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CAPITOLO I
2. Gv 7,23.
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Cap. I: la divisione del popolo dal Clero
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3. Mt 28,19.
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5. Gen 3,5.
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6. Mt 18,19-20.
7. Gv 17,22.
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alla sua Chiesa, affinché i fedeli fossero una cosa sola con lui, ade-
renti ad una stessa verità, o piuttosto a lui che è la verità; e per esse-
re perfettamente consenzienti in quelle cose che domandano a Dio,
coloro che si radunano e supplicano per ciò che hanno bisogno, è
necessario, o almeno molto utile, che tutti intendano quello che di-
cono nelle preghiere che innalzano in comune al trono dell'Altissi-
mo.
Quell’unanimità perfetta di sentimenti e di affetti è dunque
quasi condizione che Cristo mette al culto che i cristiani rendono a
lui, affinché sia a lui gradito ed egli si trovi in mezzo a loro; ed è de-
gno di osservazione, con quanta efficacia Cristo esprima questa
condizione o legge che deve contraddistinguere la vera preghiera
cristiana, e separarla dall’ebraica, che consisteva in un culto materia-
le e in una fede implicita; perché non si accontenta di dire che i suoi
fedeli preghino insieme uniti, e che preghino con consenso di volon-
tà; ma espressamente dice, che li vuole uniti «in tutte le cose che a lui
domandano».
Tanto è sollecito Cristo dell’unità dei suoi! unità non di corpi,
ma di mente e di cuore, per la quale unità la plebe cristiana di ogni
condizione, raccolta ai piedi degli altari del Salvatore, forma un'uni-
ca persona, ed è quell’Israele che, secondo la scrittura, combatte e
s’inoltra come «un sol uomo». Ed ora quando mai s’avvera, che tutta
la plebe cristiana è consenziente in tutte le cose, e perfettamente una,
se non allorché i cristiani adunati nel tempio eseguono concordi le
funzioni sacre, parlando in generale, sapendo ciò che ivi fanno, trat-
tando tutti gli stessi comuni interessi; entrando tutti insomma nel
divino culto non solo materialmente, ma con perfetto intendimento
dei sacri misteri, delle orazioni e simboli e riti di cui il culto divino si
compone?
È dunque necessario, o almeno è grandemente utile e conve-
niente che il popolo possa intendere le voci della Chiesa nel culto
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pubblico, che sia istruito in ciò che si dice e si fa nel santo sacrificio,
nell’amministrazione dei Sacramenti, e in tutte le funzioni ecclesia-
stiche: ma l’essere il popolo pressoché diviso e separato dalla Chiesa
nella comprensione del culto, è la prima delle piaghe aperte che
grondano vivo sangue nel mistico corpo di Gesù Cristo.
16.8 Col questo discorso, io non voglio dire, che se un cristiano,
senza sua colpa, ignora i significati dei riti della Chiesa ed è privo
della comprensione esplicita di quanto si dice e si fa nell’esercizio
del culto pubblico, non possa pregare santamente, non possa innal-
zare a Dio preghiere accette. So troppo bene che «lo Spirito - come
dice S. Paolo - viene in aiuto alla nostra debolezza, perché - aggiunge -
nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stes-
so intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; colui che scru-
ta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i
credenti secondo i disegni di Dio»9.
Non ignoro che la voce dei semplici e degli ignoranti stessi pe-
netra i cieli se è mossa dal divino Spirito. Povera umanità se così non
fosse! Ma intendo soltanto affermare, che poiché Gesù Cristo e la
Chiesa hanno istituito il culto divino, in modo tale che questo sia
composto di parole e di segni significativi coi quali si parla alla ple-
be cristiana e questa o risponde o vi prende parte attiva anch’essa,
sembra consono e conforme alle intenzioni di Cristo e della Chiesa,
che il popolo, parlando in generale, vi assista ed adempia la funzio-
ne che gli è assegnata con la maggior comprensione che sia possibi-
le.
Così pure, là dove questo avviene, il popolo piglia un gusto e
un diletto spirituale maggiore delle sacre funzioni, il suo cuore s'in-
fervora, acquista maggiore stima, riverenza e devozione agli esercizi
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mento non fosse limitata alla materia che in essi si usa, e che per sé
sola è muta e niente esprime di determinato; ma bensì unita alla pa-
rola, che spiega all’intelligenza l’uso di quella materia, e il fine al
quale ella si adopera, e così l’intelletto riceveva luce per il significato
delle cose manifestategli, e forza per la grazia che in quel sacro rito
viene amministrata.
Non già che la grazia dei Sacramenti sia impedita dall'ignoran-
za di chi li riceve senza intendere il significato delle sacre parole,
giacché i Sacramenti operano ex opere operato: ma chi intende quel si-
gnificato può meglio cooperare alla grazia medesima. Ora le guerre
e i rimescolamenti dei popoli mutarono le lingue. La lingua della
Chiesa cessò in tal modo - è già da gran tempo - dall’essere la lingua
dei popoli, e il popolo si trovò per una così grande mutazione nella
oscurità, diviso per intelligenza da quella Chiesa che continuò a par-
lare a lui, di lui e con lui; alla quale non poteva rispondere meglio di
quanto potesse un pellegrino esule in terra straniera, dove non ode
che dei suoni per lui disusati e privi del tutto di significato.
20. Queste due calamità, l’istruzione vitale diminuita e la lingua
latina cessata, piombarono sul popolo cristiano contemporaneamen-
te, e per la stessa conseguenza, cioè per l'invasione che i barbari del
settentrione fecero in tutte le contrade del mezzogiorno. Il pagane-
simo ed il suo spirito era insito nella società; la dottrina cristiana non
aveva dominato fino a quel tempo che gl’individui. La conversione
stessa dei Cesari non era che un acquisto d’individui; potenti sì, ma
individui; e nei destini del cristianesimo al quale tutto ubbidisce, era
scritto, che la parola del Cristo penetrasse nella società, che giudi-
casse le scienze e le arti dopo aver giudicati gli uomini, e che ogni
cultura, ogni fiore d’umanità, ogni vincolo sociale sbocciasse di
nuovo da lei sola. La Provvidenza condannò dunque alla distruzio-
ne la società antica, e la schiantò fin dalle sue fondamenta.
A condurre ad effetto tanto anatema, le orde dei barbari, guida-
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sempre nei primi secoli. Ma censori sì severi e sì arditi non pongono mente al-
l'essere le funzioni sacre divenute inaccessibili al popolo; per l’opposto, S. Fi-
lippo Neri, S. Ignazio ed altri tali, a cui stava a cuore solo il bene delle anime,
diventano testimoni gravissimi della verità delle nostre parole.
12. Lc 14,23.
13. Gv 17,11.
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14. [Inizia qui un lungo inciso inserito nel 1849 che terminerà con il primo paragrafo del numero 23].
15. Nella Bolla Dogmatica: Auctorem fidei, promulgata da Pio VI, fu definito: «La
proposizione del Sinodo, la quale mostra di desiderare che si tolgano quei mo-
tivi, per i quali si è in parte indotta la dimenticanza dei principi relativi
all’ordine della liturgia, “col richiamarla ad una maggiore semplicità di riti, con e-
sporla in lingua volgare, e con proferirla con voce alta”; quasi che l’ordine vigente
della liturgia ricevuto ed approvato dalla Chiesa provenga in parte dall’oblio
dei principi sui quali essa deve reggersi; è temeraria, offensiva delle pie orec-
chie, contumeliosa contro la chiesa, favorevole alle maldicenze degli eretici
contro la chiesa stessa.
La proposizione la quale asserisce che “sarebbe un operare contro la pratica apo-
stolica e contro i disegni di Dio il non procurare al popolo i mezzi più facili per unire
la sua voce a quella di tutta la Chiesa”: qualora si riferisca all’uso della lingua
volgare da introdursi nelle preci liturgiche; è falsa, temeraria, turbativa del-
l'ordine prescritto per la celebrazione dei misteri, facilmente produttrice di
molti mali». (Proposizioni XXXIII, e LXVI).
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ne additata del clero dal popolo nelle sacre funzioni non si può ap-
plicare il rimedio d’introdurre nelle Chiese lingue diverse da quelle
che vi si usano consacrate dall’uso dei secoli, che anzi questo rime-
dio, come noi dicevamo, sarebbe peggiore del male.
23. Esclusa questa via, non rimangono che due espedienti, l’uno
di sostenere il più che si possa lo studio della lingua latina, diffon-
dendolo al maggior numero possibile di fedeli, a ciò potrà grande-
mente contribuire il miglioramento dei metodi, i quali ne rendano
più agevole e breve l’insegnamento; l’altro di dare al popolo cristia-
no una diligente spiegazione delle funzioni sacre introducendo al-
tresì la consuetudine che i fedeli che sanno leggere (e tutti dovrebbe-
ro saperlo) assistano agli uffici ecclesiastici con libri appositi, nei
quali vi sia, tradotto in volgare, l’equivalente di quello che nella
Chiesa si recita in latino16.
Ma chi, noi domandavamo, applicherà questi rimedi salutari? Il
Clero. Il solo Clero cattolico è quello che prima può prepararne e poi
ottenere la guarigione della piaga da noi additata. Al Clero è depu-
tato l’esercizio di ogni industriosa carità: sulle sue labbra sta la paro-
la di vita; Cristo ve l’ha posta a salvezza dell’umanità; esso è il sale,
esso la luce, esso il medico universale. Che impedisce dunque che la
medicina non si prepari sollecitamente e non si applichi?
Nasce ciò da un’altra piaga della Chiesa, che non manda men vivo
sangue della prima, cioè della insufficiente istituzione dello stesso Clero.
16. [Sulla proposta di Messalini in volgare cfr. nella copiosa bibliografia in proposito, M. A GUIRRE
ELLORIAGA, El renacimiento liturgico moderno, in «Razon y Fé», 34 (1934), p. 56-69; R. AUBERT,
La théologie catholique au milieu du XX siècle, Tournai - Paris 1954, p. 31-41, 54-59; C.
KOROLEWSKJ, Liturgie en langue vivante, Paris 1955; E. CATTANEO, Introduzione alla storia della
liturgia occidentale, Roma 1969; I. LENGELING, Die neue Ordnung der Eucharistiefeier, Münster
1970, p. 17-35. Il primo messale italiano per i fedeli limitato alle feste, uscì in Italia nel 1921 (E.
Caronti); seguì un messale quotidiano per il rito ambrosiano, a cura di G. Nogara – A. Berna-
reggi, nel 1923, ed il messale quotidiano, a cura di E. Caronti nel 1929. La Germania aveva
raggiunto da parecchio tempo questo obiettivo].
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