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Dal “pane sciocco” ad una “regale rosetta”: il racconto di un itinerario dal deserto quaresimale alla fioritura della
Resurrezione
di Nicola Peirce
Come ho già scritto altre volte, gran bella città Siena e più in generale bella tutta la
terra senese. Storia, cultura, natura, cibo e vino, strepitosi. Quella dove risiedo credo
sia la provincia italiana con il maggior numero di vini DOCG. Alcuni famosissimi,
come il Brunello o il Chianti. Ci sono anche prodotti prelibati della salumeria. La
produzione casearia con il pecorino di Pienza. Il tartufo di San Giovanni d’Asso. Dolci
unici: ricciarelli, panforte, cavallucci. Una cucina ottima con piatti adatti a tutti i palati.
Insomma un vero paradiso per i gourmet o per chi, come me, più modestamente,
apprezza il mangiar bene.
Però, come sempre, non è tutto oro ciò che luccica, infatti, in questa appetitosa terra senese c’è un
gravissimo neo “mangereccio” che per un romano, qual’io sono, offusca tutte le altre meraviglie gastronomiche ed
è… il pane. Non si offendano i miei concittadini acquisiti ma il loro pane non sa di niente. Sfornano un pane in
pagnotte dalla forma insignificante, senza fronzoli e pieno di mollica, che chiamano pane “sciocco” perché è
senza sale e ne vanno molto fieri e quando si cimentano nel produrre altro genere di pane il risultato è disastroso.
Chiaramente, per me abituato alla croccante e leggera rosetta romana, con la sua forma da corona regale e
diadema alla sommità, il pane di qui è veramente una sofferenza. Per non parlare poi del loro “ciaccino”, pieno
d’olio e molliccio ai bordi, paragonato alla pizza bianca romana fatta con la pasta del pane e sapientemente cotta,
con sopra il sale grosso e il contorno leggermente “bruciacchiato” e croccante. Insomma, per me è una
frustrazione quotidiana che cerco di attutire tostando e salando, a dovere, le fette del pane sciocco per ottenere
un effetto che ricordi, vagamente, la mia adorata rosetta croccante.
Quest’anno no, non è andata così. Venivo da un periodo soffocante di problemi pratici legati a vari impegni che
hanno evidentemente appesantito non solo la mia mente ma anche il mio cuore. Sono pertanto arrivato già arido
al mercoledì delle ceneri e sono entrato in un vero e proprio deserto interiore, freddo e scuro, pieno di dubbi e
incertezze, non sull’esistenza di Dio ma su me stesso, sulla mia fede, sul perché credo.
Una per tutte, mi sono trovato anche davanti alla domanda: «…credi perché ti fa comodo o peggio, solo
quando ti fa comodo o credi perché metti Dio davanti ad ogni cosa?». Dilemma non facile da risolvere soprattutto
se ti sembra di essere solo con te stesso e se sei così “sciocco” e stantio, cioè duro, da non permettere a quel:
«…mormorio di un vento leggero» (1Re 19,12), lo Spirito di Dio, di attraversarti e ristorarti. Diciamo che negli anni
passati sono partito bene e arrivato alla Pasqua abbastanza soddisfatto ma mai estasiato, quest’anno sono
partito male ma sono arrivato a toccare il cielo con un dito, anzi, il
cielo ha toccato me con un dito.
Al termine di marzo con l’inizio di aprile e della primavera, qualcosa è cambiato, pur nel perdurare del deserto.
Mentre fino a quel momento ero nel “retro palco”, nella speranza che il primo ballerino mi chiamasse a danzare,
con aprile qualcosa ha iniziato a muoversi dentro di me. Avevo ceduto le armi: pregavo punto e basta, senza
cercare ragioni, mi sono detto: «…va bene, non sento niente, forse Dio non è più interessato a me, però non mi
importa, io comunque resto fedele, continuo a partecipare alla messa e a recitare le mie preghiere: punto e
basta!».
La prima domenica di aprile, quinta di quaresima e penultima prima di Pasqua, abbiamo ascoltato il Vangelo di
Giovanni, il brano della risurrezione di Lazzaro ed ecco la prima “overture”, il primo allegro con passo en l’air, uno
di quei passi nei quali il ballerino prende la ballerina per la vita e la
solleva. Ero a San Domenico, ascoltando la proclamazione di quel
brano, e sento: «…non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria
di Dio?» (Gv. 11, 40). E’ Gesù che rimbrotta Marta perché alla
richiesta di togliere la pietra che chiude il sepolcro di Lazzaro, lei gli
oppone il fatto, molto terra-terra, che sono passati diversi giorni e il
corpo del fratello già manda cattivo odore.
Dio, anzi che Dio trova posto in te, perché nella pazzia cessa il legame con il
mondo, con quella fede di comodo, terra-terra, che era il mio cruccio all’inizio della quaresima. Fede di comodo
che mischiata agli impegni mondani aveva riempito il mio cuore invece di svuotarlo, perché avevo confidato nelle
mie forze, nella mia bravura, nella mia religiosità, pretendendo di arrivare a Dio attraverso il mio io: che squallore!
Trascorse un’altra settimana ed arrivai alla domenica delle Palme. Come tutti gli anni, nella messa, viene letta
la Passione di Gesù, quest’anno secondo Matteo. Come saprete, solitamente, ci sono tre lettori: l’officiante che
legge le frasi pronunciate da Gesù, il narratore che legge le parti descrittive e un altro lettore che legge le frasi
pronunciate da tutti gli altri “attori” della passione. Io ero uno dei tre lettori ed ero “gli altri”. Mentre avanzavo nella
lettura ho iniziato a pensare a quale figura meschina fanno i personaggi maschili di quella narrazione. Traditori
(Giuda), ipocriti e invidiosi (sacerdoti e dottori), pavidi (Pilato), sadici (le guardie romane) ma soprattutto ciò che
mi ha colpito è la miseria umana che ho visto in Pietro che rinnega perché non riesce a credere nella gloria di Dio
che ha proprio davanti a se e, invece, pensa solo alla sua “pellaccia”, pensa terra-terra. Per essere onesti del
tutto c’è un personaggio maschile che si salva ed è il Cireneo che accompagna Gesù al calvario. Però, bisogna
vedere quanto fosse veramente contento di farlo e quanto hanno pesato le “pressanti” richieste dei soldati
romani.