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Versione informatica 2010

Viva la squola. (1)

«Barricati» dietro una cattedra


Ricordi scolastici (dolci ed amari) di quarant'anni fa

Ho cominciato ad insegnare a pieno titolo (ovvero con la laurea


appena conseguita) proprio quarant'anni fa. Avevo già fatto due
anni prima un'esperienza da docente, quando frequentavo la
facoltà di Magistero di Bologna, sostituendo un'insegnante di
Lettere trasferita nelle classi differenziali delle Medie, la cui
sede era nelle storica residenza della famiglia Sartoni poi
demolita per far posto al palazzetto dello sport, vicino allo stadio
comunale.
C'era stata la riforma della Media unica, con un incremento
considerevole di cattedre, mentre il personale disponibile con il
titolo legale richiesto non era sufficiente a ricoprirle tutte. Al
Magistero bolognese (nato nel 1955) giungevano offerte
direttamente dai Provveditori che pregavano gli studenti di
accettare anche le sedi più disagiate, in cambio di uno stipendio
modesto che però era più dignitoso di quello d'un tempo, grazie
al miracolo compiuto qualche anno prima da Amintore Fanfani.
Da capo del governo egli non dimenticò di essere uomo di quella
scuola da fame che c'era allora, e provvide a decretare un
aumento consistente delle buste-paga del corpo insegnante. E
pensare che noi studenti proprio in quegli anni cantavamo alla
festa delle matricole una canzoncina nei suoi confronti che
diceva: «Io son Fanfani, figlio di Biancaneve e dei Sette Nani»,
giocando sull'allusione al Biancofiore di democristiana memoria.

Poeti moderni?
Che scandalo
Quella supplenza del 1964 da studente fra studenti (con la
preside che m'intimò: «Lei dica che è laureato, altrimenti non la
rispettano»), cominciò a gennaio e terminò con l'anno scolastico.
L'orario di cattedra prevedeva una prima classe della nuova
Media ed un'altra del vecchio Avviamento professionale che
concludeva la sua storia.
Due episodi mi sono rimasti impressi di quell'esperienza. Per
spiegare il contesto storico-culturale di alcune poesie francesi
dell'Ottocento, portai da casa il materiale illustrativo ed un
registratore con cui ascoltare musica di Debussy. La
sperimentazione didattica non fu gradita. La musica infastidì la
preside che entrò in aula per chiedermi di abbassare il volume, e
che in sede di scrutinio finale disse con malcelata amarezza:
«Oggi fanno studiare anche la poesia moderna».
Il secondo episodio riguarda una vicenda che pur essendo
grottesca e di nessun momento, creò uno scompiglio terribile.
Una ragazzina della «mia» prima fece scivolare nel corridoio fra
le mani di un coetaneo un bigliettino. La bidella si sentì
autorizzata a sequestrarlo ed a consegnarlo alla preside, non
tanto in nome delle leggi in vigore quanto per il rispetto delle
consuetudini trionfanti che talora possono diventare norme da
rispettare ad ogni costo, senza curarsi nemmeno del senso del
ridicolo.

Il messaggio
sequestrato
La preside convocò la bambina, telefonò al padre segnalando la
gravità dell'episodio, soprattutto in relazione al contenuto
considerato pericolosamente lesivo della dignità istituzionale.
Nel foglietto al centro dell'indagine (che avrebbe dovuto
concludersi con un più che sacrosanto provvedimento di
punizione, secondo la preside), si leggeva: «Se domenica mi vuoi
baciare vieni al cinema di San Nicolò».
Il padre della fanciulla mi telefonò tra il preoccupato e
l'irridente, sentendosi poi sollevato da una mia risata di
commento. L'episodio finì in nulla quando dichiarai alla preside
che giudicavo il fatto del tutto innocente e quindi da non colpire
con una sanzione disciplinare. La preside s'arrese. Ed immagino
che intimamente pensasse come le nuove leve di insegnanti
fossero peggiori dei loro allievi. E che quindi non avrebbero
potuto svolgere nessuna funzione educativa nell'Italia di
domani. Come la signora ebbe modo di far intravedere agli
scrutini di fine anno con un lungo monologo minaccioso al pari
del cielo che scorgevamo alle sue spalle. Man mano che
s'avvicinava il temporale, le sue parole diventavano sempre più
nervose.
Fortuna volle che la riunione terminasse prima dello scatenarsi
di una specie di diluvio universale. Feci in tempo ad arrivare a
casa in bici. Cominciò a piovere a dirotto ed a tirare un vento dal
mare che entrava in casa attraverso le doppie finestre
spegnendo la candela resasi necessaria per l'interruzione
dell'energia elettrica. Era una scena surreale per chi l'aveva
immaginata ascoltando la ramanzina sulla vita di scuola, sugli
obblighi educativi, e su altre cose che venivano fuori da un
amarcord in cui mancava soltanto il tocco finale del salto del
cerchio infuocato e del saluto al duce.

Beatles, Kruscev
ma anche Vietnam
Il 1964 è l'anno dei Beatles (altro che Debussy), ma anche della
destituzione di Kruscev, della morte di Palmiro Togliatti e di
Nehru, della visita di Paolo VI in Terrasanta, dell'elezione di
Giuseppe Saragat a capo dello Stato al posto di Antonio Segni
dimessosi per malattia, e delle prime rivolte studentesche nel
campus dell'Università della California a Berkeley contro la
guerra in Vietnam (iniziata nel 1962). Negli Usa mandavano a
combattere gli studenti che avevano i libretti più bassi, mentre
aumentava il malessere sociale denunciato da inchieste ufficiali:
oltre il 40 per cento della popolazione viveva al di sotto della
«soglia di povertà» e contemporaneamente crescevano le spese
militari dello Stato. Nell'agosto del 1964 in risposta ad un
attacco nordvietnamita ad unità navali americane nel golfo del
Tonchino, il presidente Lyndon Johnson inizia il
bombardamento di obiettivi militari nel Vietnam del Nord.
In Italia ci s'accorge in massa del problema due anni dopo,
appunto nel 1966 con una canzonetta di Gianni Morandi: «C'era
un ragazzo che come me amava i Beatles / e i Rolling Stone,
girava il mondo ma poi finì / a far la guerra nel Vietnam... nel
suo paese non tornerà / adesso è morto nel Vietnam...». Nella
primavera del 1966 la questione più seria all'ordine del giorno
nelle scuole è il caso della «Zanzara», giornale scolastico del liceo
Parini di Milano. Il numero distribuito per san Valentino,
raccoglie le opinioni di nove studentesse su vari temi (famiglia,
morale, religione e sesso). Rifiutano, tra l'altro, l'autoritarismo
dei genitori ed il «controllo dello Stato e della società sui
problemi del singolo». Si preannuncia il «Sessantotto».

Il processo
alla «Zanzara»
Per molti studenti in quegli anni la cattedra rappresenta
l'autoritarismo del predominio borghese. Per molti insegnanti, è
la trincea da cui difendere la dignità di un'istituzione pubblica.
Un po' dopo le frange più rumorose degli allievi e degli stessi
insegnanti invocheranno l'abolizione fisica della cattedra, quale
barriera al dialogo educativo.
Alla «Zanzara», ha osservato Diletta D'Amelio nella sua tesi di
laurea in Scienze politiche (2003), collabora tra 1962 e 1966
Walter Tobagi, al ginnasio «prima solo occasionalmente, quindi,
dal liceo, come redattore fisso, e infine come capo-redattore».
Tobagi, divenuto giornalista al «Corriere della Sera», sarà ucciso
la mattina del 28 maggio 1980 da un gruppo armato guidato da
Marco Barbone.
Dall'articolo del giornale studentesco milanese nasce uno
scandalo di portata nazionale che finisce in tribunale. Due
documenti del tempo. Scriveva Miriam Mafai: «Il preside del
Parini e i tre studenti sono rinviati a giudizio per il 30 marzo. Il
23, per la prima volta nel dopoguerra, migliaia di studenti
scendono in piazza in segno di protesta. Gli imputati, difesi da
alcuni tra i più noti avvocati italiani (Giacomo Delitala,
Giandomenico Pisapia, Alberto Dall'Ora) verranno assolti,
stabilendo quindi il principio che anche sui giornali scolastici è
lecito discutere di sesso». Camilla Cederna osservava sul
processo: «Da una parte il presidente Luigi Bianchi d'Espinosa,
rappresentante l'indirizzo più moderno della magistratura ed
estremamente sensibile allo spirito della Costituzione, e
dall'altra il pubblico ministero Oscar Lanzi, definitosi da sé il
rappresentante di un'era superata, appassionato parlatore e
grande attore involontario».

Discussione
al Serpieri
Anche Rimini discute del caso. In quella primavera stavo
svolgendo una supplenza di Filosofia al liceo scientifico Serpieri.
Un gruppo di studenti m'interpella per una conversazione
pomeridiana autogestita (l'aggettivo non era ancora entrato nel
lessico studentesco). Ci vado volentieri, discutiamo a lungo con
libertà ed amicizia. Poi alla fine, uno dei ragazzi della mia terza
classe mi ferma: «Lei ieri ci ha dato un'interpretazione luterana
di sant'Agostino». Mi mostra il quaderno degli appunti. Gli spiego
che la frase tra virgolette non era un mio commento ma un testo
dello stesso filosofo d'Ippona. Il giovanotto si giustifica: ha
ricevuto l'imbeccata dell'appunto sugli appunti del sottoscritto
da un mio collega di corso.
Qualche mese dopo sulla vicenda della «Zanzara» esce un libro di
Guido Nozzoli e Pier Maria Paoletti. Vi si osserva che essa era
«l'espressione di due Italie separate da un confine che risulta
invalicabile». Sul quale c'erano le nostre cattedre. Del libro si
legge oggi nel sito ufficiale del «Parini» che esso racconta «la
cronaca esatta, fedele, di una vicenda esemplare del costume e
della vita sociale italiana».
Viva la squola. (2)
1963, la rivoluzione della Media unica
Era l'anno della «Pacem in terris» di Giovanni XXIII

Fu una vera rivoluzione culturale la nascita della nuova scuola


Media unica istituita nel gennaio 1963. L'obbligo scolastico fu
portato al quattordicesimo anno d'età, e scomparve il doppio
binario dopo le Elementari con la Media che poi conduceva agli
istituti superiori di tipo liceale, e l'Avviamento che instradava
alle Professionali. Le quali ebbero un ruolo importante di seria
preparazione tecnica per tanti giovani, e di procacciamento di
un qualificato posto di lavoro. Alla base della riforma della
nuova Media c'era il progetto di rendere eguali nei punti di
partenza tutti gli studenti che uscivano dal ciclo delle
Elementari.

L'anno precedente
il Vaticano II
Prima del 1963 per accedere alla Media occorreva superare un
doppio esame: quello di licenza elementare, e quello di
ammissione. La nuova legge modificava tradizioni e costumi.
Provocò accese reazioni. Era giudicata troppo progressista. Si
temeva che i grandi numeri degli allievi potessero inquinare la
sete di sapere dei migliori. In realtà si eliminava il primo segno
di una selezione sociale che cominciava troppo presto, al
termine della quinta elementare, quando secondo i programmi
l'allievo doveva essere in grado di leggere, scrivere e far di
conto.
La nuova Media nasceva come una specie di utopia politica
prima che culturale, in un momento storico del tutto particolare.
Nel 1962 il congresso nazionale democristiano di Napoli
approva la linea politica del Centro-sinistra. Si inaugura il
concilio ecumenico Vaticano II. Fanfani diventa capo del
governo, con l'appoggio esterno del Psi. Si nazionalizza l'energia
elettrica con l'Enel. Nel 1963 papa Giovanni XXIII poco prima di
morire pubblica la «Pacem in terris». A Fanfani dopo il governo
monocolore democristiano "balneare" (tanto per far passare
l'estate) di Giovanni Leone, subentra Aldo Moro: è il primo
quadripartito organico di Centro-sinistra con Dc, Psi, Psdi e Pri.

Nuova legge,
vecchia scuola
I programmi avevano ambizioni forse eccessive. Per chi era da
molto tempo nella professione, apparivano pieni di troppe
pretese di cambiamento. Il tran-tran era stato bandito, si voleva
una cultura di base per tutti con una generosità di propositi a
cui non corrispondeva altrettanta abbondanza di mezzi.
Polemiche e discussioni accompagnarono la nascita della Media
unica. Bisognava registrare nuovamente gli orologi mentali.
Ero svergognatamente avvantaggiato, non soltanto perché al
primo anno di lavoro, ma anche perché provenivo dal corso di
Pedagogia dove i nostri docenti ci avevano preparato alle
originali tematiche culturali ed educative della nuova scuola. Il
guaio era che, considerato pivellino perché al debutto, non mi
era possibile proporre qualcosa nelle discussioni tra colleghi,
dove vigeva il doppio principio di autorità e di anzianità. A
gestire con ironici sorrisi di compatimento i cambiamenti voluti
dalla legge, furono persone che avevano ricevuto la loro
formazione dall'università del periodo fascista. Erano
mentalmente impreparate a credere nei diritti dell'infanzia e
dell'adolescenza, ed incapaci di ritenere che la scuola fosse
qualcos'altro che costrizione ed obbedienza.

Al Magistero
bolognese
Il mio docente di Pedagogia era stato Giovanni Maria Bertin.
Furono anni di grandi maestri al Magistero. C'erano Ezio
Raimondi per Letteratura italiana, Gina Fasoli per Storia
medievale e moderna. Sarebbe poi arrivato in Storia della
Filosofia, al mio terzo anno, Paolo Rossi il quale avrebbe quasi
sùbito abbandonato Bologna per Firenze. Estetica era affidata a
Luciano Anceschi, Sociologia ad Achille Ardigò (che aveva un
assistente terribilmente dongiovanni). Enzo Melandri tenne le
lezioni del mio secondo corso (al quarto anno) di Filosofia
teoretica, trattando di Logica simbolica, subentrando ad un
collega che la carità di patria cancella dal ricordo. Con Rossi
presi la tesi, sull'Irrazionalismo italiano nelle riviste culturali
del primo Novecento, avendo come contro-relatore Raimondi, il
quale nel frattempo mi fece pubblicare un breve saggio nella
rivista «il Mulino», dedicato ad un libro di Luigi Barzini junior,
«Gli italiani». (Ne «Il Giorno» del 18 gennaio 1966 Alberto
Arbasino raccontava della scuola di critica letteraria bolognese
al Magistero guidata da Raimondi. Il quale degli allievi diceva:
sono «attratti dal metodo 'scientifico' in quanto contrario sia alla
pedanteria scolastica sia allo sfarfallamento sentimentale che
perde di vista il testo».)
Bastano questi nomi per fotografare il clima intellettuale della
nostra 'piccola' Facoltà, i cui allievi erano considerati di grado
inferiore rispetto agli altri universitari perché usciti dall'Istituto
magistrale che era più breve di un anno dei due Licei (dai quali
si riteneva sortisse la crema della cultura nazionale). Noi delle
Magistrali di Rimini provenivamo poi da una scuola comunale,
in cui non sempre i docenti erano il meglio della piazza, se li
confrontavamo con quelli dei due Licei cittadini. La nostra era
una preparazione in genere modesta, tutta centrata su di un
apprendistato intellettuale svolto con molta superficialità,
anche per colpa dell'indisciplina delle classi. Alla quale doveva
far fronte il preside Ermenegildo Prosperi, latinista autorevole
(e temibile in certe interrogazioni impreviste, quando sostituiva
insegnanti assenti).

Due maestri
riminesi
Ho avuto due ottimi docenti di Lettere in terza ed in quarta
magistrale: Eraldo Campagna e Gianfranco Micheli. Campagna
ha esercitato su di me un benefico influsso, con la sua passione
verso la Letteratura che lo portava ad una specie di estasi nel
corso delle lezioni, fin troppo particolareggiate e quasi
sfarzosamente barocche nelle spiegazioni della «Divina
Commedia». L'altra faccia della sua medaglia, era il disinteresse
verso la Storia che lo portava a darci cattivi consigli come quelli
di saltare nel libro di testo certi argomenti fondamentali.
Consapevolmente sacrificava le lezioni di Storia a quelle di
Italiano, ritenendo che tutto lo studio dovesse ridursi al mondo
delle Lettere. A Campagna debbo la scoperta di Francesco De
Sanctis, autore che approfondii durante le vacanze estive, con la
lettura quasi integrale della sua «Storia» che mi aprì al
programma dell'ultima classe e mi confermò nel mio interesse
verso questo tipo di studi (benché non avessi allora nessuna
intenzione di proseguirli).
Micheli era un parlatore elegante, sapeva con raffinatezza
tessere trame originali fra gli argomenti trattati, aprendo nuove
prospettive e suscitando curiosità. Per le sue doti poté
proseguire proficuamente il lavoro di Campagna e prepararci
con dignità alla prova dell'esame di Stato, dove io svolsi il tema
sulle «Poesie scritte col lapis» di Marino Moretti, autore assente
nel libro di testo e nel nostro programma.
L'approdo alle lezioni di Bertin fu una specie di trauma.
Avevamo studiato soltanto Filosofia e niente Pedagogia con
Gianna Di Caro, paziente e preparata ma legata ad un sistema
idealistico-storicistico conciliato con il suo marxismo che la
portava a leggere la successione dei pensatori come un
perfezionamento inevitabile delle idee. Gianna Di Caro era
subentrata in terza ad un insegnante laureatosi in età da
pensione. Costui appariva estremamente assorto nell'introdurci
ai segreti della Filosofia, che forse amava ma che non sapeva
farci amare. Anzitutto era poco dialettico, o meglio decisamente
schematico, e sempre irridente nei confronti di autori che
considerava non all'altezza delle sue interpretazioni. Un mezzo
sorriso di ironico disgusto segnava i capoversi del suo
discorrere. Sembrava che il riflesso del suo luminoso intelletto
dovesse proiettarsi sulle pareti dell'edificio squallido di piazzetta
Teatini, sede poi dichiarata pericolante.

La «scoperta
dell'America»
La nostra generazione 'di mezzo' (dopo la guerra e prima della
contestazione) non aveva nessuno strumento autonomo per
giudicare e comprendere, al di fuori del bagaglio che ci veniva
affidato quotidianamente da portare con fatica e scarsa
soddisfazione. Arrivare al Magistero bolognese con tutti quei
Maestri era davvero la «scoperta dell'America», di un mondo
nuovo e diverso di fare Cultura. Il ruolo avuto da Bertin (1912-
2002) nella mia maturazione, l'ho compreso durante
l'insegnamento, negli studi storici, nel vivere giornaliero. La sua
formula della «visione problematica della realtà» precisa un
metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una
riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma
certamente utile. Essa suggerisce di evitare ogni soggettivismo
che può fuorviare e portare ad accettare il pregiudizio. Essa
dimostra che non dobbiamo consolidare una visione della vita
soltanto egoistica. E che non dobbiamo rifiutare il principio
secondo cui ci sono anche gli altri ad agire su quella stessa
visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente
rapportati.
La stessa «visione problematica della realtà» conclude poi ad una
concezione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è
l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta nella
«soppressione della contraddizione». Riassumo il pensiero di
Bertin con queste sue parole: «Ogni tipo di giudizio è
problematico» («Educazione alla ragione», 1973).
L'atteggiamento problematico è un abito mentale da accettare in
ogni momento della vita intellettuale e pratica. Il nostro dovere
è di non sottrarci dall'assumere responsabilità di fronte
all'analisi degli atti di pensiero e delle azioni concrete,
ricordandoci che essi debbono corrispondere ad un disegno
morale.
Viva la squola. (3)
La pedagogia pratica dell'«asino vivo»...
... meglio del «dottore morto», secondo nonna Lucia

Finita la terza Media nel 1956, ero stato molto indeciso sulla
scelta della scuola da frequentare. Mio padre avrebbe gradito
che m'avviassi ad un corso liceale. Lo compresi tanto tempo
dopo. La mia incertezza nasceva dalle notizie che giravano sui
percorsi ad ostacoli rappresentati da Scientifico e Classico. Lo
Scientifico lo scartai a priori, in considerazione della mia
incompatibilità con la Matematica. Del Classico si diceva che
rendeva impossibile la vita a persone normali come me, con
professoresse terribili, lezioni concluse con l'assegnazione di
interminabili versioni di latino, e soprattutto lo studio del Greco
che sigillava ogni spauracchio.
Avevo conoscenti e parenti che dicevano d'esser stati costretti a
scappare come Garibaldi verso il rifugio di San Marino dal
«Giulio Cesare» riminese. Vi troneggiava il preside Arduino
Olivieri, austero e solenne come un monumento vivente alla
Cultura, e futuro mito felliniano nella rivisitazione di
«Amarcord».

«Dove vai?»
«Non lo so»
Dopo aver concluso l'esame di terza Media, un pomeriggio mio
padre ed io incontriamo il maestro Antonio Di Jorio (1890-
1981), insegnante di Musica, direttore della banda «Città di
Rimini» (per la quale mise fuori di tasca propria molti soldi,
come mi raccontò sua figlia Pasquina) ed anche antico direttore
delle Magistrali di Forlimpopoli, paese d'origine di mio padre. Di
Jorio mi chiede: «Ed allora dove vai?». Con la sicurezza di chi ha
già la risposta in tasca gli dico: «Non lo so». Di Jorio mi guarda
mostrando un affetto paterno che gli derivava da una lunga
consuetudine con la mia famiglia, e taglia la testa al toro: «Fai
come zio, vai alle Magistrali». Mio zio Guido (classe 1918),
fratello di mia madre, aveva frequentato l'Istituto Valfredo
Carducci di Forlimpopoli proprio al tempo in cui lo aveva
guidato il maestro Di Jorio. Il quale sapeva pure che lì molto
tempo prima aveva studiato anche mio padre (classe 1901)
beccandosi un tre in Musica da riparare a settembre perché
terribilmente stonato nel «canto corale». A nulla gli era valso il
nove in Italiano con il prof. Federico Ravagli (1889-1968), lo
scrittore amico di Dino Campana.

La nonna Ida
maestra rurale
Mio padre si chiamava Valfredo perché era stato tenuto a
battesimo da Valfredo Carducci, il fratello di Giosue il poeta.
Valfredo Carducci è ancor oggi ricordato tra l'altro per aver
affibbiato ad un allievo della scuola il soprannome di «matto di
Predappio». Si trattava di Benito Mussolini che nel 1901,
presentando domanda per una supplenza a Legnano, si definiva
«licenziato d'onore dalla Regia Scuola Normale di Forlimpopoli».
Nello stesso paese mia nonna paterna Ida Zaccarini era stata
maestra rurale. Dunque, esisteva una specie di condizionamento
biologico (dimenticavo: un fratello di mio padre fu direttore
didattico a Ravenna e poi ispettore a Bologna), a guidarmi verso
le Magistrali. Per correttezza debbo aggiungere che una discreta
dose di viltà nello sfidare gli ostacoli, mi convinse (o costrinse)
nella scelta.
Quali attenuanti al mio comportamento, invoco due massime che
avevo sempre sentito propagandare caldamente in casa. Nonna
Lucia (classe 1881) non si preoccupava troppo del mio
rendimento scolastico, anteponendo ad ogni valutazione di esso
un principio che per lei doveva essere una di quelle frasi da
inculcare in ogni mente giovanile come regola da mettere in
pratica prima di tutto e contro tutto: «E' meglio un asino vivo di
un dottore morto». Nelle giornate più propizie elencava una serie
variopinta di persone rimaste vittime sotto l'aspetto psichico di
un eccessivo attaccamento allo studio. Come madre lei aveva
però costretto sempre mio zio a passare lunghi pomeriggi nella
sua camera chino (in apparenza) sui libri, impedendogli di
uscire di casa. Lui aveva risolto il problema della reclusione
evadendo dalla soffitta, sulla quale la nonna non poteva
esercitare un diretto controllo. Fu così che in ogni giornata di
tempo buono, tutto l'isolato attorno a palazzo Lettimi dove
abitavano e dove sono nato, era oggetto delle perlustrazioni che
lo zio compiva camminando sui tetti.

Il passo
e la gamba
L'altra massima filosofica che risuonava tra le mura domestiche,
era quella pronunciata da mia madre con una convinzione quasi
religiosa: «Non si deve fare il passo più lungo della gamba». Come
regola di vita, essa può essere facilmente smentita dal folto
repertorio deducibile dalle biografie di personaggi che partiti dal
nulla hanno raggiunto fama, successo e soldi. Essa rispecchiava
una mentalità piccolo-borghese che s'accontentava di quello che
c'era, non desiderava l'impossibile, e dettava una norma di
comportamento la quale nasceva pure da una profonda
moralità: non compiere azioni cattive per raggiungere risultati
altrimenti impossibili. Occorre rammentare che la nostra
generazione doveva subire anche la cantilena continua della
guerra che aveva distrutto tutto, per cui ogni piccola conquista
era inevitabilmente considerata un grande traguardo. Non
possiamo guardare oggi a quelle antiche pagine grigie e grame
con gli occhi dei posteri che hanno facile accesso ad ogni oggetto
di consumo con poca spesa (rispetto ad allora).
Fatto sta, dunque, che mi iscrissi alle Magistrali, conseguendo
nel primo anno un risultato pressoché disastroso. Confermato
nella mia antipatia verso la Matematica, fui rimandato ad
ottobre, come si diceva dimenticando che gli esami di seconda
sessione si svolgevano a settembre. Pagavo pegno per la lettura
sottobanco della «Gazzetta dello Sport» in quelle noiosissime ore
trascorse in un silenzio surreale che aveva come unica
alternativa un ben più compromettente sonnellino. Dopo
quell'estate trascorsa chino sui libri, smisi di leggere i quotidiani
sportivi. Ma la Matematica non fu sola. Dovetti riparare non so
perché in Francese, nonostante una discreta pronuncia (insolita
in città, dove l'influsso dialettale è deleterio), grazie alla
capacità linguistica di mio padre il quale parlava correntemente
anche il Tedesco (che però non m'insegnò mai).

«Piove» sul tema


e son bocciato
Non c'è due senza tre: nell'ultimo trimestre mi rovinai (o per
meglio dire, mi fu rovinata) la più che sufficiente media in
Italiano. Nel compito in classe conclusivo scelsi il titolo che
diceva semplicemente: «Quando piove». Ispirandomi al
proverbiale svolgimento del Pierino delle barzellette, che
dovendo trattare di «Quando passa il treno» condensò i suoi
pensieri in un laconico: «Mi sposto», mi sarei forse salvato se
avessi scritto soltanto: «Apro l'ombrello». Invece mi dedicai con
aperta vena confidenziale a spiegare quanto fosse «bello» andare
in bicicletta sotto l'acqua. Apriti cielo, fu proprio il caso di dire
nel fatidico giorno della pubblica correzione dei compiti quando
ognuno di noi veniva messo alla berlina se di sesso maschile, od
elogiato se apparteneva alla eletta schiera delle femmine che
chissà perché sapevano fare tutto, e se anche non capivano
granché trovavano in genere completa comprensione da parte
delle insegnanti, e anche da parte degli insegnanti (maschi) nei
casi rari e particolari in cui alla capacità subentrassero
esclusivamente simpatia o bellezza.
Pure in seconda ripassai a settembre per Italiano perché la
nuova professoressa non gradiva le mie spiegazioni letterarie.
Trascorsi l'estate ad esercitarmi con un amico di mio padre, il
prof. Nevio Matteini, noto scrittore e studioso di storia riminese.
Alla lettura della prima prova scritta che mi aveva assegnata (i
suoi titoli erano chiaramente liceali, ovvero non facili), ebbi la
soddisfazione di sentirmi dire: «Ma lei sa scrivere». Le cose
filarono lisce in terza e quarta, soprattutto in Italiano.
In terza il prof. Campagna s'accorse che c'erano allievi bravi allo
scritto ma che poi facevano scena muta all'orale. Ideò un
tranello, un compito in classe all'improvviso in cui i furbi
vennero scoperti. (Uno di loro era molto organizzato. Per lo
scritto di Latino portava a scuola pagine e pagine di versioni già
tradotte. Una volta si smascherò da solo non essendosi accorto
che il testo datoci dalla insegnante era più breve di quello che
ricopiò lui.) Avevamo il turno pomeridiano. Con la terza che
andava al mattino, e quello stesso giorno aveva affrontato pure
essa il compito in classe, il prof. Campagna s'era vantato del
tranello preparato. Qualche compagno di lotta e di sventura ci
avvertì del progetto punitivo e soprattutto dei temi assegnati,
che sarebbero stati gli stessi anche per noi. In pochi minuti chi
sapeva qualcosa di letteratura poté documentarsi su argomenti
di una pignoleria terrificante, e fare ottima figura con grande
soddisfazione anche del docente.

Coro solenne
in Comune
All'esame di maturità come si dice oggi (allora era d'«abilitazione
magistrale») si portavano tutte le materie, compresa Musica e
canto corale, dove avevamo avuto per un certo periodo come
insegnante il maestro Di Jorio, dopo la scomparsa della gentile
Mariolina Tosi che anziché della sua materia trattava con garbo
di morale e Religione. Di Jorio ci rallegrava eseguendo al
pianoforte canzoni classiche o moderne. Di Storia della Musica
non sapevamo nulla. All'esame mi chiesero di parlare di un
compositore. Dissi di Verdi: sui muri il suo cognome significò
«Vittorio Emanuele Re d'Italia».
Per il centenario del 1859 il Comune organizzò una cerimonia
all'Arengo con tanto di coro delle Magistrali diretto da Di Jorio.
Alle prove mi cacciò bruscamente perché steccavo (...come mio
padre). Mi recuperarono per reggere la bandiera. Finito il
concerto, al rinfresco in una sala di palazzo Garampi le nostre
ragazze in un baleno versarono nelle capaci tasche dei grembiuli
neri tutti i cioccolatini del buffet.
Viva la squola. (4)
Per le antiche scale delle nostre scuole
Valturio, obbligo di cravatta, divieto di mangiar panini

La sede delle Magistrali di piazzetta Teatini era la più indegna di


tutte le scuole cittadine. Eravamo stati abituati ad un vivere
spartano fin dalle Elementari nel Borgo San Giovanni. In prima
classe mancava addirittura la ringhiera alla scala. In quarta
misero la serratura alla porta perché era stata acquistata una
radio mediante la raccolta dei fondi tra noi studenti. In quinta
andammo alla De Amicis che sembrava una scuola di lusso.
Maestoso l'edificio, controllato da una direttrice che fulminava
al solo guardarti. In prima Media frequentammo il bel palazzo di
via Brighenti, ma la nostra aula era nel cortile in fondo al
corridoio, una specie di dependance ridotta all'osso. Per la
seconda e la terza fummo ospitati nel palazzo Buonadrata che
allora aveva il cortile (dove adesso si trova una banca). Per
entrare nelle aule dovevamo transitare lungo un ballatoio che
s'affacciava sullo stesso cortile.
La sede di piazzetta Teatini fu dichiarata inagibile dopo la visita
di controllo da parte di un tecnico comunale che si mise a saltare
sui pavimenti, facendoli ondeggiare in maniera non so se comica
o spaventosa. Gli altri tre anni li trascorremmo in via Tempio
Malatestiano, a palazzo Visconti divenuto successivamente sede
del Museo comunale e quindi passato alla Biblioteca nei piani
superiori dove noi avevamo le nostre aule, finalmente pulite ed
ariose.

Al Valturio
con la cravatta
Nel palazzo Gambalunga aveva sede l'istituto Roberto Valturio
per ragionieri e geometri presieduto dal prof. Remigio Pian, un
personaggio nella vita cittadina al pari di Arduino Olivieri, con la
differenza che non è mai finito in un film di Fellini ma ha
ricevuto gloria soltanto negli amarcord personali degli studenti
ed in quello collettivo della città.
La decisione più memorabile da lui presa, a detta di tutti gli
studenti che lo hanno avuto come preside, è diventata un dato
ormai classico nella storia pubblica riminese: e riguarda l'obbligo
imposto agli allievi d'indossare la cravatta per essere accettati a
scuola. Il controllo era suo personale. Il suo ufficio s'affacciava
sullo scalone di palazzo Gambalunga. Il preside s'affacciava
sull'ufficio e poteva dominare la situazione con la calma
fermezza che contraddistingueva ogni sua azione.
Gentiluomo d'antico stampo, di formazione mitteleuropea,
portamento naturalmente austero, si esprimeva con abiti
solamente scuri quasi da cerimonia. Amante della perfezione e
della disciplina, era l'antitesi dell'irruenza giovanile dei suoi
studenti. Molti dei quali avrebbero poi rimproverato a quella
regola della cravatta obbligatoria, un contenuto classista che
essa non aveva per volontà del preside. Ma che finiva
inconsapevolmente per essere considerata espressione di una
insensibilità verso le condizioni delle famiglie degli alunni, le
quali facevano fatica a mettere assieme i soldi per comprare i
libri di testo. Figurarsi se riuscivano a pensare anche alle spese
ritenute superflue come per quell'ornamento da giorno di festa.

Borghesi
e proletari
In questo contesto la cravatta imposta nel Valturio dal suo
preside è stata in molte rivisitazioni del passato un capo
d'accusa verso una società borghese che voleva perpetuare i
propri riti, continuando ad escludere dalla propria cerchia ben
protetta i figli dei proletari. Credo onestamente che Remigio
Pian non avesse queste intenzioni, ma che esse potessero
essergli attribuite con assoluta tranquillità in maniera
retrospettiva appunto nei successivi momenti particolarmente
accesi della «contestazione» politica. Quando gli alunni erano già
cresciuti e Pian era in pensione, e si guardava al passato con un
giudizio inevitabilmente severo e necessariamente provocatorio.
La «disciplina» era una specie di «summa theologica» che ogni
preside aveva l'obbligo di imporre per legge, interpretare a suo
piacimento e condensare materialmente in disposizioni che ne
fossero la realizzazione più adatta secondo il suo modo di
vedere. Qualche anno dopo avremmo sentito parlare di presidi
che si facevano dare del tu dagli studenti, come nei nostri giorni
i superiori usavano con noi che rispondevamo con il lei
d'ordinanza, molto meglio del cameratesco voi d'anteguerra.
Il rispetto della «disciplina» imposta si traduceva per gli studenti
nel timore d'un basso voto di condotta che poteva anche costare
la bocciatura in tutte le materie. Per le autorità scolastiche la
«disciplina» era una specie di mito da perpetuare, un misto di
preparazione alla vita militare e di regolamento che abituasse
pure a quella civile. Fu così che molte persone correttamente
fedeli alla loro immagine di Stato o di Società finirono per essere
testimonianze di un'archeologia sociale che potremmo definire
anche politica.

Un completo
di jeans
Quando frequentavo nella primavera del 1960 la quarta
magistrale, comperai nel mitico negozio dei fratelli Sarti che ne
furono i primi importatori, un completo di tela di jeans, giacca e
calzoni, che feci debuttare in un tranquillo pomeriggio a scuola.
Il preside mi vide all'ingresso, mi tenne d'occhio, e durante la
ricreazione venne ad accertarsi della mia tenuta nel corridoio
vicino alla nostra aula. Impassibile, mi fece un giro attorno
guardando con attenzione (soltanto curiosità e nessuno
scandalo, immagino) alla stoffa che indossavo. Racconto
l'episodio per spiegare che bastava poco per essere messi sotto
osservazione e passare per «gioventù bruciata» come si diceva
allora ripetendo il titolo di un celebre film del 1955 con James
Dean.
Il rispetto della «disciplina» poteva produrre anche decisioni che
poi avrebbero arricchito il repertorio degli aneddoti più citati
nello stesso Valturio, dove ho insegnato successivamente per
tanti anni. Una volta fu imposto il divieto di fumare per un
raggio di 400 metri dal corridoio centrale dell'istituto di palazzo
Gambalunga. In tal modo finiva sotto la giurisdizione scolastica
del Valturio non soltanto la vicina piazza Ferrari ma persino lo
stesso Ospedale civile che si trovava nella sede dell'attuale
Museo della Città (ex-convento dei Padri Gesuiti). Ovviamente
non c'erano preoccupazioni di tipo sanitario sull'uso ed abuso del
tabacco, ma esisteva soltanto la necessità di evitare che qualche
sconsiderato scavezzacollo potesse gettare la cenere della
sigaretta sul pavimento della scuola che doveva restare
immacolato e brillare in ogni attimo della giornata. Ed a tal fine
fu preso anche un secondo provvedimento che proibiva agli
studenti di mangiare panini nei corridoi. Secondo racconti
postumi più o meno fantasiosi, si sarebbe affermato in una
circolare fatta girare per le classi, che l'operazione
dell'addentare e del masticare una qualsiasi merenda avrebbe
provocato la caduta di briciole che avrebbero finito con lo
sporcare il «sacro suolo della Scuola».

Il bidello
lavativo
Non posso garantire che l'aggettivo «sacro» apparisse veramente
nel testo della circolare. Ma posso immaginare che essa
nascesse dalle lamentele dei bidelli, uno dei quali era ancora in
servizio «ai miei tempi», quando si dimostrava il personaggio più
lavativo di questo mondo, avendo a fastidio anche le cose più
semplici, come la richiesta di carta igienica per i gabinetti.
Garantisco di persona della veridicità dell'episodio (avvenuto
nella succursale di via Gallina alla Colonnella nei primi anni
Settanta). Uno studente in evidente stato di bisogno corporale,
chiede al bidello con una certa premura quanto necessario ad
adempiere alle sue necessità fisiologiche. Il bidello anziché
soddisfare la richiesta, risponde con una domanda che cercava
di appurare che cosa il giovane dovesse fare con la carta
igienica. Essa arrivò molto probabilmente in ritardo grazie
all'arguzia inquisitoriale del bidello.
Il quale riandando ai suoi tempi, che erano appunto quelli della
circolare anti-briciole, mi raccontava che stava tutta la mattina
con uno straccio in mano ed appena il preside s'affacciava nella
quotidiana ispezione ai piani, lui si metteva a fingere di pulire i
muri del corridoio. In apparenza dunque risultava una
lucidatura quotidiana di tutte le superfici verticali. In sostanza
in un intero anno scolastico, la polvere veniva rimossa dai muri
soltanto d'estate con un rito del tutto particolare con strumenti
eccezionali: un secchio d'acqua e numerosi stracci bagnati
ripetutamente in esso e manovrati con idonei manici di legno
conservati nell'apposito magazzino sorvegliato dai funzionari
della Provincia.
Quando ci ho insegnato io, molte cose erano cambiate. Ad
esempio, nei muri dei gabinetti degli alunni c'erano murales
pieni di oscenità. Non si sfottevano più i compagni come
accadeva quando eravamo stati studenti noi. Gli oggetti della
satira più spietata erano gli stessi insegnanti con frasi spesso
irripetibili ma che talora colpivano magnificamente nel segno,
come constatavo durante amichevoli sopralluoghi estivi guidato
dagli stessi bidelli che si divertivano da matti ad invitarmi a
leggerle. Non so se mai a nessuno sia venuto in mente di
raccogliere quelle scritte in un'antologia segreta. Mi pento
sinceramente di non averlo fatto. Racconterebbero la
rivoluzione culturale della scuola italiana con l'evidenza stessa
degli slogan pubblicitari che ascoltiamo ogni giorno. Di una
collega che s'adoprava continuamente in tutti i modi per
favorire e proteggere i suoi allievi, sperando così di realizzare il
suo estremismo politico da «lotta-continua», si leggeva che
esercitava a favore dei poveri la cosiddetta più antica
professione del mondo. Altro che briciole da non gettare per
terra nei corridoi.
Viva la squola. (5)
Romolo Comandini, grande maestro di vita
In prima Media pianse leggendo le storie di guerra

Quando vedo passare la mattina i bambini che vanno alla scuola


elementare curvi sotto uno zaino per nulla proporzionato al loro
fisico, mi assale un atroce dubbio: la Cultura è fatta consistere
oggi in una massa di oggetti che rischiano di schiacciare il
portatore? Vorrei sapere tanto quale serie infinita di cose e di
libri debbono insaccare in quello strumento di tortura che
quarant’anni fa era tipico dei militari di leva che incontravi nelle
stazioni ferroviarie in attesa del treno accelerato il quale
(nonostante il nome) era il più lento di tutti, ma pure era l’unico
sul quale i soldati erano autorizzati a salire per compiere a passo
di lumaca viaggi lunghissimi. Con i quali si accorciavano però le
distanze fra le regioni d’Italia e si affratellavano ogni giorno i
ragazzi del Sud con quelli settentrionali. Non ancora aspiranti
secessionisti.

Dalla cartella
alla cinghia
Allora i militari avevano l’obbligo d’indossare la divisa, ed erano
sorvegliati dalla ronda di tre colleghi che percorrevano le strade
della città ed entravano anche nei cinema. Poi la divisa è stata
gettata alle ortiche, i soldati non erano più tali, ma «borghesi»
qualsiasi, più liberi, ma anche meno controllabili sotto il profilo
dell’ordine pubblico. I loro pesantissimi zaini scomparsi dalle
immagini ferroviarie, oggi li incontriamo nelle ore d’ingresso e
d’uscita dalle scuole elementari. Madri, padri, nonni o zie
debbono a volte sostituirsi alla povera creatura che sarebbe
incapace di reggerne il peso.
La mia generazione era stata abituata alle elementari di oltre
mezzo secolo fa a recarsi a scuola con la cartella. In
quell’immediato dopoguerra, averne una di pelle era lusso
impossibile ai comuni mortali. C’erano i primi esemplari di una
materia nuova, che chiamavano plastica, più abbordabile, e
distinta dalla comune borsa di fibra, una parola che oggi
conosciamo con un altro significato. Nel mondo delle fibre
ottiche e vegetali soltanto noi vecchi (ed i dizionari: ma si usano
ancora?) sappiamo che la fibra era un cartone pressato (ed
impregnato in un bagno speciale: cloruro di zinco) usato in
valigeria per confezionare le cartelle rigidamente squadrate. Su
Internet nel sito del «Museo della Civiltà e del Lavoro in
Polesine», si legge che «la cartella doveva durare il più possibile
nella carriera scolastica altrimenti, se si rompeva, i genitori del
bambino gli costruivano una cartella di legno, molto più
pesante».
Negli anni successivi, quando eravamo diventati più grandi, la
cartella scomparve quasi del tutto (alla metà degli anni
Cinquanta) sostituita dalla cinghia di stoffa (negli anni
successivi quando già insegnavo divenne di elastico), che era il
massimo dell’indipendenza rispetto alle regole della scuola:
infatti essa non poteva raccogliere che qualche smilzo volume
oltre a due o tre magri quaderni messi assieme più per darsi
l’aria di studiare che testimoniare l’effettivo svolgimento dei
compiti a casa.

Severità
umana
Per mia sfortuna sono sempre stato dotato di una cartella.
Prima alle Elementari perché essa ci dava la dignità di essere
trattati come piccoli adulti. Poi perché alle Medie gli insegnanti
pretendevano che a scuola andassimo armati di tutto punto:
libri dizionari quaderni matite penne… In prima Media (1953-
54) quel grande educatore che fu il professor Romolo
Comandini, impose l’obbligo di avere anche il diario su cui
segnare i compiti da svolgere e le lezioni da imparare, con la
punizione prevista per gli inadempienti di un quattro nella
materia in cui il fatto si fosse verificato e accertato. Alle Medie
Panzini avevamo ancora quei vecchi banchi nei quali la cartella
si nascondeva in un ripiano posto sotto il piano di lavoro, e che
era grande come tutto il banco.
Era facile che qualcosa anziché avviarsi nella cartella si
perdesse nel buio di quel nascondiglio ove finivano anche le
merende e le cicche americane appiccicate temporaneamente
nei momenti meno adatti al loro uso. Mi capitò una volta di non
ritrovare più il diario dentro la cartella, e con gesto eroico,
giudicato folle dai compagni di classe, dissi a Comandini che lo
avevo lasciato a casa. Dove appena rientrato lo cercai
attentamente senza rinvenirlo. Mi fiondai di nuovo a scuola ed a
tastoni lo trovai nascosto nella parte più profonda del diabolico
ripiano del banco, come riferii la mattina seguente
all’insegnante. Il quale vista la mia auto-denuncia non se l’era
sentita di punirmi con il quattro previsto dalle sue stesse
disposizioni.

Figlio di
operai
L’episodio mi convinse che la sincerità è premiata dalla persone
oneste come era Comandini, uomo ancora giovane il quale però
aveva alle spalle la dura esperienza della guerra e del campo di
concentramento. Era nato a Roncofreddo nel 1915 (quindi non
aveva ancora 40 anni) in una famiglia operaia poi emigrata in
Francia. Era stato allevato da una prozia, negli anni del Ginnasio
inviato al collegio della Consolata a Torino. Aveva proseguito gli
studi nei seminari di Pennabilli e Fano, ed aveva frequentato
l’Istituto magistrale Valfredo Carducci di Forlimpopoli
diplomandosi nel 1936. Cinque anni dopo si laureò al Magistero
di Firenze. Partì per la guerra. In Jugoslavia fu fatto prigioniero
e deportato in Germania dal 1943 al 1945. Cominciò ad
insegnare alle Elementari, passò alle Medie inferiori e superiori.
Alle Panzini cittadine fu dal 1949 al 1957. Sino al 1966 insegnò
Lettere al Tecnico Roberto Valturio di Rimini. Infine divenne
preside a Cento ed a Forlì. Scomparve nel 1971, mentre stava
per conseguire la libera docenza in Storia della Chiesa, materia
in cui condusse studi di grande importanza, come ebbe a
sottolineare il prof. Augusto Campana in una conferenza
commemorativa tenuta a Sant'Agata Feltria: dove «appariva un
paesaggio grigio ed uniforme, oggi per merito suo si incomincia a
vedere una scena varia e viva».

Primavera
del 1954
L’indelebile ricordo dell’esempio educativo di Romolo Comandini
l’ho testimoniato chiudendo nel 1989 il mio primo lavoro
editoriale, «Rimini ieri 1943-1946» con queste parole: «Prima
Media. Salutammo il nostro insegnante, Romolo Comandini,
regalandogli un libro, le “Lettere dei condannati a morte della
Resistenza”. Il professore lo aprì e ne lesse alcune pagine,
piangendo. Era la primavera del 1954. Per la prima volta
scoprimmo il vero volto della Storia, con atrocità e tragedie».
Negli anni successivi ogni nostro incontro era una sua grande
testimonianza d’affetto nei confronti dell’antico alunno che
conservava verso di lui una particolare devozione intellettuale.
Comandini ci insegnò non tanto alcune materie, quanto un
metodo di lavoro che fu prezioso negli anni successivi, e non
soltanto come studenti ma pure per la vita ed il lavoro.
Il destino volle che la mia prima supplenza appena conseguita la
laurea avvenisse nella primavera del 1966 al Valturio del
preside Remigio Pian che aveva come suo vice proprio Romolo
Comandini. Sembrava quasi che un cerchio si chiudesse. Era
come se una pista tracciata da lui nel punto di partenza,
arrivasse al traguardo ancora con chi più di ogni altro aveva
contribuito a fornire i fondamentali strumenti operativi
necessari per organizzare lo studio e quindi anche
l’insegnamento.
A molti anni di distanza, accadde che frequentassi per motivi di
studio la Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano
sul Rubicone, nella quale erano confluiti nel frattempo libri,
documenti ed appunti di Comandini: 5.000 volumi, 130 cartelle
contenenti migliaia di carte, ed una ventina di manoscritti. Era
allora bibliotecario dei Filopatridi il dottor Luigi Ughi che ne
aveva promosso un primo lavoro di sistemazione e di
schedatura. Lo stesso dottor Ughi, amico fraterno del
professore, volle che io lo commemorassi in una conferenza alla
stessa Accademia, il 24 ottobre 1993 alla presenza della vedova
e del figlio.
Comandini seppe farsi amare da tutti. Più delle mie parole conta
la testimonianza del professor Carlo Alberto Balducci: egli ebbe
un temperamento «incapace, non dico di risentimenti e di odii,
ma nemmeno di antipatie e di estraniazioni».

Carlo Alberto
Balducci
Nell’anno scolastico 1968-69 Balducci mi accolse
affettuosamente come giovane collega alle Magistrali, rette da
un galantuomo come il prof. Giorgio Magnani di Bologna. Erano
giorni inquieti. Magnani non si destreggiò come usa nei pavidi.
Governò saldamente con rispetto verso tutti e soprattutto per
far rispettare da tutti la legalità. In un collegio dei docenti, in cui
ci furono accese discussioni sulla vita scolastica e su quella che
allora di chiamava la contestazione, si sentì sommessa ma ferma
la voce di Balducci: «Anche a noi non piace questa società». Era
una frase che, lo confesso, allora mi passò via veloce, nel clima
incandescente di quei momenti. Ma essa mi è tornata spesso alla
mente, negli anni successivi, sempre legata all'immagine del
prof. Balducci. E sempre quelle parole mi hanno fatto riflettere,
perché dentro portavano il segno non di un ribellismo
giovanilistico, allora tanto di moda, ma di una consapevolezza
religiosa e storica di quanto chiede l'umanità nella difficile (o
impossibile?) ricerca della giustizia terrena.
Egli aveva un atteggiamento di mitezza e di modestia, non
voleva mai metterti a disagio, anche quando la sua
autorevolezza culturale avrebbe potuto incutere timore, almeno
a noi di una generazione abituata al rispetto dei più anziani e dei
più degni. Era stato preside del Serpieri, passò al Classico,
succedendo ad Arduino Olivieri. Poi, preferì tornare
all'insegnamento, che forse riteneva più consono al suo spirito di
educatore. E di cristiano che cercava di vivere con umiltà il
Vangelo.

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