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Universitad Nacional de Salta

Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

percorso 1 - Agamennone dall’Iliade alla tragedia

Agamennone è personaggio importante dell’Iliade, naturalmente, perché è il capo


dell’esercito, dunque esercita la suprema autorità. Il termine usato per definire il suo
primato è βασιλεύτατος (ovvero βασιλεύτερος, quando lo si confronta con un altro
eroe): cf. Il. IX 69 Ἀτρεΐδη σὺ μὲν ἄρχε· σὺ γὰρ βασιλεύτατός ἐσσι (Nestore ad
Agamennone, dopo l’intervento di Diomede); in IX 160-61 Agamennone stesso,
dopo avere elencato i doni che è pronto a dare ad Achille se accetterà di tornare in
battaglia, si augura che l’altro dia prova di misura e riconosca il suo primato: καί μοι
ὑποστήτω ὅσσον βασιλεύτερός εἰμι / ἠδ’ ὅσσον γενεῇ προγενέστερος εὔχομαι εἶναι.
Achille gli rifà il verso in IX 392, quando rifiuta di sposare una delle figlie di
Agamennone, consigliando per le ragazze un altro marito ὅς τις οἷ τ’ ἐπέοικε καὶ ὃς
βασιλεύτερός ἐστιν. Nel miceneo βασιλεῖς sono i nobili alle immediate dipendenze
del sovrano, che è ἄναξ; quindi, Agamennone è “il più basileus” di loro. A lui
compete, più che a ogni altro, il titolo di ἄναξ ἀνδρῶν, che lo definisce normalmente
[ma non è un suo retaggio esclusivo: eccezionalmente, può essere usato anche per
altri eroi].
Un lessico del potere di Agamennone è abbozzato soprattutto nella scena del
litigio nel I canto, dove tema del contendere è appunto il limite della sua autorità
(l’assemblea è convocata da Achille: una sostituzione significativa, perché sposta su
un principe quella cura degli uomini che è prerogativa del buon sovrano). Calcante,
quando si mostra esitante a dire ciò che sa, spiega che le sue parole potrebbero
risultare sgradite a un uomo molto potente: vv. 78-79 ἦ γὰρ ὀΐομαι ἄνδρα χολωσέμεν,
ὃς μέγα πάντων / Ἀργείων κρατέει καί οἱ πείθονται Ἀχαιοί. Achille lo rassicura,
dicendogli che nessuno gli torcerà un capello, anche se l’offeso fosse Agamennone
stesso ὃς νῦν πολλὸν ἄριστος Ἀχαιῶν εὔχεται εἶναι (v. 91). Durante la zuffa,
Agamennone fa notare che Achille è forte sì, ma senza alcun merito, poiché la sua
forza gli viene da un dio (v. 178 εἰ μάλα καρτερός ἐσσι, θεός που σοὶ τό γ’ ἔδωκεν);
conclude che si prenderà, in sostituzione di Criseide, proprio la schiava di Achille,
Briseide, per dimostrargli quanto sia fšrteroj. Questa formulazione è accolta anche
da Nestore; quando cerca di riconciliare i due, tentando una mediazione, Nestore dice
(vv. 280-81) εἰ δὲ σὺ καρτερός ἐσσι θεὰ δέ σε γείνατο μήτηρ, / ἀλλ’ ὅ γε φέρτερός
ἐστιν ἐπεὶ πλεόνεσσιν ἀνάσσει.
Peraltro, quando si tratta di organizzazione politica e di ruoli sociali, non si può
cercare in Omero una chiarezza totale: la società omerica risulta da una
sovrapposizione di piani. La scena dell’Iliade è un accampamento di soldati, quindi il
potere è definito soprattutto come autorità di comando: non c’è dubbio che
Agamennone la detenga. I canti in cui la sua figura emerge con più evidenza sono -
oltre al I - il II, il III, il IX, l’XI, il XIX. Nel canto XI c’è la sua aristìa, in obbedienza
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a una norma poetica che riserva a ogni eroe un momento - almeno - di grandezza
guerriera.
Nel II canto, occupato nella prima parte dalla descrizione dell’assemblea, i vv.
100-108 si riferiscono al momento in cui Agamennone prende la parola:

Omero, Iliade II 100-108


E il re Agamennone si alzò,
tenendo lo scettro fabbricato un tempo da Efesto.
Efesto lo diede al sire Zeus, figlio di Crono,
e Zeus a Ermes, il messaggero Argheifonte;
il sire Ermes lo diede a Pelope, domatore di cavalli,
e Pelope ad Atreo, signore di eserciti;
alla sua morte Atreo lo lasciò a Tieste ricco di greggi,
e Tieste lo lasciò ad Agamennone, perché portandolo
regnasse su molte isole e sull’intera terra di Argo.

Il gesto di impugnare lo scettro di Pelope promuove Agamennone a signore del


Peloponneso e, per conseguenza, di tutta la Grecia [segue infatti il Catalogo delle
Navi, costruito con un criterio geografico-territoriale]. Il primato del re è ribadito ai
vv. 477-483, che immediatamente precedono il Catalogo:

Omero, Iliade II 477-483


In mezzo a loro stava Agamennone,
nella testa e nel volto simile a Zeus signore del fulmine,
simile ad Ares nella figura, a Posidone nel petto.
Come il toro che nella mandria si distingue su tutte le bestie,
così era il figlio di Atreo quel giorno, per volere di Zeus,
tra tutti gli eroi eminente ed eccelso.

La sovranità di Agamennone emerge anche a livello fisico, secondo una


tendenza generale del sentire arcaico, che “legge” il valore di cose e persone nella
capacità di attrarre lo sguardo e suscitare ammirazione. Peraltro, che il re sia
immediatamente riconoscibile, nella massa degli uomini, per la sua eccellenza fisica e
la sua bellezza (è alto, biondo, maestoso, ecc.), è elemento tradizionale, diffuso anche
a livello folklorico. Nell’Iliade torna anche nel III canto (che da questo punto di vista
compone con il II una sorta di dittico): Agamennone, già emerso come leader
militare, è proposto nel III canto come capo spirituale e religioso, come un pontifex
maximus, un sacerdote. La battaglia è sospesa, si compiono i preparativi per il duello
tra Menelao e Paride. Priamo dall’alto delle mura osserva, e chiede a Elena (vv. 166-
170):

Omero, Iliade III 166-170


Vieni a dirmi il nome di quell’uomo imponente,
dimmi chi è quel guerriero acheo così nobile e grande;
altri sono più alti di tutta la testa,
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ma non ne ho mai visto uno così bello,


così maestoso: ha l’aspetto di un re
[βασιλῆι γὰρ ἀνδρὶ ἔοικε = è basileutatos tra tutti].

Priamo, grande re, riconosce la maestà del re avversario. E poi la grandezza di


Agamennone emerge anche nei gesti che compie, quando a lui tocca la gestione del
rituale: lui presiede al sacrificio degli agnelli e pronuncia la solenne preghiera a Zeus.
Nel IX e nel XIX canto emerge l’identità di Agamennone come buon sovrano.
Nel IX è angosciato per la rovina dei suoi e cerca una soluzione; nel consiglio
ristretto dei capi ammette il suo errore, fa pubblica ammenda e tenta una
riconciliazione con Achille. La riconciliazione si compie però di fatto solo nel canto
XIX: l’assemblea è (anche in questo caso) convocata da Achille, che parla per primo,
ma Agamennone poi interviene e si dimostra all’altezza della situazione. Dopo avere
riconosciuto il suo torto, fa portare i doni per Achille nel mezzo degli uomini, perché
tutti li vedano, e giura di avere rispettato Briseide (che viene restituita ad Achille).
C’è anche il sacrificio di un cinghiale, che Agamennone officia con dignità di
sacerdote.
Da questo momento la presenza scenica di Agamennone si affievolisce, a
vantaggio di Achille, che “governa” tutta la sezione finale del poema. Achille è
l’indiscusso protagonista dell’Iliade, che è la sua “tragedia”. Egli è venuto a Troia per
dare un contributo decisivo alla vittoria degli Achei, ma nel segno di una ananke che
prevede la sua morte, come prezzo della gloria. L’episodio della menis sembra poter
rallentare o persino neutralizzare il corso del destino: e infatti nel IX canto, nella
risposta che dà ad Odisseo, Achille spiega di poter ancora scegliere, perché due
possibilità gli si aprono davanti. L’eroe però si illude: in realtà la strada per lui è
segnata. Proprio nel mezzo della battaglia che infuria presso il muro, quando Achille
più clamorosamente viene meno al suo compito e la bilancia degli eventi sembra sul
punto di ribaltarsi, un episodio marca la fine della crisi. Patroclo, su invito di Achille,
corre alla tenda di Nestore, e il vecchio guerriero ritorna al giorno in cui lui e Odisseo
vennero al palazzo di Peleo a Ftia per reclutare il giovane Achille. La scena viene
descritta con grande evidenza: l’arrivo dei due ospiti, mentre Peleo sta facendo un
sacrificio, l’accoglienza (Achille li vede e li fa entrare), il banchetto e poi i discorsi.
Nestore richiama così, evocando le parole dei protagonisti, il momento
dell’investitura eroica di Achille e Patroclo, della loro “vocazione” - per così dire - e
quindi il momento in cui il loro destino è stato scritto. Peleo manda Achille,
raccomandandogli di primeggiare sempre e di distinguersi tra tutti; Menezio manda
Patroclo, affidandogli il ruolo di guida e consigliere del più giovane amico.
Nestore ricorda l’episodio per dare più forza alla sua richiesta di intervento (è
un elemento parenetico): invita Patroclo a tentare ancora una volta di convincere
Achille, perché rientri in battaglia oppure, in subordine, consenta almeno a lui,
Patroclo, di battersi, affiancato dai Mirmidoni e con indosso le armi di Achille. La
scena risulta di capitale importanza, in una duplice prospettiva: sul piano strutturale,
porta alla svolta decisiva; ma è densa anche di suggestione poetica, perché richiama
quella moira cui né Patroclo né Achille possono sottrarsi. Nestore, ricordando il
destino dei due eroi, di fatto lo riavvia. Da questo momento gli eventi precipitano:
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Achille si piega alle preghiere di Patroclo e gli consente di scendere in battaglia,


condannando a morte sia l’amico che se stesso. Patroclo infatti viene ucciso da Ettore
e Achille, a questo punto, non può fare a meno di vendicarlo, uccidendo Ettore: ma
anche la sua fine è segnata. Le tre profezie di Teti (XVIII canto), di Xanto (finale del
XIX canto) e di Ettore morente (XXII canto) fanno chiaramente intendere che per un
mortale - anche di discendenza divina - non c’è modo di sottrarsi all’ananke.
Avviandosi con decisione incontro alla sua sorte, Achille cresce in
autorevolezza. Nella battaglia dei canti XX-XXII è al centro della scena; nel XXIII
canto gestisce, da arbitro e giudice, i giochi in onore di Patroclo; nel XXIV canto
accoglie la supplica di Priamo e consente che anche Ettore abbia una degna sepoltura.
Dunque, semplificando un poco, si può dire che Agamennone acquista rilievo quando
c’è bisogna di un personaggio che riempia lo spazio lasciato libero da Achille (e che
forzi Achille a cedere spazio); quando però Achille si libera dai fumi
dell’irresolutezza e rimuove ogni illusione di rinuncia e di fuga, il ruolo scenico di
Agamennone si attenua sensibilmente.
Nell’Odissea Agamennone (o meglio, la sua ombra) compare nelle due
nekyiai: nel canto XI racconta ad Odisseo come Clitennestra l’ha ucciso, nel XXIV
evoca lo splendido funerale di Achille, in terra troiana. Peraltro, tutta l’Odissea è
costruita sull’opposizione sistematica di Agamennone e Odisseo, e quindi di
Clitennestra e Penelope e di Oreste e Telemaco. Il poeta si compiace di proporre
all’uditorio due triangoli familiari simmetrici: Odisseo, Penelope e Telemaco versus
Agamennone, Clitennestra e Oreste. La polarità Agamennone - Odisseo emerge
molto chiara anche dal confronto di due scene gemelle in cui i due eroi hanno
comportamenti opposti: in Odissea IX 196-201 Odisseo accoglie la preghiera di
Marone, sacerdote di Apollo, e salva la vita a lui e ai suoi familiari; in Iliade I 12-42
Agamennone respinge con durezza le preghiere di Crise.
Ma l’esemplarità dei casi di Agamennone è affermata già nel I canto. Nella
scena iniziale del concilio divino Zeus cita la vicenda di Egisto come l’esempio più
chiaro di colpevole cecità (vv. 32-43):

Omero, Odissea I 32-43


Ah quante colpe fanno i mortali agli dèi!
Da noi dicono essi che vengono i mali, ma invece
pei loro folli delitti contro il dovuto hanno dolori.
Così ora Egisto contro il dovuto si prese la donna
legittima dell’Atride e lui massacrò al suo ritorno,
sapendo l’abisso di morte. Perché noi l’avvertimmo,
mandando Ermes occhio acuto, argheifonte,
che non l’uccidesse, non ne desiderasse la donna:
vendetta verrebbe da Oreste Atride
quando, cresciuto, sentisse la nostalgia della patria.
Così parlò Ermes, ma il cuore d’Egisto
non persuase col savio consiglio; ora tutto ha pagato!
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Più avanti, sempre nel I canto, Atena/Mente ricorda a Telemaco l’exemplum di


Oreste; dopo averlo avvertito che non è più un bambino, ormai, e che potrebbe anche
pensare a come vendicarsi, a come massacrare i pretendenti che gli infestano la casa,
gli dice (vv. 298-302):

Omero, Odissea I 298-302


Non senti che gloria s’è fatta Oreste divino
fra gli uomini tutti, uccidendo l’assassino del padre,
Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise?
Anche tu, caro, poiché bello e aitante ti vedo,
sii forte, che ci sia chi ti lodi anche tra i tardi nipoti.

Questi due passi già “lanciano” il senso che il poeta vuole dare alla vicenda degli
Atridi: un modello e un precedente per Telemaco (che deve imitare Oreste), e per
Odisseo stesso (che deve evitare di imitare Agamennone). Nel contempo, l’implicita
sovrapposizione di Egisto (sordo agli avvertimenti di Ermes), dei compagni di
Odisseo (rovinati dalla loro insensata empietà) e dei pretendenti di Penelope
(ostinatamente risoluti ad appropriarsi di ciò che appartiene ad altri) fa intravedere
come finirà la storia e traccia una linea di moralità nell’interpretazione dei fatti.
La morte di Agamennone viene raccontata nell’Odissea tre volte: da Nestore
nel III canto, da Menelao (che riferisce le parole di Proteo) nel IV, e dall’ombra
stessa di Agamennone nell’XI. Il racconto di Nestore è quello che più rilievo dà
all’amore colpevole di Egisto e Clitennestra: è la cronaca di una love story, con
l’elemento - vagamente romanzesco - del cantore incaricato dal marito della
sorveglianza della moglie. Nestore non racconta invece l’uccisione vera e propria: il
fuoco della narrazione si sposta su Menelao, di cui viene spiegata l’assenza, e quando
il narratore torna a occuparsi di Agamennone, l’uccisione si è già compiuta, e Nestore
si limita a dire che per sette anni Egisto regnò su Micene, opprimendo il popolo.
Nestore è molto “didattico”: narra i fatti per Telemaco, e vuole “pilotare” la reazione
del ragazzo. Quindi, sottolinea la lontananza di Menelao, la volubilità di Clitennestra
(che, pur dotata di buon sentimento, alla fine si lascia sedurre), la splendida azione di
Oreste. Il senso è chiaro: Telemaco non deve stare via da casa troppo a lungo, non
deve fidarsi troppo né di sua madre né dei servi (per quanto devoti), deve tenersi
pronto a intervenire di persona, con l’aiuto di Atena (dal momento che gli dèi, in
questi casi, sono certamente dalla parte dei legittimi eredi). Una vera e propria
parenesi per immagini.
Il racconto di Proteo/Menelao integra, si direbbe, quello di Nestore, perché
aggiunge proprio l’elemento che in quello manca: i particolari tecnici dell’uccisione.
La vicenda viene spogliata di ogni elemento romantico, Clitennestra non viene
neppure nominata: è un fatto d’armi, un agguato sanguinoso e sagace [per certi versi,
ricorda l’episodio di Bellerofonte, che uccide in Licia gli armati mandati contro di lui
dal suocero di Preto]. Si accenna comunque alla vendetta di Oreste: benché ridotto
alle sue dimensioni militari, il racconto è pur sempre destinato alle orecchie di
Telemaco, quindi conserva una dimensione parenetica.
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Il racconto di Agamennone è il più complesso: ci sono tutte le figure della


saga, Egisto, Clitennestra, Cassandra [che manca in tutte le versioni precedenti],
Oreste. L’Atride parla a un amico, a un hetairos che ha condiviso con lui esperienze
forti: vuole svuotare il suo cuore, dire tutta la verità, sfogarsi, e insieme metterlo in
guardia.
La saga degli Atridi, come si sa, è uno dei miti che più spesso ispirarono i
tragediografi. Anche in questo caso, una mediazione importante fu esercitata dalla
citarodia e dalla lirica corale: basta citare l’Orestea di Stesicoro e la Pitica XI di
Pindaro (per Trasideo di Tebe), che furono forse fonti di Eschilo. Se ci limitiamo alle
tragedie che ci sono pervenute per intero, Agamennone compare: nel dramma
omonimo di Eschilo (il primo della trilogia dell’Orestea); nell’Aiace di Sofocle
(nell’ultima parte della tragedia viene in sostegno di Menelao, che vuole impedire la
sepoltura del corpo di Aiace, e si scontra con Teucro: la mediazione di Odisseo porta
a una soluzione); nell’Ecuba e nell’Ifigenia in Aulide di Euripide (nel primo dramma
dà prova di giustizia, perché riconosce ad Ecuba il diritto di vendicarsi di
Polimestore, che pure è un alleato dei Greci; nel secondo Agamennone è un
personaggio complesso e irrisolto, che oscilla tra ruolo pubblico e sentimento privato
e cambia continuamente idea).

Canto IX - Questa è la struttura (secondo l’articolazione che ne dà Hainsworth):


1-88 Agamennone è demoralizzato, e in assemblea propone di abbandonare
l’impresa. Diomede reagisce, dicendo che non fuggirà, anzi è disposto a
rimanere lui solo (con Stenelo) a battersi contro i Troiani. Nestore cerca di
riportare concordia: suggerisce le disposizioni da dare per la notte e invita
Agamennone a convocare una nuova riunione (ristretta) nella sua tenda.
89-181 I capi si riuniscono nella tenda di Agamennone. Dopo la cena, Nestore
prende la parola, ricorda l’episodio di Briseide, che ha scatenato la reazione
di Achille, e suggerisce di cercare un riavvicinamento. Agamennone si dice
d’accordo: ammette di avere sbagliato, ma è pronto a rimediare, ed elenca i
doni che intende offrire ad Achille. Nestore approva e suggerisce di
mandare una delegazione, composta da Fenice, Aiace e Odisseo; propone
poi una libagione solenne a Zeus, perché coroni col successo l’impresa.
182-225 La delegazione raggiunge la tenda di Achille: scena di accoglienza.
226-306 Discorso di Odisseo.
307-429 Replica di Achille.
430-605 Discorso di Fenice, che per indurre Achille a un atteggiamento più
arrendevole gli racconta il caso di Meleagro (che si ritirò dalla battaglia e
respinse tutte le offerte degli Etòli, finché la sua casa stessa fu minacciata.
Allora cedette alle suppliche di sua moglie Cleopatra e riprese le armi, ma
senza più ricevere alcuna ricompensa).
606-619 Achille risponde con un certo fastidio, ma dimostra affetto a fenice e lo
invita a restare per la notte, dicendogli che l’indomani potrà decidere se
partire con loro o rimanere a Troia.
620-668 Achille invita Patroclo a far preparare il letto di Fenice. Aiace capisce che
per Achille la conversazione è finita, ma fa un estremo tentativo: gli ricorda
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i suoi doveri verso i compagni d’arme, che tanto lo onorano. Achille è


colpito, ma non cede. Odisseo e Aiace si congedano, Achille e i suoi si
preparano per la notte.
669-713 Odisseo e Aiace arrivano alla tenda di Agamennone e riferiscono l’esito
negativo dell’ambasceria. Costernazione di tutti; risoluto intervento di
Diomede, che invita i compagni a pensare alla battaglia dell’indomani. Tutti
tornano nelle loro tende.

Lettura e commento dei vv. 9-28. La scena assembleare è una scena “tipica”; è altresì
un “tema” epico, utilizzato per avviare nuove linee d’azione. Nell’Iliade gli altri
esempi più rilevanti sono le scene dei canti I, II, XIX. Lo schema prevede che uno dei
capi (Achille, Agamennone, Ettore) convochi tutto l’esercito, tramite araldi (ma in I
50 gli araldi non sono nominati) e poi, quando tutti sono seduti, si alzi a parlare,
impugnando lo scettro; possono intervenire altri principi, e la discussione può essere
ampia, ma la truppa non ha diritto di parole; alla fine l’esercito esprime la sua
approvazione, o la sua approvazione si dà per acquisita. Scene assembleari sono
descritte anche nell’Odissea: l’assemblea degli Itacesi (che dà l’avvio ai viaggi di
Telemaco) all’inizio del II canto, quella dei Feaci (che decide il ritorno in patria di
Odisseo) all’inizio dell’VIII.
v. 12. Anche in Il. X 67-69 dà raccomandazioni particolari a Menelao su come
chiamare i capi Achei: affettuosamente, ricordando la discendenza di ciascuno, senza
alcuna boria o tracotanza.
vv. 14-15 Sono identici a Il. XVI 3-4 (Patroclo arriva in lacrime alla tenda di
Achille). Le lacrime non sono in alcun modo disdicevoli per un eroe: nei momenti di
intensa affettività il pianto è normale (basta ricordare le scene del IV canto
dell’Odissea, quando a Sparta tutti piangono, ricordando parenti e amici morti o
scomparsi, o il pianto di Odisseo all’udire i canti di Demodoco, o il pianto straziante
di Achille per la morte di Patroclo, o la scena patetica del XXIV dell’Iliade). In Il.
XVI 7-10 Achille rimprovera Patroclo, paragonandolo a una fanciullina che si stringe
alla gonna della mamma, ma il motivo non è il pianto in sé, bensì il fatto che Patroclo
mostri tanto affetto per persone che Achille ha allontanato dal suo cuore.
vv. 18-28. Sono identici a Il. II 111-118 e 139-141. Gli studiosi si sono chiesti
se non ci sia intento umoristico, da parte del poeta, nel far ripetere ad Agamennone,
questa volta con intenzioni serie e in una circostanza drammatica, quella stessa analisi
che nel II canto alimenta una finzione. Probabilmente non è così: semplicemente, il
poeta riusa lo stesso materiale espressivo perché il “tema” è lo stesso (anche se la
condizione psicologica del personaggio è ben diversa). Agamennone esprime
propositi di fuga (usando espressioni assai simili, seppur non identiche) anche in XIV
65-81, quando viene rimbrottato da Odisseo. Dunque, la corda della rinuncia fa parte
della sua cetra, appartiene al personaggio (e la tragedia coglie benissimo questa sua
debolezza di carattere). Perciò, una nota umoristica può se mai essere presente nella
scena del II canto, quando Agamennone dice per finta cose che molte altre volte ha
detto sul serio.
Lettura e commento dei vv. 29-49. Al v. 29 la reazione di silenzio è espressa da
una formula molto frequente (10 occorrenze nell’Iliade, 6 nell’Odissea).
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vv. 34-35. Diomede si riferisce a Il. IV 370-400, in cui Agamennone dice:


“Ahimè, figlio del saggio Tideo domatore di cavalli, perché hai paura? Perché
adocchi le file con ansia? Certo non usava Tideo tremare così, ma battersi coi nemici
molto avanti ai compagni […] (episodio dell’agguato teso dai Tebani a Tideo, che
uccide tutti i nemici, tranne uno). Questo era l’etòlo Tideo; ma un figlio ha generato
peggiore in battaglia, migliore in consiglio”. Agamennone, dopo il ferimento di
Menelao da parte di Pandaro, passa in rassegna tutti i capi, per incitarli alla battaglia,
e, a seconda dell’atteggiamento in cui li trova, li loda oppure li rimprovera. Non c’è
da stupirsi che, a distanza di molte centinaia di versi, un episodio sia ricordato con
precisione: il poeta epico - come abbiamo avuto già modo di osservare - conosce e
controlla a perfezione il proprio canto.
v. 37. L’idea che un solo mortale non possa assommare in sé tutte le capacità, è
una gnome della sapienza arcaica nota anche all’epica. Il passo di riferimento è Il.
XIII 727-34 [Polidamante parla ad Ettore, suggerendogli di riorganizzare i Troiani,
che hanno superato il vallo difensivo degli Achei, ma sono stati investiti da un furioso
contrattacco]: “Siccome un dio ti ha concesso la bravura in battaglia, tu pretendi,
Ettore, di superare gli altri anche nel consiglio. Ma non puoi prenderti tutto tu solo: a
uno il dio assegna le imprese guerresche, a un altro la danza, a un altro la cetra e il
canto, a un altro Zeus dalla voce tonante pone nel petto un saggio consiglio, che dà
vantaggio e salvezza a molti, e lui stesso ne è consapevole”. Peraltro, ai vv. 53-54
proprio Diomede è elogiato da Nestore, perché al coraggio aggiunge doti di saggezza
e di consiglio.
vv. 48-49. Che una città possa essere presa e saccheggiata da un solo eroe, è
previsto dal mito (basta pensare alla conquista di Troia da parte di Eracle e Telamone,
alla presa di Ecalia per mano di Eracle).
Lettura e commento dei vv. 50-78. L’intervento di Nestore è un capolavoro di
retorica, come sempre. Questo discorso e quello pronunciato nel canto I (vv. 254-84)
per placare i due contendenti sono le più brillanti dimostrazioni della sua capacità
diplomatica. Qui Nestore deve disinnescare i potenziali effetti distruttivi della
provocazione di Diomede: Nestore fa grandi lodi del giovane eroe, lo blandisce
(mescolando al miele qualche rimprovero) e poi lo mette da parte completamente;
ricomincia da capo l’analisi della situazione, partendo da pochi punti essenziali,
ispirati a un solido buon senso quotidiano; infine consegna l’iniziativa ad
Agamennone, di cui sottolinea l’autorità (ma implicitamente richiamandolo a un
maggior senso di responsabilità).
Lettura e commento dei vv. 79- 88. Trasimede è un figlio di Nestore, che viene
nominato anche in altri passi, per lo più in coppia con il fratello Antiloco; Merione è
un principe cretese, compagno fidato di Idomeneo e personaggio di un certo rilievo
nel campo acheo. Gli altri sono invece figure minori.
Lettura e commento dei vv. 89-113. La descrizione della cena è molto rapida,
limitata a pochi versi formulari. Non può mancare, perché la consumazione rituale
del cibo è prevista dal “tema” del concilio; ma una eccessiva insistenza sarebbe
inopportuna, perché produrrebbe un inutile effetto ritardante. La ricerca di una via di
salvezza e il tentativo di placare Achille sono i temi del canto, e sono già stati
ampiamente introdotti dalla scena dell’assemblea generale [una sorta di preludio]: il
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poeta sa che ora non deve indugiare oltre, ma arrivare rapidamente al motivo centrale.
Diversa è la situazione un centinaio di versi più avanti, quando Odisseo, Aiace e
Fenìce si presentano alla tenda di Achille: prima che l’ambasceria si dispieghi, è
giusto che la tensione si stemperi, e vi provvede la lunga e insistita scena
d’accoglienza. Achille sta suonando la cetra e cantando le gesta degli eroi, mentre
Patroclo gli siede accanto in silenzio; l’eroe fa entrare i tre, e dà disposizione per la
preparazione del banchetto. Patroclo porta il cratere del vino e la carne, che Achille e
Automedonte tagliano a pezzi e infilano sugli spiedi. Patroclo accende il fuoco e,
quando la fiamma è consunta, pareggia le braci e vi stende sopra gli spiedi. Quando la
carne è cotta, Achille la distribuisce ai commensali, mentre Patroclo distribuisce il
pane nei canestri. Le offerte agli dèi vengono gettate nel fuoco, e tutti allungano le
mani sul cibo pronto e servito (i vv. 221-22 sono identici ai vv. 91-92). Il banchetto
offerto da Achille ai tre ambasciatori è un esempio di scena “tipica” d’accoglienza.
La sequenza più o meno è congegnata così: l’ospite viene introdotto in casa e fatto
accomodare, gli viene servito cibo e bevanda, e poi - dopo che si è rifocillato - si
comincia a parlare, gli si chiede chi è e perché è venuto. La sequenza è la stessa sia
che si tratti di un estraneo sia che si tratti di persona nota e amica (ma in questo caso,
ovviamente, non gli viene chiesto il nome). Nell’Odissea le scene d’accoglienza sono
molte, sono una sorta di refrain; anzi, si può dire che il tema dell’accoglienza e
dell’ospitalità, con tutte le sue implicazioni, sia il motivo conduttore dell’intero
poema. Nell’Iliade sono meno numerose e sono sempre connesse con conversazioni o
discussioni militari.
v. 97. I commentatori osservano che Nestore usa una formula normalmente
impiegata nella poesia innodica per apostrofare un dio: cf. Inni Omerici I 18 (“noi
aedi ti [cioè Dioniso] cantiamo all’inizio e alla fine”), XXI 4 (“l’aedo canta sempre te
[cioè Apollo] per primo e per ultimo”); Esiodo, Teogonia 34 (le Muse hanno ordinato
a Esiodo di cantare la stirpe degli dèi, ma esse per prime e alla fine, sempre). Si tratta
di una vera formula liturgica, che vuole sottolineare in modo solenne la centralità del
dio di cui si celebra la festa e si cantano le gesta gloriose. In bocca a Nestore, è segno
di squisita cortesia e omaggio. Peraltro, la condiscendenza che Nestore mostra nei
confronti di Agamennone non è gratuita: il re, proprio perché è depositario di un
indiscusso primato, ha il dovere di pensare meglio degli altri [e quindi, quando è
necessario, di sacrificarsi per il bene comune].
vv. 106-107. Il racconto del I canto presenta i fatti in modo diverso: ai vv. 318-
25 Agamennone - dopo che l’assemblea si è sciolta - ordina ai suoi fidi araldi e
scudieri Taltibio e Euribate di andare alla tenda di Achille e chiedere la consegna di
Briseide; aggiunge che, se Achille non vorrà consegnarla, andrà lui in persona, con
gran seguito di uomini, e per Achille la sconfitta sarà ancora più amara. Nei versi
successivi questi ordini vengono eseguiti: i due si incamminano, pur a malincuore,
trovano Achille seduto davanti alla tenda e non hanno il coraggio di parlargli; Achille
però subito capisce il motivo della loro venuta e ordina a Patroclo di andare a
prendere Briseide. La giovane donna segue ἀέκουσα i due araldi, e Achille invoca sua
madre, perché lo aiuti a vendicarsi. Nestore, per rimarcare l’ingiustificata protervia di
Agamennone, parla come se davvero fosse stato lui a strappare materialmente la
donna ad Achille.
10

vv. 112-13. Un atteggiamento conciliante, che si manifesta con l’offerta di doni


e con parole amichevoli, ottiene di solito - nella società omerica fondata sul principio
dello “scambio” - il risultato voluto. I commentatori citano come esempio l’episodio
di Il. XXIII 586-95: Antiloco riconosce di avere danneggiato Menelao nella corsa dei
carri e si dice pronto a cedergli il premio (la cavalla) e ad aggiungere altri doni,
purché l’altro non sia più in collera con lui; Menelao prontamente accetta le scuse, e
rinuncia alla cavalla. Anche in Il. I 582-83 Efesto consiglia a sua madre Era di
rivolgersi a Zeus (che è pieno di rabbia) con dolci parole, certo che questo
atteggiamento conciliante basterà per rabbonire il re degli dèi. Come sappiamo, con
Achille questa tattica non funziona: ma è proprio a questo punto - il rifiuto delle
profferte di pace - che Achille oltrepassa un limite, assumendo un atteggiamento
incomprensibile per i suoi compagni [glielo dice con chiarezza Aiace, nel suo breve
discorso]. Maria Grazia Ciani ha proposto una interpretazione dell’Iliade come
“passaggio adolescenziale”: un Achille ancora immaturo, troppo ragazzo [troppo
compiaciuto di sé, della propria forza, della propria nascita] per accettare le regole
della società guerriera, fa esperienza del dolore e ne trae ammaestramento; dopo la
morte di Patroclo, il ragazzo Achille scompare, per lasciare spazio a un adulto,
pienamente inserito nella comunità degli hetairoi.
Lettura e commento dei vv. 114-134. La risposta di Agamennone si articola in
quattro punti: 1. riconoscimento del proprio errore; 2. elenco dei doni da offrire ad
Achille subito; 3. promessa di onori in futuro; 4. richiesta che Achille, in cambio,
riconosca il primato politico e militare dell’Atride. Nella prima sezione sono
anticipati molti degli elementi che poi ritornano nel discorso di Agamennone durante
l’assemblea del XIX canto, in particolare la teoria dello “accecamento” (si può
osservare che i vv. 119-20 sono praticamente identici a XIX 137-38). Nella scena
della riconciliazione Agamennone spiega che nessun mortale è al riparo dagli assalti
di Ate, una figlia di Zeus che non cammina sulla terra, ma sulla testa degli uomini.
Agamennone, per argomentare le sue affermazioni, cita un exemplum: Zeus stesso,
una volta, ebbe la mente accecata da Ate e commise un errore fatale. Alcmena stava
per partorirgli Eracle, a Tebe; Zeus, pieno di gioia, comunicò agli altri dèi che quel
giorno sulla terra sarebbe nato un bimbo, suo consanguineo, destinato a regnare su
tutti i vicini. Era, gelosissima, concepì subito un inganno e sfidò Zeus a giurare che
davvero così sarebbe stato. Zeus pronunciò la formula solenne del giuramento; allora
Era rapidissima scese sulla terra, raggiunse Argo, dove sapeva che la moglie di
Stenelo figlio di Perseo era al settimo mese di gravidanza: bloccò le doglie di
Alcmena e fece sì che il figlio di Stenelo, benché settimino, nascesse per primo. Così,
in forza del giuramento di Zeus, Euristeo ebbe giurisdizione su Eracle e poté imporgli
una serie infinita di fatiche. Zeus, quando seppe l’accaduto, fu preso da rabbia e
dolore, afferrò Ate che l’aveva accecato e la scagliò giù dal cielo, mandandola tra gli
uomini. E tutte le volte che vedeva Eracle penare per gli ordini crudeli di Euristeo,
ricordava l’errore da lui commesso per colpa di Ate. Questa sorta di apologo è al
centro del I capitolo dell’opera di Dodds I greci e l’irrazionale. Dodds cita Ate come
esempio chiarissimo di oggettivazione di un affetto o di uno stato psichico: in Omero
è normale che una reazione emotiva, un impulso ad agire, uno scatto della personalità
(come lo chiameremmo noi moderni) sia spiegato in base a un “intervento psichico”.
11

Dodds spiega che ciò non implica un determinismo (concetto di per se stesso estraneo
alle categorie percettive arcaiche): semplicemente, la deviazione dalla norma è
“descritta” come esito di una forza esterna (divina) che si introduce nella persona.
Altro esempio è l’episodio dello scambio delle armi nel VI canto dell’Iliade: Glauco
accetta di scambiare armi d’oro con armi di bronzo perché Zeus gli toglie il senno.
Che Zeus tolga il senno o Ate accechi, non è in realtà diverso: sono varianti
“poetiche” di una medesima idea.
vv. 121-30. Questo catalogo di doni dà una chiara idea di che cosa si intenda
per ricchezza nella società omerica. Liste analoghe si trovano - per esempio - in Il.
XXIV 229-34 (12 pepli, 12 mantelli, 12 coperte, 12 drappi di lino, 12 tuniche, 10
talenti d’oro, due tripodi, quattro lebeti, una coppa: il riscatto che Priamo intende
offrire ad Achille per riavere il corpo di Ettore), Od. IV 128-35 (i doni offerti a
Menelao ed Elena dai re di Tebe Egizia: due vasche d’argento, due tripodi, 10 talenti
d’oro, oggetti vari d’oro e d’argento), IX 202-205 (i doni di Maron: 7 talenti d’oro,
un cratere d’argento, oltre a 12 anfore di vino). Rispetto a queste liste, l’offerta di
Agamennone è particolarmente generosa: perché l’Atride vuole che non ci siano
scuse per Achille, in caso di rifiuto, e perché si tratta anche di affermare la sua
sovranità. [Il tripode è un oggetto dalla forte connotazione sacra. Sappiamo che la
dedica di tripodi d’oro era tradizionale nei santuari, in particolare apollinei. Sappiamo
che l’Ismenion di Tebe era famoso per questi preziosi anathemata; ma ciò avveniva
anche anche a Delfi (dove il tripode interviene anche nel rituale mantico)].
Lettura e commento dei vv. 135-161. Tra le figlie di Agamennone non è
menzionata Elettra (che non compare mai in Omero). Ifianassa è, con ogni
probabilità, una variante di Ifigenia; nelle Ciprie, per mettere d’accordo la variante
omerica del nome con quella più diffusa, si parla di quattro figlie di Agamennone
(Ifianassa e Ifigenia sono due persone diverse). Hainsworth pensa che l’onomastica
omerica si rifaccia a una tradizione orientale o ionica, contrapposta ad una
occidentale o continentale (in cui c’è invece Elettra, al posto di Laodice).
vv. 149-56. Le sette città menzionate da Agamennone sono “vicine a Pilo
sabbiosa”, il che sembrerebbe qualificarle come parte del reame di Nestore. Però
nessuna di esse compare nel Catalogo delle navi del II canto tra le città che
compongono la flotta di Nestore, e neppure fanno parte della Laconia di Menealao (il
reame miceneo più vicino, territorialmente). Cfr. Il. II 581-590: nove città della
Laconia (Fari, Sparta, Messe, Brisea, Augea, Amicle, Elo, Laa, Etilo) danno 60 navi,
sotto il comando di Menelao; 591-602 nove città della Messenia/Trifilia (Pilo, Arene,
Trio, Epi, Ciparissunte, Anfigenia, Pteleo, Elo, Dorio) danno 90 navi, sotto il
comando di Nestore. Queste sette città elencate da Agamennone si dispongono,
invece, lungo la costa del golfo Messenico (ad est e a ovest della moderna Kalamata),
in una sorta di zona neutra che divide il regno di Nestore da quello di Menelao. Di
esse, Pherai è menzionata anche in Od. III 488 e XV 186, come tappa nel viaggio di
Telemaco e Pisistrato da Pilo a Sparta e viceversa; ma non si parla della sua
appartenenza politica. Allora, l’espressione di v. 153 nšatai Pύlou ºmaqÒentoj si
deve intendere, probabilmente, nel senso “subito oltre i confini di Pilo sabbiosa”. Ma
perché Agamennone può disporre di città che non fanno parte del suo regno? Sono
possibili varie risposte. Una è che questi versi si riconducano a una versione del mito
12

nella quale il regno di Agamennone era in Laconia. Nella Pitica XI di Pindaro


Agamennone è re di Amicle, ma anche in Omero c’è traccia di questa versione. In
Od. IV 514-17 Proteo - raccontando a Menelao il triste ritorno degli Achei - spiega
che Agamennone, quando era già in vista del Malea, è stato trascinato via da una
tempesta [identica la vicenda di Menelao, nel racconto di Nestore in Od. III 276-300:
giunto al Sunion, l’Atride ha dovuto fermarsi per dare sepoltura al suo timoniere,
perdendo il contatto con Nestore e Diomede; poi, ripreso il mare da solo, al largo del
Malea è stata travolto con la sua flotta da una tempesta che l’ha trascinato lontano].
Si può ipotizzare che sia il passo di Odissea IV sia i nostri versi di Iliade IX siano
stati influenzati dalla tradizione di un Agamennone stanziato in Laconia (che in
Omero è, in linea di massima, perdente rispetto a quella che lo vuole miceneo). [Si
può forse aggiungere Od. III 249-52: Telemaco, stupito di come Menelao abbia
potuto permettere che Agamennone venisse ucciso, immagina che in quel momento il
re di Sparta fosse ancora lontano dalla Grecia. Questa sua supposizione è confermata
subito dopo da Nestore ai vv. 255-61: se Menelao avesse trovato vivo Egisto,
tornando da Troia, l’avrebbe subito punito crudelmente. Anche questo passa lascia
pensare che i due Atridi abitassero a breve distanza]. Oppure - ipotesi condivisa da
Hainsworth - si può pensare che questo catalogo di sette città non sia stato composto
per questa scena, ma esistesse come modello catalogico applicabile in vari contesti, e
sia stato infilato qui senza alcuna preoccupazione di verosimiglianza geografica e
storica. Certo, le ragioni dell’arte spesso passano sopra la geografia, come in Od. IV
174-80 [parla Menelao, che piange l’amico Odisseo]: “E nella terra di Argo gli avrei
dato una città e gli avrei costruito un palazzo, dopo averlo condotto qui da Itaca con
le ricchezze e col figlio e con tutta la sua gente, sgomberando una delle città che sono
abitate qui, sotto il mio governo. E così, stando insieme ogni giorno, avremmo
vissuto sempre concordi, senza mai dividerci, fino a che la nera nube della morte ci
avvolgesse”.

Odissea, XI 385-456 - L’incontro con l’anima di Agamennone avviene nella nekyia.


Su indicazione di Circe, Odisseo va con la sua nave nella terra dei Cimmeri, fa
sacrifici raccogliendo il sangue delle vittime in una fossa. Arrivano allora le anime,
che bevono il sangue e parlano all’eroe. Dopo la breve apparizione di Elpenore, è
Tiresia il primo a parlare; poi è la volta di Anticlea. Segue il cosiddetto “catalogo
delle eroine”, madri e spose di eroi famosi, che incorpora materiale originariamente
estraneo all’epos omerico. I vv. 328-84 compongono una sorta di intermezzo: il
racconto di Odisseo si interrompe, per dare spazio a uno scambio di battute tra l’eroe
e la regina e il re dei Feaci. Odisseo vorrebbe ritirarsi per la notte, per recuperare le
forze in vista del viaggio di ritorno in patria, ma i suoi ospiti lo rassicurano, gli
promettono splendidi doni e lo invitano a proseguire il racconto; Alcinoo in
particolare vuole sapere se tra le anime dei morti vide anche quelle di compagni
caduti nella guerra di Troia. Odisseo parla di Agamennone, di Achille, di Aiace. La
sezione finale della nekyia comprende un breve catalogo di “grandi peccatori”,
condannati nell’Ade a pene eterne (Tizio, Tantalo, Sisifo): lo introduce la figura di
Minosse, tradizionale giudice infero. Il racconto si chiude con l’incontro con Eracle e
poi la fuga di Odisseo alla nave.
13

Lettura e commento dei vv. 385-403. Già si è visto che questa è la terza
versione della morte di Agamennone, dopo quelle di Nestore e Proteo/Menelao. In un
certo senso, è una sintesi delle altre due, perché contiene elementi di entrambe.
L’anima dell’Atride compare insieme a quelle dei compagni, che condivisero la sua
sorte: poi si parla del banchetto offerto da Egisto, che è in realtà una trappola, nella
quale Agamennone trova la morte “come un toro ucciso alla greppia”; e un’immagine
analoga si applica anche ai compagni, scannati come cinghiali di cui si imbandisce la
carne in un’occasione di festa. In IV 529-37 Egisto prepara un banchetto per
Agamennone e per i suoi, ma nasconde nella sala venti armati, che al momento buono
si gettano sopra i commensali e li massacrano. Il verso IV 535 è identico a IX 411:
l’immagine del toro ucciso alla greppia evoca un subitaneo e orrido rovesciamento
dei ruoli, per il quale il cacciatore diventa preda, chi deve nutrirsi finisce per nutrire il
suo nemico. Lo stesso immaginario è ripreso ai vv. 419-20: i commensali giacciono
morti accanto al cratere pieno di vino e alle mense colme di carne; al fumo delle carni
arrostite si sostituisce il fumo del sangue, e non sono gli invitati a bere il rosso vino,
ma il pavimento del megaron a bere il loro sangue.
Con la versione dei fatti data da Nestore il racconto di Agamennone condivide
un altro elemento: la complicità di Clitennestra. Nel passo della nekyia le colpe della
donna sono rimarcate con decisione (e in tono di totale condanna: Agamennone
prova odio furibondo per sua moglie), mentre Nestore è più sfumato; ma in III 265-72
si dice con chiarezza che Clitennestra, dopo un’iniziale resistenza, si lasciò sedurre da
Egisto e lo seguì consenziente (τὴν δ’ ἐθέλων ἐθέλουσαν ἀνήγαγεν ὅνδε δόμονδε).
Novità dell’XI canto è la presenza in scena di Cassandra: né Nestore né
Proteo/Menelao la menzionano.
vv. 401-403. Odisseo attribuisce ad Agamennone un’azione che potrebbe
essere definita piratesca: una razzia simile a quella che Odisseo stesso opera a danno
dei Ciconi nel IX canto. D’altra parte la pirateria non è un’attività disdicevole, nella
società arcaica. Tucidide (I 5) dice che nei tempi antichi i Greci e i barbari abitanti le
regioni costiere e le isole, quando i traffici per mare cominciarono a intensificarsi, si
volsero alla pirateria: piombando all’improvviso sulle città indifese, in quanto non
protette da mura, e sulle popolazioni disperse in villaggi, le saccheggiavano e
traevano da questa attività la maggior parte dei mezzi di sostentamento. Lo storico
aggiunge che la pratica della pirateria non comportava una squalifica sociale, anzi era
motivo di una certa gloria; e a dimostrazione di ciò, nota che “presso gli antichi
poeti” [evidentemente, allude all’epica] dovunque gli eroi approdino, si sentono
rivolgere sempre la stessa domanda , “siete pirati?”, senza che questa interrogazione
appaia offensiva o vergognosa né a chi interroga né a chi è interrogato. Tucidide
osserva anche che alcuni Greci del continente ancora al suo tempo si vantano di
essere pirati valenti (i Locri Ozolii, gli Etoli, gli Acarnani) e continuano a vivere alla
maniera antica. Certo, lo storico esagera un tantino, quando dice che, ogni volta che
un eroe arriva da qualche parte, c’è qualcuno che gli chiede se è un pirata. In realtà,
questa situazione si ripresenta solo tre volte: Od. III 71-74, IX 252-255, Inno ad
Apollo 452-55 (e la domanda, sempre la stessa, è rivolta rispettivamente da Nestore a
Telemaco, da Polifemo a Odisseo, da Apollo ai marinai cretesi). Una delle scene
effigiate sullo scudo di Achille è un’azione di guerra in cui un gruppo di armati tende
14

un agguato a due pastori, presso il guado di un fiume: i soldati uccidono i pastori e


fanno razzia del bestiame, ma poi devono subire il contrattacco dei concittadini delle
vittime (Il. XVIII 514-40).
Lettura e commento dei vv. 404-434. La figura di Cassandra compare in
Omero solo in un numero limitato di passi. In Il. XIII 364-67 si parla di un alleato di
Priamo, Otrioneo, che è venuto a combattere per i Troiani perché vuole in sposa
Cassandra, la più bella delle figlie di Priamo. Otrioneo viene però ucciso da
Idomeneo che, dopo averlo colpito, lo invita per scherno a passare dalla parte achea,
in cambio della più bella tra le figlie di Agamennone. In Il. XXIV 698-706 Cassandra
(“bella come l’aurea Afrodite”) è la prima a vedere, dall’alto delle mura, il carro che
riporta in città Priamo e il corpo di Ettore, e chiama tutti i concittadini, perché
vengano ad accoglierlo. Il racconto di Agamennone è, tra le diverse versioni che
nell’Odissea vengono date della morte dell’Atride, l’unico in cui Cassandra compare.
Cassandra è uccisa da Clitennestra: questo elemento allude, sia pure in modo molto
velato, alla gelosia che la regina prova verso una rivale (Agamennone si è preso
Cassandra come concubina, e dimostra di essere molto legato a lei, perché la porta
con sé al banchetto in suo onore). Clitennestra ne esce con una connotazione
fortemente negativa: lasciva, avida di potere, crudele, sfrontata, la regina è un
precipitato di vizi, un mostro. Agamennone la detesta e la maledice, e maledice in lei
tutte le donne: ma questo giudizio permette il caricamento dell’opposizione tra il
modello negativo e il modello positivo di donna e moglie: a Clitennestra (ed Elena) si
contrappone Penelope. Si completa così il gioco di rimandi tra il palazzo di Micene e
quello di Itaca.
Lettura e commento dei vv. 435-56. La lode di Penelope si collega con i vv.
181-83, in cui Anticlea tesse le lodi di Penelope, fedele al marito e forte nell’animo.
Il tema del figlio è assolutamente centrale nell’Odissea: in particolare le parole con
cui Agamennone si rappresenta quel tenero abbraccio con Oreste che gli è stato
negato, anticipano la scena patetica del riconoscimento tra Odisseo e Telemaco nel
canto XVI; servono anche a introdurre la scena successiva, con Achille, che è in
buona parte giocata sulla lode di Neottolemo, nobile figlio di nobile padre.

Eschilo, Agamennone - Eschilo si rifà direttamente all’episodio odissiaco dell’XI


canto. La figura di Agamennone è sviluppata secondo le linee del racconto della
Nekyia: l’eroe assapora la gioia di un ritorno trionfale, compiacendosi al pensiero di
rivedere Oreste e i familiari, ma è ucciso crudelmente dai due adulteri. La Cassandra
di Eschilo è un personaggio potente (il poeta ne fa il simbolo stesso del destino
tragico), ma è - in fondo - la proiezione dilatata della Cassandra omerica. E la stessa
cosa si può dire di Clitennestra: il personaggio luciferino di Eschilo trae diretto
alimento dalla presentazione orrida che ne dà l’ombra di Agamennone.
Sappiamo che Eschilo attinse per la sua trilogia anche all’Orestea di Stesicoro
(citarodia in due libri, di cui ci sono rimasti pochissimi frammenti): da Stesicoro
trasse alcuni elementi di grande efficacia, come il riconoscimento attraverso il
ricciolo, il sogno angoscioso di Clitennestra, il motivo dell’arco donato a Oreste da
Apollo. Abbiamo però troppo poco del testo di Stesicoro per capire se Eschilo vi
abbia attinto anche per la sua ricostruzione della figura di Agamennone. C’è poi la
15

Pitica XI di Pindaro, composta forse nel 474 (la data alternativa è il 454), il cui
inserto mitico è una rapida narrazione (selettiva, come sempre in Pindaro) della morte
di Agamennone: si è ipotizzato che anche questo carme sia una fonte di Eschilo.
Vediamo i vv. 15-37:

Pindaro, Pitica XI 15-37


Trasideo ha vinto
nei campi opulenti di Pilade,
l’ospite del lacedèmone Oreste.
Mentre gli uccidevano il padre,
di sotto alle forti mani
di Clitemestra la nutrice Arsinoe
lo sottrasse a un inganno funesto,
quando la Dardanide figlia di Priamo,
Cassandra, fu spedita
sotto il colpo del lucido bronzo,
con l’ombra di Agamennone,
lungo la riva ombrosa d’Acheronte,
dalla donna spietata.
Forse la persuase Ifigenia,
sgozzata sull’Euripo, lontano dalla patria,
sì da metterle in moto la pesante mano
piena di rancore?
O sedotta da un altro letto
la travolsero notturni amori?
È per le giovani spose l’errore più odioso,
impossibile occultarlo
a lingue altrui;
i cittadini sparlano.
Ha pari invidia la prosperità;
chi ha il fiato umile rumoreggia nell’ombra.
Morì l’eroe stesso l’Atride,
giunto dopo lungo tempo nella gloriosa Amicle,
e fece perire la vergine indovina
dopo ch’ebbe dissolto dalla loro opulenza,
per causa d’Elena, le case dei Troiani
arsi dal fuoco. Ma il giovane figlio
giunse presso Strofio, ospite vecchio,
che dimorava ai piedi del Parnaso:
egli più tardi con l’aiuto d’Ares
uccise la madre
e stese Egisto nel suo sangue.

Notevole soprattutto la figura di Clitennestra, malvagia certo, ma d’una malvagità


assoluta e misteriosa insieme: è lei che uccide “con le forti mani” il marito, è lei la
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“donna spietata” che con il “lucido bronzo” uccide Cassandra, e solo il provvido
intervento di Arsìnoe sottrae ai suoi colpi il piccolo Oreste.
Pindaro applica a Clitennestra un formulario epico che le dà uno statuto quasi
eroico, certamente uno statuto virile. E i motivi della sua condotta, così violenta e
“nera”, sono incerti, vaghi: Clitennestra è una sorta di angelo sterminatore, di demone
funesto. Tutto ciò è molto eschileo: anche in Eschilo Clitennestra è la “donna non
donna”, la femmina dal cuore virile; dopo la morte del marito, essa spiega che ha
voluto fare vendetta del sacrificio di Ifigenia, e accenna anche con sarcasmo alle
innumerevoli concubine di Agamennone, l’ultima delle quali, Cassandra, ha
giustamente condiviso la sorte dell’amante. Quindi, i comportamenti di Clitennestra
sono ricondotti, anche in Eschilo, alla vendetta e alla gelosia, oltre che all’amore per
Egisto: ma questi sentimenti sono la spiegazione psicologica di un ruolo dai connotati
più profondi e oscuri. Vendetta e gelosia sono la “sovradeterminazione” di potenze
soprannaturali, che presiedono al destino degli Atridi: Clitennestra è l’alastor, il
cattivo genio, di Agamennone.
È anche notevole che in Pindaro la sede di Agamennone sia Amìcle (e Oreste è
detto “Lacedemone”). Pindaro non inventa nulla: la tradizione che vuole
Agamennone re di Sparta (o di un distretto spartano) è antica; ma il poeta la adotta
per ragioni politiche, per assecondare il riavvicinamento a Sparta che Tebe sta
tentando in questi anni. Assolutamente simile (ma di segno opposto) è la decisione di
Eschilo di ambientare la scena ad Argo: dopo la breve stagione successiva alla
vittoria di Platea, l’inimicizia tra Atene e Sparta si va approfondendo, e Atene tenta di
consolidare un’alleanza con la tradizionale rivale di Sparta nel Peloponneso, Argo.
Certo, c’è il problema della datazione: se la Pitica è del 474, può essere fonte di
Eschilo; se viceversa è del 454, è Eschilo fonte di Pindaro.

Schema dell’Agamennone
prologo – la sentinella vede finalmente il segnale di fuoco che annuncia la presa di
Troia)
parodo – lungo canto del Coro, che evoca i fatti d’Aulide, il sacrifico di Ifigenia la
profezia di Calcante
primo episodio – Clitennestra comunica al Corifeo la vittoria degli Achei
primo stasimo – la colpa di Paride è stata punita, poiché sempre gli dèi sono vindici
delle violenze commesse dai mortali
secondo episodio – un Araldo preannuncia l’imminente arrivo di Agamennone
trionfatore; ricorda le asprezze della guerra, ma si dice certo che ormai il peggio è
passato; Clitennestra saluta il messo e rientra nel palazzo, per preparare - dice - una
degna accoglienza allo sposo; il Corifeo chiede notizie di Menelao, e l’Araldo
riferisce della tempesta che si è abbattuta sulla flotta achea, disperdendola e
distruggendo molte navi
secondo stasimo – Elena, insinuandosi nella città di Troia e nella famiglia regnante,
vi ha impiantato la rovina; Dike abbatte sempre l’hybris
terzo episodio – il Corifeo saluta Agamennone; poi prende la parola l’Atride, e gli
risponde Clitennestra; Agamennone accetta di entrare nel palazzo camminando sopra
la porpora
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terzo stasimo – il Coro ha visto il ritorno vittorioso del re, ma il suo cuore è oppresso
da cupi presagi
quarto episodio – profezia di Cassandra
quinto episodio – si sentono le grida di Agamennone, colpito a morte: Clitennestra
esce fuori, con i corpi di Agamennone e Cassandra, e racconta come ha ucciso il
marito; arriva Egisto, e c’è un attimo di tensione tra lui e il Coro

Lettura e commento dei vv. 810-854. vv. 815-17. L’immagine del voto si
connette alla prassi attica: i giudici avevano a disposizione due urne, una per la
condanna e una per l’assoluzione, e deponevano il voto in una delle due, senza dare
visibilità alla loro scelta. Questi versi preludono al giudizio delle Eumenidi, in cui i
giudici dell’Areopago sono chiamati a decidere della colpevolezza o dell’innocenza
di Oreste. Ma si può cogliere anche una suggestione epica; nel XXII dell’Iliade,
mentre Achille ed Ettore stanno per affrontarsi, Zeus pesa su una bilancia le loro
sorti: dunque, la vittoria (o la sconfitta) in un conflitto tra mortali è ricondotta a una
decisione divina.
vv. 830-31. Agamennone si riferisce alla battuta (in anapesti) del Corifeo ai vv.
782-808: il Corifeo si rivolge al suo re con deferenza, ma dice di non volersi
comportare come coloro che fingono di gioire per la vittoria, dopo avere a lungo
dubitato della assennatezza del sovrano. Tutta la prima parte della tragedia è intessuta
di allusioni, di mezze frasi, che fanno riferimento alla situazione difficile, e ambigua,
creatasi ad Argo in assenza del re. La vittoria di Agamennone, annunciata dal segnale
di fuoco proprio all’inizio del dramma, dovrebbe essere il lampo che illumina la
tenebra, ma non è così: il trionfo non spazza via i problemi, al contrario riconsegna il
re ai suoi veri nemici. L’ambiguità è massima (una vera ironia tragica) nelle battute di
Clitennestra, ma balena nelle parole di tutti i personaggi.
vv. 848-50. Le immagini mediche rimandano alla diffusione che la medicina ha
nel V secolo, in tutta la Grecia. Nelle Eumenidi Apollo (vv. 658-61) espone un’ardita
teoria genetica; nel Prometeo uno dei meriti del Titano è la scoperta dell’arte medica.
“Bruciare” e “tagliare” sono le tipiche azioni del medico, nell’immaginario comune:
riassumono il mistero stesso della medicina, che fa il bene del paziente infliggendogli
un male benefico (Gorgia di Platone).
Riassunto dei vv. 855-876; lettura e commento dei vv. 877-913. Nei vv. 910-13
si addensano le ambiguità. La “casa insperata” è il palazzo di Argo (dove
Agamennone più non sperava di fare ritorno), ma è anche la dimora dei morti, dove il
sovrano certo non si aspetta di scendere. L’assicurazione che “quanto è destino che
avvenga, coll’aiuto degli dèi lo disporrà la mia vigile mente”, suona sinistramente
minacciosa per chi conosce il vero stato d’animo della regina: è un esempio
chiarissimo di “ironia tragica”.
Perché Clitennestra vuole che Agamennone calpesti i tessuti di porpora? Per
quanto paradossale possa sembrare, la ragione è religiosa: la regina vuole che suo
marito si macchi di una colpa manifesta (commetta un’hybris), per meritarsi la
punizione divina: quella punizione di cui lei stessa si accinge a farsi strumento. Nella
saga degli Atridi c’è continuamente questa alternanza di ruoli: chi di volta in volta
esercita un’azione di vendetta, ha consapevolezza di interpretare la figura del vindice:
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colpendo il proprio nemico, ne punisce il “peccato”; ma non si rende conto di peccare


a sua volta, e di esporsi quindi ai colpi futuri di un nuovo vindice. Agamennone ha
punito le colpe dei Troiani, ma ha ecceduto, sacrificando sua figlia e permettendo ai
suoi uomini ogni sorta di infamie; è giusta, dunque, la morte che Clitennestra gli
infligge. In questo momento, Clitennestra è il braccio di Dike, e si cala totalmente
nella parte: è dunque importante, per lei, “ritualizzare” la colpa del marito. Ma il
significato della scena dei drappi purpurei è soprattutto simbolico: il cammino
coperto di porpora simboleggia la striscia di sangue che Agamennone ha lasciato
dietro di sé e che ora sta a sua volta per lasciare, e l’ingresso nel palazzo prelude al
suo imminente arrivo nella casa di Hades. E poi, c’è una componente agonale:
Clitennestra impone al marito la sua volontà, lo forza ad assecondare i suoi piani,
evidenziandone la debolezza; la discussione tra i due è dunque anche una
competizione, il cui esito anticipa quello dell’imminente scontro fisico.
Lettura e commento dei vv. 914-957. L’opposizione tra la mollezza dei barbari
e la rude sincerità dei Greci fa parte di quell’opposizione Asia - Europa che prende
corpo negli anni delle guerre persiane (è il periodo in cui vengono “inventati” i
barbari, dentro una ideologica che tende a differenziare ontologicamente i due
popoli). Eschilo diede un contributo decisivo a questa operazione culturale: basta
pensare al sogno della regina Atossa nella scena iniziale dei Persiani. Il principio per
il quale non si può definire felice un uomo prima che sia morto, appartiene alla
sapienza arcaica, e trova la sua più significativa teorizzazione nel logos di Solone e
Creso (Erodoto I 29-33).

Euripide, Ifigenia in Aulide – La tragedia fu messa in scena, con le Baccanti e


l’Alcmeone a Corinto, da Euripide il Giovane (così ci dice lo scolio al v. 67 delle
Rane). Per lo più, si ritiene che il festival fossero le Dionisie del 405; altre ipotesi
sono le Lenee del 405 o le Dionisie del 403 (così Canfora; nel 404 non si tennero
agoni teatrali). L’Ifigenia in Aulide drammatizza un momento della saga degli Atridi,
cioè il sacrificio di Ifigenia, resosi necessario per assicurare una felice navigazione
della flotta achea da Aulide (dove le navi si sono concentrate) a Troia. È quindi uno
dei moltissimi drammi di ispirazione “omerica” (“bocconi del banchetto di Omero”
definiva le sue tragedie Eschilo). La scena è nel campo degli Achei: in seguito a un
oracolo interpretato da Calcante, Agamennone ha mandato a chiamare Clitennestra e
Ifigenia, col pretesto di voler dare la figlia in sposa ad Achille, ma in realtà per
sacrificarla ad Artemide e garantire così la partenza della flotta. Ora Agamennone ha
cambiato idea, e vorrebbe annullare il precedente ordine.
Prologo – Nella forma in cui ci è pervenuto, appare un assemblaggio di
elementi diversi: ha uno schema che non trova riscontro in nessun altro dramma (e
questo è ovviamente motivo di sospetto). I vv. 1-48 sono un dialogo in metro
anapestico tra Agamennone e il Vecchio servitore: il tema è l’angoscia che affligge il
re, il quale ha passato gran parte della notte a scrivere e riscrivere una lettera. Segue
(vv. 49-114) una lunga rhesis in trimetri giambici, nella quale Agamennone racconta
l’antefatto: la nascita di Elena, la competizione tra i pretendenti, il patto imposto da
Tindaro, la scelta di Menelao come sposo, il ratto da parte di Paride, la reazione
furiosa di Menelao, l’adunata in Aulide, la bonaccia, il responso di Calcante, la
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pronta decisione di Agamennone (rifiuto di uccidere la figlia e rinuncia all’impresa),


le insistenze di Menelao e la nuova decisione di Agamennone (chiamata ad Aulide di
Ifigenia e Clitennestra con il pretesto delle nozze della fanciulla con Achille); ora
però – così si conclude la rhesis – il re ha deciso di mandare una seconda lettera alla
moglie, con il contrordine. I vv. 115-163 sono un nuovo dialogo tra Agamennone e il
Vecchio, in metro anapestico: il re affida il messaggio al servo, e lo esorta a far presto
Parodo (vv. 164-302 – Il Coro è composto dalle giovani donne di Calcide che
lasciano la città e vengono alla spiaggia per assistere allo spettacolo della flotta. È la
parodo più lunga di tutta la tragedia attica dopo quella dell’Agamennone. La prima
parte si compone di “quadri” in cui i vari eroi sono descritti in diverse posture e
attività (c’è una forte componente “visiva” e una evidente ripresa dei moduli
dell’epinicio); la seconda parte è una sorta di nuovo “Catalogo delle navi”, con una
chiara coloritura epica; ma nell’attenzione agli emblemi e al loro simbolismo si
coglie una “citazione” dei Sette a Tebe. Il canto, con la sua connotazione narrativo-
catalogica e la tonalità volutamente “ingenua”, tra il festoso e il celebrativo, fa il paio
con il corale dell’Eracle in cui viene dato il catalogo delle fatiche vittoriose dell’eroe
(anche qui con moduli che richiamano il genere epinicio).
I episodio (vv. 303-542) – Il I episodio vede agire i due Atridi. Menelao ha
intercettato il messaggio per Clitennestra (strappandolo al Vecchio) e l’ha letto, e
rimprovera il fratello per il suo scandaloso ripensamento. La discussione tra i due
prende la forma di un agone (schema che Euripide ama e adotta in molte tragedie).
Menelao sostiene che la decisione di fare la guerra è stata di Agamennone, per
ambizione personale; quando poi in Aulide sono sorte difficoltà, per l’assenza di
vento, Agamennone è stato ben felice di accogliere il consiglio di Calcante e ha
mandato a chiamare moglie e figlia, con iniziativa pienamente autonoma.
Agamennone ribatte che la responsabilità è stata tutta di Menelao, deciso a
riprendersi a ogni costo la sua bella (e indegna) moglie; lui si è lasciato irretire, ma
ora ha capito quanto il sacrificio della figlia sia insensato. Un messo entra in scena, a
riferire che Clitennestra, il piccolo Oreste e Ifigenia sono arrivati e che la notizia delle
nozze imminenti si è già diffusa nel campo. Agamennone si abbandona alla
disperazione: immagina la scena straziante della morte della figlia, con Ifigenia che si
rivolge al padre per invocare pietà. Menelao reagisce con un subitaneo cambiamento
di pensiero: ora è lui, mosso a compassione dal dolore del fratello, a chiedere che
Ifigenia venga risparmiata, e che l’esercito venga sciolto. Ma Agamennone a sua
volta cambia di nuovo umore, e spiega che è troppo tardi, che il destino a questo
punto deve fare il suo corso: i soldati non possono essere congedati; ci penserebbe
Odisseo a impedirlo, rivelando il responso di Calcante
I stasimo (vv. 543-589) – Il Coro loda la moderazione in amore, poiché un eros
sfrenato produce rovina, come dimostra la vicenda di Paride e Elena. Soprattutto per
le donne il pudore è virtù sovrana.
II episodio (vv. 590-750) – Il Coro accoglie Clitennestra, arrivata in scena con
Ifigenia e Oreste. Arriva anche Agamennone e il dialogo si fa quasi surreale: Ifigenia
è affettuosissima con il padre, che risponde con frasi smozzicate e imbarazzate;
rimasto solo con la moglie, Agamennone – che non ha il coraggio di rivelarle la
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verità – tenta di persuaderla a tornarsene ad Argo, ma Clitennestra ribatte che è suo


dovere stare accanto alla figlia nel giorno delle nozze.
II stasimo (vv. 751-800) – Il Coro prefigura il prossimo sbarco degli Achei a
Troia, la guerra spietata che sta per cominciare, e la sofferenza che attende le donne
troiane. La colpa di tutto ciò è di Elena.
III episodio (vv. 801-1035) – Il III episodio vede in scena Achille e
Clitennestra. Achille è sorpreso, quando la donna lo saluta come prossimo sposo della
figlia, e Clitennestra capisce che il matrimonio tra Ifigenia e Achille è un’invenzione
di Agamennone, che le sta nascondendo qualcosa. Entra in scena il Vecchio, che
rivela ai due la verità. Quando si rende conto che il suo nome è stato usato per ordire
un inganno, Achille reagisce con fierezza, e assicura alla donna che proteggerà
Ifigenia con tutte le sue forze. I due concertano una linea d’azione: Clitennestra
tenterà di persuadere il marito a non sacrificare la figlia: se non ci riuscirà, Achille
interverrà in seconda battuta, facendo ricorso anche alla forza.
III stasimo (vv. 1036-1097) – Il Coro rievoca le nozze di Peleo e Teti, allietate
dalla presenza di Ganimede e delle Nereidi, e ricorda la profezia pronunciata allora
da Chirone, ossia l’annuncio della futura gloria di Achille. Il destino di Ifigenia
sembra, invece, molto diverso.
IV episodio (vv. 1098-1275) – Clitennestra affronta Agamennone: gli rinfaccia
la storia delle loro nozze (volute a tutti i costi da lui), gli ricorda la sua costante
devozione e sottomissione di sposa, e in cambio di questi meriti lo scongiura di
risparmiare Ifigenia. Gli fa presente che, se mai, dovrebbe essere Menelao a offrire la
vita di sua figlia, visto che le spedizione si fa per lui. Anche la ragazza supplica il
padre, con argomenti molto patetici: è stata lei la prima a chiamarlo padre, tra loro c’è
sempre stato un affetto tenerissimo. Ma Agamennone ormai è irremovibile: il suo
cuore si è indurito, la decisione è presa; l’eroe spiega che la partenza della flotta e il
successo della spedizione hanno una priorità assoluta. Agamennone se ne va.
monodia di Ififenia (vv. 1276-1335) – Ifigenia prorompe in un lungo lamento
struggente, in cui esprime il desiderio che il giudizio di Paride e il ratto di Elena non
fossero mai avvenuti.
V episodio (vv. 1336-1474) – Arriva Achille, che spiega di essere stato
sopraffatto dalla massa degli Achei, sordi alle sue parole in difesa della ragazza.
Achille, spinto da Clitennestra, si dice pronto a battersi comunque, ma a questo punto
interviene, sorprendentemente. Ifigenia. Una mutazione profonda si è prodotta nella
fanciulla: suggestionata dalla gloria che le verrà dall’impresa di Troia (resa possibile
dal suo sacrificio), placa le proteste di Clitennestra, respinge l’intervento di Achille in
sua difesa (la vita di un sol uomo, infatti, vale più di quella di infinite donne), e si
mostra fermamente decisa ad affrontare la morte. Clitennestra tenta disperatamente di
insistere, ma deve arrendersi alla determinazione della figlia, e lascia la scena.
amebeo Ifigenia-Coro (vv. 1475-1530) – Ifigenia intona un canto, cui il Coro
risponde. Non è un threnos, ma un peana di vittoria in onore di Artemide: la ragazza
(come dice Turato) assume lei stessa la regia del cerimoniale del suo sacrificio. Il
Coro saluta Ifigenia che si allontana, levando l’ultima preghiera ad Artemide perché
conceda ad Agamennone e alla flotta achea la vittoria sui Troiani.
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esodo (vv. 1532-1628) – Arriva un messo, che racconta a Clitennestra con


quanto coraggio Ifigenia sia andata incontro alla morte, e come Artemide abbia
sostituito la vittima con una cerva. Il messo conclude che Ifigenia è certamente stata
accolta tra gli dèi, ed esorta Clitennestra a riconciliarsi con Agamennone. Le ultime
battute sono uno scambio di “convenevoli” tra marito e moglie.
Il finale, peraltro, è sospetto, perché il comportamento di Achille e di
Agamennone, nella scena del sacrificio, è molto diverso da quello che ci si
aspetterebbe in base ai loro comportamenti precedenti, e anche la facile
riconciliazione tra Clitennestra e Agamennone è incomprensibile in termini di
coerenza drammaturgica. A queste incongruenze concettuali si aggiungono
irregolarità metriche e la pesante presenza di riusi euripidei. Si ritiene perciò che
l’esodo attuale sia spurio e che nella versione originale il racconto del (mancato)
sacrificio fosse fatto da Artemide stessa, comparsa ex machina.

I temi del dramma (e quindi gli spunti di riflessione e di discussione) sono molti. Uno
certamente è l’approccio, tipicamente euripideo, al mito: il poeta tenta di “leggere
dall’interno” la vicenda, dando spazio di volta in volta agli stati d’animo dei
personaggi. L’eroe, quindi, non è percepito come l’icona di uno o più valori (positivi
o negativi), ma come una “macchina” di sentimenti, pulsioni, desideri: e il mito in cui
l’eroe è calato non è il “prodotto” dell’eroe, ma l’ “ambiente” cui l’eroe reagisce,
dispiegando la sua affettività. Ossia, i personaggi hanno una profondità psicologica e
una storia psicologica, non sono uguali a se stessi: sono contraddittori, mutevoli,
problematici. Lo si vede molto bene nel primo episodio, in cui Agamennone e
Menelao cambiano continuamente parere, sull’onda dei sentimenti. Il mito,
ovviamente, è fisso: Ifigenia deve essere sacrificata, perché la flotta deve partire (e
Troia deve essere distrutta). Ma c’è una sorta di discrasia tra la sequenza degli eventi
(che corrisponde a un copione immutabile, fissato ab aeterno) e l’atteggiamento dei
personaggi. È come se i personaggi facessero di tutto per non reagire come il mito
prevede che reagiscano: la vicenda prende le forme che deve prendere nonostante i
personaggi (e non per volontà dei personaggi).
Il lungo dialogo tra i due Atridi è passibile anche di una lettura “politica”. La
decisione ultima di Agamennone (che è il responsabile supremo dell’esercito) finisce
per corrispondere alle esigenze della collettività, ma non è – in definitiva – l’esito di
una vera assunzione di responsabilità: è piuttosto la sommatoria di una serie di
egoismi, di sotterfugi, di fughe, di compromessi. Vi si può quindi cogliere una sorta
di bocciatura della politica, che non viene presentata come l’arte di individuare e
perseguire il bene comune, ma come una approssimativa frenesia tesa a trarsi
d’impaccio.
Il personaggio di Ifigenia è pure sviluppato secondo modelli teatrali ben
collaudati. È una donna che accetta il sacrificio di sé, per la salvezza di altri: come
Alcesti (che sceglie di morire al posto del marito Admeto), come la Macaria degli
Eraclidi (che offre spontaneamente la sua vita, quando Demofonte spiega che
bisogna sacrificare una vergine alle Due Dee), come Polissena nell’Ecuba (che
avendo saputo di dover essere sacrificata sulla tomba di Achille, accetta eroicamente
la sua sorte, senza neppure tentare di commuovere Odisseo, e poi si comporta con
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incredibile coraggio, nel momento dell’uccisione). Anche l’alternanza di pathos e


riflessività corrisponde a un modulo tipico del teatro di Euripide: è un vero e proprio
schema di comportamento femminile (cfr. V. Di Benedetto, Euripide: teatro e
società). Ifigenia prima si abbandona al sentimento (ed esprime la sua angoscia con
un canto molto mosso), poi ritrova lucidità e analizza la situazione con razionalità e
fermezza; allo stesso modo si comportano Alcesti, Medea, Fedra nell’Ippolito,
Cassandra nelle Troiane.

Euripide, Ifigenia in Aulide 333-403


AGAMENNONE Che parlatore raffinato! Ah, mi disgusta l’eloquenza della gente
abietta.
MENELAO E un animo incostante è qualcosa che ci fa essere ingiusti e infidi verso i
nostri cari. Voglio metterti alla prova, e tu non lasciare che l’ira ti distolga dalla
verità. Io per parte mia non sarò troppo insistente. Bene. Tu ricordi senza dubbio il
tempo in cui sognavi di metterti alla testa dei Danai contro Ilio: in apparenza non ci
tenevi, ma nel tuo intimo non pensavi ad altro. Eri così umile, allora: stringevi la
mano a tutti, la porta della tua casa era aperta a chiunque, e con chiunque ti fermavi a
conversare, perfino con chi ne avrebbe fatto volentieri a meno. Insomma, era come se
col tuo comportamento tu cercassi di comprare dal popolo l’oggetto della tua
ambizione. Poi, una volta conquistato il potere, ecco che muti atteggiamento: ti scordi
degli amici di un tempo e diventi inaccessibile, introvabile. L’uomo che veramente
vale non dovrebbe cambiare carattere quando arriva ai vertici del potere, anzi tanto
più dovrebbe serbare animo costante verso gli amici proprio quando ha l’occasione
essendo al colmo della fortuna, di rendersi utile. Di questo innanzi tutto ti rimprovero
perché in questo soprattutto hai mancato. Andiamo avanti! Quando arrivasti in
Aulide, con tutta l’armata panellenica, eccoti distrutto, sconvolto dal guaio voluto
dagli dèi: l’assenza di vento non permette la partenza; i Danai ti chiedono di
licenziare la flotta, per non restar lì a penare invano. Che sguardo triste avevi!
Com’eri depresso al pensiero di non salpare più alla testa di mille navi e invadere di
armati la pianura di Priamo! E ti appellavi a me: “Che posso fare? Come troverò una
soluzione?” Non ti rassegnavi a perdere il comando, a lasciarti sfuggire lo splendore
della gloria. Così, quando Calcante nel corso di un rito ti annunciò che i Danai
sarebbero salpati se tu avessi immolato tua figlia ad Artemide, tu ne gioisti e lieto
promettesti di sacrificare la ragazza. E di buon grado infatti – non già costretto,
questo non lo dire! – mandi un messaggio a tua moglie perché spedisca qua vostra
figlia, col pretesto di andare sposa ad Achille. Poi fai marcia indietro ed ecco che ti si
coglie a scrivere una nuova lettera, da cui risulta che non vuoi più essere l’assassino
di tua figlia. Benissimo! Bada però che questo cielo è lo stesso che udì la tua
promessa. È la solita storia: ne ho viste tante di persone che prima si impegnano con
entusiasmo per raggiungere una mèta e poi si tirano indietro penosamente, talvolta
per via di qualche idea inconsulta dei concittadini, talvolta per responsabilità propria,
cioè per la propria inettitudine a curare gli interessi dello Stato. Io piango soprattutto
sulla triste sorte dell’Ellade, che ambiva a una magnifica impresa e invece permetterà
ai barbari, a quella gente da nulla, che se la ridano per causa tua e di tua figlia. Che
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mai mi accada di porre qualcuno a capo di una società o di un esercito per ragioni di
nascita! A chi comanda serve l’intelligenza.
CORIFEA È tremendo quando tra fratelli scoppiano discussioni e contrasti.
AGAMENNONE Intendo accusarti, ma nei dovuti modi: con un discorso breve,
misurato, senza alzare il sopracciglio e senza intemperanze, come si deve fare verso
un fratello. Un uomo virtuoso ama il riserbo. Perché, dimmi, spiri collera furente?
Perché hai gli occhi iniettati di sangue? Chi ti fa torto? Che cosa vuoi? Sogni di avere
una sposa onesta? Non te la posso procurare. Quella che avevi, l’hai mal governata.
Dovrei pagare io il prezzo dei tuoi errori, io che non ho mancato? O ti brucia il mio
prestigio? No, tu vuoi tenere tra le braccia la tua seducente consorte, anche a costo di
mettere da parte buon senso e decoro. Eh già, gli esseri meschini amano i bassi
piaceri. Quanto a me, se in precedenza mi ero comportato senza discernimento e poi
mi sono ravveduto, è un segno di follia? Tu piuttosto mi sembri pazzo, tu che avendo
perduto una sposa indegna te la vuoi riprendere, mentre gli dèi ti offrono la felice
opportunità di liberartene. Quando i pretendenti di Elena resero a Tindaro quel
famoso giuramento, l’ambizione delle nozze li aveva resi ciechi. Fu, credo, la
speranza, che è una dea, a indurli alla promessa ben più che tu e il tuo potere. Su,
prendi quegli uomini, muovi alla guerra insieme a loro: sono pronti, tale è la follia
della loro mente. Invece la divinità non è stolta, ma sa riconoscere i giuramenti iniqui,
estorti con la forza. Io non ucciderò i miei figli, mai non sarà che tu ottenga
un’ingiusta felicità col trar vendetta per una moglie spregevole e invece io debba
struggermi in lacrime giorno e notte per aver agito contro ogni legge e senso di
giustiziata danno dei figli che ho generato. Ho detto quel che dovevo dire: in poche
parole, chiare e semplici. Se non vuoi rinsavire, io disporrò le mie cose per il meglio.
CORIFEA Ecco un discorso ben diverso da quello precedente. Sì, sono d’accordo:
non si deve fare il male dei propri figli.

Agamennone entra in scena, chiamato dalle grida del Vecchio, e i due fratelli si
affrontano. Inizia l’agone, un modulo scenico molto caro a Euripide e applicato in
quasi tutte le sue tragedie. Lo schema dell’agone – nella sua configurazione standard
– prevede una coppia di rheseis, pronunciate dai due interlocutori, con commenti
intercalari del Corifeo, una seconda coppia di interventi più brevi (che può anche
mancare) e quindi uno scambio di battute a botta e risposta, di solito con tono
concitato o persino iroso. Per esempio, l’agone dell’Alcesti vede contrapposti Admeto
e Ferete, in occasione dei funerali di Alcesti. Il vecchio dice di volere rendere onore
alla donna che ha salvato la vita di suo figlio, ma Admeto lo attacca duramente, con
un lungo discorso di accusa; Ferete replica, con altrettanta durezza (tra le due rheseis
una coppia di versi pronunciati dal Corifeo); altri due versi del Corifeo, e poi una
feroce sticomitia, al termine della quale Ferete si allontana con parole di oscura
minaccia, e Admeto gli urla dietro insulti.
L’agone dell’Ifigenia è introdotto da una sticomitia, cui seguono le due rheseis.
Il metro è il tetrametro trocaico catalettico. Aristotele nella Poetica spiega che questo
era il verso della tragedia alle sue origini: “All’inizio si usava il tetrametro, poiché la
poesia era satiresca e maggiormente legata alla danza; ma poi, affermandosi lo stile
parlato, la natura stessa trovò il metro più appropriato: infatti il giambo è, tra tutti i
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metri, il più adatto al parlato (e lo prova il fatto che, nel parlare, pronunciamo molti
giambi)”. Euripide usa il tetrametro trocaico soprattutto nelle ultime tragedie,
arcaizzando.
Il discorso di Menelao è sapientemente costruito, secondo i canoni dell’arte
retorica. Abile è già l’introduzione: Menelao si pone come colui che vuole
costringere l’altro ad accettare la verità, e promette che non gli ci vorrà troppo tempo
per spiegare come stanno veramente le cose. Come a dire: “I fatti parlano da sé,
senza bisogno di troppi giri di parole”; e infatti il discorso poi si articola in una
narratio dei fatti che contiene anche l’argumentatio. La prima parte è la cronaca del
comportamento di Agamennone prima della sua elezione a capo dell’esercito: umiltà,
diponibilità con tutti, grandi profferte di amicizia. Un κᾆτ’ introduce il mutamento di
condotta, dopo il conseguimento della carica: spocchia, superbia, anche con i vecchi
amici. Lo stesso schema si ripete nella seconda parte, introdotta da αὖθις (il v. 349
ταῦτα μέν σε πρῶτ’ ἐπῆλθον, ἵνα σε πρῶθ’ ηὗρον κακόν fa da cerniera, chiudendo il
primo racconto): Menalao ricorda lo smarrimento di Agamennone, in Aulide, davanti
al problema rappresentato dalla bonaccia, le sue affannose richieste di aiuto e la sua
gioia dopo il responso di Calcante, che gli apriva di nuovo la strada verso la gloria.
Un secondo κᾆθ’ introduce il nuovo cambiamento di Agamennone, che ha portato
alla situazione attuale. La conclusione è chiara: Agamennone è un uomo inaffidabile,
uno che oggi la pensa in un modo e domani in un altro, cedendo all’impulso del
momento; proprio il contrario di quanto deve fare un vero capo, la cui prima qualità è
una mente ben salda.
Menelao compiange la Grecia, perché farà una pessima figura, costretta a
rinunciare a una grande impresa, e anzi si farà deridere dai barbari, fornirà loro
materia di riso. Qui è applicato il tema, topico nella letteratura greca successiva alle
guerre persiane, della superiorità dei Greci sui barbari e del diritto naturale che i
Greci avrebbero – proprio in virtù della loro superiorità – di dominare e signoreggiare
i barbari. In bocca a Menelao, attento solo al suo interesse, queste parole rivelano
tutta la loro falsità; sono vuota retorica. Euripide ama rifare il verso alla retorica
patriottarda, mostrandone il carattere ideologico e l’inconsistenza concettuale: nel
Ciclope Odisseo cerca di convincere Polifemo a fare buona accoglienza a lui e ai suoi
compagni ricordandogli i loro meriti quali eversori di Troia (hanno impedito così ai
barbari di invadere la Grecia e di distruggere i templi degli dèi); ma l’altro è
insensibile a questi discorsi (ed anzi giudica stupida una guerra combattuta per una
donna).

Euripide, Ciclope 290-296


ODISSEO Vedi, signore: è merito nostro se tuo padre ha conservato i suoi templi in ogni angolo
della Grecia: il sacro porto del Tenaro rimane inviolato, e così anche il golfo profondo di Malea, e
sono salvi lo scoglio argentifero del Sunion, caro ad Atena, e il porto di Geresto. Non abbi9amo
consegnato la Grecia nelle mani dei Frigi, abbiamo scongiurato quest’onta.

Euripide, Ciclope 280-284


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CICLOPE Allora, voi siete quelli che sono andati a Troia, vicino allo Scamandro, per vendicare il
ratto di quella poco di buono di Elena? […] Che guerra ridicola! Navigare fino alla terra dei Frigi
per una sola donna!

Pure il discorso di Agamennone è strutturato con cura, anche se la tonalità


lascia più spazio al patetico e all’emozionale. C’è un esordio, che ribatte a quello
dell’interlocutore: anche Agamennone parlerà brevemente, e anche lui non eccederà
in orpelli. L’argomentazione si sviluppa poi su questi punti: 1) Menelao vuole solo
recuperare sua moglie, non gli importa di nient’altro (ed è una pazzia, visto il tipo di
donna che ha sposato); 2) Agamennone, cambiando idea, ha fatto la cosa giusta; non
è un pazzo, anzi era pazzo prima, quando stava per sacrificare sua figlia per una causa
assurda; 3) il giuramento imposto da Tindaro ai pretendenti di Elena non è più valido,
dal momento che è stata Elena stessa ad andarsene (gli dèi sanno distinguere lo
spergiuro da ciò che spergiuro non è); se gli altri Achei sono tanto pazzi da rimanere
fedeli a un giuramento ormai nullo, facciano pure (e Menelao li guidi a Troia), 4) lui,
Agamennone, non ucciderà sua figlia per una donna indegna e disonorata.

Euripide, Ifigenia in Aulide 1255-1275


AGAMENNONE Io so riconoscere quando ci vuole pietà e quando non occorre, e
amo i miei figli: altrimenti sarei un pazzo. È terribile per me osare questo. Ma
terribile anche non osarlo. Lo devo fare. Guardate quanti guerrieri pronti a salpare, e
quanti capi greci con le loro armi di bronzo che non potranno muovere contro le torri
di Troia se io non ti sacrificherò, come dice l’indovino Calcante: è questo l’unico
modo per distruggere le fondamenta gloriose di Troia. Un desiderio impazza
nell’armata dei Greci: salire sulle navi e andare al più presto nella terra dei barbari e
farli smettere di rapire le spose dei Greci. Uccideranno le mie figlie che sono rimaste
ad Argo, e anche voi e me, se non adempirò il vaticinio della dea. Non sono diventato
il servo di Menelao, figlia, non cedo alla sua volontà, ma alla volontà della Grecia,
alla quale devo immolarti, che io lo voglia o no. È a questo che devo soccombere. La
Grecia deve essere libera per quanto dipende da te, figlia, e per quanto dipende da
me: siamo Greci, e dobbiamo far passare ai barbari la voglia di rapire le nostre spose
con la forza.

Il IV episodio comincia con il tentativo di Agamennone di portare avanti


l’inganno delle nozze, ma Clitennestra lo obbliga a venire allo scoperto. La regina
affronta il marito in uno scontro di logoi (come Achille le ha detto di fare), ma gioca
anche la carta della supplica patetica, facendo uscire dalla tenda Ifigenia e il piccolo
Oreste, che compongono una sorta di quadretto familiare ([e si realizza così proprio
la situazione che Agamennone ha temuto di dover affrontare, appena sentito
l’annuncio del Messo nel I episodio]. Turato osserva che il ricorso alla persuasione
non verbale (ottenuta mediante gesti, posture, immagini) è già teorizzata dai retori del
V secolo; il teatro vi ricorre largamente, in scene come l’incipit dell’Edipo re, con la
supplica collettiva della popolazione di Tebe davanti al palazzo di Edipo. Aristofane
ne fa una parodia, per esempio, nella scena degli Acarnesi in cui Diceopoli si fa
prestare da Euripide i panni di Telefo per presentarsi, così addobbato, al Coro e dare
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più forza suasiva alle sue parole. Opportunamente, Turato cita anche Platone,
Apologia di Socrate 34c, dove Socrate si rifiuta di ricorrere a simili trucchi (“pregare
e supplicare i giudici con le lacrime agli occhi, portando con sé anche i figli piccoli e
molti altri parenti e amici, per suscitare la massima compassione”). Plutarco nella
Vita di Nicia oserva che, nell’oratoria politica, Cleone fu il primo a trasformare la
tribuna in palcoscenico, ricorrendo a uno stile oratorio da attore (grida, gestualità
esaperata, frasi a effetto). Nelle Vespe Filocleone spiega che gli imputati sfruttano
ogni mezzuccio per guadagnarsi la simpatia dei giudici: “Se non ci lasciamo
convincere, tirano fuori i bambini, tenendoli per mano, maschi e femmine. E questi
piagnucolano a capo chino, mentre il padre mi prega come se fossi un dio,
pregandomi di assolverlo per amor loro dall’accusa: ‘Se ti commuovi a sentire la
voce di un agnellino, abbi pietà di mio figlio; se il vocino di questa porcellina non ti
lascia indifferente, da’ retta a mia figlia’. E noi allora cominciamo ad allentare la
rabbia” (vv. 568-574). Agamennone (a differenza dei giudici delle Vespe) rimane
freddo davanti al muto spettacolo dei figli, e Clitennestra non può far altro che
affrontarlo con argomentazioni.
La rhesis di Clitennestra si atteggia nelle forme di un atto di accusa nei
confronti del marito. Nella prima parte del discorso Clitennestra ricostruisce la
vicenda delle sue nozze con Agamennone, e mette in luce le colpe di lui: il racconto
delinea il ritratto di un uomo avido, crudele, pavido, l’esatto contrario di quel capo
coraggioso e responsabile che Agamennone pretende di essere. Per contrasto, emerge
la condotta irreprensibile di Clitennestra, sposa e madre esemplare. La seconda parte
della rhesis investe il futuro, le conseguenze del sacrificio di Ifigenia: che cosa
accadrà, si chiede Clitennestra, se Agamennone insisterà nel suo proposito insensato?
Dopo una nuova, rapida concessione al patetico (l’immagine della stanza di Ifigenia
desolatamente vuota), Clitennestra non esita a giocare la carta della minaccia: al suo
ritorno in patria, alla fine della guerra, l’eroe non troverà una buona accoglienza; i
suoi familiari non potranno certo mostrargli affetto. Il suo ritorno anzi sarà tanto
funesto quanto vergognosa sarà stata la partenza (v. 1187): una frase densa di
sottintesi, fortemente caricata di ironia tragica. La perorazione finale torna
sull’insensatezza del sacrificio di Ifigenia: perché scegliere proprio lei, si chiede
Clitennestra, e non affidarsi invece a un sorteggio, o meglio ancora costringere
Menelao a sacrificare sua figlia, visto che la spedizione è stata voluta da lui.
Le fonti arcaiche e classiche non fanno nessuna menzione di un primo
matrimonio di Clitennestra con Tantalo. Ne parla invece Apollodoro, Epitome 2.15
“Agamennone regnò su Micene e sposò la figlia di Tindaro Clitennestra, dopo avere
ucciso il suo precedente marito Tantalo, figlio di Tieste, insieme al loro bambino”.
Anche Pausania ne parla, e ricorda che le ossa di questo Tantalo erano conservate in
una grande urna di bronzo ad Argo. Euripide adotta questa versione della saga perché
gli permette di presentare le nozze di Agamennone e Clitennestra come una relazione
“malata” fin dalla sua origine: morte e crudeltà ne sono il marchio fandativo.
Clitennestra presenta se stessa come modello di “buona moglie”, casta nella
condotta personale e savia nell’amministrazione della casa. Un passo parallelo è
Troiane 647-656, dove Andromaca dice che proprio la sua fama di buona moglie l’ha
rovinata e illustra quale è sempre stata la sua regola di condotta: evitare di uscire e di
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esporsi alle chiacchiere della gente, non dare retta ai discorsi frivoli delle altre donne
ma lasciarsi guidare dal proprio buon senso, parlare poco, mostrare al marito un volto
sereno, non pretendere di avere la meglio su di lui, se non nella sfera domestica.
Dopo la rhesis di Clitennestra, ci si aspetterebbe la replica di Agamennone,
secondo lo schema tipico dell’agone. Anche la battuta intercalare della Corifea,
rivolta all’eroe, va in questa direzione. Invece, inaspettatamente, prende a parlare
Ifigenia. Si può pensare che ci sia un attimo di silenzio, mentre tutti attendono che
Agamennone replichi, e che la sua mancata risposta – segno, evidentemente, della
poca efficacia degli argomenti sviluppati da Clitennestra – induca la ragazza a
intervenire. Ifigenia capisce che tocca a lei fare l’ultimo tentativo. Il suo discorso è,
almeno a prima vista, molto semplice nell’impianto: l’esordio è una sorta di
recusatio, di deliberata rinuncia all’uso della retorica, la “voce di Orfeo” che Ifigenia
dice di non possedere. In realtà, la rhesis è ben costruita. Dopo un proemio molto
patetico, in cui le lacrime sono presentate come l’unica arma di persuasione del
supplice, vengono sviluppati due punti. Il primo è giocato sull’elemento affettivo, e
consiste in una commossa evocazione dei tenerissimi rapporti sempre intercorsi tra
padre e figlia: le reciproche dichiarazioni d’affetto, le promesse di aiuto scambievole.
Ifigenia rimprovera il padre di avere dimenticato questa loro dimestichezza, che lei –
la figlia primogenita – ricorda invece benissimo. Il secondo punto è una ripresa
dell’argomento già usato da Clitennestra: Ifigenia non c’entra nulla con la vicenda di
Elena e Menelao, non ha senso che ne debba fare proprio lei le spese. La perorazione
si affida di nuovo, come l’incipit, al motivo della supplica muta, della preghiera
condita di lacrime, ossia della comunicazione non verbale: Ifigenia spinge avanti il
piccolo Oreste, perché si unisca a lei nel pianto e offra al padre lo spettacolo dei due
fratelli stretti alle sue ginocchia. La gnome finale è una sorta di grido vitalistico: la
vita è la cosa più preziosa, per ogni essere umano; la morte è il nulla, è qualcosa di
insensato e inaccettabile.
Il discorso di Agamennone è una riposta a Ifigenia (apostrofata in seconda
persona più di una volta) ma anche, in maniera più sfumata, a Clitennestra [cf. γύναι
di v. 1257 e il plurale ὑμᾶς di v. 1268]. L’esordio è una dichiarazione di impotenza:
la situazione è tale da non lasciare possibilità di scelta, né spazio per i sentimenti
personali (che pure sono assai forti, assicura l’eroe). Seguono poi due punti: il primo
è l’evocazione della massa dei soldati, della grande armata greca che è condannata
all’inazione, se il sacrificio suggerito da Calcante non si farà; il secondo è la
constatazione della furia guerresca che si è impadronita dei Greci, pronti a tutto pur di
affrontare in battaglia i barbari e punirli. Negli ultimi versi Agamennone replica
all’argomento portato dal Ifigenia: il sacrificio si deve fare non perché lo vuole
Menelao, o perché è nell’interesse di Menelao, ma perché lo vuole la Grecia; la
guerra non ha come scopo il beneficio personale di Menelao, ma la tutela dei diritti di
tutti Greci. Così stando le cose, Agamennone non può che acconsentire al sacrificio
della figlia: la libertà della Grecia è un valore che supera ogni altra preoccupazione. Il
finale, dunque, riprende l’incipit, con il ritorno del verbo δεῖ (v. 1258 e v. 1271).
Turato nell’introduzione analizza la breve rhesis di Agamennone, l’ultimo
spazio di parola che il dramma concede all’eroe. Agamennone rielabora e sintetizza
le idee e i giudizi già formulati nei precedenti interventi. Dal prologo e dalla rhesis
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dell’agone riprende il tema della follia: nel prologo aveva accusato se stesso di follia,
per avere deciso la morte della figlia (una follia, peraltro, superata grazie a un ritorno
di lucidità) e nell’agone aveva denunciato la follia di Menelao e dei pretendenti di
Elena; qui ribadisce di non essere pazzo, e anzi di saper distinguere con chiarezza il
bene dal male. Nel dialogo con Menelao dopo l’annuncio del Messo aveva constatato
di essere ormai con le spalle al muro, di non poter più tornare indietro, per la
pressione esercitata su di lui dall’esercito e dai capi Achei (pronti a tutto, anche a
saccheggiare la sua terra); qui ripete le stesse parole: i Greci sono in preda a una
delirante “Afrodite di guerra”, e non esiterebbero a uccidere – per ritorsione – non
solo Ifigenia e Clitennestra, ma anche le altre figlie di Agamennone rimaste ad Argo.
Nuovo è invece il tema della guerra di liberazione: la spedizione, nella lettura che ne
dà ora Agamennone, non è intrapresa per il recupero di Elena, ma per liberare la
Grecia dalle incursioni dei barbari. Una lettura ideologica (concettualmente
debolissima) che viene poi ripresa, e ampiamente sviluppata, da Ifigenia dopo la
metanoia. Quindi, la rhesis di Agamennone è una cerniera importante, perché
consente lo snodo finale dell’azione e la guida al suo compimento.
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Universitad Nacional de Salta


Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

percorso 2 - Menelao e Elena dall’Iliade alla tragedia

La presenza di Menelao nell’Iliade è concentrata soprattutto nei canti III-IV, XIII,


XVII, XXIII. Nei canti III e IV è narrato il suo duello con Paride, che dovrebbe porre
fine alla guerra: lo scontro vede prevalere Menelao (Paride viene salvato da Afrodite,
che lo avvolge in una nube e lo sottrae alla battaglia); Era però induce Pandaro a
colpire con una freccia l’Atride, violando la tregua: la freccia, deviata da Atena,
ferisce solo superficialmente Menelao, che vene prontamente medicato da Macàone.
Nel canto XIII, nella mischia che si accende presso le navi, Menelao è protagonista di
una aristìa: affronta Eleno (in un curioso duello che contrappone un guerriero armato
di lancia a un arciere) e lo ferisce alla mano, poi uccide - in uno scontro molto
crudele - Pisandro. Altre prodezze compie Menelao nel canto XVII, tutto dedicato al
racconto della zuffa sopra il corpo di Patroclo: prima uccide Euforbo (il primo
feritore di Patroclo), poi organizza con Aiace la difesa del cadavere; aiutato da Atena
(che gli ispira menos) coglie successi; alla fine dà incarico ad Antiloco di correre alle
navi di Achille, per portare la notizia della morte di Patroclo, e aiutato da Merione si
carica sulle spalle il cadavere e lo porta via, mentre i due Aiaci gli coprono le spalle.
Nei giochi in onore di Patroclo (XXIII canto) partecipa alla corsa dei carri; alla fine,
ha una controversia con Antiloco, che accusa di condotta scorretta, ma poi accetta le
scuse dell’altro e fa la pace con lui. Nell’Odissea Menelao è pure un personaggio di
rilievo. Tutto il IV canto ruota attorno alla sua persona: accoglie Telemaco e
Pisistrato e conversa con loro; riconosce - con l’aiuto di Elena - il figlio di Odisseo, e
ricorda la figura dell’amico; il giorno dopo, parla a lungo con Telemaco, cui racconta
tutto quello che sa sul conto di Odisseo, avendolo appreso da Proteo in Egitto (e
racconta anche il triste destino di Aiace e di Agamennone). Poi la scena si sposta ad
Itaca, e Menelao ricompare solo nel canto XV, quando è narrato il congedo di
Telemaco dai sovrani di Sparta, che gli offrono splendidi doni. In Omero Menelao è
passionale e impulsivo: lo si vede nel canto III, quando la sfida di Paride lo induce a
una reazione furiosa, e anche nel VII canto, quando è l’unico a raccogliere la sfida di
Ettore (e anche la violenza con cui rimprovera Antiloco nel XXIII è coerente con
questa caratterizzazione). Agamennone è molto protettivo nei suoi confronti: nel IV
canto è preso dall’angoscia, quando lo vede ferito, e nel VII interviene con decisione
per impedirgli di affrontare in duello Ettore [nell’Odissea il motivo è rovesciato: se
Menelao fosse stato presente - spiega Nestore - avrebbe certo impedito a Egisto di
uccidere Agamennone].
Nella tragedia Menelao è un personaggio - tutto sommato - minore, almeno in
Eschilo e Sofocle. Compare nella sezione finale dell’Aiace, quando si oppone alla
sepoltura del corpo e ha un violento scontro con Teucro. In Euripide trova maggiore
spazio. Oltre ad essere protagonista dell’Elena, compare nell’Andromaca, nelle
Troiane, nell’Oreste, nell’Ifigenia in Aulide. Nell’Andromaca è una figura abietta e
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malvagia: perseguita Andromaca, appoggiando incondizionatamente le pretese di


Ermione, e la costringe col ricatto a lasciare l’altare dove si è rifugiata; ma poi non è
capace di opporsi al vecchio Peleo, che salva Andromaca. Nelle Troiane è arbitro
nell’agone tra Elena ed Ecuba: una scena molto diversa dagli altri “quadri” dolorosi e
strazianti di cui si compone il dramma. Anche nell’Oreste Menelao è campione di
pavidità: non se la sente, infatti, di proteggere Oreste ed Elettra davanti all’assemblea
degli Argivi, perché si lascia intimidire da Tindaro, padre di Clitennestra; nel finale è
impotente a frenare l’azione di Oreste, che minaccia di uccidere Ermione: solo
l’intervento di Apollo ristabilisce un ordine. Nell’Ifigenia in Aulide è protagonista di
una sorta di “balletto” con Agamennone: i due fratelli cambiano parere
alternatamente, così che non si trovano mai d’accordo sulla linea da seguire.
Elena compare nel III canto dell’Iliade, nella Teichoskopìa e nell’oarismòs con
Paride; nel VI canto, nella scena in cui Ettore entra nelle stanze di Paride, per indurre
il fratello a una condotta più coraggiosa (Elena parla al cognato con affetto, e usa per
sé espressioni fortemente negative, simili a quelle usate nel dialogo con Priamo); nel
XXIV canto, quando è la terza donna (dopo Andromaca ed Ecuba) a intonare il
lamento sul corpo di Ettore. Nell’Odissea compare nel IV e nel XV canto, al fianco di
Menelao: versa il nepente nel vino; ricorda un episodio della guerra di Troia, quando
Odisseo penetrò in città, travestito da mendicante, rivelandosi solo a lei (e Menelao
replica, raccontando l’episodio del cavallo e la parte avuta da Elena in esso); dona a
Telemaco, al momento del commiato, uno splendido peplo, destinato alla sua futura
sposa.
Nella tragedia si parla spesso di Elena; ma essa compare come personaggio,
oltre che nell’Elena, solo nelle Troiane e nell’Oreste.
In Omero la rappresentazione di Elena è oscillante: a volte è l’adultera lasciva
che ha seguito con impudicizia le sue voglie, seguendo lo straniero venuto in casa sua
e rendendosi colpevole della guerra sorta tra Greci e Troiani (κυνῶπις, “faccia di
cagna” si definisce in Il. III 180, e in Il. VI 344 rincara la dose: rivolgendosi a Ettore
dice δᾶερ ἐμεῖο κυνὸς κακομηχάνου ὀκρυοέσσης; analoga è la valutazione che Elena
dà di sé in Od. IV 145-46 ὅτ’ ἐμεῖο κυνώπιδος εἵνεκ’ Ἀχαιοὶ / ἤλθεθ’ ὑπὸ Τροίην,
πόλεμον θρασὺν ὁρμαίνοντες). In altri casi invece Elena è il soggetto passivo di una
violenza subita, ovvero lo strumento di un disegno divino che la trascende. In Il. III
164-65 Priamo le dice: “Non certo tu sei colpevole davanti a me, gli dèi sono
colpevoli, essi mi hanno mosso contro la triste guerra dei Danai”. Ambivalente è
anche il rapporto con Afrodite. La dea può affermare di avere avuto una predilezione
particolare per Elena di “averla amata oltre misura, standole accanto con costante
benevolenza” (Il. III 415); ma ciò non impedisce alla donna di lamentare la sua sorte,
accusando la dea di travolgerla in avventure senza senso (Il. III 401-403 “Ancora più
lontano, tra le città popolose o della Frigia o della Meonia amabile mi spingerai, se
anche laggiù c’è qualcuno a te caro fra gli uomini”). In sostanza, si proietta su Elena
l’ambivalente percezione che i Greci hanno di Afrodite: grande dea possente, che con
infinita maestà governa l’universo, ovvero frivola suscitatrice di passioni.
Il desiderio amoroso che spinge Elena a lasciare la casa e il marito, può essere
interpretato come una forma di pazzia e di obnubilamento, un attacco di Ate: cfr. Od.
IV 261-64 “Piangevo la colpa che Afrodite mi spinse a commettere, quando dalla mia
31

patria mi condusse laggiù, la figlia mia abbandonando e il talamo e l’uomo a nessuno


inferiore per bellezza o per senno”. Anche Alceo si esprime in termini simili, nel fr.
283 Voigt: la dea “sconvolse nel petto il cuore di Elena argiva”, e la donna “resa
folle” (ἐκμάνεισα) seguì l’ospite infido Paride sulla nave, “lasciando la casa e la figlia
e il letto coniugale”; “obbedì in cuore all’amore”, innescando quella serie di eventi
che avrebbero trascinato “molti carri nella polvere e molti eroi nella strage”. Ma
proprio la capacità di assecondare la passione del cuore fa di Elena l’exemplum
positivo di Saffo nel fr. 16 Voigt: la cosa più bella è ciò che si ama, ed è facile
dimostrarlo; infatti la donna più bella tra tutte, Elena, lasciò il migliore dei mariti e
andò per mare a Troia, dimentica della figlia e dei cari genitori (allo stesso modo la
nostalgia di Anaktoria tormenta Saffo, che amerebbe vedere il volto luminoso della
fanciulla assai più che i carri di Lidia impegnati in battaglia). Mentre Alceo propone
l’amore come forza lacerante che travolge la mente e il cuore e fa dimenticare i valori
consolidati, Saffo ritiene che l’amore sia l’elemento fondante dell’assiologia. Elena,
nella letteratura greca, è un’icona che di volta in volta incarna tutte queste idee: è la
figura su cui si proietta il dibattito sulla natura dell’amore, il suo significato e la sua
forza.

Iliade III 121-180. Breve riassunto del canto III:


1-120 I due eserciti si affrontano; Paride si fa avanti e sfida gli Achei, ma quando
Menelao gli si para di fronte, cerca scampo tra i suoi; Ettore lo rampogna, e Paride
allora si dice pronto a combattere con Menelao in un duello che risolva la
controversia tra le due parti. Menelao accetta la proposta; la battaglia è sospesa, ci si
prepara a sancire i patti con sacrifici e giuramenti.
121-244 Elena, su invito di Iri, sale sulle mura per contemplare il duello; Priamo la fa
venire accanto a sé e le chiede di dirgli i nomi dei campioni achei (Teichoskpìa).
245-309 Priamo scende nella pianura per presenziare alla cerimonia; si procede al
sacrificio delle vittime e alla definizione dei patti giurati
310-382 Compiuti i preparativi per il duello, i due campioni si armano e si
affrontano; entrambi falliscono con la lancia; Menelao si avventa con la spada, che
però si spezza: allora prende l’avversario per l’elmo, ma Afrodite libera Paride e lo
trasporta al sicuro, nel suo palazzo in città.
383-447 Afrodite, vincendo le resistenze di Elena, la convince a raggiungere il marito
nel talamo; scambio di battute e scena d’amore (oarismòs).
448-461 Menelao cerca invano il nemico: Agamennone lo proclama vincitore.
Lettura e commento dei vv. 121-138. La scena di Iri che assume l’aspetto di
una cognata e coetanea di Elena per venire a portarle un annuncio, richiama la scena
iniziale del VI canto dell’Odissea, in cui Atena entra nella stanza da letto di Nausicaa
e le si presenta in sogno, sotto le sembianze di una amica, per indurle ad andare a
lavare i panni in riva al fiume, il giorno dopo. Una difficoltà, già colta dagli scoliasti
antichi, è che qui non c’è bisogno, a rigore, di un intervento divino, poiché la notizia
del duello imminente può essere data a Elena anche da un personaggio mortale. E
d’altra parte, di solito Iri si muove su comando di Zeus o di un altro dio; l’unico altro
caso in cui Iri si muove di propria iniziativa è Il. XXIII 198-211, quando va alla casa
di Zefiro (in cui sono riuniti a banchetto tutti i venti) per comunicare il voto di
32

Achille, che ha promesso sacrifici a Zefiro e Borea nel caso in cui essi alimentino il
rogo funebre di Patroclo [ma è una situazione ben diversa, perché Iri porta pur
sempre il messaggio di un altro]. Si deve pensare che il poeta abbia voluto proporre
l’azione di Elena come la risposta a un comando divino: la complessità e l’ambiguità
della figura di Elena fanno sì che il poeta si senta più a suo agio se il personaggio è
“controllato” dall’alto. Anche più avanti, nel III canto, Afrodite interviene per far
agire Elena secondo la sua volontà: l’intervento di Iri serve anche a “caricare” questa
scena.
Iri e Ermes sono i due messaggeri divini, incaricati di portare gli ordini di Zeus.
Nell’Iliade prevale Iri (in II 786-806 assume l’aspetto di Polìte e incita i Troiani alla
battaglia; in VIII 397-425 dalla cima del monte Ida sale all’Olimpo per impedire a
Era e Atena di scendere in campo al fianco degli Achei; in XI 185-210 scende
dall’Ida nella piana di Troia per dare istruzioni a Ettore; ecc.). Nell’Odissea Iri non
viene mai menzionata, e il portaordini di Zeus è Ermes (che peraltro ha già un ruolo
nel XXIV canto dell’Iliade): è lui che nel V canto va da Calipso per portarle l’ordine
di far partire Odisseo [nel X canto compare a Odisseo, per metterlo in condizione di
poter affrontare Circe: ma in questo caso non si fa parola di Zeus come mandante].
Laodice è figlia di Priamo ed Ecuba (dunque sorella germana di Ettore e
Paride): in VI 252 si dice infatti che Ecuba, quando vede Ettore e gli va incontro per
invitarlo a riposare un po’ e a bere una coppa di vino, sta andando a visitare Laodice,
la sua figlia più bella.
vv. 125-26. Che una padrona di casa sia intenta alla tessitura, è circostanza
normale (conforme anche alla realtà del tempo, si deve credere). Questi versi sono
simili a XXII 440-41, in cui Andromaca è seduta al telaio quando le arriva la notizia
della morte di Ettore: i commentatori notano che, mentre Andromaca impreziosisce il
tessuto con elementi decorativi floreali (θρόνα), Elena lo ricama con il racconto della
guerra di Troia: è un esempio di eccezionale coinvolgimento del “narratore” nella
materia del suo racconto. Anche le donne/dee dell’Odissea sono intente alla tessitura
(o alla filatura) quando il racconto le sorprende in casa loro: Calipso (V 61-62) e
Circe (X 221-23) tessono e cantano, Arete sedendo presso il fuoco fila un filo
purpureo (VI 305-6); l’associazione di Penelope con il telaio è ancora più netta.
v. 135. I soldati riposano, appoggiati agli scudi (al v. 114 si dice che si tolgono
le armi e le posano a terra). Kirk osserva che questa postura è senza altri esempi in
Omero, e cita invece - come possibile termine di confronto, se pur parziale - il fr. 2, 2
West di Archiloco. Si può però forse citare Od. XIV 479 “dormivano tranquilli, con
le spalle protette dagli scudi”, che fa parte dell’ainos narrato da Odisseo a Eumeo per
avere un mantello.
Lettura e commento dei vv. 139-160. Al v. 139 ἴμερος è parola molto forte e
connotata: è il desiderio amoroso, nella sua accezione più immediata e concreta. La
divinità che solitamente suscita ἴμερος è Afrodite: cfr. Inno Omerico ad Afrodite, vv.
1-6
La formulazione usata per Iri al v. 139 (suscita dolce desiderio nel cuore di
Elena) è ricorrente, e si ritrova in particolare nelle scene di oarismòs: cfr. per esempio
Inno Omerico ad Afrodite 143 (la dea ispira dolce desiderio ad Anchise). Anche nella
scena della Diòs apàte Zeus dice a Era che mai ha provato desiderio per una donna o
33

per una dea con la stessa intensità con cui ora la desidera (Il. XIV 328). Iri non è un
surrogato di Afrodite, e infatti poi non scatta una scena d’amore: ma l’adozione di un
formulario che è tipico dell’oarismò è un segnale narrativo inequivocabile (almeno,
per un uditorio non del tutto sordo ai toni dell’epica); e infatti la scena d’amore così
“promessa” si dispiega nel finale del canto, quando Elena è costretta da Afrodite a
raggiungere Paride, e questi è preso da un irrefrenabile ἴμερος (il v. 446 è identico a
XIV 328).
vv. 141-44. Nella società omerica le donne, quando si presentano in pubblico,
si coprono il volto con un velo: cfr. Od. I 3323-34 (Penelope, colpita dal canto di
Femio nel megaron, scende dalle sue stanze: “Come tra i pretendenti fu la donna
bellissima, si fermò in piedi accanto a un pilastro del solido tetto, davanti alle guance
tirando i veli lucenti”); XVI 416 (sempre Penelope, prima di rivolgere la parola ad
Antinoo, si tira i veli sul viso). Ed è anche normale che una dama di alto lignaggio,
quando esce di casa o lascia il proprio quartiere, e quindi si espone alla vista degli
uomini, si faccia accompagnare dalle ancelle (due, di solito). Se ne occupa Stephanie
West, nel suo commento al volume I dell’edizione Valla dell’Odissea, a proposito di
I 330-35 (il v. 331 è identico a Il. III 143); altre scende simili sono in Od. XVIII 206-
7 (Penelope scende tra i pretendenti, e appare loro bellissima, tanto che tutti fanno
venire da casa per lei splendidi doni, nella speranza che scelga un nuovo sposo; pochi
versi prima [182-84], Penelope dice a Euriclea “Autònoe piuttosto mandami, e
Ippodamìa: che vengano, e ai fianchi mi stiano giù in sala; sola non andrei certo fra
uomini, me ne vergogno”) e Il. XXII 450 (“Qua, due mi seguano, che veda cosa è
accaduto”: Andromaca ha sentito dei pianti, e vuole capirne la ragione).
I nomi delle due ancelle lasciano perplessi. In Od. I 331 e XVIII 207 (identici a
Il. III 143) le due ancelle non sono nominate (anche se, come si è visto, nella scena
del canto XVIII sono state nominate prima da Penelope stessa). Inoltre Etra e Pitteo
appartengono a una onomastica marcatamente attica: Etra è la madre di Teseo, e
Pitteo è il re di Trezene e il nonno di Teseo. Secondo la tradizione ateniese, quando i
Dioscuri liberarono Elena, che era stata rapita da Teseo, Etra fu portata via e
assegnata come schiava alla giovane principessa (ci sono anche fonti letterarie che
testimoniano questo mito). Teseo però è assolutamente estraneo all’Iliade: quindi il v.
144 è molto probabilmente un’interpolazione successiva, di marca ateniese.
vv. 146-48. La formulazione “quelli intorno a Priamo” indica non solo i
compagni e gli amici di Priamo, ma anche Priamo stesso. Pantoo è il padre di
Euforbo (il feritore di Patroclo) e di Polidamante (che è in varie occasioni saggio
consigliere di Ettore); Timete non è altrimenti menzionato. Lampo, Clitio e Icetàone
sono tre fratelli di Priamo (il quarto è Titono): compaiono tutti nella accurata
descrizione della discendenza di Dardano che Enea illustra ad Achille in XX 215-41.
Antenore è marito di Teanò (sacerdotessa di Atena Iliàs) e padre di valorosi guerrieri:
è lui che ai vv. 203-24 racconta la missione diplomatica di Menelao e Odisseo a
Troia; Ucalegonte (“Colui che non si cura di nulla) è menzionato solo qui.
Lettura e commento dei vv. 161-180. La Teichoskopìa non è un vero e proprio
catalogo, anche se presenta senza dubbio tratti catalogici. D’altra parte, dopo il
Catalogo delle navi del II canto una nuova rivista dei capi Achei (sia pure rapida)
sarebbe fuori luogo. La scena è selettiva, poiché l’attenzione è concentrata su pochi
34

eroi (Agamennone, Odisseo, Aiace: tre guerrieri Priamo nota, e tre risposte gli dà
Elena; è un esempio della triplice reiterazione di un tema, che è frequente nella poesia
antica); inoltre, il poeta sembra soprattutto interessato a sfruttarla per le sue
implicazioni patetiche. Essa propone infatti un cambiamento di prospettiva: non più
la guerra dal punto di vista dei combattenti, quindi in una cifra eroica, ma dal punto
di vista dei non combattenti, di coloro che la subiscono senza prendervi parte
attivamente. Sono tre i momenti del poema in cui il fronte dei non combattenti
irrompe nel racconto: il III canto, che ha al centro la figura di Elena, i suoi sentimenti
verso il suocero Priamo e il nuovo marito Paride, ma anche la sua incapacità di
dimenticare il passato; il VI canto, in cui emerge l’entourage familiare e domestico di
Ettore; il XXIV canto, in cui il campo greco diventa la meta del “pellegrinaggio” di
Priamo, vecchio padre dolente. In questi tre momenti il poeta dà spazio a ciò che c’è
“dietro” la guerra: ne esce un tessuto di infelicità e malinconia (che fa in qualche
modo da schermo al vitalismo convulso dei combattimenti). Nel caso di Elena, la
sofferenza riguarda il suo ruolo difficile nel palazzo, il senso di colpa, la
preoccupazione per la sorte della nuova e della vecchia famiglia (significativo
l’accenno ai fratelli Castore e Polluce).

Odissea IV 219-289. Breve riassunto del canto IV:


1- 75 Telemaco e Pisistrato arrivano al palazzo di Sparta proprio mentre sono in
corso i festeggiamenti per un doppio matrimonio (Ermìone va sposa a Ftia, essendo
stata promessa da tempo a Neottolemo; si sposa anche Megapente, figlio di Menelao
e di una concubina). Scena d’accoglienza: bagno caldo, cibo e bevanda.
76-119 Inizia la conversazione: Menelao ammettere di essere molto ricco, ma
confessa anche la sua infelicità (“senza gioia su tanti beni ora regno”) per la morte del
fratello e di tanti compagni. La menzione di Odisseo commuove Telemaco, e
Menelao intuisce che quel ragazzo è il figlio del suo amico.
120-218 Arriva Elena, che subito riconosce Telemaco: Pisistrato conferma, e spiega
il motivo del viaggio. Menelao pronuncia parole commosse, che suscitano il pianto di
tutti.
219-295 Elena versa il nepente nel vino, e poi ricorda una prodezza di Odisseo a
Troia; Menelao ne racconta un’altra [in questa parte del dialogo marito e moglie
sembrano parlarsi per allusioni]. Telemaco fa notare che è tempo di pensare al riposo.
296-586 Il mattino dopo, Menelao e Telemaco parlano a lungo; il giovane spiega il
motivo della sua venuta, e il re di Sparta gli riferisce le notizie avute da Proteo
nell’isola di Faro: la morte di Aiace e di Agamennone, la situazione di Odisseo,
prigioniero di Calipso.
587-619 Menelao invita Telemaco a rimanere ancora qualche giorno a Sparta, ma
Telemaco spiega che i compagni lo attendono a Pilo; Menelao promette splendidi
doni.
620-767 La scena si sposta a Itaca, dove i pretendenti vengono a sapere del viaggio
di Telemaco, e decidono di tendergli un agguato sulla via del ritorno. Penelope,
informata dall’araldo Medonte, è angosciata, ma Euriclea riesce a tranquillizzarla.
35

768-847 Antinoo parte con una nave e venti uomini, dirigendosi verso l’isoletta di
Asterìs. A Penelope appare in sogno Atena, nell’aspetto di sua sorella Ìftime, e le dice
che Telemaco gode della protezione divina.

Lettura e commento dei vv. 219-234. Che cosa sia il farmaco descritto nei vv.
220-26, è problematico. I commentatori suggeriscono che possa essere l’oppio,
largamente usato in Egitto fin dall’epoca più remota. Peraltro, sappiamo che l’oppio
era prodotto regolarmente in Grecia già in età micenea, e continuò a essere usato
regolarmente nei secoli seguenti. Quindi, se il “nepente” è l’oppio, non si capisce
bene perché il poeta ne parli come di un prodotto esotico, un prodotto tipicamente
egiziano ignoto al di fuori di quel paese. Sembra dunque più probabile che Omero
non abbia in mente nessuna sostanza particolare, ma renda semplicemente omaggio
alla farmacopea egizia, che fa parte di quella sapienza egizia antica e misteriosa di cui
i Greci sentivano profondamente il fascino. Il contatto con l’Egitto è un elemento che
accomuna Menelao e Odisseo: Menelao c’è stato con Elena (lì ha incontrato Proteo,
da lì provengono ricchissimi oggetti d’oro e d’argento donati ai due dai sovrani di
Tebe, da lì viene il “nepente”), Odisseo ricorda di esserci stato, per sette anni, e di
avere raccolto grandi ricchezze, nel “racconto cretese” inventato a beneficio di
Eumeo nel canto XIV. La presenza dell’Egitto nei poemi omerici, osserva Stephanie
West, è un elemento utile alla datazione (approssimata, naturalmente). Tebe è
ricordata come una città di proverbiale ricchezza in Od. IV 126-27 e in Il. IX 381-84:
ciò sembra rimandare all’impressione che si produsse quando la città fu saccheggiata
dagli Assiri nel 663 a.C.
Lettura e commento dei vv. 235-264. Il racconto di Elena è molto interessante,
e densissimo di suggestioni diverse. Anzitutto, è una narrazione intesa a sottolineare
il ruolo della regina, le sue doti di acume, autocontrollo, intelligenza e fermezza.
Elena, che si è dimostrata perfetta padrona del proprio oikos, gestendo sapientemente
il ricevimento in onore degli ospiti, mostra ora come questa attitudine di domina si
proietti anche sulla sua vita precedente, persino nei momenti più difficili della sua
permanenza a Troia. Al centro del suo racconto c’è Odisseo, ma la vera protagonista
è lei stessa, che si rivela un secondo Odisseo, in grado di rivaleggiare con l’eroe sullo
stesso terreno della prontezza di riflessi e della determinazione. Elena, peraltro, non è
mossa da un vacuo desiderio di autocelebrazione; ha come interlocutore privilegiato
Menelao, e le sue parole acquistano un senso compiuto solo all’interno del complesso
rapporto che si è instaurato tra marito e moglie, dopo il ricongiungimento. Elena gli
dice in sostanza - alla presenza di un uditorio composto dai rappresentanti della
nuova generazione, di quei “posteri” cui è demandato il giudizio sulla vicenda troiana
- che lei a Troia ci andò perché Afrodite ve la condusse, accecandola, ma che passato
l’effetto di tale accecamento riacquistò il controllo di sé e collaborò lealmente alla
vittoria dei Greci. In effetti, nel racconto Elena non si limita a non tradire Odisseo,
ma fa molto di più: concerta con lui l’inganno del cavallo, diventa un punto di
riferimento politico e tattico per l’assalto finale.
Il racconto - come i commentatori rilevano - è ricchissimo di fili che lo
connettono alla trama generale del poema. In particolare, Odisseo che si insinua,
travestito, dentro le mura e viene scoperto da una donna, che lo sta lavando e
36

ungendo, è la prefigurazione del finto Cretese introdottosi nel palazzo di Itaca


(riconosciuto da Euriclea, che gli lava le gambe, nel canto XIX).
La situazione delineata ai vv. 252-53 (come osserva S. West) è palesemente
irrealistica. Gli ospiti di norma sono lavati e accuditi da servi (così accade a
Telemaco e Pisistrato quando arrivano a Sparta, in Od. IV 49; anche Odisseo è lavato
dalle ancelle, per ordine di Arete, in Od. VIII 454-55); ma può capitare che, in segno
di particolare considerazione, siano gli stessi padroni di casa a prestare questo
servizio: in Od. III 464-67 Telemaco è lavato e unto da Policaste, la figlia più giovane
di Nestore. Però è inverosimile che una principessa troiana si occupi personalmente
di uno schiavo fuggiasco e malconcio. Ma il fascino di Elena è tale, che ogni sua
parola sembra credibile.
I vv. 260-64 sono il cuore concettuale dell’ainos: vi è concentrato il messaggio
cifrato di Elena al marito. Formalmente, questi versi sono un’ammissione di colpa e
un atto di sottomissione allo sposo: ma Elena fa intendere che, non appena riacquistò
la capacità di intendere e di volere, si dedicò con tutte le forze alla causa dei Greci e
di Menelao.
Lettura e commento dei vv. 265-89. L’episodio del cavallo è una conferma
delle straordinarie doti di Odisseo, campione di coraggio e forza d’animo; dunque,
Menelao sembra porsi in una linea di continuità con sua moglie, e un uditorio poco
attento potrebbe concludere che i due formino ormai una coppia perfettamente
sintonizzata e concorde. In realtà, il racconto contiene una puntualizzazione non priva
di asprezze. Menelao corregge la presentazione che Elena ha dato di sé: all’immagine
di una donna pentita, decisa a tutto pur di riscattarsi agli occhi degli amici di un
tempo, si sovrappone la descrizione di una maliarda adescatrice, inguaribilmente
ambigua. È ben vero che l’azione di Elena è, ancora una volta, ricondotta
all’intervento di un dio (vv. 474-75); e la presenza di Deifobo può essere percepita
come quella di un controllore inflessibile. Ma Deifobo è pur sempre il terzo marito di
Elena, e la sua menzione rende meno credibile ciò che la donna ha detto ai vv. 260-
61, quando ha parlato di pentimento e di resipiscenza. Inoltre, l’insistenza posta da
Elena nel suo tentativo di rovinare i Greci (tre volte fa il giro del cavallo, tastandolo
quasi a trasmettere per via tattile la sua sensualità) e la malizia con cui imita le voci
delle donne greche, non lasciano dubbi sui suoi sentimenti filotroiani, anche nelle
ultime ore della guerra. Elena si rivela, per l’ennesima volta, l’ipostasi di una forza di
fascinazione subdola e intrinsecamente maligna: l’attacco che essa porta, è vinto dalla
virtù eroica di Odisseo e da Atena, che allontana il pericolo.
L’episodio del cavallo è ricordato tre volte, nella prima metà dell’Odissea.
Dopo Menelao, lo narra Demodoco nel banchetto dei Feaci (Odisseo stesso glielo
chiede in VIII 487-95: “Demodoco, io t’onoro al di sopra di tutti i mortali. Certo
Apollo o la Musa, figlia di Zeus, t’istruirono, perché troppo bene cantasti la sorte
degli Achei, quanto subirono e fecero, quanto penarono gli Achei, come se fossi stato
presente o te l’avesse narrato qualcuno. Continua dunque, e lo stratagemma del
cavallo raccontaci, del cavallo di legno, che Epéo fabbricò con Atena, l’insidia che
sull’acropoli portò Odisseo luminoso, riempita d’eroi, che distrussero Ilio”);
raccogliendo l’invito dell’ospite, il cantore racconta l’episodio: la partenza degli
Achei, bruciate le tende, il dubbio dei Troiani che, dopo avere trascinato il cavallo
37

sulla rocca, non sanno se farlo a pezzi con le scuri, precipitarlo giù da una rupe o
conservarlo come anathema agli dèi [il canto di Demodoco non è riportato in forma
diretta, ma solo riassunto per sommi capi]. Di nuovo, poi, lo stratagemma fatale è
raccontato nella nekyia, quando Odisseo tesse le lodi di Neottolemo (XI 523-32
“Quando salimmo dentro il cavallo che Epéo costruì, noi fiore degli Argivi - e tutto
da me dipendeva, aprire il solido agguato e richiuderlo - là gli altri capi e consiglieri
dei Danai s’asciugavan le lacrime, le gambe sotto tremavano a tutti: ma lui, mai per
nulla io lo vidi con gli occhi né sbiancare il colore bellissimo, né sulle guance
asciugar lacrime; anzi molto chiedeva d’uscir dal cavallo, e l’elsa della spada
impugnava, e l’asta greve di bronzo, mali bramava ai Troiani”). L’insistenza nel
ricordare questo episodio è dovuta al desiderio di esaltare la gloria di Odisseo
(massimo artefice della vittoria achea), ma prepara anche e introduce la nuova insidia
che - con modalità analoghe - Odisseo tende ai pretendenti nella sezione finale.
Anche questo è un filo che tiene insieme l’Odissea: Odisseo ptoliporthos non è
diverso dal finto Cretese che siede presso la soglia del palazzo.
Gli scoliasti antichi evidenziano l’assurdità del v. 279, facendo notare che
Elena non poteva avere conosciuto tutte le donne dei capi Achei, e che comunque
l’imitazione così fedele di tante voci diverse è impossibile. Sono critiche vere, in
termini di realismo; ma se consideriamo invece il passo da un punto di vista
letterario, dobbiamo osservare che: 1. se si espunge il v. 279, la malizia di Elena si
attenua grandemente e l’episodio perde molta della sua efficacia; 2. la poesia epica
conosce un esempio di analoga abilità mimetica, ossia il coro delle Deliadi (Inno
Omerico ad Apollo 157-64 “Le fanciulle di Delo […] dopo aver cantato anzitutto
Apollo, e poi Letò e Artemide saettatrice, intonano un canto, celebrando gli uomini e
le donne del passato, e affascinano la massa del pubblico. E sanno imitare le voci di
tutti gli uomini e ogn loro favella: ciascuno crederebbe di essere lui a parlare, tanto
bene si modella il loro canto soave”).

Euripide, Elena - L’Elena, rappresentata nel 412, contiene una totale riscrittura della
vicenda di Elena, per come è narrata (o allusa) in Omero e nei poeti arcaici (Saffo e
Alceo, in particolare). Si è visto che la figura di Elena, per sua natura sfuggente, è
vista dai poeti secondo prospettive diverse: donna dolente, prima vittima della propria
bellezza, strumento passivo di disegni divini, ovvero donna appassionata, che
rivendica la libertà di amare secondo la forza del cuore; o ancora, frivola e languida
ammaliatrice, o maga torbida e sensuale, depositaria di una potenza primordiale e
misteriosa. Il sofista Gorgia ne fa la metafora della forza psicagogica del logos, e
anche Euripide, nelle Troiane (415), accogliendo questa suggestione, presenta
un’Elena bella ed eloquente, ed eloquente in quanto bella (perché sa sostenere i suoi
argomenti con la sapiente esposizione delle sue grazie, e perché l’autostima e la
sicurezza prodotte in lei dalla coscienza della bellezza le ispirano arditezza di parola,
la rendono spregiudicata ed efficace nel sostenere le proprie ragioni). Sul piano della
mitopoiesi, però, queste trattazioni così diverse del personaggio si riconducono, in
sostanza, alla medesima versione dei fatti.
La protagonista dell’Elena è, viceversa, una “nuova Elena”, secondo la
formulazione che ne dà Aristofane nelle Tesmoforiazuse (411): τὴν καινὴν Ἑλένην
38

μιμήσομαι dice il Parente al v. 850. Le fonti di Euripide sono soprattutto due,


Stesicoro ed Erodoto. Di Stesicoro di Imera (vissuto tra il 620 e il 550 a.C. circa) le
fonti ci dicono che trattò il mito di Elena in un carme, seguendo la tradizione ostile
all’eroina e mettendone in evidenza le colpe. Elena però si vendicò del poeta
rendendolo cieco; per placare la sua collera Stesicoro compose allora la Palinodia, in
cui ritrattava completamente le accuse. Secondo la nuova versione del mito adottata
nella Palinodia, non Elena sarebbe andata a Troia, ma un suo fantasma, mentre la
vera Elena sarebbe rimasta fino alla fine della guerra in Egitto presso il re Proteo
(ovvero non si sarebbe mossa da Sparta); così il poeta recuperò l’uso degli occhi. Le
fonti principali per la ricostruzione della Palinodia sono un passo del Fedro di
Platone e un passo dell’Elena di Isocrate. In Platone, Fedro 243 a-b si dice: «[...] Per
quelli che commettono colpe nei confronti dei miti c’è un antico rito espiatorio, che
Omero non conosceva, ma Stesicoro sì. Infatti, quando Stesicoro venne privato della
vista per aver parlato male di Elena, non rimase ignaro della causa come Omero, ma,
devoto alle Muse, capì quale era e compose subito questi versi:

Questo discorso non è veritiero,


tu non salisti sulle ben costruite navi,
né giungesti alla rocca di Troia.

E come ebbe finito di comporre per intero quel carme che si chiama “Palinodia”, gli
tornò immediatamente la vista […]». Queste parole sono pronunciate da Socrate
nell’intermezzo che separa il suo primo dal suo secondo discorso: nel primo ha
tentato di dimostrare - in gara con Lisia - che chi non ama è più utile di chi ama; sul
punto di venirsene via, Socrate è trattenuto dal demone, e si rende conto di avere
offeso Eros, e di dover riparare con un discorso di senso opposto, inteso a esaltare i
doni meravigliosi che l’amore sa elargire. L’esempio di Stesicoro serve appunto a
introdurre la “palinodia” di Socrate.
Molto simile la testimonianza di Isocrate, Elena 64: «Essa (sc. Elena) dimostrò
la sua potenza anche al poeta Stesicoro. Quando, al principio del suo poema, questi
pronunziò parole irriverenti nei suoi riguardi, si levò privo della vista, ma dopo che,
capita la causa della sua disgrazia, ebbe composto la cosiddetta Palinodia, essa lo
restituì allo stato originario».
Naturalmente, questi elementi non sono tali da permetterci una ricostruzione
completa della produzione stesicorea su Elena. Anzi, un papiro pubblicato nel 1962
ha fatto molto discutere, perché parla di due Palinodie composte da Stesicoro: nella
prima il poeta avrebbe preso le distanze dalla versione omerica del mito di Elena,
nella seconda si sarebbe contrapposto a Esiodo. Si è perciò elaborata l’ipotesi che
Stesicoro in un primo carme si fosse attenuto alla versione omerica di un’Elena
infedele e colpevole della guerra; avesse poi (in una prima Palinodia) ritrattato il
mito, adottando questa volta la versione esiodea di un’Elena effettivamente fuggita da
Sparta con Paride, ma poi trattenuta in Egitto da Proteo e rimpiazzata a Troia dal suo
fantasma forgiato da Proteo stesso [la variante accolta da Erodoto, salvo il silenzio
sull’eidolon]; e infine (in una seconda Palinodia) avesse riscritto completamente la
vicenda, per scaricare Elena da ogni colpa, raccontando come la donna non fosse mai
39

fuggita con Paride, ma fosse stata sostituita fin dall’inizio con l’eidolon [la variante
accolta da Euripide].
Il problema resta aperto; come aperta resta l’altra questione, se cioè Stesicoro
avesse offeso Elena in una sua opera più vasta (come l’Orestea o la Distruzione di
Ilio), ovvero in un carme intitolato Elena. Più concordi sono gli studiosi nel ritenere
che, al di là della giustificazione fittizia, la trattazione positiva della storia di Elena
debba spiegarsi in rapporto a un preciso ambiente geografico o politico. Il carme poté
essere composto per un uditorio spartano (Sparta, o colonie di Sparta, dove Elena
godeva di un culto eroico) oppure per un pubblico italo-siceliota (sia a Locri che a
Crotone i Dioscuri ed Elena erano oggetto di culto).
C’è poi Erodoto. Nei capitoli 112-120 del II libro, lo storico ricostruisce la
“vera” storia di Elena, sulla base delle informazioni da lui avute in Egitto. Erodoto
spiega che a Menfi esiste un santuario di Proteo, dentro il quale sorge un tempio detto
di Afrodite Straniera: in realtà, si tratta del tempio di Elena, che lì soggiornò, ospite
di Proteo stesso. I sacerdoti, interrogati dallo storico, gli hanno dato la versione
veritiera della vicenda. Paride, rapita Elena, partì da Sparta per Troia, ma fu spinto
dai venti avversi in Egitto e fu costretto ad approdare alla foce Canopica del Nilo.
Qui i suoi servi si rifiutarono di seguirlo oltre, e si sedettero come supplici nel locale
tempio di Eracle (dotato di diritto di asilo), denunciando l’empio comportamento del
loro signore. Il custode di quel ramo del Nilo, Tonis, dopo un’inchiesta sommaria,
mandò tutti quanti (Paride, Elena, i tesori e i supplici) a Menfi presso il re Proteo,
perché fosse questi a giudicarli e a decidere la loro sorte. Proteo, appurata la verità,
decise di tenere presso di sé Elena e le sue ricchezze, in attesa che il legittimo sposo,
Menelao, venisse a riprenderla, e intimò a Paride di andarsene al più presto. Quando i
Greci di Agamennone arrivarono a Troia per reclamare la restituzione di Elena e dei
tesori, i Troiani spiegarono che né la donna né i beni erano presso di loro, bensì in
Egitto; ma non furono creduti, e la guerra ebbe inizio. Alla fine, poiché neppure dopo
la presa della città Elena ricompariva, Menelao si decise ad andare in Egitto e così
poté recuperare sua moglie.
Dopo avere esposto la versione dei sacerdoti egiziani (basata in parte su
conoscenza diretta dei fatti, in parte su informazioni assunte), Erodoto (cap. 120)
espone il suo personale parere: la versione egizia è credibile, perché se davvero -
come raccontano Omero e i poeti - Elena fosse stata a Troia, i Troiani avrebbero
finito per riconsegnarla ai Greci, che Paride lo volesse o no, pur di far cessare la
guerra e le sofferenze del lungo assedio. Forse - aggiunge Erodoto - i Troiani
avrebbero potuto decidere di opporre resistenza ai Greci nei primi tempi della guerra;
ma poi, vedendo che molti guerrieri, anche di nobilissimo sangue, cadevano ogni
giorno in battaglia, si sarebbero rassegnati a restituire la donna. Cosa che non
poterono, invece, fare, per il semplice fatto che Elena era altrove.
Con una certa perfidia, Erodoto osserva che probabilmente Omero conosceva
la vera versione dei fatti [una prova sarebbe la menzione dei pepli fenici, acquistati da
Paride a Sidone mentre navigava con Elena alla volta di Troia: Il. VI 289-92]; ma non
la adottò, perché non sarebbe stata adatta a sostenere un canto epico.
Stesicoro ed Erodoto sono i due principali testimoni della versione alternativa
della vicenda che ha al centro Elena e il suo adulterio con Paride: dicono
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sostanzialmente le stesse cose, anche se il primo muove da un atteggiamento devoto e


tradizionale, il secondo adotta una prospettiva razionalistica e “illuminista”. Euripide
si rifà a entrambi; ma prima ancora di comporre un’intera tragedia sulla “nuova”
Elena, vi accenna nel finale dell’Elettra (dramma di datazione discussa, ma
sicuramente anteriore al 412). Oreste e Elettra, dopo avere ucciso Egisto e
Clitennestra, sconvolti dal matricidio e assaliti dal rimorso, riflettono sul gesto
compiuto e sulle conseguenze che potrà avere. Oreste si rivolge ad Apollo, che con
oscuri oracoli l’ha indotto a vendicare il padre; Elettra, che ha ordito la trappola per
attirare la madre e ha incitato il fratello durante l’omicidio, pensa al suo futuro e si
chiede quale uomo vorrà sposarla. Mentre i due fratelli esprimono la loro angoscia, il
Coro annuncia l’apparizione sul tetto della casa di due figure che risplendono nella
luce: sono i Dioscuri, comparsi ex machina. I Dioscuri spiegano che Clitennestra è
stata giustamente punita, ma il matricidio è pur sempre una colpa. Oreste dovrà dare
Elettra in moglie a Pilade e sottoporsi al giudizio dell’Areopago, e poi stabilirsi in
Arcadia. Ai vv. 1276-83 i due gemelli divini danno disposizioni sul trattamento da
riservare ai corpi di Clitennestra ed Egisto: “I cittadini di Argo seppelliranno il
cadavere di Egisto. Vostra madre verrà seppellita da Menelao, approdato poco fa a
Nauplia dopo avere conquistato la terra di Troia, e da Elena, che viene dall’Egitto,
dalla casa di Proteo: non è mai andata in Frigia. Zeus mandò a Ilio il fantasma di
Elena per suscitare guerra e strage tra gli uomini”.
Per quanto ne sappiamo, sembra che il tema del fantasma di Elena sia stato
trattato in tragedia dal solo Euripide, almeno nel V secolo. Abbiamo notizia di un
dramma sofocleo La richiesta di Elena, che aveva a tema l’ambasceria di Menelao
appena sbarcato in Troade; mentre nelle Scolte di Ione di Chio era drammatizzato
l’episodio della ricognizione di Odisseo, riconosciuto da Elena: in entrambi i casi,
dunque, momenti riconducibili alla versione omerica e ciclica della saga.
Veniamo all’Elena. Il dramma inizia con un lungo monologo della
protagonista, che informa sulla collocazione della scena - l’Egitto del re Proteo - e
racconta la sua storia: il giudizio delle tre dee, la vittoria assegnata da Paride ad
Afrodite, la venuta di Paride a Sparta. Nei vv. 31-48 è esposta la nuova versione del
mito: Era non ha voluto che Paride si prendesse Elena (come Afrodite gli aveva
promesso), ma ha plasmato una vuota immagine, in tutto simile a Elena, e l’ha
sostituita alla sua vera persona. Così Paride si è portato via l’eidolon, credendo di
avere con sé la donna in carne e ossa. Zeus poi ha scatenato la guerra di Troia, con il
doppio proposito di sfoltire la popolazione della terra [tema già epico: cfr. Cypria, fr.
1 Bernabé] e di dare gloria al più forte dei Greci, Achille; Elena invece è stata
condotta da Ermes in Egitto e affidata a Proteo, il più giusto dei mortali, perché
potesse vivere al sicuro, protetta dalle insidie di potenziali seduttori, in attesa di
riunirsi al marito [Euripide riprende dunque da Erodoto non solo il ruolo politico di
Proteo - re di Menfi - ma anche la sua figura morale]. Elena commenta che queste
decisioni di Zeus hanno avuto per conseguenza la morte di moltissimi uomini, e per
lei la doppia accusa di avere tradito il marito e di essere stata la causa del conflitto.
Conclusa l’esposizione dell’antefatto, l’eroina accenna alla sua difficile
condizione attuale: morto Proteo, il suo protettore, essa è ora esposta alle insidie di
Teoclimeno, figlio del defunto e nuovo sovrano, che vuole costringerla a nuove
41

nozze. Per questo motivo Elena è supplice presso l’altare di Proteo: “Se in Grecia
porto un nome disonorato, vorrei almeno che qui il mio corpo non soffra vergogna”
(vv. 66-67). Risulta così già impostato il tema centrale della tragedia: il conflitto tra
realtà e apparenza, tra verità e illusione, e anzi il dibattito sulla natura stessa della
verità. La nuova Elena, caratterizzata - al contrario dell’Elena “omerica” - da una
castità assoluta e quasi maniacale, è da tutti esecrata, perché il suo onoma non le
corrisponde più, ha assunto una esistenza autonoma e contraddittoria. Nella società
eroica il “nome” (cioè la reputazione) di una persona è la persona stessa: nel caso di
Elena questa identificazione ha assunto consistenza compiuta, ma la conseguenza è
una lacerazione dolorosa. Elena soffre per questa paradossale scissione: ciò che di lei
è falso ha preso corpo materiale e visibilità universale (è dunque “validato”), mentre
ciò che di lei è vero si è come dissolto in una sorta di neutralizzazione spaziale e
temporale. Il cuore del conflitto è il momento in cui Menelao, ritrovata sua moglie, la
respinge perché non vuole rinunciare a quella forma illusoria per la quale tanto si è
battuto (e nella quale ha tanto “investito” in termini affettivi).
La vicenda si mette in moto con l’arrivo di Teucro, che sulle prime maledice
Elena, appunto per la sua somiglianza con l’Elena ch’egli ha conosciuto, ma poi si
rende conto che deve trattarsi di un’altra persona e cambia atteggiamento. Teucro, in
risposta alle domande della sua interlocutrice, dà una serie di informazioni: la guerra
è stata vinta dai Greci e Menelao ha potuto mettere le mani su sua moglie, ma i due
sulla rotta del ritorno sono stati portati via da una tempesta e non sono mai arrivati in
Grecia, né si sa se siano vivi o morti; Leda si è impiccata per la vergogna, i Dioscuri
sono scomparsi (forse morti, o forse assunti in cielo tra gli dèi). Alla fine Teucro se
ne va, ribadendo che la straniera assomiglia come una goccia d’acqua a Elena ma è
completamente diversa d’animo, e augura perciò felicità e fortuna a lei, maledizione e
rovina all’altra.
Il Coro, formato da prigioniere greche, arriva in scena richiamato dai lamenti di
Elena. L’eroina si sfoga, in parte in metro lirico, in parte con una lunga e lucida
rhesis, nella quale ricorda la propria nascita prodigiosa e maledice il privilegio della
bellezza, che tanto dolore le ha causato. Elena espone tutte le disgrazie che l’hanno
colpita e conclude che per lei è meglio morire. Il Coro la invita a non cedere alla
disperazione e le suggerisce di chiedere consiglio a Teònoe, l’indovina sorella di
Teoclimeno: Teònoe saprà dirle se Menelao è vivo.
Elena e il Coro rientrano nel palazzo. Entra Menelao, che pronuncia una sorta
di secondo prologo: dopo essersi presentato, spiega di avere fatto naufragio e di
essersi salvato a stento, con sua moglie e con pochi compagni. Gli altri sono rimasti
in una grotta, lui è venuto in cerca d’aiuto, vestito dei poveri cenci restituiti dalle
onde. Segue la scena quasi comica con la vecchia portinaia: l’Atride subisce un duro
trattamento, e apprende che nel palazzo è ospitata Elena, figlia di Zeus e regina di
Sparta. L’eroe, rimasto solo, riflette con angoscia sul possibile senso di quelle strane
parole. Dalla reggia esce Elena, che da Teònoe è stata rassicurata riguardo a Menelao.
Marito e moglie si riconoscono; o meglio, Elena riconosce lo sposo, ed è presa da un
moto di gioia, mentre Menelao - pur constatando la totale corrispondenza dell’altra
con le ben note fattezze di sua moglie - non si risolve ad accoglierla, ed anzi vorrebbe
andarsene via per tornare dall’eidolon.
42

Lo scioglimento è affidato a un Nunzio (un marinaio di quelli lasciati nella


grotta), che sopraggiunge per avvertire che il fantasma è svanito, non prima di avere
rivelato la verità. Marito e moglie sono finalmente insieme, ma le loro avventure non
sono terminate. Per Elena è ora necessario sottrarsi alla corte sempre più pressante di
Teoclimeno, che la passione accende di odio mortale verso ogni greco. Inizia così la
seconda parte del dramma, più romanzesca e melodrammatica: la tragedia è composta
da due atti, di tonalità molto diversa. I due protagonisti allestiscono un piano di fuga,
al quale anche Teònoe dà un contributo decisivo. Menelao si finge un marinaio
sopravvissuto al naufragio in cui - narra - è morto Menelao. Teoclimeno si illude che
ora Elena, rimasta vedova, possa diventare sua moglie; Elena glielo lascia credere e -
prima delle nozze - ottiene da Teoclimeno una nave sulla quale celebrare il rito
funebre in alto mare. Sulla nave si imbarcano gli altri marinai greci [questa scena,
come quella successiva dello scontro armato, non è rappresentata bensì riferita a
Teoclimeno da un Nunzio], che sopraffanno gli egiziani: Menelao ed Elena fanno
vela per la Grecia; Teoclimeno, nell’impossibilità di fermare i due, vorrebbe
vendicarsi su Teònoe che l’ha tenuto all’oscuro di tutto, ma compaiono ex machina i
Dioscuri che ne frenano la rabbia.
Monologo di Elena (vv. 255-305) - Elena capisce che, comunque considera la
sua condizione, l’unica soluzione è la morte; infatti, è arrivata a un tal punto di
sventura, che la sua bellezza (il suo corpo, cioè) è diventata la sua condanna. La
riflessione su come darsi la morte (qui incongrua) è invece opportuna più avanti, nel
lamento in metro lirico (vv. 353-56: impiccarsi o tagliarsi la gola con la lama).
L’impiccagione è la forma di suicidio che le eroine tragiche privilegiano: lo rileva
Nicole Loraux (Come uccidere tragicamente una donna), che discute la
fenomenologia della morte femminile sulla scena tragica attica: il caso tipico è quello
di Giocasta nell’Edipo Re [Ci sono però eccezioni: per esempio Euridice, la moglie di
Creonte nell’Antigone; ovvero Deianira nelle Trachinie: ai vv. 930-931 Deianira “si
trafigge il fianco con un pugnale a doppio taglio, ficcato tra il fegato e il diaframma”:
è una “morte virile”, per una donna che è il simbolo della femminilità passiva: nel
momento della morte, Deianira ed Eracle si scambiano le parti].
Lettura e commento dei vv. 408-413. Al v. 411 la menzione della chiglia fatta
di pezzi diversi ben incastrati evoca la tecnica antica della costruzione di navi. C’è un
libro di Pietro Janni, Il mare degli antichi, che descrive tutti gli aspetti della marineria
antica, e quindi dà anche una breve storia della carpenteria navale. Semplificando
molto, si può dire che le imbarcazioni greche più antiche (età micenea)
appartenevano alla tipologia della “nave cucita”, cioè tenuta insieme con corde e
gomene; a partire dall’VIII secolo, la tecnica di costruzione delle navi cambia, e si
introduce il modello della nave assemblata con chiodi di legno e incastri.
Menelao ed Elena si salvano dal naufragio aggrappandosi a un pezzo di chiglia,
come fa Odisseo in Od. XII 420-25: “Io ancora andavo su e giù per la nave, finché il
fasciame staccò dalla chiglia un’ondata: nuda se la portava via il flutto; poi gettò
l’albero a urtare contro la chiglia; e dall’albero pendeva ancora la sartia di poppa,
fatta di cuoio di bue; con essa li strinsi insieme, albero e chiglia, e seduto su quelli
erravo in preda a venti funesti”.
43

Lettura e commento dei vv. 414-434. Nelle Tesmoforiazuse Euripide e il


Parente tentano di uscire dal guaio in cui sono capitati, fingendosi Menelao ed Elena:
è una parodia dell’Elena di Euripide (rappresentata l’anno prima), in cui più volte si
fa riferimento agli abiti stracciati dell’Atride, che evidentemente avevano colpito il
pubblico. Ai vv. 909-910 Euripide dice “Del tutto simile a Elena tu mi appari, o
donna”, e il Parente replica “E tu a Menelao - almeno a giudicare dagli stracci”; e più
avanti, al v. 935, quando il tentativo è ormai fallito ed Euripide ha dovuto battere in
ritirata al sopraggiungere del Pritane, una donna commenta “Uno straccione poco fa
quasi me lo portava via”. Il Menelao dell’Elena si aggiunge al già ampio campionario
degli “eroi straccioni” che abitano le tragedie di Euripide e che sono citati da
Diceopoli nella famosa scena degli Acarnesi.
Lettura e commento dei vv. 435-446. La scena tra Menelao e la Vecchia ha
chiaro sapore comico. Nella commedia aristofanesca si può infatti riconoscere un
modulo scenico nel quale un personaggio (di solito il protagonista) bussa alla casa di
qualcuno e si vede comparire davanti un servo/portinaio con il quale imbastisce un
dialogo: di norma, il servo - che riproduce le caratteristiche del padrone, di cui è una
copia in formato ridotto - si mostra aggressivo e poco conciliante, anche se non rifiuta
di fare da mediatore. Gli esempi sono molti: la scena con il servo di Upupa (che è
anch’egli un uccello) nel prologo degli Uccelli; la scena con il servo di Euripide negli
Acarnesi; la scena con il servo di Agatone nelle Tesmoforiazuse; la scena con Ermes
nella Pace.
Lettura e commento dei vv. 446-475. La situazione di Menelao, naufrago e
straniero, è molto simile a quella di Odisseo nella terra dei Ciclopi [in realtà, Odisseo
non è naufrago, ma finge di esserlo, per sottolineare la sua condizione di bisogno e
anche per proteggere la nave e i compagni rimasti presso la nave dalla possibile
aggressione di Polifemo]; nelle prime parole che Odisseo rivolge al Ciclope, l’eroe
esprime l’orgoglio di essere un reduce della spedizione contro Troia e la speranza di
ricevere soccorso e assistenza, in quanto hiketes: Od. IX 259-71 “Noi siamo Achei,
nel tornare da Troia travolti da tutti i venti sul grande abisso del mare; diretti alla
patria, altro viaggio, altri sentieri battemmo: così Zeus volle decidere. Ci vantiamo
guerrieri dell’Atride Agamennone, di cui massima è ora sotto il cielo la fama, tale
città ha distrutto, ha annientato guerrieri innumerevoli. E ora alle tue ginocchia
veniamo supplici”.
Al v. 449 Menelao usa il termine tecnico ἀσύλητον, che è in diretta
connessione con l’istituto della ἀσυλία, l’inviolabilità fisica riconosciuta a chiunque
rientri nella condizione di hiketes: in prima istanza lo straniero, arrivato [questo il
senso etimologico di hiketes] in una terra a lui sconosciuta, e poi chi - sentendosi in
pericolo - si affidi alla protezione garantita dal contatto con il sacro. Sembra
abbastanza evidente l’intenzione di Euripide di “colorare” l’arrivo di Menelao in
Egitto con i toni della scena omerica di Odisseo e Polifemo: la barbarie di
Teoclimeno ne risulta accentuata.
Nella tragedia capita spesso che uno straniero, arrivando in scena, chieda al
Corifeo a chi appartiene il palazzo di cui si vede la facciata nel fondale, e voglia
anche sapere se il signore è in casa o no: cfr. per esempio Sofocle, Edipo Re 924-28
(il messo venuto da Corinto chiede al Corifeo se si trova davanti alla casa di Edipo).
44

Lettura e commento dei vv. 476-504. I commentatori rilevano un certo grado di


ingenuità nella reazione di Menelao, che si mostrebebbe - come spesso il Menelao
della tragedia - poco flessibile mentalmente, poco reattivo alle circostanze. In effetti,
la battuta giustappone due atteggiamenti diversi. Nelle riflessioni, sapienziali o quasi,
sulla vastità del mondo e sulla possibilità di incontrare tante situazioni diverse e
inattese, affiora un’attitudine accomodante che nel teatro è tipica del mediatore, del
personaggio minore il cui compito è attenuare le tensioni. Un esempio abbastanza
chiaro può essere il finale degli Epitrepontes, in cui il servo Onesimo incontra
Smicrine (il padre di Panfile e il nonno del bambino) e per farlo ragionare e indurlo a
non essere intransigente con Carisio, gli sciorina un piccolo decalogo di buonismo,
costruito su principi elementari di cosmopolitismo e filantropia (vv. 729-41: “Al
mondo ci sono all’incirca mille città; in media ognuna ha trentamila abitanti; secondo
te gli dèi danno del bene e del male a tutti questi, uno per uno? Avrebbero davvero
una vita molto faticosa. Tu mi dirai: allora gli dèi non si occupano per niente di noi?
Non è così: hanno dato a ciascuno un custode, che è il nostro carattere. È lui che ci dà
del male se lo usiamo male, e viceversa. Questo è per noi il vero dio, responsabile
della fortuna e della sfortuna. E questo devi propiziarti; per vivere bene, non devi fare
gesti fuori luogo o irragionevoli”). Ma poi Menelao sembra gettarsi alle spalle queste
considerazioni ragionevoli, questa saggezza spicciola, per assumere un atteggiamento
eroico che - a questo punto - risulta abbastanza ridicolo.
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Universitad Nacional de Salta


Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

percorso 3 - Ettore e Andromaca dall’Iliade alla tragedia

La presenza di Ettore nell’Iliade è diffusissima e capillare; è l’eroe di cui più spesso


viene fatto il nome: 455 volte, contro le 367 occorrenze del nome di Achille [peraltro,
bisogna considerare anche un centinaio circa di passi nei quali è usato il patronimico
“Pelide”, nelle sue diverse varianti]. Nell’Odissea, invece, il nome di Ettore non è
mai menzionato, mentre vi sono 16 occorrenze del nome di Achille. Ettore è
presentato formalmente in Il. II 816-17 (“Guidava i Troiani Ettore grande, elmo
abbagliante, figlio di Priamo”), all’inizio del catalogo dei Troiani e degli alleati che
segue il Catalogo della Navi. Nel III canto approva la proposta di Paride di risolvere
la guerra con un duello tra campioni e si adopera perché il duello sia preparato nel
modo dovuto. Nel VI canto lascia la battaglia (su consiglio del fratello Eleno) per
venire in città e chiedere ad Ecuba e alle altre donne troiane di fare una supplica
solenne ad Atena: incontra la madre, Paride ed Elena, Andromaca e Astianatte. Nel
VII canto sfida a duello Aiace Telamonio: lo scontro si conclude senza un chiaro
vincitore. Nell’VIII canto, giovandosi dell’aiuto di Zeus, guida l’assalto dei Troiani
contro le navi dei Greci: solo il sopraggiungere dell’oscurità ne ferma lo slancio.
Nell’XI canto, alla ripresa della battaglia, Ettore - su ispirazione di Zeus - aspetta che
Agamennone sia ferito e poi entra in azione, provocando la vistosa ritirata dei Greci.
Nel XII canto la battaglia presso il muro continua, furibonda: i Troiani attaccano a
piedi, dopo che Polidamante ha suggerito di lasciare i carri, che nella nuova
situazione sono più d’impaccio che d’aiuto; nonostante la strenua resistenza degli
Achei, nel finale Ettore scardina con un grosso macigno la porta del vallo e per la
breccia i Troiani dilagano. La zuffa si inasprisce nel XIII canto, con Ettore che si
batte al centro dello schieramento contro i due Aiaci: i Troiani non riescono a dare il
colpo decisivo. Nel XIV canto Era riesce a distrarre Zeus e a farlo addormentare; ne
approfittano gli dèi favorevoli ai Greci per entrare decisamente in azione. La battaglia
è sempre più cruenta: Ettore e Aiace si affrontano, ed Ettore ha la peggio: colpito da
un masso, sviene e viene tratto in salvo dai suoi, che lo portano lontano dalla mischia.
Nel XV canto Zeus si risveglia e, con l’aiuto di Apollo, di nuova determina un
vantaggio dei Troiani: Ettore, risanato da Apollo, rientra in battaglia e guida l’assalto
alle navi. I Greci sono costretti a una difesa disperata; Ettore si aggrappa alla prua
della nave di Protesilao e, dopo avere costretto Aiace alla ritirata, riesce a incendiarla
(canto XVI). È questo il momento in cui Ettore sembra più vicino alla vittoria finale:
la discesa in campo di Patroclo costringe però i Troiani a retrocedere e a ritirarsi
verso la città; anzi, dopo la morte di Sarpedone, Patroclo dà persino l’assalto alle
mura, ma viene respinto da Apollo e nel finale del XVI canto viene ucciso da Ettore.
Il canto XVII narra la zuffa che si scatena intorno al corpo di Patroclo: Ettore si
impadronisce delle armi, ma non del corpo, che nel finale è condotto via da Menelao
e Merìone. Nel XX canto Ettore affronta una prima volta Achille (che ha ucciso suo
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fratello Polidoro), ma non accade nulla di decisivo, per l’intervento di Apollo. Il


duello si svolge invece nel canto XXII e si conclude con la morte di Ettore; il
funerale nell’eroe è narrato nel canto XXIV, dopo che il corpo è stato restituito a
Priamo da Achille. Quindi, Ettore è protagonista dei canti VI e VII, e poi ha una parte
di assoluta preminenza nella serie infinita di scontri che occupano i canti XI-XVIII
(battaglia presso il vallo e poi presso le navi); nell’ultima sezione del poema, dopo la
riconciliazione di Achille e Agamennone nel canto XIX, diventa invece il bersaglio
designato dell’azione di Achille.
Andromaca - che pure è un personaggio così importante nell’immaginario
mitico greco - compare in realtà solo in poche scene del poema. Il poeta la presenta e
la fa agire per la prima volta nella famosa scena delle Porte Scee nel VI canto:
Andromaca pronuncia una sola battuta, di una trentina di versi (vv. 407-439), che
però già contiene l’ethos del personaggio e ne anticipa tutti i successivi interventi.
Nei canti successivi di Andromaca si tace, ad eccezione di due rapidissime menzioni:
in VIII 187, quando Ettore incita i suoi cavalli, ricordando loro le attenzioni che
Andromaca usa nei loro confronti, e in XVII 208, quando Zeus guarda dall’alto
Ettore fiero delle armi di Achille e lo commisera, pensando che la morte gli è vicina e
che sua moglie non lo accoglierà reduce dalla battaglia. Poi Andromaca ricompare,
nell’ultima sezione del poema - in cui alla cronaca della guerra si sostituisce la pietà
per i morti - per interpretare quel ruolo che il poeta fin dall’inizio le ha assegnato,
quello cioè della donna dolente che piange i propri familiari scomparsi.
Nel canto XXII Achille trascina il cadavere di Ettore intorno alle mura: Ecuba
si dispera, si strappa i capelli, e anche Priamo piange. Priamo vorrebbe uscire fuori e
supplicare Achille, ricordandogli Peleo (con queste parole Omero “carica” la scena
del canto XXIV). Dopo avere descritto lo strazio dei genitori, il poeta sposta la sua
attenzione sulla sposa, ormai vedova: estremamente patetica è la rappresentazione di
Andromaca che tesse e fa preparare il bagno caldo per Ettore, ignara (è come se il
racconto si innestasse direttamente sul finale dell’incontro del VI). Allarmata da un
suono di pianti, esce fuori di casa e corre alle mura: alla vista del corpo straziato,
Andromaca sviene (scena che “mima” la caduta del guerriero: marito e moglie si
corrispondono, ancora una volta). Omero accenna al velo, dono di nozze di Afrodite,
che scivola giù dal capo. Poi Andromaca riprende i sensi e cede al pianto, dando
inizio al corrotto: evoca la cattiva sorte di entrambi (Ettore a Troia e lei a Tebe sono
nati sotto una cattiva stella). Poi Andromaca parla del figlio orfano: applica un
procedimento simile a quello usato da Ettore nel VI canto, cioè si abbandona a una
visione, a una rêverie funesta: l’orfano privato dei suoi diritti e dei suoi beni, respinto
dagli amici del padre.
Nel canto XXIV Andromaca è protagonista di una scena parallela a quella del
XXII, solo che ora il lutto è disciplinato, è formalizzato [è l’unica volta che
Andromaca incontra il marito nella sede “giusta”]. Priamo torna alla città con il corpo
del figlio, che Achille gli ha restituito; alle porte Ecuba e Andromaca gli vanno
incontro e incominciano a piangere. Proseguirebbero per l’intera giornata, se Priamo
non le invitasse a farsi da parte, per permettergli di condurre il corpo al palazzo. Il
cadavere viene deposto su un catafalco, e inizia il lamento. Andromaca ora teme la
morte precoce del figlio, e evoca la sua caduta dalle mura per mano di uno degli
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Achei, desideroso di vendicarsi di Ettore. Queste parole di Andromaca compongono


l’ultima tessera del mosaico: la giovane sposa che già aveva perso i genitori e i
fratelli, è diventata una vedova - i suoi timori non erano dunque infondati - e si
prefigura ora il nuovo lutto che presto la colpirà, quando sarà privata anche del figlio.
Il personaggio è pronto per le riprese e gli sviluppi successivi, letterari e iconografici.
Il corrotto di Andromaca è seguito dal pianto delle altre due donne più vicine a
Ettore, Ecuba e Elena (e così si completa la “risposta” agli incontri del VI canto).
Non c’è menzione di Andromaca (né di Ettore) nell’Odissea. Sappiamo che
invece i poemi del “Ciclo” ne parlavano. Sia Lesche di Mitilene nella Piccola Iliade
(fr. 21 Bernabé) che Arctino di Mileto nella Iliou Persis recepivano la versione mitica
secondo la quale Andromaca, dopo la distruzione di Troia, fu data come preda di
guerra a Neottolemo; entrambi inoltre riferivano la barbara uccisione del piccolo
Astianatte, ad opera di Neottolemo (Lesche) ovvero di Odisseo (Arctino: variante
ripresa da Euripide nelle Troiane).
Pindaro cita Ettore più volte, ma solo come grande eroe (grande uccisore o
grande ucciso): in particolare, si può ricostruire una sorta di breve “catalogo” di
vittime illustri di Achille (Ettore, Memnone, Telefo), ricorrente nelle odi per vincitori
egineti. Invece possediamo un frammento di un imeneo di Saffo (fr. 44 V) dove è
evocata la scena del matrimonio di Ettore e Andromaca:

Saffo, fr. 44 V.
Arrivò correndo l’araldo Ideo, veloce messaggero,
a portare questa lieta notizia:
“Ecco una gloria immortale per la nostra città e per tutta l’Asia:
dalla sacra Tebe, dalle sorgenti del Placo,
Ettore e i compagni conducono qui sulle navi,
sopra il mare salato, la tenera Andromaca,
occhi vivaci, e con lei molti bracciali d’oro
e porpore trasparenti e raffinati monili,
e avorio e coppe d’argento, innumerevoli”.
Disse così; e di scatto si alzò in piedi il padre di Ettore.
La voce raggiunse gli amici nella città larghe vie.
Subito le donne di Ilio sotto ai carri agili ruote
aggiogarono mule; si radunò una gran folla di donne
e di ragazze, caviglie sottili.
e c’erano anche, in disparte, le figlie di Priamo.
Gli uomini legarono sotto ai carri i cavalli.
[……………………………………………]
La musica dolce dei flauti si mescolava alla cetra
e alle nacchere acute; le ragazze intonavano
con voce chiara il canto sacro: saliva al cielo
l’eco stupenda.
Per tutte le vie era gioia,
crateri di vino e coppe;
e mirra e cassia e incenso vaporavano insieme.
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Le anziane levarono il grido, all’unisono;


tutti gli uomini allora intonavano il canto soave,
invocando il Peana, il dio bella cetra, che saetta lontano:
festeggiavano Ettore e Andromaca, simili agli dèi.

Tragedia - Si è parlato di una Andromaca di Sofocle (di cui abbiamo solo il


titolo e un frammento fatto di una sola parola; non c’è hypothesis), ma la cosa è molto
dubbia. Radt pensa che possa essere un equivoco: Andromaca potrebbe essere un
personaggio dei Ποιμένες (frammentario). L’Andromaca fu composta tra il 428 e il
422; non sappiamo se fu rappresentata ad Atene (fu scritta forse in onore del giovane
re dei Molossi, educato ad Atene). La trama è una creazione originale di Euripide
(che ricompone liberamente i dati della tradizione mitica). Scena a Ftia, dove
Andromaca è prigioniera di guerra di Neottolemo, cui ha generato il figlio Molosso;
Ermione è invece sterile, e ritiene responsabile di ciò la stessa Andromaca.
Neottolemo è a Delfi, per supplicare l’oracolo; Ermione ne approfitta per tramare la
morte di Andromaca e di Molosso (con l’aiuto di Menelao). Andromaca si rifugia
presso l’altare di Teti (scena di supplica), ma Menelao minacciando di uccidere
Molosso la costringe a lasciare il luogo sacro. Arriva Peleo, che prende le difese di
Andromaca e allontana Menelao. Ermione teme la possibile vendetta di Neottolemo,
ma arriva Oreste, che la porta via con sé assicurandole di avere provveduto a togliere
di mezzo Neottolemo. Arriva un messo, che riferisce della morte di Neottolemo a
Delfi, sotto i colpi dei sicari di Oreste. Teti nel finale predice un futuro felice per
Andromaca (che andrà sposa a Eleno e regnerà insieme a lui e al figlio sui Molossi) e
per Peleo, che diventerà immortale.
Euripide rimeneggia materiale noto. Il concubinato di Andromaca e
Neottolemo è noto già al Ciclo, così come le nozze con Eleno. Le nozze di Ermione e
Neottolemo sono già in Omero, Odissea IV 5-7; secondo l’Ermione di Sofocle,
Tindaro diede la nipote in sposa a Oreste, mentre a Troia Menelao la prometteva a
Neottolemo (il quale, terminata la guerra, sottrasse la donna al primo marito e la
sposò contro la sua volontà). Una tensione tra Neottolemo e Oreste è tradizionale.
Pure la morte di Neottolemo a Delfi è tradizionale: si mostrava la sua tomba. Nelle
fonti, di solito, si sottolinea l’empietà dell’eroe (che osa, per esempio, rimproverare
ad Apollo l’uccisione di Achille), e sono i sacerdoti a tramare per eliminarlo.
L’agguato teso da Oreste è una novità di Euripide.
Euripide rielabora dunque e ritesse tutta la materia, allo scopo di creare uno
scontro tra le due donne, per una questione di prole e di discendenza. L’Andromaca
ha come interesse primario il racconto della storia di un casato: la sostituzione di una
linea a un’altra, alla linea di Neottolemo e Ermione - sterile - subentra quella di
Neottolemo e Andromaca.
Troiane. Tragedia rappresentata nel 415, dopo l’episodio di Melo (Milos) del
416. Il prologo divino (un dialogo tra Posidone e Atena) è essenziale per capire il
senso del dramma. Ecuba resta in scena per tutto l’arco del dramma, che è composto
da quadri successivi: Cassandra, Andromaca, Elena e Menelao, il corpo di Astianatte.
Subito dopo la parodo, Taltibio introduce i temi della tragedia informando Ecuba del
destino suo e delle altre prigioniere: Cassandra è stata assegnata ad Agamennone,
49

Polissena alla tomba di Achille, Andromaca a Neottolemo, Ecuba a Odisseo. Ecuba


non commenta la sorte di Andromaca, che viene menzionata come la moglie di
Ettore, non come madre (di Astianatte si tace). Cassandra canta l’imeneo, e poi
pronuncia una rhesis, nella quale giudica la sorte dei Troiani più fortunata di quella
dei Greci.
Secondo episodio. Andromaca entra in scena su un carro, totalmente passiva.
Rispondendo alle domande del Coro, si lamenta del destino di schiavitù che l’attende;
segue un kommòs in cui Andromaca ed Ecuba alternatamente piangono la morte dei
rispettivi mariti e la disgrazia che le ha travolte. Astianatte è stretto al corpo della
madre: citazione iliadica (il pubblico non può non ricordare l’incontro del VI canto e
la profezia di Ettore). Poi le due donne dialogano più distesamente, in disticomitia, e
Ecuba apprende dalla nuora la notizia della morte di Polissena. Ciò costituisce
l’innesco di una coppia responsiva di discorsi. Nel primo Andromaca chiama felice
Polissena, che con la morte ha raggiunto una invidiabile condizione di annullamento,
e contrappone alla sorte di Polissena la sua sorte: la virtù coniugale e domestica, da
lei sempre perseguita, la obbliga ora all’odioso ruolo di concubina di un nemico,
poiché Neottolemo l’ha voluta avere per sé. Andromaca rivolge ancora il pensiero,
con tenerezza, a Ettore, e si chiede come potrà serbarsi fedele alla memoria del
marito morto. Ecuba le risponde con un invito al realismo: vivere non è come morire,
comporta pur sempre una speranza; per Andromaca questa speranza viene dal figlio,
che potrà crescere e ridare vita a Troia.
Ma ecco che arriva Taltibio con la notizia della condanna a morte del piccolo.
Non c’è limite ai mali: la vita è solo un prolungamento di sventure, Ecuba si è
sbagliata. Andromaca pronuncia un nuovo discorso, che è un addio straziante e un
pianto funebre. Euripide si attiene strettamente al modello omerico: anche in Omero
Andromaca sembra prima non volersi abbandonare a una totale disperazione, per
piombarvi poi nel XXIV, quando si trova davanti il corpo del marito.
Le due tragedie propongono, pur in momenti diversi, Andromaca alle prese con
i nemici suoi e di suo figlio. Nell’Andromaca l’esito è positivo, ma - soprattutto - la
donna si batte, prende iniziative; nelle Troiane non c’è spazio per nulla, la negatività
è totale.
L’unica tragedia, tra quelle pervenute, in cui Ettore compaia come
personaggio, è il Reso di [Euripide]. È un dramma che ha fatto molto discutere: dubbi
sull’autenticità furono avanzati già in epoca antica. Molti studiosi moderni ritengono
che non sia una tragedia del V secolo, bensì della prima metà del IV secolo: manca (a
loro giudizio) un impianto autenticamente tragico, mentre affiora una preoccupazione
spettacolare estranea alla cultuta teatrale dell’Atene periclea. Il Reso drammatizza la
materia del X canto dell’Iliade (Doloneide), con un rovesciamento di prospettiva
rispetto a Omero: i fatti non sono più visti dal punto di vista dei Greci, ma secondo
l’ottica troiana. La scena è il campo dei Troiani, ed Ettore è in scena quasi
costantemente: è un Ettore impetuoso e fin troppo convinto dei suoi mezzi, quasi un
miles gloriosus, che ritrova una misura solo quando si confronta con uno smargiasso
del calibro di Reso. Anche Ettore, come tutti i personaggi del dramma, agisce per
automatismi, mostrandosi impermeabile a un vero apprendimento, a una crescita
intellettuale e morale. Non c’è nel Reso un mathos dia pathos, ma semplice coazione
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a ripetere. Peraltro, è un dramma interessante, perché il poeta dà prova di una cultura


omerica raffinata e capillare.

VI canto dell’Iliade. Lo schema è questo:


vv. 1-118 Infuria la battaglia, con grande spargimento di sangue. I Troiani sono sul
punto di fuggire, e perciò Eleno invita Ettore ed Enea a rincuorare gli uomini e a
riaccendere in loro la volontà di combattere; Ettore poi - precisa Eleno - dovrà andare
in città per indurre Ecuba e le anziane a portare un peplo prezioso ad Atena e a
pregare la dea di contenere la furia distruttiva di Diomede.
vv. 119-236 Diomede e il licio Glauco stanno per affrontarsi, ma prima Diomede
vuole sapere il nome del nemico. Glauco risponde raccontando la propria
discendenza e menzionando in particolare l’avo Bellerofonte: Diomede si rende conto
di essere legato all’altro da un antico rapporto di ospitalità; i due si abbracciano e si
scambiano le armi.
vv. 237-285 Ettore entra in città, attraverso le porte Scee, e incontra Ecuba: la madre
lo invita a riposarsi un poco e a ristorare le forze con una coppa di vino, ma Ettore
rifiuta e riferisce invece a Ecuba l’invito di Eleno: le anziane dovranno andare al
tempio di Atena per supplicare la dea di assumere un atteggiamento più benevolo
verso i Troiani.
vv. 286-311 Ecuba accoglie l’invito: sceglie il suo peplo più prezioso e con le
anziane lo porta in dono ad Atena; Teanò pronuncia la formula di preghiera (ma
Atena non si lascia piegare).
vv. 312-368 Ettore raggiunge la casa di Paride: gli parla bruscamente, invitandolo a
ritornare subito in battaglia, e l’altro acconsente. Elena rivolge al cognato parole
affettuose, e lo invita a restare un poco, ma Ettore rifiuta.
vv. 369-502 Ettore arriva a casa sua, ma non trova Andromaca, che è salita sulle
mura per vedere come va la battaglia. Marito e moglie si incontrano e si parlano.
Ettore bacia il figlio e consola Andromaca piangente. Poi i due si separano:
Andromaca torna a casa, certa in cuore di non rivedere più il marito vivo.
vv. 503-529 Paride, che ha indossato le sue armi, raggiunge Ettore; i due fratelli si
parlano con tono più disteso e ritrovata unità.

Lettura e commento dei vv. 390-398. Il poeta dà subito la genealogia di Andromaca,


figlia di Ezione, re di Tebe Ipoplacia e sovrano dei Cilici (vv. 395-397). È una sorta
di “caricamento”: Omero non dice che Ezione è morto, ma prepara il discorso che
Andromaca stessa fa poco dopo (vv. 414-430). Andromaca è la donna dolente,
definita dalla perdita dei familiari, è colei che è venuta al mondo per piangere i
consanguinei e tutti coloro con i quali entra in relazione di parentela e affinità. Come
ogni donna greca, è definita in primo luogo dal suo ghenos di appartenenza; e ogni
donna greca è chiamata al pianto rituale e al lutto (che competono all’universo
femminile). La peculiarità di Andromaca, il suo particolarissimo pianeta (e la sua
cifra artistica, la sua ragione d’esistere come personaggio), è di dover solo piangere.
Andromaca versus la famiglia di appartenenza (genitori e fratelli) è orfana, versus la
famiglia in cui è entrata e si è costruita (marito, figlio, suocero, cognati) si appresta a
51

diventare vedova, orba, ecc. Tebe Ipoplacia sorgeva all’interno del golfo di
Adramitto. I Cilici su cui regna Eezione sono una popolazione della Troade, del tutto
distinta dai più noti Cilici della Cilicia (nella parte sudorientale dell’Asia Minore);
allo stesso modo, i Lici cui appartiene Pandaro sono stanziati in Troade e non devono
essere confusi con i Lici di Licia (Glauco e Sarpedone ne sono i capi). Il saccheggio
di Tebe e l’uccisione di Eezione sono ricordati più volte nell’Iliade: in I 366-69
Achille ricorda a Teti che da lì proviene Criseide (“Andammo a Tebe, la sacra città di
Eezione, e la bruciammo, portammo via tutto; e bene il bottino divisero tra loro i figli
degli Achei, e per l’Atride scelsero a parte Criseide guancia graziosa”); in IX 188 si
dice che dal bottino di Tebe proviene la cetra con la quale Achille si accompagna,
mentre canta le gesta degli eroi; e in XXIII 826-29 il poeta precisa che il disco di
ferro posto da Achille nel mezzo della lizza è quello che un tempo era usato da
Eezione, prima che Achille lo uccidesse. Molto vicina a Tebe è Lirnesso, la patria di
Briseide, pure bruciata e saccheggiata da Achille.
Lettura e commento dei vv. 399-406. I commentatori osservano che il v. 401 (il
bimbo è “simile a vaga stella”) può avere una connotazione sinistra. Il paragone con
la stella è infatti usato dal poeta anche al v. 295, nella descrizione del peplo che
Ecuba sceglie per Atena (vv.288-295: “Ecuba discese nel talamo odoroso, dov’erano
i suoi pepli, opere tutte a ricami di donne sidonie, che Alessandro simile a un dio
portò da Sidone, vasto mar navigando, nel viaggio in cui condusse Elena avi gloriosi.
Uno ne scelse Ecuba e recò in dono ad Atena, quello che di ricami era il più vago e il
più grande, splendeva come una stella e sotto a tutti era l’ultimo”); ma la preghiera,
sebbene accompagnata da un’offerta tanto preziosa, viene respinta dalla dea. Nella
scena con Andromaca e Astianatte, Ettore pure pronuncia una preghiera, a Zeus,
sollevando il bimbo verso il cielo: dunque, si può pensare che anche questa preghiera
- proprio perché connessa con un “oggetto stellato” - debba incontrare un diniego (ed
è così, di fatto, come l’uditorio ben sa).
v. 402. Lo Scamandro è il fiume più importante della Troade, e la decisione di
Ettore di chiamare il figlio Scamandrio (dal nome del fiume, o più probabilmente dal
nome del dio del fiume) è certo dettata da pietà religiosa. In Il. IV 473-79 si parla di
un giovane troiano, ucciso da Aiace con la lancia, il cui nome è Simoe…sioj perché la
madre lo partorì sulle rive del Simoenta, dove era venuta a pascolare la mandria della
famiglia. Anche nomi come Asopodoro sono ispirati alla stessa devozione. In Il. V 49
è menzionato un altro troiano che ha il nome Scamandrio. Astianatte - in base a ciò
che dice il poeta - dovrebbe essere un nome onorifico, usato dagli altri Troiani in
segno di rispetto per il padre, primo difensore della città. Alla stessa conclusione
portano i vv. XXII 506-507, in cui Andromaca parlando con il morto Ettore dice:
“Astianatte, come lo chiamano i Teucri: tu solo infatti difendevi le porte e le grandi
mura”. Astianatte, dunque, parrebbe essere un soprannome, usato da molti al posto
del vero nome Scamandrio. Ma nel Ciclo e in tutta la tradizione successiva il nome
del figlio di Ettore e Andromaca è sempre Astianatte, mentre Sacmandrio non
compare mai. Si è allora ipotizzato che sia Scamandrio, invece, il nomignolo
affettuoso usato dai genitori per il piccolo, una sorta di vezzeggiativo che compare
solo qui, per marcare la tenerezza del momento.
52

Lettura e commento dei vv. 407- 439. Il discorso di Andromaca, come nota
Kirk, si può scomporre in tre parti: i vv. 407-413 sono una desolata premonizione
della morte del marito e della propria miseria; la forte emozione si esprime nella
sequenza di frasi brevi, che non rispettano il respiro del verso, ma ne travalicano
sistematicamente la chiusa; i vv. 414-29 contengono una narrazione più distesa della
morte dei genitori e dei fratelli; i vv. 430-39 rinnovano l’appello a Ettore perché
abbia pietà della sposa, che dipende interamente da lui, e si tenga al riparo delle
mura, organizzando la difesa là dove sembra evidenziarsi un punto di debolezza.
vv. 417-20. Achille mostra rispetto per il corpo di Eezione, poiché non lo
spoglia delle armi, ma lo brucia con tutta l’armatura. Nella sfida lanciata da Ettore nel
canto VII, invece, l’eroe dichiara che in caso di vittoria spoglierà il suo avversario
delle armi (e le appenderà nel tempio di Apollo), ma restituirà il corpo agli Achei per
la giusta sepoltura; anche l’altro, nelle attese di Ettore, dovrà rispettare la stessa
norma. In Od. XI 72-75 l’ombra di Elpenore, comparsa ad Odisseo, chiede che le
armi siano bruciate con il corpo (“Non lasciarmi laggiù incompianto e insepolto, ma
bruciami con le mie armi, tutte quelle che ho, e un tumulo alzami in riva al mare
schiumoso”). L’accenno agli onori funebri resi a Eezione da Achille è una sorta di
“ironia tragica”, in considerazione del barbaro trattamento che l’eroe riserverà al
cadavere di Ettore.
vv. 419-20. La partecipazione delle Ninfe ai funerali di Eezione è un elemento
che conferma l’eccezionale valore dell’eroe (anche al funerale di Achille
intervengono le Nereidi, sorelle di Teti, e il threnos è intonato dalle Muse stesse).
v. 428. Per la “dolce morte” causata dalle frecce di Artemide, cf. Od. XV 407-
411 (la descrizione dell’isola di Sirìa, fatta da Eumeo) “Mai fame tocca quel popolo,
mai nessun’altra peste odiosa affligge i mortali infelici, ma quando le stirpi degli
uomini invecchiano in quella città, Apollo arco d’argento, venendo con Artemide,
con le sue miti frecce li raggiunge e li uccide”. Un altro termine di confronto molto
chiaro è Od. XVIII 201-205 “Un sonno soave mi ha avvolta, benché tanto soffra.
Così soave la morte mi desse Artemide casta subito ora, e non dovessi più, straziata
nell’anima, consumarmi la vita, a rimpiangere i molti pregi del mio caro sposo, che
eccelleva su tutti gli Achei”.
vv. 433-39. Sappiamo che erano considerati spuri da Aristarco, perché
contengono istruzioni tattiche e quindi hanno una tonalità estranea al discorso di
Andromaca, tutto giocato sui ricordi personali e sugli affetti. Inoltre, le affermazioni
di Andromaca sono false, perché né prima né poi si parla mai di punti di debolezza
del sistema difensivo, né si sta combattendo (o si è combattuto) così vicino alla città.
Si può anche osservare che Ettore non risponde su questo punto (almeno in modo
diretto), e che i vv. 331-32 possono essere un’efficace formula di conclusione (e un
esempio di Ringkomposition). Peraltro, Andromaca deve motivare la sua richiesta a
Ettore di non tornare a combattere nella pianura, e la sua motivazione deve essere
razionale; ed Ettore, quando invita sua moglie ad occuparsi di faccende domestiche,
può rispondere anche implicitamente a questi suggerimenti tattici.
Lettura e commento dei vv. 440-65. La risposta di Ettore è giocata sulla stessa
alternanza di toni eroici e toni patetici che è la cifra poetica dell’intero episodio.
Naturalmente, in linea di massima la tonalità eroica spetta ad Ettore, mentre
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Andromaca dà più largo spazio all’affettività: ma di fatto entrambi i personaggi


conoscono entrambe le corde (Andromaca implora il marito di non lasciare lei
vedova e il figlio orfano, ma racconta anche la presa di Tebe e dà suggerimenti
guerreschi; Ettore si propone come il guerriero senza macchia e senza paura, vocato a
combattere sempre in prima linea, ma poi prefigura la caduta della patria e il triste
destino della moglie).
vv. 441-43. Le parole di Ettore sono ispirate alla più pura civiltà della
vergogna. Eric Dodds cita proprio questo passo (e quello, molto simile, di XXII 104-
110) a sostegno della sua interpretazione della società omerica come “shame-
culture”. In Il. XXII 104-110 Ettore deve decidere se affrontare Achille o ritirarsi al
riparo delle mura, e dice tra sé: “Ora che ho rovinato l’esercito col mio folle errore,
ho vergogna dei teucri e delle Troiane lunghi pepli, non abbia a dire qualcuno più vile
di me: ‘Ettore ha rovinato l’esercito fidando nelle sue forze’. Ah sì, così diranno. E
allora per me è molto meglio o non tornare prima d’avere ucciso Achille, o perire
davanti alla rocca, di sua mano, con gloria”. Dodds cita questi passi (dove ricorre il
verbo αἰδέομαι) per spiegare che per l’uomo omerico la più potente forza morale non
è il “timor di Dio”, bensì il rispetto dell’opinione pubblica, cioè aidòs.
vv. 444-45. Quando dice di “avere imparato” ad essere valoroso e a combattere
per la gloria sua e del padre, Ettore fa riferimento alla propria vocazione eroica: non
si tratta di una paideia in senso stretto, cioè di una tecnica di combattimento che si
può apprendere, ma di tradizione familiare e nobiltà di sangue, di physis. I passi che
si possono citare per un confronto sono le parole di Glauco a Diomede in VI 206-10
(“Ippòloco generò me, d’essere suo figlio io dichiaro, e m’inviò a Troia e molto e
molto raccomandava ch’io sempre fossi fra gli altri il migliore e il più bravo, non
facessi vergogna alla stirpe dei padri, che furono fortissimi a Efira e nella vasta
Licia”), e il momento dell'investitura eroica di Achille e Patroclo, così come Nestore
la ricorda in XI 783-84 (“Al figlio suo, ad Achille, raccomandò il vecchio Peleo
d’esser sempre il primo e distinto tra gli altri”). La lode di chi si batte in prima fila è
tema ricorrente dell’elegia marziale (Tirteo).
vv. 447-49. Questa profezia della caduta di Troia ritorna identica in IV 163-65.
Come osserva Kirk, i due contesti non potrebbero essere più lontani tra loro: nel
canto IV parla Agamennone, che è angosciato per la ferita di Menelao e teme per la
sua vita; certo - dice - la rottura dei patti giurati peserà sul futuro dei Troiani, e Zeus
stesso li vorrà punire, facendo cadere la città e il re Priamo, ma la morte di Menelao
sarebbe comunque una rovina per tutti gli Achei. Agamennone prospetta la caduta di
Troia come una conseguenza inevitabile di quanto è accaduto, come una certezza
rassicurante a cui ci si può appellare per trovare un poco di conforto. Al contrario, in
bocca ad Ettore la profezia è lo scenario desolato e rassegnato su cui si impianta
l’immagine dolorosa di Andromaca ridotta in schiavitù.
vv. 459-61. Nell’Iliade capita con una certa frequenza che i personaggi
immaginino i possibili commenti di altri, in determinate circostanze: è un modulo
espressivo che corrisponde al principio della “vergogna”, e che ben riflette il
desiderio della pubblica approvazione o il timore del pubblico biasimo. In IV 176-82
Agamennone si prefigura le conseguenze della morte di Menelao: gli Achei
vorrebbero subito tornare in patria, e lui dovrebbe abbandonare l’impresa e partire,
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lasciando come unica traccia in Troade la tomba del fratello, sulla quale qualcuno dei
Troiani potrebbe pronunciare parole di trionfo e di scherno; in XXIII 575-78 Menealo
teme che qualcuno possa dire che lui si è imposto ad Antiloco non per le sue buone
ragioni, ma per il maggior peso politico. Gli altri esempi riguardano tutti Ettore, che
appare particolarmente sensibile al giudizio altrui: in XXII 106-7 teme che i Troiani
lo biasimeranno per avere distrutto l’esercito; in VII 300-2 propone ad Aiace, al
termine del duello, uno scambio di doni, in modo che tutti li possano lodare per
l’ardimento e la magnanimità di cui hanno dato prova. Ma il passo più utile per un
confronto è VII 87-91. Nella sfida che Ettore lancia agli Achei, i patti prevedono la
restituzione del corpo del vinto. Così, se sarà Ettore a prevalere, si terrà le spoglie ma
restituirà la salma alle navi: gli Achei seppelliranno il loro compagno sulle rive
dell’Ellesponto, e i naviganti vedendone il tumulo assoceranno il destino del defunto
al nome di Ettore, rinnovandone la gloria. L’eroe riporta in forma diretta le parole che
i marinai pronunceranno, e così facendo detta - in pratica - l’epitafio del suo
competitore (vv. 87-91):

E qualcuno tra gli uomini futuri dirà un giorno, navigando con nave ricca di remi il
livido mare: “Questa è la tomba di un guerriero morto da tempo: mentre si batteva da
eroe, fu ucciso dal famoso Ettore”. Così dirà qualcuno, e non perirà la mia fama.

Lettura e commento dei vv. 466-481. Il motivo del figlio più forte del padre è
diffuso nella fase più arcaica delle religiosità greca, ed è ampiamente presente nei
miti teogonici. La successione Urano Crono Zeus è ispirata a questo principio. In
Pindaro, Istmica VIII 30-52 è narrato il contrasto che sorge tra Zeus e Poseidone,
entrambi desiderosi di prendere in moglie Teti; ma Themis rivela loro il destino, e
allora i due dèi decidono di rinunciare a Teti e di lasciare che essa sposi un mortale,
Peleo, dal quale avrà come figlio Achille. Lo stesso tema è applicato da Eschilo alla
vicenda di Prometeo nel Prometeo incatenato: Prometeo (figlio di Themis) è a
conoscenza di un oracolo, in base al quale è destino che Zeus generi un figlio più
forte di lui, capace di detronizzarlo.
Lettura e commento dei vv. 482-502. Ai vv. 487-88 tornano due termini chiave
della lingua e della cultura omerica: αἴσα e μοῖρα. Sono sostanzialmente sinonimi.
Entrambe le parole indicano in prima istanza la “parte” o “porzione” che spetta, e si
richiamano quindi al principio di scambio. Poi passano a indicare la parte che
compete all’uomo nel kosmos, quindi la “spettanza umana” (e in particolare la
mortalità), e anche la parte che compete a un singolo uomo, quindi il suo destino. Il
IX canto dell’Odissea esemplifica bene questa evoluzione semantica: al v. 352
Odisseo si chiede chi mai vorrà in futuro fare visita al Ciclope, visto che si comporta
οὐ κατὰ μοῖραν (ossia, non rispetta il suo ruolo); ma nel finale del canto è Polifemo
che fa riferimento alla mo‹ra di Odisseo; si rivolge a Poseidone per chiedere che il
suo nemico non ritorni più in patria, e aggiunge: “ma se per lui è μοῖρα rivedere i suoi
e tornare a casa, almeno che torni tardi e male” (vv. 532-534). Ciò è in accordo con la
Weltanschauung omerica: esiste una μοῖρα, che non può essere alterata, e però
all’interno dei termini da essa stabiliti è possibile un margine d’azione. Nel XVI
dell’Iliade Zeus per un attimo vorrebbe salvare suo figlio Sarpedone; dice “È destino
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(μοῖρα) che Sarpedone, il più caro a me degli uomini, sia domato da Patroclo, e il mio
cuore è combattuto, se condurlo via in salvo, nella ricca Licia, o lasciare che sia
ucciso” (vv. 433-438). Era ribatte che sarebbe una follia, e lo induce a lasciare che il
destino abbia il suo corso: quel che Zeus può fare, è mandare Thanatos e Hypnos a
prelevare il corpo.
vv. 490-93. Dopo Omero la frase “la guerra è una faccenda da uomini” diventa
proverbiale. Aristofane ci ricama sopra nella Lisistrata, il cui tema è il diritto/dovere
delle donne di occuparsi di questioni pubbliche, comprese le decisioni sulla guerra e
sulla pace. Nella scena agonale la protagonista spiega al Probulo perché le donne
hanno deciso di intervenire: fin dall’inizio della guerra hanno intuito che le decisioni
degli uomini erano sbagliate, ma se una solo cercava di farsi sentire dal marito, questi
la zittiva bruscamente, e se lei insisteva lui troncava il discorso dicendo “la guerra è
una faccenda da uomini”. Lisistrata conclude che, dato il fallimento completo degli
uomini, bisogna cambiare radicalmente condotta: saranno gli uomini d’ora innanzi a
stare in casa e a tessere la lana, mentre della guerra si occuperanno le donne.
v. 498. L’epiteto ¢ndrofÒnoio può risultare scioccante, in un contesto giocato
sugli affetti familiari, e dopo la tenerezza di cui l’eroe ha dato prova verso il figlio e
la moglie. D’altra parte, la formula “Ektoroj ¢ndrofÒnoio è molto frequente (ritorna
11 volte, di solito in clausola), e non dobbiamo dimenticare quel che dice Parry a
proposito della formula e del contesto (il poeta non pensa quasi mai al microcontesto,
quando impiega le formule). Anche nel canto XXIV, quando ormai Ettore è morto, è
un cadavere in cerca di sepoltura (dunque, le sue attitudini “omicide” sono
definitivamente estinte), la formula “Ektoroj ¢ndrofÒnoio è usata due volte:
addirittura, ai vv. 723-24 Andromaca inizia il lamento abbracciando il capo di Ettore
“massacratore” (tÍsin d' 'Androm£ch leukèlenoj Ãrce gÒoio / “Ektoroj
¢ndrofÒnoio k£rh met¦ cersˆn œcousa).
I versi conclusivi (500-502), che presentano il pianto di Andromaca e delle
ancelle per la morte di Ettore, caricano le altre due apparizioni del personaggio (XXII
e XXIV): nelle attese del poeta è del pubblico, Andromaca è già ora la vedova
inconsolabile, votata al lutto e al lamento. I commentatori osservano che, in termini
realistici, c’è contraddizione con lo sviluppo successivo dei fatti, perché dopo la
conclusione del duello tra Ettore e Aiace nel canto VII, la battaglia viene sospesa per
la sepoltura dei morti, e tutto lascia pensare che Ettore (come gli altri Troiani) per
qualche giorno torni a casa sua. In termini poetici, però, l’incontro del VI canto è
anche un addio.

XXII canto dell’Iliade. Lo schema è questo:


1- 24 I Troiani si rifugiano dentro le porte della città; Achille (distratto per qualche
tempo da Apollo, che ha assunto l’aspetto di Agenore) raggiunge le mura, dove lo
aspetta Ettore.
25-130 Priamo ed Ecuba tentano di convincere Ettore a ripararsi dentro le mura,
evitando lo scontro con Achille. I due anziani genitori toccano tutte le corde più
patetiche, ma non persuadono l’eroe, troppo preoccupato del suo buon nome. Per un
attimo Ettore, rimasto solo, considera la possibilità di arrendersi ad Achille, di
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promettergli la restituzione di Elena e delle sue ricchezze; rinuncia però, perché


capisce che Achille non rinuncerebbe mai alla vendetta.
131-213 Vedendosi venire addosso Achille, Ettore è preso dal panico, e fugge.
L’altro lo insegue, e i due eroi si rincorrono, girando per tre volte intorno alle mura.
Gli dèi osservano, dall’alto: per un attimo Zeus è tentato di intervenire, per salvare la
vita ad Ettore, ma Atena lo dissuade. Zeus pesa i destini dei due eroi, e quello di
Ettore precipita verso l’Ade; Apollo lo abbandona.
214-247 Atena raggiunge Achille e lo incoraggia. Si avvicina poi a Ettore, dopo
avere assunto l’aspetto di Deifobo, e lo inganna, promettendogli di stargli vicino e di
assisterlo durante il duello. Ettore prende animo.
248-305 I due campioni si affrontano. Ettore propone un accordo, che prevede la
restituzione del corpo del soccombente; Achille rifiuta con ira qualsiasi patto, e tira la
lancia per primo; fallisce il colpo, ma Atena gli restituisce l’arma. Ettore si avventa
per secondo, ma la lancia viene respinta dallo scudo dell’avversario. Ettore chiama
Deifobo, che non compare; l’eroe capisce l’inganno, e si rende conto che la sua ora è
arrivata.
306-366 Ettore si fa avanti con la spada, ma viene colpito alla gola da Achille e cade
a terra moribondo. Anche l’ultima richiesta relativa alla restituzione del corpo viene
respinta; Ettore muore, predicendo che anche Achille dovrà presto morire.
367-436 Gli Achei si avvicinano e feriscono il corpo. Achille trascina il cadavere
intorno alle mura, sucitando lo straziato dolore dei due genitori.
437-515 Andromaca intuisce che qualcosa di terribile è accaduto. Corre alle mura,
vede il marito morto, sviene. Quando riprende i sensi, pronuncia il lamento.

Lettura e commento dei vv. 437-459. La scena finale del XXII canto è l’ultima nel
racconto della morte di Ettore. Ha stretti legami con la scena del VI canto, si può dire
che ne costituisca l’ideale prolungamento; ed è in evidente simmetria con il goos del
XXIV canto, di cui anticipa i temi. Nell’homilia Andromaca ricorda la sua famiglia, e
in particolare suo padre Eezione, che nel XXII è menzionato due volte (vv. 471-72 e
479-81); ancora, nell’homilia Andromaca prega Ettore di essere meno impetuoso e di
esporsi meno al pericolo, per non rendere vedova sua moglie e orfano suo figlio: nel
lamento del XXII canto questa triste condizione, ormai diventata realtà, è descritta
con precisione. Il nome di Astianatte, già spiegato nel VI canto, è di nuovo oggetto di
chiose e considerazioni nel XXII. Il quadro del piccolo che prova paura davanti
all’elmo del padre e si stringe al petto della nutrice, trova il suo omologo nella
angosciata descrizione dell’orfano, scacciato e deriso, costretto a cercare rifugio tra le
braccia della madre. Anche sul piano strutturale c’è una corrispondenza marcata. La
scena del VI canto si apre con la rapida corsa di Ettore, che raggiunge sua moglie
sulle mura; i due si parlano, poi Andromaca torna a casa e suscita il pianto delle
ancelle; nel XXII è lei a correre sulle mura per “incontrare” il marito, gli parla (tutto
il lamento è una lunga apostrofe in seconda persona), mentre intorno a lei le altre
donne levano i lamenti.
vv. 440-41. La scena ha chiari parallelismi con Il. III 125-28 (Teichoskopìa):
sia Elena che Andromaca stanno tessendo in casa, quando le raggiunge una notizia
che le induce a interrompere il lavoro e ad andare sulle mura, accompagnate da due
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ancelle e con indosso il velo. Diverso è lo “stile” delle due tessitrici: mentre
Andromaca intesse ornamenti floreali, Elena “racconta” episodi della guerra di Troia.
vv. 466-67. Lo svenimento di Andromaca è descritto con il frasario tipico della
morte del guerriero.
v. 470. Andromaca indossa il velo che le fu donato da Afrodite come regalo di
nozze: è un particolare patetico, che contrappone il momento splendido della festa
nuziale all’angoscia della vedovanza. Il giorno delle nozze è l’unico istante di felicità
per due sposi predestinati alla sofferenza e al dolore: il fr. 44 di Saffo si chiude con il
verso “festeggiavano Ettore e Andromaca, simili agli dèi”. D’altra parte, che il dono
di un dio possa trasformarsi in fonte di amarezza o rovina, è motivo folklorico: la
collana donata da Afrodite ad Armonia in occasione delle sue nozze con Cadmo, fu
usata molto tempo dopo da Polinice per indurre l’indovino argivo Anfiarao a
partecipare alla spedizione dei Sette (Polinice infatti la promise in dono a Erifile,
moglie di Anfiarao, a condizione che persuadesse il marito ad acconsentire).
Lettura e commento dei vv. 477-507. Il goos di Andromaca si può dividere in
tre momenti: il lamento della mala sorte nel cui segno i due sposi sono nati e sono
vissuti; una lunga sezione centrale, dedicata ad Astianatte e al triste destino che
aspetta il piccolo orfano; il ricordo dell’affetto profondo che Ettore dimostrava per i
bimbo e la riflessione sul significato del nome Astianatte, introducono un nuovo
lamento su Ettore, privato anche degli onori funebri (Andromaca dovrà accontentarsi
di bruciare le splendide vesti preparate per lui dalle donne, ma nel rogo il corpo non
ci sarà).
vv. 487-99. La desolata presentazione che Andromaca fa della futura
condizione di Astianatte orfano, ha suscitato le critiche di omeristi antichi e moderni.
Già Aristarco considerava interpolati questi versi, perché riteneva inverosimile che un
principe di sangue reale, diretto nipote di Priamo, per aver perduto il padre fosse
ridotto al ruolo di mendicante. La sua critica è stata condivisa da studiosi moderni,
che sono variamente intervenuti sul testo, proponendo l’atetesi di ampie sezioni. Si
deve però considerare che qui Andromaca traccia una sorta di quadro esemplare o
archetipico dell’orfano (e d’altra parte il personaggio contiene in sé negatività, così
che ogni situazione familiare in cui Andromaca è coinvolta, assume i contorni più
lividi e foschi che la mente umana possa immaginare).
Nei vv. 508-14 Andromaca immagina il corpo nudo e straziato del marito,
abbandonato agli insulti degli animali, e (con procedimento ondivago, che ha
insospettito i filologi ma in realtà corrisponde alle irrequietezze mentali di chi è
profondamente angosciato) si duole di non poterlo rivestire con i begli abiti pronti per
lui nella casa. Questo è un tema patetico che riaffiora nell’epica omerica: il tema della
donna (moglie o madre) che si preoccupa del benessere fisico del figlio o del marito
impegnato in un’impresa guerresca e gli fornisce un corredo di vesti. Nel canto XVI
dell’Iliade Achille - preparandosi a rivolgere a Zeus una solenne supplica – prende
una coppa d’oro da una cassa, dove sono conservate le vesti fornite da Teti. In
Odissea XIX Penelope mette alla prova lo straniero e gli chiede di dirle, se davvero
anni prima ha ospitato Odisseo a Creta, come era vestito: l’ospite parla del mantello
purpureo, della tunica morbida e splendente, ben modellata sul corpo (“come la
buccia di una cipolla), della fibbia d’oro cesellata, e Penelope scoppia in pianto e
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ricorda il momento in cui lei stessa aveva consegnato quegli abiti al marito che
partiva.

Euripide, Troiane - Andromaca entra in scena all’inizio del secondo episodio: è su un


carro, con il figlio Astianatte e con le armi un tempo di Ettore, diventate ora parte del
bottino di Neottolemo. Il bimbo è avvinghiato alla madre, e rimane in questa
posizione per l’intero episodio. Sembra di poter cogliere, da parte del drammaturgo,
la volontà di richiamarsi alla scena del VI canto, facendone un punto di riferimento
visivo per il pubblico. Anche l’insistenza con la quale il Coro sottolinea che
Andromaca è condotta via verso la schiavitù, ridotta a oggetto passivo della volontà
altrui e incapace di qualsiasi resistenza, si connette probabilmente con l’immagine -
tracciata da Ettore nell’homilia - di un’Andromaca schiava, costretta a tessere o ad
attingere acqua al comando di una padrona. Segue un kommòs, nel quale Ecuba e
Andromaca piangono la caduta di Troia e la loro disgrazia. Le due donne prendono
poi a dialogare in disticomitia, con uno scambio reciproco di informazioni: Ecuba
accenna alla sorte di Cassandra, assegnata ad Agamennone, e Andromaca rivela a
Ecuba la morte di Polissena, sacrificata sulla tomba di Achille. Ecuba capisce
finalmente le oscure allusioni di Taltibio, e si dispera, ma Andromaca le rivolge
parole di brusca consolazione, dicendole che la sorte di Polissena è infinitamente
migliore di quella delle sopravvissute. Inizia così la rhesis.
Lettura e commento dei vv. 634-656. Andromaca traccia un confronto tra se
stessa e Polissena, per dimostrare che la morte, quando la vita è diventata troppo
difficile e dolorosa, diventa una condizione augurabile. Ecuba si rifiuta di assimilare
la morte e la vita ed esorta la nuora a cercare una ragione di vita e di speranza nel
figlio, nel piccolo Astianatte. Ecuba, che pure ha subito colpi durissimi, ancora si
aggrappa alla vita. La morte del nipote la persuade però che non c’è più nulla da
sperare, che la vita per lei e per le altre prigioniere è ormai solo un abisso di male. Il
senso delle Troiane è la “crisi delle differenze”, cioè il venire meno dei valori
consolidati, costruiti su opposizioni di ovvia e riconosciuta validità. Cassandra
spiega che i vinti sono più fortunati dei vincitori, Andromaca che i morti sono più
fortunati dei vivi, mentre il prologo divino lascia intendere che non c’è in realtà
differenza tra vincitori e vinti, tra vivi e morti.
Tra l’altro, bisogna tenere conto degli altri due drammi che Euripide presentò
al concorso dionisiaco del 415, insieme alle Troiane: l’Alessandro e il Palamede. Si
tratta infatti, per certi versi, di una trilogia (anche se non nel senso eschileo, perché i
tre drammi non sono tre momenti di una stessa vicenda). L’Alessandro si apriva con
un prologo, nel quale era ricordato il sogno premonitore di Ecuba, cui era parso di
dare alla luce una fiamma destinata a distruggere la città; la regina, spaventata, aveva
allora fatto esporre, appena nato, il bimbo che portava in grembo, e aveva ottenuto da
Priamo che ogni anno si tenessero dei giochi per onorare la memoria del figlio. La
vicenda (per quanto la si può ricostruire dai frammenti): Paride viene allevato da
pastori; diventato adulto, scende in città a partecipa ai giochi, vincendo i fratelli (che
non l’hanno riconosciuto). Deifobo, crucciato, cerca di screditare il nuovo arrivato
davanti a Priamo; non riuscendoci, attizza l’ira di Ecuba; per sfuggirle, Paride si
rifugia sull’altare di Zeus. Proprio quando sembra che per lui sia finita, scatta il
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riconoscimento (forse a opera di Cassandra); Ecuba gioisce per il figlio ritrovato,


inconsapevole del male che sta per travolgere lei e l’intera città. Il Palamede era
ambientato nel campo degli Achei (dunque, in un rapporto di specularità con
l’Alessandro: i due drammi presentavano i due opposti schieramenti, e si
proponevano di affondare lo sguardo dentro i complessi meccanismi politici e
affettivi che ne determinavano le decisioni). La vicenda: Odisseo odia Palamede e
fabbrica le prove del suo tradimento (una lettera di Priamo scritta su una tavoletta),
accusandolo di intelligenza con il nemico; Palamede viene condannato a morte. Nulla
egli ottiene con la sua apologia, nella quale elenca i propri meriti di sapiente
inventore: in particolare, Palamede ha inventato la scrittura, per garantire verità di
informazione e certezza di giudizio. Ma, paradossalmente, proprio di scrittura
(ingiusta e ingannevole) egli deve morire.
L’Alessandro mostra l’incapacità dei Troiani - e segnatamente di Ecuba - di
prendere decisioni utili ad allontanare il proprio male. Ecuba anzi, quando ritrova
Paride, irrazionalmente ne gioisce. Come a dire: la città corre incontro alla propria
rovina, senza saper controllare né la mente né il cuore. All’opposto, la polis achea ha
in sé un uomo, Odisseo, capace di costruire il destino: Odisseo altera la verità, crea
una nuova verità, per pilotare i fatti alla conclusione voluta. Dalla contrapposizione
tra le due città, sembra emergere la posizione vincente degli Achei; ma qui
intervengono le Troiane, con il prologo divino, per spiegare che la vittoria dei Greci è
apparente: non c’è differenza tra ingenui e scaltri. La trilogia è ispirata al pacifismo,
non c’è dubbio: comunque la si affronti, da iene o da leoni, la guerra è una mattanza
agghiacciante.
La descrizione che Andromaca fa del suo ménage domestico, quale moglie di
Ettore, ha punti di contatto con le due famose rheseis di Medea e di Fedra. Nella
Medea la protagonista spiega che la condizione di una donna è molto difficile:
totalmente dipendente dal marito, una moglie deve solo augurarsi che lo sposo
assegnatole dalla sorte non le si imponga con asprezza; in caso contrario, meglio
morire. Anche Fedra, ripercorrendo la propria vicenda, insiste sul fatto che una donna
è particolarmente esposta al biasimo, qualora la sua condotta privata non sia
irreprensibile. Sia Medea che Fedra (soprattutto Medea) hanno un atteggiamento
abbastanza polemico, si sentono in credito con la sorte: la condizione femminile - di
cui esse partecipano, naturalmente - appare loro come una veste fin troppo stretta.
Andromaca, quando allude allo ψόγος da cui le donne sono così facilmente colpite,
non esprime concetti diversi. Euripide però concepisce il suo personaggio come la
diretta proiezione dell’Andromaca di Omero, come una donna nata per essere moglie
e madre: dunque, in lei l’accettazione del ruolo femminile (così come la cultura greca
classica lo percepisce) è incondizionata.
Anche nell’Andromaca la protagonista è un vero e proprio modello di virtù
domestiche. Nell’agone inziale con Ermione, Andromaca impartisce alla rivale una
vera e propria lezione su come deve comportarsi una buona moglie: “Non è la
bellezza che allieta il marito, ma una condotta virtuosa. Tu invece, se c’è qualcosa
che ti infastidisce, cominci subito a dire che Sparta è una gran città, e Sciro non val
nulla, che sei venuta a stare - tu ricca - in mezzo a dei pezzenti; e Menelao per te è
più grande di Achille. È per questo che tuo marito ti odia. Una donna infatti, anche se
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le è toccato un marito dappoco, deve amarlo, senza entrare in competizione con lui.
Se tu fossi la moglie del re della Tracia nevosa, dove un uomo divide il suo letto con
molte donne, le uccideresti tutte?” (vv. 207-218). E subito dopo Andromaca ricorda
che proprio per questo, ai tempi felici del suo matrimonio con Ettore, non contristava
il marito, attirandolo a sé sempre più con la sua virtù.
Lettura e commento dei vv. 657-683. Ermione rimprovera proprio questo alla
rivale in Andromaca 170-173: “Sei arrivata a una tale insensatezza, sciagurata, che
osi dormire con il figlio dell’uomo che uccise tuo marito, e dare nuova prole a un
assassino”; subito dopo, Ermione spiega che però non c’è da meravigliarsi troppo,
perché i costumi sessuali dei barbari sono bizzarri e scandalosi, e consentono anche le
promiscuità più turpi [è un passo interessante: Euripide, che vuole caratterizzare
negativamente Ermione in quanto spartana, le attribuisce rozzi pregiudizi razzisti, che
sono la proiezione negativa di quell’opposizione Greci - barbari ormai affermatasi
nell’immaginario greco]. Naturalmente, se la frase di Ermione è stupida e sguaiata,
l’angoscia di Andromaca è autentica e commovente.
v. 663. Ancora un riferimento omerico. Ettore e Andromaca nell’Iliade sono
figure assolutamente speculari, si corrispondono perfettamente: Euripide allora ha
buon gioco nell’attribuire alla sua Andromaca la preoccupazione - tipica di Ettore
nell’Iliade - di non apparire kak» (non nel senso di “vile”, bensì di “colpevole”).
vv. 690-91. Lo scafo che imbarca acqua, il timone rotto o inefficiente, le vele
aggrovigliate o lacerate, sono i tre elementi tradizionalmente che descrivono gli
effetti della tempesta a bordo di una nave. Ritornano, per esempio, nel fr. 326 V. di
Alceo, che diventa poi un modello canonico per siffatte descrizioni: vv. 4-9 “L’acqua
raggiunge il piede dell’albero, la grande vela è spaccata, e ridotta a grossi brandelli, le
funi sono allentate e il timone [è guasto]”.
vv. 706-708. Sono una sorta di didascalia scenica. Nella tragedia è normale che
un personaggio che entra in scena, sia “salutato” dal Corifeo o da un attore, in modo
tale che il pubblico lo possa identificare facilmente; o almeno, così avviene quando il
nuovo arrivo pone fine a una conversazione e determina il passaggio a un nuovo
tema. Non c’è presentazione, invece, per gli ingressi in scena immediatamente
successivi a uno stasimo. Si è sostenuto che questi annunci (per i quali si fa
immancabile ricorso a dimostrativi deittici) non fossero solo elementi di semiotica
teatrale, ma avessero anche la funzione pratica di “coprire” l’intervallo di tempo
necessario perché l’attore, già visibile al pubblico appena varcata l’eisodos,
raggiungesse il centro dell’orchestra. Però, l’annuncio accompagna l’entrata in scena
anche nel caso in cui il personaggio entri da una porta dell’edificio scenico.
v. 737. Il participio sigîsa è amaramente ironico: Taltibio invita Andromaca
a osservare ancora una volta quella norma del silenzio cui si è sempre attenuta nella
sua vita familiare. Ora però si tratta di accettare in silenzio una decisione che cancella
quanto ancora resta della sua famiglia, e la distrugge completamente come moglie e
come madre. La morte orribile del piccolo Astianatte è soggetto favorito dell’arte
greca, fin dall’età arcaica: di solito, nella ceramica è accostata a quella di Priamo.
Euripide da prova di un’intuizione poetica eccezionale: pone al centro della tragedia
(e dell’intera trilogia) una scena che i Greci avevano negli occhi e nel cuore,
sfruttandone per intero la carica emotiva.

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