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HANNAH ARENDT

LA BANALITÀ DEL MALE E IL MONDO DEGLI EICHMANN

Ilaria Possenti

1. Una filosofa a Gerusalemme

Nel 1960 i servizi segreti israeliani catturano a Buenos Aires l’ex-ufficiale delle SS Adolf

Eichmann e lo conducono a Gerusalemme per sottoporlo a processo. Quando la notizia diviene

pubblica, Hannah Arendt sente l’urgenza di assistere dal vivo all’apertura dei lavori e si candida a

parteciparvi in qualità di inviata del settimanale The New Yorker: “Ho perduto i processi di

Norimberga – scrive in una lettera del 20 dicembre di quell’anno – non ho mai visto questa gente in

carne e ossa, e questa probabilmente è la mia sola possibilità” (cf. Young-Bruehl, 1982, p. 375).

Nata a Heidelberg nel 1906, ebrea non credente e non praticante, Arendt è costretta a fuggire nel

1933 dalla Germania nazista e nel 1940 dal campo di internamento francese di Gurs. All’epoca del

caso Eichmann è ormai cittadina degli Stati Uniti ed è una filosofa nota a livello internazionale per

opere come Le origini del totalitarismo e Vita activa, la condizione umana. Il radicamento storico e

biografico della sua riflessione emerge con forza fin dagli anni della guerra, quando pubblica per

“The Menorah Journal” un’articolo intitolato Noi profughi, e resta evidente nelle sue interviste (con

particolare riferimento a quella sulla lingua materna: Arendt, 1954) come nei suoi numerosi

carteggi (a partire da Arendt, Jaspers, 1985).

Se il lavoro sul totalitarismo si chiede “come è potuto accadere?” e ripercorre alcuni passaggi

chiave della storia dell’antisemitismo, dell’imperialismo e dell’ascesa dei totalitarismi, quello sulla

vita activa è – per dirla con Paul Ricoeur – “il libro della resistenza e della ricostruzione” (Ricoeur,

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1983, p. 14). In questo caso, infatti, la domanda è quali risorse la “condizione umana” sia in grado

di offrire contro il sorgere di nuove forme totalitarie. Ed è nel tentativo di rispondere a questo

interrogativo che l’autrice, pur dichiarandosi delusa dalla filosofia e dai filosofi (Arendt, 1954, p.

12), torna a “saccheggiare” i “classici” della sua formazione: da Platone e Aristotele, a Kant, fino

alla filosofia fenomenologica del Novecento, conosciuta attraverso Martin Heidegger. L’inviata del

New Yorker al processo di Gerusalemme, dunque, non è solo l’intellettuale che negli anni Trenta si

avvicina alla politica ebraica, e che negli anni Quaranta appoggia posizioni minoritarie come quella

di Judah Magnes, presidente dell’Università di Gerusalemme e sostenitore di un’intesa arabo-

ebraica. Arendt è ormai, anche e soprattutto, una filosofa della politica.

Quando guarda e ascolta Adolf Eichmann in carne e ossa, Arendt riflette con gli strumenti che la

filosofia le mette a disposizione e misura i limiti della tradizione filosofica di fronte al problema di

comprendere l’inaudito: quello di uno sterminio organizzato e razionalizzato come “massacro

amministrativo” (Arendt, 1963, p. 295). Nascono qui, molto probabilmente, gli equivoci sulla tesi

della “banalità del male”, che all’indomani della pubblicazione del reportage scatena una

controversia in cui Arendt perde amicizie importanti – come racconta in modo abbastanza efficace

anche il film biografico di Margarethe Von Trotta (Von Trotta, 2012).

Le critiche riguardarono aspetti diversi del reportage, come la definizione dei crimini di Eichmann e

un tema emerso nel corso del processo – quello dei rapporti che alcuni Consigli ebraici avrebbero in

alcune fasi intrattenuto con le autorità naziste. Non vi è dubbio, tuttavia, che la polemica fu

innescata dall’espressione – “banalità del male” - che sigillava il finale del reportage. Arendt

scriveva che il male è “banale”, e non “radicale”, perché a commettere crimini orrendi - come quelli

che Eichmann aveva compiuto - , non erano stati dei classici “mostri”, dei sadici dotati di una

volontà malvagia o di un’inclinazione luciferina. L’imputato non appariva un eroe del male in

conflitto col suo mondo, come potevano esserlo uno Iago o un MacBeth, ma un uomo integrato -

senza esservi costretto – nella società e nel regime di cui faceva parte. Quel che gli veniva richiesto,

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in cambio, era di non farsi troppe domande – o più precisamente, secondo Hannah Arendt, di non

pensare.

Ancora oggi alcuni ritengono che parlare di “banalità del male” significhi minimizzare le

responsabilità personali di Eichmann: Arendt avrebbe ridotto questo criminale nazista a un

mediocre burocrate, a una “rotella nell’ingranaggio dello sterminio”, nonostante sapesse di avere a

che fare con il responsabile della sezione IV B 4 dell’“Ufficio centrale per la sicurezza del Reich”.

In realtà, come viene ormai più ampiamente riconosciuto, basta leggere il reportage per sapere che

Arendt considera Eichmann responsabile di “crimini contro l’umanità”, respinge l’appello

dell’avvocato difensore alla teoria della “rotella nell’ingranaggio” (si veda anche Lederman, 2013,

p. 183 ss. e p. 194) e non si associa alla complessa riflessione di Martin Buber, che chiedeva di

sospendere l’esecuzione della pena capitale. La filosofa aggiunge inoltre, a proposito di “coloro che

erano per principio contrari alla pena di morte”, che “battersi per Eichmann non avrebbe giovato

molto alla loro causa” (Arendt, 1963, pp. 257-259). Eichmann era responsabile delle sue azioni.

Perché, al di là dei modi in cui cercava di difendersi, aveva sempre saputo quel che stava facendo:

sapeva dove erano diretti i treni che organizzava con tanto zelo, così come sapeva quel che

accadeva nei Lager. Nell’Epilogo del reportage, Arendt veste perfino i panni del giudice per

pronunciare la propria sentenza: “La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono

la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non

coabitare su questo pianeta col popolo ebreo e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori

aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè

nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere

impiccato” (Arendt, 1963, p. 284).

La famosa chiusura del reportage, che legge nella vicenda di Eichmann “la lezione della

spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”, si trova alla fine del quindicesimo e

ultimo capitolo, intitolato “Condanna, appello, esecuzione”. Se a molti lettori quella espressione

sembrò profanare la memoria di Auschwitz (Forti 2002), fu probabilmente perché non era facile

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cogliere in quel momento storico (ancora molto vicino agli eventi) e in quel contesto (un reportage,

e non un testo teorico) il tentativo compiuto da Arendt: quello di capire più da vicino il personaggio

Eichmann e di farne l’emblema di una nuova concezione del male, che filosoficamente parlando si

lasciava alle spalle la concezione kantiana del “male radicale”. Questo tentativo sembra del resto

inaugurare, come osserva Simona Forti (2002), il nuovo filone tardo-novecentesco della riflessione

filosofica sul male politico – in cui potremmo annoverare anche Primo Levi (1986), la riflessione

etica di Zygmunt Bauman (1989,1993), quella di Michel Foucault sui dispositivi di potere (1994,

1997) e quella di alcuni “filosofi del dissenso”, come Vaclav Havel (1978) e Jan Patočka (1990).

Per Hannah Arendt, i crimini di Eichmann vanno intesi (e condannati) tenendo conto di un

problema ben preciso: essi prendono forma in una società che ha completamente sovvertito la

concezione condivisa del bene e del male, perché ha prodotto idee, norme e istituzioni che

dichiarano lecito, e perfino necessario, uccidere determinate categorie di persone. Nel mondo degli

Eichmann, in altre parole, il male più estremo può essere compiuto attraverso azioni che rispettano

le norme e sono quindi compiute da persone “normali” – riconducibili al “tipo medio” su cui la

società si regge.

In questa prospettiva, cercare di comprendere il personaggio Eichmann non aveva niente a che fare

col rischio di scagionarlo. Ben diversamente, Arendt confidava in un rinnovamento del diritto

penale internazionale e in un diffuso riconoscimento del nuovo reato di “crimini contro l’umanità”.

Ma il punto, si potrebbe dire, è che per una filosofa della politica il piano giudiziario non può

bastare, perché il processo penale interviene solo a posteriori, quando il peggio è oramai accaduto.

Se Eichmann rappresenta l’abitante ideale di una società antiumana, il problema filosofico e

politico è quello di capire come Eichmann funzioni – cioè come funzionino la sua coscienza e il suo

mondo. Non è qui in questione la “coscienza morale” (Gewissen), e cioè il rapporto con quella voce

interiore che renderebbe chiara a qualunque essere razionale, in ogni tempo e luogo, la distinzione

tra il bene e il male. Il problema, semmai, è chiedersi come funzioni la “coscienza” intesa come

esperienza dell’“essere coscienti” (Bewusstsein), come consapevolezza di sé e del mondo.

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L’obiettivo è di carattere chiaramente preventivo, nella misura in cui si tratta di evitare il possibile

emergere di un nuovo mondo di Eichmann.

In questa sede, cercherò almeno di chiarire la riflessione arendtiana sul personaggio, “l’uomo che

non pensa”, e la “teoria della mente” (espressione che Arendt non usa, e che io stessa impiego solo

in questa occasione) che quel personaggio sembra incarnare. Anche qualora il lavoro degli storici

sui materiali giudiziari giungesse a “dimostrare” che Arendt “si sbagliava”, e che Eichmann era

soltanto un abile mentitore o un bravo attore, è bene tenere presente che di una teoria si tratta, e che

Arendt l’ha elaborata per diverse altre vie in opere precedenti e successive a La banalità del male.

2. Adolf Eichmann. Una diagnosi filosofica

Adolf Eichmann rappresenta per Arendt la figura idealtipica del collasso della “rispettabile società

europea” nella Germania nazista. Come era potuto accadere che una moltitudine di “bravi padri di

famiglia” sostenesse l’ascesa di Hitler e dell’ideologia della razza? E’ a partire da preoccupazioni di

questo tipo, ben presenti ne Le origini del totalitarismo, che Arendt osserva l’imputato nell’aula di

Gerusalemme. I primi capitoli de La banalità del male sono dedicati all’apertura del procedimento,

alla descrizione del contesto in cui il processo si svolse, all’entrata in scena della Corte e alla

presentazione del protagonista di questa vicenda giudiziaria. Agli occhi della narratrice, la storia del

giovane Eichmann è chiaramente quella di un individuo mediocre: prima dell’avvento del nazismo

egli non aveva avuto successo negli studi o in una professione; solo con l’adesione al partito

nazista, e poi con l’ingresso nelle SS, Eichmann aveva potuto fare “carriera”. Inizialmente occupato

nei servizi informativi, diceva di aver letto “Lo stato ebraico” di Theodor Herzl, il padre del

sionismo, e millantava di conoscere l’yiddish, cosa che nessuno sembrava aver accertato. Si

considerava una “specialista” della questione ebraica e si vantava di aver sostenuto l’“emigrazione

forzata” - organizzando negoziati per il “trasferimento” degli ebrei ungheresi in Palestina e

lavorando all’ipotesi di una colonia in Madagascar. Nel 1941 Eichmann divenne direttore

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dell’ufficio che si occupava del trasferimento degli ebrei a Theresienstadt, di cui era responsabile, e

dal ’43 si occupò anche dei trasferimenti da Theresienstadt ad Auschwitz. Si riteneva responsabile

di questo, ma non di quel che sarebbe accaduto ai deportati.

Dal racconto arendtiano non emerge, è vero, la figura di un mostro classico, pronto a sovvertire

qualunque norma. Quello che viene dipinto, tuttavia, è un personaggio che rivendica una mostruosa

normalità – quella di essersi scrupolosamente impegnato per studiare le norme del regime e attuarne

le direttive, al fine di oliare e far funzionare al meglio la macchina delle deportazioni. Non è un

caso, per Arendt, che rispetto al proprio stato d’animo alla caduta del nazismo Eichmann

dichiarasse: «sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile senza un capo; non avrei più ricevuto

direttive da nessuno, non mi sarebbero più stati trasmessi ordini e comandi, non avrei più potuto

consultare regolamenti – in breve, mi aspettava una vita che non avevo mai provato».

Perfino nell’aula del tribunale di Gerusalemme quest’uomo parlava un linguaggio burocratico,

infarcito di “frasi fatte” e “clichés” che razionalizzavano, normalizzavano e distanziavano

l’enormità dei fatti cui facevano riferimento. Ed ancora in quell’aula, chiuso nella sua gabbia di

vetro antiproiettile, questo “specialista” si circondava di faldoni “da consultare” per rispondere alle

domande che gli venivano poste. Così lo vediamo anche nel celebre film-documentario dedicato al

processo (Sivan, 1999), frutto di un montaggio delle lunghe riprese fatte durante il processo di

Gerusalemme dal regista Leo Hurwitz. L’imputato appare ora chino sulle sue carte, intento a

cercare qualche dettaglio, ora diritto e quasi irrigidito nell’ascolto, ora intento a spostare e

ricollocare con precisione i diversi oggetti presenti sul suo banco. Quando ha la parola racconta del

proprio “lavoro” - “l’evacuazione” - facendo fatica ad abbandonare il gergo della burocrazia nazista

e ad accettare i sinonimi, o la traduzione in parole povere, che i suoi interlocutori non di rado gli

propongono. Di fronte a certi suoi moti di orgoglio e soddisfazione, legati a qualche compito ben

eseguito, perfino il severo procuratore Gideon Hausner, nel documentario, sembra talvolta restare

interdetto - come se appunto Eichmann non fosse un “mostro” classicamente inteso, ma un mostro

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di tipo nuovo: un uomo il cui aspetto più orribile si rivelava, forse, quando chi lo ascoltava

cominciava a “sospettare che fosse un buffone” (Arendt, 1963, p. 62).

Talvolta, senza negare fatti che lo incriminavano, Eichmann dichiarava di aver agito nell’interesse

di “entrambe le parti”. I suoi racconti parlano dell’espulsione di persone che perdevano tutto, della

deportazione di persone che sarebbero state sottoposte a sofferenze inaudite e che nella maggior

parte dei casi non avrebbero fatto ritorno. Eichmann non nascondeva di esserne consapevole (né

d’altra parte avrebbe potuto farlo, date le prove esistenti contro di lui). Eppure, non mancava di

indugiare in aneddoti in cui la sua parte era quella di un uomo accorto, pronto ad ascoltare le istanze

altrui: una volta aveva perfino raccontato di aver fatto visita “con gioia” a Storfer (un funzionario

della comunità ebraica di Vienna che era appena stato deportato ad Auschwitz), di aver ascoltato “i

suoi guai” e di averlo lasciato “tutto soddisfatto” per aver ottenuto “il diritto di sedersi con la sua

scopa su una panca”. “Sei settimane dopo questo incontro normale e umano – Arendt aggiunge -

Storfer era morto: non nelle camere a gas, a quanto pare, ma fucilato”; “La commedia sfociava così

nell’orrido, in storie - probabilmente abbastanza vere - il cui macabro umorismo superava

ampiamente la fantasia di un surrealista” (Arendt, 1963, pp. 58-60).

Arendt era convinta che questi aneddoti non fossero legati a una deliberata scelta di mentire (che

non sarebbe stata di grande utilità all’imputato), ma al fatto che Eichmann fosse come immunizzato

dalla capacità di comprendere le sofferenze altrui: se la millanteria è “un vizio comune”, che altre

pagine del reportage non esitano ad attribuire anche all’imputato, “un tratto più personale, nonché

più importante, del carattere di Eichmann era la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal

punto di vista degli altri” (Arendt 1963, p. 55, corsivo mio).

Eichmann, potremmo dire, riconosceva soltanto le conseguenze che dal suo punto di vista (cioè in

base ai suoi criteri di attribuzione di rilevanza) le sue azioni avevano sugli altri. Il fatto che Storfer

non avesse niente di cui gioire o essere soddisfatto non poteva entrare nel suo campo di realtà,

perché della sua realtà soggettiva - autoreferenziale e monadica - il punto di vista di Storfer non

faceva parte.

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Il capitololo VII del reportage arendtiano, insieme a quelli vicini, mette in grande evidenza la

testimonianza di Eichmann a proposito della Conferenza di Wannsee del 1942, durante la quale i

vertici del Reich ufficializzarono la cosiddetta “soluzione finale” (Endlösung), cioè la scelta di

procedere in modo sistematico allo sterminio della popolazione ebraica - che in realtà era già

cominciato. Arendt si sofferma qui sulla lingua del regime: “tutta la corrispondenza relativa alla

questione doveva rispettare rigorosamente un determinato ‘gergo’, e se si eccettuano i rapporti degli

Einsatzgruppen è raro trovare documenti in cui figurino parole crude come ‘sterminio’,

‘liquidazione’, ‘uccisione’. Invece di dire ‘uccisione’ si dovevano usare termini come ‘soluzione

finale’, ‘evacuazione’ (Aussiedlung) e ‘trattamento speciale’ (Sonderbehandlung); invece di dire

deportazione bisognava usare parole come ‘trasferimento’ o ‘lavoro in oriente’ (Arbeitseinsatz im

Osten)” (Arendt, 1963, p. 93). Il modo di parlare dell’ufficiale Adolf Eichmann, dunque, non era

affatto un caso isolato, ma rispondeva con particolare solerzia alle esigenze del regime nazista.

Detto questo, Arendt osserva che la reazione di Eichmann alla Conferenza di Wannsee non era stata

quella di un’adesione entusiasta: nel corso degli interrogatori cui era stato sottoposto prima del

processo, egli aveva dichiarato che all’epoca della “soluzione finale” si era sentito “come Ponzio

Pilato” - ossia come colui che si lavò le mani nel momento in cui comprese che, per ordini

superiori, Gesù sarebbe stato crocifisso. In tribunale, chiamato a rendere conto di quel paragone,

aveva parlato di una sorta di rassegnata, ma per lui utile, decisione: da quel momento in poi non

avrebbe più avanzato proposte e progetti, ma si sarebbe limitato a compiere «il proprio dovere». In

ogni caso, il fatto che a Wannsee avessero parlato i personaggi più illustri, “i Papi del Terzo Reich”,

gli permetteva di tirare un respiro di sollievo, di non sentirsi più responsabile di quanto sarebbe

accaduto da quel momento in poi. In altre parole, non avrebbe più avuto bisogno di pensare (“così

stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come

cittadino ligio alla legge”: Arendt, 1963, p. 142).

Per Arendt, c’era da credere al fatto che Eichmann avesse sempre pensato a una soluzione “meno

cruenta”. Ma quella riserva non aveva molto a che fare col destino di milioni di innocenti. Da

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tempo, infatti, la sua amarezza era legata al tramonto di attività che nelle sue più fervide fantasie

erano tutte sue, come il piano per il Madagascar (“Per ciò che concerne Eichmann, era un fatto che

ormai l’evacuazione e la deportazione non erano più la fase ultima della ‘soluzione’. Il suo

dipartimento era divenuto un semplice strumento. Logico quindi che egli rimanesse molto

‘amareggiato e deluso’ quando il progetto del Madagascar fu abbandonato”: Arendt, 1963, p. 87).

Questo passaggio illumina un punto decisivo della riflessione arendtiana sul “non pensiero” di

Eichmann. Dire che egli non pensava non significa, infatti, sostenere che egli non avesse delle idee

e un processo mentale di qualche tipo. Il problema, però, era che il suo processo mentale non veniva

sollecitato, alimentato, animato, dalle relazioni con gli altri: “Quanto più lo si ascoltava tanto più

era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a una incapacità di pensare,

cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché

mentiva ma perché le parole e la presenza degli altri, cioè la realtà in quanto tale, non lo

toccavano” (Arendt 1963, p. 57). Non siamo qui di fronte a una diagnosi clinica, tesa a definire in

base a determinati parametri la presenza o meno di una patologia. Siamo di fronte a una diagnosi in

senso lato, una diagnosi di tipo filosofico, che riconosce in Adolf Eichman una modalità solipsistica

di funzionamento della coscienza, prima favorita e poi rafforzata da una certo tipo di società e di

regime. Per Arendt, in conclusione, non era solo il modo in cui Eichmann parlava a manifestare in

modo emblematico il suo distacco dal “mondo comune”. Anche il modo in cui pensava metteva in

rilievo una coscienza separata dalla realtà intersoggettiva (dagli altri fuori di lui e dagli altri intesi

come suoi oggetti interni). Ma questa modalità dell’essere coscienti le appariva estremamente

pericolosa per la convivenza umana. Entro la cornice teorica della filosofia arendtiana, come vorrei

accennare in sede conclusiva, questo funzionamento della coscienza non poteva neanche più dirsi

“pensiero”, ed apriva le porte alla “banalità del male”.

3. Conclusioni sulla teoria arendtiana

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Negli ultimi anni della sua esistenza Arendt avrebbe dedicato alla “vita della mente”, e in

particolare alla capacità di pensare e di tenere conto dei punti di vista degli altri, ampie parti di

un’opera rimasta incompiuta e pubblicata postuma (Arendt 1978 e Arendt 1982). La riflessione sul

“pensare” risaliva tuttavia ai primi anni Cinquanta e una delle tracce più interessanti si trova in un

articolo del 1953, intitolato Ideologia e terrore, che sarebbe poi divenuto il capitolo conclusivo

della seconda edizione de Le origini del totalitarismo.

In queste pagine, Arendt intende il pensiero come quell’esperienza in cui un essere umano si trova

ad essere “due-in-uno” (Arendt, 1953, p. 652). Vi è qui un riferimento implicito a un passo del

Gorgia (citato in Arendt, 1954), in cui Platone osserva che ognuno di noi, “essendo uno”, può

parlare con se stesso “come se fosse due”. In quell’idem che ognuno appare agli occhi degli altri,

non vi è a ben vedere coesione interiore, medesimezza di sé con sé; il pensiero implica semmai, in

modo del tutto quotidiano e ordinario, la dimensione riflessiva dell’ipse, del rapporto con se stessi,

cui fa segno la possibilità di contraddirsi.

In questa prospettiva, Ideologia e terrore lascia chiaramente intendere che l’io pensante non parla

mai con una sola voce, e che questo accade per una ragione ben precisa, legata alla dimensione

mondana (cioè plurale e intersoggettiva) dell’esistenza umana: nell’esperienza solitaria del pensiero

parlo con me stesso, ma «questo dialogo del due-in-uno non perde il contatto col mondo dei miei

simili, perché essi sono rappresentati nel sé con cui conduco il dialogo del pensiero» (Arendt,

1953, p. 652). Viceversa, la “perdita del mondo”, cioè la crisi delle relazioni con gli altri, può

mettere in crisi la relazione con noi stessi, l’attività del pensiero, che fatica a rappresentarsi il punto

di vista di altri suoi simili. In particolare, per Arendt, nelle condizioni pre-totalitarie di una società

massificata, e a maggior ragione all’interno di regimi totalitari, l’unità fusionale della popolazione

convive con la disgregazione atomistica della vita sociale, col ripiegamento degli individui su se

stessi e su esistenze letteralmente “private”. E in questo modo la capacità «rappresentativa» finisce

come per atrofizzarsi.

Il problema che la teoria arendtiana cerca di sollevare, in altre parole, riguarda la necessità di

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radicare il pensiero in una realtà intersoggettiva condivisa, articolata e partecipata. In questo senso

la capacità di “pensare”, di stare da soli e dialogare con se stessi in modo autenticamente umano,

dipende dall’esistenza e dalla vitalità di un mondo comune – un mondo in grado di nutrire il

pensiero. Per questo la filosofia politica arendtiana enfatizza l’ideale greco dell’agorà e la

riflessione kantiana sulla sfera pubblica. In un’epoca che ha conosciuto consenso e apatia di fronte

alla pratica del massacro organizzato, Arendt tenta di teorizzare le basi relazionali del pensiero.

La trilogia incompiuta su La vita della mente (“Pensare”, “Volere”, “Giudicare”), che prende le

mosse da una riflessione introduttiva sul caso Eichmann, proseguirà esattamente in questa

direzione. Dopo aver ricordato «che possiamo avere rapporti con noi stessi, non meno che con gli

altri, e che i due tipi di rapporto sono in certo qual modo connessi», Arendt insiste sul fatto che il

pensiero ha bisogno della comunicazione con gli altri: «io parlo con gli altri prima di parlare con

me stesso» (Arendt, 1978, p. 284, corsivo mio). Nello stesso senso, le lezioni sul “Giudicare”

affermano che «gli uomini sono interdipendenti non solo nei loro bisogni e nelle loro cure ma anche

per quanto riguarda la loro somma facoltà, la mente, che non può funzionare al di fuori della società

umana»; «il pensiero, per quanto sia un’occupazione solitaria, dipende dagli altri quanto alla sua

stessa possibilità» (Arendt, 1982, p. 22 e 65). In ultima analisi, quello che Arendt chiama

“pensiero” è ciò che spesso chiamiamo “pensiero critico” - purché lo intendiamo come possibilità

radicata in un mondo plurale e in pratiche di relazione. In questa prospettiva, la capacità riflessiva e

critica non si basa su un’autonomia soggettiva in cui facciamo a meno degli altri, ma su

un’elaborazione soggettiva dei rapporti che ci legano a loro.

Se il distacco dal mondo comune appare pericoloso, è perché quando gli altri non ci toccano più,

quando non ci rappresentiamo più i loro punti di vista, non abbiamo più alcun vincolo di realtà. E a

quel punto “tutto è possibile” (Arendt, 1951). “La lontananza dalla realtà e la mancanza di pensiero

– così come Arendt le intendeva - possono essere più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse

appartengono all’uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme” (Arendt, 1963, p. 291).

Non sorprende, dunque, il fatto che il nucleo teorico della filosofia politica arendtiana, elaborato in

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Vita activa, ruoti attorno al tema del “mondo comune” e al problema di evitare la sua “atrofia” nelle

moderne società di massa, atomizzate e privatizzate. La pars construens della riflessione di Arendt

cerca di interrogarsi sulle forme sociali e politiche in grado di ostacolare, o viceversa di

incoraggiare, la formazione di un “mondo comune” inteso come condizione della “capacità di

pensare” (o, se vogliamo, come condizione intersoggettiva della riflessività, nella quale non entra in

gioco soltanto l’intelletto, ma l’intero spettro dei nostri atti percettivi, emotivi, cognitivi,

relazionali). In una prospettiva di tipo arendtiano, la tenuta di un mondo comune e plurale è il più

potente antidoto alla “banalità del male”. Filosoficamente e politicamente parlando, la salvezza non

viene dalla cura di sé, ma da una cura del mondo che la renda possibile.

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Young-Bruehl E. (1982), Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, trad. it. Bollati

Boringhieri, Torino, 1990.

Film

Hannah Arendt, regia di M. Von Trotta (Germania-Lussemburgo-Francia, 2012).

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Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne, regia di E. Sivan (Israele-Francia-Germania-

Austria-Belgio, 1999).

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