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in primo grado, sempre che esso non sia escluso dalla legge. La
legge disciplina, infatti, casi di inappellabilità delle sentenze. Si
tratta delle sentenze pronunciate in unico grado o direttamente
da un giudice tipicamente d’appello come la Corte di appello.
L’art 339 co 1 continua dicendo che l’appello è il mezzo di
impugnazione delle sentenze pronunciate in primo grado, sempre
che esso non sia escluso dall’accordo delle parti ai sensi dell’art
360 co.2 (che disciplina il ricorso per cassazione quando le parti
sono d’accordo per omettere l’appello, caso peraltro
assolutamente marginale).
Un esempio di sentenza pronunciata in unico grado, e quindi
inappellabile per legge, è la sentenza pronunciata secondo equità
dal giudice di pace a norma dell’art 114 quindi su accordo delle
parti. Invece la sentenza pronunciata secondo equità dal giudice
di pace a norma dell’art 113 co.2 (cd. giudizio di equità necessaria
per cui il giudice di pace giudica secondo equità le cause il cui
valore non ecceda i 1100€) non è più inappellabile, cioè
l’originaria previsione di inappellabilità è venuta meno con il d.lgs
40/2006 che ha previsto un particolare regime di impugnabilità di
tali sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità ossia
un regime di impugnabilità limitata in quanto esse sono
appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul
procedimento, per violazione delle norme costituzionali o
comunitarie o dei principi regolatori della materia.
Altre sentenze pronunciate in unico grado, inappellabili per legge,
sono le sentenze del Tribunale quale giudice dell’esecuzione
(quindi monocratico) rese su giudizi di opposizione agli atti
esecutivi (le quale saranno ricorribili per cassazione ex art 111
Cost.) e le ordinanze (che erano sentenze prima dell’ultima
riforma) rese solo sulla competenza nonché le sentenze
pronunciate direttamente dalla Corte d’Appello.
Circa l’errore della forma decisoria sono appellabili le ordinanze
pronunciate in ipotesi in cui avrebbero dovuto essere rese
sentenze ai sensi dell art 279 cpc; non sono invece appellabili le
sentenze pronunciate in ipotesi in cui avrebbero dovuto essere
rese ordinanze. Queste sentenze sono però revocabili e
modificabili dallo stesso giudice che le ha emesse. Per quanto
riguarda poi l’errore della parte appellante nell’individuazione del
giusto giudice d’Appello, è sanabile con la translatio iudicii
l’errore nell’individuazione geografica del Tribunale o della Corte
di appello territorialmente competenti a ricevere gli appelli;
mentre è inammissibile l’appello proposto ad un organo diverso,
poiché di pari grado o di grado inferiore, rispetto al Tribunale per
le sentenze del giudice di pace e rispetto alla Corte di appello per
le sentenze del Tribunale.
Fuori di queste ipotesi, l’appello è il mezzo di impugnazione
proponibile avverso tutte le sentenze pronunciate in primo
grado.
Il giudice dell’Appello è un giudice diverso e di grado superiore
rispetto a quello che ha pronunciato la sentenza impugnata:
quindi l’appello al giudice di pace si propone al Tribunale nel cui
circondario ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza;
l’appello al tribunale si propone alla corta d’Appello nel cui
distretto ha sede il tribunale che ha pronunciato la sentenza (art
341). Si tratta di una competenza funzionale quindi un tipo di
competenza che non è riconducibile negli ordinari schemi di
competenza per materia, valore e territorio ma è una
competenza per relationem cioè il giudice dell’Appello è
individuato con riferimento al giudice che ha emesso la sentenza
impugnata ed è una competenza inderogabile. Sempre sul piano
meramente descrittivo l’art 342 stabilisce che l’appello, nel rito
ordinario, si propone con citazione contenente le indicazioni
prescritte dall’art 163, quindi c’è un richiamo alla disciplina del
contenuto dell’atto di citazione con riguardo al processo di primo
grado.
Un’altra norma che rinvia al processo di primo grado è l’art 359
che rinvia, in quanto applicabili cioè in quanto non incompatibili,
alle norme relative al procedimento di primo grado.
Dunque il giudizio d’Appello ricalca nelle sue forme esteriori, lo
svolgimento del processo di primo grado.
Oggetto del giudizio d’appello e limiti alla cognizione del giudice
d’appello.
L’appello è un’impugnazione sostitutiva cioè un’impugnazione
sullo stesso oggetto del grado anteriore: oggetto del giudizio
d’Appello è il diritto dedotto in giudizio. Con la proposizione del
giudizio d’Appello si chiede al giudice d’appello di decidere
nuovamente la controversia con una pronuncia che, quale che sia
l’esito del giudizio (anche in caso di integrale conferma della
sentenza di primo grado) si sostituisce alla sentenza di primo
grado. Quindi l’appello è un mezzo di gravame caratterizzato da
un duplice effetto: sostitutivo e devolutivo. L’effetto devolutivo
indica la devoluzione cioè il trasferimento al giudice dell’Appello
della medesima controversia, già decisa in primo grado. L’effetto
sostitutivo invece indica l’idoneità della sentenza d’appello a
sostituirsi alla sentenza di primo grado.
Oltre ad essere un’impugnazione sostitutivo-devolutiva, un’altra
caratteristica è quella di essere un’impugnazione “a motivi
illimitati” o si può anche dire “a critica libera” nel senso che non
c’è alcuna predeterminazione legislativa dei motivi. Mentre per il
ricorso per cassazione, la revocazione, l’opposizione di terzo
quindi per tutte le altre impugnazioni il legislatore predetermina
le censure che possono essere regolate attraverso quel mezzo di
impugnazione, nel senso che possono essere solo quelle, a pena
di inammissibilità, per l’appello non c’è alcuna predeterminazione
dei motivi. Questa caratteristica va a braccetto con il carattere
sostitutivo-devolutivo dell’appello perché in realtà l’appello
potrebbe anche essere immotivato. Diceva Calamandrei che
l’appello, secondo il suo modello più puro che non trova riscontro
nel codice del 40, presuppone solo la soccombenza per cui
l’appellante non sarebbe tenuto a svolgere specifiche censure
avverso la sentenza di primo grado ma potrebbe limitarsi a
chiedere una nuova decisione della causa essendo a ciò
legittimato dalla soccombenza e, sempre secondo il modello
ideale, è sufficiente la proposizione dell’appello per devolvere al
giudice d’Appello, integralmente, la cognizione del rapporto
controverso (si tratta di un effetto devolutivo pieno, nel senso
che tutto il materiale di causa che è stato oggetto di cognizione in
primo grado si trasferisce al giudice d’Appello, e automatico, cioè
collegato alla mera proposizione dell’appello).
Quindi l’appello è inteso come mezzo per passare dal primo al
secondo grado.
Rispetto a tale modello ideale (appello come impugnazione a
critica libera caratterizzato da un effetto devolutivo pieno e
automatico), l’appello del codice del 40 presenta alcune
deviazioni che sono state accentuate dall’interpretazione
dottrinale, e soprattutto giurisprudenziale, e da alcuni recenti
interventi legislativi che hanno modificato la fisionomia
dell’appello.
Queste deviazioni dal modello ideale vanno tutte nella direzione
di limitare la cognizione del giudice d’Appello rispetto a quella del
giudice di primo grado: quindi l’oggetto dell’appello resta pur
sempre il rapporto controverso però il giudice d’Appello non è
più investito automaticamente, per il solo fatto della
proposizione dell’appello, di tutte le questioni di cui si occupava il
giudice di primo grado poiché ci sono dei meccanismi che
determinano una restrizione della cognizione del giudice
d’Appello rispetto a quella del giudice di primo grado.
Il primo di questi meccanismi, che troviamo già nel codice del 40
ma su cui il legislatore è recentemente intervenuto nel 2012, è
l’art 342 che nella sua formulazione originaria prevedeva che
l’appello dovesse contenere, oltre alle indicazioni previste per
l’atto di citazione dall’art 163, anche l’indicazione dei motivi
specifici d’appello.
Questa previsione costituisce già di per sé una deviazione dal
modello astratto dell’appello, delineato da Calamandrei e dagli
teorici dell’impugnazione nel vigore del codice del 1865, secondo
cui in teoria l’appello non doveva neppure essere motivato cioè
l’appello presupponeva solo la soccombenza per cui l’appellante
non era tenuto ad indicare i motivi specifici dell’impugnazione.
Il codice del 40 introduce questo elemento dei motivi specifici
dell’appello. Ciò non vuol dire che l’appello diventa un mezzo di
impugnazione “a critica vincolata” poiché ciò richiede una
predeterminazione legislativa dei motivi ma l’appello resta un
mezzo di impugnazione “a critica libera” per cui è l’appellante che
individua i motivi dell’appello.
L’art 342 nella nuova formulazione ricollega esplicitamente alla
mancata indicazione dei motivi specifici dell’appello
l’inamissibilità dell’appello (formulazione introdotta con la
Riforma del 2012; prima della Riforma del 2012 l’art 342 non
specificava il regime dell’appello privo di motivi e non esplicitava
la funzione dei motivi d’appello) e specifica cosa significa “motivo
specifico” quindi l’art 342 dice che la motivazione dell’appello
deve contentere, a pena di inammissibilità:
1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende
appellare e delle modifiche che vengono richieste alla
ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado
2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione
della legge (in realtà bisogna indicare gli errori di diritto) e
della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata
Quindi c’è una definizione legislativa di “motivo specifico”ma si
tratta in realtà di una norma sovrabbondante e di scarsa utilità.
Il legislatore dice poi esplicitamente che l’appello privo di motivi
è inammissibile: è un caso di inammissibilità per vizio di forma
(l’inammissibilità discende o dalla carenza originaria o
sopravvenuto del potere di impugnazione o da vizi di forma).
Tuttavia il legislatore non ha chiarito neppure nel 2012 quale sia
la funzione dei motivi di appello cioè perché la legge richiede
l’indicazione del motivo d’appello. Lo scopo dei motivi d’appello
deve infatti essere importante poiché la mancanza di indicazione
dei motivi d’appello dà luogo all’inammissibilità dell’appello.
Secondo larga parte della giurisprudenza i motivi d’appello
servono a delimitare la cognizione del giudice d’Appello. Ci sono
fondamentalmente due modi per spiegare questa limitazione
della cognizione del giudice d’Appello alle sole questioni investite
dai motivi d’appello(cioè il giudice d’appello non può conoscere
tutte le questioni ma solo quella alle quali si riferiscono i motivi
d’appello):
1) il primo modo è quello di collegare l’art 342 con l’art 329
co.2 che disciplina l’istituto dell’acquiescienza parziale. Una
prima funzione dei motivi d’appello è quella di individuare la
parte di sentenza (intesa come statuizione su domanda) che
l’appellante intende impugnare e dunque il rapporto
sostanziale(perché la domanda ha ovviamente ad oggetto un
rapporto sostanziale) la cui cognizione l’appellante intende
sottoporre al giudice d’Appello.
Secondo alcuni (e questa è l’opinione prevalente soprattutto
in giurisprudenza) “capo di sentenza” non è solo la
statuizione su domanda ma è anche ciascuna singola
questione affrontata e risolta dal giudice per addivenire alla
pronuncia sulla domanda. Ciò significa che l’appellante
dovrà, nell’atto di appello, individuare le singole questioni
che intende sottoporre al giudice d’appello con la
conseguenza che rispetto alle questioni non fatte oggetto di
un motivo specifico dell’appello si formerà un giudicato
interno a norma dell’art 329 co.2.
2) nell’ottica di Consolo e di quella parte della dottrina che
parte dal principio secondo cui l’art 329 co.2 opera solo a
livello di decisioni su domanda questa via non è percorribile
poiché l’art 329 serve soltanto ad individuare il rapporto
sostanziale cioè la domanda che l’appellante vuole
devolvere al giudice d’Appello però poi, all’interno di quella
domanda, tutte le questioni dovrebbero essere
automaticamente devolute al giudice d’appello.
Nella prospettiva di Consolo l’art 329 co.2 a livello delle
questioni non può operare. Per essere coerente, Consolo
dovrebbe dire, come dicono molti autori che accolgono
l’idea del capo di sentenza come statuizione su domanda,
che all’interno di quel capo tutte le questioni sono
automaticamente devolute al giudice d’Appello. Invece
Consolo non se la sente di arrivare a questa conclusione
anche perché egli scrive in un momento in cui la
giurisprudenza è saldamente orientata nel senso che la
cognizione del giudice d’Appello è limitata alle questioni
fatte oggetto dei motivi per cui egli deve dare per scontato
ciò e ha il problema di giustificare questo dato
giurisprudenziale che appartiene al diritto vivente.
Dunque egli da un lato cerca di restare fedele alla premessa
secondo cui il 329 non può operare a livello di questioni,
però dall’altro cerca di giustificare la restrizione della
cognizione del giudice d’Appello alle questioni fatte oggetto
di motivi. Per mettere insieme queste due posizioni egli dice
che la funzione dei motivi di appello di restringere la
cognizione del giudice d’Appello si ricava autonomamente
dall’art 342 nel senso che i motivi non possono avere altra
funzione che quella di individuare le questioni che
l’appellante intende sottoporre al giudice d’Appello. Non ci
sarebbe dunque bisogno di un collegamento con l’art 329.
Tuttavia egli utilizza l’espressione “microcapo” che nella sua
costruzione non avrebbe ragion d’essere: per lui il
microcapo sarebbe la questione fatta oggetto del motivo e
perciò devoluta alla cognizione del giudice d’appello -> il che
vuol dire che sugli altri microcapi si forma una preclusione (e
il meccanismo secondo cui si forma tale preclusione non può
che essere quello dell’art 329). Quindi, alla fine, Consolo
arriva alla stessa conclusione alla quale arrivano i fautori
della tesi che identifica il capo di sentenza con la soluzione di
ciascuna questione fondando questa preclusione
esclusivamente sull’art 342.
3) a questi due modi per spiegare la limitazione della
cognizione del giudice d’Appello se ne aggiunge un terzo. La
norma da prendere in considerazione è l’art 346. Essa
sancisce che le domande e le eccezioni non accolte nella
sentenza di primo grado, che non sono espressamente
riproposte in appello, si intendono rinunciate. Questo
articolo prevede una presunzione di rinuncia di alcune
domande ed eccezioni proposte evidentemente in primo
grado e non accolte nella sentenza di primo grado poiché se
esse non sono espressamente riproposte in appello si
intendono rinunciate. La norma dunque prevede un ONERE
DI RIPROPOSIZIONE delle domande ed eccezioni non accolte,
sanzionando la mancata riproposizione con la rinuncia alle
domande ed eccezioni non accolte. La riproposizione delle
domande ed eccezioni non accolte è diversa
dall’impugnazione cioè quest’iniziativa contemplata dall’art
346 non è un’iniziativa di tipo impugnatorio: la mancata
impugnazione della sentenza determina a norma dell’art 329
co.2 la formazione di un giudicato cioè la preclusione che
discende dalla mancata impugnazione di una parte della
sentenza è una preclusione-vincolo e non una preclusione-
rinuncia (cioè la domanda o l’eccezione non impugnata non
si intende rinunciata ma anzi il giudice d’Appello non se ne
può occupare poiché su quella domanda o su
quell’eccezione si è formato un giudicato interno); l’iniziativa
di cui all’art 346 è un’iniziativa di tipo non impugnatorio che
viene sanzionata con la presunzione di rinuncia (non c’è un
vincolo a recepire la soluzione data dal giudice di primo
grado ma quelle domande ed eccezioni vengono espunte
dall’oggetto dell’appello).
Il problema dell’art 346 sta nel determinare il significato
dell’espressione “domande ed eccezioni non accolte”
Domande: non c’è dubbio che “domande non accolte” ai fini
dell’art 346 non può significare “domande rigettate” poiché il
rigetto di una domanda genera soccombenza e, dunque, fa
nascere un autonomo potere di impugnazione che è anche un
onere di impugnazione (poiché il rigetto della domanda è
sicuramente una statuizione idonea a costituire oggetto di
impugnazione) e in mancanza di tale impugnazione si forma il
giudicato.
Dunque la domanda non è stata accolta ma non è stata
rigettata: la domanda è stata assorbita. L’assorbimento è una
pronuncia con la quale il giudice dà atto dell’insussistenza di un
suo potere decisorio rispetto alla singola domanda (o alla
singola eccezione) cioè il giudice non deve decidere poiché ha
accolto un’altra domanda proposta in via principale o in via
alternativa. Es. se l’attore ha proposto più domande in cumulo
subordinato (la domanda subordinata è proposta
CONDIZIONATAMENTE al rigetto della principale - cioè ad
esempio si chiede il risarcimento del danno solo nel caso in cui
il giudice non abbia accolto la domanda di restituzione del
bene - quindi è una domanda condizionata) o in cumulo
alternativo (il giudice sceglie quale delle domande alternative
accogliere) e il giudice accoglie una delle domande proposte in
via alternativa o la domanda proposta in via principale, viene
meno il suo potere di pronunciarsi sulle altre domande
alternative o sulla domanda subordinata che verranno
dichiarate “assorbite” (ad esempio il giudice accoglie la
domanda di nullità e dichiara assorbita la domanda di
annullamento o, ancora, accoglie la domanda di restituzione
del bene e dichiara assorbita la domanda di risarcimento del
danno). In questo caso la parte soccombente fa appello contro
l’unica statuizione presente nella sentenza (poiché questa
sentenza ha un solo capo dato che sull’altra sentenza non c’è
pronuncia in quanto il giudice l’ha dichiarata assorbita - e
dunque non c’è soccombenza rispetto ad essa -) . Di fronte
all’impugnazione della parte soccombente può sorgere
l’interesse della parte vittoriosa di riproporre alla cognizione
del giudice d’Appello la domanda che il giudice di primo grado
ha dichiarato assorbita -> se quella domanda non viene
riproposta, si intende rinunciata ai sensi dell’art 346.
Nel caso dell’art 329 si ha una statuizione sulla domanda che
genera soccombenza che, nel caso in cui non sia impugnata,
passa in giudicato. Nel caso dell’art 346 rispetto alla domanda
sulla quale il giudice non si può pronunciare, in quanto ha
accolto un’altra domanda in via principale o subordinata, non
c’è alcuna statuizione quindi non c’è soccombenza e non può
essere impugnata-> se tale domanda non viene riproposta,
essa si intende rinunciata per cui è possibile riproporla in un
altro processo poiché non si è formato il giudicato. La
preclusione-vincolo dunque si distingue dalla preclusione-
rinuncia: in entrambi i casi, nella prospettiva del giudice
d’appello, il giudice non può occuparsi della domanda
(rigettata o assorbita in primo grado) tuttavia bisogna capire il
motivo per cui egli non se ne può occupare e quali sono le
conseguenze. Nel caso dell’art 329, cioè in caso di rigetto della
domanda, il giudice d’appello non se ne può occupare poiché si
è formato il giudicato che preclude la riproposizione della
medesima domanda in un altro processo; nel caso dell’art 346,
cioè nel caso in cui il giudice dichiara “assorbita” la domanda, il
giudice d’appello non se ne può occupare perché quella
domanda si intende rinunciata, non essendo stato assolto
l’onere di riproposizione, però non essendovi stata statuizione
su quella domanda essa può essere riproposta in un altro
processo.
Eccezioni: le eccezioni non accolte sono le eccezioni assorbite
rispetto alle quali il giudice perde il potere di pronunciarsi. Di
fronte all’impugnazione della parte soccombente dell’unica
questione rispetto alla quale è soccombente sorge l’interesse
della parte vittoriosa a sottoporre alla cognizione del giudice
d’Appello anche la questione sulla quale, legittimamente, il
giudice di primo grado non si è pronunciato (quindi la parte
vittoriosa deve riproporre al giudice d’Appello l’eccezione sulla
quale il giudice di primo grado non si è pronunciato). Le
questioni non riproposte si intendono rinunciate. La mancata
riproposizione dell’eccezione conduce a conseguenze più
gravose della mancata riproposizione della domanda poiché se
non è riproposta la domanda, essa può essere proposta in un
altro processo; se non è riproposta l’eccezione, essa non può
essere fatta valere in un altro processo quindi non c’è rimedio.
Con riguardo all’eccezione secondo una parte della dottrina
l’eccezione non accolta non è soltanto l’eccezione assorbita ma
anche l’eccezione respinta. Questo perché mentre tutti sono
d’accordo sul fatto che il rigetto della domanda genera un
onere di impugnazione, non tutti sono d’accordo sul fatto che il
rigetto dell’eccezione genera un onere di impugnazione. Tutto
dipende dalla latitudine che siamo disposti a riconoscere alla
nozione di “parte di sentenza”. Es. se il convenuto solleva una
pluralità di eccezioni, un’eccezione di prescrizione del diritto e
un’eccezione di nullità del contratto da cui deriva il credito
vantato-> se il giudice rigetta l’eccezione di prescrizione e
accoglie l’eccezione di nullità del contratto-> in un’ipotesi del
genere l’impugnazione potrà essere proposta solo dall’attore
praticamente soccombente, il convenuto non avrà alcun
interesse ad impugnare per primo la sentenza poiché ha
ottenuto il rigetto nel merito della domanda dell’attore,
oltretutto con una formula ancora più ampia della prescrizione
-> se l’attore impugna, il comportamento del convenuto
dipende dal modo in cui risolviamo il problema della minima
unità strutturale-> se riteniamo che il rigetto dell’eccezione di
prescrizione generi un potere e dunque un onere di
impugnazione, per rimuovere la sua soccombenza (teorica)
sulla questione di prescrizione il convenuto dovrà proporre
impugnazione incidentale, se del caso tardiva, in mancanza
della quale sulla questione di prescrizione si formerà un
giudicato interno. Non tutti sono però d’accordo sul fatto che il
rigetto dell’eccezione di prescrizione generi un onere di
impugnazione-> alcuni autori come Consolo ritengono che la
minima unità strutturale in grado di generare un potere e
dunque un onere di impugnazione sia la statuizione su
domanda per cui qui non c’è una soccombenza da rimuovere,
non c’è una statuizione da impugnare, ma solo un’eccezione da
riproporre a norma dell’art 346. Quindi l’ambito applicativo
dell’art 346 con riferimento alle eccezioni non accolte dipende
dalla soluzione che si ritiene di accogliere con riguardo al
problema dell’individuazione della minima unità strutturale in
grado di generare un potere e quindi un onere di
impugnazione: se questa minima unità strutturale è la
statuizione su domanda, l’espressione “eccezioni non accolte”
ricomprende non solo le eccezioni assorbite ma anche le
eccezioni rigettate quindi la stessa espressione “domande ed
eccezioni non accolte” avrà un significato per le domande e
uno per le eccezioni (con riguardo alle domande comprende
solo le domande assorbite, con riguardo alle eccezioni
comprende sia le eccezioni assorbite che respinte); se invece
riteniamo che la minima unità strutturale in grado di generare
un potere e quindi un onere di impugnazione sia la statuizione
su questione le eccezioni non accolte saranno le sole eccezioni
assorbite.
La giurisprudenza esige che la riproposizione avvenga, da parte
dell’appellante, già con la citazione di appello e con i relativi
motivi mentre l’appellato può compierla fino alla precisazione
delle conclusioni. La riproposizione deve essere specifica ed
esplicita, richiamando tutte le ragioni della domanda o tutte le
eccezioni assorbite in primo grado.
Per quanto riguarda il contumace si riteneva che fossero
automaticamente devolute al giudice d’Appello tutte le
questioni in primo grado risolte in senso a sé sfavorevole cioè
assorbite (in ragione dell’eccessivo favor per il contumace di
cui all’art 115).
Nel codice del 40 la cognizione del giudice d’Appello è limitata
alle sole questioni che siano state fatte oggetto di un motivo
dell’appello o alle sole questioni riproposte in appello a norma
dell’art 346: tutto ciò che non è oggetto di un motivo d’appello
e tutto ciò che non è espressamente riproposto in appello
esula dalla cognizione del giudice d’Appello il quale continua
ad essere investito della decisione sulla fondatezza della
domanda ma di essa può conoscere solo attraverso le
questioni sottoposte alla sua cognizione.
Alla base di questa tendenza a restringere la cognizione del
giudice d’Appello c’è una tendenza a responsabilizzare la parte
che propone appello in funzione di un alleggerimento del
lavoro del giudice d’Appello: mentre il modello astratto
dell’appello responsabilizza in misura minima l’appellante, qui
il legislatore responsabilizza l’appellante in funzione di una
selezione delle questioni che costituiranno oggetto di
cognizione da parte del giudice d’Appello cioè l’appellante è
chiamato ad individuare le singole questioni che intende
sottoporre alla cognizione del giudice d’appello mentre le
questioni su cui non esercita questo potere di impugnazione o
di riproposizione vengono espunte dall’oggetto dell’appello. Lo
scopo è evitare un appesantimento eccessivo del processo
d’appello. Ciò non nuoce alla giustizia della decisione anzi la
selezione delle questioni consente anche un esame più
approfondito di quella questioni da parte del giudice d’Appello.
La cognizione del giudice d’Appello sembrerebbe dunque
limitata alle questioni che le parti gli hanno sottoposto per cui
delle questioni che le parti non hanno sottoposto al riesame
del giudice d’Appello questi non dovrebbe occuparsi. Esistono
però questioni che lo stesso legislatore ritiene rilevabili
d’ufficio in ogni stato e grado del processo cioè i giudici dei
gradi successivi al primo, quindi i giudici d’Appello, possono
esaminare la questione indipendentemente dalla segnalazione
della parte. Il problema si è posto soprattutto con riguardo al
difetto di giurisdizione del giudice ordinario con riguardo al
giudice amministrativo di cui l’art 37 consente il rilievo d’ufficio
in ogni stato e grado del processo.
Come si coordina la previsione del potere di rilievo officioso del
giudice d’Appello con la limitazione della cognizione del giudice
d’Appello alle questioni oggetto di motivi di impugnazione o di
riproposizione ex art 346?
Per lungo tempo la giurisprudenza riteneva che la questione di
difetto di giurisdizione del giudice ordinario è rilevata d’ufficio
dal giudice d’Appello purchè su quella questione non sia
intervenuta una statuizione in primo grado (statuizione nelle
forme della sentenza non definitiva con cui il giudice si è
dichiarato munito di giurisdizione oppure anche della sentenza
definitiva) e questa statuizione non sia stata impugnata-> in
questo caso, secondo la giurisprudenza, si sarebbe formato un
giudicato sulla questione che avrebbe precluso il rilievo
officioso. L’art 329 co.2 costituiva dunque, secondo la
giurisprudenza, un limite alla facoltà di rilievo officioso della
questione da parte del giudice, sempre che sulla questione vi
fosse stata una statuizione esplicita cioè un’esplicita pronuncia
contenuta in una sentenza non definitiva o definitiva sulla
questione.
Nel 2008 la Cassazione ha mutato orientamento nel senso di
ritenere precluso il rilievo officioso del difetto di giurisdizione
non solo in caso di pronuncia esplicita, non impugnata, ma
anche in caso di pronuncia implicita.
Secondo la Corte di Cassazione quando il giudice di primo
grado pronuncia per merito sta sempre affermando
implicitamente la propria giurisdizione (altrimenti non
potrebbe pronunciare nel merito) e ciò significa che in ogni
pronuncia di merito, sia nella sentenza non definitiva sia nella
sentenza definitiva, vi è sempre una pronuncia implicita che
afferma la giurisdizione del giudice. La parte avrebbe l’onere di
impugnare questa pronuncia implicita e in caso di mancata
impugnazione si formerebbe un giudicato interno implicito che
precluderebbe il rilievo officioso della questione.
Es: Tizio cita il comune di Napoli davanti ad un giudice
ordinario. In questo processo nessuno, né il convenuto né il
giudice, pone il problema di giurisdizione e il processo si
conclude con una sentenza di condanna del comune di Napoli
a pagare a Tizio una somma di denaro. Il comune di Napoli
impugna la sentenza per motivi di merito-> ci si chiede a
questo punto se il giudice d’appello possa rilevare d’ufficio il
difetto di giurisdizione. Stando all’art 37 la risposta dovrebbe
essere affermativa poiché tale articolo sancisce che il difetto di
giurisdizione può essere rilevato in ogni stato e grado del
processo. Secondo l’orientamento della Cassazione la risposta
è negativa poiché la sentenza di condanna del comune a
pagare a Tizio una somma di denaro andrebbe letta come se il
giudice affermasse implicitamente la propria giurisdizione
proprio condannando il comune che, per evitare la formazione
del giudicato interno sulla questione di giurisdizione, dovrebbe
impugnare la sentenza di merito facendo valere il difetto di
giurisdizione del giudice adito, altrimenti questa pronuncia
implicita passerebbe in giudicato e impedirebbe il rilievo
officioso del difetto di giurisdizione davanti al giudice
d’Appello. Si tratta di un’assurdità sul piano logico poiché si
forma il giudicato su una pronuncia che non c’è. In realtà la
Cassazione, in questo modo, ha abrogato in via interpretativa
l’art 37 perché di fatto il difetto di giurisdizione non sarà mai
rilevabile d’ufficio. Tuttavia essa non ritiene di aver abrogato
l’art 37 sostenendo che l’affermazione della giurisdizione del
giudice adito costituisce antecedente necessario della sola
statuizione di merito quindi se il giudizio si è concluso con una
pronuncia di rito per motivi diversi dalla giurisdizione potrà
operare in quel caso l’art 37. Si tratta però di un escamotage,
di un’ipotesi marginale, poiché in linea di massima l’art 37 non
si applicherà quasi mai. Ancora una volta dietro queste
operazioni interpretative c’è un giudizio di valore cioè la
Cassazione ha ritenuto che questa previsione del rilievo
officioso del difetto di giurisdizione non fosse in linea con il
valore costituzionalmente garantito della durata ragionevole
del processo di cui all’art 111 Cost. (la Cassazione ha voluto
dunque “forzare” in via interpretativa la norma).
Anche se c’è una tendenziale coincidenza tra l’oggetto
dell’appello e l’oggetto del giudizio di primo grado è possibile
che la cognizione del giudice d’appello sia più ampia di quella
del giudice di primo grado (cioè accanto alle restrizioni si
possono avere anche degli allargamenti della cognizione del
giudice d’Appello). Questo è il tema dei NOVA IN APPELLO cioè
se siano consentite attività delle parti volte ad allargare
l’oggetto del giudizio o comunque ad ampliare il cd. materiale
di causa di cui si occupa il giudice rispetto al giudice di primo
grado.
Il tema dei nova in appello (il cd ius novorum) è disciplinato
dall’art 345, norma che ha subito nel tempo una serie di
modificazioni-> il testo originario dell’art 345 era molto
restrittivo cioè non consentiva il compimento di nuove attività
tese ad allargare l’ambito della cognizione del giudice
d’Appello; questa norma era stata poi modificata nel 1950 in
senso più liberale ; il legislatore del 90 ha nuovamente
modificato l’art 345 reintroducendo limiti allo ius novorum;
nuovi interventi si sono avuti nel 2009 e nel 2012.
In questo moto pendolare degli interventi legislativi sull’art 345
un dato è rimasto però costante ed è il divieto di domande
nuove : nel giudizio d’appello non possono proporsi domande
nuove e, se proposte, devono essere dichiarate inammissibili
d’ufficio. Ciò è stabilito per garantire che il secondo grado si
svolga sullo stesso oggetto del primo e costituisca dunque un
riesame della stessa causa. Questa disposizione evoca il
problema dell’identificazione delle azioni (il problema di
stabilire quando la domanda è nuova cioè se la proposizione di
un fatto costitutivo diverso da quello originariamente posto a
fondamento della domanda integra l’allegazione di una
domanda nuova o se si tratta di una mera modificazione della
domanda). Dunque il divieto di domande nuove vale non
soltanto per il processo di primo grado, dove si ricava a
contrario dalla norma che consente la modificazione della
domande, ma anche per il giudizio d’appello, dove le domande
nuove vengono dichiarate inammissibili d’ufficio.
Sempre il co.1 art 345 introduce una deroga al divieto di
domande nuove cioè ci sono domande che possono essere
proposte per la prima volta in appello (la novità sta appunto
nel fatto che le domande o eccezioni nuove vengono proposte
per la prima volta in appello) perché costituiscono uno
sviluppo delle domande già proposte in primo grado (si tratta
di una valutazione discrezionale del legislatore quindi il
legislatore, nella sua discrezionalità, consente la proposizione
di alcune domande in virtù dello stretto collegamento che
esiste tra queste domande nuove e le domande che già
costituiscono oggetto del giudizio). Tali domande sono le
domande sono quelle relative agli interessi, ai frutti, agli
accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché al
risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.
L’alternativa sarebbe l’instaurazione di un autonomo giudizio
quindi il legislatore consente la proposizione di queste
domande che costituiscono uno sviluppo delle domande
originarie per evitare la proposizione di un’autonoma domanda
-> la ratio di questa deroga sta quindi in ragioni di economia
dei giudizi. Per le stesse ragioni di economia processuale e di
concentrazione di tutte le impugnazioni in un unico giudizio
l’art 344 ammette l’intervento in appello di terzi che sarebbero
comunque legittimati ad impugnare la sentenza con
l’opposizione di terzo, ordinaria o revocatoria di cui all’art 404,
in quanto titolari di un diritto autonomo e incompatibile con
quello accertato o costituito con la sentenza appellata quando
essi vedono pregiudicata la concreta realizzazione del loro
diritto dall’esecuzione della sentenza resa inter alios. In questo
caso il terzo potrà proporre in appello una domanda che
ammette anche nuove allegazioni e nuove prove.
Per quanto riguarda le eccezioni : non possono proporsi nuove
eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio. Questa
disposizione dà ulteriore rilevanza alla distinzione tra eccezioni
in senso lato e eccezioni in senso stretto (che rileva già con
riguardo al sistema di preclusioni in primo grado in cui le
eccezioni di merito non rilevabili d’ufficio - cioè le eccezioni in
senso stretto – devono essere proposte, a pena di decadenza,
nella comparsa di risposta cioè devono essere
tempestivamente depositate in cancelleria almeno 20 giorni
prima dell’udienza fissata dall’attore nell’atto di citazione ai
sensi dell’art 167 co.2). In virtù di tale distinzione in appello
sono dunque proponibili per la prima volta solo nuove
eccezioni rilevabili d’ufficio. Per capire se un’eccezione è o
meno rilevabile d’ufficio la giurisprudenza è ormai da tempo
orientata nel senso che nel silenzio della legge l’eccezione deve
ritenersi rilevabile d’ufficio.
In relazione all’art 345 si è posto poi il problema del rapporto
tra potere di allegazione del fatto e potere di rilevazione della
sua efficacia. Almeno fino ad una sentenza del luglio 2013 la
Cassazione aveva introdotto un limite alla rilevabilità officiosa
e alla proposizione, per la prima volta in appello, delle
eccezioni in senso lato distinguendo tra l’allegazione del fatto e
la rilevazione della sua efficacia, e ritenendo che per le
eccezioni in senso lato solo il potere di rilevazione dell’efficacia
impeditiva, modificativa, estintiva di fatti già allegati sfuggisse
ad ogni limite preclusivo mentre l’allegazione del fatto, anche
con riguardo alle eccezioni in senso lato, dovesse avvenire
entro la fase di trattazione del giudizio di primo grado. Dunque
la Cassazione riteneva che dopo la fase di trattazione, in cui si
definisce il thema decidendum e il thema probandum, non
fosse più possibile introdurre nel processo fatti nuovi e ciò con
riguardo anche alle eccezioni in senso lato: era unicamente
possibile, per il giudice, rilevare d’ufficio e, per le parti,
segnalare al giudice fatti impeditivi, modificativi, estintivi già
allegati. Sulla base di questo orientamento ad esempio la parte
non avrebbe potuto allegare per la prima volta in appello il
pagamento, che è considerato un’eccezione in senso lato, ma
solo segnalare al giudice il pagamento già risultante dagli atti.
Nel 2013 la Cassazione, accogliendo le critiche di una parte
della dottrina, ha mutato orientamento superando questa
distinzione tra allegazione del fatto e rilevazione della sua
efficacia giuridica e interpretando l’art 345 nel senso che la
norma permette anche l’allegazione del fatto per la prima volta
in appello.
Dunque l’art 345 vieta la proposizione di nuove eccezioni che
non siano rilevabili anche d’ufficio quindi possono proporsi,
per la prima volta in appello, eccezioni in senso lato (rilevabili
d’ufficio) e oggi questa disposizione va intesa in senso forte nel
senso che è ammessa anche l’allegazione del fatto per la prima
volta in appello (a seguito del mutamento di orientamento
della Cassazione).
Ci si chiede poi se sia possibile proporre in appello nuovi mezzi
di prova. A questo riguardo si è avuta una progressiva
riduzione dello ius novorum in appello (mentre per le domande
la situazione è sempre stata la stessa e per le eccezioni si è
invece avuto un allargamento). La norma (art 345 co.3), nel
testo introdotto dalla Riforma del 90, stabiliva un divieto di
nuove prove con due eccezioni rappresentate dalle prove
ritenute indispensabili e dalle prove che la parte non aveva
potuto proporre in primo grado per causa non imputabile. Si
riteneva che questa disposizione non fosse applicabile alle
prove documentali ma solo alle prove costituende e ciò sulla
base di un duplice argomento: da un lato si riteneva che se
questa disposizione avesse lo scopo di garantire la
concentrazione del giudizio d’appello, evitando il compimento
di nuove attività istruttorie che potrebbero allungare i tempi
del giudizio, non avrebbe senso applicare questo divieto ai
documenti poiché il documento non si produce in giudizio
quindi non comporta il compimento di un’attività istruttoria
che potrebbe determinare un allungamento dei tempi del
giudizio-> sarebbe venuta meno la ratio della norma; dall’altro
lato si riteneva che con riguardo ai documenti non è
concepibile una valutazione di indispensabilità perché mentre
con riguardo alle prove costituende, cioè ai mezzi di prova che
devono essere assunti nel processo (in relazione ai quali c’è un
sub procedimento istruttorio che si articola nelle tre fasi
dell’istanza dell’ammissione e dell’assunzione), il giudice può
valutare l’indispensabilità della prova ex ante cioè al momento
dell’istanza, con riguardo al documento, che la parte si limita a
produrre in giudizio (non c’è un’istanza per l’assunzione del
documento) l’unico modo per valutarne l’indispensabilità è
quello di leggerlo (quindi non aveva senso imporre la
valutazione di indispensabilità al documento poiché essa non è
compiuta ex ante ma quando esso è già introdotto nel
processo). Sulla base di queste due considerazioni la dottrina
prevalente sottraeva i nuovi documenti dal regime dettato
dall’art 345 co.3. Tuttavia nel 2005 le sez. un. della Corte di
Cassazione, in due sentenze gemelle 8202 e 8203, adottarono
l’interpretazione contraria ritenendo che anche i documenti
fossero assoggettati al regime restrittivo di cui all’art 345. In
particolare le sez. un. affermarono che, anche se la produzione
del documento in sé non comporta il compimento di attività
istruttoria, di fronte alla nuova produzione documentale
occorre garantire alle altre parti del processo il diritto alla
prova contraria che può esplicarsi anche mediante la richiesta
di prove costituende. Inoltre la Cassazione negò che con
riguardo al documento non fosse consentita una valutazione di
indispensabilità senza però chiarirne la modalità (o si ritiene
che anche il documento sia preceduto da un’istanza che il
giudice d’Appello potrebbe poi valutare o che comunque,
anche se il documento può essere prodotto direttamente, non
c’è alcun limite logico ad ammettere una previa valutazione
dell’indispensabilità). Dunque nel 2005 le sez. un. prendono
posizione a favore della tesi più restrittiva che estende il
divieto di nuove prove anche ai documenti. Questa
interpretazione delle sez. un. venne poi recepita dalla Riforma
del 2009 tant’è che nell’attuale formulazione dell’art 345 co.3
si trova un esplicito riferimento ai documenti (non sono
ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti
nuovi documenti salvo che l’impossibilità derivi da causa non
imputabile).
Originariamente l’art 345 prevedeva due deroghe al divieto di
nuove prove: l’indispensabilità ai fini della decisione e
l’impossibilità di proporre quel mezzo di prova o produrre quel
documento nel giudizio di primo grado. La prima di queste due
deroghe è venuta meno nel 2012 per garantire una maggiore
concentrazione del giudizio d’Appello e quindi per ridurne la
durata, per quanto possibile: si cerca di conformare l’appello al
modello della revisio prioris instantiae piuttosto che a quello di
novum iudicium. Quindi oggi l’unica deroga al divieto di nuove
prove (e nuovi documenti) in appello è rappresentata
dall’impossibilità di proporre o produrre rispettivamente il
mezzo di prova o il documento per causa non imputabile
recuperando la logica dell’art 153 che disciplina la rimessione
in termini per causa non imputabile (anch’esso introdotto dalla
Riforma del 2009).
Il requisito di indispensabilità della prova è però rimasto
nell’appello avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento
sommario di cognizione di cui all’art 702-quater (introdotto
dalla Riforma del 2009 per le controversie più semplici per le
quali è sufficiente un’istruzione sommaria cioè un minore
dispendio di attività istruttoria di cui agli artt. 702-bis ss.).
L’ordinanza che conclude il procedimento sommario di
cognizione è appellabile e se non appellata è idonea a produrre
gli effetti di cui all’art 2909 c.c. (cioè passa in giudicato).
Nell’appello avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento
sommario di cognizione c’è una maggiore apertura ai nova
perché sul piano sistematico il legislatore vuole assicurare
almeno un grado di giudizio a cognizione piena cioè vuole
consentire in appello il recupero della cognizione piena che
non si è avuta in primo grado; sul piano pratico il legislatore ha
pensato che nessuna parte avrebbe rinunciato alla cognizione
piena in primo grado senza che essa fosse resa possibile
quantomeno in appello (cioè il legislatore ha riconosciuto
questa possibilità per incentivare il ricorso al procedimento
sommario di cognizione). Dunque nell’appello avverso
l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di
cognizione è ammessa la deduzione di nuovi mezzi di prova
ritenuti indispensabili ai fini della decisione. Il legislatore del
2009, quando è stato introdotto il procedimento sommario,
prevedeva addirittura la deducibilità di tutte le prove ritenute
rilevanti quindi di tutte le prove (quindi nel 2009 nell’appello
ordinario era possibile proporre nuovi mezzi di prova ritenuti
indispensabili, nell’appello avverso l’ordinanza conclusiva del
procedimento sommario si consentiva qualcosa in più cioè la
deducibilità di tutte le prove ritenute rilevanti). Nel 2012 il
legislatore ha modificato il processo ordinario con
conseguenze nel procedimento sommario: nell’appello del rito
ordinario ha soppresso la possibilità di dedurre nuove prove
indispensabili; nell’appello del rito sommario ha ristretto
l’ambito di deducibilità delle nuove prove da quelle rilevanti a
quelle indispensabili.
Ci si interroga sul significato di “indispensabilità”. E’certo che
l’indispensabilità si differenzia dall’irrilevanza nel senso che
non tutte le prove rilevanti sono indispensabili. Per spiegare
l’indispensabilità della prova ci sono diverse teorie.
Secondo una tesi molto restrittiva, non generalmente
condivisa, è quella di ritenere che la prova sia indispensabile ai
fini della decisione solo quando la decisione di primo grado si
sia fondata sull’applicazione della regola di giudizio di cui
all’art 2697 c.c., regola fondata sul principio dell’onere della
prova (l’art 2697 c.c., che disciplina la ripartizione dell’onere
della prova tra le parti, fonda anche una regola di giudizio cioè
è infatti una norma che non si rivolge soltanto alle parti ma
anche al giudice suggerendogli il comportamento da tenere
quando le domande o le eccezioni appaiono in tutto o in parte
sfornite di prova). Quando il giudice in primo grado non ha
deciso sulla base di prove ma di una regola formale di giudizio
di cui all’art 2967 ogni mezzo di prova che venga dedotto è
indispensabile ai fini della decisione-> ciò significa confinare
l’ipotesi della prova indispensabile a casi rarissimi.
Secondo un’altra tesi la prova è indispensabile quando, da sola,
è sufficiente a sovvertire l’esito del giudizio di primo grado.
Secondo un’accezione ancora più ampia, sul confine della
rilevanza, è indispensabile la prova che, da sola, può fondare la
decisione del giudice d’Appello anche però nel senso della
conferma della decisione di primo grado.
Pronunce che può emettere il giudice d’Appello.
E’ possibile distinguere tre tipi di pronunce.
La funzione tipica dell’appello è quella sostitutiva di una
sentenza di primo grado (quindi il primo tipo di pronuncia del
giudice d’Appello è la pronuncia sostitutiva della sentenza di
primo grado). In alcuni casi però l’appello si comporta come
un’impugnazione rescindente cioè il giudice d’Appello è
chiamato a pronunciarsi non sulla domanda originaria (quindi
su un rapporto sostanziale controverso) ma sulla validità della
sentenza. Si tratta in questi casi di una pronuncia rescindente
che è accompagnata dalla rimessione della causa al giudice di
primo grado. Questi casi di rimessione al giudice di primo
grado (cioè casi di appello rescindente), che sono eccezionali e
tassativamente elencati dagli artt. 353 e 354 c.p.c., sono casi
in cui il giudice d’Appello si limita ad annullare o a dichiarare
nulla la sentenza di primo grado, rimettendo la causa al giudice
di prime cure ai fini di una rinnovazione del giudizio in primo
grado. Ciò si verifica quando il giudice d’Appello individua vizi
del processo di primo grado così gravi da far ritenere al
legislatore che il processo di primo grado è come se non si
fosse svolto per cui è necessaria una sua rinnovazione.
L’art 353 cpc contempla il caso in cui il giudice d’Appello
rimette la causa in primo grado in caso di riforma della
sentenza con cui il giudice di primo grado si era dichiarato
privo di giurisdizione. Quindi se il giudice di primo grado aveva
dichiarato il suo difetto di giurisdizione e contro tale sentenza
era stato proposto appello, e poi il giudice d’Appello ritiene che
il giudice di primo grado fosse in realtà fornito di giurisdizione
-> in questo caso, nella valutazione del legislatore, è come se il
primo grado non si fosse svolto poiché il giudice di primo grado
aveva declinato la sua giurisdizione per cui la causa gli va
rimessa. Ai sensi dell’art 353 co.2 le parti devono riassumere il
processo (di primo grado) entro il termine perentorio di tre
mesi dalla notificazione della sentenza (con cui il giudice
d’Appello ha rimesso la causa in primo grado). Un problema si
pone con riguardo al coordinamento tra giudizio ordinario e
giudizio avanti ad un altro giudice ad es il giudice
amministrativo. Il problema nasce dal fatto che, dopo la
riforma del 2009, il giudice che rilevi il proprio difetto di
giurisdizione non può limitarsi a pronunciare una sentenza di
rigetto in rito della domanda, ma deve anche individuare il
diverso giudice (ad es il giudice amministrativo) che ritiene
giurisdizionalmente competente avanti al quale la causa potrà
essere riassunta dalle patri entro tre mesi dalla pronuncia della
declinatoria della propria giurisdizione, con salvezza degli
effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente
proposta al giudice non dotato di giurisdizione. Il rischio è che
prosegua sia il giudizio avanti al giudice ordinario che il giudizio
avanti al giudice speciale. Si è affermato che il giudice ad quem
cioè il giudice al quale è stata rimessa la causa (ad es il giudice
amministrativo), nel caso in cui condivida le ragioni che hanno
spinto la parte soccombente ad impugnare la sentenza del
primo giudice che ha declinato la propria giurisdizione (cioè nel
caso in cui ritenga che, in effetti, la giurisdizione spetti al
giudice ordinario) dovrebbe sollevare il regolamento di
giurisdizione d’ufficio investendo della questione le sezioni
unite. In questo caso il giudice d’appello avverso la declinatoria
di giurisdizione potrebbe scegliere se sospendere il giudizio in
attesa della pronuncia delle sezioni unite o rigettare l’appello
confermando così la declinatoria di giurisdizione pronunciata in
primo grado. Questo meccanismo si innesta solo quando il
giudice amministrativo abbia qualche dubbio circa la sua
giurisdizione. In mancanza di dubbi i due giudizi proseguono
parallelamente fino a che in uno dei due la questione di
giurisdizione non sia passata in giudicato. Nel processo
amministrativo il giudicato sull’esistenza della giurisdizione del
giudice amministrativo si formerà quando contro la decisione
del TAR è proposto appello al Consiglio di Stato senza che però
sia impugnato il riconoscimento della giurisdizione; quando, se
è impugnato il riconoscimento della giurisdizione, il Consiglio di
Stato riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo e
non viene proposto ricorso per cassazione; quando è proposto
ricorso per cassazione che è però rigettato dalla S.C. Nel
processo ordinario il giudicato sull’esistenza della giurisdizione
del giudice ordinario si formerà dopo la sentenza di primo
grado quando questa non è impugnata; dopo la pronuncia
della sentenza di appello quando questa non è impugnata;
dopo la sentenza della S.C. Se invece la sentenza di appello
venisse impugnata con ricorso per Cassazione i tempi di
formazione del giudicato si ridurrebbero poiché sarebbe la S.C.
a dire quale sia il giudice giurisdizionalmente competente.
Se invece la sentenza di primo grado dichiara l’incompetenza
(dopo la Riforma del 2009 è un’ordinanza) non è proponibile
l’appello (che sarebbe in questo caso inammissibile) bensì il
regolamento di competenza. Secondo la giurisprudenza di
legittimità invece se il giudice accoglie il motivo di appello teso
a far valere l’incompetenza del giudice di primo grado che si
era affermato competente, deve pronunciare un’ordinanza con
la quale indica il diverso giudice di primo grado che sia
competente avanti al quale dovrà essere riassunta la causa ex
art 50.
Il secondo caso di rimessione della causa al giudice di primo
grado (di cui all’art 354 co.1) si ha quando il giudice d’appello
rileva la nullità non sanata della notificazione della citazione
introduttiva del primo grado (evidentemente nel caso in cui il
convenuto non si fosse costituito nel giudizio di primo grado).
Questo caso non contempla però l’ipotesi di nullità dell’atto di
citazione introduttiva anche se, in primo grado, alcune nullità
della citazione sono uguali alla nullità della notificazione della
citazione. Secondo una parte della dottrina è incoerente la
mancata previsione, tra i casi di rimessione al giudice di primo
grado, anche dei casi di nullità della citazione-> quindi
qualcuno ha proposto un’interpretazione estensiva dell’art 354
anche ai casi di nullità della citazione (quanto meno per i casi di
nullità della vocatio in ius). Secondo altri questa
interpretazione estensiva non è praticabile per varie ragioni:
alcuni hanno ritenuto che non si tratterebbe di
un’interpretazione estensiva bensì analogica poiché si tratta di
casi eccezionali e tassativi; secondo altri queste due situazioni
che sembrano analoghe in realtà non lo sono poiché mentre la
nullità della notificazione impedisce per definizione la
conoscenza del processo, la nullità della citazione non
impedisce sempre la conoscenza del processo quindi sarebbe
giustificato il trattamento differenziato. Dunque si ritiene che
in caso di nullità della citazione non possa operare la
rimessione al giudice di primo grado e, una volta esclusa la
rimessione, si apre un’alternativa: o si ritiene che debba
applicarsi la regola generale per cui il giudice d’Appello,
rilevata la nullità della citazione del giudizio di primo grado,
debba disporre la rinnovazione di tutti gli atti; oppure che non
sia possibile la rinnovazione e quindi il giudizio d’appello
dovrebbe concludersi con una pronuncia di absolutio ab
instantia con cui il giudice d’appello dovrebbe limitarsi a dare
atto della nullità della citazione e della sua insanabilità in
appello.
L’art 354 co.1 prevede la rimessione della causa al giudice di
primo grado quando il giudice d’appello rileva, eventualmente
anche d’ufficio, la mancata integrazione del contraddittorio in
presenza di un litisconsorte necessario pretermesso nel
giudizio di primo grado ex art.102 (non si tratta di casi in cui il
giudice abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio ed
esso non sia stato integrato ma di casi in cui il giudice non
abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio, non
essendosi reso conto che non era stato citato un litisconsorte
necessario, poiché se il giudice avesse ordinato l’integrazione
del contraddittorio e questo non fosse stato integrato il
processo si sarebbe estinto). La rimessione in primo grado può
essere evitata dall’intervento volontario, in appello, del
litisconsorte pretermesso, sempre che lo stesso accetti la causa
nello stato in cui si trova oppure tutte le parti accettino che la
causa venga nuovamente trattata e istruita con la presenza
della parte necessaria direttamente in appello (quest’ultima
ipotesi è però possibile se tutte le parti acconsentano a ciò,
altrimenti, nonostante l’intervento del pretermesso, la causa
dovrà essere ugualmente rimessa in primo grado).
L’art 354 co.1 prevede ancora la rimessione della causa in
primo grado nel caso in cui il giudice d’appello dichiara che è
avvenuta in modo illegittimo l’estromissione di una parte dal
primo grado di giudizio (in questo caso occorre un motivo di
appello ad opera della parte estromessa o di una delle parti
che abbia interesse a dedurre l’illegittimità della sua
estromissione).
L’art 354 co.1 rimette la causa al giudice di primo grado
quando il giudice d’appello dichiara la nullità della sentenza di
primo grado per mancata sottoscrizione della stessa da parte
del giudice che l ha pronunciata (se invece il giudice è un
organo collegiale non determina nullità della sentenza la
mancanza di una sola delle due sottoscrizioni, dell’estensore o
del presidente che dà luogo ad un vizio che può essere
impugnato a norma dell’art 161 co.1). Nell’ipotesi dell’art 161
co.2 invece la sentenza non è soltanto viziata ma è affetta da
nullità per difetto di sottoscrizione.
L’ultimo caso di rimessione della causa al giudice di primo
grado è disciplinato dall’art 354 co.2 secondo cui si ha
rimessione in caso di riforma della sentenza che ha
pronunciato sull’estinzione del processo a norma e nelle
forme dell’art 308 (cioè quando il giudice d’appello dichiara
che in primo grado è stata erroneamente pronunciata
l’estinzione del processo in quanto non si è verificato nessun
evento estintivo)-> l’art 308 disciplina il reclamo avverso
l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo (cioè quando
l’estinzione è dichiarata dal collegio poiché quando l’estinzione
è dichiarata dal giudice monocratico essa è disposta con
sentenza, contro la quale non è ammesso il reclamo bensì
l’appello-> quest’ultima ipotesi non è contemplata dalla legge,
che continua a disciplinare unicamente l’ipotesi della decisione
dei tribunali in composizione collegiale, ma si ricava a
contrario). Il collegio, se rigetta il reclamo, pronuncia sentenza;
se accoglie il reclamo, pronuncia ordinanza non impugnabile.
Questa sentenza di cui all’art 308 è dunque la sentenza che ha
respinto il reclamo avverso l’ordinanza del giudice istruttore
che ha dichiarato l’estinzione. Quando contro la sentenza che
ha respinto il reclamo è proposto appello e il giudice d’appello
riforma questa sentenza (cioè afferma che il processo di primo
grado non doveva estinguersi) il processo è rimesso in primo
grado poiché l’estinzione si è verificata in una fase iniziale del
processo ossia davanti al giudice istruttore (quando
l’estinzione è stata dichiarata dal collegio direttamente con
sentenza - cioè in fase decisoria - non si ha rimessione, in caso
di riforma in appello della sentenza che ha dichiarato
l’estinzione).
Al di fuori di questi sei casi, se il giudice d’appello dichiara la
nullità di altri atti posti in essere in primo grado ordina la
rinnovazione, totale o parziale, del primo grado, ove possibile,
da compiersi direttamente in appello ai sensi dell’art 356.
Nella prima e nella sesta ipotesi lo scopo è quello di garantire il
doppio grado di giudizio poiché il giudice d’appello, rimossa la
declinatoria di giurisdizione o l’estinzione, se non avesse
l’obbligo di rimettere in primo grado, dovrebbe pronunciare
sostitutivamente nel merito. Nelle altre quattro ipotesi invece,
se non ci fosse l’obbligo di rimettere in primo grado, il giudice
d’appello dovrebbe annullare o dichiarare nulla la sentenza di
primo grado (annullamento o declaratoria di nullità suscettibili
di essere sanati in appello o, se la sanatoria non fosse prevista
o possibile, il giudice dovrebbe disporre la chiusura del
processo, con sentenza di rigetto in rito della domanda di
prime cure).
Il terzo tipo di pronunce del giudice d’Appello sono le pronunce di
absolutio ab instantia cioè pronunce di rito con cui il giudice
d’Appello dà atto dell’impossibilità di decidere nel merito a causa
di un impedimento processuale relativo al giudizio d’Appello. Si
hanno in questo caso pronunce di inammissibilità,
improcedibilità o estinzione del giudizio d’Appello.
L’inammissibilità può essere dichiarata per carenza originaria o
sopravvenuta del potere di impugnazione (appello proposto da
chi non è stato parte del giudizio di primo grado; appello
proposto da chi non è soccombente; appello proposto dopo la
scadenza del termine per impugnare; appello proposto da chi
aveva prestato acquiescenza alla sentenza-> tale inammissibilità
attiene all’an del potere di impugnazione) o per difetto di
requisiti di forma-contenuto dell’atto introduttivo (appello privo
di motivi). L’improcedibilità dell’appello consegue a particolari
ipotesi di inattività dell’appellante nella fase introduttiva del
giudizio d’Appello. Il legislatore pretende dall’appellante e, in
generale, da chi propone l’impugnazione l’onere di impulso
processuale sanzionando con l’improcedibilità dell’appello la
mancata costituzione dell’appellante (l’appellante deve costituirsi
in giudizio entro 10 giorni dalla notificazione dell’atto di appello
o, in caso di pluralità di parti, entro 10 giorni dalla prima
notificazione). L’improcedibilità dell’appello comporta la chiusura
in rito del giudizio d’Appello e quindi la perdita del potere di
impugnare (anche se non è ancora decorso il termine per
impugnare). Lo stesso accade in caso di mancata comparizione
dell’appellante anteriormente costituitosi: se l’appellante si è
anteriormente costituito ma non compare alla prima udienza, il
giudice è tenuto a fissare una nuova udienza (di cui il cancelliere
dà comunicazione alle parti costituite) e se l’appellante non
compare neppure all’udienza successiva l’appello è dichiarato
improcedibile.
E’ipotizzabile un’improcedibilità dell’appello nel rito del lavoro
per assenza dell’appellante e non per la mancata costituzione
dell’appellante poiché l’appello, nel processo del lavoro, si
propone con ricorso e il ricorso è depositato in cancelleria e solo
successivamente è notificato alla controparte quindi nel
momento in cui l’appellante deposita il ricorso egli si è anche
costituito-> non è dunque ipotizzabile un’improcedibilità
dell’appello per mancata costituzione dell’appellante poiché la
proposizione dell’appello coincide con la costituzione in giudizio
(così come nel processo del lavoro non è concepibile, in primo
grado, la contumacia dell’attore poiché la proposizione della
domanda coincide con la costituzione in giudizio). E’ invece
possibile che nel processo del lavoro si verifichi la mancata
comparizione dell’appellante. Bisogna però verificare se a questa
situazione si applichi la disciplina dell’improcedibilità. In linea di
principio la risposta dovrebbe essere affermativa poiché al rito
del lavoro si applicano le norme del rito ordinario, per quanto
compatibili. La giurisprudenza ha a lungo negato l’applicabilità
dell’art 348 al rito del lavoro argomentando che in relazione al
processo del lavoro c’è una norma che vieta le udienze di mero
rinvio nel processo del lavoro per l’esigenza di concentrazione del
processo. Dunque l’art 348 non è applicabile poiché esso
prevede, in caso di mancata comparizione dell’appellante, il
rinvio dell’udienza. Già verso la fine degli anni 80 la Cassazione ha
mutato orientamento prevedendo che il rinvio di cui all’art 348
non è un mero rinvio ma è un rinvio finalizzato ad evitare le
dichiarazioni di improcedibilità cioè a consentire la comparizione
dell’appellante non comparso alla prima udienza->quindi per
questa parte l’art 348 può trovare applicazione-> anche la
mancata comparizione in appello, all’udienza successivamente
fissata dal giudice a seguito della mancata comparizione
dell’appellante alla prima udienza, è sanzionata con
l’improcedibilità.
L’estinzione del giudizio d’Appello avviene per le stesse ragioni
del giudizio di primo grado (per rinuncia agli atti o per inattività
delle parti, in una fase diversa da quella introduttiva del giudizio
d’Appello che determina l’improcedibilità).
In tutti questi casi si ha una chiusura in rito del giudizio d’Appello
determinata da impedimenti processuali che precludono al
giudice d’Appello di esaminare nel merito l’appello. Tutte queste
pronunce che determinano la consumazione del potere di
impugnazione si caratterizzano per l’assenza di effetto
sostitutivo. L’appello è infatti un’impugnazione sostitutiva poiché
il giudice d’Appello è chiamato a decidere nuovamente la causa
cioè a pronunciare una sentenza che è sempre destinata a
sostituirsi alla sentenza di primo grado (anche se integralmente
confermativa della sentenza di primo grado). Ciò sempre che non
sussistano impedimenti all’esame nel merito dell’appello (come
avviene nei casi di inammissibilità, improcedibilità ed estinzione
che comportano il passaggio in giudicato della sentenza di primo
grado).
L’art 359 cpc opera, per il procedimento di appello, un rinvio alle
norme sul procedimento di primo grado avanti al Tribunale, se
non sono incompatibili (quindi introduce una clausola di
compatibilità). L’appello si propone con atto di citazione che deve
contenere, oltre agli elementi di cui all’art 163, una sintesi
dell’attività processuale svolta in primo grado e del contenuto
della sentenza appellata nonché l’indicazione dei motivi specifici
dell’impugnazione. Ai sensi dell’art 347 co.1 le parti alle quali è
notificato l’atto di appello si costituiscono nelle forme e nei
termini previsti per il procedimento avanti al Tribunale.
L’appellante deve costituirsi in cancelleria entro 10 giorni dalla
notificazione dell’atto di appello (in caso di più parti entro 10
giorni dalla prima, e non dall’ultima, notificazione come è stato
recentemente statuito dalle sez.un. del 2011), inserendo nel
proprio fascicolo copia della sentenza appellata, e il mancato
adempimento di tale onere di costituzione per l’appellante è
sanzionato con l’improcedibilità dell’appello, rilevabile anche
d’ufficio (ai sensi dell’art 348 co.1). L’art 342 disciplina il
contenuto dell’atto di appello ed è stato riformato dalla
l.134/2012. Esso prevede che l’appello si propone con citazione
contenente le indicazioni prescritte dall’art 163. L’appello deve
essere motivato. Prima della Riforma del 2012 l’art 342
richiedeva l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici
dell’impugnazione. Tale inciso è stato sostituito con la previsione
per cui la motivazione dell’appello deve contenere, a pena di
inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che
si intendono appellare e delle modifiche che vengono richieste
alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado 2)
l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della
legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
Questa riforma, che sembrerebbe superflua, ha in realtà
accentuato gli oneri dell’appellante.
L’appellante ha poi l’onere di comparire alla prima udienza. Se
non compare alla prima udienza il giudice fissa una nuova
udienza; se l’appellante non compare neppure alla nuova
udienza, è dichiarata l’improcedibilità dell’appello, anche
d’ufficio. Ai sensi dell’art 350 co.1 la prima udienza si svolge
davanti al Collegio, al pari tutte le altre, con l’unica possibile
eccezione delle eventuali udienze dedicate allo svolgimento
dell’attività istruttoria (attività che può essere delegata dal
Presidente del Collegio ad uno dei suoi componenti ai sensi
dell’art 27 l.183/2011 che ha modificato l’art 350). In questa
prima udienza si compiranno varie attività tra cui l’esame della
richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di
condanna di primo grado impugnata ai sensi dell’ 283 cpc e
secondo gli svolgimenti procedurali di cui all’art 351.
Ai sensi dell’art 351 la parte può chiedere, con ricorso al
Presidente del Collegio, che la decisione sulla sospensione sia
pronunciata prima dell’udienza di comparizione. In tal caso il
Presidente del collegio, con decreto redatto in calce al ricorso,
ordina la comparizione delle parti davanti al Collegio in camera di
consiglio e con lo stesso decreto, se ricorrono gravi motivi
d’urgenza, può disporre provvisoriamente l’immediata
sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza: in tal caso, il
Collegio conferma, modifica o revoca il decreto con ordinanza
non impugnabile. L’art 283 prevede che il giudice d’appello, su
istanza di parte, sospende l’efficacia esecutiva della sentenza se
sussistono gravi e fondati motivi. L’aggettivo “fondati” mira a
rendere più severa la verifica devoluta al giudice d’appello. L’art
283 co.2 (introdotto dalla l.183/2011) prevede che se l’istanza di
cui al co.1 è inammissibile o manifestamente infondata il giudice,
con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che
l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore a 250 e non
superiore ai 10.000€.
Se la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza è posta
nei confronti di una sentenza contenente una pronuncia cd.
inibitoria (cioè l’astensione da un comportamento illecito) che sia
assistita dalla previsione di una penalità di mora o astreinte di cui
all’art 614-bis (misura coercitiva consistente nel pagamento di
una somma di denaro per ogni comportamento posto in essere in
violazione dell’inibitoria) ci si interroga sugli effetti di tale
sospensione. Secondo il prevalente orientamento per il periodo
durante il quale si è avuta la sospensione dell’inibitoria
comminata con la sentenza di primo grado, al titolare del diritto
violato spetta, oltre all’eventuale risarcimento del danno
commisurato a tutto il periodo in cui il comportamento illecito è
stato posto in essere, anche la liquidazione della penale fissata in
primo grado.
Tuttavia, secondo una più corretta soluzione, dato che la
sospensione dell’inibitoria comporta il venir meno dell’attualità
del divieto, l’eventuale condotta posta in essere durante la
sospensione e contraria al contenuto dell’inibitoria non può
considerarsi posta in essere in sua violazione e,
conseguentemente, non può operare per quello stesso periodo
neppure la penalità di mora poiché la sua funzione è quella di
rinforzare il comando contenuto nella sentenza condannatoria. Al
titolare del diritto violato spetta solo il diritto al risarcimento del
danno che è indipendente sia dall’inibitoria sia dalla penale. Il
giudice di appello può però ridurre l’ammontare della somma
dovuta dalla parte vittoriosa e l’ammontare della penale nel caso
in cui verifichi che la violazione dell’inibitoria non poteva essere
evitata. Se invece il giudice dell’impugnazione riconosce
espressamente che l’astreinte non potesse essere applicata
(poiché ad esempio la prestazione dedotta in giudizio non
rientrava tra quelle che possono essere assistite da astreinte ex
art.614-bis) nulla era dovuto poiché l’astreinte non avrebbe
dovuto essere pronunciata.
Qualora siano state richieste ammissibilmente nuove prove, nel
rispetto dell’art 345 co.3, il Collegio ne può disporre l’assunzione
con ordinanza, così come potrà disporre la rinnovazione totale o
parziale dell’assunzione di prove già assunte nel giudizio di primo
grado. Se invece non ci sono prove da assumere in apposite
udienze istruttorie, il Collegio dovrebbe fissare la precisazione
delle conclusioni. In questa sede gli avvocati dovranno reiterare
le conclusioni degli atti introduttivi e del giudizio di appello che
contengono anche la reiterazione degli specifici motivi di appello
oggetto della cognizione del giudice del gravame. In sede di
precisazione delle conclusioni le parti non possono proporre
nuovi motivi d’appello.
Per quanto riguarda il termine ultimo per la proposizione di
nuove prove ammissibili in appello, mancando un’udienza
appositamente destinata all’esame e all’assunzione dei mezzi
istruttori, esso coincide con la precisazione delle conclusioni
davanti al collegio. Tuttavia ciò non è conciliabile con il principio
della ragionevole durata del processo di cui all’art 111 Cost.
poiché la proposizione, al momento della precisazione delle
conclusioni, di nuove istanze istruttorie e la produzione di nuovi
documenti costringerebbe il giudice d’appello a riaprire (o ad
aprire per la prima volta) la fase istruttoria dopo averla
considerata esaurita in ragione della ritenuta raggiunta maturità
della causa per la decisione. L’esclusione della proponibilità, in
sede di precisazione delle conclusioni, di nuove istanze istruttorie
e della produzione di documenti sembra confermata anche dalla
lettera dell’art 352 secondo cui il giudice d’appello ove non
provveda a norma dell’art 356 (che disciplina l’ammissione e
assunzione di prove) invita le parti a precisare le conclusioni->
secondo il combinato disposto degli artt. 352 co.1 e 356 il giudice
d’appello deve provvedere all’ammissione delle nuove prove in
sede di udienza di trattazione quindi prima della precisazione
delle conclusioni.
Per quanto riguarda la fase decisoria in appello, anch’essa può
svolgersi secondo diverse modalità . La l.183/2011 ha aggiunto ai
due modelli decisori disciplinati sino a quel momento (trattazione
scritta e trattazione mista) un terzo modello che prevede la
possibilità di una decisione a seguito della trattazione solo orale
di cui all’art 352 co.6 (che richiama l’art 281-sexies).
Per ridurre il carico di lavoro del giudice d’Appello e in particolare
delle Corti d’Appello che rappresentano l’ufficio giudiziario che,
più di altri, risente della crisi dell’appello e, più in generale, della
crisi del processo civile è stato introdotto un filtro all’appello-> un
filtro disciplinato dagli artt. 348-bis e 348-ter introdotti dalla
Riforma del 2012. Vi erano varie possibilità di far fronte alla crisi
del giudizio d’Appello: una di queste possibilità, presa in
considerazione in un primo momento, era quella della
trasformazione del giudizio d’Appello in un’impugnazione
rescindente a critica vincolata-> questa trasformazione avrebbe
costituito, da un certo punto di vista, l’esito naturale di questa
tendenza che si era già manifestata a chiudere il giudizio
d’Appello, trasformandolo in un’impugnazione a motivi limitati
(cioè con predeterminazione legislativa dei motivi di censura).
Il legislatore invece ha preferito un’altra strada poiché la
trasformazione del giudizio d’Appello in un’impugnazione a
critica vincolata sarebbe stata mal digerita dagli operatori pratici,
e soprattutto dagli avvocati, i quali tengono ad un’impugnazione
che consenta un riesame del fatto (che invece sarebbe stato
inevitabilmente sacrificato in un modello di impugnazione a
critica vincolata). Il legislatore ha scelto di introdurre un filtro di
ammissibilità dell’appello affidato ad una valutazione circa le
prospettive di accoglimento dell’appello. E’ stata introdotta una
nuova ipotesi di inammissibilità, del tutto peculiare, che dipende
da ragioni di merito (di regola,invece, l’inammissibilità consegue
alla carenza originaria o sopravvenuta del potere di impugnare o
al difetto dei requisiti di forma-contenuto degli atti introduttivi
dell’impugnazione)-> questa ipotesi di inammissibilità è
disciplinata dall’art 348-bis secondo cui fuori dei casi in cui deve
essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o
l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata
inammissibile dal giudice competente quando non ha una
ragionevole probabilità di essere accolta. Quindi il filtro
introdotto è quello di una valutazione preliminare demandata
allo stesso giudice d’appello (ciò è già un primo indizio di criticità
poiché se è chiesta al giudice d’appello una valutazione
prognostica, è chiesto al giudice d’appello di esaminare l’appello
due volte, per cui non si ha l’ alleggerimento del lavoro del
giudice d’appello). In realtà la formula utilizzata dall’art 348-bis è
ambigua e lascia una notevole discrezionalità al giudice d’appello
poiché la norma non parla di “manifesta infondatezza” ma essa
dice che l’impugnazione è dichiarata inammissibile quando non
ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Su questo punto
gli interpreti si sono divisi poiché sono possibili due significati
della ragionevole probabilità di rigetto dell’appello: o che
l’appello è talmente infondato che non ha neppure una
ragionevole probabilità di essere accolto (e in questo caso
l’appello è manifestamente infondato per cui non ha alcuna
ragionevole probabilità di essere accolto); o che l’appello non è
manifestamente infondato ma è presumibile che verrà rigettato
(cioè è presumibilmente infondato per cui qualche possibilità di
essere accolto c’è). L’appello che non ha ragionevoli probabilità di
essere accolto è dichiarato inammissibile con una forma però
diversa dalla consueta dichiarazione di inammissibilità: di norma
l’inammissibilità dà luogo ad una questione pregiudiziale di rito
propria del giudizio d’appello e dunque viene dichiarata con
sentenza che definisce il giudizio d’Appello (che comporta ai sensi
dell’art 358 il passaggio in giudicato della sentenza di primo
grado); qui invece l’inammissibilità è dichiarata con ordinanza
succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di
fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a
precedenti conformi (cioè con un’ordinanza succintamente
motivata e che può essere motivata per relationem mediante il
rinvio al contenuto degli atti di causa e il riferimento a precedenti
conformi). Questa ordinanza di inammissibilità non è impugnabile
però rende impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza di
primo grado (quindi non comporta il passaggio in giudicato della
sentenza di primo grado perché a seguito della declaratoria di
inammissibilità dell’appello la sentenza di primo grado può essere
impugnata con ricorso per cassazione). La spiegazione di questo
regime così singolare sta nel fatto che il ricorso per cassazione
gode, nel nostro ordinamento, di una copertura costituzionale
all’art 111 co.7 Cost. (secondo cui il ricorso per cassazione è
ammesso contro tutte le sentenze laddove per sentenza si
intendono non solo i provvedimenti che hanno forma di sentenza
ma tutti i provvedimenti che decidono su diritti soggettivi)->
quindi nel momento in cui il legislatore ha previsto la non
impugnabilità delle ordinanze era tenuto a garantire la
ricorribilità in cassazione quantomeno della sentenza di primo
grado. Tuttavia per la parte che ha proposto l’appello e si è poi
vista dichiarare l’inammissibilità dell’appello, per la carenza di
ragionevole probabilità di accoglimento, non è la stessa cosa
l’appello o il ricorso per cassazione perché l’appello garantisce
anche il riesame della quaestio facti cioè il riesame in fatto della
decisione poiché l’appello è un’impugnazione a critica libera (con
cui è possibile “lamentarsi” non solo della soluzione data dal
giudice di primo grado alla quaestio iuris ma anche del modo in
cui il giudice ha risolto la quaestio facti) mentre con il ricorso per
cassazione la quaestio facti si riduce, fino quasi a scomparire,
poiché il ricorso per cassazione consente solo un controllo
indiretto sulla soluzione data dal giudice alla quaestio facti cioè
attraverso il controllo sulla motivazione della sentenza-> sotto
questo profilo la stessa Riforma del 2012 ha notevolmente
ristretto l’ampiezza di questo controllo sulla motivazione da parte
della Corte di Cassazione-> quindi la possibilità di impugnare la
sentenza di primo grado con ricorso per cassazione non è
equivalente, dal punto di vista della tutela, all’appello perché
finisce per privare la parte soccombente della possibilità di
censurare la soluzione data dal giudice alla quaestio facti. Questa
possibilità di impugnare la sentenza di primo grado con ricorso
per cassazione non è neppure riconosciuta sempre con la stessa
ampiezza perché l’art 348-ter co.4 dice che quando
l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle
questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata il
ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i
motivi di cui ai numeri 1) 2) 3) 4) del primo comma dell’art 360.
La regola è che quando l’appello è dichiarato inammissibile ai
sensi dell’art 348-bis poiché non c’è ragionevole probabilità di
accoglimento, è possibile proporre ricorso per cassazione contro
la sentenza di primo grado. Se però la dichiarazione di
inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni di fatto poste a base
della sentenza impugnata, proprio la conformità tra la sentenza di
primo grado e la valutazione del giudice d’appello, che sta alla
base della declaratoria di inammissibilità, preclude la possibilità
di impugnare la sentenza di primo grado con ricorso per
cassazione per vizi di motivazione (c’è un ulteriore riduzione del
controllo sulla sentenza di primo grado).
Apparentemente il sistema delineato dal legislatore è un sistema
a perfetta tenuta poiché la declaratoria di inammissibilità di cui
all’art 348 bis avviene con ordinanza che non è impugnabile ma
rende impugnabile la sentenza di primo grado poiché il ricorso
per cassazione è garantito dalla Costituzione, quindi il legislatore
non può sopprimerlo, mentre non è garantito dalla Costituzione
l’appello. In realtà già in sede di prima applicazione della norma
(che è una norma giovane e che è stata accolta con molta
diffidenza dai giudici) si è posto un problema poiché talora
l’ordinanza di inammissibilità è affetta da un vizio proprio quindi
si intende contestarla non perché il giudice abbia sbagliato nel
ritenere che l’appello non avesse ragionevoli probabilità di
accoglimento, ma perché l’ordinanza è viziata in sé (per esempio
perché è affetta da vizio di costituzione del giudice). Questo tipo
di censura non può essere fatta valere con ricorso per cassazione
avverso la sentenza di primo grado poiché il vizio riguarda
l’ordinanza in sé. Inoltre questo filtro di inammissibilità non si
applica sempre: ai sensi dell’art 348-bis co.2 non si applica
quando l’appello è proposto relativamente ad una delle cause di
cui all’art 70 co.1 (cioè ad una delle cause in cui è previsto
l’intervento obbligatorio del P.M. , sintomo della cattiva
coscienza del legislatore il quale ritiene che quando la
controversia abbia ad oggetto interessi pubblicistici, per i quali è
richiesto l’intervento obbligatorio del P.M., il filtro non si applica
poiché esso conduce ad una decisione troppo affrettata) e
quando l’appello è proposto a norma dell’art 702-quater (cioè
l’appello avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento
sommario, al quale non si applica il filtro di inammissibilità per
incentivare le parti ad avvalersi del procedimento sommario non
impedendo la proposizione di nuove prove). Quando l’ordinanza
è affetta da vizi propri o è pronunciata al di fuori dei casi previsti
dalla legge l’unica possibilità è il ricorso per cassazione di cui
all’art 111 Cost. che garantisce la ricorribilità per cassazione di
tutti i provvedimenti decisori su diritti (e l’ordinanza di
inammissibilità dell’appello definisce un processo su diritti). Su
questo punto si è determinato un contrasto all’interno della
stessa Corte di Cassazione poiché alcune sezioni hanno dichiarato
ammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza
dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello di cui all’art 348-bis
laddove è affetta da vizi propri che non possono essere veicolati
attraverso l’impugnazione della sentenza di primo grado; altre
sezioni hanno invece negato il ricorso per cassazione avverso tale
ordinanza poiché il legislatore non lo prevede così come il
legislatore potrebbe addirittura sopprimere l’appello senza che
ciò comporti alcun problema di legittimità costituzionale. Questo
contrasto tra le sezioni semplici della Corte di Cassazione è stato
risolto dalle sez.un. del 2016 che hanno affermato che avverso
l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello è sempre
ammissibile ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art
111 co.7 Cost. limitatamente ai vizi propri della medesima.
Per quanto riguardo L’APPELLO NEL RITO DEL LAVORO:
l’art 433 sancisce che l’appello avverso la sentenza che il
tribunale pronuncia secondo il rito del lavoro è suscettibile
d’appello davanti alla Corte d’Appello, in funzione di giudice del
lavoro, nel cui circondario si trova il tribunale che ha reso la
pronuncia di primo grado. L’atto introduttivo dell’appello, nel rito
del lavoro, ha la forma del ricorso che deve contenere, a pena di
inammissibilità dell’appello, l’indicazione dei motivi specifici
d’impugnazione (ai sensi dell’art 434 cui la legge 134/2012 ha
apportato modifiche corrispondenti a quella apportate all’art
342). Il ricorso deve essere depositato presso la cancelleria della
Corte d’Appello entro trenta giorni dalla notificazione della
sentenza (o entro 40 giorni se il luogo della notificazione si trova
all’estero). Se l’appello è stato proposto contro una sentenza di
condanna della quale, al momento della proposizione del
gravame, l’appellante conosca solo il dispositivo e non la
motivazione (cioè se l’esecuzione sia iniziata prima della
notificazione della sentenza), l’appello si propone con riserva di
motivi che dovranno essere presentati entro 30 giorni dalla
notificazione della sentenza (ai sensi dell’art 433 co.2).
Ai sensi dell’art 435 il presidente della Corte d’Appello entro 5
giorni dalla data di deposito dell’atto di appello designa il giudice
relatore e fissa, non oltre 60 giorni dalla data stessa (o 80 giorni
in caso di notificazione all’estero), l’udienza di discussione
davanti al collegio. L’appellante, entro 10 giorni dalla data di
deposito del decreto di fissazione dell’udienza, provvede alla
notifica del ricorso e del decreto all’appellato. L’art 436 disciplina
la costituzione dell’appellato che segue lo schema della
costituzione del convenuto, nel processo del lavoro, in primo
grado. Quindi l’appellato deve costituirsi almeno dieci giorni
prima dell’udienza mediante deposito in cancelleria del fascicolo
e di una memoria difensiva in cui l’appellato deve esporre in
modo dettagliato tutte le proprie difese. In caso di soccombenza
parziale reciproca, l’eventuale appello incidentale deve essere
proposto, a pena di decadenza, nella memoria di costituzione con
indicazione dei motivi specifici di tale impugnazione.
L’art 437 disciplina l’udienza di discussione. In tale udienza il
giudice incaricato fa la relazione della causa. Successivamente il
collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando
lettura del dispositivo nella stessa udienza. Il co.2 dell’art 437
pone, anche nel rito del lavoro, un divieto di ius novorum in
appello quindi non sono ammesse nuove domande ed eccezioni
in appello, la cui proposizione violerebbe il principio del doppio
grado di giurisdizione. Anche se l’art 437 co.2 si rifà all’art 345
co.1, esso non prevede espressamente la possibilità di proporre
in appello domande relative agli interessi, ai frutti e gli accessori
maturati dopo la sentenza impugnata, nonché al risarcimento dei
danni sofferti dopo la sentenza stessa. Tuttavia, secondo
l’opinione prevalente, ciò deve essere consentito anche in
appello poiché la natura di tali domande costituisce un mero
aggiornamento di quelle avanzate in primo grado. Inoltre il co.2
art 437 prevede che in appello non sono ammessi nuovi mezzi di
prova, tranne che il giuramento estimatorio, a meno che il
collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della
decisione della causa e salva la possibilità per le parti di deferire il
giuramento decisorio. Circa la nozione di indispensabilità le
sez.un. della Cassazione distinguono la prova indispensabile a
seconda che si tratti di rito del lavoro o rito comune. Nel rito
ordinario la prova è indispensabile quando verte su un fatto
decisivo per giungere ad un completo rovesciamento della
decisione cui è pervenuto il giudice di primo grado. Invece, nel
rito del lavoro, la prova è indispensabile quando essa ha ad
oggetto un fatto il cui accertamento sia avvenuto, in primo grado,
sulla base della regola di giudizio fondata sull’onere della prova.
Consolo ritiene che il concetto di prova indispensabile sia identico
e si avvicini più alla prima che alla seconda definizione.
Per quanto riguarda la produzione di nuovi documenti in appello,
essa è preclusa, dopo la Riforma del 2009, nel rito ordinario e non
nel rito del lavoro. Secondo la giurisprudenza prevalente il divieto
posto dall’art 437 riguardava soltanto le prove costituende come
la testimonianza e non anche le prove precostituite come i
documenti (poiché esse non comportano un appesantimento del
processo in quanto sono state precostituite cioè costituite già in
precedenza). Tuttavia l’orientamento giurisprudenziale recepito
dalle sez.un. del 2005, tende a riconoscere questa preclusione
anche per l’appello nel rito del lavoro, salvo che si tratti di
documenti sopravvenuti.
Qualora ammetta nuove prove il collegio fissa entro venti giorni
l’udienza nella quale devono essere assunte e deve essere
pronunciata la sentenza ai sensi dell’art 437 co.3.
L’art 438 prevede per il deposito della sentenza la stessa
disciplina del deposito della sentenza di primo grado nel rito del
lavoro di cui all’art 430. Inoltre l’art 438 richiama l’art 431 co.2
che prevede la possibilità di iniziare l’esecuzione forzata sulla
base del solo dispositivo così come avviene per le sentenze di
primo grado.
L’art 360 co.1 elenca i cinque motivi che consentono alla parte
soccombente di impugnare i provvedimenti (pronunciati in grado
d’appello o in unico grado) con il ricorso per cassazione. Infatti il
ricorso per cassazione è un’impugnazione a critica vincolata
quindi c’è predeterminazione legislativa dei motivi. Si tratta di
cinque motivi di puro diritto poiché è escluso ogni riesame del
fatto relativo al merito della causa.
Ciascun motivo di ricorso presenta caratteristiche particolari e in
caso di accoglimento conduce a statuizioni della S.C. di differente
contenuto e valenza anche in vista, quando occorre, del
successivo giudizio di rinvio volto a dare una nuova decisione alla
causa. In caso di rigetto del ricorso si ha il passaggio in giudicato
della decisione impugnata. Se il ricorso deduce una pluralità di
motivi l’ordine di pregiudizialità fra essi può essere fissato dalla
Corte (o può essere diversamente fissato dalla Corte rispetto a
quello proposto dalle parti con la loro enumerazione).
Il primo motivo attiene alla giurisdizione quindi sia al rispetto dei
limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario per ragioni
di internazionalità della lite (cioè la S.C. può solo dire se della lite
può conoscere il giudice ordinario), sia al rispetto dei limiti interni
di riparto fra le varie giurisdizioni (cioè la S.C. deve dire, di solito
tra un privato e una P.A., se un giudice può conoscere della lite e
quale tipo di giudice sarà). Le questioni che possono essere
oggetto di motivo del ricorso per cassazione sono le medesime
che possono essere oggetto di regolamento di giurisdizione.
Infatti, se esso fu esperito, queste questioni non possono più
essere discusse. Possono essere oggetto di ricorso sia le sentenze
cha abbiano negato la giurisdizione del giudice civile sia quelle
che l’abbiano affermata. I motivi di giurisdizione di cui all’art 360
n.1 evocano il contenuto dell’art 37, quindi anche l’ipotesi di
difetto di giurisdizione, cioè i casi in cui né il giudice civile né il
giudice amministrativo hanno potestà decisoria nei confronti
della pubblica amministrazione, in quanto venga fatto valere un
interesse che non configura né un diritto soggettivo né un
interesse legittimo.
Secondo alcune interpretazioni rientrerebbero nell’art 360 n.1
anche i casi in cui si evidenzia una carenza di potestas decidendi
in capo al giudice adito in primo grado. Si tratta delle ipotesi in
cui viene in rilievo la violazione del principio della domanda o la
mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato o la pronuncia
su una domanda relativa ad un diritto su cui è già stato reso un
precedente giudicato sostanziale. Questi casi rientrano anche
nell’art 360 n.4 che contempla gli errores in procedendo. Tuttavia
l’inclusione di tali ipotesi nell’ambito dell’art 360 n.1 si spiega per
consentire alla Corte di Cassazione di sindacare eventuali errori
processuali commessi dalle due Corti di ultima istanza (Consiglio
di Stato e Corte dei Conti) contro le cui decisioni non sono
ammessi gli altri quattro motivi di ricorso ma solo motivi inerenti
alla giurisdizione.
L’art 360 n.1 si ricollega all’art 382 co.1 che prevede che, in sede
di decisione sulla questione di giurisdizione, la Corte statuisce su
questa determinando, quando occorre, il giudice competente.
Nelle ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, improponibilità
della domanda (ad es mancanza dei presupposti processuali) o
improseguibilità del giudizio (ad es nullità non sanate o non
sanabili) la Corte cassa senza rinvio poiché non può neppure
individuare il giudice avente giurisdizione (art.382 co.3). Nei casi
di riparto di giurisdizione, invece, la Corte individuerà un diverso
giudice di primo grado appartenente ad una diversa giurisdizione
davanti al quale riassumere il processo con conservazione degli
effetti della domanda originaria (la cd traslatio iudicii tra
giurisdizione di cui all’art 59 l.69/2009). La mancata riassunzione
entro tre mesi dal deposito della sentenza della S.C. determinerà
l’estinzione dell’intero giudizio.
Se la sentenza impugnata è una sentenza di appello con cui è
stata erroneamente declinata la giurisdizione, si avrà cassazione
con rinvio ad altro giudice di appello; ma se la giurisdizione era
stata già declinata dal giudice di primo grado e il giudice di
appello, errando, abbia confermato tale declinatoria, la
cassazione avverrà con rinvio direttamente al giudice di primo
grado (art.353 co.1 richiamato dall’art 383 co.3)
REVOCAZIONE
La revocazione si caratterizza per la sua duplice natura di
impugnazione ordinaria e straordinaria. E’ordinaria nei casi di cui
all’art 395 nn.4 e 5, casi nei quali la revocazione serve a far valere
dei vizi palesi della sentenza cioè vizi che possono essere
riscontrati sulla base di un semplice esame della sentenza e/o
degli atti di causa. Si tratta dunque di impugnazione che può
essere ben qualificata come impugnazione impeditiva del
giudicato poiché è proponibile sin dal giorno della pubblicazione
della sentenza (in quanto mira a far valere vizi che sono evidenti
e possono essere dunque riscontrati immediatamente). E’
straordinaria la revocazione di cui all’art 395 nn.1-2-3-6 nei quali
la revocazione serve a far valere vizi occulti cioè vizi che possono
essere scoperti anche a distanza di molto tempo dalla
pubblicazione della sentenza. Tali vizi, per loro natura, non si
prestano ad essere veicolati con l’impugnazione ordinaria poiché
ciò significherebbe procrastinare il passaggio in giudicato della
sentenza per un tempo indefinito, potenzialmente molto lungo.
La differenza tra revocazione ordinaria e revocazione
straordinaria è che la seconda, a differenza della prima, può
essere proposta anche contro una sentenza già passata in
giudicato.
Per quanto riguarda i PROVVEDIMENTI REVOCABILI:
La revocazione, tanto ordinaria quanto straordinaria, è
proponibile avverso le sentenze pronunciate in grado d’appello o
in unico grado (quindi sono le stesse sentenze che possono
essere impugnate con ricorso per cassazione infatti i due rimedi
concorrono tra di loro-> l’art 398 cpc disciplina il concorso di
questi mezzi di impugnazione). Solo la revocazione straordinaria
può rivolgersi anche contro le sentenze passate in giudicato,
indipendentemente dal grado in cui sono state pronunciate.
Dunque si ricava che la revocazione ordinaria o straordinaria non
è mai proponibile avverso una sentenza di primo grado
appellabile cioè la revocazione è incompatibile con l’appello.
Questo perché l’appello, essendo un’impugnazione a critica
libera, è in grado di riassorbire la revocazione poiché con
l’appello è possibile far valere tutti i tipi di censure relative
all’invalidità o ingiustizia della decisione (senza alcuna
predeterminazione legislativa). Un problema sorge però con
riguardo ai motivi di revocazione straordinaria che riguardano vizi
occulti della sentenza, cioè vizi che non possono essere
riscontrati sulla base di un semplice esame della sentenza,
mediante un suo raffronto con gli atti di causa, e che possono
essere scoperti a distanza di tempo. Nel momento in cui la legge
nega la revocazione nei confronti delle sentenze di primo grado
appellabili, imponendo alla parte soccombente di far valere i
motivi di revocazione attraverso l’appello e dunque entro il
termine per appellare, si pone il problema della possibile
scoperta tardiva di questi vizi (cioè non dopo il termine per
appellare poiché in quel caso la sentenza è passata in giudicato
ed è possibile impugnarla con revocazione straordinaria). Quando
tali vizi vengono scoperti in pendenza del termine per appellare
ma in prossimità della sua scadenza, da un lato, bisogna fare
l’appello poiché contro la sentenza appellabile non è possibile
fare la revocazione, dall’altro però, si verrebbe ad essere privati
del termine per appellare. Per questo motivo l’art 396 che
disciplina il termine per la proposizione della revocazione
straordinaria, ricollegando il decorso del termine alla scoperta del
vizio, prevede che le sentenze per le quali è scaduto il termine
per l’appello possono essere impugnate per revocazione nei casi
dei nn.1-2-3 e 6 dell’articolo precedente, purchè la scoperta del
dolo o della falsità o il recupero dei documenti o la pronuncia
della sentenza di cui al n.6 (in sostanza la scoperta del vizio) siano
avvenuti dopo la scadenza del termine suddetto; il co.2 prevede
che se però i fatti menzionati nel comma precedente (cioè i vizi
occulti) avvengono durante il corso del termine per l’appello
(dato che in questo caso la sentenza dovrà essere impugnata con
il mezzo di impugnazione ordinario con la conseguenza che i
motivi di revocazione si convertiranno in motivi d’appello) il
termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo
da raggiungere i trenta giorni da esso. In questo modo il sistema è
a perfetta tenuta.
OPPOSIZIONE DI TERZO
L’opposizione di terzo si caratterizza per essere l’unico mezzo di
impugnazione riservato alle parti che non sono state parti del
giudizio a quo cioè a soggetti terzi che non sono stati parte della
sentenza. “Terzo” è un’espressione ampia e tra questi “terzi”
bisogna individuare quelli che sono legittimati a proporre
l’opposizione di terzo. L’art 404 contiene due diverse specie
dell’opposizione di terzo.
Al co.1 prevede l’opposizione di terzo ordinaria, che a dispetto
della dicitura “ordinaria” è sempre un mezzo di impugnazione
straordinaria poiché il co.1 dell’art 404 individua nella sentenza
passata in giudicato o comunque esecutiva la sentenza
suscettibile di opposizione di terzo ordinaria. L’opposizione di
terzo ordinaria è l’opposizione che un terzo può fare contro la
sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata
tra altre persone quando essa pregiudica i suoi diritti.
Il co. 2 prevede l’opposizione di terzo revocatoria riservata agli
aventi causa e ai creditori di una delle parti quando la sentenza è
effetto di dolo o collusione a loro danno. Dunque quella dei
legittimati all’opposizione ordinaria è una categoria aperta cioè
possono fare opposizione tutti i terzi in vario modo pregiudicati in
un loro diritto; invece l’opposizione revocatoria è concessa,
provando dolo o collusione delle parti a loro danno, a due
specifiche categorie di soggetti, i creditori e gli aventi causa. Per
quanto riguarda i creditori, l’opposizione di terzo revocatoria si
configura come un’applicazione dell’istituto dell’azione
revocatoria disciplinata dall’art 2901 c.c. (la “pauliana”) secondo
cui i creditori possono agire con l’azione revocatoria per far
dichiarare inefficaci atti di disposizione che il debitore compie sul
proprio patrimonio in frode del creditore (si tratta di uno
strumento di garanzia patrimoniale del credito). L’opposizione di
terzo revocatoria proposta dai creditori svolge la stessa funzione
però non nei riguardi di un atto di disposizione fraudolento ma di
un processo fraudolento (quindi l’azione revocatoria ha ad
oggetto negozi privati, l’opposizione revocatoria ha ad oggetto un
giudicato). Se il dolo o la collusione fraudolenta delle due parti tra
loro sono provati dal creditore opponente, si discute se
l’accoglimento dell’opposizione revocatoria proposta dal
creditore abbia l’effetto di rimuovere la sentenza anche inter
partes oppure semplicemente di renderla inopponibile al
creditore che abbia proposto l’opposizione. La dottrina ritiene
che la sentenza mantenga la sua efficacia tra le parti originaria
mentre la giurisprudenza ritiene che la sentenza perda la sua
efficacia anche tra le parti originarie per la ritrosia a conservare
effetti ad un giudicato accertatamente frutto di dolo e frode e
quindi errato. Il creditore, durante il processo, può intervenire in
primo grado ex art 105 co.2 cioè in via adesiva se riscontra
un’inerzia difensiva del debitore; può intervenire in appello ex art
344 se reputa che la sentenza di primo grado, pur appellata, sia
frutto di dolo o collusione.
Per quanto riguarda gli aventi causa essi sono i terzi acquirenti di
una posizione dipendente quindi non tanto gli aventi causa nella
medesima situazione controversa poiché questi ultimi raramente
si trovano nella situazione che li legittima alla proposizione
dell’opposizione di terzo. Dunque l’avente causa è il successore a
titolo particolare nel diritto controverso. Con riguardo al
successore particolare nel diritto controverso bisogna fare delle
distinzioni: se la successione avviene prima della domanda il
trasferimento della situazione sostanziale, che poi diverrà
controversa, comporta anche il trasferimento della legittimazione
attiva o passiva quindi la domanda sarà proposta sin dall’inizio
nei confronti del successore quindi non si realizza quella
situazione che legittima il successore all’opposizione di terzo; se
la successione avviene in pendenza del processo si applica l’art
111 cpc in tema di successione a titolo particolare nel diritto
controverso –> la sentenza produrrà effetti anche nei confronti
del successore il quale sarà legittimato a proporre non
l’opposizione di terzo ma le impugnazioni proprie delle parti. Esso
sono soggetti a dei termini perentori. Se dopo il decorsi di tali
termini fosse scoperto il dolo o la collusione, potrebbe però
pensarsi a concedere all’avente causa anche l’opposizione
revocatoria, oltre all’appello che gli spetta ai sensi dell’art 111
co.4; se la successione avviene dopo il giudicato, il giudicato fa
stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa ai sensi dell’art 2909
c.c. quindi gli aventi causa devono rispettare il giudicato cioè
succederanno in quella situazione come conformata dal giudicato
quindi è difficile immaginare che ci siano sul piano pratico i
presupposti dell’opposizione revocatoria. Occorrerebbe
immaginare una situazione in cui il processo sia stato intentato
fraudolentemente de futuro per danneggiare un acquirente
ancora inesistente. Si tratta però di un’ipotesi piuttosto difficile
da verificarsi.
Allora gli aventi causa dell’art 404 co.2 saranno i soggetti titolari
di una situazione giuridica dipendente da quella oggetto del
processo quindi i titolari di diritti dipendenti soggetti all’efficacia
riflessa della sentenza (si tratta di casi di successione non
traslativa ma costitutiva). Un esempio classico è quello del sub
conduttore ->in questo la stessa legge, all’art 1595 c.c. prevede
l’efficacia riflessa della sentenza nei confronti di terzi, aventi
causa, titolari di diritti dipendenti-> il sub conduttore è soggetto
all’efficacia riflessa della sentenza pronunciata tra conduttore e
locatore-> si tratta di una successione costitutiva che non
comporta il trasferimento della legittimazione cioè il successore
resta terzo rispetto alla res controversa però subisce gli effetti
della sentenza (sentenza che pronuncia la soluzione del contratto
di locazione tra locatore e conduttore è opponibile al sub
conduttore anche se egli non è parte del processo). Possiamo
immaginare il caso di un processo fraudolento in cui locatore e
conduttore si mettono d’accordo per estromettere il sub
conduttore -> in un caso del genere il sub conduttore, quale
avente causa, potrà proporre opposizione di terzo revocatoria
basandosi sulla non facile dimostrazione della frode della parti a
suo danno. L’ambito applicativo di questo istituto
(dell’opposizione di terzo revocatoria con particolare riguarda agli
aventi causa) è strettamente legato alla concezione che si intende
accogliere in tema di efficacia riflessa della sentenza se cioè la
sentenza oltre a produrre effetti tra le parti possa produrre effetti
anche nei confronti di terzi dipendenti cioè se norme come l’art
1595 c.c siano espressione di un principio generale (nel senso
della riflessione del giudicato nei confronti del terzo titolare di un
rapporto dipendente) oppure se il principio generale sia
applicabile solo tra le parti. La dottrina più recente tende ad
escludere l’efficacia riflessa generalizzata per tutelare il diritto di
difesa del terzo che non può subire l’efficacia della sentenza
senza aver preso parte al processo. Ci sono però degli istituti di
tutela del terzo (tra cui la stessa opposizione di terzo revocatoria)
per cui bisogna valutare l’idoneità, anche sul piano costituzionale,
di questi strumenti a salvaguardare la difesa del terzo. Chi
afferma l’efficacia riflessa generalizzata sostiene che sia
pregiudicato il diritto di difesa del terzo poiché ci sono tutta una
seria di strumenti che servono a tutelare il suo diritto di difesa
(che ad es. se è conoscenza del processo tra le parti, può
intervenire ai sensi dell’art 105 co.2; può essere chiamato in
causa per ordine del giudice ex art 107; può proporre opposizione
di terzo revocatoria). Invece chi nega l’efficacia riflessa
generalizzata sostiene che tali rimedi siano destinati a rimanere
sulla carta poiché ad es. l’intervento adesivo dipendente
presuppone che il terzo sia a conoscenza del processo pendente
tra le parti laddove, proprio in un processo fraudolento, le parti
cercano in tutti i modi di tenere il terzo all’oscuro di quel
processo analogamente l’intervento per ordine del giudice ex
art.107 presuppone che il giudice sia a conoscenza dell’esistenza
del terzo (e, anche qui, le parti cercheranno in tutti i modi di
nascondere l’esistenza di questo terzo) . Dunque tutto sarebbe
affidato allo strumento dell’opposizione di terzo revocatoria che
però presuppone la prova del dolo o della collusione che è
difficile da provare quindi si dice che l’efficacia riflessa della
sentenza sia limitata ai casi previsti dalla legge quindi l’ambito
applicativo dell’opposizione di terzo revocatoria si restringe.
Per quanto riguarda i legittimati a proporre l’opposizione di terzo
ordinaria l’art 404 individua genericamente, quali legittimati, i
soggetti che, dalla sentenza pronunciata tra altre parti, siano
pregiudicati in un loro diritto dunque è più difficile una loro
individuazione (la loro individuazione è rimessa sostanzialmente
all’interprete). Un punto fermo è ricavabile dal confronto tra
primo e secondo comma dell’art 404 cioè i terzi legittimati a
proporre l’opposizione ordinaria non sono quelli legittimati a fare
l’opposizione di terzo revocatoria poiché quest’ultima è
subordinata alla dimostrazione del dolo o della collusione delle
parti a danno del terzo mentre l’opposizione di terzo ordinaria
prescinde dalla dimostrazione del dolo o della collusione. Ciò
consente di stabilire che i terzi legittimati a proporre
l’opposizione ordinaria non sono soggetti all’efficacia riflessa
della sentenza poiché il pregiudizio cui allude il co.1 art 404 non
deriva dalla soggezione del terzo all’efficacia della sentenza
poiché i terzi soggetti all’efficacia della sentenza sono equiparati
agli aventi causa di cui al co.2. Dunque il pregiudizio di cui parla il
co.1 è un altro tipo di pregiudizio. Sul tema dell’individuazione dei
terzi legittimati a proporre opposizione di terzo ordinaria sono
state elaborate dalla dottrina (e singolarmente da Proto Pisani e
Fabbrini) i quali offrirono dell’opposizione di terzo due
ricostruzioni diametralmente opposte.
La ricostruzione di Fabbrini: Fabbrini individua il pregiudizio che il
terzo può subire dalla sentenza resa inter alios nel pregiudizio da
esecuzione cioè il terzo è un soggetto, terzo rispetto al processo e
rispetto alla situazione sostanziale (cioè al diritto controverso),
che potrebbe subire un pregiudizio dall’esecuzione della sentenza
inter partes. Es. classico è quello di un terzo che si afferma
titolare della proprietà del bene oggetto della sentenza - cioè che
vanta un diritto autonomo e incompatibile con quello
riconosciuto al titolare della sentenza opposta- e che però vuole
evitare l’esecuzione tra le parti della sentenza che abbia accolto
ad es la domanda di rivendica per evitare che Tizio, che abbia
agito vittoriosamente in rivendica, consegua il possesso del bene
che potrebbe comportare il perfezionamento a suo favore di una
fattispecie acquisitiva a titolo originario. Questo soggetto è terzo
rispetto al processo e rispetto alla res controversa, non subisce gli
effetti della sentenza quindi, teoricamente, potrebbe far valere il
suo diritto nei confronti dell’attore che ha agito in rivendica ed è
risultato vincitore però, se la sentenza viene eseguita, l’attore che
ha agito in rivendica ed ha vinto consegue il possesso del bene e
quindi può diventare proprietario a titolo originario. Il terzo,
titolare di un diritto autonomo e incompatibile, può avere
interesse a rimuovere la sentenza per impedirne l’esecuzione.
Questo interesse può essere soddisfatto in via preventiva con
l’intervento principale (cioè nel processo mediante l’intervento
principale) oppure può proporre opposizione di terzo ordinaria
che gli fa cadere la sentenza. Nella prospettiva di Fabbrini
l’opposizione di terzo ordinaria è un rimedio, in un certo senso,
facoltativo nel senso che il terzo ha vari interventi a propria
disposizione (intervento principale, azione autonoma- che però
non consente di rimuovere la sentenza inter partes -,
l’opposizione di terzo). Per Fabbrini, quindi, il terzo legittimato a
proporre l’opposizione ordinaria è solo quello che può essere
pregiudicato dall’esecuzione della sentenza (cioè il terzo titolare
di un diritto autonomo e incompatibile e NON dipendente) e che
dunque ha interesse a rimuoverla. In particolare non sono
legittimati a proporre l’opposizione di terzo ordinaria i
litisconsorti necessari pretermessi e i soggetti falsamente
rappresentati poiché nei confronti di tali soggetti la sentenza non
produce effetti (dunque non c’è interessa a rimuoverla).
Proto Pisani: egli sostiene che in realtà il terzo titolare di un
diritto autonomo ed incompatibile ha altri strumenti per
rimuovere l’esecuzione della sentenza (ha l’intervento principale,
ha un autonoma azione poiché non è soggetto all’efficacia della
sentenza) quindi dire che egli è il soggetto legittimato a proporre
l’opposizione di terzo significa che l’opposizione di terzo ordinaria
non serva a nulla e che sia soltanto un rimedio facoltativo. Egli
invece sostiene che l’opposizione di terzo ordinaria sia un rimedio
necessario quindi bisogna individuare dei terzi che subiscono un
pregiudizio che può essere eliminato solo con l’opposizione di
terzo ordinaria. Questi terzi sono proprio il litisconsorte
necessario pretermesso e il falso rappresentante. Per Proto Pisani
un riferimento normativo che aiuta ad individuare la soluzione
più appropriata per i casi di pretermissione del litisconsorte
necessario o di falsa rappresentanza è l’art 161 cpc secondo cui le
nullità della sentenza si convertono in mezzi di impugnazione e
non c’è dubbio che la pretermissione del litisconsorte necessario
o la falsa rappresentanza diano luogo alla nullità della sentenza.
L’unica eccezione positivamente stabilita a questo principio di
conversione delle nullità della sentenza in mezzi di gravame è
rappresentata dalla sentenza priva di sottoscrizione. Dunque il
litisconsorte necessario pretermesso e il falso rappresentante
hanno l’onere di far valere il vizio della sentenza con uno
specifico mezzo di impugnazione che è l’opposizione di terzo
ordinaria che dunque non è un rimedio facoltativo ma necessario
nel senso che è l’unico strumento attraverso cui questi soggetti
possono far valere il vizio della sentenza che li pregiudica. Proto
Pisani dice che non a caso la legge sottrae l’opposizione di terzo
ordinaria a qualunque termine di decadenza. Essa è infatti è
l’unico mezzo di impugnazione sottratto a termini di decadenza e,
dunque, proponibile in ogni tempo proprio perché esso è messo a
disposizione di soggetti che possono non sapere nulla del
processo (il litisconsorte pretermesso e il falso rappresentato) e
quindi per tutelare il loro diritto di difesa. Questa ricostruzione di
Proto Pisani è la più coerente.
La giurisprudenza ha realizzato una commistione tra queste due
teorie ritenendo che l’opposizione di terzo ordinaria sia
proponibile tanto dai litisconsorti necessari pretermessi quanto
dai soggetti falsamente rappresentati ma non, come sostenuto da
Proto Pisani, come unico rimedio bensì come alternativa al
secondo comma cioè la giurisprudenza ritiene che la sentenza
pronunciata a contraddittorio non integro o la sentenza
pronunciata nei confronti di un falsus procurator sia priva di
giudicato, però ammette contro di essa anche il rimedio
dell’opposizione di terzo ordinaria (che quindi è un rimedio
facoltativo).
Inoltre quando l’art 404 co.1 parla di “pregiudizio” (il terzo può
fare opposizione contro la sentenza…quando pregiudica i suoi
diritti) non si riferisce all’estensione al terzo e a carico del suo
diritto dell’efficacia di accertamento della sentenza bensì al fatto
che il diritto del terzo è posto genericamente a repentaglio dal
contenuto della sentenza e dalla sua esecuzione tra le parti.
Questa tesi si distingue da quella degli autori che si pongono sulla
scia della teoria di Liebman che distingue tra efficacia naturale di
accertamento (che vale nei confronti dei terzi e si esprime già
dalla sentenza di primo grado) e autorità del giudicato (che fa
stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa ai sensi dell’art 2909 e
che necessita del passaggio in giudicato della sentenza). Liebman
riteneva che i terzi titolari di rapporti incompatibili e i terzi titolari
di rapporti dipendenti non sono di solito colpiti da alcuna
(rispettivamente) estensione o riflessione del giudicato, ma
dall’efficacia di accertamento naturale che si esprime già dalla
sentenza di primo grado che vale erga omnes -> essi non devono
rispettare quella sentenza come giudicato ma anzi possono
cercare di dimostrarne l’ingiustizia. Dunque, per Liebman, anche i
terzi titolari di rapporti dipendenti sarebbero legittimati
all’opposizione di terzo ordinaria (opinione non condivisa da
dottrina e giurisprudenza secondo cui essi sarebbero legittimati a
proporre l’opposizione di terzo revocatoria). In questo senso
l’opposizione ordinaria mirerebbe a combattere l’efficacia di
accertamento della sentenza e non il giudicato. Tuttavia questa
tesi presenta delle aporie interne. Ad esempio la previsione
dell’esecutività della sentenza opponibile strideva con l’efficacia
di accertamento assegnata anche alle sentenze di primo grado
(non esecutive). Dunque essa è contrastata sia da dottrina che da
giurisprudenza.
Il procedimento per l’opposizione di terzo è in larga parte
comune per le due opposizioni: è competente funzionalmente
l’ufficio giudiziario che ha pronunciato la sentenza opposta.
Possono essere impugnate le sentenze di merito passate in
giudicato e anche quelle di condanna esecutive. Per sentenza si
intende la sentenza in senso sostanziale cioè ogni provvedimento
che statuisca su un diritto.
Per l’art 405 l’opposizione è proposta davanti allo stesso giudice
che ha pronunciato la sentenza, secondo le forme prescritte per il
procedimento davanti a lui. Essa si propone con atto di citazione
(avanti al giudice del lavoro e alla S.C. si propone con ricorso, ma
l’art 405 non dice nulla al riguardo). La citazione deve contenere,
oltre ai requisiti di cui all’art 163, l’indicazione della sentenza
impugnata e, quando si tratta di opposizione revocatoria,
l’indicazione del giorno in cui l’attore è venuto a conoscenza del
dolo o della collisione con la relativa prova. Se però il terzo
potrebbe essere pregiudicato “gravemente e irreparabilmente” a
seguito dell’esecuzione della sentenza, il giudice dell’opposizione
può disporre l’inibitoria della pronuncia con ordinanza non
impugnabile (art 407).
Per l’art 408 se il giudice dichiara la domanda inammissibile o
improcedibile o se la rigetta nel merito per infondatezza,
condanna l’opponente al pagamento di una pena pecuniaria (di
due euro quindi economicamente irrilevante). Ciò serve ad
evitare giudizi inutili.
La sentenza che decide sull’opposizione si impugna con i gravami
dati contro le sentenze del grado in cui è stata emessa.
Quando sia stata proposta sia l’opposizione di terzo che l’appello:
se l’appello è stato proposto per primo, il terzo non può che
intervenirvi ex art 344 (egli non può proporre autonomamente
l’opposizione nei confronti del giudice di primo grado); se
l’opposizione è stata proposta per prima, la tesi più condivisa e
condivisibile è quella secondo cui essa deve essere riassunta e
riunite presso il giudice dell’appello. Possono concorrere
l’opposizione e il ricorso per cassazione-> pare però preferibile la
tesi secondo cui preceda l’opposizione con conseguente
sospensione del giudizio di cassazione. Tra opposizione e
revocazione si può avere la riunione poiché il giudice è lo stesso.
L’art 391 ter prevede che contro le decisioni della Cassazione sia
proponibile oltre alla revocazione straordinaria, anche
l’opposizione di terzo di cui all’art 404. L’art 391 ter non precisa
se si tratti di opposizione di terzo ordinaria o revocatoria ma si
propende per un un’interpretazione estensiva della norma cioè
che siano proponibili avverso la sentenza della Cassazione sia
l’opposizione di terzo ordinaria che l’opposizione di terzo
revocatoria. Mentre però l’estensione del rimedio
dell’opposizione revocatoria alle decisioni della Cassazione
risultava indispensabile, l’opposizione di terzo ordinaria risultava
soltanto utile, dato il carattere di ordinario giudizio di
accertamento riconosciuto a tale mezzo di impugnazione. L’atto
introduttivo dell’opposizione di terzo avverso la decisione di
merito della S.C. è il ricorso che deve contenere gli elementi di cui
all’art 405 co.2. Il mancato richiamo agli artt. 365 ss. non esclude
che tali norme debbano trovare applicazione anche con riguardo
al ricorso in opposizione di terzo, con gli opportuni adeguamenti.
Oltre a tali elementi di cui agli artt. 365 e 366, il ricorso per
opposizione di terzo deve contenere a pena di inammissibilità gli
elementi di cui all’art 405 co.2. Dunque il ricorso per opposizione
di terzo indirizzato al Supremo Collegio e sottoscritto a pena di
inammissibilità da un avvocato iscritto nell’apposito albo deve
contenere: l’indicazione delle parti; l’indicazione della sentenza
impugnata; l’indicazione della procura, se conferita con atto
separato e, nel caso di ammissione al gratuito patrocinio, del
relativo decreto; esposizione sommaria dei fatti di causa;
indicazione del diritto del terzo leso e delle relative prove; in caso
di opposizione di terzo revocatoria, indicazione del giorno in cui il
terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione e della
relativa prova. Per quanto riguarda il procedimento, l’art 391 ter
non dice nulla ma si ritiene che troverà applicazione l’art 406
secondo cui per il giudizio di opposizione di terzo si osservano le
norme stabilite per il procedimento davanti al giudice adito.
Per quanto riguarda la decisione di accoglimento dell’opposizione
di terzo, l’art 391 ter si limita a dire che la Cassazione potrà
decidere la causa nel merito ove non siano necessari ulteriori
accertamento di fatto. Se invece sono necessari ulteriori
accertamenti di fatto la Cassazione si limita a dichiarare
l’ammissibilità dell’opposizione di terzo, rinviando la causa per la
decisione di merito al giudice che aveva emesso la sentenza poi
sostituita dalla decisione di merito del Supremo Collegio. Tuttavia
la dottrina riteneva inopportuna la proponibilità dell’opposizione
di terzo alle decisioni del Supremo Collegio in quanto essa
presupponeva una valutazione circa i presupposti di fatto che il
terzo pone a sostegno della sua domanda e quindi del giudizio
sulla fondatezza dell’opposizione stessa.
Un’altra anomalia è quella dell’applicazione letterale dell’art 407
c.p.c. secondo cui la stessa S.C., in veste di giudice
dell’opposizione contro le sentenze che essa abbia pronunciato,
si occupa della sospensione dell’esecutività delle medesime.
Tuttavia l’art 373 sottrae tale potere al Supremo Collegio, che è
giudice di legittimità e mai del fatto. L’aporia, che l’applicazione
letterale dell’art 407 determina, sembrerebbe essere risolta
ritenendo che, in conformità all’art 373, l’istanza di inibitoria
vada proposta al giudice di merito qualora la S.C., giudicando
ammissibile il gravame, ritenga necessari ulteriori accertamenti di
fatto.
PARTE TERZA