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Ragioni e Domande VIVARIUM 20 ns (2012) 23 - 32

Fede e grazia in Giovanni


di VINCENZO LOPASSO

1. Premessa

Nella Lettera apostolica Porta Fidei il Santo Padre, Benedetto XVI, afferma
che la fede «introduce alla vita di comunione con Dio» (n. 1). In questo contri-
buto è mio intento elaborare quest’idea alla luce di due testi giovannei, uno del
vangelo e l’altro della prima lettera, rispettivamente Gv 3,4-8 e 1Gv 5, 9-12.
Nel Quarto Vangelo la fede occupa un posto tale che è stato definito il “van-
gelo della fede”1. In 20,31 si legge che è stato scritto «affinché crediate che Gesù
è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Il verbo pisteÚw, con differenti sintagmi, vi ricorre più che in qualsiasi altro
libro del NT. Per Giovanni “credere” equivale ad accogliere la testimonianza
che Gesù fa di se stesso, condizione necessaria perché si stabilisca quella comu-
nione di vita che è la salvezza.
Anche nell’epistolario si parla più volte della fede, sebbene da un punto di
vista più pastorale e sotto un aspetto più ecclesiale. L’attenzione è concentrata
sulla fedeltà alla parola udita fin “dall’inizio”, ovvero sulla «retta credenza in
merito all’incarnazione del Figlio di Dio, negata o svilita dalla nascente eresia
docetista e gnostica»2. In particolare, la prima lettera ne parla in 2,12-18 (fede/
conoscenza e amore); 4,1-6 (essere da Dio e conoscerlo) e 5,1-12.

1
D. MOLLAT, Saint Jean Maître spirituel, Paris 1976.
2
S.A. PANIMOLLE, «La fede e l’incredulità negli scritti giovannei», in Dizionario di Spiritualità Biblico-
Patristica, n. 21, Borla, Roma 1998, 244; G. GHIBERTI, «Giovanni», in Dizionario Teologico Interdisciplinare,
Marietti, Torino 1977, II, 231-232.

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Ragioni e Domande

2. Gv 3,4-8

2.1. Contesto letterario e teologico


Gv 3,4-8 fa parte del dialogo di Gesù con Nicodemo che inizia in 2,23 e
termina in 3,21. Esso è inserito nella sezione di 2,13-4,54, successiva al segno
di Cana (vv. 11-12). In questa sezione, dapprima si presenta lo scontro di Gesù
con le autorità gerosolimitane in occasione della Pasqua (vv. 13-22); in seguito,
i riflettori sono puntati su tre personaggi rappresentativi di mondi differen-
ti, ognuno dei quali però giunge alla fede: il fariseo Nicodemo (2,23-3,21), la
Samaritana (4,1-42), il funzionario regio (4,43-5). Il brano su Nicodemo inizia
in 2,23, dove si descrive la reazione dei Giudei verso i segni che Gesù compiva
durante la festa. Tenendo presente quest’inizio, il brano si divide come segue:
2,23-25; 3,1-2a; 3,2b-9; 3,10-21.
I vv. 23-25, che presentano l’antecedente del dialogo, fanno supporre che
Nicodemo aveva assistito ai segni compiuti da Gesù. Nel v. 23 si afferma che,
mentre Gesù si trovava a Gerusalemme per la Pasqua, molti, a causa dei segni
che faceva, credettero in lui. È usato il termine t¦ shme‹a (v. 23), che rimanda
all’attività taumaturgica compiuta da Gesù in quell’occasione. Nei vv. 24-25 si
nota che egli «non si fidava di tale simpatia, perché conosceva l’intimo dei cuori
e sapeva che questa fede non aveva radici profonde»3.
Gv 3,1-2a introduce Nicodemo, rappresentante del mondo ortodosso giu-
daico: è definito “fariseo” e “uno dei capi dei Giudei”. Con quest’ultima espres-
sione lo si presenta come membro del Sinedrio. Che lui ne facesse parte, è con-
fermato in 7,50-52, dove prende le difese di Gesù.
Nel seguito il brano si snoda come segue: affermazione di Nicodemo e spie-
gazione di Gesù (vv. 2b-3); duplice domanda di Nicodemo e risposta di Gesù
(vv. 4-8); domanda di Nicodemo e domanda di Gesù (vv.9-10); monologo di
Gesù (vv. 11-21).
I vv. 2b-3 contengono due affermazioni: Nicodemo interpreta i “segni”
che ha visto come prova del fatto che Gesù ha Dio dalla sua parte. Lo chia-
ma did£skaloj senza articolo, mostrando che finora la fede gli permette di
considerare l’identità profetica di Gesù, in linea con la testimonianza avvenuta
nella prima settimana (1,19-2,13). Gesù reagisce all’iniziativa di Nicodemo con
un’affermazione solenne con la quale gli apre l’intelligenza a una fede più piena,
legata al mondo soprannaturale della salvezza, ma formula quest’affermazione

3
S.A. PANIMOLLE, L’evangelista Giovanni, Borla, Roma 1985, 23.

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Fede e grazia in Giovanni

in modo misterioso giocando sulla differente accezione dell’avverbio ¥nwqen,


che Nicodemo intende nel senso di “di nuovo”, mentre Gesù gli aveva dato
quello di “dall’alto”.
La micro-unità dei vv. 4-8 inizia con la domanda scettica di Nicodemo che
offre a Gesù la possibilità di chiarire in che senso aveva usato quell’avverbio, e
di approfondire il discorso sulla fede superando l’approccio riduttivo dell’in-
terlocutore.
L’ultimo scambio di parole è dato nei vv. 9-10, dai quali però non si evince
nessuno sviluppo dell’argomentazione. La risposta di Gesù inizia manifestando
apprezzamento verso Nicodemo chiamato “il maestro di Israele” (v. 10). Da
una parte, apponendo l’articolo davanti a did£skaloj, Gesù intende elogiare il
maestro ebreo e presentarlo come rappresentante di tutti i suoi correligionari,
dall’altra, intende rimproverarlo perché non giunge a una fede profonda, legata
alla trasformazione interiore.
L’approfondimento vero e proprio si avrà soltanto con i vv. 11-21 dove Gesù
pronuncia un monologo che compendia vari aspetti sui quali poi l’evangelista
si soffermerà nel corso della sua opera. Per il contenuto, esso può dividersi in
tre micro-unità: i vv. 12-15 dove Gesù riprende il tema della testimonianza; vv.
16-18 centrati su rapporto tra fede e vita eterna/giudizio; infine, i vv. 19-20 dove
illustra il tema della rivelazione personale di Dio Padre; il v. 21 è conclusivo.

2.2. Il nascere dallo Spirito (vv. 4-8)


Di tutto il brano, i vv. 4-8 sono certamente il cuore. La duplice domanda
retorica di Nicodemo «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può
forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (v. 4),
richiede una risposta negativa: “certo che no”. Il tenore della domanda si spiega
sia, come si è detto, in base all’interpretazione di ¥nwqen, sia per l’uso del verbo
genn£w che pure si prestava al doppio senso. Nel Quarto Vangelo questo verbo
è usato in senso “naturale”, cioè per indicare la nascita o il venire alla luce, ma
anche in senso soprannaturale per indicare la rinascita spirituale, come qui. Nel
primo senso il verbo è impiegato nel sintagma genn£w ™x aƒm£twn (1,13).
Nei vv. 5-8 Gesù spiega il senso che intendeva dare all’avverbio “dall’al-
to”, cioè quello di una rinascita soprannaturale, dovuta allo Spirito santo (v. 5),
l’agente divino che precedentemente non era stato menzionato. Tale afferma-
zione è di grande importanza per comprendere il significato che l’evangelista
attribuisce alla fede: non si tratta di comprendere Gesù in senso, per così dire,
storico-religioso, sulla base di quanto la tradizione ebraica ha potuto dire di lui,
ma di essere generati dallo Spirito a una vita nuova che fa diventare figli di Dio.
In tal modo può sperimentarsi la comunione profonda con il Padre per mezzo

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Ragioni e Domande

del Figlio, si entra nel Regno di Dio inaugurato da Cristo stesso che è «venuto
nel mondo per essere re, rendendo testimonianza alla verità ossia rivelando au-
torevolmente la vita di Dio»4.
Il protagonista di questa rinascita è lo Spirito. L’affermazione completa è
«da acqua e dallo Spirito» (v. 5). Tale binomio, acqua e Spirito, nel corso della
storia dell’esegesi, è stato spiegato in vario modo5. Considerando insieme i due
termini, alcuni vi hanno visto un riferimento al battesimo, il sacramento della
fede, il quale si presenta come lavacro e opera una rinascita per mezzo dello
Spirito.
Molto probabilmente Giovanni allude all’episodio del cap. 1 sulla testimo-
nianza del Battista, il quale, di fronte ai Giudei provenienti da Gerusalemme,
aveva affermato che egli «battezzava con acqua», ma che sarebbe venuto dopo
di lui uno che avrebbe battezzato «in Spirito Santo» (1,26.33). In entrambi
i casi, in quello del Battista e in quello di Nicodemo, il coinvolgimento dello
Spirito nella dinamica della fede mostra come il credente, pur supportato dalle
categorie mentali proprie del suo retroterra culturale e religioso, con l’avven-
to di Cristo, sia chiamato a una completa trasformazione interiore. Giovanni
«vuole mostrare a quali condizioni si passi da una fede molto umana ed esterio-
re qual è quella degli Ebrei, ad una vita postasi completamente sotto la guida
dello Spirito»6.
Qui, come del resto altrove, soprattutto nei Discorsi di addio, riferendosi
all’opera dello Spirito, l’evangelista attualizza il messaggio della nuova alleanza
proclamato da Geremia e da Ezechiele. Quest’ultimo, in particolare, aveva an-
nunciato, per gli ultimi tempi, un nuovo intervento di Dio nel cuore dell’uomo,
in cui avrebbe avuto un ruolo decisivo lo Spirito. Allo Spirito, come agente
dinamico e interiore, si deve dunque la trasformazione dell’uomo e la rinascita
a una vita soprannaturale.
Se la vita nuova del credente è frutto di un’azione dall’alto, la fede, che
esprime il suo essere intimamente legato a Cristo, non può che essere grazia, sia
nel senso che introduce alla comunione con Dio, sia nel senso che è “dono” o
favore divino. L’evangelista insiste molto su questo secondo aspetto. Tra i testi,
è noto il discorso di Cafarnao dove Gesù afferma che nessuno può andare a lui
se non chi è attirato dal Padre; anzi, nessuno può credere nel Figlio se non ha

4
PANIMOLLE, L’evangelista Giovanni, 22.
5
Per le diverse interpretazioni, cfr. I. DE LA POTTERIE, «Nascere dall’acqua e nascere dallo Spirito. Il testo
battesimale di Giovanni 3,5», in I. DE LA POTTERIE-S. LYONNET (edd.), La vita secondo lo Spirito condizione
del cristiano, Editrice AVE, Roma 1967, 36-47.
6
DE LA POTTERIE, «Nascere dall’acqua», 69-70.

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Fede e grazia in Giovanni

prima ricevuto questo dono dal Padre (6,65)7.


L’antropologia teologica insegna come tale rinascita produca una vera tra-
sformazione spirituale dell’uomo. Ciò dà alla fede una connotazione esistenzia-
le. Mediante la fede vediamo il mondo e giudichiamo le realtà che ci circonda-
no. Nello stesso tempo, è la fede che ci fa essere di Dio e ci permette di agire
secondo lo Spirito. Nel v. 6 Gesù enfatizza in modo lapidario la dimensione
“carnale” di chi nasce dalla carne in parallelo alla dimensione spirituale di chi
nasce dallo Spirito.
Nell’ultima parte della sua riposta, Gesù offre all’interlocutore anche il crite-
rio alla luce del quale si può attraversare la porta della fede ponendosi nella pro-
spettiva della rigenerazione e della trasformazione interiore. E lo fa, giocando
ancora una volta sul doppio significato dei termini. Il gioco di parola riguarda
ora il termine pneàma che tanto in greco quanto in ebraico (atUr) indica sia il
vento (v. 8), come elemento atmosferico, sia lo Spirito di Dio, cioè la forza mi-
steriosa e personificata di Dio, a cui, come abbiamo detto, i profeti attribuivano
la trasformazione dell’uomo interiore. Nel nostro testo s’insiste sulla misterio-
sità della sua azione, che, simile al vento, non si riesce a definire. Tra parentesi
ricordiamo che per gli antichi Ebrei il vento era uno dei fenomeni naturali più
misteriosi perché era visto come forza che si muoveva e che faceva muove-
re, senza che se ne potesse spiegare l’origine. Giovanni fa qui riferimento allo
Spirito per dire che quella rinascita non è spiegabile secondo la carne, ma può
spiegarsi secondo un’altra prospettiva che rimane misteriosa, perché vi entra in
campo Dio stesso. Inoltre tale riferimento allo Spirito è voluto per indirizzare a
una comprensione più profonda della fede, che non può rimanere, come quella
dei gerosolimitani di 2,23, a livello di adesione superficiale al messaggio e alla
persona di Cristo basata sui segni, quindi sulla carne, prescindendo da un coin-
volgimento interiore e, soprattutto, dall’azione divina nell’intimo del credente.
A proposito dello Spirito Santo, occorre dire che il Quarto Vangelo è molto
parco di particolari, mentre delinea con più chiarezza le persone del Padre e del
Figlio. Nonostante ciò, da testi, quali soprattutto alcuni passaggi dei Discorsi di
addio (capp. 13-17), si deduce che è considerato persona divina, che svolge una
funzione specifica in ordine alla santificazione del discepolo, in rapporto alla
sua unione con Cristo e alla comprensione del mistero di lui8.

7
S.A. PANIMOLLE, «La fede e la vita nel Vangelo di Giovanni», in G. GHIBERTI e COLL. (edd.), Opera
Giovannea, (Logos 7), EllediCi, Leumann-Torino 2003, 466.
8
Cfr. PANIMOLLE, L’evangelista Giovanni, 286-290.

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Ragioni e Domande

2.3. La persona del Figlio e la vita eterna


In 3,2b-10 sono poste le condizioni della fede e questa è vista nella sua manife-
stazione nel credente. A tale manifestazione, però, si giunge mediante l’accoglien-
za della persona del Figlio. L’evangelista insiste su quest’aspetto fin dall’inizio del
vangelo, parlando della vocazione dei primi discepoli, i quali, dopo aver ascoltato
la testimonianza del Battista, seguono Gesù per “restare” con Lui, cioè per diven-
tare suoi discepoli. Ciò è espresso con il verbo mšnw (1,39) che in Giovanni rende
il rapporto di comunione vitale tanto tra Gesù e i discepoli quanto tra il Figlio e
il Padre (14,10). Si può anche menzionare ciò che Gesù vuole rivelare parlando
delle «cose maggiori» a Natanaele (1,50), il quale è invitato a giungere a un grado
più alto di fede e a prescindere dalle categorie legate al suo ambiente di origine.
Gesù gli si presenta come Figlio dell’Uomo, cioè come colui in cui si realizza la
mediazione tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra (1,51).
Il passo obbligatorio che il credente deve compiere per ricevere l’azione
dello Spirito e vivere nella dimensione della rinascita interiore è l’adesione alla
persona di Gesù. Se questo aspetto non è esplicito nel dialogo con Nicodemo, è
elaborato nel monologo successivo, esattamente nei vv. 12-15, dove Gesù si pre-
senta come il testimone accreditato dal Padre per rivelare le cose del cielo; egli
esige la fede, cioè l’adesione alla sua persona divina. Gesù si attribuisce, come
aveva fatto con Natanaele (1,51), il titolo Figlio dell’Uomo, che anche qui non è
da intendere in senso apocalittico, cioè di giudice e sovrano universale della fine
dei tempi (Dn 7), ma come Mediatore tra il Padre e gli uomini.
Inoltre Gesù collega alla sua persona il dono della vita eterna. In 3,14 egli offre
a Nicodemo la possibilità di capire uno degli effetti della fede in lui come Figlio
dell’Uomo, cioè Mediatore, sviluppando l’analogia con il serpente di bronzo,
innalzato da Mosè nel deserto, secondo il noto episodio di Nm 21. Come, infatti,
lo sguardo rivolto al serpente di bronzo innalzato da Mosè su un’asta ebbe come
effetto la guarigione degli Israeliti dal morso dei serpenti velenosi, così chiunque
guarderà con fede al Figlio dell’Uomo innalzato avrà la vita eterna. Qui il verbo
Úyow è usato nel doppio senso di innalzamento fisico sulla croce e nel senso
dell’esaltazione di Gesù, ovvero della sua morte salvifica.
Dunque per Giovanni la fede nella persona divina di Gesù, in quanto ope-
ra dello Spirito, ha come primo effetto la vita eterna. Spesso la qualificazione
“eterna” viene intesa in modo errato, come se indicasse la durata senza fine
della vita dopo la morte, ma in realtà essa dice immersione in Dio o partecipa-
zione della vita divina già in questo mondo9. Questo concetto ricorre spesso nel

9
Cfr. S. ZEDDA, «Le realtà escatologiche presenti: la vita eterna», in ID., L’escatologia biblica, Paideia,
Brescia 1975, II, 303-367.

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Fede e grazia in Giovanni

Quarto Vangelo, a iniziare dal prologo (1,12), e si trova anche nell’Epistolario


(1Gv 1,2-3; 3,10-15; 5,11-13). In 1Gv 5,11-13, ad esempio, si afferma che la vita
eterna consiste nel possesso del Figlio, cioè nella vita di comunione con lui. È
lui la Vita (5,26; 11,25; 14,6; 1Gv 5,11-12; 5,20). Egli l’ha ricevuta dal Padre
(5,26) e la comunica ai suoi (10,10.28; 17,2). Perciò tra lui e i discepoli circola
quella vita che egli ha in comune con il Padre (cfr. il cap. 15 sulla vite e i tralci).
Il significato di questa comunione è approfondito nei Discorsi di addio, dove si
insiste sul fatto che i discepoli formano una sola cosa con Gesù, e che il Padre,
essendo in Gesù, che a sua volta è unito ai discepoli, è presente anche in loro
(Gv 15,4ss; 17,23). Se rimane unito a Cristo mediante la fede, il credente riceve
la vita divina.

3. 1 Gv 5, 9-12

3.1. Contesto letterario e teologico


1Gv 5,9-11 è la terza micro-unità di 5,1-12, che si divide nei vv. 1-5; 6-8;
9-12. In essa si ha una concezione della fede in cui gioca un ruolo importan-
te l’interiorità del credente considerata sotto l’influsso dello Spirito10. Sicché
i collegamenti con il brano di Gv 3,4-8 permettono di sviluppare il tema del
rapporto tra fede e grazia.
Nei vv. 1-5 l’autore non solo collega fede e amore, ma offre anche il criterio
indispensabile in base al quale il credente può dire di amare gli altri: l’amore
verso Dio e l’osservanza dei comandamenti. Inoltre la fede è considerata nel suo
aspetto soprannaturale, perché espressione dell’essere generato da Dio (P©j Ð
pisteÚwn Öti ’Ihsoàj ™stin Ð CristÕj, ™k toà Qeoà gegšnnhtai), cioè della
rinascita soprannaturale da cui dipendono gli effetti della fede.
Il verbo “nascere” al passivo è quello stesso che abbiamo incontrato nel
dialogo con Nicodemo (3,3.4.6.7.8; in senso teologico in Gv solo qui e in 1,13)
ed esprime la stessa idea: quella di una nascita dall’alto o dallo Spirito, quindi
l’idea di una trasformazione interiore prodotta da Dio nel credente. Per quanto
concerne il rapporto col brano di Nicodemo, oltre alla menzione del verbo
“nascere” notiamo l’uso comune del participio sostantivato Ð pisteÚw (1Gv
5,1; 5,5; Gv 3,15.16.18) e l’idea del rapporto tra fede e vita eterna (Gv 3,36: Ð
pisteÚwn e„j tÕn uƒÕn Ÿcei zw¾n a„ènion). In entrambi i casi la fede è riferita

10
A. DALBESIO, Alle sorgenti dell’esperienza cristiana. Il messaggio spirituale della Prima Lettera di Giovanni,
EDB, Bologna 1993, 109; per il commento del brano, pp. 110-115.

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Ragioni e Domande

alla persona di Gesù Cristo e tale riferimento rende possibile la generazione


dall’alto, cioè la figliolanza divina. Come abbiamo visto, anche nel dialogo con
Natanaele la fede è legata alla persona di Gesù, mediatrice di comunicazione tra
Dio e il mondo dell’uomo (Gv 1,50-51).
I vv. 6-8 presentano la dinamica della fede. Mentre in 5,1-5, il credente è
colui che è nato da Dio e questa nascita è vista come origine dell’amore per il
fratello e dell’osservanza dei comandamenti, in questi vv. si va oltre, per così
dire, l’atto di fede per individuarne l’origine o la sorgente. L’autore sottolinea
questi tre aspetti: la dimensione umana e terrena della persona di Gesù a cui il
credente aderisce nella fede (v. 6ab); in secondo tempo, come questa realtà oggi
ci venga resa attuale e presente nella Chiesa per opera dello Spirito, che ne dà
testimonianza (v. 6cd); infine, l’autore mostra come questa testimonianza dello
Spirito avviene nella Chiesa mediante i due sacramenti del battesimo (acqua) e
dell’eucaristia (sangue)11.
Così questo brano permette di cogliere ulteriormente il legame tra la fede
e la vita divina trasmessa mediante i sacramenti: la fede non è staccabile dalla
testimonianza dello Spirito e tale testimonianza è in atto nei sacramenti della
Chiesa, che presuppongono la fede e sono strumenti della grazia divina, at-
traverso i quali la Chiesa «già partecipa della vita eterna» (CCC 1130). Perciò
la fede non è disgiunta dalla grazia, nel senso che è mediante la grazia (dei
sacramenti) che noi siamo uniti alla persona divina incarnata di Gesù e alla te-
stimonianza dello Spirito Santo. Anche questo brano ci rimanda al dialogo con
Nicodemo («perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna», Gv 3,15.16).

3.2. Fede e vita divina (vv. 9-12)


La fede come porta della grazia è esplicitata nella terza unità, vv. 9-12, dove
essa è vista come necessaria per avere la vita divina12. Anche questi vv. ripren-
dono il tema della testimonianza, ma da un punto di vista differente. Mentre nei
vv. precedenti le tre testimonianze, come abbiamo detto, erano testimonianze
esteriori, attraverso le quali al credente, nella Chiesa, veniva garantito il rappor-
to autentico con la persona divina del Figlio, ora invece si tratta di una testimo-
nianza interiore, prodotta da Dio stesso, all’interno del credente stesso.
Questo tema della testimonianza, come si è già accennato, rimanda ad altri
brani del Quarto Vangelo, a iniziare da quelli concernenti la prima settimana
giovannea. Nel nostro brano si parla dunque della testimonianza di Dio, ante-

11
Ivi, 65-66.
12
Cfr. P. GRECH, «Fede e sacramenti in Giov 19,34 e 1Gv 5,6-12», in Fede e sacramenti negli scritti giovan-
nei…. (Studia Anselmiana, 90), Anselmiana, Roma 1985, 149-163.

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Fede e grazia in Giovanni

cedente a quella dello Spirito, e che avviene nel cuore del credente. Su come
occorra interpretare questa testimonianza di Dio gli esegeti non si trovano d’ac-
cordo. Per alcuni è difficile distinguerla da quella dello stesso Spirito. Secondo
Brown per l’interpretazione dell’unità è cruciale il v. 5,11bc: la testimonianza di
Dio consiste nella vita eterna che il Padre elargisce ai credenti e che si trova nel
Figlio stesso13. I credenti a loro volta possono, partendo dalla vita divina, giun-
gere alla fede in Gesù come Figlio di Dio. Per l’autore della lettera, dunque,
«credere nel Figlio è equivalente a possedere (avere) il Figlio. Analogamente,
possedere la testimonianza di Dio dentro se stesso è lo stesso che possedere la
vita»14.
Come abbiamo visto, il tema della vita divina (eterna) è ampliamente svilup-
pato nel Quarto Vangelo. Il nostro testo, più di qualsiasi altro dell’Epistolario,
illustra il rapporto tra fede e vita divina. Ne esce una visione della fede molto
diversa da quella che di solito si ha quando la si considera solo legata a una
visione della vita o ai modi in cui il cristiano si pone di fronte al mondo e ai
valori terreni. In questo testo essa consiste piuttosto nell’accogliere la persona
del Figlio di Dio e nel fare esperienza degli effetti salvifici che ciò comporta a
livello interiore, primo tra tutti la comunione di vita con il Padre mediante il
Figlio. Secondo San Giovanni la fede è più che un semplice assenso a Dio che
si rivela; essa coinvolge il credente in modo tale che, come direbbe Paolo, egli
formi una cosa sola con Cristo. Tale concezione si spiega anche per l’influsso
del messaggio della nuova alleanza di Geremia e di Ezechiele, sotteso a questo
testo, come anche a tanti altri testi del Vangelo e della prima Lettera15.
Geremia ed Ezechiele pongono le basi all’interpretazione del rapporto tra
l’uomo e Dio secondo cui Dio interviene all’interno dell’uomo e lo trasforma
così che questi possa conoscerlo e sperimentarlo per connaturalità. In fondo
Geremia è stato il primo a leggere la fede in termini di grazia divina.

4. Conclusione

I due brani esaminati non esauriscono certamente la tematica della fede in


Giovanni. Essi però ci aiutano a focalizzare alcuni tratti, oggi spesso dimentica-

13
R.E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 2000, 818.
14
Ivi, 819.
15
M.É. BOISMARD, «La connaissance de Dieu dans l’Alliance Nouvelle d’après la Première Lettre de St
Jean», RB 56(1949) 365-391; «“Je fairai avec vous une alliance nouvelle”. Introduction à la Première Épître
de Saint Jean», Lumière et Vie 3 (1953) 94-109; E. MALATESTA, Interiority and Covenant. A Study of einai and
mènein en the First Letter of Saint John, (AB, 69), BIP, Rome 1978.

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Ragioni e Domande

ti, del modo di rapportaci alla rivelazione divina e di vivere l’essere in Cristo.
Innanzitutto è da notare come si diano diversi gradi o livelli di fede, e come
il credente sia invitato a passare da una concezione incipiente o superficiale di
essa a una visione più alta, che fa a meno dei segni e dell’attività storica di Gesù.
Giovanni lega la fede alla persona di Gesù, come Rivelatore del Padre. Per lui il
credente non è soltanto chi accoglie il messaggio di Cristo ma chi è oggetto della
trasformazione interiore determinata dallo Spirito Santo, per mezzo del quale si
rinasce alla fede. L’ azione dello Spirito non si limita alla manifestazione esterna
delle opere, ma incide nella realtà interiore.
La fede apre al cristiano la porta della partecipazione della vita divina, in-
nanzitutto perché per mezzo di essa egli è liberato dalle opere morte della car-
ne. La vita nuova del credente consiste nella partecipazione alla vita del Figlio.
Illustrativo l’esempio della vite e dei tralci, i quali vivono e portano frutto solo
se sono uniti alla vite16.
Per Giovanni la vita eterna inizia fin dal primo momento in cui il credente è
inserito in Cristo, mediante lo Spirito Santo, cioè fin dal battesimo, e continua
oltre la morte. In questo “oltre”, il credente vivrà per sempre ciò che ha già
posseduto durante l’esistenza terrena, cioè Cristo, a cui ha aderito mediante
la fede. Dopo la morte, quando la sua conoscenza non è più legata ai sensi,
egli sperimenterà in modo differente la comunione con Cristo, di cui godrà il
possesso perfetto nella risurrezione dell’ultimo giorno (1Gv 3,1)17. La vita del
credente, dunque, alimentata dalla fede, è una continua rinascita con la quale
egli si scopre continuamente coinvolto nella novità della vita dello Spirito.

16
S.A. PANIMOLLE, «Grazia divina e divinizzazione dell’uomo negli scritti giovannei», in Dizionario di
Spiritualità Biblico-Patristica, n. 30, Borla, Roma, 2002, 171-172.
17
PANIMOLLE, «La fede e la vita nel Vangelo di Giovanni», 477.

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