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ISSN40391-1896
Anno4LXVIII4Fasc.434-42014
Bruno4Capponi
Estratto
Milano4•4Giuffrè4Editore
DISCUSSIONI E APPROFONDIMENTI
(1) http://www.judicium.it/admin/saggi/517/Lettera%20Presidente%20Cassazio
ne.pdf. Si tratta di una nota indirizzata al presidente del Cnf per sollecitare la stesura
di atti caratterizzati da « chiarezza » e « sinteticità », in modo da esaltare la « forza
d’impatto » dell’impugnazione; su di essa v. i brevi commenti di MICCOLIS, nota senza
titolo in www.judicium.it del 27 novembre 2013, e (tra il serio e il faceto) di CAPPONI,
Brevità, concentrazione, non-ripetizione, ivi, del 2 dicembre 2013. Il presidente
Santacroce sottolinea l’opportunità che gli atti rivolti alla Corte non superino, di norma,
le venti pagine; che gli atti di una certa complessità siano accompagnati da un riassunto
di due o tre pagine; che, comunque, quelli complessi siano articolati in un indice-
sommario che ne faciliti la lettura; che le memorie ex art. 378 c.p.c. non siano
meramente riproduttive degli atti introduttivi, come evidentemente spesso avviene.
(2) Lo ricorda FINOCCHIARO, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv.
dir. proc., 2013, pp. 853 ss., spec. p. 861. Il presidente De Lise individua un limite di
estensione di venti-venticinque pagine, con la raccomandazione per cui, ove l’atto risulti
più esteso, dovrebbe essere accompagnato da un abstract al massimo di due pagine.
(3) I richiami alla sinteticità degli atti sono, nel c.p.a., molto insistiti. Nell’udienza
pubblica, qualora lo chiedano, « le parti possono discutere sinteticamente » (art. 73,
comma 2º); in sede cautelare, « nella camera di consiglio le parti possono costituirsi e i
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2. — Iniziamo col considerare gli atti di parte, che sono appunto finiti
sotto la lente.
(7) È quanto si registra anche osservando i protocolli redatti dagli osservatori, nei
quali, inizialmente, era costante il richiamo alla trattazione orale della causa. Peraltro,
proprio l’esame dell’art. 183 c.p.c. nel testo proposto dalla Commissione Vaccarella
(loc. cit.) testimonia un timido ritorno al canone della trattazione orale, magari solo
quale reazione al cieco automatismo con cui, attualmente, viene chiesto e concesso il
triplo termine del comma 6º.
(8) Vera « bandiera » della riforma del 1990: v., per tutti, PROTO PISANI, La nuova
disciplina del processo civile, Napoli, 1991, p. 108 ss.
(9) CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele: di merito,
sommarie e esecutive2, Torino, 2012, p. 221 ss.
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piede gli osservatori con i loro protocolli (10). Molti di questi pongono
infatti « regole » — la cui osservanza è sempre di tipo spontaneo e volon-
taristico — anche sulla tecnica di redazione degli atti, in modo da favorirne
brevità e chiarezza (11). Già altrove abbiamo notato che « la diffusione di
protocolli e osservatori — vale a dire di occasioni di confronto tra pratici,
volte alla migliore organizzazione del processo e alla conforme applica-
zione delle norme processuali; tale funzione è sovente svolta anche da
mailing-list, che operano a livello nazionale quali sistemi di self-help per gli
operatori — è sintomo di un altro fenomeno piuttosto preoccupante: le
discipline processuali, di fattura sempre più improvvisata e precaria, sono
sempre meno comprensibili e determinano fatalmente applicazioni diffe-
renziate nel territorio (e, spesso, all’interno dello stesso ufficio). E se da un
lato il legislatore, dettando norme sempre più dettagliate, mostra scarsa
fiducia nella possibilità che gli operatori hanno di ben applicare una
disciplina “aperta”, dall’altro lato quegli stessi operatori — preso atto
dell’incapacità del legislatore di far bene il suo mestiere — si organizzano
per condividere letture ragionevoli e pratiche di discipline anodine, o
sovente francamente incomprensibili » (12). Possiamo forse aggiungere,
ora, che anche l’esperienza degli osservatori e dei protocolli ha finito per
dare frutti limitati, specie in relazione al tema che stiamo esaminando che
pure è di rilevanza centrale nella « buona pratica » del processo.
In questo contesto sia la Corte di cassazione (13), sia i giudici di
merito (14) hanno iniziato a « sanzionare », pur in assenza di formali
sanzioni, la gratuita prolissità e ripetitività degli atti di parte. La prima, nel
decidere un ricorso con motivazione semplificata (15), ha giudicato che
(10) Che attirano, dopo i plausi incondizionati, le prime voci critiche: v., ad es.,
DELLA PIETRA, La second life dei protocolli sul processo civile, in Il giusto proc. civ., 2012,
p. 895 ss.
(11) Esemplare, in tal senso, quello approvato dall’osservatorio per la giustizia
civile di Torino, denominato « protocollo per la redazione degli atti processuali civili ».
Si tratta di un documento significativo, anche per l’elementarità delle prescrizioni: si
suggerisce infatti che l’atto sia distinto in parti, tra un « fatto » « privo di ogni conta-
minazione valutativa » e un « diritto »; che il « fatto » sia distinto in capitoli separati; che
il « diritto » sia diviso in paragrafi e sotto-paragrafi con anteposizione, nei casi più
complessi, di un indice-sommario; che le citazioni di giurisprudenza siano eseguite in
note a piè di pagina; che, ancora nei casi più complessi, l’atto presenti un breve abstract,
da ripetere nelle memorie conclusionali. Il fatto stesso che siano dati suggerimenti di tal
tipo — utilissimi — la dice molto lunga sul quanto sia slabbrata e confusionale la
redazione di molti atti nel settore civile.
(12) CAPPONI-TISCINI, Introduzione al diritto processuale civile, Torino, 2014, p.
130.
(13) Cass., 4 luglio 2012, n. 11199, in Foro it., 2014, I, c. 238.
(14) Trib. Milano, (ord.) 1 ottobre 2013, in www.ilcaso.it e in Foro it., 2014, I, c.
243.
(15) Prassi autorizzata dal provvedimento del primo presidente Lupo del 22
marzo 2011 che può leggersi, con la relazione illustrativa, in Foro it., 2011, V, c. 183.
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(18) http://www.cortedicassazione.it/Notizie/Eventi/SchedaEventiPrimaPag.asp?
ID=194; MICCOLIS, op. loc citt.; adde TRIOLA, La resistibile ascesa del c.d. principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione, in Foro it., 2012, V, c. 265 ss.; SANTANGELI, Il
principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, p. 607 ss.;
FRASCA, Ricorso, controricorso e ricorso incidentale, in La Cassazione civile. Lezioni dei
magistrati della Corte suprema italiana, a cura di Acierno-Curzio-Giusti, Bari, 2011, p.
63 ss.; G.F. RICCI, Il giudizio civile di cassazione, Torino, 2013, p. 272 ss.
(19) CAVALLONE, Un idioma coriaceo: l’italiano del processo civile, in Riv. dir.
proc., 2011, p. 97 ss.; M. FABIANI, La lingua italiana nella redazione degli atti giudiziari,
in Studi in onore di Modestino Acone, Napoli, 2010, p. 901 ss.
(20) V., per tutti ed anche per citazioni, FARINA, La semplificazione dei procedi-
menti civili di cognizione, in Commentario alle riforme del processo civile. Dalla
semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di Martino e Panzarola, Torino, 2013,
p. 19 ss.
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(34) Un recente esempio è dato dalla sez. un., 7 gennaio 2014, n. 61, che peraltro
ha risolto una questione di massima di particolare importanza (la sopravvivenza
dell’esecuzione in caso di caducazione del titolo del creditore procedente, qualora vi sia
intervento di creditori titolati).
(35) Cfr. l’art. 16, comma 5º, d.lgs. n. 5 del 2003 (abrogato con l. n. 69 del 2009),
secondo cui « La sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il
rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione
delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi ».
(36) Ricordiamo che secondo autorevole dottrina (TARZIA-FONTANA, voce Decreto
(dir. proc. civ.), in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1988, p. 1 ss.) l’art. 111 cost., comma
1º (ora 6º) avrebbe implicitamente abrogato il comma 4º dell’art. 135 c.p.c., circa la non
necessità di motivazione del decreto.
(37) Interessanti, al riguardo, le considerazioni di G. CONTE, Il linguaggio della
difesa civile, in Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali, a cura di
Mariani Marini e Bambi, Pisa, 2013, p. 35 ss.
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il modello scritto, lo scambio di tre memorie (art. 183, comma 6º, c.p.c.)
moltiplica di per sé i rischi della stratificazione. Ogni operatore ha modo di
verificare che assai spesso il contenuto di questi scritti è frutto di travaso
dal precedente al successivo quasi nel timore che il giudice, nel momento
in cui finalmente esaminerà il fascicolo, sarà portato a leggere solo l’ultimo
scritto e non tutti gli atti in successione. Spesso, la comparsa conclusionale
non è altro che l’assemblaggio degli scritti anteriori (anche se lo svolgi-
mento del processo ne abbia in parte soppresso l’utilità), e la tendenza alla
ripetizione del già scritto è tale che addirittura le conclusioni, sia pure
precisate in udienza in foglio separato come suggerito da molti protocolli
(ancora scrittura!), vengono puntigliosamente ritrascritte.
Nelle fasi di gravame la situazione peggiora, ancora una volta per
esclusiva responsabilità del legislatore. Nell’appello, dopo la riforma del-
l’art. 342 c.p.c. e la coeva introduzione del « filtro » da ragionevole
probabilità di accoglimento, molti avvocati hanno adottato modelli che
dissezionano la sentenza impugnata e lo stesso atto introduttivo del gra-
vame, aggiungendo, spesso a mo’ di premessa, una specifica trattazione —
a volte molto ampia — la cui sola finalità è quella di superare il vaglio di
ammissibilità. Il timore, nell’attuale clima di chiaro sfavore per le impu-
gnazioni (38), di non riuscire ad ottenere una pronuncia di merito ha
portato i più a redigere atti estesi e ripetitivi, magari sul presupposto che le
prescrizioni sanzionate da inammissibilità potranno risultare non solo dai
riferimenti ad hoc, ma anche dal contesto generale dell’atto. Dietro tali
nuove prescrizioni è l’idea, a molti parsa « rivoluzionaria », che debba
essere la parte che impugna a proporre il « progetto di sentenza » alterna-
tivo a quella gravata; e ciò ha forse innestato i presupposti di quella
grottesca confusione di ruoli che porta, ora (come fosse il terminale d’un
discorso iniziato da tempo), a prendere in seria considerazione l’idea che
debbano essere gli avvocati a motivare i dispositivi redatti dai giudici.
Lo stesso è a dirsi per la Cassazione; perché se è vero, come denunzia
il presidente Santacroce, che spesso si assiste ad una « parcellizzazione »
del « cuore » della censura « mediante una ripetizione di concetti che nuoce
all’assetto complessivo del ragionamento », è anche vero che di simile
risultato è stato quantomeno concausa il sistema dei « quesiti di diritto »,
nato per tutt’altra finalità ed ora abbandonato (ma non per i ricorsi
pendenti alla data di entrata in vigore della l. n. 69 del 2009), e altra
prevedibile concausa si rivelerà la recente riforma del n. 5) dell’art. 360
c.p.c. attuata dalla l. n. 134 del 2012 (39). La conversione del vecchio vizio
di motivazione in altro, imbastito soprattutto attorno al n. 4), ci farà
(43) Cfr., per tutti, TARZIA, Le istruzioni del giudice alle parti nel processo civile,
in Riv. dir. proc., 1981, p. 637 ss.
(44) Sul punto la relazione illustrativa è sintetica ma significativa, limitandosi essa
a segnalare che « i due commi introdotti nell’art. 121 mirano a dare indicazioni, sia al
giudice che alle parti, volte a favorire un costume attento non solo alla sobrietà dei
rispettivi atti, ma anche alla collaborazione nella individuazione delle questioni merite-
voli di trattazione scritta ».
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TARUFFO, L’abuso del processo: profili generali, in questa rivista, 2012, p. 117 ss.,
entrambi anche per riferimenti.
(48) Si tratta di una scelta che, come abbiamo già rilevato, è stata espressamente
operata nel c.p.a. (art. 26, comma 1º).
(49) Anche questa idea si va diffondendo: v. Trib. Reggio Emilia, 25 settembre
2012, in Corr. giur., 2013, p. 992 ss., con nota di LUPANO, Il terzo comma dell’art. 96
c.p.c. a tre anni dall’introduzione: orientamenti giurisprudenziali ed incertezze sistema-
tiche; Trib. Milano, 12 gennaio 2012, in Giur. it., 2013, p. 1885, con nota di BRENDA,
L’art. 96, comma 3, c.p.c. ed i punitive damages. Considerazioni in margine ad un caso
giudiziario. V. anche Cass., (ord.) 30 novembre 2012, n. 21570, in Danno e resp., 2013,
p. 299 ss., con nota di VANACORE, Mala fede processuale rilevante ai fini della condanna
ex art. 96, comma 3, c.p.c.
(50) Anche per tali ragioni giudichiamo culturalmente sbagliata la proposta
contenuta nel Collegato giustizia 2014, laddove si prevede, con impressionante generi-
cità, che l’avvocato possa essere condannato in solido col cliente per responsabilità
processuale aggravata: si consenta il rinvio a A prima lettura, cit., loc. cit., nonché a
MERONE, Responsabilità aggravata e solidale del difensore: una nuova idea di difesa
tecnica?, in www.judicium.it del 22 gennaio 2014.
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(51) È, più o meno, l’idea recepita dalla Cass., n. 19357 del 2012, cit., sebbene nel
caso la sanzione specifica fosse l’inammissibilità per mancato rispetto del requisito di cui
all’art. 366, n. 3), c.p.c.
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