesso per destinazione finale i mercati dei paesi ricchi. La base produttiva del Sud America, al
contrario, si blocca al livello di sfruttamento delle materie prime e delle manifatture più
tradizionali, non riuscendo a conquistare quote significative di mercato a livello internazionale. A
dispetto della loro natura pubblica, le politiche di industrializzazione pesante e protetta,
riproducono gli insediamenti industriali entro aree artificialmente difese da sussidi statali e
barriere doganali. Nuove zone di privilegio anziché fattori contagiosi si crescita economica. I ceti
imprenditoriali preferiscono la protezione nazionale alla competizione globale. l’alto grado di
concentrazione della proprietà terriera, poi, determina un effetto retaggio: l’ineguaglianza si
trasmette dalla campagna alla città, perché le elite agrarie monopolizzano lo sviluppo industriale,
aumentano la dispersione salariale, favorendo migrazioni di ceti rurali verso sacche urbane di
economia sommersa. Non è la chiusura internazionale a produrre ineguaglianza within country
ma è l’ineguaglianza within country a produrre chiusura. Un’attenta analisi condotta da Deininger
e Squire mostra che una maggiore ineguaglianza iniziale riduce la velocità di crescita successiva.
Tuttavia esistono pareri contrastanti circa il nesso globalizzazione sviluppo: se per alcuni i poveri
non sono né penalizzati né avvantaggiati dalla globalizzazione, poiché godono alla pari di altri i
frutti della crescita economica, per altri invece è l’opposto.

Nel 1994 gli accordi di Marrakech danno avvio al World Trade Organization, la cui missione è
quella di liberalizzare il commercio internazionale. Ma tale obiettivo si scontra, ancora nel 2000,
con il peso delle tariffe doganali imposte dai maggiori paesi industriali sui manufatti provenienti
dai paesi a basso reddito. L’ipotetica cancellazione dei diritti doganali significherebbe ogni anno
esportazioni aumentate e introiti aggiuntivi per i paesi produttori in misura superiore a 23 miliardi
di dollari. La globalizzazione odierna è anche il frutto di uno sviluppo economico distorto dei
paesi ricchi e dei prezzi artificiali ad esso pagati dai consumatori e da imprenditori e lavoratori
dei paesi poveri.

3. Rivoluzione Verde
Se i paesi asiatici riescono a gestire la globalizzazione meglio degli altri paesi poveri, è anche per
merito della c.d. “rivoluzione verde”: cioè, piano di sussidi ai piccoli produttori rurali finalizzati
all’introduzione di nuove sementi ad alto rendimento e di fertilizzanti chimici. Tale rivoluzione
viene introdotta in India a partire dagli anni sessanta e raddoppia ogni decennio la fornitura di
grano. Da lì, si diffonde nei paesi contigui, e tutta l’agricoltura del Sud-Est asiatico riesce così,
almeno in parte, a reggere la concorrenza delle agricolture dei paesi più ricchi. In India però,
l’incremento di produttività non riesce a sopravanzare l’incremento demografico e di conseguenza
l’ineguaglianza nelle campagne mostra un andamento altalenante. Sono diversi i fattori che
contribuiscono a rallentare lo sviluppo dell’India:

- L’impianto centralistico dei piani quinquennali rafforza l’alleanza tra potere politico e
grandi gruppi industriali.
- Nelle zone rurali del paese, sopravvive un equilibrio di basso livello (Hindu Equilibrium),
che si fonda sulla scarsa produttività agricola unita ad una sostanziale rete di lavoro a
domicilio e industria domestica, specializzata soprattutto nella produzione tessile. La forza
di tale equilibrio determina minori tassi di urbanizzazione e di scolarizzazione, con
importanti ripercussioni negative sul fronte della riduzione dei tassi di fecondità e di
denutrizione infantile e contro il lavoro minorile.

Il risultato è quello per cui, i flussi migratori (diversamente da quelli atlantici) non riescono ad
alleggerire la pressione sul mercato del lavoro dei paesi di partenza, né tantomeno a migliorare i
redditi della popolazione più povera. A differenza di cento anni fa, non si verifica oggi, nessun
nesso consequenziale tra migrazione e sviluppo. Sul fronte della lotta alla povertà, la rivoluzione
verde non risulta di per sé una condizione sufficiente per ridurre effettivamente i tassi di povertà:
la sua efficacia su tale fronte si verifica solo in presenza di ulteriori interventi, come infrastrutture,
politiche redistributive e facilitazione di accesso ai mercati). Un confronto significativo degli effetti
conseguenti la rivoluzione verde, è quello con il caso indonesiano. Gli effetti positivi della
rivoluzione verde del caso indonesiano sono espressi tramite l’aumento dell’occupazione e dei
redditi rurali. Rispetto all’India, anche qui la produzione di grano raddoppia, ma cala il tasso di
povertà nelle campagne. Ciò che impedisce all’Indonesia di far parte dei Nic di seconda
generazione, è il forte handicap in materia di scolarizzazione, ma anche la frettolosa apertura ai
mercati, che ha rallentato la crescita della base industriale. Ad agire da freno sono anche le
esportazioni petrolifere, che drenano risorse (come in Nigeria): solo negli anni ottanta, quando il
prezzo del greggio cala, si evidenzia l’aumento di investimenti esteri e l’avvio di un ciclo economico
legato all’esportazione di manufatti. Come in gran parte dell’Asia, anche in Indonesia lo sviluppo si
collega al consolidamento autoritario delle istituzioni, caratterizzate da un alto tasso di corruzione.
La crisi finanziaria che nel ’97 coinvolge tutta la regione mette in drammatica evidenza come la
scarsa legittimazione delle elite politiche si unisce al funzionamento non regolare e non
trasparente del mercato. Secondo alcuni studiosi, non sono queste le cause della cirsi, ma ne
costituiscono potenti fattori di aggravamento ed estensione, capaci di condizionare anche la
ripresa successiva. Del resto la crisi che colpisce la Thailandia nel 1997 e si ripercuote su tutto il
Sud-Est asiatico è preceduta da una nuova crisi debitoria del Messico nel 94 e a sua volta precede
quella argentina del 2001. Se paragonate alle crisi finanziarie e valutarie della prima
globalizzazione, quelle di fine Novecento hanno effetti più devastanti sulla base produttiva dei
paesi poveri, anche se richiedono tempo meno lunghi per il risanamento, grazie all’intervento di
agenzie internazionali inesistenti cento anni fa. Nel corso degli anni 90 gli investimenti esteri diretti
nei paesi poveri rappresentano una minoranza rispetto ai due terzi che si dirigono verso i paesi
ricchi, tuttavia rappresentano l’afflusso di denaro in entrata maggiore, a cui si aggiungono le
rimesse degli emigranti. Tra gli effetti ricollegabili alla rivoluzione verde, vi è anche un silenzioso
cambio di paradigma nelle politiche agricole della BM, che rimette al centro le famiglie contadine ,
al posto dei governi nazionali. Dalla dimensione “macro” dei grandi piani centralizzati, si passa ad
un approccio “micro” che mette in luce le potenzialità imprenditoriali e produttive presenti su
scala locale all’interno delle comunità tradizionali e mobilitabili tramite una concertazione
decentrata. Sull’onda di tale cambio di paradigma, la BM vara all’inizio degli anni ottanta il
programma “Living Measurements Study”, uno sforzo senza precedenti di omogeneizzazione dei
criteri di rilevazione delle indagine a livello familiare, volte ad accertare condizione igienico-
sanitarie, scolarità, reddito e consumi, qualità di vita delle popolazioni. Da qui, ancora oggi,
proviene la maggioranza dei dati sulla povertà e l’ineguaglianza nel mondo.

4. Regolazione strutturale

Al vertice della BM sembra così verificarsi uno sdoppiamento di piani, non sempre comunicanti tra
loro, tra lo studio “micro” della povertà e lo studio “macro” del Washington Consensus. Manifesto
del nuovo corso è il c.d. “rapporto Berg”, il cui fulcro è la critica delle distorsioni di mercato dei
paesi in via di sviluppo: sopravvalutazione delle monete nazionali, prezzi artificialmente bassi delle
derrate alimentari, regimi privilegiati per le industrie di stato. La risoluzione del problema del
debito e quindi il risanamento finanziario passano per una “regolazione strutturale”, fatta di
ridimensionamento dei flussi di spesa pubblica e di liberalizzazione del mercato sia interno che
internazionale. Rimane però una contraddizione di fondo tra economia e politica: infatti, ai
governi che sono ritenuti colpevoli di tali distorsioni, si chiede un radicale cambio di rotta,
finalizzando a questo obbiettivo ulteriori linee di credito. Ma con una possibilità molto ridotta di
verificare in corso d’opera, la reale rispondenza delle politiche governative ai vincoli
tassativamente imposti. Esaminando 220 programmi di regolazione strutturale intrapresi dalla BM,
si evince che almeno un terzo di essi sia fallito miseramente, soprattutto per la scarsa
collaborazione dei governi autoritari ormai da tempo consolidati al potere. Alla fine del decennio,
la BM stila l’elenco dei risultati ottenuti dalle politiche di regolazione strutturale: calo dei tassi di
cambio e dell’inflazione, aumento dei prezzi delle esportazioni e della produzione agricola,
crescita del PIL, delle esportazioni e degli investimenti. Ma la stessa BM esprime un meditato
scetticismo sui risultati che la regolazione strutturale ha avuto sulla riduzione dei tassi di povertà.
Infatti, tali politiche sortiscono effetti differenziati: esercitano un vincolo positivo sui paesi meno
poveri (Brasile, Messico, India, Indonesia, Argentina, Turchia) che nel 1993 guidano la classifica dei
paesi più indebitati, ma per molti paesi poveri la corsa all’indebitamento non si arresta e la
rinegoziazione dei prestiti corrisponde alla stipula di nuovi debiti. Soprattutto per quei paesi
definiti “fortemente indebitati” rappresentati perlopiù dai paesi dell’Africa sub sahariana (4°
mondo), i prestiti condizionati di regolazione strutturale non sembrano avere effetti significativi sul
piano della riduzione della povertà, né sulla stessa crescita economica. Un Report della BM del
1990, dal titolo “poverty”, prospetta una “new conditionability” per i prestiti esteri, legata non più
al risanamento del debito bensì all’adozione di politiche attive di lotta alla povertà. Si formalizza
allora una distinzione tra “povertà estrema”, definita dal minimo giornaliero di calorie richiesto da
una vita normale (attualmente equivale a 275 dollari annui), e “povertà” intesa come
impedimento ad una libera partecipazione alla vita civile, sociale e sanitaria. Le tecniche di
rilevazione conoscono uno sviluppo decisivo che rivede la soglia di povertà fissandola a un dollaro
al giorno: alle spalle di questa revisione sta una critica al concetto di povertà assoluta come
semplice deficit nutritivo. La povertà corrisponde piuttosto a una condizione relativa di
emarginazione, isolamento e passività rispetto al proprio ambiente.

La globalizzazione dei mercati avvicina i prezzi tra i paesi poveri e ricchi e nei primi vi è una
rivalutazione del rapporto tra prezzi di mercato e potere d’acquisto reale(specie dopo l’ingresso
nelle analisi di paesi come la Cina e l’India) e ne è conseguita una nuova poverty line fissata a 1,25
dollari giornalieri. Bisogna sottolineare però che in alcuni paesi i poveri che in un particolarmente
momento si trovano al di sopra della soglia di povertà, possiedono da 1 a 3 ettari di terra e almeno
la metà dei bambini va a scuola. Esercitano contemporaneamente diversi lavori (eco informale) e
la pluriattività corrisponde così a una scarsità di impieghi salariali e mancanze di specializzazione
che impedisce l’avvio di attività economiche più stabili e redditizie

5. Un decennio perso

Secondo la BM, l’unico paese al mondo che realizza grandi progressi nella lotta alla povertà è la
Cina: il resto del 3° mondo o contiene il fenomeno, sotto i ritmi dell0incremento demografico
naturale (india, sud-asia, nord-africa e sud america) o ne conosce un’espansione (in linea con
l’aumento della popolazione (africa sub sahariana). Ad alimentare le ragioni dei pessimisti che
parlano di un “lost decade” (decennio perso), è anche il fatto che gli anni ottanta vedono Africa ed
America avvitarsi nella recessione, a differenza dell’Asia. A confronto di quello asiatico, il
nazionalismo economico dei due continenti appare irrimediabilmente negativo: regimi fisclai
antirurali e sopravvalutazione delle monete portano alla stasi nelle esportazioni e al decollo del
debito estero. La crescita parassitaria delle città ne è solo la più vistosa conseguenza. Ma il
peggioramento in termini di povertà e ineguaglianza within country ne è l’effetto più grave e
duraturo. Alla recessione economica si accompagna l’involuzione politica: nel 1988 solo 2 stati
(Botswana e Mauritius) sono considerati liberi e sono anche quelli che registrano i redditi medi pro
capite migliori. Viceversa in Sud America giunge ad esaurimento un travagliato ciclo politico
autoritario legato alla sostituzione delle importazioni, dando il via al rilancio della democrazia
multipartitica che si accompagna con la svalutazione delle monete nazionali e a liberalizzazioni
commerciali che restituiscono impulso alle esportazioni. Il caso simbolo è quello del Brasile, il
quale sotto la guida del regime militare realizza fino al 1973 un miracola economico, che si fonda
sulla crescita dell’industria pesante, produttrice di beni di consumo durevole. Il lungo ciclo di
sostituzione delle importazioni diversifica precocemente l’export brasiliano, a tutto vantaggio dei
manufatti industriali che salgono fino al 36% sul totale delle esportazioni. Ma a differenza di
quanto accade in Asia, questa crescita rimane come imbozzolata, non riuscendo a generare
sviluppo economico, ma anzi aumentando a dismisura l’indebitamento estero. Il risultato è
un’iperinflazione che nel 1985 arriva a toccare il record del 235%. La transizione alla democrazia
quindi si svolge nel segno di una serie di terapie d’urto deflattive, fatte di ripetuti cambi della
valuta nazionale, congelamento dei prezzi, dei salari e dei depositi bancari. La vittoria
sull’inflazione però, fu pagata ad un doppio caro prezzo: una contrazione secca degli investimenti
esteri e un ulteriore allargamento delle distanze social, cala infatti costantemente la quota di
reddito detenuta dal 5° più povero della popolazione. Ancora una volta, ciò che distingue
profondamente la crescita economica brasiliana da quella asiatica è l’ineguaglianza nelle
campagne (within-country). Anche le statistiche relative all’Africa, in particolare modo quella sub
sahariana, mostrano la presenza di una “divergenza negativa” rispetto all’Asia, in termini di
scolarizzazione e di riduzione della mortalità infantile: frutto questo anche degli innumerevoli
conflitti militari che funestano il continente, dell’involuzione autoritaria e antirurale delle
istituzioni, dall’espandersi del virus dell’HIV, dalla contrazione della spesa pubblica e dei redditi pro
capite. Non stupisce quindi che uno degli effetti della “lost decade” sia quello di concentrare
l’attenzione sull’effettiva utilità degli aiuti occidentali ai paesi poveri. Infatti, in misura
preponderante gli aiuti sono frutto di accordi bilaterali tra governi: la “ragion di stato” delle
relazioni internazionali, unita a vecchi retaggi coloniali, produce alti gradi di “urban bias”, a causa
della presenza di governi autoritari e corrotti, poco intenzionati ad aiutare davvero la massa dei
poveri nelle campagne. La storia economica globale del secondo dopoguerra, mette in luce due
processi di fondo:

- Il venire meno della solidarietà internazionale che attorno ai temi della giustizia e
dell’ineguaglianza si era stabilita con la nascita delle Nazioni Unite e la decolonizzazione.
Le pesanti barriere erette da Nord America, Europa e Giappone a tutela delle proprie
colture ne restano l’emblema più significativo.
- L’emblema delle c.d. “anatre in volo” asiatiche che escono dalla categoria dei paesi
sottosviluppati, grazie ad una crescita economica superiore alla stessa rivoluzione
industriale del passato europeo. In tali casi, l’uguaglianza “whitin-country” si rivela
un’arma potente di lotta contro la povertà. Ma per lungo tempo sia le agenzie
internazionali preposte allo sviluppo, che i governi dei paesi ricchi, hanno prestato
scarsa attenzione per i processi economici impetuosi in corso d’opera nell’Asia
emergente.

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