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CAP. 1
RELAZIONE D’AIUTO........................................................................................................................6
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4.1 METODI, STRUMENTI E MATERIALI..................................................................................57
4.1.1 LE REGOLE.......................................................................................................................59
4.1.2 RACCONTARE UN EPISODIO.........................................................................................60
4.1.3 LA VALENZA SINTOMATICA DEL TITOLO ..................................................................61
4.1.4 LE DOMANDE GUIDA.....................................................................................................63
4.1.5 LA GRIGLIA DI LETTURA................................................................................................64
4.2 RACCONTI E RIFLESSIONI...................................................................................................66
PRIMO RACCONTO....................................................................................................................66
COMMENTO...............................................................................................................................68
SECONDO RACCONTO..............................................................................................................70
COMMENTO...............................................................................................................................73
TERZO RACCONTO....................................................................................................................74
COMMENTO...............................................................................................................................76
CONCLUSIONI...................................................................................................................................79
BIBLIOGRAFIA..................................................................................................................................81
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INTRODUZIONE
L’idea di questa mia tesi nasce durante il primo tirocinio del terzo
anno di corso di Laurea, presso l’Unità Spinale del Centro di
Rieducazione Funzionale di Torino.
Qui si trovano ricoverate persone mielolese, che devono fronteggiare
un’inattesa e grave disabilità. Questo involontario ma obbligato
rimodellamento del proprio corpo e della propria immagine comporta
uno spiazzamento nei confronti della consueta percezione psico-fisica
della realtà con la messa in discussione della propria visione
dell’esistenza.
Una realtà operativa “ad alto tasso emotivo”, in cui molto più
facilmente che altrove si è indotti a mettersi in discussione come persone
e come professionisti sanitari.
Ci fu una fase iniziale di quel tirocinio in cui mi trovai a cadere in
uno stato di confusione emotiva dovuta alla particolarità delle relazioni
instaurate con le persone da assistere; sapevo cosa avrei dovuto fare, ma
non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui la creazione e la gestione di
una relazione d’aiuto con questi pazienti mi lasciasse così tanta
incertezza nell’agire, nel decidere e nel relazionarmi.
Per “sfogare” questo mio “malessere” mi venne spontaneo
“raccontarmi” su di un pezzo di carta, trasferire un po’ di quello strano
senso di messa in scacco su di un foglio, e con l’inchiostro cercare di
creare un racconto di ciò che ero stato.
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Mi accorsi, in maniera del tutto inaspettata, che rileggendo, quelle
righe scritte “a caldo” le stesse raccontavano in parte un “me-
sconosciuto”, in parte descrivevano delle emozioni ben precise
intrappolate in specifiche situazioni, che nel vivo dell’esperienza vissuta
rimanevano nello sfondo, ma che “a freddo” emergevano in un modo
tale che sembravano raccontate da un’altra persona.
Questa presa di coscienza comportò un repentino cambiamento del
mio stato d’animo, collocandomi in un orizzonte di senso non più
spaesante. Mentre il tirocinio volgeva al suo termine, decisi di
approfondire quali erano stati i reali meccanismi che mi avevano
consentito di “crescere” in quella specifica situazione relazionale, pur
non avendoci riflettuto più di tanto. E così gettai le basi per questo
lavoro.
Il mio obiettivo è di definire come la narrazione possa coadiuvare
una crescita personale, sia sul piano caratteriale che sul piano delle
competenze relazionali d’aiuto dell’infermiere professionale.
Il disegno della tesi prende forma dalla necessità di collocare in una
chiara dimensione teoretica i concetti di relazione d’aiuto, senso ed
obiettivi della narrazione, per concludere con la ricerca sul campo avente
lo scopo di fornire sostanza ai presupposti teoretici. La ricerca si dipana
dall’analisi della definizione di relazione d’aiuto, delle abilità d’aiuto in
essa richieste, ai ruoli che vi interagiscono, sull’approfondimento della
centralità della comunicazione nel processo d’aiuto e di quali sono a
grandi linee le paure e le aspettative di chi ne prende parte (paziente e
infermiere).
Successivamente la mia ricerca definisce quelli che sono i
presupposti alla narrazione terapeutica: dalle origini del pensiero
narrativo in medicina, all’ermeneutica come ingrediente indispensabile
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alla comprensione del significato idiografico di malattia; come il narrare
autobiografico possa riuscire a divenire strumento di autocura; come
intraprendere un percorso di autoformazione e riconoscimento di sé
attraverso le narrazioni, seguendo quei punti chiave, riconducibili ai
pilastri metodologici di “clinica della formazione”.
A chiusura poi di quanto enunciato ho utilizzato dei racconti, scritti
da infermieri professionali operanti in realtà differenti, partendo da una
griglia elaborata su misura per questo lavoro, al fine di avere degli
esempi pratici di come la narrazione possa essere utilizzata come
strumento di riflessione e consapevolezza nell’ambito della relazione
assistenziale.
Si tratterà insomma di seguire ed utilizzare una metodologia che non
comporta l’attraversamento della scena assistenziale con le grandi
autostrade metodologiche, ma percorrendo difficili sentieri di bosco, e
scoprendo paesaggi e radure a prima vista non visibili e sperimentabili.
Il mio vuole essere anche e soprattutto uno stimolo a riflettere su
quelle “piccole convinzioni” che “a volte” ostacolano il processo d’aiuto
fra infermiere professionale e paziente, e che possono essere abbattute
molto efficacemente sia guardando il mondo da un altro punto di vista,
che non sia il proprio, sia facendo emergere le dimensioni “latenti”, non
esplicite, che sottostanno al proprio agire.
Anche se non in maniera scritta, raccontare a sé di sé può sembrare
un’azione banale, ma con la dovuta sincerità può risultare difficile.
Guardarsi dentro, raccontarsi per poi riflettere sulla propria
esperienza, può portare a godere di benefici tanto importanti quanto
sottili sul piano della propria competenza relazionale ed educativa.
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CAP. 1
RELAZIONE D’AIUTO
Quando un individuo è esposto ad una sofferenza tale per cui egli non
è in grado di affrontarla, ecco che abbisogna di un aiuto esterno, che lo
supporti nel contenere l’angoscia e provveda ad iniziarne un percorso
elaborativi.
Per “relazione d’aiuto” si intende, appunto, un rapporto asimmetrico,
non paritario cioè, tra un soggetto, che per maturità, salute, conoscenza,
capacità, ecc, è in condizioni di offrire e gestire un aiuto e mette questa
sua “competenza”al servizio di un altro invece portatore di bisogni per
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immaturità, deficit, indigenza, malattia, ignoranza, e così via. (Carkhuff R.,
2001)
Questo aiuto non consiste solo di una sola prestazione che risolve il
bisogno al posto dell’altro che non ne è in grado, ma in un’occasione di
emancipazione dal bisogno stesso, attraverso una forma di
apprendimento emotivo circa le possibilità di affrontare la sofferenza, in
modo da permettere quindi un cambiamento costruttivo della percezione
di sé e della realtà.
Le capacità di base che un professionista deve possedere per poter
offrire una effettiva relazione d’aiuto sono schematizzabili in:
- il generare amore;
- l’infondere speranza;
- il tollerare la sofferenza psichica;
- il pensare.
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Le relazioni d’aiuto di tipo informale sono evidentemente sempre
esistite nella storia dell’umanità, ma solo con l’avvento della psicologia
e delle scienze sociali gli approcci d’aiuto si sono progressivamente
orientati a tener conto della natura “mutevole” delle esperienze umane.
Nell’ambito della relazione d’aiuto tra infermiere e paziente il
fondamento di tutto il processo è costituito da un processo di
elaborazione intrapersonale (“Guardare dentro di sé per rileggere il
proprio vissuto”) da parte del soggetto che necessita aiuto (helpee).
Le abilità richiedibili al soggetto in grado di dare aiuto (helper),
consistono nella capacità di prestare costantemente attenzione per
cercare di osservare il mondo con gli occhi dell’helpee, di fornire di
volta in volta risposte precise alle esperienze da loro comunicate, di
personalizzare i loro problemi e i loro obiettivi, di iniziare una serie di
azioni per la risoluzione dei problemi ed il raggiungimento degli
obiettivi che l’helpee si è posto.
Questo lavoro richiede però una serie di abilità di gestione dei
processi interpersonali, poiché sono queste che permettono, a colui che
porta aiuto, di rapportarsi con le esperienze altrui e di facilitare il buon
andamento nell’elaborazione della condizione in cui è venuto a trovarsi
l’helpee.
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1.2.1 PRESTARE ATTENZIONE
- Preparare il contesto
L’abilità dell’helper deriverà anche dalla sua capacità di preparare un
ambiente fisico adatto all’helpee, predisponendo opportunamente i
mobili e gli oggetti del contesto in cui avrà luogo l’incontro.
- Preparare l’helper
L’helper si deve preparare a prestare la massima attenzione
utilizzando tecniche sicuramente soggettive, ma che devono avere come
unico obiettivo il coinvolgimento dell’helpee alla relazione d’aiuto.
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Soddisfando queste condizioni il professionista avrà attuato una fase
di pre-aiuto utile a comunicare all’helpee una totale ed incondizionata
attenzione, un completo interesse per le esperienze del loro vivere che
essi stessi esprimono in diverse forme (sia verbali che comportamentali);
tutto ciò al fine di motivare e coinvolgere nel processo d’aiuto.
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permetteranno a chi fornisce aiuto di capire molto della avvenuta o
mancata presa di coscienza da parte del paziente della nuova visione del
mondo intorno a sé.
1.2.2 RISPONDERE
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Risulta evidente che l’helper, parafrasando i contenuti
trasmessigli, sintetizzerà nella sua risposta i punti principali su cui
lavorare.
Rispondere al contenuto permette all’helper di prepararsi a
rispondere al sentimento che l’helpee manifesta.
Rispondere ai sentimenti è l’abilità più critica dell’intero processo
d’aiuto, in quanto il sentimento riflette l’esperienza affettiva che l’helpee
ha di se stesso di fronte alla propria situazione.
L’espressione dei propri sentimenti può avvenire sia direttamente (in
modo verbale), che indirettamente. In qualunque caso l’abilità
dell’helper sarà quella di mostrare all’helpee, attraverso le risposte, il
livello di comprensione dei sentimenti.
Rispondere ai sentimenti richiede di porsi la “domanda dell’empatia”
e di adeguare le risposte ai sentimenti espressi dell’helpee. Per
rispondere in modo adeguato ai sentimenti, l’helper deve osservare il
comportamento dell’helpee, facendo attenzione alla postura, alle
espressioni del viso ed al tono della voce. È importante ascoltare le
parole dell’helpee per poterne riformulare il sentimento che abbiamo
percepito, e poi l’helper deve porsi un domanda:
“Se fossi al posto dell’helpee e facessi e dicessi queste mie cose come mi sentirei?”.
(Carkhuff, 1987, Pag.97)
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attraverso l’osservazione, se l’espressione scelta è adatta a quella
persona.
Rispondere al sentimento e al contenuto delle espressioni usate
dall’helpee non è sufficiente, la risposta dell’helper deve essere
arricchita facendo entrare il sentimento nel contenuto che è stato
espresso.
Possiamo dire che il contenuto viene espresso per dare un significato
al sentimento e quest’ultimo dà un significato emozionale alle
espressioni dell’helpee. Rispondere al significato evidenzia l’importanza
di formulare delle risposte intercambiabili di grado superiore, che
riescono a cogliere il sentimento ed il contenuto espresso dall’helpee.
La cosa importante è riuscire, da parte dell’helper, ad entrare nello
schema mentale dell’helpee, cercando di comprendere il sentimento ed il
contenuto che egli ha espresso. L’helper, a sua volta, deve comunicare
questa comprensione all’helpee, rimanendo sempre al livello a cui
l’helpee ha espresso i propri disagi.
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c) Personalizzazione degli obiettivi.
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Arrivati alla fase determinante del processo d’aiuto, l’helper deve
cominciare ad elaborare, insieme all’helpee, dei programmi sulla base
dei quali si possa agire.
In questa fase l’helper deve definire in modo preciso gli obiettivi
precedentemente personalizzati, deve cercare di fissare i metodi ed i
tempi per il raggiungimento degli obiettivi. Infine l’helpee attua i
programmi agendo in modo tale da risolvere i propri problemi e
raggiungere i propri obiettivi.
Il primo compito nell’iniziare è quello di definire l’obiettivo e
stabilire tutti gli elementi indispensabili per raggiungerlo. È inoltre
importante includere tutte le persone o le cose che possono essere
coinvolte, e descrivere quando e dove l’attività avrà luogo.
Per poter raggiungere gli obiettivi preposti, è necessario elaborare dei
programmi d’azione, che nello specifico consistono di procedure,
attraverso le quali si è facilitati a raggiungere gli obiettivi. La maggior
parte dei programmi si sviluppano per contiguità, cioè ogni passo
dipende dai risultati ottenuti nel passo precedente.
La fase successiva è sicuramente quella di fissare precise scadenze
temporali per la realizzazione di ogni step così come dell’obiettivo
finale. Importante è, soprattutto, la definizione dei tempi di inizio e dei
tempi di conclusione, così da poter indicare ad helper e helpee in quanto
tempo devono essere svolte le varie fasi programmate. Nessun
programma può considerarsi completo senza gli indicatori di tempo di
inizio e fine percorso.
Il passo successivo richiede lo sviluppo di rinforzi, cioè eventi in
grado di incoraggiare l’helpee a realizzare i passi necessari. I rinforzi
solitamente sono piccole cose, ciò che è importante è che stimolino
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l’interesse della persona; la loro efficacia è maggiore se vengono
“applicati” al soggetto immediatamente dopo l’applicazione del passo.
1.2.5 FEEDBACK
HELPER
HELPEE
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1.3 TECNICHE DI RELAZIONE TERAPEUTICA
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All'infermiere spetta il compito di fare da contenitore mentale alla
sofferenza dei pazienti, ma non con una funzione esclusivamente
recettiva; piuttosto deve dimostrarsi un elaboratore restituendo
comprensione.
Uno dei fattori che richiede all’infermiere di farsi contenitore mentale
è l'identificazione proiettiva, intendendo con questo termine un
meccanismo di pensiero universale in cui un'esperienza, causa di
sofferenza, non viene riconosciuta ma inconsciamente proiettata
all'esterno su qualcosa o qualcuno adatto a riceverlo.
È il contenuto che dovrà essere rielaborato dal contenitore. Perciò il
soggetto che chiede aiuto potrà sperimentare come l'altro non si sia fatto
sopraffare dal dolore ma sia stato in grado di operare una trasformazione
positiva del contenuto.
In questo ambito se l'helpee usa più o meno coscientemente il
meccanismo dell'identificazione proiettiva l'infermiere dovrà fornire una
risposta di contenimento della sofferenza rendendo “pensabile” la causa
del disagio, aiutando il paziente a riconoscere la parte di sè che rifiuta, o
che non conosce realmente. (ibidem)
E' utile sottolineare che questo processo di contenimento è possibile a
patto che 1'infermiere (il contenitore) sia in grado di tollerare la
sofferenza psichica che il soggetto può fargli sperimentare durante la
loro relazione.
Diversamente a sua volta proietterà lontano da sè i contenuti ricevuti,
lasciando il paziente (il soggetto) solo, e magari ancora più disperato.
1.3.2 REVERIE
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Attraverso la Reverie la capacità di essere “mente” si affina ed il
livello di empatia aumenta.
Reverie, cioè un vagare sognante della mente alla ricerca di
immagini, un fantasticare senza un obiettivo preciso, lasciare venire un
pensiero dopo l'altro, in una catena associativa senza scopo
predeterminato, ma sollecitata dal rapporto che si sta vivendo
(Marcelli,2000).
Questa tecnica di relazione costituisce la capacità di lasciarsi andare
ad un flusso emotivo senza averne paura, fermandosi a valutare quanto le
immagini emerse nella propria mente, durante il rapporto con il paziente,
dipendano da un personale stato d'animo, e quanto dal significato del
rapporto stesso che si sta svolgendo.
Questa tecnica terapeutica si attiva solo quando c'è uno stretto
rapporto ed una forte intesa emotiva fra i due soggetti coinvolti; solo
allora può avvenire una condivisione di emozioni che permette la
costruzione simbolica dell'esperienza.
La risposta al paziente difficile può scaturire utilizzando questi
pensieri, frutto del contatto con il soggetto stesso. Quest’ultimo ha
attivato, dentro di noi, una funzione sognante, immaginativa, che ci
permette di dar forma ad una risposta costituita da gesti quotidiani
essenziali per la trasmissione al paziente della sensazione di essere
compreso.
La Reverie comporta uno stretto contatto fisico ed è uno strumento di
comunicazione primario.
1.3.3 EM PATIA
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Il termine empatia indica comprensione delle esperienze, dei
comportamenti e dei sentimenti degli altri a mano a mano che questi si
manifestano, il che significa, per l'operatore, mettere da parte i propri
pregiudizi e i propri punti di vista, per entrare completamente nel mondo
del paziente, e comprenderlo a fondo; detto in chiave estremamente
pratica, entrare in empatia corrisponde al mettersi nei panni dell'altro
(Duxbury, 2001).
A volte il professionista, grazie all'intensità con cui ascolta il
paziente, riesce a percepire più di ciò che egli vede o trasmette, e
attraverso alcune intuizioni gestire in modo costruttivo la
comunicazione.
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relazione con soggetti che presentano comportamenti e problemi
complessi che non sono in grado di affrontare autonomamente.
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In fase di ascolto attivo è sempre necessario riconoscere e valutare
l'importanza degli atteggiamenti non verbali e dei messaggi verbali
espressi dal soggetto. In questa fase la comunicazione verbale e quella
non verbale, hanno la stessa importanza.
Oltre al tipo ed al tono di voce è fondamentale il contenuto di ciò che
viene detto, infatti uno degli errori più frequenti da parte dell'infermiere
è quello di parlare troppo velocemente ed a voce bassa, atteggiamento
che spesso porta il paziente a sentirsi ansioso.
Le capacità verbali di un operatore sanitario, possono semplificare il
processo di ascolto attivo e portare i pazienti ad una condivisione dei
propri sentimenti. E' infatti raccomandabile utilizzare una serie di
strumenti quali i messaggi di apertura, le domande aperte e le piccole
remunerazioni, tutti elementi che richiedono l'uso di poche parole, il
giusto tono di voce e un'adeguata mimica corporea
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Inoltre non deve prevaricare in modo indiretto, ad esempio
anticipando i passaggi scontati delle espressioni del soggetto, la
disponibilità dello stesso al racconto e alla cronaca.
1.4 LA COMUNICAZIONE
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Watzlowick, Beavin e Jackson hanno analizzato la funzione sociale
della comunicazione: essi sostengono che in essa sono implicite le
manifestazione osservabili del rapporto. (Watzlowick P., Beavin S., Jackson
D.D., 1971)
Il processo dinamico della comunicazione può essere considerato
come lo strumento mediante il quale un soggetto costruisce un rapporto
con un altro individuo; non è solamente un mezzo per trasmettere
informazioni o influenzare altre persone, ma parte integrante del
rapporto stesso.
Tutto cìò non significa che l'infermiere debba rinunciare all'uso della
comunicazione verbale in quanto ambigua ed inconcludente, ma
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dovrebbe, invece, ampliare le conoscenze sul significato denotativo e
connotativo dei termini e cercare di chiarire con il paziente il significato
che quest'ultimi rivestono per lui.
1.4.3 L A C O M U N IC A Z IO N E T R A IN FE R M IE R E E
PAZIENTE
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La comunicazione terapeutica, facilita l'instaurarsi di un valido
rapporto tra infermiere e paziente, risponde agli scopi del processo di
nursing e consente una raccolta precisa e adeguata dei dati.
Se la comunicazione è terapeutica la pianificazione, l'attuazione e la
valutazione non vengono formulate per il paziente bensì con il paziente,
così da poter rendere possibile l'instaurarsi di un rapporto di
condivisione.
La comunicazione non terapeutica ostacola, invece, la creazione di un
rapporto; impedisce al paziente di diventarne parte attiva e lo relega al
ruolo di oggetto, cioè di osservatore che riceve passivamente l'assistenza
infermieristica.
Per facilitare l'applicazione di tecniche di comunicazione terapeutica
efficaci, si possono utilizzare dei metodi specifici, senza però certezze di
risultato; per quanto sopra elencato esistono ovviamente numerosi fattori
che possono influire nell'indirizzarne le sorti.
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Per poter promuovere e sostenere interazioni costruttive e realistiche
e' importante che gli infermieri siamo coscienti di tutto ciò, così da poter
evitare che le proprie emozioni, le fantasie ed i timori possano ostacolare
la comprensione e l'aiuto del paziente.
Qui di seguito vengono riportate le principali aspettative e paure della
relazione tra l'infermiere e il paziente.
1.5.1 A SP E T T A T IV E D E L L 'IN F E R M IE R E
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L'infermiere missionario adotta dei comportamenti assai simili
all'infermiere buon genitore, ma è ancora più disponibile, comprensivo e
tollerante, fino al paradosso che nessun vissuto negativo potrà essere
accettato e ci sarà spazio solo per buoni sentimenti e buone intenzioni.
La tolleranza e la comprensione sono atteggiamenti importanti ed
essenziali in una relazione d'aiuto, il problema è che dietro questi
sentimenti si nascondono la collusione con l'aggressività del paziente,
l'ansia ed il timore per le situazioni conflittuali, e l'incapacità di
elaborare i propri vissuti ostili.
Tale situazione, con un meccanismo a circolarità chiusa, porta lo
stesso professionista a non riuscire ad effettuare un ascolto empatico del
paziente che di riflesso aumenta il senso di solitudine in preda alle
proprie angosce.
1.5.2 PA U R E D E L L 'IN FE R M IE R E
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Sentirsi inutili, incapaci o non riuscire ad intervenire con successo nei
confronti del paziente crea un'impotenza di fondo, soprattutto
considerando che l'aspettativa dell'infermiere è quella di essere in grado
di guarire ed aiutare, e la paura corrispondente è proprio quella di sentirsi
del tutto impotenti di fronte al dolore ed alla malattia.
L'operatore professionale può vivere il peggioramento di un paziente,
o la mancanza di benefici derivanti da un trattamento, come un
fallimento personale; Qualora accada è importante che il professionista
abbia la possibilità di riflettere sulle sue emozioni, e riesca a rielaborare i
propri vissuti negativi che nascono da timori e da aspettative di questo
tipo.
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In una situazione di malattia, difficoltà e disagio sono a livelli
esponenziali; ci si trova in una condizione in cui il soggetto è indifeso,
dov'è possibile sperimentare vissuti di debolezza ed impotenza e dove
emerge facilmente il timore di essere rifiutati a causa della propria
condizione.
Poter condividere
Si tratta di una modalità più evoluta, in cui il rapporto ricercato non è
di passività e dipendenza, ma di solidarietà fraterna.
Il paziente si aspetta di trovare qualcuno che gli stia vicino durante la
sofferenza e che sia in grado di comunicargli che è possibile tollerare la
sua situazione di dolore, senza dover necessariamente fuggire a tutti i
costi; una condivisione quanto più possibile fraterna e vera.
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1.5.4 PAURE DEL PAZIENTE
Essere abbandonati
Abbiamo appena visto come la condizione di disagio in cui si trova il
paziente lo porti a cercare una relazione di dipendenza nei confronti
dell'infermiere.
Questo espone il paziente in tempi successivi alla paura di non essere
più assistito e trascurato.
In questo caso è il paziente che arriva a fantasticare convincendosi di
essere stato per esempio troppo richiedente verso l'infermiere che quindi
lo avverte adesso come un peso.
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In questo genere di situazione, la paura del paziente sarà che
l'operatore sanitario lo critichi, con espliciti riferimenti all'etica morale.
La sofferenza provocata dalla malattia ed il dolore legato alle
procedure diagnostiche vengono vissuti come regime punitivo.
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Vi sono i “chiacchieroni” che vogliono l'attenzione totalmente ed
esclusivamente incentrata su di sé e in contrapposizione a questi vi sono
i soggetti “antagonisti” che desiderano il controllo di ogni situazione,
sempre con il diritto all'ultima parola.
I pazienti sopraccitati, spesso presentano dei comportamenti quasi
premeditati volti a catturare l'attenzione: è l'infermiere che deve cercare
di guardare oltre tali comportamenti, esaminando con il soggetto ciò che
abbia comunque importanza e il percorso che materialmente dovrà essere
fatto.
Per far questo può porsi la domanda, “Che cosa c'è dietro questo
comportamento?”. La risposta non è facile da trovare, in quanto
insorgeranno sempre situazioni difficili quando i pazienti non sono in
grado di comunicare, oppure non vogliono farlo.
Le persone presentate come pazienti “difficili” rivelano molto spesso
un retroterra culturale alquanto ristretto. Anche se di per sé non può
considerarsi un giustificativo va tenuto nella giusta considerazione. Và
da sé che gli operatori sanitari se aggrediti, provocati o attaccati
fisicamente non debbano subire costantemente, come se questo facesse
parte di un aspetto ineluttabile del lavoro scelto, ma ai comportamenti ed
alle situazioni difficili, possono e devono essere applicate e sviluppate
nuove abilità.
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CAP. 2
PENSIERO NARRATIVO ED
ERMENEUTICA
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La storia ci mostra come in duemilacinquecento anni di medicina si
sia passati gradualmente ma inesorabilmente da un approccio medico-
malato ad un approccio medico-malattia.
Il primo, di origini e stampo ippocratico, è caratterizzato da un analisi
oggettiva di sintomi e segni della persona malata, nonché dall’ascolto e
annotazione della malattia così come raccontata dal paziente. Ciò che
emergerà dall’analisi oggettiva sarà da calare nel contesto narrato dal
paziente. Si produrranno pertanto sia risultati scientifici (derivanti dalla
sintomatologia) sia narrazioni (derivanti dal racconto del paziente e
dall’anamnesi medica effettuata)
Di origini e stampo moderno-occidentale, invece, l’approccio
medico-malattia incentra la sua attività di cura prevalentemente sul
evento patologico emergente dall’esame obiettivo, dagli esami
strumentali e da quelli biochimici. La malattia, classificata ed inquadrata
dalla scienza medica, viene studiata, interpretata e “sfidata” sullo stesso
piano: quello scientifico.
Quest’ultimo modello di medicina, definito disease centered (avente
cioè come focus operativo l’anomalia biologico-organica del malato) ha
portato alla luce intorno agli anni ’60 il doppio paradigma che convive
sia a livello di formazione che di pratica professionale nell’attuale
panorama della medicina occidentale, proprio in quanto due sono le sue
anime: quella «biologica» e quella «clinica».
Sul piano scientifico la medicina si struttura come una scienza della natura, ossia è
orientata all'analisi dei fenomeni biologici e alla derivazione di leggi generali
caratterizzate, dal potere previsionale e normativo. Quando invece è calata sul
piano applicativo, essa si trova nella necessità di utilizzare paradigmi caratteristici
delle scienze umane e storiche, in base ai quali può essere in grado di integrare tutte
le prospettive biologiche, psicologiche e sociali che si manifestano nel corso della
consultazione per poter gestire al meglio gli irripetibili incontri medico-paziente.
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Irripetibili, e quindi ogni volta incontri unici, non solo perché giocati in
consultazioni diverse, ma anche perché, quando condotti dalla stessa persona, essi
avvengono lungo l'asse del tempo, nella dimensione del divenire
(Zannini, 2001, p. 137).
“La malattia costituisce sempre, nel momento in cui essa si presenta, una “rottura
biografica” in quanto impone non solo modificazioni nell’organizzazione concreta
della vita, ma mette anche in discussione il senso dell’esistenza degli individui,
l’immagine che hanno di se stessi e le spiegazioni che essi ne danno” (Herzlich,
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Adam, 1999, p.112)
2.2.1 N E I P R O C E SSI D I FO R M A Z IO N E E P R A T IC A
CLINICA
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una diagnosi e successivamente impostare un percorso terapeutico.
(Zannini, 2001)
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Nell’attività clinica svolta da medico ed infermiere professionale
convivono, dunque, due forme di pensiero: quello scientifico
(caratterizzato da leggi generali, meccanismi fisiopatologici e quadri
clinici predefiniti) e quello narrativo (caratterizzato dalla singolarità e
dalla contestualità delle storie dei pazienti).
Il paziente può quindi essere inteso come “testo”: la serie dei sintomi
della malattia descritta dal paziente rappresenta un racconto strutturato in
tempi e in contesti specifici.
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L’attività clinica svolta prende vita da una lettura che il paziente-
narratore ha fatto di sé, offrendo la sua storia di sintomi. Affiancando ad
essa i segni (che sono invece indizi oggettivi rinvenibili nel testo-
paziente) si procede ad avanzare un’ipotesi diagnostica, che medico e
infermiere cercano poi di controllare con opportuni test strumentali.
Per riuscire a significare il racconto-paziente e la sua storia di
malattia-disagio, l’infermiere professionale e il medico devono dunque
attraversare diverse tappe (Zannini, 2001):
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Anche se spesso ciò può avvenire automaticamente, secondo
modalità e dinamiche soggettive, la pratica interpretativa riconducibile
all’ermeneutica rimane una componente essenziale per decostruire e poi
ricostruire “la malattia”, per posizionare correttamente quei tasselli che il
solo “sguardo”, che il solo colpo d’occhio biomedico al racconto non
permetterebbe di ottenere.
L’analisi e l’interpretazione della storia che il paziente racconta
(illness) e del desease (ossia delle tre tappe sopra esposte) consente,
perciò, una ricostruzione narrativa della trama; l’ermeneutica è il tramite
fra l’analisi tecnica del nostro testo (fatto di determinati personaggi,
delle loro azioni, dei loro vissuti, dei loro disagi narrati) e la
comprensione del significato attribuito a quelle azioni, a quei vissuti e a
quei disagi da parte dei personaggi coinvolti: la trama appunto.
Comprendere la trama corrisponde all’essere in grado di
“significare” il testo, il racconto; corrisponde all’essere capaci di
apprezzare nella sua totalità il significato di una realtà complessa, non
descrivibile (poiché non raggiungibile) attraverso il solo sguardo
biomedico standard.
Nell’ambito della pratica clinica giungere alla comprensione
narrativa della malattia, del paziente e del disagio, oltre alla sola
spiegazione scientifica di essi, rappresenta una possibilità concreta di
aiuto, e consente oltremodo di costruire una strategia terapeutica molto
più efficace, poiché basata non solo su ciò che il paziente ha raccontato,
non solo su ciò che medico e infermiere professionale hanno compreso,
ma su di un’interazione e confronto continui di dati oggettivi e soggettivi
all’interno di uno scenario di emozioni e significati condivisi
intenzionalmente.
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CAP. 3
LA NARRAZIONE COME CURA DI SÈ
42
È così che l’uomo scopre la grande potenzialità del ricordo, ed inizia
ad assaporare il piacere che la reminescenza stesso è in grado di
generare.
43
Non si tratta, pertanto, di un passatempo: la pratica narrativa di sé,
per dare i suoi frutti a livello terapeutico, deve essere vissuta e praticata
con dedizione, impegno, fatica. Si tratta di un percorso di crescita
personale, che non può essere ottenibile se non attraverso la volontà e la
perseveranza di conseguirne i risultati.
3.3 STAR BENE CON LA PROPRIA STORIA
44
45
3.3.1 LE DISSOLVENZE
3.3.2 LE CONVIVENZE
46
I nostri gesti, anche i più scontati, parlano già di noi. Parlano già per
noi. Le parole che poi usiamo per raccontare a noi stessi e al mondo le
nostre emozioni, le nostre idee, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni,
ecc., non fanno altro che rinforzare la nostra storia, che noi stessi
scriviamo. E lo facciamo sia per diletto (da narratore protagonista
durante le nostre più intime riflessioni, quelle spontanee, fatte fra sé e
sé), che per dovere (vestendo il ruolo di narratore protagonista che,
raccontando un caso clinico durante il passaggio d’informazioni, deve
descrivere un episodio significativo che è avvenuto durante il proprio
turno).
In ogni caso scriviamo la nostra storia, ed essa è la nostra traccia di
crescita sino a quel preciso punto. La visione d’insieme di noi stessi ci fa
sentire di esser stati qualcosa di preciso, di identificabile, di scritto,
prima di quel giorno, e che inesorabilmente siamo chiamati a raccontare
a noi stessi e al mondo il giorno dopo.
Questa narrazione autobiografica di noi stessi è un beneficio nel
momento in cui ci riusciamo a vivere “la nostra faccia e le nostre azioni”
come “il nostro biglietto da visita”: esibirlo coincide con il continuare a
tracciare nel tempo la nostra traiettoria. Capacitarsi di ciò e determinarne
consapevolmente l’evoluzione ci dà coraggio nel proseguire.
“[…] È una forma silenziosa, gratuita, invisibile di cura di sé. Così invisibile e
ingenua da apparire banale.” (Demetrio, 2004, p.50)
47
ne evoca un altro, ed un altro ancora. Affiorano tacitamente ed in
pochissimo tempo, le emozioni racchiuse in quei singoli ricordi,
unitamente alla trama che li mette in connessione fra loro in
quell’istante.
Questo gioco di ricordi può determinare non solo un senso di
alleggerimento, di padronanza, di distensione, ma può essere molto di
più.
Il processo autobiografico intrapreso consente metaforicamente di
aprire “a comando” dei ricordi, come fossero scrigni, per portare allo
scrivente l’energia in essi contenuta. Spostandosi infatti da un ricordo ad
un altro, la nostra mente crea delle dimensioni di transito, in cui
possiamo ritrovarci inaspettatamente, ma attraverso le quali è possibile
scorgere la matrice di noi stessi, la forza che tiene uniti tutti i nostri
ricordi ai loro relativi significati.
In quella dimensione ci si rende conto di essere artefici di se stessi:
ciò che lega un ricordo ad un altro, entrambi appartenenti alla nostra
storia, è il risultato di tutta una serie di significati e valori solo nostri, e
come tali ricompongono un mosaico che ai meno attenti può risultare
frammentato e indecifrabile.
3.3.4 LE INVENZIO NI
48
successiva: il regime terapeutico derivante dall’inventare una linea di
condotta per la creatività che abbiamo visto e avvertito scaturire dal
gioco delle ricomposizioni. E per farlo non si deve più di tanto pensare;
piuttosto importante invece, in questo step, è l’agire, praticamente.
“Per tenerci insieme, e godere del piacere di stare insieme a noi stessi, è
indispensabile però fare un ulteriore progresso, che consiste nel “prenderci per
mano” e andare da un’altra parte. Ma dove? Ancora una volta verso quel
distanziamento, creativo, che ci consente di osservare e analizzare la nostra vita
come se fosse quella di un’altra o di un altro. Non più limitandoci al lavoro
autogratificante e da perdigiorno del pensiero autobiografico, ma dedicandoci al
lavoro di scrittura in senso proprio della nostra storia.”
(Demetrio, 2004, p.52)
49
Da questo punto in avanti la pratica di cura autobiografica diventerà
giovevole, poiché l’immaginario autobiografico ci avrà da un lato
facilitato nella scrittura, e dall’altro ci avrà consentito di apprezzare la
manipolabilità “a piacere” della nostra esistenza attraverso un processo
di spersonalizzazione. Ma questo è già territorio del quinto dominio
terapeutico.
Questa dimensione illusoria ma benefica, quella delle “invenzioni”,
consente pertanto, in maniera consapevole o meno, volontaria o
involontaria, di fornire nuove tinte e colori a fatti riguardanti se stessi.
3.3.5 LE SPERSONALIZZAZIONI
50
pazienza, spesso fatica, e volontà di ripercorrere una traiettoria
esistenziale di cui, in qualche misura, si sono perse le tracce.
L’individuo si accorge ben presto della precarietà dei confini nella
propria personalità; la spersonalizzazione operata dal pensiero e dal
lavoro autobiografico portano ad una gratificazione e piaceri del tutto
razionali, o come Duccio Demetrio li definisce, “scientifici”.
51
È di fondamentale importanza partire dal fatto che i processi
conoscitivi come pure quelli formativi sono mediati da attribuzioni di
significato individuali.
Fare un costante ma esclusivo riferimento a determinati “saperi” non
è sufficiente: bisogna interrogarsi su quello che essi vogliono significare
per noi, in quanto la loro rappresentazione, unitamente al nostro vissuto,
filtrano costantemente la nostra conoscenza, ed anche la nostra attività
professionale ed educativa in genere.
3.4.1 U N A P P R O C C IO P E D A G O G IC O E A U T O B IO G R A F IC
52
della relazione assistenziale, processo cardine della professione
infermieristica, attraverso un percorso di riflessione approfondita.
La pedagogia narrativa può essere una metodologia introspettiva di
supporto assai valida per incominciare questo percorso riflessivo.
Essa è infatti in grado di accompagnarci gradualmente
nell’apprendimento dell’esperienza umana (o meglio dell’esperienza
formativa) come un processo di costruzione di significato.
L’importanza di introdurre o consolidare nel nostro agire
professionale (e non solo) tali prospettive d’osservazione è racchiusa in
quella gamma di stimoli “consapevolizzanti” che le costituiscono, e che
dovrebbero costituire il fondamento della crescita formativa di qualsiasi
operatore sociosanitario.
La riflessività autobiografica professionale, per esempio, ci può
condurre a ritrovare il piacere di inventare e produrre idee, incoraggiati
dal fatto che se si è in grado di partire dalla propria esperienza, allora
anche il mondo esterno può essere analizzato e compreso, smontato e
ricostruito attraverso l’intelligenza narrativa: la scarsa volontà di narrarsi
in modo autentico deve per far spazio alla volontà di far sempre
prevalere l’arte della parola, a maggior ragione nell’ambito della
relazione d’aiuto.
La pedagogia narrativa altresì, è strumento per ricercare (e ritrovare
piacevolmente) stimoli fondamentali non solo per un più consapevole
“vivere”, ma senza dubbio per una sempre più approfondita competenza
relazionale d’aiuto. Il considerare questa prospettiva offre infatti:
53
- Un maggiore stimolo allo scambio;
- Un maggiore stimolo al pensiero critico.
3.4.2 L A P R O SP E T T IV A D I C L IN IC A D E L L A F O R M A Z IO
54
interessante a cui fare riferimento, per creare uno spazio ed un tempo
“rituali” di autoformazione, di conversazione riflessiva e di elaborazione
mentale intorno ai significati meno scontati e più radicali di un campo
professionale così coinvolgente come quello infermieristico.
È di grande importanza soffermarsi ad osservare in prima persona la
propria formazione, le proprie incertezze relazionali e professionali, non
solo per ricavarne suggestioni estetiche o indicazioni pratiche, ma anche
per ri-attraversare quelle situazioni in cui ci si trova coinvolti
quotidianamente, in maniera sempre più “automatica” e meno “cogitata”,
seguendone il processo effettivo di svolgimento.
55
certamente sull’importanza del singolo caso, ma la sua finalità è diversa
da quella della pratica clinica in senso sanitario: non si mirerà infatti a
“diagnosticare” e a “categorizzare” determinati quadri formativi
“patologici” al fine di elaborarne una terapia; si andranno invece a
ricercare, scoprire, rielaborare e conquistare consapevolmente i
significati latenti che di fatto governano il nostro vivere, crescere,
relazionarci e formarci, e che molto spesso nemmeno conosciamo o
prendiamo in considerazione.
56
CAP.4
ESPERIENZE DI NARRAZIONE
57
Ho perciò elaborato e seguito un percorso che fungesse da “libretto
d’istruzioni”, e che costituisse al tempo stesso il principio di
funzionamento dello strumento narrativo di cui questo lavoro è oggetto.
Mi sono occupato pertanto di:
definire le regole autobiografiche da seguire nella propria
narrazione;
chiarire come poter narrare della propria esperienza in modo
naturale qualora non risultasse così facile;
definire quanto e come fornire un titolo sia fondamentale ai fini
della consapevolizzazione di sé e del proprio “agito”;
stilare alcune domande chiave che fungano da guida
introspettiva nella propria narrazione;
produrre una griglia concettuale che coadiuvi la “lettura” della
propria esperienza attraverso un approccio di “relazione
d’aiuto” verso sé stessi.
58
4.1.1 LE REGOLE
1) L’intransitività
Chi decide di utilizzare la narrazione come strumento di riflessione e
consapevolezza, deve aver chiaro che non si tratta di un processo in cui
“il sapere” transita da una parte all’altra, ma si tratta di un processo in
cui si riflette su di un’esperienza per giungere ad una scoperta.
2) L’oggettivazione
Tutta l’attenzione è da concentrarsi sull’esperienza vissuta, al fine di
renderla pensabile e comunicabile, quindi oggettivabile.
Ciò che è importante è la trascrizione di ciò che si è vissuto, nella sua
più naturale forma.
3) L’impudicizia
Facendo riferimento alla riflessione sulla propria esperienza, ciascuno
deve sospendere (quanto più gli è possibile fare) la censura interna
59
nell’analisi e nell’interpretazione di essa. Tutta la proiezione filmica
della nostra esperienza deve diventare racconto, in maniera naturale,
nella sua totalità, “senza pudore”.
4) L’avalutatività
È fondamentale che nell’utilizzo di questo strumento metodologico
non venga dato alcun giudizio di valore su quanto viene raccontato. La
sospensione del giudizio di sé e del proprio vissuto è la chiave per
giungere all’esperienza nella sua totalità, nella sua profondità, nella sua
natura formativa più pura.
60
Su che cosa concentrarsi?
È necessario concentrare la propria attenzione sul ricordo. Si deve
lasciar semplicemente emergere quella serie di “fotogrammi mentali”
che costituiscono la “registrazione” di quel determinato momento a cui si
è deciso di ritornare con la propria memoria. L’attenzione dovrà essere
diretta in particolar modo agli elementi emergono da quell’effetto di
Dissolvenza (vedi cap. 3), e che rappresentano i punti più salienti di
quel ricordo.
Come narrarsi?
Innanzitutto nella maniera più naturale e spontanea possibile. Nessun
accorgimento particolare riguardo alla modalità narrativa: ci si racconti
su di un pezzo di carta in forma e termini quanto più naturali possibili.
Abbiamo visto, parlando della narrazione autobiografica come strumento
di autocura, come l’iniziare a scrivere della propria storia coincida con il
decidere semplicemente di godere dei benefici che da questa pratica si
possono trarre (Vedi cap. 3 “Domini terapeutici”).
61
Dare un titolo al proprio racconto è un passaggio chiave, di grande
importanza e valenza sotto il profilo della riflessione (e della
conseguente consapevolizzazione), poiché in esso e tramite esso emerge
il significato latente dell’esperienza vissuta.
Il titolo sintetizza in modo essenziale quello che l’intero racconto
significa per chi lo sta analizzando, ma che allo stesso tempo lo ha
scritto: l’insieme di ricordi di quella determinata esperienza relazionale,
ora diventati una storia scritta “da qualcuno”, può essere osservato ed
analizzato oggettivamente, ed è in questa analisi che il titolo rivela il suo
valore “sintomatico” in senso proprio.
La parola “sintomo” deriva dal greco symptòma, e letteralmente
significa “evento inatteso, fortuito, imprevisto”.
È infatti proprio ciò che di inatteso e imprevisto è successo che ha
reso significativo per noi il momento che abbiamo deciso di raccontare,
poiché qualcosa dentro di noi in quel preciso contesto si è sentito
“spiazzato” (nella sua doppia accezione emotiva di evento negativo o
positivo), sotto il profilo formativo, cognitivo, affettivo, relazionale o
educativo.
Il titolo che viene fornito al racconto è importante non solo per la sua
finalità autobiografica (che fornisce di fatto il punto di vista del
narratore), ma anche e soprattutto per ciò che sotto il profilo pedagogico
esso rappresenta.
Fornire un titolo al proprio racconto rispecchia l’approccio clinico nei
confronti della propria formazione e dei propri atteggiamenti in quel
contesto narrato, nonché la disponibilità a conoscere il proprio modo di
“vivere e significare” il mondo circostante a sé.
62
4.1.4 LE DOM A NDE G UIDA
63
4.1.5 LA GRIGLIA DI LETTURA
L’ascolto attivo
Prestare attenzione ai personaggi che nel racconto si trovano
raccontati; in particolar modo sintonizzare il nostro ascolto sulle loro
espressioni, sui loro gesti, sui loro toni, sui loro vissuti, cercando di
comprendere i significati che nel racconto narrato gli stessi assumono nel
contesto soggettivo (e delicato) di chi li determina.
La Reverie
Far fluire le emozioni e i pensieri che emergono dalla lettura,
liberamente, e confrontarle con il vissuto dei personaggi, così come si
presentano nel racconto su cui riflettere, per coglierne le eventuali
sfumature, le attinenze e/o condizionamenti che si sono presentati nel
relazionarsi alla propria storia o a quella altrui.
64
L’empatia
Cercar di entrare nel mondo dell’altro attraverso un’osservazione
priva di giudizio personale; staccarsi dal proprio punto di vista
soggettivo per poter vedere e comprendere i significati del mondo
descritto e vissuto da chi si sta raccontando a noi, senza giudicarne né la
forma, né i contenuti, né tanto meno i significati manifesti.
L’identificazione proiettiva
Quando un’esperienza è vissuta con dolore non c’è spazio alla
comprensione immediata di quel malessere, che verrà quindi “proiettato”
su chi è in grado, in quel momento e contesto specifico, di riceverlo.
L’“identificazione proiettiva” come meccanismo di difesa da un
disagio, da un malessere o da una malattia in senso stretto, è da ricercare
all’interno della narrazione attraverso l’individuazione della causa
scatenante il problema fra i personaggi che hanno preso parte al
racconto, rendendo così oggettivabile anche tale fenomeno. (Si faccia
riferimento a questo proposito al par.1.3.1)
La risposta esplorativa
Questo punto cardine della relazione terapeutica d’aiuto consiste,
come abbiamo visto, nell’attendere prima di rispondere, e nel mettere
quanto più possibile a proprio agio il paziente nell’esprimersi. L’identico
approccio è da stimolare e ricercare nei confronti delle risposte alle
domande sui cui si è invitati in prima persona a riflettere.
65
Le tecniche e le strategie comunicative
Quanto e come la comunicazione rivesta un ruolo essenziale
nell’ambito della relazione d’aiuto lo abbiamo descritto (Vedi Par.1.4).
Per stimolare e affinare la nostra capacità di osservazione e interazione
comunicativa sarà opportuno soffermarsi e ricercare, all’interno della
narrazione, quali tecniche, quali strategie ed azioni comunicative
abbiano dato forma a quella specifica condizione relazionale, al fine di
ricavarne le trame di svolgimento e di interazione sul piano
fondamentale della comunicazione verbale e non verbale.
PRIM O RACCONTO
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“ Un paziente estremamente “difficile” a livello caratteriale trova il
modo di umiliare chiunque. Nessuno dei colleghi presenti in reparto
riusciva a sopportarlo. Le sue condizioni cliniche non erano delle
migliori e necessitava di molti interventi assistenziali. Quella mattina
sono andata nella sua stanza ed ha fatto di tutto per farmi arrabbiare.
Mi ha insultata e mi ha dato dell’incapace. Ho respirato profondamente,
concentrandomi, sul mio lavoro, sicura che prima o poi avrebbe smesso.
Ho poi aggiunto che purtroppo erano manovre necessarie e purtroppo
dovevo stare con lui. Si è messo a gridare ancora di più. Ho continuato
con calma. Il paziente si è messo a piangere come un bambino. Se non
fosse stato tetraplegico, forse, mi avrebbe picchiato. Io ho finito le mie
manovre e come se niente fosse accaduto sono uscita dalla stanza.”
67
Positivo. Il paziente è riuscito a far uscire il suo dolore piangendo, e
l’infermiera non si è fatta coinvolgere.
Sì, non è poi così difficile rapportarsi anche alle persone più
problematiche. In ogni essere umano può avvenire una trasformazione,
ognuno ha i suoi tempi.
COMMENTO
68
Partiamo dal titolo che questa infermiera ha fornito al suo racconto:
anche “le pietre”, le persone dure, scontrose, difficili, hanno un cuore,
una bontà, una sensibilità, una genuinità d’animo. Magari anch’esso è di
pietra, nascosto, inaccessibile per le vesti con cui si mostra alla
protagonista, ma di sicuro è presente in ognuno di noi.
Una chiara manifestazione di fiducia e di soddisfazione nei confronti
delle persone, anche le più aggressive e tristi, con le quali
quotidianamente la protagonista interagisce all’interno delle proprie
relazioni assistenziali.
Quanto detto si può notare al punto di riflessione 5), in cui la
protagonista, ora indagatrice del suo stesso racconto dice:
69
“Il paziente è riuscito a far uscire il suo dolore piangendo - Così facendo avrebbe
trovato uno sfogo per il dolore che provava, ma non avrebbe continuato a gettare
sugli altri la colpa del suo malessere.”
SECONDO RACCONTO
70
anni 70. Lei aveva 13 anni e questa cosa la fortemente segnata, colpita e
traumatizzata. Io di fronte a lei mi sono sentito impotente nel non
poterla aiutare fisicamente a superare questo suo stato di confusione
profonda, che oltretutto, anche da un punto di vista fisico le da diversi
problemi (irregolarità e dolore durante le fasi del ciclo, dolori
addominali, diarrea, difficoltà a digerire, intolleranze alimentari).
Durante la sua permanenza in reparto ha continuamente dimostrato una
mancanza di fiducia assoluta nei confronti degli operatori sociosanitari
e si è aperta solo con me. Mi sono sentito sconfitto nel mancato aiuto
fornitole ed arrabbiato perché io dovevo aiutarla: ma lo voleva
davvero? ”
71
4) RISPETTO ALL’EPISODIO VALUTA SE LO RITIENI
POSITIVO O NEGATIVO E PERCHÉ
Si. Ora mi pare chiaro che anch’io temevo qualcosa: di non essere
all’altezza di aiutare una donna in un problema come quello. Davanti
72
alla stessa situazione non ripercorrerei lo stesso percorso. Anzi, diciamo
che non mi arrenderei lì.
COMMENTO
Gli è chiaro davanti agli occhi quale sia il nocciolo della questione
ancora irrisolta; è già emersa, ma non l’ha ancora consapevolizzata. Solo
dopo aver dovuto sintetizzare, condensare la sua esperienza in un titolo
egli approda alla vera nuova significazione del suo vissuto. Al punto 7)
l’nfermiere afferma infatti molto chiaramente:
“Ora mi pare chiaro che anch’io temevo qualcosa: di non essere all’altezza di
73
aiutare una donna in un problema come quello.”
“Davanti alla stessa situazione non ripercorrerei lo stesso percorso. Anzi, diciamo
che non mi arrenderei lì.”
TERZO RACCONTO
74
suo punto di vista. Per me le sue confidenze sono state un dono
significativo. Mi ha parlato della sua infanzia, e del suo rapporto con i
genitori senza andare troppo nei particolari: una madre dominante, un
padre sottomesso almeno secondo la sua interpretazione. Aldilà di ciò
mi è sembrata significativa l’importanza dell’influenza della psiche sul
corpo, spesso sottovalutata dalla medicina classica.”
75
pazienti avrebbero necessità di un supporto-aiuto psicologico
competente, sia per convivere con la malattia, sia per superarla.
COMMENTO
76
Dal titolo emerge come questa infermiera abbia patito questa condizione,
che al punto 6) viene definita:
E ai punto 2) e 3) precisa:
77
“[…] Molti pazienti avrebbero necessità di un supporto-aiuto
psicologico competente, sia per convivere con la malattia, sia per
superarla.
“[…] è la conferma al fatto che non possiedo ancora le competenze specifiche per
una vera relazione d’aiuto.”
78
CONCLUSIONI
79
dell’assistenza. Attraverso la creazione di un proprio progetto formativo,
ci consente di riflettere, mettere in discussione il proprio ed altrui punto
di vista, per ricercare e trovare ciò che, pur sembrando solamente una
metafora, rappresenta invece la chiave di volta per ogni scalino della
crescita individuale di ciascuno: il filo del discorso, o meglio ancora, la
trama del racconto che stiamo vivendo, scrivendo e/o leggendo.
Con essa ed attraverso essa ci diventa possibile carpire quei
significati che sfuggono ad un’osservazione qualsiasi, ed allo stesso
tempo ci si allinea ad avere una visione aperta e non giudicativa del
mondo; ciò rende possibile un apprendimento concreto non più da ciò
che si “sospetta” o si “presume” del mondo, bensì da ciò che
materializza e rende concreto quel mondo stesso: un’immensa rete di
significati personali, che scorrono su fili invisibili, che spesso non
consideriamo minimamente, e che ci sfuggono, insieme alla nostra
superficialità, al nostro agire frenetico, piuttosto che alla nostra tentata
ma non soddisfatta “voglia di capire”.
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sempre cercato ed agito, costituisce il “cemento” con cui e su cui
costruire delle relazioni d’aiuto valide ed efficaci.
BIBLIOGRAFIA
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Edizione Franco Angeli Editore, Milano, 2000
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formazione. Clueb, 1997
- Genevay B, Le emozioni degli operatori nella relazione d’aiuto,
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- Zannini L., Salute, malattia e cura. Franco Angeli,2001
82
83