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a una norma poetica che riserva a ogni eroe un momento - almeno - di grandezza
guerriera.
Nel II canto, occupato nella prima parte dalla descrizione dell’assemblea, i vv.
100-108 si riferiscono al momento in cui Agamennone prende la parola:
Questi due passi già “lanciano” il senso che il poeta vuole dare alla vicenda degli
Atridi: un modello e un precedente per Telemaco (che deve imitare Oreste), e per
Odisseo stesso (che deve evitare di imitare Agamennone). Nel contempo, l’implicita
sovrapposizione di Egisto (sordo agli avvertimenti di Ermes), dei compagni di
Odisseo (rovinati dalla loro insensata empietà) e dei pretendenti di Penelope
(ostinatamente risoluti ad appropriarsi di ciò che appartiene ad altri) fa intravedere
come finirà la storia e traccia una linea di moralità nell’interpretazione dei fatti.
La morte di Agamennone viene raccontata nell’Odissea tre volte: da Nestore
nel III canto, da Menelao (che riferisce le parole di Proteo) nel IV, e dall’ombra
stessa di Agamennone nell’XI. Il racconto di Nestore è quello che più rilievo dà
all’amore colpevole di Egisto e Clitennestra: è la cronaca di una love story, con
l’elemento - vagamente romanzesco - del cantore incaricato dal marito della
sorveglianza della moglie. Nestore non racconta invece l’uccisione vera e propria: il
fuoco della narrazione si sposta su Menelao, di cui viene spiegata l’assenza, e quando
il narratore torna a occuparsi di Agamennone, l’uccisione si è già compiuta, e Nestore
si limita a dire che per sette anni Egisto regnò su Micene, opprimendo il popolo.
Nestore è molto “didattico”: narra i fatti per Telemaco, e vuole “pilotare” la reazione
del ragazzo. Quindi, sottolinea la lontananza di Menelao, la volubilità di Clitennestra
(che, pur dotata di buon sentimento, alla fine si lascia sedurre), la splendida azione di
Oreste. Il senso è chiaro: Telemaco non deve stare via da casa troppo a lungo, non
deve fidarsi troppo né di sua madre né dei servi (per quanto devoti), deve tenersi
pronto a intervenire di persona, con l’aiuto di Atena (dal momento che gli dèi, in
questi casi, sono certamente dalla parte dei legittimi eredi). Una vera e propria
parenesi per immagini.
Il racconto di Proteo/Menelao integra, si direbbe, quello di Nestore, perché
aggiunge proprio l’elemento che in quello manca: i particolari tecnici dell’uccisione.
La vicenda viene spogliata di ogni elemento romantico, Clitennestra non viene
neppure nominata: è un fatto d’armi, un agguato sanguinoso e sagace [per certi versi,
ricorda l’episodio di Bellerofonte, che uccide in Licia gli armati mandati contro di lui
dal suocero di Preto]. Si accenna comunque alla vendetta di Oreste: benché ridotto
alle sue dimensioni militari, il racconto è pur sempre destinato alle orecchie di
Telemaco, quindi conserva una dimensione parenetica.
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Lettura e commento dei vv. 9-28. La scena assembleare è una scena “tipica”; è altresì
un “tema” epico, utilizzato per avviare nuove linee d’azione. Nell’Iliade gli altri
esempi più rilevanti sono le scene dei canti I, II, XIX. Lo schema prevede che uno dei
capi (Achille, Agamennone, Ettore) convochi tutto l’esercito, tramite araldi (ma in I
50 gli araldi non sono nominati) e poi, quando tutti sono seduti, si alzi a parlare,
impugnando lo scettro; possono intervenire altri principi, e la discussione può essere
ampia, ma la truppa non ha diritto di parole; alla fine l’esercito esprime la sua
approvazione, o la sua approvazione si dà per acquisita. Scene assembleari sono
descritte anche nell’Odissea: l’assemblea degli Itacesi (che dà l’avvio ai viaggi di
Telemaco) all’inizio del II canto, quella dei Feaci (che decide il ritorno in patria di
Odisseo) all’inizio dell’VIII.
v. 12. Anche in Il. X 67-69 dà raccomandazioni particolari a Menelao su come
chiamare i capi Achei: affettuosamente, ricordando la discendenza di ciascuno, senza
alcuna boria o tracotanza.
vv. 14-15 Sono identici a Il. XVI 3-4 (Patroclo arriva in lacrime alla tenda di
Achille). Le lacrime non sono in alcun modo disdicevoli per un eroe: nei momenti di
intensa affettività il pianto è normale (basta ricordare le scene del IV canto
dell’Odissea, quando a Sparta tutti piangono, ricordando parenti e amici morti o
scomparsi, o il pianto di Odisseo all’udire i canti di Demodoco, o il pianto straziante
di Achille per la morte di Patroclo, o la scena patetica del XXIV dell’Iliade). In Il.
XVI 7-10 Achille rimprovera Patroclo, paragonandolo a una fanciullina che si stringe
alla gonna della mamma, ma il motivo non è il pianto in sé, bensì il fatto che Patroclo
mostri tanto affetto per persone che Achille ha allontanato dal suo cuore.
vv. 18-28. Sono identici a Il. II 111-118 e 139-141. Gli studiosi si sono chiesti
se non ci sia intento umoristico, da parte del poeta, nel far ripetere ad Agamennone,
questa volta con intenzioni serie e in una circostanza drammatica, quella stessa analisi
che nel II canto alimenta una finzione. Probabilmente non è così: semplicemente, il
poeta riusa lo stesso materiale espressivo perché il “tema” è lo stesso (anche se la
condizione psicologica del personaggio è ben diversa). Agamennone esprime
propositi di fuga (usando espressioni assai simili, seppur non identiche) anche in XIV
65-81, quando viene rimbrottato da Odisseo. Dunque, la corda della rinuncia fa parte
della sua cetra, appartiene al personaggio (e la tragedia coglie benissimo questa sua
debolezza di carattere). Perciò, una nota umoristica può se mai essere presente nella
scena del II canto, quando Agamennone dice per finta cose che molte altre volte ha
detto sul serio.
Lettura e commento dei vv. 29-49. Al v. 29 la reazione di silenzio è espressa da
una formula molto frequente (10 occorrenze nell’Iliade, 6 nell’Odissea).
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poeta sa che ora non deve indugiare oltre, ma arrivare rapidamente al motivo centrale.
Diversa è la situazione un centinaio di versi più avanti, quando Odisseo, Aiace e
Fenìce si presentano alla tenda di Achille: prima che l’ambasceria si dispieghi, è
giusto che la tensione si stemperi, e vi provvede la lunga e insistita scena
d’accoglienza. Achille sta suonando la cetra e cantando le gesta degli eroi, mentre
Patroclo gli siede accanto in silenzio; l’eroe fa entrare i tre, e dà disposizione per la
preparazione del banchetto. Patroclo porta il cratere del vino e la carne, che Achille e
Automedonte tagliano a pezzi e infilano sugli spiedi. Patroclo accende il fuoco e,
quando la fiamma è consunta, pareggia le braci e vi stende sopra gli spiedi. Quando la
carne è cotta, Achille la distribuisce ai commensali, mentre Patroclo distribuisce il
pane nei canestri. Le offerte agli dèi vengono gettate nel fuoco, e tutti allungano le
mani sul cibo pronto e servito (i vv. 221-22 sono identici ai vv. 91-92). Il banchetto
offerto da Achille ai tre ambasciatori è un esempio di scena “tipica” d’accoglienza.
La sequenza più o meno è congegnata così: l’ospite viene introdotto in casa e fatto
accomodare, gli viene servito cibo e bevanda, e poi - dopo che si è rifocillato - si
comincia a parlare, gli si chiede chi è e perché è venuto. La sequenza è la stessa sia
che si tratti di un estraneo sia che si tratti di persona nota e amica (ma in questo caso,
ovviamente, non gli viene chiesto il nome). Nell’Odissea le scene d’accoglienza sono
molte, sono una sorta di refrain; anzi, si può dire che il tema dell’accoglienza e
dell’ospitalità, con tutte le sue implicazioni, sia il motivo conduttore dell’intero
poema. Nell’Iliade sono meno numerose e sono sempre connesse con conversazioni o
discussioni militari.
v. 97. I commentatori osservano che Nestore usa una formula normalmente
impiegata nella poesia innodica per apostrofare un dio: cf. Inni Omerici I 18 (“noi
aedi ti [cioè Dioniso] cantiamo all’inizio e alla fine”), XXI 4 (“l’aedo canta sempre te
[cioè Apollo] per primo e per ultimo”); Esiodo, Teogonia 34 (le Muse hanno ordinato
a Esiodo di cantare la stirpe degli dèi, ma esse per prime e alla fine, sempre). Si tratta
di una vera formula liturgica, che vuole sottolineare in modo solenne la centralità del
dio di cui si celebra la festa e si cantano le gesta gloriose. In bocca a Nestore, è segno
di squisita cortesia e omaggio. Peraltro, la condiscendenza che Nestore mostra nei
confronti di Agamennone non è gratuita: il re, proprio perché è depositario di un
indiscusso primato, ha il dovere di pensare meglio degli altri [e quindi, quando è
necessario, di sacrificarsi per il bene comune].
vv. 106-107. Il racconto del I canto presenta i fatti in modo diverso: ai vv. 318-
25 Agamennone - dopo che l’assemblea si è sciolta - ordina ai suoi fidi araldi e
scudieri Taltibio e Euribate di andare alla tenda di Achille e chiedere la consegna di
Briseide; aggiunge che, se Achille non vorrà consegnarla, andrà lui in persona, con
gran seguito di uomini, e per Achille la sconfitta sarà ancora più amara. Nei versi
successivi questi ordini vengono eseguiti: i due si incamminano, pur a malincuore,
trovano Achille seduto davanti alla tenda e non hanno il coraggio di parlargli; Achille
però subito capisce il motivo della loro venuta e ordina a Patroclo di andare a
prendere Briseide. La giovane donna segue ἀέκουσα i due araldi, e Achille invoca sua
madre, perché lo aiuti a vendicarsi. Nestore, per rimarcare l’ingiustificata protervia di
Agamennone, parla come se davvero fosse stato lui a strappare materialmente la
donna ad Achille.
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Dodds spiega che ciò non implica un determinismo (concetto di per se stesso estraneo
alle categorie percettive arcaiche): semplicemente, la deviazione dalla norma è
“descritta” come esito di una forza esterna (divina) che si introduce nella persona.
Altro esempio è l’episodio dello scambio delle armi nel VI canto dell’Iliade: Glauco
accetta di scambiare armi d’oro con armi di bronzo perché Zeus gli toglie il senno.
Che Zeus tolga il senno o Ate accechi, non è in realtà diverso: sono varianti
“poetiche” di una medesima idea.
vv. 121-30. Questo catalogo di doni dà una chiara idea di che cosa si intenda
per ricchezza nella società omerica. Liste analoghe si trovano - per esempio - in Il.
XXIV 229-34 (12 pepli, 12 mantelli, 12 coperte, 12 drappi di lino, 12 tuniche, 10
talenti d’oro, due tripodi, quattro lebeti, una coppa: il riscatto che Priamo intende
offrire ad Achille per riavere il corpo di Ettore), Od. IV 128-35 (i doni offerti a
Menelao ed Elena dai re di Tebe Egizia: due vasche d’argento, due tripodi, 10 talenti
d’oro, oggetti vari d’oro e d’argento), IX 202-205 (i doni di Maron: 7 talenti d’oro,
un cratere d’argento, oltre a 12 anfore di vino). Rispetto a queste liste, l’offerta di
Agamennone è particolarmente generosa: perché l’Atride vuole che non ci siano
scuse per Achille, in caso di rifiuto, e perché si tratta anche di affermare la sua
sovranità. [Il tripode è un oggetto dalla forte connotazione sacra. Sappiamo che la
dedica di tripodi d’oro era tradizionale nei santuari, in particolare apollinei. Sappiamo
che l’Ismenion di Tebe era famoso per questi preziosi anathemata; ma ciò avveniva
anche anche a Delfi (dove il tripode interviene anche nel rituale mantico)].
Lettura e commento dei vv. 135-161. Tra le figlie di Agamennone non è
menzionata Elettra (che non compare mai in Omero). Ifianassa è, con ogni
probabilità, una variante di Ifigenia; nelle Ciprie, per mettere d’accordo la variante
omerica del nome con quella più diffusa, si parla di quattro figlie di Agamennone
(Ifianassa e Ifigenia sono due persone diverse). Hainsworth pensa che l’onomastica
omerica si rifaccia a una tradizione orientale o ionica, contrapposta ad una
occidentale o continentale (in cui c’è invece Elettra, al posto di Laodice).
vv. 149-56. Le sette città menzionate da Agamennone sono “vicine a Pilo
sabbiosa”, il che sembrerebbe qualificarle come parte del reame di Nestore. Però
nessuna di esse compare nel Catalogo delle navi del II canto tra le città che
compongono la flotta di Nestore, e neppure fanno parte della Laconia di Menealao (il
reame miceneo più vicino, territorialmente). Cfr. Il. II 581-590: nove città della
Laconia (Fari, Sparta, Messe, Brisea, Augea, Amicle, Elo, Laa, Etilo) danno 60 navi,
sotto il comando di Menelao; 591-602 nove città della Messenia/Trifilia (Pilo, Arene,
Trio, Epi, Ciparissunte, Anfigenia, Pteleo, Elo, Dorio) danno 90 navi, sotto il
comando di Nestore. Queste sette città elencate da Agamennone si dispongono,
invece, lungo la costa del golfo Messenico (ad est e a ovest della moderna Kalamata),
in una sorta di zona neutra che divide il regno di Nestore da quello di Menelao. Di
esse, Pherai è menzionata anche in Od. III 488 e XV 186, come tappa nel viaggio di
Telemaco e Pisistrato da Pilo a Sparta e viceversa; ma non si parla della sua
appartenenza politica. Allora, l’espressione di v. 153 nšatai Pύlou ºmaqÒentoj si
deve intendere, probabilmente, nel senso “subito oltre i confini di Pilo sabbiosa”. Ma
perché Agamennone può disporre di città che non fanno parte del suo regno? Sono
possibili varie risposte. Una è che questi versi si riconducano a una versione del mito
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Lettura e commento dei vv. 385-403. Già si è visto che questa è la terza
versione della morte di Agamennone, dopo quelle di Nestore e Proteo/Menelao. In un
certo senso, è una sintesi delle altre due, perché contiene elementi di entrambe.
L’anima dell’Atride compare insieme a quelle dei compagni, che condivisero la sua
sorte: poi si parla del banchetto offerto da Egisto, che è in realtà una trappola, nella
quale Agamennone trova la morte “come un toro ucciso alla greppia”; e un’immagine
analoga si applica anche ai compagni, scannati come cinghiali di cui si imbandisce la
carne in un’occasione di festa. In IV 529-37 Egisto prepara un banchetto per
Agamennone e per i suoi, ma nasconde nella sala venti armati, che al momento buono
si gettano sopra i commensali e li massacrano. Il verso IV 535 è identico a IX 411:
l’immagine del toro ucciso alla greppia evoca un subitaneo e orrido rovesciamento
dei ruoli, per il quale il cacciatore diventa preda, chi deve nutrirsi finisce per nutrire il
suo nemico. Lo stesso immaginario è ripreso ai vv. 419-20: i commensali giacciono
morti accanto al cratere pieno di vino e alle mense colme di carne; al fumo delle carni
arrostite si sostituisce il fumo del sangue, e non sono gli invitati a bere il rosso vino,
ma il pavimento del megaron a bere il loro sangue.
Con la versione dei fatti data da Nestore il racconto di Agamennone condivide
un altro elemento: la complicità di Clitennestra. Nel passo della nekyia le colpe della
donna sono rimarcate con decisione (e in tono di totale condanna: Agamennone
prova odio furibondo per sua moglie), mentre Nestore è più sfumato; ma in III 265-72
si dice con chiarezza che Clitennestra, dopo un’iniziale resistenza, si lasciò sedurre da
Egisto e lo seguì consenziente (τὴν δ’ ἐθέλων ἐθέλουσαν ἀνήγαγεν ὅνδε δόμονδε).
Novità dell’XI canto è la presenza in scena di Cassandra: né Nestore né
Proteo/Menelao la menzionano.
vv. 401-403. Odisseo attribuisce ad Agamennone un’azione che potrebbe
essere definita piratesca: una razzia simile a quella che Odisseo stesso opera a danno
dei Ciconi nel IX canto. D’altra parte la pirateria non è un’attività disdicevole, nella
società arcaica. Tucidide (I 5) dice che nei tempi antichi i Greci e i barbari abitanti le
regioni costiere e le isole, quando i traffici per mare cominciarono a intensificarsi, si
volsero alla pirateria: piombando all’improvviso sulle città indifese, in quanto non
protette da mura, e sulle popolazioni disperse in villaggi, le saccheggiavano e
traevano da questa attività la maggior parte dei mezzi di sostentamento. Lo storico
aggiunge che la pratica della pirateria non comportava una squalifica sociale, anzi era
motivo di una certa gloria; e a dimostrazione di ciò, nota che “presso gli antichi
poeti” [evidentemente, allude all’epica] dovunque gli eroi approdino, si sentono
rivolgere sempre la stessa domanda , “siete pirati?”, senza che questa interrogazione
appaia offensiva o vergognosa né a chi interroga né a chi è interrogato. Tucidide
osserva anche che alcuni Greci del continente ancora al suo tempo si vantano di
essere pirati valenti (i Locri Ozolii, gli Etoli, gli Acarnani) e continuano a vivere alla
maniera antica. Certo, lo storico esagera un tantino, quando dice che, ogni volta che
un eroe arriva da qualche parte, c’è qualcuno che gli chiede se è un pirata. In realtà,
questa situazione si ripresenta solo tre volte: Od. III 71-74, IX 252-255, Inno ad
Apollo 452-55 (e la domanda, sempre la stessa, è rivolta rispettivamente da Nestore a
Telemaco, da Polifemo a Odisseo, da Apollo ai marinai cretesi). Una delle scene
effigiate sullo scudo di Achille è un’azione di guerra in cui un gruppo di armati tende
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Pitica XI di Pindaro, composta forse nel 474 (la data alternativa è il 454), il cui
inserto mitico è una rapida narrazione (selettiva, come sempre in Pindaro) della morte
di Agamennone: si è ipotizzato che anche questo carme sia una fonte di Eschilo.
Vediamo i vv. 15-37:
“donna spietata” che con il “lucido bronzo” uccide Cassandra, e solo il provvido
intervento di Arsìnoe sottrae ai suoi colpi il piccolo Oreste.
Pindaro applica a Clitennestra un formulario epico che le dà uno statuto quasi
eroico, certamente uno statuto virile. E i motivi della sua condotta, così violenta e
“nera”, sono incerti, vaghi: Clitennestra è una sorta di angelo sterminatore, di demone
funesto. Tutto ciò è molto eschileo: anche in Eschilo Clitennestra è la “donna non
donna”, la femmina dal cuore virile; dopo la morte del marito, essa spiega che ha
voluto fare vendetta del sacrificio di Ifigenia, e accenna anche con sarcasmo alle
innumerevoli concubine di Agamennone, l’ultima delle quali, Cassandra, ha
giustamente condiviso la sorte dell’amante. Quindi, i comportamenti di Clitennestra
sono ricondotti, anche in Eschilo, alla vendetta e alla gelosia, oltre che all’amore per
Egisto: ma questi sentimenti sono la spiegazione psicologica di un ruolo dai connotati
più profondi e oscuri. Vendetta e gelosia sono la “sovradeterminazione” di potenze
soprannaturali, che presiedono al destino degli Atridi: Clitennestra è l’alastor, il
cattivo genio, di Agamennone.
È anche notevole che in Pindaro la sede di Agamennone sia Amìcle (e Oreste è
detto “Lacedemone”). Pindaro non inventa nulla: la tradizione che vuole
Agamennone re di Sparta (o di un distretto spartano) è antica; ma il poeta la adotta
per ragioni politiche, per assecondare il riavvicinamento a Sparta che Tebe sta
tentando in questi anni. Assolutamente simile (ma di segno opposto) è la decisione di
Eschilo di ambientare la scena ad Argo: dopo la breve stagione successiva alla
vittoria di Platea, l’inimicizia tra Atene e Sparta si va approfondendo, e Atene tenta di
consolidare un’alleanza con la tradizionale rivale di Sparta nel Peloponneso, Argo.
Certo, c’è il problema della datazione: se la Pitica è del 474, può essere fonte di
Eschilo; se viceversa è del 454, è Eschilo fonte di Pindaro.
Schema dell’Agamennone
prologo – la sentinella vede finalmente il segnale di fuoco che annuncia la presa di
Troia)
parodo – lungo canto del Coro, che evoca i fatti d’Aulide, il sacrifico di Ifigenia la
profezia di Calcante
primo episodio – Clitennestra comunica al Corifeo la vittoria degli Achei
primo stasimo – la colpa di Paride è stata punita, poiché sempre gli dèi sono vindici
delle violenze commesse dai mortali
secondo episodio – un Araldo preannuncia l’imminente arrivo di Agamennone
trionfatore; ricorda le asprezze della guerra, ma si dice certo che ormai il peggio è
passato; Clitennestra saluta il messo e rientra nel palazzo, per preparare - dice - una
degna accoglienza allo sposo; il Corifeo chiede notizie di Menelao, e l’Araldo
riferisce della tempesta che si è abbattuta sulla flotta achea, disperdendola e
distruggendo molte navi
secondo stasimo – Elena, insinuandosi nella città di Troia e nella famiglia regnante,
vi ha impiantato la rovina; Dike abbatte sempre l’hybris
terzo episodio – il Corifeo saluta Agamennone; poi prende la parola l’Atride, e gli
risponde Clitennestra; Agamennone accetta di entrare nel palazzo camminando sopra
la porpora
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terzo stasimo – il Coro ha visto il ritorno vittorioso del re, ma il suo cuore è oppresso
da cupi presagi
quarto episodio – profezia di Cassandra
quinto episodio – si sentono le grida di Agamennone, colpito a morte: Clitennestra
esce fuori, con i corpi di Agamennone e Cassandra, e racconta come ha ucciso il
marito; arriva Egisto, e c’è un attimo di tensione tra lui e il Coro
Lettura e commento dei vv. 810-854. vv. 815-17. L’immagine del voto si
connette alla prassi attica: i giudici avevano a disposizione due urne, una per la
condanna e una per l’assoluzione, e deponevano il voto in una delle due, senza dare
visibilità alla loro scelta. Questi versi preludono al giudizio delle Eumenidi, in cui i
giudici dell’Areopago sono chiamati a decidere della colpevolezza o dell’innocenza
di Oreste. Ma si può cogliere anche una suggestione epica; nel XXII dell’Iliade,
mentre Achille ed Ettore stanno per affrontarsi, Zeus pesa su una bilancia le loro
sorti: dunque, la vittoria (o la sconfitta) in un conflitto tra mortali è ricondotta a una
decisione divina.
vv. 830-31. Agamennone si riferisce alla battuta (in anapesti) del Corifeo ai vv.
782-808: il Corifeo si rivolge al suo re con deferenza, ma dice di non volersi
comportare come coloro che fingono di gioire per la vittoria, dopo avere a lungo
dubitato della assennatezza del sovrano. Tutta la prima parte della tragedia è intessuta
di allusioni, di mezze frasi, che fanno riferimento alla situazione difficile, e ambigua,
creatasi ad Argo in assenza del re. La vittoria di Agamennone, annunciata dal segnale
di fuoco proprio all’inizio del dramma, dovrebbe essere il lampo che illumina la
tenebra, ma non è così: il trionfo non spazza via i problemi, al contrario riconsegna il
re ai suoi veri nemici. L’ambiguità è massima (una vera ironia tragica) nelle battute di
Clitennestra, ma balena nelle parole di tutti i personaggi.
vv. 848-50. Le immagini mediche rimandano alla diffusione che la medicina ha
nel V secolo, in tutta la Grecia. Nelle Eumenidi Apollo (vv. 658-61) espone un’ardita
teoria genetica; nel Prometeo uno dei meriti del Titano è la scoperta dell’arte medica.
“Bruciare” e “tagliare” sono le tipiche azioni del medico, nell’immaginario comune:
riassumono il mistero stesso della medicina, che fa il bene del paziente infliggendogli
un male benefico (Gorgia di Platone).
Riassunto dei vv. 855-876; lettura e commento dei vv. 877-913. Nei vv. 910-13
si addensano le ambiguità. La “casa insperata” è il palazzo di Argo (dove
Agamennone più non sperava di fare ritorno), ma è anche la dimora dei morti, dove il
sovrano certo non si aspetta di scendere. L’assicurazione che “quanto è destino che
avvenga, coll’aiuto degli dèi lo disporrà la mia vigile mente”, suona sinistramente
minacciosa per chi conosce il vero stato d’animo della regina: è un esempio
chiarissimo di “ironia tragica”.
Perché Clitennestra vuole che Agamennone calpesti i tessuti di porpora? Per
quanto paradossale possa sembrare, la ragione è religiosa: la regina vuole che suo
marito si macchi di una colpa manifesta (commetta un’hybris), per meritarsi la
punizione divina: quella punizione di cui lei stessa si accinge a farsi strumento. Nella
saga degli Atridi c’è continuamente questa alternanza di ruoli: chi di volta in volta
esercita un’azione di vendetta, ha consapevolezza di interpretare la figura del vindice:
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I temi del dramma (e quindi gli spunti di riflessione e di discussione) sono molti. Uno
certamente è l’approccio, tipicamente euripideo, al mito: il poeta tenta di “leggere
dall’interno” la vicenda, dando spazio di volta in volta agli stati d’animo dei
personaggi. L’eroe, quindi, non è percepito come l’icona di uno o più valori (positivi
o negativi), ma come una “macchina” di sentimenti, pulsioni, desideri: e il mito in cui
l’eroe è calato non è il “prodotto” dell’eroe, ma l’ “ambiente” cui l’eroe reagisce,
dispiegando la sua affettività. Ossia, i personaggi hanno una profondità psicologica e
una storia psicologica, non sono uguali a se stessi: sono contraddittori, mutevoli,
problematici. Lo si vede molto bene nel primo episodio, in cui Agamennone e
Menelao cambiano continuamente parere, sull’onda dei sentimenti. Il mito,
ovviamente, è fisso: Ifigenia deve essere sacrificata, perché la flotta deve partire (e
Troia deve essere distrutta). Ma c’è una sorta di discrasia tra la sequenza degli eventi
(che corrisponde a un copione immutabile, fissato ab aeterno) e l’atteggiamento dei
personaggi. È come se i personaggi facessero di tutto per non reagire come il mito
prevede che reagiscano: la vicenda prende le forme che deve prendere nonostante i
personaggi (e non per volontà dei personaggi).
Il lungo dialogo tra i due Atridi è passibile anche di una lettura “politica”. La
decisione ultima di Agamennone (che è il responsabile supremo dell’esercito) finisce
per corrispondere alle esigenze della collettività, ma non è – in definitiva – l’esito di
una vera assunzione di responsabilità: è piuttosto la sommatoria di una serie di
egoismi, di sotterfugi, di fughe, di compromessi. Vi si può quindi cogliere una sorta
di bocciatura della politica, che non viene presentata come l’arte di individuare e
perseguire il bene comune, ma come una approssimativa frenesia tesa a trarsi
d’impaccio.
Il personaggio di Ifigenia è pure sviluppato secondo modelli teatrali ben
collaudati. È una donna che accetta il sacrificio di sé, per la salvezza di altri: come
Alcesti (che sceglie di morire al posto del marito Admeto), come la Macaria degli
Eraclidi (che offre spontaneamente la sua vita, quando Demofonte spiega che
bisogna sacrificare una vergine alle Due Dee), come Polissena nell’Ecuba (che
avendo saputo di dover essere sacrificata sulla tomba di Achille, accetta eroicamente
la sua sorte, senza neppure tentare di commuovere Odisseo, e poi si comporta con
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mai mi accada di porre qualcuno a capo di una società o di un esercito per ragioni di
nascita! A chi comanda serve l’intelligenza.
CORIFEA È tremendo quando tra fratelli scoppiano discussioni e contrasti.
AGAMENNONE Intendo accusarti, ma nei dovuti modi: con un discorso breve,
misurato, senza alzare il sopracciglio e senza intemperanze, come si deve fare verso
un fratello. Un uomo virtuoso ama il riserbo. Perché, dimmi, spiri collera furente?
Perché hai gli occhi iniettati di sangue? Chi ti fa torto? Che cosa vuoi? Sogni di avere
una sposa onesta? Non te la posso procurare. Quella che avevi, l’hai mal governata.
Dovrei pagare io il prezzo dei tuoi errori, io che non ho mancato? O ti brucia il mio
prestigio? No, tu vuoi tenere tra le braccia la tua seducente consorte, anche a costo di
mettere da parte buon senso e decoro. Eh già, gli esseri meschini amano i bassi
piaceri. Quanto a me, se in precedenza mi ero comportato senza discernimento e poi
mi sono ravveduto, è un segno di follia? Tu piuttosto mi sembri pazzo, tu che avendo
perduto una sposa indegna te la vuoi riprendere, mentre gli dèi ti offrono la felice
opportunità di liberartene. Quando i pretendenti di Elena resero a Tindaro quel
famoso giuramento, l’ambizione delle nozze li aveva resi ciechi. Fu, credo, la
speranza, che è una dea, a indurli alla promessa ben più che tu e il tuo potere. Su,
prendi quegli uomini, muovi alla guerra insieme a loro: sono pronti, tale è la follia
della loro mente. Invece la divinità non è stolta, ma sa riconoscere i giuramenti iniqui,
estorti con la forza. Io non ucciderò i miei figli, mai non sarà che tu ottenga
un’ingiusta felicità col trar vendetta per una moglie spregevole e invece io debba
struggermi in lacrime giorno e notte per aver agito contro ogni legge e senso di
giustiziata danno dei figli che ho generato. Ho detto quel che dovevo dire: in poche
parole, chiare e semplici. Se non vuoi rinsavire, io disporrò le mie cose per il meglio.
CORIFEA Ecco un discorso ben diverso da quello precedente. Sì, sono d’accordo:
non si deve fare il male dei propri figli.
Agamennone entra in scena, chiamato dalle grida del Vecchio, e i due fratelli si
affrontano. Inizia l’agone, un modulo scenico molto caro a Euripide e applicato in
quasi tutte le sue tragedie. Lo schema dell’agone – nella sua configurazione standard
– prevede una coppia di rheseis, pronunciate dai due interlocutori, con commenti
intercalari del Corifeo, una seconda coppia di interventi più brevi (che può anche
mancare) e quindi uno scambio di battute a botta e risposta, di solito con tono
concitato o persino iroso. Per esempio, l’agone dell’Alcesti vede contrapposti Admeto
e Ferete, in occasione dei funerali di Alcesti. Il vecchio dice di volere rendere onore
alla donna che ha salvato la vita di suo figlio, ma Admeto lo attacca duramente, con
un lungo discorso di accusa; Ferete replica, con altrettanta durezza (tra le due rheseis
una coppia di versi pronunciati dal Corifeo); altri due versi del Corifeo, e poi una
feroce sticomitia, al termine della quale Ferete si allontana con parole di oscura
minaccia, e Admeto gli urla dietro insulti.
L’agone dell’Ifigenia è introdotto da una sticomitia, cui seguono le due rheseis.
Il metro è il tetrametro trocaico catalettico. Aristotele nella Poetica spiega che questo
era il verso della tragedia alle sue origini: “All’inizio si usava il tetrametro, poiché la
poesia era satiresca e maggiormente legata alla danza; ma poi, affermandosi lo stile
parlato, la natura stessa trovò il metro più appropriato: infatti il giambo è, tra tutti i
24
metri, il più adatto al parlato (e lo prova il fatto che, nel parlare, pronunciamo molti
giambi)”. Euripide usa il tetrametro trocaico soprattutto nelle ultime tragedie,
arcaizzando.
Il discorso di Menelao è sapientemente costruito, secondo i canoni dell’arte
retorica. Abile è già l’introduzione: Menelao si pone come colui che vuole
costringere l’altro ad accettare la verità, e promette che non gli ci vorrà troppo tempo
per spiegare come stanno veramente le cose. Come a dire: “I fatti parlano da sé,
senza bisogno di troppi giri di parole”; e infatti il discorso poi si articola in una
narratio dei fatti che contiene anche l’argumentatio. La prima parte è la cronaca del
comportamento di Agamennone prima della sua elezione a capo dell’esercito: umiltà,
diponibilità con tutti, grandi profferte di amicizia. Un κᾆτ’ introduce il mutamento di
condotta, dopo il conseguimento della carica: spocchia, superbia, anche con i vecchi
amici. Lo stesso schema si ripete nella seconda parte, introdotta da αὖθις (il v. 349
ταῦτα μέν σε πρῶτ’ ἐπῆλθον, ἵνα σε πρῶθ’ ηὗρον κακόν fa da cerniera, chiudendo il
primo racconto): Menalao ricorda lo smarrimento di Agamennone, in Aulide, davanti
al problema rappresentato dalla bonaccia, le sue affannose richieste di aiuto e la sua
gioia dopo il responso di Calcante, che gli apriva di nuovo la strada verso la gloria.
Un secondo κᾆθ’ introduce il nuovo cambiamento di Agamennone, che ha portato
alla situazione attuale. La conclusione è chiara: Agamennone è un uomo inaffidabile,
uno che oggi la pensa in un modo e domani in un altro, cedendo all’impulso del
momento; proprio il contrario di quanto deve fare un vero capo, la cui prima qualità è
una mente ben salda.
Menelao compiange la Grecia, perché farà una pessima figura, costretta a
rinunciare a una grande impresa, e anzi si farà deridere dai barbari, fornirà loro
materia di riso. Qui è applicato il tema, topico nella letteratura greca successiva alle
guerre persiane, della superiorità dei Greci sui barbari e del diritto naturale che i
Greci avrebbero – proprio in virtù della loro superiorità – di dominare e signoreggiare
i barbari. In bocca a Menelao, attento solo al suo interesse, queste parole rivelano
tutta la loro falsità; sono vuota retorica. Euripide ama rifare il verso alla retorica
patriottarda, mostrandone il carattere ideologico e l’inconsistenza concettuale: nel
Ciclope Odisseo cerca di convincere Polifemo a fare buona accoglienza a lui e ai suoi
compagni ricordandogli i loro meriti quali eversori di Troia (hanno impedito così ai
barbari di invadere la Grecia e di distruggere i templi degli dèi); ma l’altro è
insensibile a questi discorsi (ed anzi giudica stupida una guerra combattuta per una
donna).
CICLOPE Allora, voi siete quelli che sono andati a Troia, vicino allo Scamandro, per vendicare il
ratto di quella poco di buono di Elena? […] Che guerra ridicola! Navigare fino alla terra dei Frigi
per una sola donna!
più forza suasiva alle sue parole. Opportunamente, Turato cita anche Platone,
Apologia di Socrate 34c, dove Socrate si rifiuta di ricorrere a simili trucchi (“pregare
e supplicare i giudici con le lacrime agli occhi, portando con sé anche i figli piccoli e
molti altri parenti e amici, per suscitare la massima compassione”). Plutarco nella
Vita di Nicia oserva che, nell’oratoria politica, Cleone fu il primo a trasformare la
tribuna in palcoscenico, ricorrendo a uno stile oratorio da attore (grida, gestualità
esaperata, frasi a effetto). Nelle Vespe Filocleone spiega che gli imputati sfruttano
ogni mezzuccio per guadagnarsi la simpatia dei giudici: “Se non ci lasciamo
convincere, tirano fuori i bambini, tenendoli per mano, maschi e femmine. E questi
piagnucolano a capo chino, mentre il padre mi prega come se fossi un dio,
pregandomi di assolverlo per amor loro dall’accusa: ‘Se ti commuovi a sentire la
voce di un agnellino, abbi pietà di mio figlio; se il vocino di questa porcellina non ti
lascia indifferente, da’ retta a mia figlia’. E noi allora cominciamo ad allentare la
rabbia” (vv. 568-574). Agamennone (a differenza dei giudici delle Vespe) rimane
freddo davanti al muto spettacolo dei figli, e Clitennestra non può far altro che
affrontarlo con argomentazioni.
La rhesis di Clitennestra si atteggia nelle forme di un atto di accusa nei
confronti del marito. Nella prima parte del discorso Clitennestra ricostruisce la
vicenda delle sue nozze con Agamennone, e mette in luce le colpe di lui: il racconto
delinea il ritratto di un uomo avido, crudele, pavido, l’esatto contrario di quel capo
coraggioso e responsabile che Agamennone pretende di essere. Per contrasto, emerge
la condotta irreprensibile di Clitennestra, sposa e madre esemplare. La seconda parte
della rhesis investe il futuro, le conseguenze del sacrificio di Ifigenia: che cosa
accadrà, si chiede Clitennestra, se Agamennone insisterà nel suo proposito insensato?
Dopo una nuova, rapida concessione al patetico (l’immagine della stanza di Ifigenia
desolatamente vuota), Clitennestra non esita a giocare la carta della minaccia: al suo
ritorno in patria, alla fine della guerra, l’eroe non troverà una buona accoglienza; i
suoi familiari non potranno certo mostrargli affetto. Il suo ritorno anzi sarà tanto
funesto quanto vergognosa sarà stata la partenza (v. 1187): una frase densa di
sottintesi, fortemente caricata di ironia tragica. La perorazione finale torna
sull’insensatezza del sacrificio di Ifigenia: perché scegliere proprio lei, si chiede
Clitennestra, e non affidarsi invece a un sorteggio, o meglio ancora costringere
Menelao a sacrificare sua figlia, visto che la spedizione è stata voluta da lui.
Le fonti arcaiche e classiche non fanno nessuna menzione di un primo
matrimonio di Clitennestra con Tantalo. Ne parla invece Apollodoro, Epitome 2.15
“Agamennone regnò su Micene e sposò la figlia di Tindaro Clitennestra, dopo avere
ucciso il suo precedente marito Tantalo, figlio di Tieste, insieme al loro bambino”.
Anche Pausania ne parla, e ricorda che le ossa di questo Tantalo erano conservate in
una grande urna di bronzo ad Argo. Euripide adotta questa versione della saga perché
gli permette di presentare le nozze di Agamennone e Clitennestra come una relazione
“malata” fin dalla sua origine: morte e crudeltà ne sono il marchio fandativo.
Clitennestra presenta se stessa come modello di “buona moglie”, casta nella
condotta personale e savia nell’amministrazione della casa. Un passo parallelo è
Troiane 647-656, dove Andromaca dice che proprio la sua fama di buona moglie l’ha
rovinata e illustra quale è sempre stata la sua regola di condotta: evitare di uscire e di
27
esporsi alle chiacchiere della gente, non dare retta ai discorsi frivoli delle altre donne
ma lasciarsi guidare dal proprio buon senso, parlare poco, mostrare al marito un volto
sereno, non pretendere di avere la meglio su di lui, se non nella sfera domestica.
Dopo la rhesis di Clitennestra, ci si aspetterebbe la replica di Agamennone,
secondo lo schema tipico dell’agone. Anche la battuta intercalare della Corifea,
rivolta all’eroe, va in questa direzione. Invece, inaspettatamente, prende a parlare
Ifigenia. Si può pensare che ci sia un attimo di silenzio, mentre tutti attendono che
Agamennone replichi, e che la sua mancata risposta – segno, evidentemente, della
poca efficacia degli argomenti sviluppati da Clitennestra – induca la ragazza a
intervenire. Ifigenia capisce che tocca a lei fare l’ultimo tentativo. Il suo discorso è,
almeno a prima vista, molto semplice nell’impianto: l’esordio è una sorta di
recusatio, di deliberata rinuncia all’uso della retorica, la “voce di Orfeo” che Ifigenia
dice di non possedere. In realtà, la rhesis è ben costruita. Dopo un proemio molto
patetico, in cui le lacrime sono presentate come l’unica arma di persuasione del
supplice, vengono sviluppati due punti. Il primo è giocato sull’elemento affettivo, e
consiste in una commossa evocazione dei tenerissimi rapporti sempre intercorsi tra
padre e figlia: le reciproche dichiarazioni d’affetto, le promesse di aiuto scambievole.
Ifigenia rimprovera il padre di avere dimenticato questa loro dimestichezza, che lei –
la figlia primogenita – ricorda invece benissimo. Il secondo punto è una ripresa
dell’argomento già usato da Clitennestra: Ifigenia non c’entra nulla con la vicenda di
Elena e Menelao, non ha senso che ne debba fare proprio lei le spese. La perorazione
si affida di nuovo, come l’incipit, al motivo della supplica muta, della preghiera
condita di lacrime, ossia della comunicazione non verbale: Ifigenia spinge avanti il
piccolo Oreste, perché si unisca a lei nel pianto e offra al padre lo spettacolo dei due
fratelli stretti alle sue ginocchia. La gnome finale è una sorta di grido vitalistico: la
vita è la cosa più preziosa, per ogni essere umano; la morte è il nulla, è qualcosa di
insensato e inaccettabile.
Il discorso di Agamennone è una riposta a Ifigenia (apostrofata in seconda
persona più di una volta) ma anche, in maniera più sfumata, a Clitennestra [cf. γύναι
di v. 1257 e il plurale ὑμᾶς di v. 1268]. L’esordio è una dichiarazione di impotenza:
la situazione è tale da non lasciare possibilità di scelta, né spazio per i sentimenti
personali (che pure sono assai forti, assicura l’eroe). Seguono poi due punti: il primo
è l’evocazione della massa dei soldati, della grande armata greca che è condannata
all’inazione, se il sacrificio suggerito da Calcante non si farà; il secondo è la
constatazione della furia guerresca che si è impadronita dei Greci, pronti a tutto pur di
affrontare in battaglia i barbari e punirli. Negli ultimi versi Agamennone replica
all’argomento portato dal Ifigenia: il sacrificio si deve fare non perché lo vuole
Menelao, o perché è nell’interesse di Menelao, ma perché lo vuole la Grecia; la
guerra non ha come scopo il beneficio personale di Menelao, ma la tutela dei diritti di
tutti Greci. Così stando le cose, Agamennone non può che acconsentire al sacrificio
della figlia: la libertà della Grecia è un valore che supera ogni altra preoccupazione. Il
finale, dunque, riprende l’incipit, con il ritorno del verbo δεῖ (v. 1258 e v. 1271).
Turato nell’introduzione analizza la breve rhesis di Agamennone, l’ultimo
spazio di parola che il dramma concede all’eroe. Agamennone rielabora e sintetizza
le idee e i giudizi già formulati nei precedenti interventi. Dal prologo e dalla rhesis
28
dell’agone riprende il tema della follia: nel prologo aveva accusato se stesso di follia,
per avere deciso la morte della figlia (una follia, peraltro, superata grazie a un ritorno
di lucidità) e nell’agone aveva denunciato la follia di Menelao e dei pretendenti di
Elena; qui ribadisce di non essere pazzo, e anzi di saper distinguere con chiarezza il
bene dal male. Nel dialogo con Menelao dopo l’annuncio del Messo aveva constatato
di essere ormai con le spalle al muro, di non poter più tornare indietro, per la
pressione esercitata su di lui dall’esercito e dai capi Achei (pronti a tutto, anche a
saccheggiare la sua terra); qui ripete le stesse parole: i Greci sono in preda a una
delirante “Afrodite di guerra”, e non esiterebbero a uccidere – per ritorsione – non
solo Ifigenia e Clitennestra, ma anche le altre figlie di Agamennone rimaste ad Argo.
Nuovo è invece il tema della guerra di liberazione: la spedizione, nella lettura che ne
dà ora Agamennone, non è intrapresa per il recupero di Elena, ma per liberare la
Grecia dalle incursioni dei barbari. Una lettura ideologica (concettualmente
debolissima) che viene poi ripresa, e ampiamente sviluppata, da Ifigenia dopo la
metanoia. Quindi, la rhesis di Agamennone è una cerniera importante, perché
consente lo snodo finale dell’azione e la guida al suo compimento.
29
Achille, che ha promesso sacrifici a Zefiro e Borea nel caso in cui essi alimentino il
rogo funebre di Patroclo [ma è una situazione ben diversa, perché Iri porta pur
sempre il messaggio di un altro]. Si deve pensare che il poeta abbia voluto proporre
l’azione di Elena come la risposta a un comando divino: la complessità e l’ambiguità
della figura di Elena fanno sì che il poeta si senta più a suo agio se il personaggio è
“controllato” dall’alto. Anche più avanti, nel III canto, Afrodite interviene per far
agire Elena secondo la sua volontà: l’intervento di Iri serve anche a “caricare” questa
scena.
Iri e Ermes sono i due messaggeri divini, incaricati di portare gli ordini di Zeus.
Nell’Iliade prevale Iri (in II 786-806 assume l’aspetto di Polìte e incita i Troiani alla
battaglia; in VIII 397-425 dalla cima del monte Ida sale all’Olimpo per impedire a
Era e Atena di scendere in campo al fianco degli Achei; in XI 185-210 scende
dall’Ida nella piana di Troia per dare istruzioni a Ettore; ecc.). Nell’Odissea Iri non
viene mai menzionata, e il portaordini di Zeus è Ermes (che peraltro ha già un ruolo
nel XXIV canto dell’Iliade): è lui che nel V canto va da Calipso per portarle l’ordine
di far partire Odisseo [nel X canto compare a Odisseo, per metterlo in condizione di
poter affrontare Circe: ma in questo caso non si fa parola di Zeus come mandante].
Laodice è figlia di Priamo ed Ecuba (dunque sorella germana di Ettore e
Paride): in VI 252 si dice infatti che Ecuba, quando vede Ettore e gli va incontro per
invitarlo a riposare un po’ e a bere una coppa di vino, sta andando a visitare Laodice,
la sua figlia più bella.
vv. 125-26. Che una padrona di casa sia intenta alla tessitura, è circostanza
normale (conforme anche alla realtà del tempo, si deve credere). Questi versi sono
simili a XXII 440-41, in cui Andromaca è seduta al telaio quando le arriva la notizia
della morte di Ettore: i commentatori notano che, mentre Andromaca impreziosisce il
tessuto con elementi decorativi floreali (θρόνα), Elena lo ricama con il racconto della
guerra di Troia: è un esempio di eccezionale coinvolgimento del “narratore” nella
materia del suo racconto. Anche le donne/dee dell’Odissea sono intente alla tessitura
(o alla filatura) quando il racconto le sorprende in casa loro: Calipso (V 61-62) e
Circe (X 221-23) tessono e cantano, Arete sedendo presso il fuoco fila un filo
purpureo (VI 305-6); l’associazione di Penelope con il telaio è ancora più netta.
v. 135. I soldati riposano, appoggiati agli scudi (al v. 114 si dice che si tolgono
le armi e le posano a terra). Kirk osserva che questa postura è senza altri esempi in
Omero, e cita invece - come possibile termine di confronto, se pur parziale - il fr. 2, 2
West di Archiloco. Si può però forse citare Od. XIV 479 “dormivano tranquilli, con
le spalle protette dagli scudi”, che fa parte dell’ainos narrato da Odisseo a Eumeo per
avere un mantello.
Lettura e commento dei vv. 139-160. Al v. 139 ἴμερος è parola molto forte e
connotata: è il desiderio amoroso, nella sua accezione più immediata e concreta. La
divinità che solitamente suscita ἴμερος è Afrodite: cfr. Inno Omerico ad Afrodite, vv.
1-6
La formulazione usata per Iri al v. 139 (suscita dolce desiderio nel cuore di
Elena) è ricorrente, e si ritrova in particolare nelle scene di oarismòs: cfr. per esempio
Inno Omerico ad Afrodite 143 (la dea ispira dolce desiderio ad Anchise). Anche nella
scena della Diòs apàte Zeus dice a Era che mai ha provato desiderio per una donna o
33
per una dea con la stessa intensità con cui ora la desidera (Il. XIV 328). Iri non è un
surrogato di Afrodite, e infatti poi non scatta una scena d’amore: ma l’adozione di un
formulario che è tipico dell’oarismò è un segnale narrativo inequivocabile (almeno,
per un uditorio non del tutto sordo ai toni dell’epica); e infatti la scena d’amore così
“promessa” si dispiega nel finale del canto, quando Elena è costretta da Afrodite a
raggiungere Paride, e questi è preso da un irrefrenabile ἴμερος (il v. 446 è identico a
XIV 328).
vv. 141-44. Nella società omerica le donne, quando si presentano in pubblico,
si coprono il volto con un velo: cfr. Od. I 3323-34 (Penelope, colpita dal canto di
Femio nel megaron, scende dalle sue stanze: “Come tra i pretendenti fu la donna
bellissima, si fermò in piedi accanto a un pilastro del solido tetto, davanti alle guance
tirando i veli lucenti”); XVI 416 (sempre Penelope, prima di rivolgere la parola ad
Antinoo, si tira i veli sul viso). Ed è anche normale che una dama di alto lignaggio,
quando esce di casa o lascia il proprio quartiere, e quindi si espone alla vista degli
uomini, si faccia accompagnare dalle ancelle (due, di solito). Se ne occupa Stephanie
West, nel suo commento al volume I dell’edizione Valla dell’Odissea, a proposito di
I 330-35 (il v. 331 è identico a Il. III 143); altre scende simili sono in Od. XVIII 206-
7 (Penelope scende tra i pretendenti, e appare loro bellissima, tanto che tutti fanno
venire da casa per lei splendidi doni, nella speranza che scelga un nuovo sposo; pochi
versi prima [182-84], Penelope dice a Euriclea “Autònoe piuttosto mandami, e
Ippodamìa: che vengano, e ai fianchi mi stiano giù in sala; sola non andrei certo fra
uomini, me ne vergogno”) e Il. XXII 450 (“Qua, due mi seguano, che veda cosa è
accaduto”: Andromaca ha sentito dei pianti, e vuole capirne la ragione).
I nomi delle due ancelle lasciano perplessi. In Od. I 331 e XVIII 207 (identici a
Il. III 143) le due ancelle non sono nominate (anche se, come si è visto, nella scena
del canto XVIII sono state nominate prima da Penelope stessa). Inoltre Etra e Pitteo
appartengono a una onomastica marcatamente attica: Etra è la madre di Teseo, e
Pitteo è il re di Trezene e il nonno di Teseo. Secondo la tradizione ateniese, quando i
Dioscuri liberarono Elena, che era stata rapita da Teseo, Etra fu portata via e
assegnata come schiava alla giovane principessa (ci sono anche fonti letterarie che
testimoniano questo mito). Teseo però è assolutamente estraneo all’Iliade: quindi il v.
144 è molto probabilmente un’interpolazione successiva, di marca ateniese.
vv. 146-48. La formulazione “quelli intorno a Priamo” indica non solo i
compagni e gli amici di Priamo, ma anche Priamo stesso. Pantoo è il padre di
Euforbo (il feritore di Patroclo) e di Polidamante (che è in varie occasioni saggio
consigliere di Ettore); Timete non è altrimenti menzionato. Lampo, Clitio e Icetàone
sono tre fratelli di Priamo (il quarto è Titono): compaiono tutti nella accurata
descrizione della discendenza di Dardano che Enea illustra ad Achille in XX 215-41.
Antenore è marito di Teanò (sacerdotessa di Atena Iliàs) e padre di valorosi guerrieri:
è lui che ai vv. 203-24 racconta la missione diplomatica di Menelao e Odisseo a
Troia; Ucalegonte (“Colui che non si cura di nulla) è menzionato solo qui.
Lettura e commento dei vv. 161-180. La Teichoskopìa non è un vero e proprio
catalogo, anche se presenta senza dubbio tratti catalogici. D’altra parte, dopo il
Catalogo delle navi del II canto una nuova rivista dei capi Achei (sia pure rapida)
sarebbe fuori luogo. La scena è selettiva, poiché l’attenzione è concentrata su pochi
34
eroi (Agamennone, Odisseo, Aiace: tre guerrieri Priamo nota, e tre risposte gli dà
Elena; è un esempio della triplice reiterazione di un tema, che è frequente nella poesia
antica); inoltre, il poeta sembra soprattutto interessato a sfruttarla per le sue
implicazioni patetiche. Essa propone infatti un cambiamento di prospettiva: non più
la guerra dal punto di vista dei combattenti, quindi in una cifra eroica, ma dal punto
di vista dei non combattenti, di coloro che la subiscono senza prendervi parte
attivamente. Sono tre i momenti del poema in cui il fronte dei non combattenti
irrompe nel racconto: il III canto, che ha al centro la figura di Elena, i suoi sentimenti
verso il suocero Priamo e il nuovo marito Paride, ma anche la sua incapacità di
dimenticare il passato; il VI canto, in cui emerge l’entourage familiare e domestico di
Ettore; il XXIV canto, in cui il campo greco diventa la meta del “pellegrinaggio” di
Priamo, vecchio padre dolente. In questi tre momenti il poeta dà spazio a ciò che c’è
“dietro” la guerra: ne esce un tessuto di infelicità e malinconia (che fa in qualche
modo da schermo al vitalismo convulso dei combattimenti). Nel caso di Elena, la
sofferenza riguarda il suo ruolo difficile nel palazzo, il senso di colpa, la
preoccupazione per la sorte della nuova e della vecchia famiglia (significativo
l’accenno ai fratelli Castore e Polluce).
768-847 Antinoo parte con una nave e venti uomini, dirigendosi verso l’isoletta di
Asterìs. A Penelope appare in sogno Atena, nell’aspetto di sua sorella Ìftime, e le dice
che Telemaco gode della protezione divina.
Lettura e commento dei vv. 219-234. Che cosa sia il farmaco descritto nei vv.
220-26, è problematico. I commentatori suggeriscono che possa essere l’oppio,
largamente usato in Egitto fin dall’epoca più remota. Peraltro, sappiamo che l’oppio
era prodotto regolarmente in Grecia già in età micenea, e continuò a essere usato
regolarmente nei secoli seguenti. Quindi, se il “nepente” è l’oppio, non si capisce
bene perché il poeta ne parli come di un prodotto esotico, un prodotto tipicamente
egiziano ignoto al di fuori di quel paese. Sembra dunque più probabile che Omero
non abbia in mente nessuna sostanza particolare, ma renda semplicemente omaggio
alla farmacopea egizia, che fa parte di quella sapienza egizia antica e misteriosa di cui
i Greci sentivano profondamente il fascino. Il contatto con l’Egitto è un elemento che
accomuna Menelao e Odisseo: Menelao c’è stato con Elena (lì ha incontrato Proteo,
da lì provengono ricchissimi oggetti d’oro e d’argento donati ai due dai sovrani di
Tebe, da lì viene il “nepente”), Odisseo ricorda di esserci stato, per sette anni, e di
avere raccolto grandi ricchezze, nel “racconto cretese” inventato a beneficio di
Eumeo nel canto XIV. La presenza dell’Egitto nei poemi omerici, osserva Stephanie
West, è un elemento utile alla datazione (approssimata, naturalmente). Tebe è
ricordata come una città di proverbiale ricchezza in Od. IV 126-27 e in Il. IX 381-84:
ciò sembra rimandare all’impressione che si produsse quando la città fu saccheggiata
dagli Assiri nel 663 a.C.
Lettura e commento dei vv. 235-264. Il racconto di Elena è molto interessante,
e densissimo di suggestioni diverse. Anzitutto, è una narrazione intesa a sottolineare
il ruolo della regina, le sue doti di acume, autocontrollo, intelligenza e fermezza.
Elena, che si è dimostrata perfetta padrona del proprio oikos, gestendo sapientemente
il ricevimento in onore degli ospiti, mostra ora come questa attitudine di domina si
proietti anche sulla sua vita precedente, persino nei momenti più difficili della sua
permanenza a Troia. Al centro del suo racconto c’è Odisseo, ma la vera protagonista
è lei stessa, che si rivela un secondo Odisseo, in grado di rivaleggiare con l’eroe sullo
stesso terreno della prontezza di riflessi e della determinazione. Elena, peraltro, non è
mossa da un vacuo desiderio di autocelebrazione; ha come interlocutore privilegiato
Menelao, e le sue parole acquistano un senso compiuto solo all’interno del complesso
rapporto che si è instaurato tra marito e moglie, dopo il ricongiungimento. Elena gli
dice in sostanza - alla presenza di un uditorio composto dai rappresentanti della
nuova generazione, di quei “posteri” cui è demandato il giudizio sulla vicenda troiana
- che lei a Troia ci andò perché Afrodite ve la condusse, accecandola, ma che passato
l’effetto di tale accecamento riacquistò il controllo di sé e collaborò lealmente alla
vittoria dei Greci. In effetti, nel racconto Elena non si limita a non tradire Odisseo,
ma fa molto di più: concerta con lui l’inganno del cavallo, diventa un punto di
riferimento politico e tattico per l’assalto finale.
Il racconto - come i commentatori rilevano - è ricchissimo di fili che lo
connettono alla trama generale del poema. In particolare, Odisseo che si insinua,
travestito, dentro le mura e viene scoperto da una donna, che lo sta lavando e
36
sulla rocca, non sanno se farlo a pezzi con le scuri, precipitarlo giù da una rupe o
conservarlo come anathema agli dèi [il canto di Demodoco non è riportato in forma
diretta, ma solo riassunto per sommi capi]. Di nuovo, poi, lo stratagemma fatale è
raccontato nella nekyia, quando Odisseo tesse le lodi di Neottolemo (XI 523-32
“Quando salimmo dentro il cavallo che Epéo costruì, noi fiore degli Argivi - e tutto
da me dipendeva, aprire il solido agguato e richiuderlo - là gli altri capi e consiglieri
dei Danai s’asciugavan le lacrime, le gambe sotto tremavano a tutti: ma lui, mai per
nulla io lo vidi con gli occhi né sbiancare il colore bellissimo, né sulle guance
asciugar lacrime; anzi molto chiedeva d’uscir dal cavallo, e l’elsa della spada
impugnava, e l’asta greve di bronzo, mali bramava ai Troiani”). L’insistenza nel
ricordare questo episodio è dovuta al desiderio di esaltare la gloria di Odisseo
(massimo artefice della vittoria achea), ma prepara anche e introduce la nuova insidia
che - con modalità analoghe - Odisseo tende ai pretendenti nella sezione finale.
Anche questo è un filo che tiene insieme l’Odissea: Odisseo ptoliporthos non è
diverso dal finto Cretese che siede presso la soglia del palazzo.
Gli scoliasti antichi evidenziano l’assurdità del v. 279, facendo notare che
Elena non poteva avere conosciuto tutte le donne dei capi Achei, e che comunque
l’imitazione così fedele di tante voci diverse è impossibile. Sono critiche vere, in
termini di realismo; ma se consideriamo invece il passo da un punto di vista
letterario, dobbiamo osservare che: 1. se si espunge il v. 279, la malizia di Elena si
attenua grandemente e l’episodio perde molta della sua efficacia; 2. la poesia epica
conosce un esempio di analoga abilità mimetica, ossia il coro delle Deliadi (Inno
Omerico ad Apollo 157-64 “Le fanciulle di Delo […] dopo aver cantato anzitutto
Apollo, e poi Letò e Artemide saettatrice, intonano un canto, celebrando gli uomini e
le donne del passato, e affascinano la massa del pubblico. E sanno imitare le voci di
tutti gli uomini e ogn loro favella: ciascuno crederebbe di essere lui a parlare, tanto
bene si modella il loro canto soave”).
Euripide, Elena - L’Elena, rappresentata nel 412, contiene una totale riscrittura della
vicenda di Elena, per come è narrata (o allusa) in Omero e nei poeti arcaici (Saffo e
Alceo, in particolare). Si è visto che la figura di Elena, per sua natura sfuggente, è
vista dai poeti secondo prospettive diverse: donna dolente, prima vittima della propria
bellezza, strumento passivo di disegni divini, ovvero donna appassionata, che
rivendica la libertà di amare secondo la forza del cuore; o ancora, frivola e languida
ammaliatrice, o maga torbida e sensuale, depositaria di una potenza primordiale e
misteriosa. Il sofista Gorgia ne fa la metafora della forza psicagogica del logos, e
anche Euripide, nelle Troiane (415), accogliendo questa suggestione, presenta
un’Elena bella ed eloquente, ed eloquente in quanto bella (perché sa sostenere i suoi
argomenti con la sapiente esposizione delle sue grazie, e perché l’autostima e la
sicurezza prodotte in lei dalla coscienza della bellezza le ispirano arditezza di parola,
la rendono spregiudicata ed efficace nel sostenere le proprie ragioni). Sul piano della
mitopoiesi, però, queste trattazioni così diverse del personaggio si riconducono, in
sostanza, alla medesima versione dei fatti.
La protagonista dell’Elena è, viceversa, una “nuova Elena”, secondo la
formulazione che ne dà Aristofane nelle Tesmoforiazuse (411): τὴν καινὴν Ἑλένην
38
E come ebbe finito di comporre per intero quel carme che si chiama “Palinodia”, gli
tornò immediatamente la vista […]». Queste parole sono pronunciate da Socrate
nell’intermezzo che separa il suo primo dal suo secondo discorso: nel primo ha
tentato di dimostrare - in gara con Lisia - che chi non ama è più utile di chi ama; sul
punto di venirsene via, Socrate è trattenuto dal demone, e si rende conto di avere
offeso Eros, e di dover riparare con un discorso di senso opposto, inteso a esaltare i
doni meravigliosi che l’amore sa elargire. L’esempio di Stesicoro serve appunto a
introdurre la “palinodia” di Socrate.
Molto simile la testimonianza di Isocrate, Elena 64: «Essa (sc. Elena) dimostrò
la sua potenza anche al poeta Stesicoro. Quando, al principio del suo poema, questi
pronunziò parole irriverenti nei suoi riguardi, si levò privo della vista, ma dopo che,
capita la causa della sua disgrazia, ebbe composto la cosiddetta Palinodia, essa lo
restituì allo stato originario».
Naturalmente, questi elementi non sono tali da permetterci una ricostruzione
completa della produzione stesicorea su Elena. Anzi, un papiro pubblicato nel 1962
ha fatto molto discutere, perché parla di due Palinodie composte da Stesicoro: nella
prima il poeta avrebbe preso le distanze dalla versione omerica del mito di Elena,
nella seconda si sarebbe contrapposto a Esiodo. Si è perciò elaborata l’ipotesi che
Stesicoro in un primo carme si fosse attenuto alla versione omerica di un’Elena
infedele e colpevole della guerra; avesse poi (in una prima Palinodia) ritrattato il
mito, adottando questa volta la versione esiodea di un’Elena effettivamente fuggita da
Sparta con Paride, ma poi trattenuta in Egitto da Proteo e rimpiazzata a Troia dal suo
fantasma forgiato da Proteo stesso [la variante accolta da Erodoto, salvo il silenzio
sull’eidolon]; e infine (in una seconda Palinodia) avesse riscritto completamente la
vicenda, per scaricare Elena da ogni colpa, raccontando come la donna non fosse mai
39
fuggita con Paride, ma fosse stata sostituita fin dall’inizio con l’eidolon [la variante
accolta da Euripide].
Il problema resta aperto; come aperta resta l’altra questione, se cioè Stesicoro
avesse offeso Elena in una sua opera più vasta (come l’Orestea o la Distruzione di
Ilio), ovvero in un carme intitolato Elena. Più concordi sono gli studiosi nel ritenere
che, al di là della giustificazione fittizia, la trattazione positiva della storia di Elena
debba spiegarsi in rapporto a un preciso ambiente geografico o politico. Il carme poté
essere composto per un uditorio spartano (Sparta, o colonie di Sparta, dove Elena
godeva di un culto eroico) oppure per un pubblico italo-siceliota (sia a Locri che a
Crotone i Dioscuri ed Elena erano oggetto di culto).
C’è poi Erodoto. Nei capitoli 112-120 del II libro, lo storico ricostruisce la
“vera” storia di Elena, sulla base delle informazioni da lui avute in Egitto. Erodoto
spiega che a Menfi esiste un santuario di Proteo, dentro il quale sorge un tempio detto
di Afrodite Straniera: in realtà, si tratta del tempio di Elena, che lì soggiornò, ospite
di Proteo stesso. I sacerdoti, interrogati dallo storico, gli hanno dato la versione
veritiera della vicenda. Paride, rapita Elena, partì da Sparta per Troia, ma fu spinto
dai venti avversi in Egitto e fu costretto ad approdare alla foce Canopica del Nilo.
Qui i suoi servi si rifiutarono di seguirlo oltre, e si sedettero come supplici nel locale
tempio di Eracle (dotato di diritto di asilo), denunciando l’empio comportamento del
loro signore. Il custode di quel ramo del Nilo, Tonis, dopo un’inchiesta sommaria,
mandò tutti quanti (Paride, Elena, i tesori e i supplici) a Menfi presso il re Proteo,
perché fosse questi a giudicarli e a decidere la loro sorte. Proteo, appurata la verità,
decise di tenere presso di sé Elena e le sue ricchezze, in attesa che il legittimo sposo,
Menelao, venisse a riprenderla, e intimò a Paride di andarsene al più presto. Quando i
Greci di Agamennone arrivarono a Troia per reclamare la restituzione di Elena e dei
tesori, i Troiani spiegarono che né la donna né i beni erano presso di loro, bensì in
Egitto; ma non furono creduti, e la guerra ebbe inizio. Alla fine, poiché neppure dopo
la presa della città Elena ricompariva, Menelao si decise ad andare in Egitto e così
poté recuperare sua moglie.
Dopo avere esposto la versione dei sacerdoti egiziani (basata in parte su
conoscenza diretta dei fatti, in parte su informazioni assunte), Erodoto (cap. 120)
espone il suo personale parere: la versione egizia è credibile, perché se davvero -
come raccontano Omero e i poeti - Elena fosse stata a Troia, i Troiani avrebbero
finito per riconsegnarla ai Greci, che Paride lo volesse o no, pur di far cessare la
guerra e le sofferenze del lungo assedio. Forse - aggiunge Erodoto - i Troiani
avrebbero potuto decidere di opporre resistenza ai Greci nei primi tempi della guerra;
ma poi, vedendo che molti guerrieri, anche di nobilissimo sangue, cadevano ogni
giorno in battaglia, si sarebbero rassegnati a restituire la donna. Cosa che non
poterono, invece, fare, per il semplice fatto che Elena era altrove.
Con una certa perfidia, Erodoto osserva che probabilmente Omero conosceva
la vera versione dei fatti [una prova sarebbe la menzione dei pepli fenici, acquistati da
Paride a Sidone mentre navigava con Elena alla volta di Troia: Il. VI 289-92]; ma non
la adottò, perché non sarebbe stata adatta a sostenere un canto epico.
Stesicoro ed Erodoto sono i due principali testimoni della versione alternativa
della vicenda che ha al centro Elena e il suo adulterio con Paride: dicono
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nozze. Per questo motivo Elena è supplice presso l’altare di Proteo: “Se in Grecia
porto un nome disonorato, vorrei almeno che qui il mio corpo non soffra vergogna”
(vv. 66-67). Risulta così già impostato il tema centrale della tragedia: il conflitto tra
realtà e apparenza, tra verità e illusione, e anzi il dibattito sulla natura stessa della
verità. La nuova Elena, caratterizzata - al contrario dell’Elena “omerica” - da una
castità assoluta e quasi maniacale, è da tutti esecrata, perché il suo onoma non le
corrisponde più, ha assunto una esistenza autonoma e contraddittoria. Nella società
eroica il “nome” (cioè la reputazione) di una persona è la persona stessa: nel caso di
Elena questa identificazione ha assunto consistenza compiuta, ma la conseguenza è
una lacerazione dolorosa. Elena soffre per questa paradossale scissione: ciò che di lei
è falso ha preso corpo materiale e visibilità universale (è dunque “validato”), mentre
ciò che di lei è vero si è come dissolto in una sorta di neutralizzazione spaziale e
temporale. Il cuore del conflitto è il momento in cui Menelao, ritrovata sua moglie, la
respinge perché non vuole rinunciare a quella forma illusoria per la quale tanto si è
battuto (e nella quale ha tanto “investito” in termini affettivi).
La vicenda si mette in moto con l’arrivo di Teucro, che sulle prime maledice
Elena, appunto per la sua somiglianza con l’Elena ch’egli ha conosciuto, ma poi si
rende conto che deve trattarsi di un’altra persona e cambia atteggiamento. Teucro, in
risposta alle domande della sua interlocutrice, dà una serie di informazioni: la guerra
è stata vinta dai Greci e Menelao ha potuto mettere le mani su sua moglie, ma i due
sulla rotta del ritorno sono stati portati via da una tempesta e non sono mai arrivati in
Grecia, né si sa se siano vivi o morti; Leda si è impiccata per la vergogna, i Dioscuri
sono scomparsi (forse morti, o forse assunti in cielo tra gli dèi). Alla fine Teucro se
ne va, ribadendo che la straniera assomiglia come una goccia d’acqua a Elena ma è
completamente diversa d’animo, e augura perciò felicità e fortuna a lei, maledizione e
rovina all’altra.
Il Coro, formato da prigioniere greche, arriva in scena richiamato dai lamenti di
Elena. L’eroina si sfoga, in parte in metro lirico, in parte con una lunga e lucida
rhesis, nella quale ricorda la propria nascita prodigiosa e maledice il privilegio della
bellezza, che tanto dolore le ha causato. Elena espone tutte le disgrazie che l’hanno
colpita e conclude che per lei è meglio morire. Il Coro la invita a non cedere alla
disperazione e le suggerisce di chiedere consiglio a Teònoe, l’indovina sorella di
Teoclimeno: Teònoe saprà dirle se Menelao è vivo.
Elena e il Coro rientrano nel palazzo. Entra Menelao, che pronuncia una sorta
di secondo prologo: dopo essersi presentato, spiega di avere fatto naufragio e di
essersi salvato a stento, con sua moglie e con pochi compagni. Gli altri sono rimasti
in una grotta, lui è venuto in cerca d’aiuto, vestito dei poveri cenci restituiti dalle
onde. Segue la scena quasi comica con la vecchia portinaia: l’Atride subisce un duro
trattamento, e apprende che nel palazzo è ospitata Elena, figlia di Zeus e regina di
Sparta. L’eroe, rimasto solo, riflette con angoscia sul possibile senso di quelle strane
parole. Dalla reggia esce Elena, che da Teònoe è stata rassicurata riguardo a Menelao.
Marito e moglie si riconoscono; o meglio, Elena riconosce lo sposo, ed è presa da un
moto di gioia, mentre Menelao - pur constatando la totale corrispondenza dell’altra
con le ben note fattezze di sua moglie - non si risolve ad accoglierla, ed anzi vorrebbe
andarsene via per tornare dall’eidolon.
42
Saffo, fr. 44 V.
Arrivò correndo l’araldo Ideo, veloce messaggero,
a portare questa lieta notizia:
“Ecco una gloria immortale per la nostra città e per tutta l’Asia:
dalla sacra Tebe, dalle sorgenti del Placo,
Ettore e i compagni conducono qui sulle navi,
sopra il mare salato, la tenera Andromaca,
occhi vivaci, e con lei molti bracciali d’oro
e porpore trasparenti e raffinati monili,
e avorio e coppe d’argento, innumerevoli”.
Disse così; e di scatto si alzò in piedi il padre di Ettore.
La voce raggiunse gli amici nella città larghe vie.
Subito le donne di Ilio sotto ai carri agili ruote
aggiogarono mule; si radunò una gran folla di donne
e di ragazze, caviglie sottili.
e c’erano anche, in disparte, le figlie di Priamo.
Gli uomini legarono sotto ai carri i cavalli.
[……………………………………………]
La musica dolce dei flauti si mescolava alla cetra
e alle nacchere acute; le ragazze intonavano
con voce chiara il canto sacro: saliva al cielo
l’eco stupenda.
Per tutte le vie era gioia,
crateri di vino e coppe;
e mirra e cassia e incenso vaporavano insieme.
48
diventare vedova, orba, ecc. Tebe Ipoplacia sorgeva all’interno del golfo di
Adramitto. I Cilici su cui regna Eezione sono una popolazione della Troade, del tutto
distinta dai più noti Cilici della Cilicia (nella parte sudorientale dell’Asia Minore);
allo stesso modo, i Lici cui appartiene Pandaro sono stanziati in Troade e non devono
essere confusi con i Lici di Licia (Glauco e Sarpedone ne sono i capi). Il saccheggio
di Tebe e l’uccisione di Eezione sono ricordati più volte nell’Iliade: in I 366-69
Achille ricorda a Teti che da lì proviene Criseide (“Andammo a Tebe, la sacra città di
Eezione, e la bruciammo, portammo via tutto; e bene il bottino divisero tra loro i figli
degli Achei, e per l’Atride scelsero a parte Criseide guancia graziosa”); in IX 188 si
dice che dal bottino di Tebe proviene la cetra con la quale Achille si accompagna,
mentre canta le gesta degli eroi; e in XXIII 826-29 il poeta precisa che il disco di
ferro posto da Achille nel mezzo della lizza è quello che un tempo era usato da
Eezione, prima che Achille lo uccidesse. Molto vicina a Tebe è Lirnesso, la patria di
Briseide, pure bruciata e saccheggiata da Achille.
Lettura e commento dei vv. 399-406. I commentatori osservano che il v. 401 (il
bimbo è “simile a vaga stella”) può avere una connotazione sinistra. Il paragone con
la stella è infatti usato dal poeta anche al v. 295, nella descrizione del peplo che
Ecuba sceglie per Atena (vv.288-295: “Ecuba discese nel talamo odoroso, dov’erano
i suoi pepli, opere tutte a ricami di donne sidonie, che Alessandro simile a un dio
portò da Sidone, vasto mar navigando, nel viaggio in cui condusse Elena avi gloriosi.
Uno ne scelse Ecuba e recò in dono ad Atena, quello che di ricami era il più vago e il
più grande, splendeva come una stella e sotto a tutti era l’ultimo”); ma la preghiera,
sebbene accompagnata da un’offerta tanto preziosa, viene respinta dalla dea. Nella
scena con Andromaca e Astianatte, Ettore pure pronuncia una preghiera, a Zeus,
sollevando il bimbo verso il cielo: dunque, si può pensare che anche questa preghiera
- proprio perché connessa con un “oggetto stellato” - debba incontrare un diniego (ed
è così, di fatto, come l’uditorio ben sa).
v. 402. Lo Scamandro è il fiume più importante della Troade, e la decisione di
Ettore di chiamare il figlio Scamandrio (dal nome del fiume, o più probabilmente dal
nome del dio del fiume) è certo dettata da pietà religiosa. In Il. IV 473-79 si parla di
un giovane troiano, ucciso da Aiace con la lancia, il cui nome è Simoe…sioj perché la
madre lo partorì sulle rive del Simoenta, dove era venuta a pascolare la mandria della
famiglia. Anche nomi come Asopodoro sono ispirati alla stessa devozione. In Il. V 49
è menzionato un altro troiano che ha il nome Scamandrio. Astianatte - in base a ciò
che dice il poeta - dovrebbe essere un nome onorifico, usato dagli altri Troiani in
segno di rispetto per il padre, primo difensore della città. Alla stessa conclusione
portano i vv. XXII 506-507, in cui Andromaca parlando con il morto Ettore dice:
“Astianatte, come lo chiamano i Teucri: tu solo infatti difendevi le porte e le grandi
mura”. Astianatte, dunque, parrebbe essere un soprannome, usato da molti al posto
del vero nome Scamandrio. Ma nel Ciclo e in tutta la tradizione successiva il nome
del figlio di Ettore e Andromaca è sempre Astianatte, mentre Sacmandrio non
compare mai. Si è allora ipotizzato che sia Scamandrio, invece, il nomignolo
affettuoso usato dai genitori per il piccolo, una sorta di vezzeggiativo che compare
solo qui, per marcare la tenerezza del momento.
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Lettura e commento dei vv. 407- 439. Il discorso di Andromaca, come nota
Kirk, si può scomporre in tre parti: i vv. 407-413 sono una desolata premonizione
della morte del marito e della propria miseria; la forte emozione si esprime nella
sequenza di frasi brevi, che non rispettano il respiro del verso, ma ne travalicano
sistematicamente la chiusa; i vv. 414-29 contengono una narrazione più distesa della
morte dei genitori e dei fratelli; i vv. 430-39 rinnovano l’appello a Ettore perché
abbia pietà della sposa, che dipende interamente da lui, e si tenga al riparo delle
mura, organizzando la difesa là dove sembra evidenziarsi un punto di debolezza.
vv. 417-20. Achille mostra rispetto per il corpo di Eezione, poiché non lo
spoglia delle armi, ma lo brucia con tutta l’armatura. Nella sfida lanciata da Ettore nel
canto VII, invece, l’eroe dichiara che in caso di vittoria spoglierà il suo avversario
delle armi (e le appenderà nel tempio di Apollo), ma restituirà il corpo agli Achei per
la giusta sepoltura; anche l’altro, nelle attese di Ettore, dovrà rispettare la stessa
norma. In Od. XI 72-75 l’ombra di Elpenore, comparsa ad Odisseo, chiede che le
armi siano bruciate con il corpo (“Non lasciarmi laggiù incompianto e insepolto, ma
bruciami con le mie armi, tutte quelle che ho, e un tumulo alzami in riva al mare
schiumoso”). L’accenno agli onori funebri resi a Eezione da Achille è una sorta di
“ironia tragica”, in considerazione del barbaro trattamento che l’eroe riserverà al
cadavere di Ettore.
vv. 419-20. La partecipazione delle Ninfe ai funerali di Eezione è un elemento
che conferma l’eccezionale valore dell’eroe (anche al funerale di Achille
intervengono le Nereidi, sorelle di Teti, e il threnos è intonato dalle Muse stesse).
v. 428. Per la “dolce morte” causata dalle frecce di Artemide, cf. Od. XV 407-
411 (la descrizione dell’isola di Sirìa, fatta da Eumeo) “Mai fame tocca quel popolo,
mai nessun’altra peste odiosa affligge i mortali infelici, ma quando le stirpi degli
uomini invecchiano in quella città, Apollo arco d’argento, venendo con Artemide,
con le sue miti frecce li raggiunge e li uccide”. Un altro termine di confronto molto
chiaro è Od. XVIII 201-205 “Un sonno soave mi ha avvolta, benché tanto soffra.
Così soave la morte mi desse Artemide casta subito ora, e non dovessi più, straziata
nell’anima, consumarmi la vita, a rimpiangere i molti pregi del mio caro sposo, che
eccelleva su tutti gli Achei”.
vv. 433-39. Sappiamo che erano considerati spuri da Aristarco, perché
contengono istruzioni tattiche e quindi hanno una tonalità estranea al discorso di
Andromaca, tutto giocato sui ricordi personali e sugli affetti. Inoltre, le affermazioni
di Andromaca sono false, perché né prima né poi si parla mai di punti di debolezza
del sistema difensivo, né si sta combattendo (o si è combattuto) così vicino alla città.
Si può anche osservare che Ettore non risponde su questo punto (almeno in modo
diretto), e che i vv. 331-32 possono essere un’efficace formula di conclusione (e un
esempio di Ringkomposition). Peraltro, Andromaca deve motivare la sua richiesta a
Ettore di non tornare a combattere nella pianura, e la sua motivazione deve essere
razionale; ed Ettore, quando invita sua moglie ad occuparsi di faccende domestiche,
può rispondere anche implicitamente a questi suggerimenti tattici.
Lettura e commento dei vv. 440-65. La risposta di Ettore è giocata sulla stessa
alternanza di toni eroici e toni patetici che è la cifra poetica dell’intero episodio.
Naturalmente, in linea di massima la tonalità eroica spetta ad Ettore, mentre
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lasciando come unica traccia in Troade la tomba del fratello, sulla quale qualcuno dei
Troiani potrebbe pronunciare parole di trionfo e di scherno; in XXIII 575-78 Menealo
teme che qualcuno possa dire che lui si è imposto ad Antiloco non per le sue buone
ragioni, ma per il maggior peso politico. Gli altri esempi riguardano tutti Ettore, che
appare particolarmente sensibile al giudizio altrui: in XXII 106-7 teme che i Troiani
lo biasimeranno per avere distrutto l’esercito; in VII 300-2 propone ad Aiace, al
termine del duello, uno scambio di doni, in modo che tutti li possano lodare per
l’ardimento e la magnanimità di cui hanno dato prova. Ma il passo più utile per un
confronto è VII 87-91. Nella sfida che Ettore lancia agli Achei, i patti prevedono la
restituzione del corpo del vinto. Così, se sarà Ettore a prevalere, si terrà le spoglie ma
restituirà la salma alle navi: gli Achei seppelliranno il loro compagno sulle rive
dell’Ellesponto, e i naviganti vedendone il tumulo assoceranno il destino del defunto
al nome di Ettore, rinnovandone la gloria. L’eroe riporta in forma diretta le parole che
i marinai pronunceranno, e così facendo detta - in pratica - l’epitafio del suo
competitore (vv. 87-91):
E qualcuno tra gli uomini futuri dirà un giorno, navigando con nave ricca di remi il
livido mare: “Questa è la tomba di un guerriero morto da tempo: mentre si batteva da
eroe, fu ucciso dal famoso Ettore”. Così dirà qualcuno, e non perirà la mia fama.
Lettura e commento dei vv. 466-481. Il motivo del figlio più forte del padre è
diffuso nella fase più arcaica delle religiosità greca, ed è ampiamente presente nei
miti teogonici. La successione Urano Crono Zeus è ispirata a questo principio. In
Pindaro, Istmica VIII 30-52 è narrato il contrasto che sorge tra Zeus e Poseidone,
entrambi desiderosi di prendere in moglie Teti; ma Themis rivela loro il destino, e
allora i due dèi decidono di rinunciare a Teti e di lasciare che essa sposi un mortale,
Peleo, dal quale avrà come figlio Achille. Lo stesso tema è applicato da Eschilo alla
vicenda di Prometeo nel Prometeo incatenato: Prometeo (figlio di Themis) è a
conoscenza di un oracolo, in base al quale è destino che Zeus generi un figlio più
forte di lui, capace di detronizzarlo.
Lettura e commento dei vv. 482-502. Ai vv. 487-88 tornano due termini chiave
della lingua e della cultura omerica: αἴσα e μοῖρα. Sono sostanzialmente sinonimi.
Entrambe le parole indicano in prima istanza la “parte” o “porzione” che spetta, e si
richiamano quindi al principio di scambio. Poi passano a indicare la parte che
compete all’uomo nel kosmos, quindi la “spettanza umana” (e in particolare la
mortalità), e anche la parte che compete a un singolo uomo, quindi il suo destino. Il
IX canto dell’Odissea esemplifica bene questa evoluzione semantica: al v. 352
Odisseo si chiede chi mai vorrà in futuro fare visita al Ciclope, visto che si comporta
οὐ κατὰ μοῖραν (ossia, non rispetta il suo ruolo); ma nel finale del canto è Polifemo
che fa riferimento alla mo‹ra di Odisseo; si rivolge a Poseidone per chiedere che il
suo nemico non ritorni più in patria, e aggiunge: “ma se per lui è μοῖρα rivedere i suoi
e tornare a casa, almeno che torni tardi e male” (vv. 532-534). Ciò è in accordo con la
Weltanschauung omerica: esiste una μοῖρα, che non può essere alterata, e però
all’interno dei termini da essa stabiliti è possibile un margine d’azione. Nel XVI
dell’Iliade Zeus per un attimo vorrebbe salvare suo figlio Sarpedone; dice “È destino
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(μοῖρα) che Sarpedone, il più caro a me degli uomini, sia domato da Patroclo, e il mio
cuore è combattuto, se condurlo via in salvo, nella ricca Licia, o lasciare che sia
ucciso” (vv. 433-438). Era ribatte che sarebbe una follia, e lo induce a lasciare che il
destino abbia il suo corso: quel che Zeus può fare, è mandare Thanatos e Hypnos a
prelevare il corpo.
vv. 490-93. Dopo Omero la frase “la guerra è una faccenda da uomini” diventa
proverbiale. Aristofane ci ricama sopra nella Lisistrata, il cui tema è il diritto/dovere
delle donne di occuparsi di questioni pubbliche, comprese le decisioni sulla guerra e
sulla pace. Nella scena agonale la protagonista spiega al Probulo perché le donne
hanno deciso di intervenire: fin dall’inizio della guerra hanno intuito che le decisioni
degli uomini erano sbagliate, ma se una solo cercava di farsi sentire dal marito, questi
la zittiva bruscamente, e se lei insisteva lui troncava il discorso dicendo “la guerra è
una faccenda da uomini”. Lisistrata conclude che, dato il fallimento completo degli
uomini, bisogna cambiare radicalmente condotta: saranno gli uomini d’ora innanzi a
stare in casa e a tessere la lana, mentre della guerra si occuperanno le donne.
v. 498. L’epiteto ¢ndrofÒnoio può risultare scioccante, in un contesto giocato
sugli affetti familiari, e dopo la tenerezza di cui l’eroe ha dato prova verso il figlio e
la moglie. D’altra parte, la formula “Ektoroj ¢ndrofÒnoio è molto frequente (ritorna
11 volte, di solito in clausola), e non dobbiamo dimenticare quel che dice Parry a
proposito della formula e del contesto (il poeta non pensa quasi mai al microcontesto,
quando impiega le formule). Anche nel canto XXIV, quando ormai Ettore è morto, è
un cadavere in cerca di sepoltura (dunque, le sue attitudini “omicide” sono
definitivamente estinte), la formula “Ektoroj ¢ndrofÒnoio è usata due volte:
addirittura, ai vv. 723-24 Andromaca inizia il lamento abbracciando il capo di Ettore
“massacratore” (tÍsin d' 'Androm£ch leukèlenoj Ãrce gÒoio / “Ektoroj
¢ndrofÒnoio k£rh met¦ cersˆn œcousa).
I versi conclusivi (500-502), che presentano il pianto di Andromaca e delle
ancelle per la morte di Ettore, caricano le altre due apparizioni del personaggio (XXII
e XXIV): nelle attese del poeta è del pubblico, Andromaca è già ora la vedova
inconsolabile, votata al lutto e al lamento. I commentatori osservano che, in termini
realistici, c’è contraddizione con lo sviluppo successivo dei fatti, perché dopo la
conclusione del duello tra Ettore e Aiace nel canto VII, la battaglia viene sospesa per
la sepoltura dei morti, e tutto lascia pensare che Ettore (come gli altri Troiani) per
qualche giorno torni a casa sua. In termini poetici, però, l’incontro del VI canto è
anche un addio.
Lettura e commento dei vv. 437-459. La scena finale del XXII canto è l’ultima nel
racconto della morte di Ettore. Ha stretti legami con la scena del VI canto, si può dire
che ne costituisca l’ideale prolungamento; ed è in evidente simmetria con il goos del
XXIV canto, di cui anticipa i temi. Nell’homilia Andromaca ricorda la sua famiglia, e
in particolare suo padre Eezione, che nel XXII è menzionato due volte (vv. 471-72 e
479-81); ancora, nell’homilia Andromaca prega Ettore di essere meno impetuoso e di
esporsi meno al pericolo, per non rendere vedova sua moglie e orfano suo figlio: nel
lamento del XXII canto questa triste condizione, ormai diventata realtà, è descritta
con precisione. Il nome di Astianatte, già spiegato nel VI canto, è di nuovo oggetto di
chiose e considerazioni nel XXII. Il quadro del piccolo che prova paura davanti
all’elmo del padre e si stringe al petto della nutrice, trova il suo omologo nella
angosciata descrizione dell’orfano, scacciato e deriso, costretto a cercare rifugio tra le
braccia della madre. Anche sul piano strutturale c’è una corrispondenza marcata. La
scena del VI canto si apre con la rapida corsa di Ettore, che raggiunge sua moglie
sulle mura; i due si parlano, poi Andromaca torna a casa e suscita il pianto delle
ancelle; nel XXII è lei a correre sulle mura per “incontrare” il marito, gli parla (tutto
il lamento è una lunga apostrofe in seconda persona), mentre intorno a lei le altre
donne levano i lamenti.
vv. 440-41. La scena ha chiari parallelismi con Il. III 125-28 (Teichoskopìa):
sia Elena che Andromaca stanno tessendo in casa, quando le raggiunge una notizia
che le induce a interrompere il lavoro e ad andare sulle mura, accompagnate da due
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ancelle e con indosso il velo. Diverso è lo “stile” delle due tessitrici: mentre
Andromaca intesse ornamenti floreali, Elena “racconta” episodi della guerra di Troia.
vv. 466-67. Lo svenimento di Andromaca è descritto con il frasario tipico della
morte del guerriero.
v. 470. Andromaca indossa il velo che le fu donato da Afrodite come regalo di
nozze: è un particolare patetico, che contrappone il momento splendido della festa
nuziale all’angoscia della vedovanza. Il giorno delle nozze è l’unico istante di felicità
per due sposi predestinati alla sofferenza e al dolore: il fr. 44 di Saffo si chiude con il
verso “festeggiavano Ettore e Andromaca, simili agli dèi”. D’altra parte, che il dono
di un dio possa trasformarsi in fonte di amarezza o rovina, è motivo folklorico: la
collana donata da Afrodite ad Armonia in occasione delle sue nozze con Cadmo, fu
usata molto tempo dopo da Polinice per indurre l’indovino argivo Anfiarao a
partecipare alla spedizione dei Sette (Polinice infatti la promise in dono a Erifile,
moglie di Anfiarao, a condizione che persuadesse il marito ad acconsentire).
Lettura e commento dei vv. 477-507. Il goos di Andromaca si può dividere in
tre momenti: il lamento della mala sorte nel cui segno i due sposi sono nati e sono
vissuti; una lunga sezione centrale, dedicata ad Astianatte e al triste destino che
aspetta il piccolo orfano; il ricordo dell’affetto profondo che Ettore dimostrava per i
bimbo e la riflessione sul significato del nome Astianatte, introducono un nuovo
lamento su Ettore, privato anche degli onori funebri (Andromaca dovrà accontentarsi
di bruciare le splendide vesti preparate per lui dalle donne, ma nel rogo il corpo non
ci sarà).
vv. 487-99. La desolata presentazione che Andromaca fa della futura
condizione di Astianatte orfano, ha suscitato le critiche di omeristi antichi e moderni.
Già Aristarco considerava interpolati questi versi, perché riteneva inverosimile che un
principe di sangue reale, diretto nipote di Priamo, per aver perduto il padre fosse
ridotto al ruolo di mendicante. La sua critica è stata condivisa da studiosi moderni,
che sono variamente intervenuti sul testo, proponendo l’atetesi di ampie sezioni. Si
deve però considerare che qui Andromaca traccia una sorta di quadro esemplare o
archetipico dell’orfano (e d’altra parte il personaggio contiene in sé negatività, così
che ogni situazione familiare in cui Andromaca è coinvolta, assume i contorni più
lividi e foschi che la mente umana possa immaginare).
Nei vv. 508-14 Andromaca immagina il corpo nudo e straziato del marito,
abbandonato agli insulti degli animali, e (con procedimento ondivago, che ha
insospettito i filologi ma in realtà corrisponde alle irrequietezze mentali di chi è
profondamente angosciato) si duole di non poterlo rivestire con i begli abiti pronti per
lui nella casa. Questo è un tema patetico che riaffiora nell’epica omerica: il tema della
donna (moglie o madre) che si preoccupa del benessere fisico del figlio o del marito
impegnato in un’impresa guerresca e gli fornisce un corredo di vesti. Nel canto XVI
dell’Iliade Achille - preparandosi a rivolgere a Zeus una solenne supplica – prende
una coppa d’oro da una cassa, dove sono conservate le vesti fornite da Teti. In
Odissea XIX Penelope mette alla prova lo straniero e gli chiede di dirle, se davvero
anni prima ha ospitato Odisseo a Creta, come era vestito: l’ospite parla del mantello
purpureo, della tunica morbida e splendente, ben modellata sul corpo (“come la
buccia di una cipolla), della fibbia d’oro cesellata, e Penelope scoppia in pianto e
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ricorda il momento in cui lei stessa aveva consegnato quegli abiti al marito che
partiva.
le è toccato un marito dappoco, deve amarlo, senza entrare in competizione con lui.
Se tu fossi la moglie del re della Tracia nevosa, dove un uomo divide il suo letto con
molte donne, le uccideresti tutte?” (vv. 207-218). E subito dopo Andromaca ricorda
che proprio per questo, ai tempi felici del suo matrimonio con Ettore, non contristava
il marito, attirandolo a sé sempre più con la sua virtù.
Lettura e commento dei vv. 657-683. Ermione rimprovera proprio questo alla
rivale in Andromaca 170-173: “Sei arrivata a una tale insensatezza, sciagurata, che
osi dormire con il figlio dell’uomo che uccise tuo marito, e dare nuova prole a un
assassino”; subito dopo, Ermione spiega che però non c’è da meravigliarsi troppo,
perché i costumi sessuali dei barbari sono bizzarri e scandalosi, e consentono anche le
promiscuità più turpi [è un passo interessante: Euripide, che vuole caratterizzare
negativamente Ermione in quanto spartana, le attribuisce rozzi pregiudizi razzisti, che
sono la proiezione negativa di quell’opposizione Greci - barbari ormai affermatasi
nell’immaginario greco]. Naturalmente, se la frase di Ermione è stupida e sguaiata,
l’angoscia di Andromaca è autentica e commovente.
v. 663. Ancora un riferimento omerico. Ettore e Andromaca nell’Iliade sono
figure assolutamente speculari, si corrispondono perfettamente: Euripide allora ha
buon gioco nell’attribuire alla sua Andromaca la preoccupazione - tipica di Ettore
nell’Iliade - di non apparire kak» (non nel senso di “vile”, bensì di “colpevole”).
vv. 690-91. Lo scafo che imbarca acqua, il timone rotto o inefficiente, le vele
aggrovigliate o lacerate, sono i tre elementi tradizionalmente che descrivono gli
effetti della tempesta a bordo di una nave. Ritornano, per esempio, nel fr. 326 V. di
Alceo, che diventa poi un modello canonico per siffatte descrizioni: vv. 4-9 “L’acqua
raggiunge il piede dell’albero, la grande vela è spaccata, e ridotta a grossi brandelli, le
funi sono allentate e il timone [è guasto]”.
vv. 706-708. Sono una sorta di didascalia scenica. Nella tragedia è normale che
un personaggio che entra in scena, sia “salutato” dal Corifeo o da un attore, in modo
tale che il pubblico lo possa identificare facilmente; o almeno, così avviene quando il
nuovo arrivo pone fine a una conversazione e determina il passaggio a un nuovo
tema. Non c’è presentazione, invece, per gli ingressi in scena immediatamente
successivi a uno stasimo. Si è sostenuto che questi annunci (per i quali si fa
immancabile ricorso a dimostrativi deittici) non fossero solo elementi di semiotica
teatrale, ma avessero anche la funzione pratica di “coprire” l’intervallo di tempo
necessario perché l’attore, già visibile al pubblico appena varcata l’eisodos,
raggiungesse il centro dell’orchestra. Però, l’annuncio accompagna l’entrata in scena
anche nel caso in cui il personaggio entri da una porta dell’edificio scenico.
v. 737. Il participio sigîsa è amaramente ironico: Taltibio invita Andromaca
a osservare ancora una volta quella norma del silenzio cui si è sempre attenuta nella
sua vita familiare. Ora però si tratta di accettare in silenzio una decisione che cancella
quanto ancora resta della sua famiglia, e la distrugge completamente come moglie e
come madre. La morte orribile del piccolo Astianatte è soggetto favorito dell’arte
greca, fin dall’età arcaica: di solito, nella ceramica è accostata a quella di Priamo.
Euripide da prova di un’intuizione poetica eccezionale: pone al centro della tragedia
(e dell’intera trilogia) una scena che i Greci avevano negli occhi e nel cuore,
sfruttandone per intero la carica emotiva.