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Errata corrige e vari commenti al testo

Geometria 2 di Edoardo Sernesi


a cura di A. Pasini, Siena, 1/10/2016

Nella pagina web del corso suggerisco due testi, in alternativa: Lectures
Notes on Elementary Topology and Geometry, di I. M. Singer e J. A. Thorpe,
e Geometria 2, di E. Sernesi. Il primo testo è reperibile online (tramite Google
Libri, per esempio). Il secondo è diffusamente presente sul mercato e gode di
grande reputazione. Però contiene moltissimi errori, alcuni veramente sconcer-
tanti, che mi vedo costretto a segnalare. Fornisco dunque un elenco di tutti gli
errori che ho individuato nel testo Geometria 2 del Prof. Sernesi. Occasional-
mente aggiungerò qualche osservazione intesa a chiarire meglio alcuni punti. Non
ho controllato le risposte date agli esercizi (pagine 375-381 del testo). Quindi
su quella parte non dico nulla.
Il testo del Sernesi uscı̀ nel 1994, ma ne è stata fatta una ristampa nel 2013,
emendata da alcuni errori contenuti nella prima edizione. Gli errori che segnalo
sono quelli contenuti nella ristampa del 2013.

Notazioni. Seguendo una prassi consolidata, uso il simbolo ⊂ solo per indicare
inclusione stretta (mentre il Sernesi lo usa per indicare inclusione debole) e
denoto l’ inclusione debole con ⊆. Userò i simboli C, R, Q e Z per indicare
rispettivamente il campo dei numeri complessi, il campo dei numeri reali, il
campo dei numeri razionali e l’ anello degli interi. Inoltre, seguendo la notazione
adottata in alcuni testi di analisi (Dieudonné, per esempio) indico l’ intervallo
aperto di R di estremi a e b col simbolo ]a, b[ anzichè (a, b), per evitare ogni
confusione tra intervalli di R e punti di R2 . Denoto la semiretta aperta positiva
(negativa) di origine a col simbolo ]a, +∞) (rispettivamente (−∞, a[).
Avverto infine che a volte, nel contare le righe di una pagina, inizio dal fondo.
In quel caso indico la posizione della riga con un numero negativo.

1 Capitolo 1
Le poche osservazioni che ho da fare su questo capitolo riguardano tutte l’ Es-
empio 3.8.3, che contiene una breve introduzione alla topologia di Zariski.

1) Pagina 31, riga −8. Vi si afferma che


(a) I1 ⊆ I2 ⇔ V (I1 ) ⊇ V (I2 ).

1
L’ implicazione ⇒ è corretta (ed immediata) ma l’ implicazione ⇐ è falsa. Per
esempio, sia I2 = hI12 i (ideale generato dai quadrati dei polinomi di I1 ). Allora
V (I1 ) = V (I2 ) ma I1 ⊃ I2 . In questo caso V (I1 ) ⊇ V (I2 ) ma I1 6⊆ I2 .
Diamo un altro controesempio. Con K = R considerate i polinomi Pr =
x2 + y 2 + r ove r > 0. Sia Jr = hPr i. Chiaramente, V (Jr ) = V (Js ) = ∅ per ogni
scelta di r, s > 0. Tuttavia Jr = Js solo se r = s.
Il primo controesempio dipende dal fatto che I12 non è l’ ideale massimo
associabile all’ insieme algebrico V (I1 ), e questo anche se K fosse algebrica-
mente chiuso. Il secondo controesempio dipende invece dal fatto che R non é
algebricamente chiuso.
Perchè valga la doppia implicazione si deve dunque assumere che K sia
algebricamente chiuso e si devono considerare solo ideali radicali. Per essere più
esplicito, rammento che dato un ideale I il suo radicale é l’ ideale

I := {P | P n ∈ I per qualche intero n > 0}.

(Non
√ è difficile dimostrare che I é effettivamente
√ un ideale ed è ovvio che
I ⊇ I.) Un ideale I è detto radicale se I = I. (Vedi anche le ultime tre
righe di pagina 31 del testo.) Ciò premesso, vediamo come va riscritta la (a).
L’ affermazione corretta è la seguente:

(a’) Se K è algebricamente chiuso allora


p p
I1 ⊆ I2 ⇔ V (I1 ) ⊇ V (I2 ).

Equivalentemente:
√ se K è algebricamente chiuso, allora per ogni ideale I, il suo
radicale I é il massimo ideale J per cui V (J) = V (I).
Questo risultato è noto come il Nullstellensatz di Hilbert. Non si tratta af-
fatto di un risultato banale. Quindi l’ affermazione fatta alla prima riga di
pagina 32 del testo, che l’ equivalenza (a) sia di dimostrazione immediata, è una
sciocchezza. L’ equivalenza (a) di pagina 31 non è certo di dimostrazione imme-
diata, dal momento che la sua parte ⇐ è falsa. D’ altra parte, la sua versione
corretta (a’) è tutt’ altro che immediata.

2) Pagina 31, ultime tre righe. A completamento p√di quanto detto dall’ Autore,
√ √
avverto che I è esso stesso un ideale e che I = I. Quindi un ideale è
radicale (vedi precedente nota (1)) se e solo se è il radicale di qualche ideale.

3) Pagina 32, riga 7: a 6∈ V (I1 ) ∪ V (I2 ). Da quel che si dice nelle prime righe di
pagina 32 si deduce solo che a 6∈ V (I1 ∩ I2 ). Questo però basta per concludere
che V (I1 ∩ I2 ) ⊆ V (I1 ) ∪ V (I2 ). Dopodichè, siccome si è già osservato che
V (I1 ∩ I2 ) ⊇ V (I1 ) ∪ V (I2 ) (per la parte ⇒ di (a)), si può concludere che
V (I1 ∩ I2 ) = V (I1 ) ∪ V (I2 ), come si voleva.

2
2 Capitolo 2
1) Esempio 5.4.10. Pagina 53, riga 7: “ogni poligono convesso è una 2-cella”.
Vero, ma la dimostrazione non è cosı̀ banale come il testo lascia intendere. Per
rendersene conto, si dia una scorsa ad una monografia di teoria dei politopi.

2) Determinazione principale di z θ . Avverto intanto che la descrizione della


determinazione principale di w1/n fornita a pagina 53 (ultima riga prima della
figura 5.4) ha senso solo se w 6= 0, non essendo definito arg(0). Ma questo non è
molto importante. Piuttosto, a pagina 54 (righe 11 e 12) si menziona la determi-
−1
nazione principale di z θ2 θ1 , ove nulla impedisce che θ2 θ1−1 sia irrazionale. Non
credo che tutti abbiano chiaro cosa si intenda qui per determinazione principale.
Lo spiego, sperando di aver indovinato quel che l’ Autore intende.
Dato un numero complesso non nullo z = |z|(cos φ + i sin φ) ed un numero
reale α, possiamo definire z α come segue:
(∗) z α := |z|α · (cos αφ + i sin αφ).
Però quando α non è intero questa non è una buona definizione. Infatti, sic-
come l’ argomento φ di z è determinato da z solo a meno di multipli interi di
2π, quando α non è intero (∗) definisce non un numero ma una famiglia di nu-
meri. Precisamente, una famiglia finita quando α è razionale ed infinita quando
α è irrazionale. Per evitare questo inconveniente, dobbiamo imporre qualche
restrizione sull’ argomento φ di z. Di solito, si assume che 0 ≤ φ < 2π. Con
questa restrizione, (∗) individua un unico numero complesso. Questo numero
viene preso come determinazione principale di z α .

3) Topologia della convergenza puntuale. Pagina 69, ultime tre righe.


Queste tre righe sono del tutto prive di senso. Le riformulerei come segue: Se
f = limn→∞ fn allora per ogni sottoinsieme finito I di ]a, b[ e per ogni r > 0
deve esistere un intero positivo nI,r tale che
fn ∈ p−1
x (]f (x) − r, f (x) + r[)

per ogni x ∈ I ed ogni n ≥ nI,r . Il ché è come dire che fn (x) → f (x) per ogni
x ∈]a, b[, come del resto intende l’ Autore.
A parte questo, l’ Autore lascia intendere che la topologia prodotto su R]a,b[
sia l’ unica nella quale la convergenza di una successione di funzioni equivalga
alla sua convergenza puntuale. Non lo dice, però lo lascia credere. Certamente
è vero che nella topologia prodotto la convergenza equivale alla convergenza
puntuale, ma non so se la topologia prodotto sia proprio l’ unica per la quale
questo succede. Lo sarebbe se sostituissimo ]a, b[ con un insieme numerabile,
ma per l’ appunto ]a, b[ è più che numerabile.

4) Pagina 14, riga −3. Sostituire x ∈ X con x ∈ U .

5) Pagina 83, riga −6. Sostituire t−1 ((A)) con t−1 (t(A)).

3
6) Pagina 85, riga −12. La scrittura (z0 /zi , ..., zn /zi ) va intesa come
(z0 /zi , ..., zi−1 /zi , zi+1 /zi , ..., zn /zi ).

3 Capitolo 3
3.1 Varietà topologica di dimensione n
Pagina 99, righe 19-21. Perchè la definizione sia pienamente soddisfacente,
bisognerebbe anche dimostrare che la dimensione n di una varietà connessa è uni-
vocamente determinata dalla topologia della varietà, cioè che uno spazio topo-
logico connesso non può ammettere due atlanti di dimensioni diverse. Questo è
vero. Lo si ottiene facilmente come corollario del seguente teorema, noto come
Teorema della Dimensione:

Teorema. Nessun aperto di Rn può essere omeomorfo ad Rm con m 6= n.

Il Teorema della Dimensione è però tutt’ altro che immediato. Lo si dimostra


usando la teoria dell’ omologia.

3.2 Distanza della convergenza uniforme


Pagina 123, riga 17:
¯ (x)), g(x)}.
δ(f, g) = supx∈X {d(f

Può capitare che δ(f, g) = ∞. Quindi in generale δ non è una distanza. Per
evitare quest’ inconveniente, di solito si considerano non tutte le funzioni da X
ad Y ma solo quelle funzioni f per le quali, per una data funzione ω : X → Y ,
scelta una volta per tutte, risulti δ(f, ω) < ∞. Per esempio, se X ed Y sono
due spazi normati, si usa definire δ(f, g) solo per funzioni limitate, cioè tali che
supx∈X ||f (x)|| < ∞. Questa scelta è un caso particolare di quella descritta
sopra, ove come funzione di riferimento ω si prende l’ applicazione nulla.
Ne segue che la Proposizione 10.18 è errata: in genere (Y X , δ) non è uno
spazio metrico. L’ insieme Y X va sostituito con il suo sottoinsieme BY,ω (X) :=
{f ∈ Y X | δ(f, ω) < ∞}, per una data funzione ω : X → Y .

3.3 Altre correzioni


1) Pagina 98, righe 5 e 6. Nel ragionamento svolto in queste righe si deve pren-
dere P = p.

2) Pagina 99, riga −17: “... per dimostrare che uno spazio di Hausdorff X ...”.
Inserire: che soddisfi il secondo assioma di numerabilità. Infatti, l’ esistenza di
un atlante, anche se è sufficiente per ottenere il primo assioma di numerabilità,
non basta ad ottenere il secondo, che però è inserito nella definizione di varietà.
Infatti, se uno spazio di Hausdorff X è fornito di un atlante, il secondo assioma

4
di numerabilità vale nel dominio di ogni carta dell’ atlante dato, ma potrebbe
non valere globalmente in X. Questo potrebbe accadere se per ricoprire X
avessimo bisogno di atlanti formati da una totalità più che numerabile di carte.
Questo accade per esempio se lo spazio X è unione disgiunta di una totalità più
che numerabile di varietà topologiche.

3) Pagina 109, riga 6: “dalla [9.2] segue che ognuno degli U ∗ interseca ogni
B ∈ B”. No, la conclusione non segue dalla [9.2]. Senza sfruttare altre infor-
mazioni su U ∗ e B, dal fatto che B ∩ p−1 µi (Umi ) 6= ∅ per ogni i = 1, 2, ..., k
non si pò dedurre che B ∩ ∩ki=1 p−1 mi (U µi ) 6= ∅. Però qui sappiamo già che
U ∗ := ∩ki=1 p−1
µi (Uµi ) ∈ B. Quindi U ∗
∩ B 6= ∅ perchè B gode della proprietà
dell’ intersezione finita.

4) Pagina 123, riga 2. Inserire “è” tra “categoria” e “costituita”.

5) Pagina 124, ultima riga (Esercizio 4). Vi si afferma che ogni spazio metrico
completo è separabile, ma questo è falso. Ecco un controesempio.
Sia (X, d) uno spazio metrico discreto (d(x, y) = 1 per ogni scelta di x 6= y).
In questo spazio le successioni di Cauchy sono quelle costanti da un certo punto
in poi. Quindi, sono tutte convergenti. Dunque (X, d) è completo. D’ altra
parte, la topologia di (X, d) è quella discreta. Quindi se X è più che numerabile
lo spazio (X, d) non può ammettere una base numerabile.

6) Pagina 139, riga 16. Non è vero che Ix ∪ C = Ix ∪ C ∪ Iy . Infatti


Ix ∪ C = Ix ∪ C ∪ Iy ∪ Jx ove Jx := {(x, 1) | (x, 1)0 ≤ x ≤ 1}.

D’ altra parte, l’ affermazione alla riga −6 di pagina 139 (che Y non è localmente
connesso in (0, 1)) è vera per Y = Ix ∪ C ∪ Iy ma è falsa per Y = Ix ∪ C ∪ Iy ∪ Jx .
Quindi la riga 16 va riletta cosı̀:
Y := Ix ∪ C ∪ Iy ,

cancellando il riferimento a Ix ∪ C. Infatti Y ⊂ Ix ∪ C.

7) Connessione locale e connessione per archi locale. Di solito, quando


si considerano intorni fondamentali di aperti con certe proprietà (per esempio
connessione o connessione locale per archi) si intende che gli intorni in questione
siano aperti. In generale, non è vero che l’ esistenza di un sistema fondamentale
di intorni, non necessariamente aperti, con una certa proprietà, equivalga all’
esistenza di un insieme fondamentale di intorni aperti con quella stessa proprietà.
(Si pensi al caso in cui la proprietà in questione sia la compattezza, per esempio).
Non so se questo sia vero quando la proprietà in questione sia la connessione
o la connessione per archi. Ad ogni modo, nel definire la connessione locale
(pagina 132, esercizio 10) e la connessione per archi locale (ultime righe di pag.
138 e prime righe di pag. 139), l’ autore fa riferimento a sistemi fondamentali di
intorni, senza richiedere che siano aperti. Ritorna poi sul concetto di connessione

5
locale per archi a pagina 167 (riga −4), ove riformula ex novo la definizione di
connessione locale per archi, ma questa volta assumendo che gli intorni del
sistema fondamentale in questione siano aperti. Forse anche alle pagine 132 e
137 intendeva riferirsi ad intorni aperti.

3.4 Altre osservazioni


1) Pagina 97, riga −15. Credo che che l’ implicazione |S| > ℵ0 ⇒ |P (S)| > 2ℵ0
richieda l’ Ipotesi del Continuo.

2) Paragrafo 9.14.5. Pagina 110, righe da −11 a −3. Vale la pena osservare
che un insieme può essere compatto senza essere relativamente compatto. Per
esempio, sia X un insieme, K ⊂ X e sia SK la famiglia dei sottoinsiemi di X che
contengono K. Allora T := SK ∪ {∅} definisce una topologia su X. In questa
topologia K è compatto. Però K = X e, se X \ K è infinito, X non è compatto.

3) Corollario 9.13. La dimostrazione sfrutta implicitamente il fatto (cruciale)


che la topologia naturale di Rn coincide con la topologia prodotto. Non sarebbe
male evidenziarlo, per evitare che chi legge si faccia idee sbagliate sul caso di
dimensione infinita. Infatti, se consideriamo uno spazio normato reale V di
dimensione infinita, è ancora vero che gli insiemi chiusi e limitati risultano com-
patti nella topologia prodotto, ma non è detto che siano compatti nella topologia
naturale di V . Infatti ora questa è strettamente più fine della topologia prodotto.

4) Pagina 115, Proposizione 10.3. Non sarebbe male avvertire il lettore che non
è escluso che da un certo punto in poi risulti sempre Ki = X.

5) Teorema di Cantor (Teorema 10.14). Il cosidetto Teorema di Cantor è


un teorema o un assioma? Se fosse un’ assioma, non avrebbe senso dimostrarlo.
Ovviamente, tutto dipende da come sono stati definiti i numeri reali. Se, come
molti fanno, si definisce il campo R dei numeri reali come l’ unico (a meno
di isomorfismi) campo ordinato archimedeo soddisfacente l’ Assioma di Cantor
allora quel teorema è un assioma. Immagino quindi che l’ Autore abbia in mente
una diversa definizione di R. Ma non ci dice quale. Ed è anche giusto che non lo
dica: è opinione comune che questo argomento non rientri tra quelli che un corso
di geometria deve coprire. Ma allora nemmeno ci si può mettere a ridiscutere
le proprietà di R.

4 Capitolo 4
4.1 Fibre di un rivestimento
1) Pagina 162, Lemma 17.1, affermazione (d). Non c’ è bisogno di assumere che
X sia localmente connesso e nemmeno è necessario assumere che n sia finito.
Inoltre, la dimostrazione di (d) si può fare in molto piú semplice di come si fa

6
nel testo. Rimando per questo al file ComplementiTA, Sezione 2.1.

2) Pagina 167, Corollario 17.8, parte (a). La cardinalità di p−1 (x0 ) è uguale
all’ indice di p∗ (π1 (R, r0 )) anche se p−1 (x0 ) è infinito. Inoltre, perchè tutte le
fibre di p−1 (x) abbiano la stessa cardinalità (parte (b) del Corollario 17.8) non
c’ è bisogno di supporre che R sia connesso per archi. Basta supporre che X sia
connesso. (Vedi osservazione precedente.)

4.2 L ’ azione di π1 (X, x0 ) su p−1 (x0 )


Di solito l’ azione di π1 (X, x0 ) su p−1 (x0 ) viene definita in modo diverso da
come fa l’ Autore in [17.1]. Definendo l’ azione come fa l’ Autore, se π1 (X) non
è commutativo non è possibile aggregare le varie azioni di π1 (X) sulle varie fibre
di p in modo coerente, cosı̀ da ottenere un’ azione globale di π1 (X) su R come
gruppo di omeomorfismi di R, nemmeno se R é semplicemente connesso. Per
ottenere questo risultato si deve definire l’ azione di π1 (X) in un altro modo.
Illustro qui brevemente questa diversa definizione, rimandando per i dettagli al
file ComplementiTA, Sezione 3.1.
Intanto, si assume che R sia semplicemente connesso. Si sceglie un punto
x00 ∈ p−1 (x0 ) e, dato [α] ∈ π1 (X, x0 ), si definisce l’ azione ρ([α]) di [α] come
segue: dato x0 ∈ R (non necessariamente in p−1 (x0 )), si sceglie un arco γx0 0
in R da x00 ad x0 e, se γx0 = p · γx0 0 , si considera il sollevamento (γx−1 0
0 αγx0 ) di
−1 0 0
γx0 αγx con base x e si stabilisce che ρ([α])(x ) sia il punto terminale di tale
0

sollevamento. Il punto cosı̀ definito non dipende dalla scelta di γx0 0 perchè per
ipotesi R è semplicemente connesso. Ovviamente, non dipende nemmeno dalla
scelta di α ∈ [α].
Si dimostra poi che se R è anche localmente connesso per archi allora ρ([α])
è un omeomorfismo di R. Anzi, l’ insieme {ρ([α])}[α]∈π1 (X,x0 ) è il gruppo di
tutti gli omemorfismi g di R che stabilizzano p, cioè tali che pg = p. In tal
modo il gruppo π1 (X) viene indentificato con lo stabilizzatore Aut(p) di p nel
gruppo Aut(R) degli omeomorfismi di R in sè.
Ovviamente, l’ isomorfismo ρ : π1 (X) → Aut(p) definito come sopra dipende
dalla scelta di x00 , ma non in modo essenziale. Se sostituisco x00 con un altro
punto x000 e se ρ0 è l’ isomorfismo ottenuto a partire da x000 , allora ρ0 = ρ · ω
per un opportuno automorfismo di π1 (X) (che, nel caso che p(x00 ) = p(x000 ), è
addirittura un automorfismo interno).

4.3 Connessione per archi locale e globale


1) All’ inizio della Sezione 18 (Pagina 167, ultima riga) l’ Autore avverte che per
tutta la durata della Sezione 18 tutti gli spazi si supporranno implicitamente
connessi per archi e localmente connessi per archi. In realtà basta supporli con-
nessi e localmente connessi per archi. Infatti ogni spazio connesso e localmente
connesso per archi è anche connesso per archi.
Del resto, a pagina 172, riga −10, l’ autore implicitamente fa riferimento
proprio al fatto che, come osservato sopra, la connessione per archi segue dalla

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connessione e dalla locale connessione per archi. Infatti a quel punto dice che
le varietà topologiche connesse soddisfano le ipotesi del Teorema 18.9 di pagina
171, cioè connessione per archi sia locale che globale. Infatti una varietà topo-
logica, essendo localmente omeomorfa ad Rn , è localmente connessa per archi.
Quindi, se per di più è connessa, è anche connessa per archi.

2) In base all’ assunzione fatta alla fine di pagina 167, nel Teorema 18.4 si
deve intendere che tutti gli spazi in esso coinvolti siano localmente connessi per
archi. In realtà, non c’ è bisogno di quest’ ipotesi per dimostrare l’ implicazione
(a) ⇒ (b). Ne abbiamo invece bisogno per dimostrare che (b) ⇒ (a), ma anche
per questo basta meno: basta supporre che Y sia localmente connesso per archi.
Rimando al file ComplementiTA, Esempio 4.2, per un esempio che mostra che
quest’ ultima ipotesi è veramente irrinunciabile per ottenere la parte (b) ⇒ (a)
del Teorema 18.4.

4.4 Altre correzioni e commenti


1) Pagina 143. La conclusione della dimostrazione del Lemma 13.1 non è
cosı̀ banale come il testo lascierebbe credere. Si parte da due spazi topologici
X0 := X × [0, 1/2] ed X1 := X × [1/2, 1], entrambi omeomorfi ad X := X × [0, 1]
mediante omeomorfismi ω0 e rispettivamente ω1 , ove ω0 (x, t) = (x, t/2) ed
ω1 (x, t) = (x, t/2 + 1/2), e li si incollano lungo X × {1/2} in modo che l’
incollatura, chiamiamola X0 ∗ X1 , restituisca X , cioè sia X0 ∗ X1 = X . Poi
si incollano le due applicazioni continue (omotopie) F · ω0−1 : X0 → Y e
G · ω1−1 : X1 → Y , in modo da ottenere un’ unica applicazione continua (omo-
topia) H = F ∗ G : X → Y , tale che H|X0 = F · ω0−1 ed H|X1 = G · ω1−1 . Si
tratta di costruzioni non troppo difficili, ma nemmeno del tutto banali. Qualche
spiegazione sarebbe opportuna. Rimando per questo al file ComplementiTA,
Sottosezione 1.1.1.

2) A pagina 143, righe 8 e 9, si legge: un’ omotopia è essenzialmente una


famiglia di applicazioni continue Ft : X → Y , t ∈ I,... Questo non è esatto.
Un’ omotopia è una famiglia di funzioni continue Ft : X → Y che dipendono
con continuità dal parametro t ∈ I. Ora però bisogna spiegare cosa si intende
quando si dice che una famiglia di funzioni dipende con continutà da un dato
parametro. Lo si può spiegare nel modo seguente.
Prendiamo l’ insieme Y X di tutte le funzioni
Q da X ad Y , munito della
topologia prodotto. (Si rammenti che Y X = x∈X Yx ove Yx := Y per ogni
x ∈ X.) Per ogni funzione F : X × I → Y sia ΦF : I → Y X l’ applicazione che
ad ogni t ∈ I associa la funzione ΦF (t) : X → Y che porta x ∈ X in F (x, t).
Non è difficile dimostrare che F è continua se e solo se valgono entrambe le
seguenti condizioni:
(a) Per ogni t ∈ I, la funzione ΦF (t) : X → Y è continua;

(b) ΦF è continua in quanto applicazione da I ad Y X .

8
Quando si dice che Ft dipende con continuità da t si intende appunto dire che
ΦF è continua.

3) Pagina 143, riga −8. E’ vero che g(x) è continua. In particolare, è continua
in 0, però la dimostrazione di questo fatto è tutt’ altro che banale. Rimando
per essa alla sottosezine 1.1.4 del file ComplementiTA.

4) Pagina 149, riga 3: “Se X è dotato della topologia discreta... allora π1 (X, x0 ) =
{[c0 ]}.”. Si, questo è vero, ma non è tanto ovvio. Invece l’ affermazione che
π1 (X, x0 ) = {[c0 ]} è ovvia quando X è dotato della topologia banale. Forse l’
autore intendeva dire ‘topologia banale’ anzichè ‘discreta’.
Ma vediamo come stanno le cose nel caso che X sia dotato della topologia
discreta. Supponendo che questo sia il caso, sia α : [0, 1] → X un arco. Siccome
X è uno spazio discreto, {α(t)} è un aperto per ogni t ∈ [0, 1]. Siccome α è
continua, α−1 (α(t)) è aperto, per ogni t ∈ [0, 1]. Quindi [0, 1] è unione di una
famiglia di insiemi aperti nella topologia di [0, 1], a due a due disgiunti. Questo
è possibile solo se tale famiglia contiene un solo aperto, vale a dire: se α applica
tutto [0, 1] su un singolo punto. In definitiva, X ammette solo archi costanti.
E’ ora ovvio che π1 (X, x0 ) = {c0 }.

5) Pagina 152, riga 6: “ ... un criterio sufficiente affinchè due spazi siano omeo-
morfi”. No: necessario, non sufficiente.

6) Pagina 152, definizione di G(s, t), quarta clausola. Ove è scritto g(t + 3s) si
legga g(t + 3s − 2).

7) Pagina 158. La dimostrazione del Teorema di Brouwer (Corollario 16.8)


contiene un errore: nella terza riga della dimostrazione, la frase “il punto di
intersezione con la retta hx, f (x)i più vicino ad x” è sbagliata; se x si venisse a
trovare esattamente nel mezzo tra quei due punti, non sapremmo quale di essi
prendere. La frase va corretta cosı̀: il punto intersezione con la semiretta aperta
{f (x) + t(x − f (x))}t>0 .
Anche la figura 16.1 è sbagliata. Il punto g(x) corrisponde all’ estremo in
basso a sinistra della corda passante per x ed f (x), non a quello in alto a destra.
A parte queste inesattezze, sarebbe opportuno dire che la dimostrazione del
Corollario 16.8 (non solo l’ enunciato) vale immutata per ogni n. E questo perché
anche l’ enunciato del Teorema 16.7 resta valido in generale, anche se la sua di-
mostrazione nel caso generale è molto diversa da quella offerta dall’ Autore per il
caso particolare di n = 2. Infatti nel caso generale si usa la teoria dell’ omologia.

8) Pagina 159, Teorema 16.10. Bisogna anche assumere che U ∩ V 6= ∅.

9) Pagina 162, righe 14-19. E’ vero che non ogni omeomorfismo locale è un rives-
timento, ma non solo perchè un omeomorfismo locale può non essere suriettivo.
Infatti esistono anche omeomorfismi locali suriettivi che non sono rivestimenti.

9
10) Pagina 165, righe 11 e 12. E vero che esistono s0 < s1 < ... e t0 < t1 < ...
tali che per ogni scelta di j ed i risullti [sj−1 , sj ] × [ti−1 , ti ] ⊆ F −1 (Uk ) per
qualche k. Però la dimostrazione di questo fatto non è semplicissima. Il lettore
la può trovare nel file ComplementiTA, Sezione 2.6.

11) Pagina 170, Proposizione 18.6. La dimostrazione che g è un rivestimento non


è poi tanto semplice come preteso dall’ Autore. Rimando per la dimostrazione
al Lemma 4.3 del file ComplementiTA.

12) Pagina 171, riga −9: [α] ∈ [α, V ] invece che α ∈ [α, V ].

13) Alla fine del Capitolo 4 compaiono due teoremi entrambi contrassegnati dal
numero 18.9 (pagina 171 e 172). Il Teorema 18.9 di pagina 172 dovrebbe essere
18.10. Nelle righe immediatamente precedenti il Teorema di pag 172 (riga −10
di pagina 172) si fa riferimento ad un inesistente Teorema 18.8. Deve intendersi
il Teorema 18.9 di pagina 171.

5 Capitolo 5
5.1 Proposizione 19.1
Nella prima delle tre formule della Proposizione 19.1 si afferma quanto segue:

(A) Dati tre vettori non nulli v, w e u = av + bw, se ciascuna delle derivate
v(F )a , w(F )a e u(F )a esiste, allora risulta u(F )a = av(F )a + bw(F )a .

Questa è una sciocchezza. Infatti la (A) è falsa, come ben si sa dai corsi
di Analisi. Fornirò due controesempi fra poco, ma prima voglio correggere la
(A). La (A) va sostituita con la seguente affermazione, dove non si assume l’
esistenza della derivata lungo av + bw ma si fanno ipotesi molto più forti sulle
derivate v(F ) e w(F ).

(B) Se per due vettori non nulli v e w entrambe le derivate v(F )p e w(F )p es-
istono in ogni punto p di un intorno U di a e, viste come funzioni di p, risultano
continue in a, allora esiste anche u(F )a per ogni scelta di u = av + bw ∈ hv, wi,
u 6= 0, e risulta u(F )a = av(F )a + bw(F )a .

Rimando per la dimostrazione di (B) ad un qualunque testo di Analisi. Passo


invece ai controesempi che ho promesso.

Controesempio 1. Sia F : R2 → R definita cosı̀:



x + y se xy =6 0,
F (x, y) =
0 se xy = 0.

10
La derivata v(F )0 esiste per ogni vettore v = (v1 , v2 ) 6= 0 = (0, 0). Precisa-
mente,

v1 + v2 se v1 v2 6= 0,
v(F )0 =
0 se v1 v2 = 0.
Quindi
∂F ∂F
v(F )0 = v1 + v2 6= v1 (0) + v2 (0) = 0 + 0 = 0.
∂x ∂y
Quindi (A) è falsa. Va da sè che in questo esempio le ipotesi di (B) non sono sod-
disfatte. Infatti nessuna delle derivate v(F )x è definita in punti x = (x, y) 6= 0
con xy = 0, salvo quando v = tx.

Controesempio 2. Sia F : R2 → R definita cosı̀:


 2
x y/(x2 + y 2 ) se (x, y) 6= 0,
F (x, y) =
0 se (x, y) = 0.
La derivata v(F )a esiste per ogni punto a = (a1 , a2 ) ed ogni vettore v =
(v1 , v2 ) 6= 0. Precisamente,
a1 [(a21 − a22 )a1 v2 + 2a32 v1 ]
v(F )a = se a 6= 0,
(a21 + a22 )2

v12 v2
v(F )0 =
v12 + v22

Tuttavia,
∂F ∂F
v(F )0 6= v1 (0) + v2 (0).
∂x ∂y
Quindi (A) è falsa. In questo esempio tutte le derivate v(F )x esistono, qualunque
siano v e x ma nessuna delle funzioni x 7→ v(F )x è continua in 0. In particolare,
∂F/∂x e ∂F/∂y non sono continue in 0.

5.2 Dimensione
Definizione 19.3. La definizione è congegnata in modo tale che la dimensione
n di una varietà X sia assegnata in anticipo: per definizione, tutte le carte
di un atlante hanno la stessa dimensione n, cioè sono omeomorfismi da un
aperto di X ad un aperto di Rn , ove n è fissato in anticipo. La definizione
lascia intendere che si possa anche cambiare atlante, ma siccome una varietà è
individuata da una classe di atlanti tra loro equivalenti (riga −12 di pagina 177,
ove si precisa la definizione 19.3), e siccome atlanti equivalenti, essendo contenuti
in un atlante più ricco, hanno la stessa dimensione dell’ atlante che li contiene, e
quindi hanno la stessa dimensione, la dimensione non cambia cambiando atlante
(perchè possiamo solo sostituire un atlante con un altro ad esso equivalente).

11
Questo modo di sistemare le cose può lasciare insoddisfatti. Chi non ne fosse
soddisfatto, può riorganizzare le cose come segue. Adottiamo una definizione di
atlante più permissiva: un atlante è una famiglia {(Uλ , φλ )}λ∈Λ ove:

(1) per ogni λ ∈ Λ esiste un intero positivo nλ tale che (Uλ , φλ ) è una nλ -carta
locale (nel senso della Definizione 19.2);
(2) per ogni scelta di λ, µ ∈ Λ, se Uλ ∩Uµ 6= ∅ le carte (Uλ , φλ ) e (Uµ , φµ ) sono
compatibili (nel senso della Definizione 19.2, salvo che ora non si esclude
a priori che possa essere nλ 6= nµ );
(3) ∪λ∈Λ Uλ = X.

Messe le cose in questo modo, per poter parlare della dimensione di un atlante
{(Uλ , φλ )}λ∈Λ bisogna dimostrare che, se X è connessa, allora nλ = nµ per ogni
scelta di λ, µ ∈ Λ. Qui possiamo rifarci alle cose già dette nella Sezione 3.1 di
queste note: X è una varietà topologica. Tutte le carte di una varietà topologica
connessa hanno la stessa dimensione, per il Teorema della Dimensione. Se n è
la dimensione di X in quanto varietà topologica, allora nλ = n, per ogni λ ∈ Λ.
Va da sè che, se X non è connessa, ogni componente connessa di X avrà una
sua dimensione, ma non è detto che queste siano tutte uguali tra loro.
Però non c’ è bisogno del Teorema della Dimensione per definire la dimen-
sione di un atlante differenziabile. Vale infatti la seguente proposizione, che
si dimostra usando solo strumenti elementari di analisi ed algebra lineare. Ri-
mando per la dimostrazione al file ComplementiGD.

Proposizione. In una varietà differenziabile connessa, tutte le carte di uno


stesso atlante hanno la stessa dimensione.

5.3 Morfismi
Nella definizione di morfismo di varietà differenziabili (pagina 178, ultimo para-
grafo) si deve assumere che F sia continua. Infatti l’ applicazione ψV · F · ϕ−1U
è definita su ϕU (U ∩ F −1 (V )), non su ϕU (U ) (come invece è erroneamente
scritto alla riga −3 del testo e di nuovo alla riga −2). E’ dunque necessario che
ϕU (U ∩ F −1 (V )) sia un aperto. Se F è continua allora U ∩ F −1 (U ) è aperto,
e tutto va bene. Se invece F non è continua allora F −1 (V ) ∩ U potrebbe non
essere aperto. In tal caso nemmeno ϕU (U ∩ F −1 (V )) sarebbe aperto.
La stessa correzione va fatta nella definizione di diffeomorfismo (pagina 178,
ultima riga): perché un’ applicazione possa essere un diffeomorfismo deve in-
nazitutto essere un omeomorfismo di varietà topologiche.

5.4 Differenziabilità in campo complesso


Pagina 180, primo paragrafo della Sezione 20. Apparentemente, in queste righe
l’ Autore sostiene che una funzione F (u + iv) = f (u, v) + ig(u, v) da C a C è
differenziabile se sia f che g sono differenziabili in quanto funzioni da R2 ad R.

12
Ma questo è notoriamente falso. Per esempio, la funzione z 7→ z̄ che ad ogni
numero complesso z associa il suo coniugato z̄ non è differenzibile (mentre alla
fine del paragrafo l’ Autore dice che lo è), eppure la sua parte reale e la sua
parte immaginaria sono di classe C (∞) .
Come è noto dall’ Analisi Complessa, una funzione complessa di variabile
complessa F (u + iv) = f (u, v) + ig(u, v) è derivabile in un punto a + ib se e solo
se sia f che g sono differenziabili in (a, b) e per di più
∂f ∂g ∂f ∂g
(a, b) = (a, b) e (a, b) = − (a, b).
∂u ∂v ∂v ∂u
Inoltre, se F è derivabile su un aperto U di C è automaticamente di classe C (∞)
su U (e quindi sia f che g sono di classe C (∞) sull’ aperto di R2 corrispondente
ad U ). In breve, F è olomorfa su U . Quindi, contrariamente a quanto si
potrebbe evincere da quel che l’ Autore dice alla riga −6, le funzioni olomorfe
non sono particolari funzioni differenziabili da aperti di C a C. Esse sono proprio
le funzioni differenziabili da aperti di C a C.
Ma certamente l’ Autore sa tutto questo. Forse quel che dice in queste righe
va inteso diversamente. Credo che l’ interpretazione giusta sia la seguente: “Sap-
piamo benissimo cosa siano derivabilità e differenziabilità per funzioni da C a
C, ma nel presente contesto questo non ci interessa. Daremo invece a differen-
ziabile un altro significato, più debole, trattando le funzioni da C a C solo come
funzioni da R2 a R2 , dimenticando che si tratta di funzioni complesse di vari-
abile complessa. Quindi, parlando di differenziali non intenderemo i differenziali
nel senso dell’ Analisi Complessa. Li intendiamo invece nel senso appropriato
per funzioni da R2 a R2 . In questo senso, possiamo dire per esempio che la
coniugazione z 7→ z̄ è un’ applicazione differenziabile, pur sapendo benissimo
che non lo è nel senso dell’ Analisi Complessa.”

5.5 Orientazioni
1) Pagina 202, ultime tre righe. Che l’ insieme degli atlanti orientati di una
varietà orientabile X sia ripartito in due classi disgiunte, ciascuna delle quali
formata da atlanti tra loro concordemente orientati, è vero se e solo se X è
connessa. Se X non è connessa il numero di tali classi è 2k , ove k è il numero
delle componenti connesse di X. Per di più, le orientazioni assegnate su diverse
componenti connesse di X sono tra loro imparagonabili: non ha senso dire che
sono tra loro concordi o discordi, a meno che X non sia pensata immersa (nel
senso della definizione 25.2) in un’ altra varietà Y , connessa, orientabile e di
dimensione 1 + dim(X) (vedi più avanti, nota (4) di questa sezione).
Analogamente, le affermazioni fatte nella prima metà di pagina 203, quando
hanno senso (cfr. paragrafo seguente), valgono solo per varietà connesse.

2) Pagina 203, riga 7. L’ affermazione che l’ orientazione varia con continuità


al variare di p non ha molto senso. In quella affermazione ci viene proposto di
vedere un’ orientazione come una funzione che ad ogni punto p di una varietà X
associa un qualcosa, ma non si vede cosa possa essere quel qualcosa. Ammesso

13
che X sia orientabile, il ‘qualcosa’ da associare a p potrebbe essere una delle
due classi di atlanti orientati (sempre che X sia connessa). Ma con che criterio
scegliere la classe da associare ad un dato punto? La cosa più sensata da fare
è scegliere una delle due classi ed associarla ad ogni punto. La funzione cosı̀
ottenuta sarebbe costante. Possiamo anche dire che varia con continuità, ma in
realtà non varia affatto.

5.6 Superficie Romana di Steiner


1) La Superficie Romana di Steiner R := φ(P(R2 )) (Esempio 25.6.8) non è
in realtà una superficie, nè nel senso di pagina 178 nè tantomeno nel senso di
pagina 182.
La cosidetta ‘superficie’ R è unione di quattro pezzi, diciamoli R0 , R1 , R2 , R3 .
I punti di R0 non hanno coordinate negative mentre, per i = 1, 2, 3, nei punti di
Ri l’ i-esima coordinata è non-negativa mentre le altre due sono non-positive.
Due qualunque di questi pezzi si incontrano su una curva che passa per (0, 0, 0)
ed appartiene solo a quei due pezzi che si intersecano su di essa. Quindi da
(0, 0, 0) vediamo uscire quattro pezzi che a due a due si incontrano in una
curva, in modo che ciascuna di queste sei curve stia in esattamente due pezzi.
Si tratta evidentemente di una configurazione che non può essere realizzata in
R2 . Non stupisce dunque che nella figura 25.3 non si scorga traccia di questa
configurazione. Il segmento trasversale che compare in quella figura, forse per
suggerire che in essa ci sono due punti che vanno pensati identici, non basta
certo a rendere l’ idea.
Ad ogni modo, è chiaro da quel che si è detto che il punto (0, 0, 0) di R non
possiede in R intorni omeomorfi ad aperti di R2 (mentre tutti gli altri punti di
R possiedono intorni omeomorfi a R2 ). Quindi R non è una varietà topologica.
Tantomeno può essere una varietà differenziabile (quindi nemmeno è una super-
ficie). Sicchè, non ha molto senso precisare che non è diffeomomorfa a P2 (R)
(come invece fa l’ Autore, alla riga −8 di Pagina 220). Come potrebbe esserlo,
se nemmeno è una varietà? Invece R\f (p0 ∪p1 ∪p2 ) è una varietà differenziabile
2-dimensionale, diffeomomorfa a P2 (R)\(H0 ∪H1 ∪H2 ), ove H0 , H1 , H2 sono tre
rette coordinate di P2 (R), corrispondenti ai tre piani coordinati p0 , p1 e p2 di R3 .

2) A pagina 220, riga −9, l’ Autore avverte che ϕ non induce un’ inclusione su
H0 ∪ H1 ∪ H2 . Si, questo è vero. Inoltre, il punto (0, 0, 0) di R è immagine di tre
distinti punti di P2 (R), precisamente [1, 0, 0], [0, 1, 0] e [0, 0, 1]. Quindi è vero
che ϕ non è un diffeomorfismo. Anzi, non è neanche un omeomorfismo di spazi
topologici, tanto più che, come fatto notare nel paragrafo precedente, R non è
nemmeno una varietà topologica.

3) Pagina 220, quarta riga dopo la figura: “La restrizione di f alla sfera S2 è
un’ immersione”. No, falso! Infatti la matrice Jacobiana di quella restrizione,
calcolata in punti di S2 ∩ (p1 ∪ p2 ∪ p3 ), non ha rango pieno. Conseguentemente,
nemmeno ϕ : P2 (R) → R3 è un’ immersione, contrariamente a quel che l’ Autore
dice alla riga 6 di pagina 220. E’ però un’ immersione di P2 (R) \ (H0 ∪ H1 ∪ H2 )

14
in R3 .

4) Pagina 219, riga −4. L’ Autore afferma che f manda l’ aperto R3 \(p0 ∪p1 ∪p2 )
suriettivamente su sè stesso. Questo è falso. L’ immagine di f è contenuta nell’
insieme {(v1 , v2 , v3 ) | v1 v2 v3 ≥ 0} e quest’ insieme non contiene R3 \(p0 ∪p1 ∪p0 ).

5.7 Quadriche
Alla fine di pagina 224 l’ Autore fornisce due diverse definizioni di quadrica non
degenere, entrambe sbagliate. Una di esse include i coni (che invece sono de-
generi) ed esclude i paraboloidi, sia ellittici che iperbolici. La seconda definizione
recupera i paraboloidi, esclude i coni, ma si allarga troppo ed imbarca anche
i cilindri, che invece sono solitamente considerati degeneri. Però poi, quando
passa ad esaminare le quadriche non degeneri di R3 una per una, l’ Autore
non tiene le sue due definizioni in nessun conto e si attiene all’ elenco usuale:
ellissoidi, iperbolidi ad una o due falde, parabolidi ellittici o iperbolici.
Per esaminare la questione più in dettaglio, chiamo le due definizioni pro-
poste dall’ Autore prima e seconda definizione, anche se l’ Autore non fa dis-
tinzione tra di esse, convinto (erroneamente) che siano equivalenti.

1) Prima definzione. Seguendo la notazione dell’ Autore (riga −3 di pagina


224) sia A = (aij )n+1
i,j=1 la matrice simmetrizzata dei coefficienti della parte di
secondo grado del polinomio a primo membro di [26.4]. L’ autore dice che la
quadrica descritta dall’ equazione [26.4] è non degenere se e solo se det(A) 6= 0.
Questo è sbagliato. Infatti la condizione det(A) 6= 0 è soddisfatta dai coni (che
sono degeneri) ma non dai parabolidi (che non sono degeneri). Bisogna invece
considerare la seguente matrice, di ordine (n + 2) × (n + 2):
 
A a
A :=
e
at a0,0

ove at = (a0,1 , ..., a0,n+1 ) ed A = (ai,j )n+1


i,j=1 , come sopra. La quadrica descritta
da [26.4] è non degenere (nel senso usuale) se e solo se det(A) e 6= 0.

2) Seconda definizione. Alla riga −5 di pagina 224 l’ Autore lascia intendere


che una quadrica sia non-degenere se e solo se la sua equazione [26.4] soddisfa
la condizione [26.3], ed afferma che quella condizione equivale alla condizione
det(A) 6= 0. Entrambe queste affermazioni sono false. Infatti la [26.3], adat-
tata all’ equazione [26.4], non dice che det(A) 6= 0. Dice invece che il sistema
lineare Ax = a (ove a è definito come sopra ed x è il vettore delle incognite)
non ha soluzioni in Rn+1 . Questa condizione è soddisfatta da tutte le quadriche
non-degeneri nel senso usuale, ma anche dai cilindri. Questo perchè il punto
singolare di un cilindro si colloca nel piano all’ infinito mentre, nonostante la
(gratuita) sostituzione di n con n + 1, la definizione [26.3] e l’ equazione [26.4]
si collocano in ambito affine.

15
3) Ambito affine ed ambito proiettivo. Leggendo la seconda metà di pagina
224 viene subito da chiedersi che necessità ci sia di scrivere n + 1 anzichè n.
Azzardo la seguente spiegazione. Forse l’ Autore intendeva veramente collocarsi
in ambito proiettivo, ma poi non l’ ha fatto ed è rimasto in ambito affine,
traendosi però dietro l’ impaccio di scrivere n + 1 anzichè n.
Vediamo come andrebbero riformulate le cose in ambito proiettivo. Nella
[24.3] si dovrebbero considerare solo polinomi omogenei in n + 1 variabili e
solo sottoinsiemi omogenei X ⊆ Rn+1 \ {0} (rammento che un sottoinsieme
X ⊆ Rn+1 \ {0} è detto omogeneo se tx ∈ X per ogni x ∈ X ed ogni scalare
t 6= 0). Poi dovremmo riformulare la [26.4] cosı̀:
n
X X n
X
ajj Xj2 + 2 aij Xi Xj + 2 2
a0j Xj Xn+1 + a00 Xn+1 = 0.
j=1 1≤i<j≤n j=1

Lo spazio Rn viene identificato con l’ iperpiano di Rn+1 di equazione Xn+1 = 1.


Ponendo Xn+1 = 1 nella precedente equazione si ritrova la [26.4] (ma con n
anzichè n + 1).
La condizione [26.3] (riformulata correttamente, nel modo che si è detto)
applicata alla [26.4] (riscritta come si è ora detto), è proprio equivalente alla
e 6= 0 (vedi sopra, nota (1), ove però n + 1 va sostituito
solita condizione det(A)
con n). Essa esclude la possibilità di punti singolari, non solo in Rn ma anche
nel suo iperpiano all’ infinito.

4) Nell’ elenco di pagina 226 non compaiono i cosidetti ellissoidi immaginari,


ma questo si può capire: in R3 , un ellissoide immaginario è null’ altro che l’
insieme vuoto.

5) Alla riga 9 di pagina 226 si afferma che le quadriche (b) ed (e) sono caratter-
izzate dall’ equazione det(A) > 0. No, la caratterizzazione corretta è det(A)
e >0
(che però include anche gli ellissoidi immaginari).

5.8 Lemma 29.2


1) La definzione fornita alla riga −3 di pagina 244 è certamente sbagliata. L’
insieme K vi gioca un ruolo troppo marginale perchè il supporto di f possa
dipendere in maniera significativa da K. Infatti supp(f ) dipende solo da U e
da b. Come conseguenza, la definizione non garantisce che f abbia supporto
compatto. Infatti, sia K = [0, 1] × [0, 1] ed U =] − δ, +∞)×] − δ, 1 + δ[ per un
qualche δ > 0. Risulta d(K, R2 \ U ) = δ. Quindi
δ δ δ
supp(f ) = [− , +∞) × [− , 1 + ].
2 2 2
Quest’ insieme non è compatto.
Venendo alla seconda parte della definizione (ultime due righe di pagina 244),
non si capisce che bisogno ci sia di limitarla al caso di U = RN . Si potrebbe
pensare che le ipotesi giuste siano queste: nella prima parte della definizione

16
(riga −3) si assume che U sia limitato. Nella seconda parte si lascia cadere
questa ipotesi.
Oppure, più semplicemente, si lascia cadere la prima parte della definizione
e ci si attiene sempre alla seconda parte, qualunque sia U , prendendo a = −1,
b = 0 e ponendo f (x) = ζ(−d(x, K)), in ogni caso.

2) Pagina 245, prima riga. L’ Autore non spiega perchè f è di classe C (∞) .
Rimando per la dimostrazione al file ComplementiGD.

5.9 Altre correzioni


1) Pagina 173, penultima riga: ‘se esiste...’. Aggiungere ‘finito’.

2) Pagina 175, riga 10. Sostuire la parola ‘composizioni’ con ‘funzioni’. Analoga-
mente, alla riga 21, sostituire ‘composizione’ con ‘funzione’.

3) Pagina 175, riga 12: ‘Se un diffeomeorfismo F : U → V esiste...’. Si intenda


cosı̀: Se F : U → V è un diffeomorfismo...

4) Pagina 178, rige 15, 16 e 17. Siccome non si può parlare di differenziabilità
per funzioni definite su insiemi discreti di Rn , due carte (Uλ , φλ ) ed (Uµ , φµ ) di
una varietà discreta sono compatibili nel senso della Definizione 19.2 se e solo
se Uλ ∩ Uµ = ∅. Quindi una carta di una varietà discreta non è mai compatibile
con sè stessa. Se nella definzione 19.3 richiediamo anche la compatibilità di una
carta con sè stessa, allora non esistono atlanti su spazi discreti. Vale a dire, non
esistono varietà discrete. Quindi alle righe 15-17 di pagina 178 si parlerebbe
del nulla. Se invece nella Definizione 19.3, quando si richiede che le carte siano
a due a due compatibili, ci si riferisce a carte distinte, allora esiste sempre un
solo atlante su uno spazio discreto X. L’ altante in questione è la funzione che
applica tutto X sull’ unico elemento di R0 .

5) Pagina 178, riga −3. Sostituire ϕU (U ) con ϕU (U ∩ F −1 (V )).

6) Pagina 195, Esercizio 1. In §20 viene proposto un solo atlante per S2 .

7) Pagina 202, riga 2. Si sostituisca (− π2 , π2 ) × Rn−1 con (− π2 , π2 )n−1 × R (con


la mia notazione, ] − π2 , π2 [n−1 ×R). Infatti, contrariamente a quanto affermato
dall’ Autore, non è vero che la matrice Jacobiana abbia rango n in tutti i punti
di (− π2 , π2 ) × Rn−1 . Nei punti
π π π
(θ1 , ..., θi−1 , + kπ, θi+1 , ..., θn ) (1 < i < n, k ∈ Z, < θ1 < )
2 2 2
ha rango < n. Se invece prendiamo ] − π2 , π2 [n−1 ×R come dominio per la
parametrizzazione indotta da [22.4], su di esso la matrice Jacobiana di ϕ ha sem-
pre rango n. Però i punti che ora dobbiamo togliere da S n (0, r) per poter parlare

17
di parametrizzazione non sono solo i due punti (0, 0, ..., 0, r) e (0, 0, ..., 0, −r) ma
tutti i punti (0, 0, ..., 0, xk , ..., xn+1 ) ove x2k + ... + x2n+1 = 1, per 2 ≤ k ≤ n.
L’ errore che ho qui segnalato viene ripetuto a pagina 217, Esempio 25.6.2
(vedi sotto, punto 17).

8) Pagina 202, riga 3. La frase ‘... ha immagine...’ sembra priva di soggetto.


Presumibilmente, si deve intendere che il suo soggetto sia l’ aperto ]− π2 , π2 [n−1 ×R.

9) Pagina 204, riga −11: Tξ(x) (M ). Leggi M 0 anzichè M .

10) Pagina 208, ultima riga. Js(u, v) non è la matrice


 
1 v
0 u
ma la sua trasposta.

11) Pagina 210, riga 13: ‘... nel prossimo paragrafo’. No, nel §26. (Il ‘prossimo
paragrafo’ è il 25.)

12) Pagina 211, righe 20, 21 e 22. L’ uguaglianza


1 zn
P( ) =
z̄ ā0 + ā1 z + ... + ān z n
è falsa. E’ anche falso che la funzione P (1/z̄) si estenda ad una funzione definita
in 0. Quindi, se Q(z) deve potersi estendere ad una funzione definita su un
intorno di 0 nemmeno possiamo porre Q(z) = P (1/z̄). La definizione corretta
è la seguente:
zn
Q(z) := (P (z −1 ))−1 =
ā0 zn + ā1 z n−1 + ... + ān−1 z + ān

ove P (z) = ā0 + ā1 z + ... + ān−1 z n−1 + ān z n .

13) Pagina 211, ultima riga. Non è esatto che #P −1 (w) sia positivo ovunque.
E’ positivo in C \ {P (z1 ), ..., P (zk )}. Però questo basta a dimostrare che P
ammette zeri. Infatti, se 0 6∈ {P (z1 ), ..., P (zk )} allora #P −1 (0) > 0, quindi
P (z) = 0 per qualche z. Altrimenti, 0 ∈ {P (z1 ), ..., P (zk )}. Quindi P (zi ) = 0
per qualche i. In ogni caso, P (z) = 0 per qualche z ∈ C.

14) Pagina 212, riga −11 (Esercizio 6). L’ Autore vuole che si dimostri che s è
un diffeomeorfismo locale, ma questo è falso. Infatti per ϕ = π2 + kπ la matrice
Jacobiana di s è singolare.

15) Pagina 213, riga 9 (Esercizio 9): h(x) = f (x). No. La posizione corretta è
h(x) = g(x).

18
16) Pagina 216, righe −15, −13 e −12. Si sostituisca ovunque F con f .

17) Pagina 217, Esempio 25.6.2. Qui viene ripetuto l’ errore commesso alla riga
2 di pagina 202, già discusso sopra (punto 7). Le correzioni da fare sono le stesse
suggerite al punto 7.

18) Pagina 221, Esercizio 4. Il morfismo f è un’ immersione in ogni punto di


R2 . Forse l’ Autore intendeva scrivere f (u, v) = (sin u, cos 2u, v). Definita cosı̀,
f è un’ immersione se e solo se u 6= π2 + kπ.

19) Pagina 222, riga −3: x 7→ (x, 0). Sostituire 0 con b.

20) Pagina 224, equazione [26.4]. Sotto la seconda sommatoria, scrivere i < j
anzichè j < j.

21) Pagina 230, Esercizio 3, ultime due righe. Esistono certamente sottoinsiemi
di S massimali rispetto alla proprietà di essere superfici differenziabili, ma non
è detto che ne esista uno solo. Se ce n’ è più d’ uno (come nell’ esempio (b)) il
più grande sottoinsieme di S che sia una superficie differenziabile non esiste.

22) Pagina 231, riga 8. Non è detto che in un valore critico capiti sempre o
che la fibra non è una varietà oppure che lo è ma ha dimensione maggiore di
dim(X) − dim(Y ). Si consideri per esempio la funzione f : R3 → R2 definita
dalla clausola f (x, y, z) = (x + y, x2 + y 2 ) (cfr. Esercizio 5 a pagina 231). Tutti i
punti (t, t2√/2) sono 2
√ valori critici per f . Infatti la retroimmagine di (t, t /2) è la
retta {(t/ 2, t/ 2, z)}z∈R e nessuno dei punti di questa retta è regolare per f .
Tuttavia una retta è una varietà 1-dimensionale, e qui 1 è la dimensione giusta:
1 = 3 − 2.

23) Pagina 232, riga 15 e riga 16: bi − ai > 1 (riga 15) e bji − aji > 1 (riga 16).
In entrambi i casi, si scriva > 1/ρ anziché > 1.

24) Pagina 232, riga −9: lemma 27.3(a) e (c). Si intenda: lemma 27.3(c).
Pk
25) Pagina 233, riga 11. Nel simbolo i=1 vol(Ri0 )) c’ è una parentesi di troppo.

26) Pagina 234, righe 15 e 16. L’ Autore afferma che, quando m è irrazionale,
l’ insieme {mh − [mh] + k | h, k ∈ Z} è denso in R. Non so se questo sia vero.
Comunque, io non l’ ho mai letto nè sentito, e neppure riesco ad immaginare
una dimostrazione.

27) Pagina 247, riga −6: “ F è biunivoca”. No, è solo iniettiva.

28) Pagina 247, ultima riga. Si legga (σh ϕh )·(ϕ−1 )(u) invece di (σh ϕh )·ϕ−1 )(u).

19
29) Pagina 249, riga −11. Il morfismo τ è di classe C (∞) su tutto R2k+1 \ {0},
ma in 0 è solo di classe C (1) . Infatti non ammette tutte le derivate seconde in
0. Quindi la composizione f := τ · ι dell’ immersione ι : X → R2k+1 con τ non
è di classe C (∞) . E’ solo di classe C (1) . Ma possiamo aggirare quest’ ostacolo
come segue. Siccome dim(X) = k < 2k + 1, l’ insieme ι(X) ha misura nulla in
R2k+1 (Corollario 27.5). Altrettanto vale per −ι(X). Quindi esiste un punto
a ∈ R2k+1 \ (−ι(X)). Prendiamo f := τ · ta · ι, ove ta : x 7→ x + a. In questo
modo evitiamo il punto 0.

5.10 Precisazioni
1) Proposizione 19.1. Nella seconda e terza formula di questa proposizione, per
l’ esistenza delle derivate a primo membro basta che esistano quelle a secondo
membro.

2) Pagina 179, riga 12. Supponiamo che J sia aperto. Dicendo che α : J → X
è di classe C (∞) si intende che, per ogni carta (U, φ) di X con U ∩ α(J) 6= ∅, la
funzione φ · α|α−1 (U ) è di classe C (∞) .

3) Pagina 179, riga 14. Credo che l’ Autore intenda dire solo questo: nella
definizione di curva non è necessario che J sia aperto, purchè si convenga di dire
che α è di classe C (∞) in un punto estremale di J se in esso ammette tutte le
derivate (destre o sinistre, a seconda dei casi).

4) Definizione 20.1. Cosa voglia dire che un aperto di X è diffeomomorfo ad un


aperto di Rn in quanto sottoinsieme di RN , viene spiegato nel testo solo dopo,
alle righe 5-8.

5) Definizione 20.2. La condizione che f sia un diffeomorfismo da A ad f (A)


è di per sè piuttosto vaga, dal momento che non specifica la struttura differen-
ziale da porre su f (A). La si potrebbe interpretare in vari modi e non tutte
queste interpretazioni comportano che f (A) sia una sottovarietà di RN , come
invece asserito nell’ ultima riga della definizione. Tenendo presente quest’ ul-
timo requisito, si evince che nel dire che f è un diffeomorfismo di A su f (A) l’
Autore intende questo: l’ applicazione f : A → RN è iniettiva, differenziabile e,
per ogni x ∈ f (A), esiste un intorno aperto U di x in RN ed una applicazione
differenziabile F U : U → A tale che F U induce su U ∩ f (A) l’ inversa della
restrizione di f ad f −1 (U ∩ f (A)).

6) Pagina 181, ultime sei righe. Nemmeno la restrizione di f a [0, 2π[ è una
parametrizzazione, anche se è biunivoca. Infatti [0, 2π[ non è aperto. Per
parametrizzare il cerchio occorrono almeno due parametrizzazioni, ottenute re-
stringendo f a due opportuni aperti di R. Per esempio, A =]0 − ε, 2π − ε[ e
B =]0 + ε, 2π + ε[, ove 0 < ε < π.

20
7) Pagina 182, prime due righe dopo la figura. La funzione α non è una curva
nel senso della definizione data a pagina 179, perchè A non è un intervallo.
Possiamo estendere α in modo ovvio all’ intervallo A =]0, 2π[. Detta ᾱ tale
estensione, ᾱ è una curva. Tuttavia la sua immagine ᾱ(A) non è una sottova-
rietà differenziabile di R2 . Si noti per inciso che α(A) = ᾱ(A). Invece, posto
A0 =]0, π/2[∪]π/2, 3π/2[∪]3π/2, 2π[, allora α(A0 ) = ᾱ(A) \ {(0, 0)} è una sot-
tovarietà differenziabile di R2 , ma non è connessa.

8) Pagina 182, riga −14. Le curve piane come definite in questo paragrafo e le
immagini di curve in R2 nel senso di pagina 179 non sono esattamente la stessa
cosa. Le curve come definite a pagina 182 potrebbero non essere connesse, men-
tre l’ immagine di una curva nel senso di pagina 179 è sempre connessa. Però,
ogni curva piana X nel senso di pagina 182, se è connessa, è l’ immagine di una
opportuna curva α del senso di pagina 179 (ma di curve α che abbiano X come
immagine ce n’ è sempre infinite). D’ altra parte, l’ immagine di una curva nel
senso di pag. 179 potrebbe non essere una sottovarietà di R2 (vedi sopra, nota
(7)). In tal caso non sarebbe una curva nel senso di pagina 182.

9) Pagina 189, Esercizio 3. Perchè la domanda abbia senso bisognerebbe specifi-


care caso per caso quale struttura di varietà differenziabile si pone sulla varietà
topologica in esame. Di solito, c’ è al più una struttura differenziale possibile
per una data varietà topologica, e questo è il caso per tutti gli esempi presentati
in 5.4. Ma non so se sia sempre cosı̀. Comunque, di questo problema nel testo
non si fa parola.

10) Pagina 189, Esercizio 6. L’ unione degli assi coordinati non è nemmeno una
varietà topologica, nè tantomeno differenziabile.

11) Pagina 190, riga −6, definizione di E(X, p). Siccome in precedenza l’ Au-
tore ha occasionalmente considerato applicazioni di classe C (k) con k finito (in
particolare, k = 1), ora non è più chiaro se parlando di funzioni differenziabili
intenda funzioni di classe C (1) o di classe C (∞) . Verosimilmente, intende fun-
zioni di classe C (∞) . (Vedi anche gli avvertimenti dati a pagina 177.)

12) Pagina 200, ultima riga. Vengono qui introdotti i simboli dx e dy. In questo
contesto stanno ad indicare le coordinate del vettore generico di Tz (U ) rispetto
alla base {∂/∂x, ∂/∂y} di Tz (U ).

13) Pagina 204. Nella discussione di questo esempio l’ Autore non si cura troppo
di distinguere tra M 0 (superficie differenziabile nel senso di pagina 178) e g(M 0 )
(superfice di R3 nel senso di pagina 182). Il fatto che l’ Autore scriva g(M 0 )
anzichè M 0 fa pensare alla definizione di pagina 182, ma in realtà egli mostra
solo che M 0 è una superficie differenziabile nel senso di pagina 178. Natural-
mente, è anche vero che g(M 0 ) è una superficie di R3 , ma questo l’ Autore non
lo dimostra.

21
14) Pagina 211, riga 12: funzioni olomorfe intere f : C → C. Tutte le funzioni
olomorfe da C a C sono funzioni intere!

15) Pagina 213, riga −12: ‘Una sottovarietà di dimensione 0 è un sottoinsieme


discreto’. Questa non è un’ affermazione, ma una convenzione.

16) Pagina 216, prima riga. Ad essere precisi, bisognerebbe considerare non
l’ aperto U ⊆ Rm come definito alla fine di pagina 215, ma la retroimmagine
ι−1 (U ) di U mediante l’ inclusione naturale ι di Rn nel sottospazio di Rm gen-
erato da primi n versori. Infatti ϕ agisce su A, ma U non è un sottoinsieme di
A. Invece ι−1 (U ) ⊆ A. L’ insieme ϕ(ι−1 (U )) è l’ intorno V di x di cui si parla
nella Proposizione 25.4.

17) Pagina 218. Stando alla definizione qui proposta dall’ autore, il vertice di
un cono non appartiene al cono. Questa convenzione è necessaria se si vuole che
il cono sia una varietà. Infatti, se conveniamo che il vertice appartenga al cono,
allora il vertice non possiede nel cono intorni omeomorfi ad un aperto di R2 . In
questo modo il cono non è nemmeno una varietà topologica.

18) Pagina 223, riga 10. Il simbolo N [...] sta per ‘nucleo di ...’.

19) Pagina 227, riga 5. L’ applicazione ω manda GLn (R) suriettivamente sull’
insieme delle matrici simmetriche definite positive. Ciascuna di queste matrici
è un valore regolare per ω.

20) Pagina 231, riga 7: ‘un punto al di sopra del quale’. Si deve intendere cosı̀:
un punto y ∈ Y tale che f −1 (y)...

21) Pagina 233, prima riga. Tenendo presente la Definizione 27.1, si evince che
Sj = S ∩ Rj .
P∞
22) Pagina 245, riga −6. Per essere certi che i=1 σi sia ben definita occorre
che ogni x ∈ X appartenga al supporto compatto di un numero finito di funzioni
σi , ma questo potrebbe non essere vero. Per aggirare l’ ostacolo, dobbiamo pre-
liminarmente sostituire la famiglia {Bi }∞
i=1 con un suo raffinamento numerabile
localmente compatto B (che esiste, perchè X è localmente compatto e soddisfa il
secondo assioma di numerabilità) e poi sostituire V con {V ∩B | V ∈ V, B ∈ B}.

6 Capitolo 6
6.1 Distanza intrinseca
1) In primo luogo, avverto che nella definizione 33.1 non è necessario supporre
che S sia una superficie. Potrebbe assere anche una qualunque sottovarietà dif-
ferenziabile di RN . Tutto quello che si dice nella Sezione 33 del testo, fin verso

22
la metà di pagina 280, resta valido in questo contesto più generale. (Vedi anche
più avanti, Sezione 6.6, nota (4).)

2) Stando alla Definizione 33.1, la distanza intrinseca ρ(x1 , x2 ) è l’ estremo


inferiore delle lunghezze tra x1 e x2 calcolate su curve differenziabili a val-
ori in S, regolari o no, mentre poi, nel seguito del testo, si procede come se
in quella definizione si dovessero considerare solo curve differenziabili regolari,
come se la distanza intrinseca tra x1 a x2 fosse in realtà l’ estremo inferiore,
diciamolo ρreg. (x1 , x2 ), dell’ insieme delle lunghezze di curve differenziabili re-
golari in S da x1 a x2 . In effetti, è proprio cosı̀: ρreg. (x1 , x2 ) = ρ(x1 , x2 ).
Però di questo l’ Autore non fa parola. Per la dimostrazione dell’ uguaglianza
ρreg. (x1 , x2 ) = ρ(x1 , x2 ) rimando al file ComplementiGD.

3) Se per due punti x1 e x2 non esiste in S alcuna curva differenziabile che li con-
giunga (come è il caso quando S non è connessa ed x1 e x2 appartengono a due
sue distinte componenti connesse) siamo costretti a porre ρ(x1 , x2 ) = +∞. Nel
testo si assume implicitamente che, quando S è connessa, sia sempre possibile
attribuire un valore finito alla distanza tra due suoi punti. In effetti è proprio
cosı̀: se S è connessa allore due suoi punti qualunque sono sempre congiungibili
da una curva differenziabile. Però sulla dimostrazione di questo fatto il testo
non dice nulla. Rimando per essa al file ComplementiGD.

4) La distanza euclidea non supera mai la distanza intrinseca. Vale a dire,


ρ(a, b) ≥ d(a, b), ove d(., .) sta per la distanza euclidea in RN . Il testo men-
ziona questo fatto (riga 11 di pagina 275), ma non lo dimostra. Rimando per
una dimostrazione al file ComplementiGD.

5) Se S è connessa, ρ è effettivamente una distanza. L’ Autore tralascia di di-


mostrare questo fatto, come se fosse cosa ovvia, ma tanto ovvia non è. Rimando
per la dimostrazione al file ComplementiGD.

6.2 Superfici rigate


1) Ultima riga di pagina 283 e prime righe di pagina 284. Poi di nuovo a pagina
300, Esempio 35.9.6.
Perchè l’ applicazione x(u, v) = α(u) + uv(u) sia una parametrizzazione non
basta che sia sempre v(u) 6= 0. Occorre anche che α0 (u) 6= −vv0 (u) e che v(u)
non sia proporzionale ad α0 (u) + vv0 (u), per ogni scelta di u e v.
Quindi, quando v = α0 (riga 9 di pagina 284), per avere una parametriz-
zazione non basta che sia sempre α0 6= 0. Si deve anche escludere il valore v = 0
(quindi assumere v > 0 oppure v < 0) ed α00 non deve mai essere proporzionale
ad α0 . Di tutto questo l’ Autore non fa parola.
Si noti che quando α ha velocità costante uguale ad 1, dire che α00 non è mai
proporzionale ad α0 equivale a dire che α00 non si annulla mai. Infatti, derivando
l’ identità α0 • α0 = 1 si ottiene 2α0 • α00 = 0, cioè α00 ⊥ α0 . Quindi α00 (t) k α0 (t)

23
se e solo se α00 (t) = 0.

2) Pagina 284, riga 9. Per quanto detto sopra, nell’ espressione α(u) + vα0 (u)
si dovrebbe prendere v > 0 oppure v < 0. Quindi, parlando di tangenti, si
dovrebbero intendere non rette tangenti ma piuttosto semirette tangenti (per di
più, private dell’ origine). In effetti, l’ Autore fa proprio cosı̀ verso la fine della
pagina, ove modificando la definizione già data a pagina 218, ridefinisce un cono
come una rigata di semirette aperte che escono da uno stesso punto.

3) Pagina 218, riga 15. L’ Autore, afferma che la rigata tangente ad una curva
piana è sempre un insieme aperto. Ma se per tangenti si intende ‘rette tangenti’,
questo è falso. Per esempio, l’ unione delle rette tangenti ad una curva piana
convessa o concava contiene sempre il grafico della curva e tutti i punti del grafico
sono di frontiera per quell’ unione. Quindi quell’ unione non è un insieme aperto.
Poniamo invece che con la locuzione ‘rette tangenti’ ci si riferisca a semirette,
private dell’ origine e dirette in modo ‘concorde’ (prendendo per esempio v > 0).
Anche cosı̀, se accantoniamo il requisito che α00 non sia mai nulla nè pro-
porzionale ad α0 (vedi nota (1) di questa sezione), non è detto che l’ unione
di queste semirette formi un insieme aperto. Per esempio, sia α(x) = (x, x3 ).
L’ unione delle semirette tangenti alla curva α, dirette verso destra, è l’ insieme
X := {(x, y) | x > 0, y ≥ 0} ∪ {(x, y) | x ≤ 0, y > x3 }.

L’ insieme X non è aperto. Esso contiene la semiretta {(x, 0)}x>0 , che è con-
tenuta nella frontiera di X. La stessa situazione, ruotata di π, si presenta se
prendiamo le semirette tangenti dirette verso sinistra.
Oppure, consideriamo una retta L di R2 . Essa coincide con la propria rigata
tangente, comunque questa venga definita. Ma L non è un aperto di R2 .
Però in questi due esempi la derivata seconda α00 di α non è sempre diversa
da 0. Non sono a conoscenza di esempi che soddisfino i requisiti richiesti nella
mia precedente nota (1) e nei quali almeno una delle due rigate di semirette
tangenti non sia un insieme aperto, ma forse ne esistono.

6.3 Torema Egregium, prima dimostrazione


Alla riga −8 di pagina 316 si dice che la componente tangenziale del secondo
membro della formula alla riga −11 è nulla, ma questo è falso: non è detto che
L(xu ) ed L(xv ) siano tangenziali. Pertanto, nelle formule alle righe −6 e −4 va
aggiunta la coda +(...)N.
Nonostante questo, la formula finale di pagina 316 (ultime due righe) resta
valida. Da essa segue effettivamente che K è una grandezza intrinseca. Infatti,
come l’ Autore fa notare all’ inizio di pagina 316, i vettori Dxu xu e Dxv xu si
possono esprimere come combinazioni lineari dei vettori xu ed xv (che, come già
sappiamo, hanno natura intrinseca), usando come coefficienti funzioni di natura
intrinseca. Quindi gli operatori Dxu e Dxv sono definiti in modo intrinseco. Lo
stesso dicasi per loro ripetute applicazioni. Infine, il prodotto scalare di due

24
grandezze vettoriali intrinseche è una grandezza scalare intrinseca. Ne segue
che l’ espressione
(∗) [Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv

rappresenta una grandezza intrinseca. D’ altra parte, dall’ ultima formula di


pagina 316 risulta che
[Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv
K = .
EG − F 2
Quindi anche K è una grandezza intrinseca.
Ammetto che l’ argomentazione precedente non è delle più limpide, ma cer-
tamente è possibile riformularla in modo da soddisfare i lettori più esigenti.
Comunque, immagino che a questa argomentazione alluda l’ Autore all’ inizio
di pagina 317, quando dice che la quantità (∗) può essere riespressa tramite le
[37.3] in termini di grandezze intrinseche (in sostanza, ripetendo quanto ha già
detto all’ inizio di pagina 316). Non credo che stia invitando il lettore a ricavare
un’ espressione esplicita di (∗) in funzione delle derivate di E, F, G, xu ed xv .
Infatti, se si esplicita (∗) in questo modo, si ottiene solo che

[Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv =


1 1
= Fuv − Evv − Guu + xuv xvu − xuu xvv + det(L).
2 2
Questa equazione non è di molto aiuto per dimostrare che K o equivalente-
mente det(L) sono grandezze intrinseche, a meno che non si sappia già che (∗)
rappresenta una grandezza intrinseca. Possiamo invece combinare l’ equazione
precedente con l’ uguaglianza

[Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv = .... = det(L),


(ultime due righe di pagina 316) ricavandone l’ identità di pagina 318, riga 2.

6.4 Assiomatica
Nelle prima tre pagine della Sezione 39 viene offerta una libera esposizione dell’
assiomatica di Hilbert, seguita da una brevissima presentazione delle alterna-
tive ellittica ed iperbolica all’ assiomatica euclidea. Ma tutta questa parte lascia
molto a desiderare. Discuto per primo il punto che ritengo più importante.

1) Nel suo sistema, Hilbert assume tre tipi di entità primitive: punti, rette e
piani. Infatti Hilbert ci dá un’ assiomatizzazione di R3 . Invece nella sezione
39 del testo si parla solo di punti e rette. Questo forse è dovuto al fatto che l’
Autore vuole considerare solo assiomatizzazioni per la geometria piana, anche
se non lo dice esplicitamente. Purtroppo, il sistema presentato dall’ Autore non
contiene un assioma che esprima questa scelta. O meglio, ne contiene uno, l’
assioma (IV ), che però esprime anche il fatto che il piano in considerazione

25
è euclideo. Col risultato che, una volta lasciato cadere (IV ) e sostituitolo con
(IV )00 , il sistema che ne risulta è soddisfatto anche da qualunque spazio euclideo
di dimensione d > 2. In particolare, da R3 .
In altre parole, l’ assioma (IV ) non dice che stiamo considerando una ge-
ometria euclidea. Infatti è falso già nello spazio euclideo 3-dimensionale. Dice
invece che siamo in un piano euclideo. Invece nulla in (IV )00 suggerisce che si
sia in un piano. Di conseguenza, (IV )00 non ci dice che stiamo considerando una
geometria iperbolica.
Per uscire da questa difficoltà ci sono varie strade. La più semplice è in-
trodurre un assioma che, indipendentemente da quante rette parallele ad una
retta data si vuole che passino per un punto, esprima l’ idea della planarità. Per
esempio, un assioma come questo:

Planarità. Prese comunque due rette a e b ed un punto A fuori di esse, dal


punto A escono sempre almeno due rette distinte tali che ciascuna delle due
intersechi sia a che b in punti distinti.

2) Il sistema di Hilbert contiene un assioma che fa sı̀ che le rette siano coordi-
natizzabili solo dal campo R dei numeri reali. L’ assioma che nelle intenzioni
dell’ Autore dovrebbe corripondere a quell’ assioma di Hilbert è (V )(2) (prime
righe di pagina 326), che però non riesce a dire quel che Hilbert intende. Esso
dice solo che, se in un dato modello per il sistema di assiomi proposto, esiste un
insieme a0 di punti che contiene una retta a e soddisfa gli assiomi ottenuti da
(II), (III)(1) e (V )(1) scrivendo sempre a0 al posto di espressioni come “una
stessa retta”, ”una retta”, ecc., allora a0 = a.
L’ assioma di Hilbert dice una cosa diversa. E’ un assioma di quelli che
in logica vengono detti metalinguistici. Infatti, si riferisce implicitamente alla
classe di tutti i modelli per un dato sottoinsieme dell’ insieme degli assiomi in
questione. Per formularlo correttamente, occorre introdurre la nozione di am-
pliamento, come a suo modo fa anche Hilbert. Nella classe dei modelli per il
sistema di assiomi (I) − (IV ) e (V )(1), diciamo che un modello M0 è un ampli-
amento di un modello M se l’ insieme dei punti di M è contenuto nell’ insieme
dei punti di M0 ed ogni retta di M è contenuta in una retta di M0 , in modo
che l’ inclusione conservi la relazione d’ ordine e le congruenze. Per non dover
considerare ampliamenti impropri, si richiede inoltre che almeno una retta di
M sia contenuta propriamente in una retta di M0 . Diciamo che un modello è
massimale se non ammette ampliamenti. Allora l’ assioma proposto da Hilbert
suona cosı̀:

Completezza Lineare. Si considerano solo modelli massimali.

Cosı̀ formulato, l’ assioma permette di dedurre che (in un modello massi-


male) il campo ordinato, diciamolo K, che coordinatizza una retta è completo.
Vale a dire, in esso ogni successione di Cauchy converge. Infatti, se qualche
successione di Cauchy non convergesse in K, potremmo renderla convergente in
un opportuno ampliamento di K. Ma, per la massimalità del modello, K non

26
ammette ampliamenti che siano ancora campi ordinati archimedei. Quindi, ogni
successione di Cauchy converge in K. Peraltro K, essendo un campo ordinato,
contiene il campo Q dei numeri razionali. Quindi necessariamente K coincide
col campo R dei numeri reali.
Questa conclusione non è possibile nel sistema proposto dall’ Autore. Di
conseguenza gli assiomi che egli fornisce sono soddisfatti anche da geometrie
definite su un qualunque sottocampo di R.

3) Siccome l’ assioma (IV ), formulato come lo formula l’ Autore, vale solo in


un piano, nel parlare di geometrie per gli assiomi (I)-(V ) del testo dovremmo
riferirci solo a piani affini. Riformuliamo dunque cosı̀ quanto detto alla fine della
nota precedente: gli assiomi proposti dall’ Autore valgono per qualunque piano
affine coordinatizzato da un sottocampo di R. Ma essi sono soddisfatti anche
da piani affini che non possono essere coordinatizzati da campi o addirittura
nemmeno da corpi. Aggiungo due parole su questo punto.
Rammento che una geometria affine è coordinatizzabile da un corpo se e solo
se è desarguesiana, cioè se in essa vale il Teorema di Desargues (vedi Hilbert,
Grundlagen der Geometrie). E’ ben noto che ogni geometria affine di dimen-
sione almeno 3 è desarguesiana. Siccome il sistema di Hilbert è 3-dimensionale,
in esso possiamo dedurre il Teorema di Desargues. Invece l’ assiomatica pro-
posta dall’ Autore, essendo bidimensionale, non permette la deduzione di quel
teorema. Siccome nemmeno lo contiene come assioma aggiuntivo, essa ammette
tra i suoi modelli anche piani affini non desarguesiani.

4) Nell’ assioma (V )(2) si nomina il piano contenente a, ma nelle due pagine


precedenti non si è mai detto cosa sia un piano. Immagino che qui per piano si
debba intendere l’ insieme di tutti i punti, se è vero che l’ Autore vuole fornirci
un’ assiomatica per la geometria piana.

5) Ancora sull’ Assioma (V )(2). Alla terza riga, nella frase “rispetto ad a”, si
sostituisca a con a0 . Inoltre, l’ elenco (II), (III)(1) e (V )(1) è un po’ impreciso.
Gli assiomi rilevanti sono (I) (ma solo le parti (2) e (3)), (II) (tutto), (III)
(parti (1), (2) e (3)) e (V )(1).

6) L’ assioma (IV )00 , pensato in un piano iperbolico, suggerisce che in geometria


iperbolica due rette complanari ma non intersecantesi siano sempre considerate
parallele. Non è cosı̀. In geometria iperbolica, dati in un piano α un punto
A ed una retta a non contenente A, esistono in α infinite rette per A che non
incontrano a, ma solo due di esse sono dette parallele ad a.

7) Ritornando all’ Assioma di Completezza Lineare di Hilbert, la formulazione


che ne ho dato alla nota (2), esplicitamente metalinguistica, può non piacere. Ho
scelto quella formulazione per esprimere al meglio quel che Hilbert intende dire,
ma la si può sostituire con una combinazione di due assiomi più tranquilli, che
non contengono espliciti riferimenti alla classe di tutti i modelli per gli assiomi
(I) − (IV ) e (V )(1). Il primo di questi due assiomi dovrebbe solo dire che, senza

27
creare nuovi punti, non possiamo ingrandire le rette. L’ assioma (V )(2) del testo
dice appunto questo. Resta da dire che non è possibile aggiungere nuovi punti.
Ma anche questo lo si può dire senza dover scomodare classi di modelli. Basta
parafrasare in linguaggio geometrico uno qualunque degli assiomi adottati nei
corsi di Analisi I per esprimere la completezza di R. Per esempio, l’ Assioma di
Cantor: una successione di intervalli chiusi, ciascuno dei quali contiene il suc-
cessivo, ha sempre intersezione non vuota (vedi paragrafo 3.4 di questo report,
osservazione (6)).

8) A pagina 326 si pretende di definire la geometria ellittica semplicemente


sostituendo (IV) con (IV)’. Non sono certo che (IV)’ sia compatibile con i due
Assiomi di Ordine (II)(1) e (II)(2). Infatti in geometria proiettiva, dati tre punti
su una stessa retta, ciascuno dei tre giace tra gli altri due, a meno di non dare
alla locuzione ‘giacere tra’ un senso piú tecnico di quello usuale. Per esempio,
potremmo dire che C sta tra A e B se le distanze di C da A e da B sono
inferiori alla distanza tra A e B. Ma anche cosı́ non funzionerebbe. Per due
motivi. In primo luogo, in questo modo dovremmo introdurre anche la distanza
tra le nozioni primitive. In secondo luogo, se la distanza è intesa come lunghezza
del più corto arco di geodetica tra due punti, allora su ogni retta proiettiva si
possono sempre trovare tre punti tali che a due a due abbiano la stessa distanza
(precisamente π/3, se le distanze le misuriamo in radianti). Nessuno di questi
tre punti potrebbe stare tra gli altri due.

6.5 Altre correzioni


1) Pagina 253, riga 3. Questa formula è corretta se θ è crescente. Se θ è decres-
cente, gli estremi t1 e t2 del terzo integrale vanno scambiati.

2) Pagina 258, riga −4. Non mi pare che la [31.4] c’ entri un gran chè con quel
che viene detto in questa riga.

3) Pagina 272, riga 11. A me risulta


−1
κ(t) = p .
2 2(1 − cos t)
4) Pagina 272, riga 13. A me risulta c(t) = (t + sin t, −1 + cos t).

5) Pagina 278, riga 8. Si corregga φ(u) in φ∗u .

6) Pagina 278, riga 9. Si sostituisca U con V .

7) Pagina 283. L’ applicazione x(u, v), cosı̀ come viene definita in questa pag-
ina, non è una parametrizzazione. Infatti, stando alla Definizione 20.2, una
parametrizzazione deve essere iniettiva, deve essere un’ immersione nel senso
della definzione 25.2 e la sua immagine deve essere una sottovarietà del codo-
minio. Nessuno di questi requisiti è soddisfatto da x(u, v). Intanto, per avere

28
iniettività si deve restringere l’ ambito di variabilità di v ad un intervallo (aperto,
in ottemperanza a 20.2) di lunghezza non superiore a 2π e si deve impedire ad
u (che l’ Autore fa variare in ]π/2, π/2[) di assumere il valore 0. Infatti, posto
p = (r, 0, 0), risulta x(0, v) = p qualunque sia v. Inoltre, la matrice Jacobiana
di x(u, v) ha rango 1 per u = 0. Infine, l’ immagine di x(u, v) non è nemmeno
una varietà topologica. Infatti consiste di due spicchi di sfera appiccicati insieme
dal punto p. Piu’ precisamente, posto S = S 2 (0, r), sia
X ++ = S ∩ {(x, y, z) | x, y > 0}, X +− = S ∩ {(x, y, z) | x > 0 > y}.
L’ immagine di x(u, v) è l’ insieme X := X ++ ∪ X +− ∪ {p}. Nessun intorno di
p in X può essere omeomorfo ad un aperto di R2 .
Per correggere x(u, v) in modo da avere una rappresentazione parametrica
di una sottovarietà della sfera (ma non della sfera tutta intera, che non è una
superficie elementare) possiamo modificarne il dominio in modo da impedire
ad u di assumere il valore 0. Per esempio, prendendo 0 < u < π. Oppure,
mantenendo −π/2 < u < π/2, possiamo modificare l’ espressione di x(u, v),
scambiando tra loro cos u e sin u:
x(u, v) = (r sin u, r cos u cos v, r cos u sin v).
8) Pagina 291, riga 9 ed ultima riga. La definizione di xuv ed xvu va corretta
cosı̀: xuv = ∇xv xu ed xvu = ∇xu xv .

9) Pagina 292, riga −13: Tx (S) 6⊂ H = N (h∗x ). Si cancelli il pezzo = N (h∗x ).

10) Pagina 301, riga 8, terza matrice. Correggere r−1 in −r−1 .

11) Pagina 301, riga −13. Il segno ± non è il segno di v ma di −v. Conseguente-
mente, alla riga −11 bisogna cambiare segno al secondo e al terzo termine della
formula. La formula corretta è L = −|v|α000 • b = −|v|τ κ.
p
12) Pagina 301, riga −2. A denominatore ci vuole la radice: 1 + fu2 + fv2 .

13) Pagina 302, riga 5. Scambiare tra loro le parole “iperbolici” e “parabolici”.

14) Pagina 302, riga 11: ‘quadrica semplicemente degenere’. Questo è vero se
(l, m, n) 6= (0, 0, 0). Ma potrebbe anche capitare che l = m = n = 0. In questo
caso la ‘quadrica’ si riduce al piano z = 0.

15) Pagina 302, riga −8. Viene ripetuto qui l’ errore già commesso a pagina
283 (vedi sopra, nota (7)): con x(u, v) definita come la definisce l’ Autore, non
si può fare variare il parametro u tra −π/2 e π/2. Si deve scegliere per esso un
diverso dominio. Per esempio, 0 < u < π.

16) Pagina 302, riga −5. I punti da togliere sarebbero semmai (±a, 0, 0), non
(0, 0, ±c). Comunque, anche cosı̀ le cose non funzionano. Chiarito che non si

29
può fare variare u tra −π/2 e π/2 (vedi nota precedente), e preso ]0, π[ come
dominio di v, per avere una rappresentazione che si lasci sfuggire solo i punti
(±a, 0, 0) bisogna fare variare v su tutto R (ma questo non si può fare se si
vuole che x(u, v) sia iniettiva) oppure su un intervallo semichiuso di lunghezza
2π. Per esempio, 0 ≤ v < 2π. Ma nemmeno questo si può fare, perchè la
definizione 20.2 vorrebbe un insieme aperto come dominio di x(u, v). Prendi-
amo allora 0 < v < 2π. Però in questo modo perdiamo non solo i due punti
(−a, 0, 0) ed (a, 0, 0), ma tutto un arco di ellisse di estremi (−a, 0, 0) ed (a, 0, 0).
Precisamente, si perde l’ arco {(a cos u, 0, c sin u)}0≤u≤π .

17) Pagina 305, ultima riga del testo. Non è vero che rette di sistemi diversi
siano sempre incidenti. Possono anche essere parallele. Questo succede quando
passano per due punti opposti dell’ ellisse Q ∩ {(x, y, 0)}x,y∈R .

18) Pagina 306, riga 12. Si sostituisca bv con −bv. Stessa correzione alla riga 15.

19) Pagina 307, prima formula. Questa formula è sbagliata. La si corregga come
segue:
−4a2 b2
K = < 0.
(a2 b2 + 4a2 (u + v)2 + 4b2 (u − v)2 )2
20) Pagina 307, terza formula. Anche questa formula è sbagliata. La si corregga
cosı̀:
−b2
K = , H = 0.
(b2 + a2 v 2 )2
21) Pagina 308, righe 4, 5 e 6 (Teorema di Meusnier). Se θ è l’ angolo (acuto) tra
N(t) ed il piano osculatore ad α in α(t), l’ equazione π(α0 (t), α0 (t)) = κ(t) cos θ
va corretta come segue: π(α0 (t), α0 (t)) = ±κ(t) cos θ. Infatti, se cambiamo l’
orientazione della curva α, l’ angolo θ e la curvatura κ(t) non cambiano, ma il
vettore n(t) si converte nel suo opposto. Quindi π(α0 (t), α0 (t)) cambia di segno,
mentre il prodotto κ(t) cos θ resta invariato.
Forse θ va definito diversamente, come l’ angolo (preso non superiore a π)
tra i vettori N(t) ed n(t). Definito θ cosı̀, l’ equazione π(α0 (t), α0 (t)) = κ(t) cos θ
è valida.

22) Pagina 308, Esercizio 4. Nella definzione di D, si prenda u2 + v 2 > 0 anzichè


u2 + v 2 < 1. Infatti, se u2 + v 2 < 1 allora D conterrebbe il punto (0, 0), ma
l’ applicazione x(u, v) non è differenziabile in (0, 0). Inoltre il punto (1, 1), ove
viene chiesto di calcolare curvature e piano tangente, non apparterrebbe a D.

23) Pagina 309, righe −6, −4 e −2. Non si possono usare gli stessi simboli per
variabili in U e in V . Inoltre, non è chiaro in che senso le componenti di y si
possano vedere come funzioni delle componenti di x, come invece le scritture
∂yj /∂xi sembrano suggerire. Questa parte va corretta. Indichiamo con (r, s)

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la coppia di coordinate di un punto di V , mantenendo la scrittura (u, v) per
punti di U . Correggiamo quindi la riga −6 scrivendo yr ∧ ys /||yr ∧ ys || invece di
yu ∧ yv /||yu ∧ yv ||. Poi, alle righe −4 e −2, sostituiamo la matrice (∂yj /∂xi )x
con
 
∂u/∂r ∂u/∂s
∂v/∂r ∂v/∂s y−1 (x)

ove le coordinate u, v dei punti di U vengono pensate come funzioni differenzi-


abili di (r, s) ∈ V mediante la clausola (u, v) = x−1 (y(r, s)).

24) Pagina 318, formula 37.6. Nella seconda matrice di questa formula, all’
incrocio della seconda riga con la terza colonna, si sostituisca E con F .

25) Pagina 319, riga 10. Si inserisca la parola ‘a velocità’ tra ‘curva’ e ‘costante’.

26) Pagina 321, riga 4. Si prenda −rπ < u < rπ anzichè −π < u < π.

27) Pagina 232, riga 9. Si sostituisca ct con a + ct. Inoltre, non c’ è bisogno di
prendere c > 0. Basta che c 6= 0.

28) Pagina 321, riga 12. Sostituire α con α0 .

29) Pagina 321, riga −16. Contrariamente a quel che l’ Autore dice qui, non è
vero che punti in uno stesso aperto coordinatizzato siano sempre congiunti da
un’ unica geodetica. Dipende dall’ aperto. Per esempio, su una sfera possiamo
prendere aperti coordinatizzati che contengano infinite coppie di punti antipo-
dali ed infiniti cerchi massimi su ciascuna di esse. In un aperto siffatto due
punti antipodali sono sempre congiunti da infinite geodetiche, tutte di uguale
lunghezza, e due punti non antipodali su uno stesso cerchio massimo (contenuto
nell’ aperto) sono congiunti da due geodetiche, una corta ed una lunga. Im-
magino quindi che l’ affermazione contenuta nel libro di Stoker, cui l’ Autore
rimanda, suoni un po’ diversa da come l’ Autore la formula alla riga −16.
Curiosamente, l’ Autore è perfettamente al corrente del controesempio ora
discusso, dal momento che lui stesso lo illustra poche righe più sotto (righe da
−12 a −5), aggiungendone anche un altro.

30) Pagina 328, penultima riga. Si dovrebbe assumere anche θ 6= π + 2kπ.

dS dSθ
31) Pagina 329, riga 3. Correggere dz in dz .

6.6 Precisazioni
1) Pagina 268, riga 5. Nella somma in questione, gli addendi non paralleli a
B sono paralleli a T o ad N , quindi ortogonali a B. Sicchè il loro contributo
al prodotto scalare (α0 ∧ α00 ) • α000 è nullo. E’ per questo che possono essere

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trascurati.

2) Pagina 276, ultima riga. Si dice che α :]−ε, ε[→ S è adattata a v se α0 (0) = v.

3) Pagina 277, terzo paragrafo dal fondo. Qui si parla di isometrie. Si intenda:
isometrie locali. (Vedi pagina 288, prima riga.)

4) Pagina 278, riga 10. L’ ipotesi che N = 3 entra in gioco in modo essenziale
solo a metà di pagina 280, quando si comincia a lavorare con prodotti vettore
in R3 . Del resto, si può definire anche il prodotto vettore di N − 1 vettori di RN
(vedi file ComplementiGD). Quindi anche quel che si dice dalla metà di pagina
280 fino alla fine della Sezione 33 si può riformulare per ipersuperfici di RN , con
N ≥ 3.

5) Pagina 281. Avverto che il cilindro non è una superficie elementare.

6) Pagina 287, riga −9. La verifica che τ è un’ isometria non è poi tanto faticosa.
Inoltre, non è vero che questo fatto non sia più utilizzato nel seguito del testo.
Viene utilizzato nelle sezioni 38 e 39.

7) Pagina 294, riga −4. Qui l’ Autore sembrerebbe voler dire che un valore
stazionario è sempre un massimo o un minimo assoluto. Questa però sarebbe
una sciocchezza. Ovviamente l’ Autore non intende questo. Le ultime righe di
pagina 294 vanno dunque intese come segue.
Siccome k12 = 0, risulta dκ/dθ = (k2 − k1 ) sin 2θ. Quindi se k1 6= k2 la
derivata di κ(θ) si annulla solo per θ = π/2 + kπ e per θ = kπ. Per θ = kπ
si ottiene il vettore ±e1 ed il valore k1 mentre per θ = π/2 + kπ si ottengono
±e2 e k2 . Pertanto le direzioni principali sono individuate da e1 ed e2 e i nu-
meri k1 e k2 sono le curvature principali. Se invece k1 = k2 allora κ(θ) è costante.

8) Pagina 298, esempio 35.9.3. Rammento che perchè x(u, v) possa essere una
parametrizzazione (di una parte della sfera) si deve prendere il suo dominio in
modo tale che sin u sia sempre 6= 0. Per maggiori dettagli, si veda la nota (7)
nella precedente Sezione 6.5.

9) Pagina 301, riga −13. Rammento che, come già detto in precedenza (Sezione
6.2), il parametro v va fatto variare o in ]0, +∞) oppure in (−∞, 0[.

10) Per rendere la figura 35.5 coerente col testo bisogna intendere che l’ asse
orizzontale rapprenti l’ asse z e quello verticale l’ assse y.

11) Pagina 313, righe 9 e 10. L’ equazione stabilita in queste righe vale solo
nell’ ipotesi (peraltro lecita) che ||v|| = 1.

12) Pagina 317. Verso la metà della pagina compare una scrittura abbastanza
insolita: una t apposta al segno di determinante, in alto a sinistra. Credo che

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la t stia a significare che si prende il determinante della trasposta della matrice
scritta dentro le barre, che peraltro è uguale al determinante di quella stessa
matrice. (Matrice trasposte hanno lo stesso determinante!)

13) Proposizione 39.1. Il simbolo Aut(H) non è stato definito. Ad ogni modo,
si capisce che sta per il gruppo delle isometrie di H.

14) Pagina 329, riga 10. Rammento che la funzione z 7→ −z̄ non è differenziabile
in quanto funzione da C a C, ma lo è in quanto funzione da R2 ad R2 .

15) Ad integrazione di quanto detto a pagina 329, faccio notare che R normalizza
PSL2 (R) e che PSL2 (R) · hRi ∼
= PGL2 (R).

7 Capitolo 7
7.1 Forma di volume
Paragonando il Teorema 40.9 e la Proposizione 40.12 con quel che si legge verso
la fine di pagina 355 e sopratutto con gli esempi 43.4.2 e 43.4.4 (anche gli esercizi
2 e 3 a pagina 364 e 365), qualcosa non torna. Infatti, stando al Teorema 40.9
e alla Proposizione 40.12, dovrebbe risultare
vol(v1 , v2 , ..., vn ) = n! · du1 ∧ du2 ∧ ... ∧ dun (v1 , v2 , ..., vn )

mentre alle pagine 362-365 si fa come se


vol(v1 , v2 , ..., vn ) = du1 ∧ du2 ∧ ... ∧ dun (v1 , v2 , ..., vn ).

7.2 Correzioni
1) Lemma 40.5, parte (b). Cambiare Alt(Alt(G)) = G in Alt(Alt(G)) = Alt(G).

2) Pagina 355, prima riga: teorema 40.7. Il numero giusto è 40.8.

3) Pagina 365 Esercizio 6. La Finestra di Viviani non è una δ-superficie. Essa


contiene il punto p = (r, 0, 0), ma nessun intorno di p nella Finestra di Viviani
è omeomorfo ad un aperto di R2 o di R2+ .

4) Pagina 374, riga −11. Nel quarto integrale, si sostitusca fˆ con fˆ∗ .

7.3 Precisazioni.
1) Pagina 345, riga 12. Si intende che U è aperto per la topologia indotta da
Rn su Rn+ .

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2) Pagina 350, righe −12, −11 e −10. Si dovrebbe definire anche l’ orientazione
indotta da Rn . La si definisce come l’ opposta di quella indotta da Rn+ .

3) Pagina 354. Avverto il lettore che nel contesto attuale a simboli come du e dv
viene attribuito un significato concettualmente un po’ diverso che a pagina 278.
Ora du e dv vanno intesi come funzionali lineari mentre a pagina 278 indicavano
le cordinate di un vettore tangente rispetto alla base {∂/∂u, ∂/∂v}. D’ altra
parte, è anche vero che le coordinate di un vettore rispetto ad una data base
possono sempre interpretarsi come valori di opportuni funzionali lineari.

4) Pagina 363, riga −11. Si intende che U è orientato coerentemente con l’


orientazione di X.

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