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quanto pratica
di Alessandro Volpone
0. Prologo
“Pratica” della filosofia, al volgere del nuovo millennio, è anche quel-
la delle “pratiche filosofiche”, definibili come percorsi e metodi dell’inda-
gine razionale con orientamento filosofico1. A scuola, sul posto di lavoro, in
luoghi ricreativi o altrove (dalle istituzioni pubbliche alle aziende, dalle
aule universitarie ai caffè in piazza, dagli enti locali alle strutture turisti-
che, dai presidi sanitari e ospedalieri ai centri di bellezza e fitness, ecc.)
sempre più spesso si frequenta oggi la “filosofia”, o, meglio, il “filosofa-
re” nella sua dimensione di attività sociale e culturale umana, badando
non tanto ai contenuti, quanto più alla correttezza dell’argomentazione
e alla collegialità della riflessione. Generalmente, si tratta della ricerca
comune di una soddisfacente risposta “filosofica”, almeno in via presun-
tiva, a problemi e interrogativi, portati dai partecipanti alla discussione,
sufficientemente interessanti da poter essere assunti a oggetto d’indagine
da parte del gruppo di lavoro.
Snodi storici importanti di questa variegata tradizione d’uso, che,
senza alcun progetto unitario, s’è venuta frammentariamente e indipen-
dentemente costituendo lungo il corso del XX secolo, sono almeno tre o
quattro: la nascita del Sokratisches Gësprach di Nelson, la Philosophy for
children di Lipman, la Philosophische Praxis di Achenbach, o la Philosophi-
sche Organisationsberatung, il Café philo e la Consultation philosophique di
Sautet, ecc. Ciascuno di questi “eventi” apre la strada ai diversi filoni di
sviluppo della costellazione attuale delle pratiche filosofiche.
Il metodo del dialogo socratico (Sokratisches Gësprach) viene ideato e
messo a punto inizialmente, negli anni Venti, da Leonard Nelson
(1882-1927), un post-kantiano tedesco, che, cercando di riabilitare la
metafisica, a livello teorico, pensò di utilizzare, a livello pratico, il me-
todo dialogico filosofico nell’insegnamento di tipo “attivo”, della pe-
1 Cfr. A. Volpone, «Pratiche filosofiche, forme di razionalità, modi del filosofare con-
temporaneo», in Kykéion, 8, 2002, pp. 17-36. Analogamente, «metodi filosofici con orien-
tamento pratico» li definisce Paul Wouters, direttore della Scuola Internazionale di Filoso-
fia di Leida (cfr. Denkgereedschap. Een filosofische onderhoudsbeurt, 1999; trad. it. La bottega del
filosofo, Carocci, Roma, 2001, p. 9.)
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6 Per una disamina meglio articolata dello sviluppo storico delle diverse pratiche si veda:
A. Volpone, «Pratiche filosofiche, forme di razionalità…», cit., pp. 18-25. Nel lavoro non
viene menzionata (e me ne scuso) la Autobiografia filosofica, di Romano Madera e Luigi
Vero Tarca, alquanto interessante e certamente meritevole d’attenzione. Si tratta di una
delle pochissime pratiche filosofiche originali italiane, nata intorno alla fine degli anni
Settanta, autonoma e indipendente rispetto al contesto internazionale. (Per informazioni
sull’argomento cfr. R. Madera, L. Vero Tarca, La filosofia come stile di vita, Bruno Mondado-
ri, Milano, 2003.) Rimando ad altra sede l’analisi delle sue caratteristiche fondamentali e la
discussione delle ragioni intellettuali per cui è possibile inserire a pieno titolo la medesima
nel panorama più esteso delle pratiche filosofiche. Altro caso italiano è quello delle Vacan-
ze filosofiche, ma anche su questo, al momento, si preferisce sorvolare.
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Per un paragone analogo, cfr. M. De Pasquale, Al caffè con Socrate, Stilo, Bari, 1999, p. 9.
8 Su questo precipuo significato dell’opera di Aristotele, si veda in particolare: E. Berti,
Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 1989.
9 In proposito, cfr. ad esempio: A. Cosentino, «Tra oralità e scrittura in filosofia: il mo-
dello della Philosophy for Children», in M. De Pasquale, a cura di, Filosofia per tutti, Angeli,
Milano, 1998, pp. 134-155.
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1. Il Quid
Lavorare ad una epistemologia delle pratiche filosofiche vuol dire di-
scutere dell’orizzonte di significato entro cui collocare gli oggetti concet-
tuali di riferimento. È un lavoro teorico che non tradisce per niente la
natura eminentemente operativa delle pratiche filosofiche, perché è ge-
neralmente sconveniente che teoria e pratica restino divise, nelle diverse
occupazioni umane, mentre è più sensato che ciascuna svolga il proprio
ufficio, nell’economia del tutto. Il meccanismo è il medesimo, ad esem-
pio, di quello che esiste nel rapporto tra filosofia e scienza. La scienza si
costituisce come processo autonomo di organizzazione razionale di dati
sperimentali, mentre la filosofia si attribuisce il compito di “fondare” la
scienza, cioè quello di chiarirne i presupposti, le condizioni e le finalità.
L’epistemologia è una “filosofia” della scienza, nel caso della scienza, e
analogamente si potrà parlare, nel caso che qui interessa, di una vera e
propria “filosofia” delle pratiche filosofiche.
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ranea stia andando nella direzione che porta ad esse. Il rinnovato inte-
resse odierno nei confronti della filosofia e il bisogno culturale e sociale
diffuso ne sono una dimostrazione. Non è un caso che oggi vi siano
appunto le pratiche filosofiche. L’evento, in sé, per la filosofia non rap-
presenta “cadute” di sorta, cioé non si “sminuisce” alcunché. La filosofia
non è mai cambiata. Ciò che si modifica, nel corso dei secoli, è invece il
nostro rapporto nei suoi confronti: ciascuna epoca si pone in una certa
relazione rispetto alla filosofia, così e così determinata. Il ragionamento
si può perfino ribaltare: oggi non è possibile in filosofia spingersi oltre le
pratiche filosofiche. Esse ne rappresentano la frontiera estrema attuale,
frutto di una rinnovata attenzione verso la disciplina, e ignorarle o sot-
tovalutarle è del tutto sconveniente.
La storia della filosofia non può esimersi dall’analisi del fenomeno in
questione. Il punto è: noi desideriamo le pratiche filosofiche, ma per-
ché? È razionale il nostro desiderio? Perché lo desideriamo oggi? Di cosa
è sintomo tutto questo? Queste sono domande filosofiche, e rispondere
ad esse significa immediatamente “fondare” queste varietà atipiche della
filosofia e del filosofare, considerandole come un tutt’uno, senza entrare
nel merito di ciascuna di esse, cioè proprio secondo il punto di vista
“materiale” di cui si sta discutendo.
Nel lavoro del 2000 qui richiamato, l’Ontologismo novecentesco12
viene indicato come il canto del cigno della razionalità filosofica occi-
dentale, entrata successivamente in crisi. Existenzphilosophie ed esistenzia-
lismo, invece, cioè le cosiddette “filosofie della crisi”, hanno ri-scoperto
e pure ri-coperto l’esistenza, concreta, ponendola (nuovamente) al cen-
tro dell’attenzione, ma trattandola mediante vecchie categorie e conce-
zioni13. I loro “limiti” sono quelli di buona parte della filosofia del No-
vecento, che hanno impedito di arrivare (o di poter tornare) prima d’og-
gi all’esercizio pratico filosofico pubblico, e sono almeno due: (1) la spo-
liticizzazione della filosofia che assurge a scienza autonoma e (2) il pri-
mato del commentario erudito sul vissuto concreto. Il primo può essere
brevemente illustrato mediante un richiamo a Hannah Arendt, il secon-
do a Pierre Hadot.
Arendt ha visto in Platone e nella sua opera il primo tentativo di
porre fine al conflitto tra il filosofo e la polis, manifestatosi in tutta la
sua gravità nel processo e nella condanna a morte di Socrate. Falliti i
vari tentativi di Platone di rifondare la polis, sia teorici, superbamente
espressi nella Repubblica, che pratici, con Dionigi e la tragica disavven-
della relazione ora è contenuto in: A. Volpone, «Oltre le pratiche filosofiche», in Pratiche
Filosofiche/ Philosophy Practice, cit., pp. 18-23 (in italiano) e pp. 32-37 (in inglese).
12 Quello italo-tedesco di Pantaleo Carabellese (Critica del concreto, 1921), di Nicolai Hart-
mann (Wie ist eine kritische Ontologie überhaupt möglich?, 1925) e soprattutto di Martin Hei-
degger (Sein und Zeit, 1927), inclusi gli sviluppi che ne sono derivati.
13 Cfr. A. Volpone, «Oltre le pratiche filosofiche», cit., pp. 8-9.
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fia intesa come attività, o, meglio ancora, come un’attitudine, una ma-
niera di vivere: in questo caso, il filosofare non può dirsi affatto conclu-
so una volta raggiunto un qualche risultato.
Molte difficoltà che incontriamo quando cerchiamo di comprendere le opere
filosofiche degli antichi spesso derivano dal fatto che, interpretandole, com-
mettiamo un duplice anacronismo: crediamo che, come molte opere moder-
ne, siano destinate a comunicare informazioni intorno a un contenuto con-
cettuale dato, e che noi ne possiamo anche trarre direttamente chiare infor-
mazioni sul pensiero e sulla psicologia del loro autore. Ma, di fatto, sono as-
sai spesso esercizi spirituali che l’autore pratica egli stesso, e fa praticare al suo
lettore. Sono destinate a formare le anime18.
L’inversione del processo di spoliticizzazione della filosofia e il recu-
pero della dimensione del modus vivendi in seno ad essa sono chiari segni
di un cambio d’atteggiamento dell’uomo verso la disciplina. L’esistenza
della filosofia riscopre o assume un senso nuovo (per l’uomo). È ormai
matura per poterlo fare e i tempi lo richiedono. Ciò non vuol dire che il
filosofo di professione debba più frequentemente comunicare il “distilla-
to dei suoi pensieri” al “volgo”, agevolarne la comprensione in vario
modo, o che debba fare l’opinionista o debba competere con consiglieri
e consulenti di varia schiatta. Si tratta piuttosto di diffondere e animare
piccole-grandi comunità di ricerca filosofica, luogo di costruzione di
democrazia autentica, da una parte, e laboratorio d’autonomia di pensie-
ro, dall’altra, senza la tutela di nessun maestro, pregiudizio, opinione ed
emozione.
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bilmente, l’unico risultato sarà quello di una apertura alla riflessione filo-
sofica, che, in sé, è già qualcosa, in confronto alla chiusura.
Giova a questo punto ricordare quanto da me già espresso altrove31,
trattando della nozione di “chiacchiera” (das Gerede) in Heidegger.
Ciò-che-è-stato detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autori-
tà. Le cose stanno così perché così si dice. […] La totale infondatezza della
chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, ma un fat-
tore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza
alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera
garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione32.
Più avanti: «La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime
da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indiffe-
rente, per la quale non esiste più nulla di incerto»33. Ancor più significa-
tivamente: «La chiacchiera, rifiutandosi di risalire al fondamento di ciò
che è detto, è sempre e recisamente un procedimento di chiusura. Que-
sta chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la
sua presunzione di possedere sin dall’inizio la comprensione di ciò di
cui si parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, svalutan-
doli o ritardandoli in
modo caratteristico»34.
Mediante questa o
altre riflessioni analo-
ghe, sembra del tutto
lecito affermare che se
non è possibile dimo-
strare che nelle prati-
che filosofiche si fac-
cia davvero filosofia, si
può almeno dire che
in esse non si fanno
affatto chiacchiere. Vi
sono contesti comuni-
cativi in cui la chiac-
chiera svolge una fun-
zione essenziale, inso-
stituibile, ma in una sessione di lavoro di qualsiasi pratica filosofica, inve-
ce, qualunque sia l’età degli interlocutori e dovunque ci si trovi (in
un’aula scolastica, sul posto di lavoro, in un caffè, ecc.), accade spesso
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sia meno corretta), che oggi include ormai un mare magnum di attività
filosofiche o presunte tali. Con il termine composto di “filosofia appli-
cata” s’intende generalmente la discussione delle conseguenze logiche di
principi e sistemi filosofici in circostanze specifiche, oppure la riflessione
filosofica, per lo più di natura etica, su questioni del nostro tempo di
una certa rilevanza, generate soprattutto dai cambiamenti economici,
scientifici e tecnologici della società attuale. L’etica biomedica, o la bioe-
tica in generale, l’etica economica (o degli affari), quella computistica, o
delle reti informatiche, quella ecologica o ambientale, ecc. sono alcuni
tra gli esempi più noti di applicazione (iniziata a partire almeno dagli anni
Settanta) di contenuti e strumenti filosofici per analizzare e tentare di
risolvere problemi del mondo reale, mettendo alla prova i precetti che
derivano da questa o quella teoria dell’agire etico in nuove circostanze
storiche. Esempi ben noti delle questioni più dibattute sono l’aborto, il
divorzio, l’eutanasia, la sperimentazione sugli animali non umani, le
biotecnologie, l’ingegneria genetica, la farmacopea con molecole d’ori-
gine umana, la globalizzazione economica, i diritti-doveri dell’operatore
economico, l’impiego di immigrati irregolari, le manifestazioni di odio
via Internet, l’ambiente, lo sviluppo compatibile, l’eliminazione di rifiuti
tossici, ecc.
La filosofia delle pratiche filosofiche si differenzia dalla filosofia ap-
plicata sotto almeno due aspetti. In primo luogo, non v’è un sistema
privilegiato di principi da mettere alla prova in situazioni specifiche,
sebbene sia possibile in entrambi i casi discutere di diverse soluzioni
possibili in riferimento a problemi, dilemmi esistenziali e dubbi di varia
natura. In secondo luogo, non si hanno di mira problemi di vasta porta-
ta, come quelli menzionati, ma si parte da questioni personali, cui ov-
viamente possono far da sfondo problemi di più ampio respiro. Sempli-
ficando al massimo: l’una prospettiva parte di solito dal generale per
arrivare al particolare, l’altra sembra compiere il percorso inverso. Per
certi versi, tuttavia, la separazione può essere molto difficile da definire,
come nel caso della “bioetica clinica” e dei suoi operatori che, vis-à-vis,
in ospedali, centri di assistenza o ascolto, hanno di certo a che fare con-
temporaneamente sia con grosse questioni etiche che con problemi per-
sonali, nell’immediatezza e corporeità di un singolo individuo, della sua
storia, delle sue aspettative e prospettive reali d’esistenza.
Il fine precipuo di ogni “applicazione” della filosofia è la messa a
punto e il controllo di quanto è stato elaborato in ambito teorico-
speculativo, tradotto in situazioni e contesti reali. Tale esercizio, in effet-
ti, è a vantaggio più della disciplina stessa che dell’individuo che se ne fa
cultore, oppure, tutt’al più, fa gli interessi di entrambi. In una sessione
pratica filosofica, invece, a rigori, non si “applica” nulla, ma si elabora, si
crea, si co-costruisce qualcosa. Questo qualcosa, spesso, anziché essere il
raggiungimento di una conclusione, è semplicemente la modificazione
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4. Quante distinzioni?
Le classificazioni proposte e illustrate nei paragrafi 3.2 e 3.3 presenta-
no differenze di genere, e non di grado, rispetto alla classificazione delle
filosofie di Semerari, da cui il discorso, in questa sede, strumentalmente,
era partito. Si tratta di prospettive completamente diverse d’analisi, con
livelli discordanti di sviluppo e generalizzazione. Stessa cosa dicasi nel
caso, ad esempio, della distinzione di Chaïm Perelman fra filosofie prime
e filosofia regressiva36, secondo cui le une si basano su principi fondanti
considerati veri, la cui messa in discussione le invalida, mentre l’altra fa
scaturire i propri assiomi da situazioni determinate e particolari, che
vanno rivisti se il contesto si modifica. Ciò rientra nella sua critica del
concetto di ragione di matrice cartesiana e tende ad enfatizzare l’ambito
del probabile rispetto a quello del necessario. Quest’ultimo, per Perel-
man, è limitato a ciò che può essere dedotto in modo astratto e formale,
oppure ricavato per via empirica e sperimentale; l’altro, invece, più am-
pio, è il mondo dell’opinabile, entro cui si confrontano convinzioni e
pareri diversi, o si giudica sui valori37.
La tripartizione semerariana, forse, non va oltre ciò che Perelman
definisce come “filosofie prime”, poiché in essa, è chiaro, non v’è al-
cunché di rapportabile alla “filosofia regressiva”. Ma si potrebbe far
rientrare quest’ultima nella terza strada da lui indicata, cioè «le distru-
zioni, che la Filosofia fa delle false sicurezze e delle false certezze, in
vista di sicurezze e certezze più affidabili». Ogni filosofia, in fondo, è
critica e (ri)costruzione al tempo stesso, e con ciò si può definire tutto e
il contrario di tutto. A prescindere da incongruenze e coincidenze fra le
due tassonomie, tuttavia, il fatto è che, rispetto al fenomeno delle prati-
che filosofiche, entrambe risultano “datate”, per così dire. Esse non sono
in grado di contenere la sua natura teorica, pratica e storica, ma prima di
esplicitare meglio il motivo di ciò è opportuno puntualizzare qualcosa.
Non si pensi che Semerari, nella sua opera professionale, si sia mosso,
di fatto, altrove rispetto alla filosofia regressiva di Perelman38, quando, ad
esempio, cercava di indicare la strada per una “metafisica a misura d’uo-
mo”, collocata semplicemente al limite mutevole del noto e dell’ignoto
che mette continuamente in movimento la ragione umana, nella condi-
zione dell’insecuritas; oppure quando sosteneva la necessità di una filoso-
fia della scienza che si occupi di uno dei più grandi fenomeni della civil-
36 Cfr. C. Perelman, «Philosophies premières et philosophie régressive» (1949), in: id. e L.
Olbrechts-Tyteca, Rhétorique et philosophie. Pour une théorie de l’argumentation en philosophie
(1952), trad. it. Retorica e filosofia. Per una teoria dell’argomentazione in filosofia, De Donato,
Bari, 1979, pp. 121-139.
37 Cfr. anche: C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhé-
torique (1958), trad. it. Trattato dell’argomentazione, Einaudi, Torino, 1966.
38 Con Perelman, Semerari condivide molti punti in comune, sebbene la provenienza
intellettuale dei due autori sia completamente diversa.
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41 È proprio e soltanto questo ciò che intendo per valore “strumentale” della filosofia
nelle pratiche filosofiche (cfr. A. Volpone, «Questioni epistemologiche» e «Oltre le prati-
che filosofiche», cit.).
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a con-filosofare → realtà
44 Nelle pratiche filosofiche, sarebbe opportuno non fare mai riferimenti espliciti a
questo o quel filosofo della tradizione disciplinare, perché, in qualche senso, è come
fare entrare nel gruppo un nuovo ragionatore, che, però, non può usufruire del diritto-
dovere all’argomentazione se non per interposta persona. Questo è scorretto: nei con-
fronti di se stessi, dei propri interlocutori e dello stesso filosofo menzionato. L’intro-
duzione in oggetto altera il dialogo, che si va svolgendo, e incurva la trama delle rela-
zioni comunicative, che si va strutturando, ma nessuno potrà mai sostituirsi completa-
mente al filosofo richiamato, a meno di non essere proprio lui, in quel momento e in
quel contesto.
45 J. Derrida, Du droit à la philosophie, Galilée, Paris, 1990, p. 33 (mia traduzione).
46 G. B. Achenbach, Philosophische Praxis, Dinter, Köln, 1984, p. 14. «La figura in cui la
filosofia si concretizza è il filosofo: ed egli, in quanto istituzione della filosofia nel caso
specifico, è la pratica filosofica» (mia traduzione).
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5. Epilogo
Torniamo alle tassonomie di cui si diceva, cercando di concludere. Lo
scopo per cui se n’è discusso, nella presente sede, è semplicemente quel-
lo di chiarire meglio, per analogia o per contrasto, la dimensione epi-
stemologica delle pratiche filosofiche. Sono state dapprima introdotte
due discriminanti: (1) la distinzione fra un esercizio di tipo categorema-
tico della filosofia e uno di tipo sincategorematico e (2) l’oltrepassamen-
to del circolo produzione-riproduzione disciplinare. Esse consentono di
circoscrivere il campo di una filosofia definibile ad hominem (contrappo-
sta ad una ad disciplinam e ad una ad hoc). L’ambito delle pratiche filoso-
fiche, però, collocato all’interno di questo campo, ha bisogno ancora di
un terzo discrimine: (3) l’uso del con-filosofare, cioè quello di un’in-
terazione dialogico-filosofica di natura auto-correttiva (rispetto a conte-
nuti, forme e metodi) e auto-regolativa (rispetto ad abilità comunicative,
sociali e politiche in senso ampio).
In termini kantiani, si può dire che tutta quanta la filosofia ricono-
sciuta finora è sempre stata “analitica a priori” oppure “sintetica a priori”,
rispetto a se stessa, mentre oggi essa compare anche sotto forma “sinteti-
ca a posteriori”. Quella “analitica a priori” guarda solo ed esclusivamente
a se stessa, quella “sintetica a priori” trova nel mondo il proprio fonda-
mento, ma alla fine torna comunque a se stessa. Quella “sintetica a poste-
riori”, invece, guarda al mondo e solo al mondo. La prima e la seconda
possono garantire l’universalità della riflessione umana o qualunque al-
tra cosa, ma non riusciranno mai dimostrare che tutto ciò sia escluso
dalla terza. Il Possibile non è mai falso a priori. Fuor di metafora: non si
può dimostrare a priori, cioè in linea di principio, che la filosofia delle
pratiche filosofiche, o, più in generale, quella ad hominem non è “filoso-
fia”. L’unica maniera di farlo è soltanto a posteriori (cioè sessione dopo
sessione, caso dopo caso, ecc.), s’è detto ampiamente, e in fondo è pro-
prio questo il rischio del Synkategorein.
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