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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI VERONA

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA


CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

TESI DI LAUREA TRIENNALE:

POTERE E RESISTENZA
KAFKA, DELEUZE, FOUCAULT

Relatore:
Prof. Paolo Gambazzi

Laureando:
Rudy Pascarella

Anno accademico 2009/2010


INDICE

Introduzione

Capitolo I: Potere

Par. 1: Normalizzazione p. 1

Par. 2: Edipizzazione p. 3

Par. 3: Kafka e il potere p. 8

Capitolo II: Resistenza

Par. 1: Désir et plaisir p. 14

Par. 2: Uso trascendente e uso immanente p. 21

Par. 3: Kafka e la resistenza p. 24

Bibliografia
INTRODUZIONE

“Noi crediamo soltanto ad una politica di Kafka, che non è né immaginaria né simbolica. Crediamo
ad una o più macchine di Kafka, che non sono né struttura né fantasma. Crediamo solo ad una
sperimentazione di Kafka: non interpretazione o significanza, ma protocolli d’esperienza” 1. Con
queste parole Deleuze e Guattari trovano il loro ingresso nell’opera di Kafka, e si accingono ad
intraprendere il loro percorso. Ma sono anche parole che puntualizzano la natura molteplice
dell’accesso ad essa. In poche righe essi rifiutano in blocco ogni approccio che faccia riferimento a
metafore o allegorie.
Ed è seguendo questa impostazione metodologica – di molto debitrice, a nostro avviso, a quella
suggerita da Benjamin nel suo saggio Franz Kafka, secondo il quale “ci sono due modi di mancare
totalmente l’opera di Kafka. Uno è l’interpretazione naturale, l’altro quella soprannaturale: l’una e
l’altra – l’interpretazione psicanalitica come quella teologica – trascurano del pari l’essenziale”2 –
che ci proponiamo di esplorare i rapporti soprattutto fra quattro autori: Deleuze, Guattari, Foucault e
Kafka, con l'intento di mettere in relazione i rispettivi pensieri riguardo a due concetti chiave:
potere e resistenza.
La trattazione comincia con uno sguardo comparativo tra il concetto foucaultiano di potere
disciplinare e quello deleuzian-guattariano di edipizzazione; alla luce delle comparazioni fra i due
pensieri, si passa ad un esame del concetto di resistenza, con riferimento all'opera di Kafka; si
arriverà a concludere che l'opera kafkiana è un'opera di resistenza attiva per un tipo di potere, come
quello di normalizzazione e di edipizzazione, che nei primi anni del XX secolo, andava già
prefigurandosi.

NOTA: i testi citati in nota verranno abbreviati con le seguenti sigle:


– AE: G. Deleuze, L'anti-Edipo; Einaudi, 1975
– AN: M. Foucault, Gli anormali; Feltrinelli, 2000
– C: G. Deleuze-C. Parnet, Conversazioni; Ombre Corte, 2007
– DP: Désir et plaisir, in G. Deleuze, Deux régimes de fous; Les éditions De Minuit, 2003
– FK: Franz Kafka, in W. Benjamin, Angelus Novus; Einaudi, 1962
– KLM: G. Deleuze, F. Guattari, Kafka, per una letteratura minore; Quodlibet, 1996
– PR: Il processo, in F. Kafka, Il processo, America, Il Castello; Newton, 1997

1 KLM, p. 15
2 FK, p. 292
– QO: Quaderni in ottavo, in F. Kafka, Lettera al padre, Gli otto quaderni in ottavo;
Mondadori, 1972
– QPP: Quatre propositions sur la psychanalyse, in G. Deleuze, Deux régimes de fous; cit.
– R: F. Kafka, Tutti i racconti; Newton, 1974
– VS: M. Foucault, La volontàdi sapere; Feltrinelli, 1978
– SP: M. Foucault, Sorvegliare e punire; Einaudi, 1976

Le traduzioni delle parti citate dai due saggi presenti in Deux régimes de fous sono
mie.
Per Alessia M.
I
POTERE

§ 1- Normalizzazione

Con il potere disciplinare, secondo Foucault, va progressivamente affermandosi a partire già dall'età
classica una tecnologia di potere centrata sulla vita, un biopotere “che si esercita positivamente sulla
vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi
e regolazioni d'insieme”3, sostituendosi alla vecchia immagine di un potere che come più alta
prerogativa aveva il diritto di dare la morte o concedere la grazia 4. Con “le discipline”, il potere
smette di essere semplicemente repressivo, ma ha una sua produttività nell'intervenire sui corpi
regolandone “movimenti, gesti, attitudini, rapidità”, facendone dei corpi “docili”, cioè malleabili,
trasformabili, utilizzabili, ed inserendoli in una rigida suddivisione di tempo, spazio, movimenti.
Col biopotere “nasce un'arte del corpo umano”, una disciplina che “fabbrica corpi sottomessi ed
esercitati, corpi docili”5. Un potere che è sempre più legato ad un sapere, prodotto sui corpi nel
momento stesso in cui questo potere si esercita; anzi, un sistema inscindibile di sapere-potere che
fissa, classifica, dà un nome.
Un potere, quello disciplinare, in cui sembra che siano l'errore e l'irregolarità, più del vecchio
efferato criminale, a destare preoccupazione. La correzione sostituisce la punizione vera e propria:
non è tanto l'infrazione di una legge ad essere perseguita, quanto il comportamento inosservante,
un'attitudine non conforme, l'errore richiedono piuttosto di essere corretti, ri-accostati alla Norma.
La legge, quindi, funziona sempre più come una norma, “un misto di legalità e natura, di
prescrizione e costituzione”6. Si tratta quindi di normalizzare: l'individuo da correggere è
l'anormale.
La questione del normale e dell'anormale è contornata da tutta una serie di aspetti che
contribuiscono a caratterizzare la tecnica di potere disciplinare. Nella serie di conferenze tenute al
Collège de France sul problema dell'anormalità, Foucault traccia una genealogia dell'anormale,
mostrando come il concetto di anormalità sia composto di elementi che, prima di poter parlare di
potere disciplinare e di normalizzazione, erano pressocché eterogenei: si tratta del mostro umano,
dell'individuo da correggere e del bambino masturbatore. Rimandiamo all'interessante lettura della

3 VS, p. 121
4 Ivi, p. 123: “La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente
dall'amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita.”
5 SP, pp. 148-150
6 Ivi, p. 335
raccolta per uno sguardo più particolareggiato; ci basti qui sapere che il campo dell'anormalità
risulta dalla fusione di questi tre elementi, che fa dell'anormale “un campo misto in cui si
aggrovigliano perturbazioni dell'ordine e disturbi del funzionamento”7.
L'anormale è, come il mostro umano, un misto, una trasgressione della legge civile e religiosa, ma
allo stesso tempo “un'irregolarità naturale per cui il diritto si trova messo in questione, non riescie a
funzionare”8. Ma l'aspetto peculiare dell'anormalità è il suo legame con la famiglia: l'anormale è il
bambino indisciplinato e masturbatore, all'interno di una famiglia tutta raccolta attorno al “letto
tiepido ed equivoco dell'adolescente”9. E' l'autoerotismo del bambino, considerato dalla psichiatria
degli esordi come fonte di ogni genere di malattia e di disturbo dello sviluppo, che medicalizza la
famiglia, facendo dei genitori degli agenti di controllo e dei paramedici allo stesso tempo 10. Questo
apre la “famiglia cellulare” a tutta una serie di istanze esterne: educatori, medici, pedagoghi; e,
restringendola, “la si rende, di fatto, permeabile a criteri politici e morali, a un tipo di potere, a tutta
una tecnica di potere di cui la medicina e i medici fanno da relè presso le famiglie” 11. E' così che la
famiglia, soprattutto a partire dalla psicanalisi, diviene il nucleo del potere di normalizzazione 12:
l'anormale è tanto un piccolo onanista indisciplinato quanto un delinquente, uno scherzo della
natura e una trasgressione dell'ordine naturale e della Norma. Questo dà modo al potere disciplinare
di “far comunicare tra loro tutte le irregolarità intrafamigliari o extrafamigliari”13.

§ 2 – Edipizzazione

E' dunque la famiglia, per Foucault, il nucleo di partenza del potere di normalizzazione. E questo
soprattutto a partire dalla psicanalisi, che cellularizzando la famiglia ha contribuito alla formazione
del concetto di normalità e anormalità, come abbiamo visto, e l'ha aperta ad una più ampia
tecnologia di potere14.
Un testo fondamentale sulla psicanalisi e le sue implicazioni politiche è L'anti-Edipo, di Deleuze e

7 ivi, p. 147
8 ivi, p. 64
9 ivi, p. 222
10 ivi, p. 220: “la grande drammaturgia familiare del XIX e XX secolo è il piccolo teatro della commedia e della
tragedia di famiglia, con i suoi letti e le sue lenzuola, con la notte e le lampade, con gli avvicinamenti a passi felpati,
con gli odori, le macchie sulle lenzuola accuratamente ispezionate.”
11 ivi, p. 228
12 SP, p. 235: “[...] mostrare come le relazioni intrafamigliari, essenzialmente nella cellula genitori-figli, si siano
<disciplinate>, assorbendo dopo l'età classica schemi esterni, scolastici, militari, indi medici, psichiatrici, psicologici,
che hanno fatto della famiglia il luogo di emergenza privilegiato per la questione disciplinare del normale e
dell'anormale.”
13 AN, p. 247
14 Ivi, p. 239: “a partire dalla psicanalisi (inizio XX secolo) i genitori hanno potuto diventare gli agenti zelanti, febbrili
ed entusiasti di una nuova ondata di normalizzazione medica della famiglia.”
Guattari. A pagina 102 si legge: “Foucault aveva dunque interamente ragione quando diceva che la
psicanalisi portava a termine, in certo qual modo, attuava quel che la psichiatria manicomiale del
XIX secolo s'era proposta: […] saldare la follia a un complesso parentale […] costituire un
microcosmo ove si simboleggiano <le grandi strutture massiccie della società borghese e dei suoi
valori>, Famiglie-Bambini, Colpa-Castigo, Follia-Disordine – fare in modo che la disalienazione
passasse per la stessa via dell'alienazione, con Edipo alle due estremità, e fondare così l'autorità
morale del medico come Padre e Giudice”.
Ma cosa centra Edipo con il potere di normalizzazione?
La psicanalisi, e soprattutto certa psicanalisi, è inseparabile da ciò che i due autori chiamano
“edipizzazione”, che si basa sull'applicazione, nel contesto clinico, di un “Edipo di struttura”.
Applicazione che consiste in una triangolazione del soggetto fra gli altri due termini del padre e
della madre: l'interpretazione edipica dei deliri e della follia in chiave parentale-familiare. Ma tale
triangolazione, io-papà-mamma, non può avvenire che in seguito ad un processo di “castrazione”,
cioè all'estrazione di un altro termine “trascendente e comune”15, il Fallo o legge o significante.
“Bisogna parlare di “castrazione” nello stesso senso di edipizzazione, di cui essa è il coronamento:
essa designa l'operazione con cui la psicanalisi castra l'inconscio” 16. Per capire questa affermazione
non si può non fare riferimento a ciò che Deleuze e Guattari designano col termine di “macchine
desideranti” e di “inconscio produttivo”: il desiderio è macchina, funziona come una macchina, è
inseparabile da una produzione, in cui il produrre e il prodotto non si distinguono 17, è “produzione
di produzione”18 immediatamente voluttuosa, produzione che “è già immediatamente consumo” 19;
una produzione di piacere e un piacere di produzione, e un consumo di tale piacere nella produzione
stessa, “un piacere che si può qualificare d'autoerotico o piuttosto d'automatico”20, un onanismo; un
macchinismo desiderante che produce/consuma nient'altro che “quantità intensive allo stato puro”,
“stati d'intensità pura e cruda spogliati della loro figura e della loro forma” 21, risultanti da
un'opposizione di forze sul piano d'immanenza, o “corpo senza organi”, campo ad intensità = 0 sul
quale avviene la “produzione di produzione” delle macchine desideranti, e sul quale tutto è
intensità, senza figure o forme.
Il desiderio funziona veramente come una macchina: taglia flussi, opera prelievi, e tagliando e
prelevando si concatena, stabilendo molteplici connessioni nel campo d'immanenza; “ogni
macchina è taglio di flusso rispetto a quella su cui è innestata, ma è essa stessa flusso o produzione

15 AE, p. 79
16 Ivi, p. 65
17 Ivi, p. 8: “non c'è ragione di distinguere, qui, il produrre e il prodotto”
18 ibidem
19 Ivi, p. 18
20 Ivi, p. 20
21 ibidem
di flusso rispetto a quella su di essa innestata. E' questa la legge di produzione di produzione.” 22; i
tagli e i prelievi non avvengono quindi che tra “oggetti parziali staccabili” (termine che Deleuze e
Guattari traggono dalla terminologia di Melanie Klein), che non sono altro che le macchine
desideranti stesse; “la produzione desiderante è pura molteplicità” 23, molteplicità di flussi, tagli,
prelievi, oggetti parziali staccabili che sono l'uno per l'altro nient'altro che intensità, cioè flusso
tagliato da una parte e prelievo di flusso dall'altra, in molteplici concatenamenti che operano sintesi
connettive, sintesi disgiuntive e sintesi congiuntive; una molteplicità “al di là del molteplice non
meno che dell'Uno”24.
E' proprio questo “Uno” che viene introdotto, o meglio staccato, con l'edipizzazione. La
triangolazione, infatti, non può avvenire che nella struttura di 3+1: dagli oggetti parziali staccabili
viene staccato un “oggetto totale”, il Fallo (ecco la castrazione), che funge da “luogo mitico” e
“significante” verso il quale i tagli-flusso vengono proiettati e “bi-univocizzati”, a spese delle loro
molteplici connessioni e delle loro catene e serie polivoche; le sintesi connettive sul piano
d'immanenza vengono prese con un “uso globale e specifico”, trascendente, a spese della stessa
immanenza; delle sintesi congiuntive (prelievi di flusso) viene fatto un uso “personale e
segregativo” (identità, io); delle sintesi disgiuntive (tagli di flusso) viene fatto un uno “esclusivo e
limitativo” (persone); la sessualità anedipica, che consisteva proprio nella “produzione di
produzione” desiderante, viene schiacciata sul sesso come “sporco segretuccio”25.

E' la castrazione quindi, “coronamento dell'edipizzazione”, a rendere possibile la triangolazione io-


papà-mamma, nonché la formazione di un Soggetto e degli Oggetti distinti. E' un procedimento che
possiamo accostare alla normalizzazione: il passaggio dagli oggetti parziali all'oggetto totale
staccato, il Fallo o legge, “implica un soggetto determinato come io fisso con questo o quel sesso,
che vive necessariamente come una mancanza la sua subordinazione all'oggetto completo
tirannico”26; d'altra parte, l'”oggettivazione costrittiva” e l'”assujettissement”27 sono tra gli effetti
primari del potere di normalizzazione, dell'”età dell'esame infinito” 28. Anche la cura, per la
psicanalisi, tenderebbe ad essere interminabile29: interminabile edipizzazione, interminabile
normalizzazione, resa possibile dal Fallo-Norma, che fa di ogni individuo un “caso” 30, un caso
clinico da edipizzare, o un caso giuridico da districare; un anormale da normalizzare. Il momento in

22 ibidem
23 Ivi, p. 45
24 ibidem
25 Ivi, p. 52: “soffocava tutta la sessualità come produzione del desiderio, per rifarne, su un nuovo registro, uno
<sporco segretuccio>, il segretuccio familiare”
26 Ivi, p. 65
27 cioè la formazione del Soggetto; cfr. VS p. 56
28 SP, p. 206
29 AE, p. 70
30 SP, p. 209
cui il Fallo, o significante, è diventato Norma, è il momento in cui la psicanalisi ha cessato di essere
un dominio ristretto in se stesso, per entrare a far parte, e contribuire alla nascita di una più ampia
tecnologia di potere; è dalla psicanalisi che il potere di normalizzazione ha preso l'esigenza di
continuare all'infinito l'esame, la cura, di addestrare all'infinito
Edipizzazione e normalizzazione sono strettamente connessi, sotto quell'oggetto staccato totale che
è il Fallo-Norma. Dal momento che Edipo diventa un “dogma” per la psicanalisi, l'”Edipo di
struttura” viene aperto al campo sociale: la struttura 3+1 non opera solo la triangolazione familiare
io-papà-mamma, ma proprio quell'1 apre alla concezione di un “Edipo generalizzato” e di un
“imperialismo di Edipo”31, “che opera tutte le triangolazioni possibili distribuendo in un
determinato campo il desiderio, il suo oggetto e la legge”32. La questione del normale e
dell'anormale rientra nell'edipizzazione, in quanto per la psicanalisi “risolvere Edipo” significa
“interiorizzarlo per meglio ritrovarlo al di fuori nell'autorità sociale” 33, bloccando il desiderio in un
double bind, in cui si ha Edipo come problema, o Edipo come soluzione 34; è come avere la Norma
come problema (anormale) e la Norma come soluzione (normale).
Lo psicanalista è, allo stesso tempo, il medico e l'istitutore, il precettore, che insegna il Fallo-Norma
al piccolo onanista indisciplinato, e permette nello stesso tempo la riproduzione di Edipo nel campo
sociale; “Edipo è sempre aperto in un campo sociale aperto. Edipo esposto ai quattro venti, ai
quattro angoli del campo sociale […] E' appunto questo accoppiamento di figure parentali con
agenti d'altra natura, la loro stretta come lottatori, ad impedire al triangolo di richiudersi” 35. E chi
non si lascia edipizzare, chi non lascia che le proprie macchine desideranti vengano aggiustate,
reindirizzate e “corrette” dal Fallo-Norma, lo schizo, questo bambino maleducato e sporcaccione
che sfugge sempre ad Edipo, diventa un problema di natura disciplinare: “quanto a quelli che non si
lasciano edipizzare, in una forma o nell'altra, a un capo o all'altro [Edipo come problema o Edipo
come soluzione], lo psicanalista è lì pronto a chiamare in aiuto il manicomio o la polizia” 36.
Rinchiudendo la famiglia nella struttura di Edipo, facendone una “famiglia cellulare”, non solo si ha
l'effetto di aprirla ad agenti di potere che non hanno nulla a che fare con la famiglia in senso stretto,
ma si rende tutto il campo sociale una grande famiglia, improntata sulla disciplina: esercito, scuola,
ufficio, famiglia in senso stretto; siamo tutti dei bambini indisciplinati da correggere, degli
anormali, degli schizo da edipizzare37.
31 AE, p. 54: “Edipo ristretto è la figura del triangolo papà-mamma-io. Ma quando la psicanalisi ne fa il suo dogma,
non ignora l'esistenza di relazioni dette preedipiche nel bambino, esoedipiche nello psicotico, paraedipiche in altri
popoli. La funzione di Edipo come dogma, o “complesso nucleare”, è inseparabile da un forcing grazie al quale il
teorico psicanalista si eleva alla concezione di un Edipo generalizzato”
32 ibidem
33 Ivi, p. 87
34 Ivi, p. 87: “Edipo come problema o come soluzione, sono le due estremità di un legamento che arresta tutta la
produzione desiderante”
35 Ivi, p. 106
36 Ivi, p. 89
37 Ivi, p. 73
Il “familiarismo” che si accompagna alla proliferazione del triangolo edipico in tutti i settori della
società verso un Edipo generalizzato, porta con sé conseguenze che caratterizzano la tecnologia di
potere disciplinare e normalizzatore.
Tra queste, una generale infantilizzazione38: l'accezione dell'anormalità come arresto dello sviluppo,
“infanzia del comportamento e infanzia dell'intelligenza” [ibidem], un “non aver ancora risolto
Edipo”, ma soprattutto l'attivazione di un discorso moralizzatore di tipo parentale-puerile 39, e
l'instaurazione di rapporti del tipo di quelli fra penitente e confessore, fedele e direttore di
coscienza, bambino ed educatore, in cui il tono dominante è quello della colpevolezza, della
vergogna, del richiamo al senso del pudore e alla disciplina, e nei quali l'oggetto della confessione è
uno “sporco segretuccio” o una marachella40.
L'assujettissement, la costituzione dell'io inserito in tutti i triangoli possibili, avviene, abbiamo
visto, in seguito all'estrazione del Fallo-Norma; proprio per questo è castrazione dell'incoscio
produttivo, e il desiderio-macchina sarà da quel momento “mancante” dinanzi al Fallo-Norma, “un
qualcosa di trascendente e di comune, ma che non è un universale-comune se non per introdurre la
mancanza nel desiderio, per fissare e specificare delle persone e un io sotto tale o tal'altra faccia
della sua assenza”41. Viene introdotta una mancanza nel desiderio: una mancanza-assenza dinanzi al
Fallo, una mancanza-inosservanza davanti alla Norma.
E' allora il senso di colpa il sentimento che la normalizzazione pretende dall'anormale. Attraverso
tutta una rete di discorsi parentali-puerili, attraverso la confessione che si confonde con la cura e
con la correzione disciplinare, viene instaurata una continuità fra infrazione, peccato e cattiva
condotta42, viene instillato il senso di colpa per una mancanza indefinita, per una “colpa senza
infrazione”43. Gli psicanalisti, come gli educatori, i direttori di coscienza, sono gli ultimi preti; è la
vergogna che essi pretendono, la “cattiva coscienza”, la contrita confessione di una colpa senza
infrazione, di un'anormalità44.

38 AN, p. 269: “Si tratta di istituire una continuità o piuttosto una immobilità della vita attorno all'infanzia”
39 Ivi, p. 40: “la congiunzione del medico e del giudiziario non può essere effettuata che attraverso la riattivazione di un
discorso essenzialmente parentale-puerile o parentale-infantile. […] il discorso che tengono i genitori al bambino,
ovverosia il discorso della moralizzazione stessa del bambino. […] discorso rivolto ai bambini e necessariamente in
forma di <abbiccì>”
40 VS, p. 58: “La confessione […] a partire dal protestantesimo, dalla Controriforma, dalla pedagogia del XVIII e dalla
medicina del XIX secolo, ha perduto la sua localizzazione rituale ed esclusiva; si è diffusa; è stata utilizzata in tutta una
serie di rapporti: figli e genitori, alievi e pedagoghi, malati e psichiatri, delinquenti ed esperti. […] le forme che essa
prende: interrogatori, consultazioni, racconti autobiografici, lettere”
41 AE, p. 79
42 SP, p. 330
43 AN, p. 28
44 AE, p. 124: “trasgressione, colpa, castrazione: sono queste determinazioni dell'inconscio, o non è piuttosto il modo in
cui un prete vede le cose? E ci sono magari non poche altre forze, oltre alla psicanalisi, per edipizzare l'inconscio,
colpevolizzarlo, castrarlo. Ma la psicanalisi appoggia il movimento, e inventa un ultimo prete.”
§ 3 – Kafka e il potere

A questo punto possiamo individuare non pochi elementi nell'opera di Kafka che condividono molti
aspetti centrali con ciò che abbiamo visto del potere di normalizzazione e dell'imperialismo di
Edipo.
Innanzitutto è sorprendente quanto il racconto “Nella Colonia Penale” mostri l'avvicendarsi del
potere disciplinare sulle macerie del vecchio potere che si fondava sulla punizione fisica, e sul
diritto di vita e di morte, così come è descritto in Sorvegliare e Punire. La macchina di tortura,
infatti, scrive sul corpo stesso del condannato la condanna, come un marchio; ma l'avvicendarsi del
potere all'interno della colonia, e il subentrare di un nuovo comandante a quello vecchio, il quale
“accentrava tutto in sé”45, hanno reso obsoleti questi metodi punitivi. La punizione, per così dire, è
diventata poco pudica, non è più uno spettacolo; col potere diciplinare, alla punizione, e alla pena di
morte, si sostituisce la correzione, e la cura. L'esploratore si stupisce che il condannato non abbia
subito un processo, e che nemmeno sappia di essere stato condannato, e in cosa consista la
condanna. “La leggerà sul proprio corpo”, lo assicura l'ufficiale. Il tribunale dell'ufficiale, del resto,
si ispira ad un unico principio: “La colpa è sempre certa” 46. Tutto questo, però, non è riscontrabile
anche nel potere disciplinare? Non esattamente: anche la correzione, come la tortura, ha come
oggetto il corpo; ma certamente un corpo ben diverso, in movimento: “lavora il corpo a livello della
meccanica – movimenti, gesti, attitudini, rapidità” 47; è significativo come l'ufficiale tratti il
condannato esattamente come un pezzo di carne da macellare, “Ora lo tengo e non lo lascio più” 48;
tuttavia, c'è qualcosa di disciplinare che si insinua nel procedimento: leggendo la condanna sul
proprio corpo, il condannato “comincia a capire”, viene disciplinato. Qual è allora l'intoppo? La
macchina è troppo molare, è una macchina reificata, cigola. Per il potere disciplinare è necessario
un altro tipo di macchina49, che non scriva la colpa sul corpo del condannato, ma scriva sulla colpa
del condannato, che produca un sapere che abbia sui corpi tutt'altro potere, un potere che li renda
docili, manovrabili; un potere che li controlli, che li sorvegli più che punirli. E' questo il nuovo
potere che fa capolino nella colonia penale, e che rende il nuovo comandante circospetto dinanzi a
quelle vecchie procedure penali50, e lo induce a chiedere ufficiosamente il parere di un “autorevole
esponente del pensiero europeo”, di “un grande scienziato dell'Occidente” 51, di uno straniero,

45 R, p. 87
46 Ivi, p. 88
47 SP, p. 149
48 R, p. 88
49 KLM, p. 71: “nei tre grandi romanzi la macchina non è più meccanica e reificata, ma s’incarna in concatenamenti
sociali”
50 R, p. 88: “il nuovo [comandante] ha già mostrato di volersi immischiare nel mio tribunale”
51 Ivi, p. 95
proveniente da un paese “civilizzato”, in cui il potere probabilmente sta già cambiando forma, in cui
“le torture si infliggevano solo nel Medioevo” 52; in cui la condanna sia “umanitaria”, assomigli più
alla correzione53. Il principio del tribunale dell'ufficiale suonava: “La colpa è sempre certa”; il
tribunale della Norma, del potere disciplinare, ha un altro principio: “La colpa è sempre
accertabile”, sempre infinitamente accertabile, perché è tramite la colpevolizzazione, cioè la cura e
l'esame interminabili, che si esercita questo nuovo potere. Non tramite l'esecuzione capitale, ma
tramite il processo infinito.

Ed è proprio in un processo infinito che Josef K si trova coinvolto. Il suo non è “un processo
davanti ad un tribunale ordinario” 54, e lo stesso tribunale con cui ha a che fare ha poco di ordinario:
è un tribunale che sta nei solai, praticamente in tutti i solai, lo si ritrova dietro ogni porta, negli
sgabuzzini; il palazzo del tribunale è un complesso residenziale popolare, i suoi uffici stanno in
soffitta, tra i panni stesi degli inquilini; i corridoi sono infestati di bambini vocianti; la stessa sala
delle udienze, quando non viene usata, è abitata dalla famiglia dell'usciere. Insomma, è un tribunale
che ha molto del “familiare”; la mattina dell'arresto, K viene “interrogato” nella camera da letto
della signorina Burstner, con un comodino a fungere da scrivania, sul quale l'ispettore sposta “con
tutte e due le mani i pochi oggetti che si trovavano sul comodino, la candela con i fiammiferi, un
libro e un puntaspilli, come se fossero oggetti indispensabili per l'udienza” 55. Anche l'arresto di K ha
qualcosa di straordinario: “E' in arresto non come si arresta un ladro” 56, non c'è nessuna limitazione
della libertà, anzi per non intralciare l'abituale corso della vita di K, le udienze vengono svolte di
domenica.
Ma la particolarità di questa “misteriosa giurisprudenza” 57 è che le sue autorità “non cercano la
colpa della gente ma vengono attirate dalla colpa” 58; di che genere di colpa si tratta? E' una colpa
tanto certa quanto ignota, una “colpa senza infrazione” come può essere l'anormalità. Come
l'anormalità, la colpa da cui è attirato questo tribunale è “un comportamento, un'attitudine, un
carattere, che sono moralmente dei difetti senza essere delle malattie dal punto di vista patologico,
né infrazioni dal punto di vista legale”59; la “bellezza” degli imputati, la loro anormalità, “è un
fenomeno strano, in certo qual modo riguarda le scienze naturali” 60; l'esito del processo, secondo

52 ibidem
53 VS, p. 122: “da quando il potere si è dato la funzione di gestire la vita, non è la nascita di sentimenti umanitari, è la
ragion d'essere del potere e la logica del suo esercizio che hanno reso sempre più difficile l'applicazione della pena di
morte. Come può un potere esercitare nella condanna a morte le sue più alte prerogative, se il suo ruolo principale è di
assicurare, di sostenere, di rafforzare, di moltiplicare la vita e di ordinarla?”
54 PR, p. 226
55 Ivi, p. 183
56 Ivi, p. 188
57 Ivi, p. 206
58 Ivi, p. 181
59 AN, p. 28
60 PR, p. 269
una superstizione che circola nei corridoi del tribunale, si può indovinare dal disegno delle labbra
dell'imputato61.. Questo fa del processo di K un processo di normalizzazione.
Un processo di normalizzazione è necessariamente un processo infinito. In esso “la sentenza non
arriva all'improvviso, il processo si trasforma gradualmente nella sentenza” 62; la sua peculiarità è
l'osservazione continua (o cura interminabile o esame infinito). Titorelli non dà a K che tre
possibilità, tre esiti per il processo: l'assoluzione effettiva, l'assoluzione apparente e il differimento.
Di un'assoluzione effettiva, in realtà, non si è mai sentito parlare, se non nelle leggende; non si
hanno ricordi di qualcuno che sia stato assolto definitivamente da questo tribunale. Si può parlare
quindi solo di assoluzione fittizia e di differimento. La prima non è che un'interruzione temporanea,
un andamento ad altalena che immancabilmente ritorna al punto di partenza; e così il processo
ricomincia. Il differimento invece consiste (e sembrerebbe la soluzione più adeguata) nel
mantenimento del processo “nel suo stadio più basso. Per ottenerlo è indispensabile che l'imputato e
il suo consulente, ma in particolare il consulente, restino in contatto personale con il tribunale […]
Si deve andare a intervalli regolari dal giudice competente e anche in occasioni particolari e cercare
di comportarsi sempre gentilmente63. In altre parole, entrambe le soluzioni hanno come esito quello
di rimanere sotto osservazione, sotto controllo.
Nella convergenza tra potere di normalizzazione e edipizzazione, abbiamo visto che è la famiglia a
fungere da nucleo di partenza per tutta una serie di triangolazioni che investono il campo politico-
sociale. La famiglia, qui, si trova dappertutto come il tribunale, anzi di pari passo con esso; il
processo ha per oggetto qualcosa di sconcio, è esso stesso un “procedimento indecoroso”, ha a che
fare con quello “sporco segretuccio” di cui si occupa il processo di edipizzazione, quella marachella
da ragazzini perversi che tutti conoscono, ma che nessuno per pudore dice, “il segreto universale
condiviso da tutti, ma che nessuno comunica a nessun altro” 64. “Un misto di fanciullezza e
abiezione”65; questa è l'anormalità. E il processo ha questi “innocenti”, in entrambi i sensi, “con
strani visi da furfanti adulti”66, come oggetto privilegiato. Il “libro delle colpe” del giudice istruttore
è un vecchio quaderno di scuola ingiallito 67. I codici stessi del tribunale sono romanzi erotici, con
illustrazioni ambigue68; è questo il sapere che si lega al nuovo potere di normalizzazione, che viene
scritto sulla colpa dell'anormalità, della sessualità anormale, edipizzabile; lo stesso impatto
probabilmente dovevano avere i testi di Freud e della psicoanalisi nascente.
Nel romanzo quasi tutti i colloqui hanno un tono strettamente confidenziale: l'industriale, in banca,

61 Ivi, p. 265
62 Ivi, p. 283
63 Ivi, p. 258
64 AN, p. 60
65 PR, p. 249
66 Ivi, p. 196
67 Ivi, p. 199
68 Ivi, p. 204
dopo aver parlato di affari “lo tirò a sé colpendolo con le nocche delle dita lievemente sul petto e
disse a bassa voce: <Lei ha un processo, vero?>” 69; il commerciante Block ha un segreto da
confessare a K (la sua infedeltà all'avvocato Huld) e lo fa “col tono di chi confessa qualcosa di
disonorevole”70; lo stesso K fa di tutto perché la cosa non si sappia, e in banca cerca di trattenere lo
zio; “il commesso sta certamente origliando”.

Ma il senso di pudore che aleggia attorno al processo si accompagna al profondo sensualismo che
caratterizza il processo stesso: la signorina Burstner, che ha saputo da K la notizia del suo arresto,
chiede a K: “<com'è stato?> […] <Spaventoso>, disse K, ma ora non ci pensava affatto, era
completamente preso dalla vista della signorina Burstner che poggiava il viso su una mano – il
gomito piantato sul cuscino dell'ottomana – mentre l'altra mano lisciava lentamente i fianchi. <E'
troppo generico>, disse la signorina Burstner” 71; Titorelli, il pittore nonché “confidente” del
tribunale, un “uomo ambiguo” [PR 247] che lo riceve in camicia da notte, quando si accinge a
spiegare a K le varie soluzioni possibili per risolvere il processo “si abbandonò all'indietro della sua
sedia, la camicia da notte era ampiamente aperta, aveva cacciato una mano sotto di essa e si lisciava
il petto e i fianchi”72, e fa spogliare K: “<Vuole togliersi il cappotto?> […] si toglieva il soprabito e
si sbottonava anche la giacca”73; durante la prima udienza, la lavandaia che K aveva incontrato poco
prima e che gli aveva indicato la strada, che poi scoprirà essere la moglie dell'usciere del tribunale,
entra interrompendo il discorso di K attirando gli sguardi di molti, e viene aggredita dallo studente,
un “bambino pieno di sé”, un “piccolo mostro” con le gambe storte 74 che “l'aveva trascinata in un
angolo e la stringeva a sé. Ma non era lei che gridava, bensì l'uomo che aveva la bocca spalancata e
guardava il soffitto”75.

Qualcosa ancora non quadra: da una parte diciamo che Edipo, la Norma, sono una castrazione del
desiderio, un suo rinchiuderlo all'interno del triangolo io-papà-mamma; dall'altra, davanti al
Processo di Kafka, un romanzo letteralmente grondante di desiderio, un romanzo sensuale, non
esitiamo a definirlo la storia di un processo di normalizzazione, di edipizzazione. Tutto nel romanzo
non fa che fuggire Edipo e la Norma, anche ciò che, come il tribunale, è lì per promuoverla.
Ma questo lo potremo capire solo parlando di resistenza.

69 Ivi, p. 245
70 Ivi, p. 264
71 Ivi, p 191
72 Ivi, p. 258
73 Ivi, p. 252
74 Ivi, p. 207: “<questo piccolo mostro>, e qui passò la mano sul viso dello studente, <questo piccolo mostro non mi
lascia>”
75 Ivi, p. 201
II
RESISTENZA

§ 1 – Désir et Plaisir

La novità del pensiero di Foucault consiste nello svincolare il potere da ogni accezione repressiva o
ideologica. Il potere disciplinare e di normalizzazione non consiste in una repressione di “un'energia
ribelle che bisognerebbe soffocare”76, ma nell'organizzazione e nella gestione dei corpi.
Questo fa del potere qualcosa di produttivo, più che repressivo: produce Soggetti, Oggetti, persone,
io; “un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a
moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d'insieme” 77. L'immagine di un
potere solo repressivo, di un potere che dice “no”, che fa funzionare una legge di proibizione, è la
maschera sotto cui si cela il lato realmente produttivo di una tecnica ben diversa; “il potere è
tollerabile a condizione di dissimulare una parte importante di sé. La sua riuscita è proporzionale
alla quantità di meccanismi che riesce a nascondere. […] Il potere come puro limite tracciato alla
libertà è, almeno nella nostra società, la forma generale della sua accettabilità” 78. E' la maschera del
diritto, la dimensione giuridico-politica “che non è certamente adeguata al modo in cui il potere si è
esercitato e si esercita, ma è il codice con cui si presenta e con cui ordina che lo si pensi”79.
In un potere che non è più repressione, ma tecnica, scompare il soggetto detentore del potere, e
l'oggetto che lo subisce; “il potere viene dal basso […] non c'è […] un'opposizione binaria e globale
fra i dominanti e i dominati”. Consiste in “rapporti di forza molteplici che si formano ed operano
negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni” 80, che si effettuano
in dispositivi a livello micro e macro.
Sul rapporto tra livello micro e macro, e sulla natura di questi dispositivi di potere, Deleuze ha
posto questioni importanti. Tra micro e macro “la differenza non è evidentemente di taglia, nel
senso che i micro-dispositivi riguarderebbero i piccoli gruppi (la famiglia non ha una minor
estensione di qualsiasi altra formazione). Non si tratta nemmeno più di un dualismo estrinseco, dal
momento che ci sono micro-dispositivi immanenti all'apparato di Stato, e che anche dei segmenti
d'apparato di Stato penetrano nei micro-dispositivi”81. Le due dimensioni sono immanenti l'una
all'altra, eppure distinte. A questo punto Deleuze comincia un percorso che sembra allontanarsi da

76 VS, p. 72
77 Ivi, p. 121
78 Ivi, p. 77
79 Ivi, p. 78
80 Ivi, p. 84
81 DP, p. 113
quello di Foucault, ma che vedremo ha un fondamentale punto di accordo.
Prima di tutto, secondo Deleuze, viene il desiderio. Il desiderio come macchine desideranti, come
concatenamenti di desiderio; “Il desiderio circola in questo concatenamento d'eterogenei, in questa
specie di <simbiosi>: il desiderio fa tutt'uno con un concatenamento determinato, un co-
funzionamento”82. Circola secondo linee di fuga, o movimenti di deterritorializzazione, e attraverso
territorialità o riterritorializzazioni; queste sono le componenti del concatenamento di desiderio.
Ovunque si parli, nel concatenamento, di riterritorializzazione, dice Deleuze, si tratta di dispositivi
di potere. Essendo quindi riterritorializzazioni, i dispositivi di potere appartengono al
concatenamento stesso; questo fa del desiderio un dato primario, e dei dispositivi di potere delle
istanze in fondo repressive, “dal momento che reprimono non il desiderio come dato naturale, ma i
punti dei concatenamenti di desiderio”83.
I motivi per cui Foucault respinge l'idea di potere come repressione o come ideologia sono tutti
riconducibili ad una certa accezione del desiderio completamente diversa da quella deleuziana: per i
fautori del potere repressivo, un desiderio come “energia selvaggia, naturale e vivente”; per chi,
d'altra parte, considera la legge costitutiva del desiderio, e considera quindi illusorio parlare di
repressione del desiderio “come è vano partire alla ricerca di un desiderio esterno al potere”, un
desiderio che in quanto tale è già mancanza: “non si dovrebbe immaginare che il desiderio sia
represso, per la buona ragione che è la legge che è costitutiva del desiderio e della mancanza che lo
instaura”84. Così, continua Foucault, “quale che sia la natura del desiderio, si continua in ogni caso a
concepirlo in rapporto ad un potere che è sempre giuridico e discorsivo – un potere che trova il suo
elemento centrale nell'enunciazione della legge”85. Abbiamo visto quanto il desiderio, per Deleuze,
non sia per nulla mancanza, ma anzi positività; d'altra parte, il desiderio non è nemmeno una forza
selvaggia: “concatenamento di desiderio indica che il desiderio non è mai una determinazione
<naturale>, né <spontanea>”86. L'accezione di desiderio come mancanza non poteva abbandonare
nemmeno Foucault, pur cosciente della diversità del concetto deleuziano: “L'ultima volta che ci
siamo visti, Michel mi ha detto, con molta gentilezza e affetto, all'incirca così: non posso sopportare
la parola desiderio; anche se lei la usa in altro modo, non posso fare a meno di pensare o di sentire
che desiderio = mancanza, o che desiderio si dice represso. Michel aggiunge: allora ciò che chiamo
<piacere> è forse ciò che lei chiama <desiderio>; ma, ad ogni modo, ho bisogno di una parola
diversa da desiderio”87.
Desiderio e piacere, quindi: ma non si può liquidare il problema come una semplice questione

82 Ivi, p. 114
83 Ivi, p. 115
84 VS, pp. 72-73
85 Ivi, p. 80
86 DP, p. 114
87 Ivi, p. 119
terminologica. A fare la differenza sono, più profondamente, i punti di vista adottati dai due autori:
se per Foucault il desiderio non sarà mai altro che mancanza, negatività, non potrà che opporgli i
piaceri come positività, annullamento della mancanza; se, al contrario, per Deleuze il desiderio è
concatenamento e processo di costituzione di un campo d'immanenza, positività, il piacere non sarà
altro che interruzione del processo, negatività, “il solo modo per una persona o un soggetto di
<ritrovarsi> in un processo che lo eccede. E' una riterritorializzazione” 88. E un'interruzione del
processo, un impedimento del movimento di deterritorializzazione, è proprio il modo attraverso il
quale viene introdotta la mancanza nel desiderio; è una castrazione.

Ma torniamo al punto in cui Deleuze mostrava l'effetto, di fatto, repressivo dei dispositivi di potere.
La repressione avviene, per così dire, dietro la maschera della produzione, a sua volta mascherata da
una repressione. La produttività del potere, cioè la sua attività regolativa, di controllo, il suo gestire
discorsi e silenzi, il suo produrre Soggetti mancanti e Oggetti mancati, è un lavoro di fissaggio, di
organizzazione. È una riterritorializzazione, una strategia che mira ad una territorialità assoluta,
determinando oggetti, io, persone, triangolati in vario modo nel campo sociale. È un'edipizzazione,
una normalizzazione; il livello macro dei dispositivi di potere.
La differenza tra micro e macro non ci è ancora chiara: “rapporti di forza molteplici che si formano
ed operano negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni”; questa
è la sostanza dei micro-dispositivi; ed è in quanto tali che Deleuze li considera parte dei
concatenamenti di desiderio, riterritorializzazioni. Ma sul piano d'immanenza, il desiderio circola
fra territorialità e de-territorializzazioni; la deterritorializzazione continua del desiderio, il suo
concatenarsi in ogni direzione, non può sussistere senza una riterritorializzazione; la
deterritorializzazione è movimento tra una territorialità e una ri-territorializzazione. Il livello micro
dei rapporti di forza consiste in un punto critico del concatenamento, un punto di biforcazione del
desiderio; quando il desiderio in quel punto cessa di concatenarsi, bisogna parlare di livello macro.
In questo senso per Deleuze i dispositivi di potere hanno un effetto repressivo: “Prendo una delle
tesi più belle di VS: i dispositivi di sessualità ripiegano la sessualità sul sesso (sulla differenza
sessuale, ecc.; e la psicanalisi è in pieno in questa mossa di ripiegamento). Vi vedo un effetto di
repressione, precisamente alla frontiera del micro e del macro: la sessualità, come concatenamento
di desiderio storicamente variabile e determinabile, con i suoi punti di deterritorializzazione, di
flusso e di combinazione, viene ripiegata su un'istanza molare, <il sesso>, e anche se le procedure di
questo ripiegamento non sono repressive, l'effetto (non-ideologico) è repressivo, in quanto i
concatenamenti sono annullati, non solo nelle loro potenzialità, ma nella loro micro-realtà” 89. “Ho
dunque bisogno di un certo concetto di repressione non nel senso in cui la repressione porterebbe ad
88 Ivi, p. 120
89 Ivi, p. 116
una spontaneità, ma in cui i concatenamenti collettivi avrebbero molte dimensioni, e che i
dispositivi di potere sarebbero solo una di queste dimensioni”90; solo quando il livello micro dei
“rapporti di forza molteplici” viene stratificato su una dimensione macro, si può per Deleuze a
rigore parlare di dispositivi di potere: una dimensione che blocca i concatenamenti sui loro punti di
riterritorializzazione-deterritorializzazione costruendo un piano assolutamente diverso da quello
d'immanenza, sul quale avvengono i concatenamenti di desiderio e i rapporti di forza. “Non sono
sicuro che i micro-dispositivi possano essere descritti in termini di potere” 91; rapporti di forza e
concatenamenti di desiderio sembrano più fare riferimento ad un altro concetto: volontà di potenza.
I livelli micro e macro, per Deleuze, corrispondono a due diversi tipi di piani: un piano
d'immanenza, proprio al desiderio e ai rapporti di forza, “<corpo senza organi>, che si definisce
attraverso zone d'intensità, soglie, gradienti, flussi” 92, con i suoi punti di deterritorializzazione, le
sue linee di fuga; un piano trascendente d'organizzazione, che instaura una territorialità
permanente, una specie di territorialità teorica assoluta, bloccando le deterritorializzazioni del
desiderio proprio nelle sue linee di fuga, organizzando i punti di riterritorializzazione, che sappiamo
necessarie componenti dei concatenamenti, in un piano dove cessano di essere soglie, punti di
ingresso e di uscita, di biforcazione del desiderio, per catturarlo, fissarlo; organizzarlo. E' su questo
piano trascendente d'organizzazione che avviene l'edipizzazione, la normalizzazione: il biopotere
foucaultiano, che gestisce e controlla la vita, “ripiega la sessualità sul sesso”, la normalizza, la
territorializza sulla Norma; l'edipizzazione che blocca il desiderio, lo castra e vi introduce la
mancanza; la produzione di “corpi docili”, di Soggetti ed Oggetti sotto il segno della mancanza
dinanzi al Fallo-Norma; la triangolazione delle singolarità e delle macchine desideranti,
dell'inconscio produttivo; tutto ciò va a costituire questo piano trascendente d'organizzazione, in cui
vengono ordinate e organizzate le riterritorializzazioni; è il livello macro che “strategizza”, ordina,
organizza il corpo senza organi. Non bisogna pensare a due piani come due luoghi distinti; abbiamo
visto che non si tratta né di taglia diversa, né di un dualismo estrinseco; sono due piani “immanenti
l'uno all'altro”, eppure hanno nature diverse.

Qui entra in gioco, finalmente, la resistenza.


Per Foucault la resistenza pone un fondamentale problema di statuto: che statuto dare alla
resistenza, dal momento che si oppone ad un potere che non è né repressivo né ideologico? Foucault
sembra prediligere una direzione fra le altre: la resistenza concerne “i corpi e i suoi piaceri” 93. Ma
abbiamo visto che Deleuze non accetta questa impostazione del problema, vedendo nei piaceri

90 ibidem
91 Ivi, p. 114
92 Ivi, p. 119
93 Ivi, p. 118
un'interruzione del processo, un bloccare i concatenamenti del desiderio. Il punto di disaccordo
stava proprio nella diversa concezione del desiderio. Il desiderio, per Deleuze, viene prima di tutto,
è un dato primario, è positività: “Non ho dunque bisogno di uno statuto dei fenomeni di resistenza:
se il dato primario di una società è che tutto vi fugge, tutto vi si deterritorializza” 94; il campo
sociale, il socius, è il piano d'immanenza su cui tutto fugge, percorso da linee di fuga e movimenti
d'intensità, è il corpo senza organi “che si oppone a tutti gli strati d'organizzazione, quelli
dell'organismo, tanto quanto alle organizzazioni di potere”95, e sul quale viene steso un altro tipo di
piano, il piano trascendente d'organizzazione. Non c'è quindi, per Deleuze, una resistenza reattiva,
alla quale dover dare uno statuto; al contrario, sono piuttosto i macro-dispositivi, l'organizzazione
trascendente del livello micro dei dispositivi-rapporti di forza molteplici, a venire secondi; “il potere
è un'affezione del desiderio”96.
D'altra parte, però, dobbiamo notare che il piacere, per Foucault, è tutt'altro che interruzione di un
processo. Anzi, piacere e potere sono profondamente connessi, “le spirali perpetue del potere e del
piacere”97, così come si compenetrano i livelli micro e macro. Una resistenza che riguardi i corpi e i
suoi piaceri non ha nulla di statico, riterritorializzante: il potere normalizzatore, con i suoi macro-
dispositivi, è tutto percorso da concatenamenti di piacere che lo attraversano da parte a parte, e che
coinvolgono Soggetti e Oggetti, de-soggettivandoli e de-oggettivandoli; tutt'altra cosa di un
“ritrovarsi”, come Deleuze leggeva il piacere: “L'esame medico, l'investigazione psichiatrica, il
rapporto pedagogico, i controlli familiari possono ben avere come obiettivo globale e apparente di
dire di no a tutte le sessualità erranti o improduttive; nei fatti, funzionano come meccanismi a
doppio impulso: piacere e potere. Piacere di esercitare un potere che interroga, sorveglia, fa la
posta, spia, fruga, palpa, porta alla luce; e dall'altro lato, piacere che si accende per dover sfuggire a
questo potere, sottrarvisi, ingannarlo o travisarlo”98.
Desiderio e piacere, quindi, non sono l'uno l'opposto dell'altro; devono la loro differenza a
un'interpretazione statica che riguarda entrambi. Certo, “non è una questione terminologica” 99, ma
di interpretazione.

Resistere, quindi, ha a che fare con desiderio e piacere. Ma non si tratta certo di una resistenza
reattiva, esterna e contestatrice. Non ha bisogno di un nome, un'ideologia, uno statuto, che la ponga
all'esterno del potere. Come piacere e potere sono strettamente interconnessi, lo sono anche i livelli
micro e macro. Una resistenza al macro, al potere, al piano trascendente d'organizzazione,

94 ibidem
95 Ivi, p. 119
96 Ivi, p. 115
97 VS, p. 45
98 Ivi, p. 44
99 DP, p. 119
consisterebbe quindi nel liberare piacere e desiderio, nel porli e porsi sull'altro tipo di piano, il piano
d'immanenza, sul quale esistono solo soglie, gradienti, flussi di piacere e desiderio; sul quale il
desiderio non è mancanza, e il piacere non è interruzione del processo, ma è processo esso stesso.
Il malinteso che minaccia ogni discorso sulla resistenza è quello di concepirla come ricerca del
luogo mitico della libertà, in opposizione e reazione al potere. Ma resistere non è reagire: “là dove
c'è potere c'è resistenza […] essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere” 100; non c'è
UNA resistenza, l'Uno è un prodotto del piano macro trascendente, ma fenomeni di resistenza
molteplici, “né ideologici né anti-repressivi”101; “Non c'è dunque rispetto al potere un luogo del
grande Rifiuto – anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma
delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee,
selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, intreressate
o sacrficali; per definizione non possono esistere che nel campo strategico delle relazioni di
potere”102.

§ 2 – uso trascendente e uso immanente

Piani d'immanenza e di trascendenza, livelli micro e macro; resistere significa cambiare piano. Ma
bisogna ripetere ancora una volta che parlare di livelli, di piani, di campi, non è assolutamente un
parlare di luoghi, né fisici né concettuali. La differenza fra piani è una differenza d'uso. Una delle
caratteristiche che contraddistinguono maggiormente il potere di normalizzazione, le discipline, è
proprio il fatto che invece di reprimere, o di dettare legge, è un potere che usa, gestisce,
“distribuisce ciò che è vivente in un dominio di valore e di utilità” 103. Opporre un uso diverso da
quello edipico, per quanto riguarda le sintesi di connessione, congiunzione, disgiunzione attraverso
le quali corrono le macchine desideranti: “E' tipico della registrazione edipica introdurre un uso
esclusivo, limitativo, negativo, della sintesi disgiuntiva. Siamo talmente formati da Edipo che
stentiamo ad immaginare un altro uso. […] la schizofrenia ci rivela una forza sconosciuta della
sintesi disgiuntiva, un uso immanente non più esclusivo né limitativo, ma pienamente affermativo,
illimitativo, inclusivo. Una disgiunzione che resta disgiuntiva, e che tuttavia afferma i termini
disgiunti, senza limitare l'uno con l'altro né escludere il secondo dal primo […] <sia... sia>, invece

100VS, p. 84
101DP, p. 117
102VS, p. 85
103Ivi, p. 127
di <oppure>”104; opporre un uso diverso dall'”uso dei piaceri” normalizzatore e disciplinare, un uso
che sia esso stesso piacere, che sfugga all'utilitarizzazione in funzione della Norma, che sfugga
all'anormalità come concetto negativo, come termine di appoggio per la normalizzazione.
Anormalità e desiderio hanno, per Foucault, la stessa accezione negativa: resistere è fare un uso
mobile, di piacere, (ma non unicamente nel senso limitativo di edonistico); un uso attivo, positivo,
dell'anormalità, del desiderio, e del piacere stesso. Dare carattere di positività a ciò che viene
“nichilizzato”, nel senso nietzscheano del termine. Fare dell'a-normalità, di quella “a (minuscola)”,
un uso anedipico: “l'oggetto a (minuscola) fa irruzione in seno all'equilibrio strutturale a mo' di
macchina infernale, la macchina desiderante”105.
Opporre un uso immanente all'uso trascendente, edipico e normalizzatore, questo significa porsi sul
piano d'immanenza. Non è una questione di cosa, ma di come; non interpretazione, ma
funzionamento; “l'inconscio non pone alcun problema di senso, ma unicamente problemi d'uso. La
questione del desiderio non è “cosa vuol dire?” ma come funziona […] disporre di criteri
immanenti in grado di determinare gli usi legittimi, in contrapposizione agli usi illegittimi, che al
contrario rimandano l'uso ad un senso supposto e ripristinano una sorta di trascendenza” 106; un uso
“schizo” di Dio, della madre, del padre, dell'io, opposto ad un uso edipico che triangola i termini
castrando il desiderio, questo è resistere; “quel che conta non sono le appellazioni parentali, né le
appellazioni razziali o le appellazioni divine. E' solo l'uso che se ne fa. Niente problema di senso,
ma solo d'uso”107. Lo psicanalista cerca di chiudere le connessioni politiche, sociali, razziali,
cosmiche del delirio, delle linee di fuga, delle deterritorializzazioni, cerca di rinchiuderlo nel
triangolo edipico io-papà-mamma: <Sì, sì, la Vergine... ma in realtà la Vergine è tua madre!>; lo
schizo, il non-edipizzabile, il non-disciplinabile, il degenerato, l'anormale, resiste al piano di
trascendenza in cui lo si vorrebbe rinchiudere: <Sì, la Vergine è mia madre! E mia madre è la
Vergine!>. Oppone un uso immanente agli stessi termini del triangolo, facendolo esplodere,
scaricando una corrente di libido, di desiderio, in tutte le direzioni, svincolandola dalla trappola
edipica; rimette la sensualità nel sesso.

Ormai possiamo essere d'accordo con Deleuze quando esitava a definire i micro-dispositivi in
termini di potere: il potere, così come lo intende Foucault, ha a che fare con un altro livello, il
livello macro, strategico e complessivo che organizza in un piano di trascendenza il livello micro
dei rapporti di forza molteplici, che non possono non appartenere ad un piano d'immanenza come
soglie di deterritorializzazione-riterritorializzazione, facendo delle riterritorializzazioni un uso

104AE, p. 83
105Ivi, p. 92
106Ivi, p. 121
107Ivi, p. 85
esclusivo e assoluto, trascendente, e così chiudendo al desiderio le linee di fuga e le
deterritorializzazioni; facendo dei deliri una faccenda familiare, de-politicizzandoli, quando invece
“ogni delirio ha un contenuto storico-mondiale, politico, razziale; esso comporta e mescola razze,
culture, continenti, regni”108; l'effetto repressivo del potere di normalizzazione sta tutto qui, proprio
nel carattere che lo contraddistingue, nell'uso, o meglio in un certo uso della vita più che in una
repressione.
La resistenza a tale potere, immanente al potere stesso, si gioca sul piano d'immanenza in cui il
potere stesso è immanente; abbiamo visto che il problema dei piani è un problema d'uso, non di
luogo. Fare un uso immanente del potere stesso è stabilirsi al suo livello micro di rapporti di forza
molteplici, farne una questione di funzionamento e non di struttura. La materia resta la stessa, solo
che le “cose” diventano dei “come”; le intensità prendono il posto delle identità; i Soggetti e Oggetti
ridiventano oggetti parziali staccabili; il desiderio-mancanza e il piacere-compimento diventano
positivamente macchinismi concatenantesi tra gli oggetti parziali, diventano flussi. Le rigide
classificazioni e le divisioni esclusive di luoghi, tempi e persone, diventano una questione di soglie
e topologie; la struttura verticale, arborea, fa posto al rizoma, alla cartografia. Il Bene e il Male del
piano di trascendenza, fanno posto al buono e cattivo (si ricordi il seno buono e il seno cattivo di
Melanie Klein) del piano d'immanenza e dei rapporti di forza.
Il sapere a cui si lega il potere di normalizzazione, sul piano d'immanenza non perde il suo carattere
di strategia. Se il piano o uso trascendente d'organizzazione è inseparabile da una certa strategia e
dalla costruzione di un sapere per l'uso dei corpi, anche il livello micro ha a che fare con una certa
strategia, e un certo sapere. Certo, una strategia e un sapere che rinviano ad un uso ben diverso,
immanente109. Da una parte quindi avremo: “Stato-diagramma del potere (essendo lo Stato
l'apparato molare che effettua i micro-dati del diagramma come piano d'organizzazione); dall'altra
parte macchina da guerra-diagramma delle linee di fuga (essendo la macchina da guerra il
concatenamento che effettua i micro-dati del diagramma come piano d'immanenza)” 110. Questo
diverso diagramma, tutto immanente, è la “cartografia”, il “rizoma”, l'effettuazione delle linee di
fuga in un concatenamento complesso che opera “la congiunzione delle linee o dei punti di

108Ivi, p. 98
109 DP, p. 114: “mi sembra proprio che i micro-dispositivi abbiano per Michel una dimensione strategica”; Deleuze non
vede come invece rinviare il livello micro al modello tattico, piuttosto che strategico, come sembra suggerire Foucault.
In effetti, non essendoci il luogo della grande resistenza (v. VS, p. 85), del grande rifiuto, ed essendoci solo “ delle
resistenze”, sembrerebbe più appropriato parlare di tattiche, dando l'idea di una frammentarietà e di una segmentarietà,
piuttosto che di strategia, rinviabile più al livello macro e a un'idea di unitarietà. Penso che Foucault quindi volesse
semplicemente ribadire, con questa scelta, l'inesistenza o l'inconsistenza di una resistenza programmata e organizzata,
essendo il potere normalizzatore privo di un vero Soggetto detentore del potere. Una resistenza “nè ideologica né anti-
repressiva”, per Foucault, non può assumere un modello strategico, ideologico. Ma vedremo che la scelta di Deleuze di
mantenere il termine di strategia in riferimento al micro, cioè all'effettuazione dei concatenamenti delle linee di fuga in
un diagramma sul piano d'immanenza, ha tutto fuorché dell'ideologico.
110DP, p. 121
deterritorializzazione”111, e che va a costituire un “nuovo ordine, l'ordine intenso, intensivo” 112; una
macchina da guerra immanente che fa esplodere dall'interno i prodotti dell'organizzazione a suon
d'intensità, sfuggendo sulle sue linee di fuga all'edipizzazione e alla normalizzazione. E al sapere
del potere, al sapere macro, maggiore, fanno da controcanto sul piano d'immanenza “delle specie di
saperi <minori> […] tutto un sapere proprio a delle linee di resistenza, e che non ha la stessa forma
dell'altro sapere”113.
La costruzione di questa macchina da guerra, di questo rizoma, seguendo questi “saperi minori”, è
l'opera propriamente politica di Kafka, un'opera che è in se stessa “macchina letteraria”-macchina
da guerra; resistenza.

§ 3 – Kafka e resistenza

L'opera di Kafka è definita da Deleuze e Guattari una “letteratura minore”; ora possiamo capire il
profondo significato di questa definizione. Una letteratura minore ha a che fare con la dimensione
micro dei rapporti di forza, con il piano d'immanenza sul quale scorre il desiderio; proprio in quanto
“minore” è essenzialmente politica, è una “macchina letteraria”, una macchina di guerra che resiste
al potere e al sapere “maggiori”, traccia un diagramma delle linee di fuga, procede in intensità; in
essa il desiderio si deterritorializza, non consistendo in altro che intensità, aprendosi a molteplici
connessioni. E' una resistenza attiva, quindi; resiste all'edipizzazione, alla “familiarizzazione” del
desiderio: “Nelle letterature minori tutto è politica. Nelle “grandi” letterature, invece, il fatto
individuale (familiare, coniugale, ecc.) tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali,
mentre il contesto sociale serve soltanto da contorno e sfondo […] Il triangolo familiare si connette
agli altri triangoli, commerciali, economici, burocratici, giuridici, che ne determinano i valori.
Quando Kafka indica fra gli scopi di una letteratura minore <l’epurazione del conflitto che oppone
padri e figli e la possibilità di discuterne>, il suo non è un fantasma edipico ma un programma
politico”114. E come resistenza al macro, al potere, abbiamo visto che non si tratta di reazione, ma di
un uso immanente opposto ad un uso trascendente; non è una letteratura marginale, o di marginali,
ma un uso minore della letteratura: “l’aggettivo “minore” non qualifica più certe letterature ma le
condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura all’interno di quell’altra letteratura che prende il nome

111ibidem
112AE, p. 93
113DP, p. 122
114KLM, p. 30
di grande (o stabilita)”115.

Alla fine del capitolo precedente avevamo lasciato in sospeso, in merito al Processo, una questione
che in parte si sarà già risolta, con la definizione dei livelli micro e macro, e con l'affermazione
della loro immanenza reciproca. Ciò che definivamo “sensualità” nel Processo ora può essere
meglio inquadrata come quel livello micro dei rapporti di forza, quel piano d'immanenza su cui
scorre il desiderio, che passa attraverso la struttura trascendente del potere normalizzatore. La
giustizia è già immediatamente desiderio, “è il processo immanente del desiderio” 116, non ha nulla
ha che fare con la Norma nel suo uso trascendente; è il funzionamento della Norma, la
normalizzazione come prassi, il suo piano d'immanenza.
K si trova immerso in questo piano d'immanenza fatto di desiderio, di “giudici impastati di
desiderio”117, di donne e uomini equivoci, di seduzioni e perversioni. Ma non riescie ad uscire da un
vicolo cieco: la sua intransigenza, e la preoccupazione di liberarsi della propria colpa (ignota), di
dimostrare la propria innocenza. Si ostina a portare avanti la sua lotta per la libertà come un eroe
rivoluzionario: contro “un modo di procedere che viene adottato a danno di molti. Ed è per costoro
che io sono qui, non per me”118.
Intransigenza e smania di liberarsi dalla colpa: sono questi i suoi problemi. Leni glielo dice
chiaramente, premendosi contro il suo corpo: “Non è questo il suo errore […] è troppo
intransigente. […] corregga il suo errore, non sia più intransigente, non ci si può difendere da
questo tribunale, bisogna confessare. Soltanto dopo, sarà possibile sfuggire, soltanto dopo. Neppure
questo tuttavia è possibile senza un aiuto esterno, ma per questo non deve darsi pena, glielo offrirò
io stessa”119. E' questo il sapere minore cui accennavamo: un sapere che verte sul funzionamento,
più che sulla struttura; Leni parla di sfuggire al tribunale, non di dimostrare la propria innocenza. Lo
stesso Titorelli ha un sapere minore, esclude l'assoluzione effettiva, e nel differimento mostra un
altro modo per sfuggire al tribunale, cioè mantenendo il processo nel suo stadio più basso; e, come
Leni, sempre col suo “ambiguo” aiuto. Ma K rifiuta questi aiuti e queste soluzioni: è l'assoluzione
definitiva e completa ad interessargli, la sua innocenza va finalmente affermata e dimostrata, anche
se fin dall'inizio gli viene detto: “non faccia tanto chiasso con il suo sentirsi innocente, ciò cancella
l'impressione non proprio cattiva che per il resto lei fa” 120; K non penserà mai a confessare una
colpa che non conosce nemmeno.
Non la conosce, ma sembra che ci creda. Mette tutti i suoi sforzi a cercare di liberarsi di una colpa,

115Ivi, p. 33
116Ivi, p. 90
117ibidem
118PR, p. 199
119Ivi, p. 232; corsivo mio
120Ivi, p. 184
che non consiste certo in un atto compiuto contro la legge, ma in una “colpa senza infrazione” nei
confronti della Norma. Su K, quindi, è evidente l'azione essenziale del potere di normalizzazione e
di edipizzazione: la colpevolizzazione, la “cattiva coscienza”. E' la colpa stessa, il senso di colpa, ad
attirare il tribunale; il tribunale “ti accetta quando vieni e ti lascia quando vai” 121, dipende solo dal
senso di colpa che ti accolli. Liberarsi dalla colpa non significa dimostrare di essere innocente, ma
non sentirsi colpevole; è resistere alla colpevolizzazione. Leni, nel suo sapere minore, proponeva
una confessione senza colpa, una confessione per “andare avanti”, l'unico modo per sfuggire al
tribunale, cioè passargli attraverso, trovare una via d'uscita, di fuga, non senza il suo aiuto,
appollaiata sulle sue ginocchia; Titorelli propone un aiuto analogo, un rapporto continuo con lui
stesso e con il tribunale, con la giustizia-desiderio, in cui la colpa è dimenticata e l'innocenza è
provata, in un certo modo agita. E anche quando K comincia a capire che “se voleva ottenere
qualche risultato, doveva innanzitutto eliminare fin dall'inizio ogni pensiero di possibile colpa. Non
c'era alcuna colpa. […] non poteva stare a giocare con pensieri di una chissà quale colpa, bensì
pensare esclusivamente al proprio vantaggio”122, congeda l'avvocato e comincia a scrivere da solo le
memorie della difesa, un lavoro interminabile ed estenuante: “all'oscuro dell'attuale imputazione e
delle sue possibili estensioni, tutta la vita fin nelle più piccole azioni e nei più piccoli avvenimenti
doveva essere portata nella memoria, esposta ed esaminata da tutti i punti di vista” 123. Un accenno
ad una macchina letteraria di guerra, ad una resistenza? Molti indizi lo fanno credere, soprattutto
quelli che fanno riferimento alla realtà biografica di Kafka e al suo rapporto con la scrittura:
“doveva farla a casa, di notte. Se non fossero state sufficienti le notti, allora doveva prendere una
licenza”124. Ma la memoria è un lavoro “triste”, “com'era triste un lavoro del genere!” 125; non è
ancora una macchina di guerra che difenda attaccando, a suon di intensità, di desiderio, di vera
innocenza, che faccia dell'innocenza e della colpa stesse un uso immanente, positivo; la memoria di
difesa crede ancora alla colpa che vorrebbe dimostrare infondata. K rimane sulla strada sbagliata,
perché continua a credere ad Edipo e alla sua colpevolizzazione: “la credenza è necessariamente
qualcosa di falso, che devia e soffoca la produzione effettiva”126.
Il Processo è certo parte della macchina letteraria di Kafka, nel romanzo il desiderio si concatena e
corre su un piano d'immanenza; non fa che mostrare la via di fuga, ma è la storia del fallimento di
una resistenza giocata sul piano sbagliato, di un uso della colpa ancora trascendente; K rimane
sopraffatto dalla colpa, dal senso di colpa, tanto da morire “come un cane […] ed era come se la
vergogna gli dovesse sopravvivere”127.

121Ivi, p. 289
122Ivi, p. 241
123Ivi, p. 242
124ibidem
125ibidem
126AE, p. 119
127PR, p. 292
In cosa consiste allora una resistenza alla colpevolizzazione? Come usare la colpa stessa in senso
immanente?

Il potere per esercitarsi passa attraverso un sapere; o meglio, costruisce un certo sapere, una
discorsività, attraverso un certo uso del linguaggio, un uso trascendente, “maggiore”. E la
copevolizzazione, per essere effettiva, ha prima di tutto bisogno di questo uso del linguaggio, che si
fa dispositivo di potere; un uso edipico del linguaggio, in cui è il Fallo-Significante a instillare quel
“manque” nel desiderio, a renderlo manchevole.
“Il linguaggio esiste solo attraverso la distinzione e la complementarità di un soggetto di
enunciazione, rispetto al senso, e di un soggetto d’enunciato, rispetto alla cosa designata,
direttamente o metaforicamente. Questo uso ordinario del linguaggio può essere definito estensivo o
rappresentativo: funzione riterritorializzante del linguaggio”128. E' dunque un uso del linguaggio che
ha come prima condizione l'estrazione di un Soggetto, “soggetto d'enunciazione fittizio, IO
assoluto”, che sia “la causa degli enunciati, dei quali il soggetto relativo [il soggetto d'enunciato]
può essere tanto un io, quanto un tu, un egli come pronomi personali assegnabili in una gerarchia e
una stratificazione della realtà dominante”129, dei soggetti d'enunciato “docili e dimessi” 130. Un
Soggetto sempre colpevole, cioè sempre causa di un enunciato che lo manifesta, lo esprime, ma che
non è espressione, funzione, processo in quanto tale; esprime un inconscio, lo interpreta, laddove
invece è l'inconscio stesso ad essere espressione di espressione, produzione di produzione;
“all'inconscio produttivo si è sostituito un inconscio che non poteva più che esprimersi”131.
Una letteratura minore deve quindi prima di tutto resistere a ciò che di maggiore c'è nel linguaggio,
opporre ad un uso maggiore, “rappresentativo”, un uso intensivo. All'uso riterritorializzante del
linguaggio, alla territorialità edipica del Soggetto, opporre una deterritorializzazione della lingua,
“un uso puramente intensivo della lingua ad ogni suo uso simbolico, o significativo, o
semplicemente significante”132, in cui il Soggetto d'enunciazione assoluto faccia posto ad “una
sequenza di stati intensivi, una scala o un circuito di intensità pure che si può percorrere in un senso
o nell’altro, dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto” 133. Un nomadismo della lingua come
opposizione134, resistenza attiva del desiderio, un “uso nomadico e polivoco delle sintesi
congiuntive”135 che non produce più un soggetto colpevole e mancante, ma delle singolarità che si

128KLM, p. 37
129QPP, p. 75
130ibidem
131AE, p. 26
132KLM, p. 34
133Ivi, p. 39
134Ivi, p. 35: “come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua?”
135AE, p. 117
spalmano sul piano d'immanenza, “degli indefiniti che tuttavia non sono indeterminati (dei ventri,
un occhio, un bambino...)”136, e che si oppone all'uso segregativo e biunivoco dell'edipizzazione,
della normalizzazione: “uno dei primi oggetti della disciplina è il fissare: essa è un procedimento di
antinomadismo”137.
E' dunque questa la resistenza attiva di una letteratura minore: rendere attivo ciò che fatto reagire;
contro il Soggetto fissato, sempre mancante dinanzi alla Norma, colpevole della propria anormalità,
rispondere con singolarità anti-identitarie, indefinite ma non indeterminate, nomadi, e con
l'innocenza della colpa stessa, con una colpa finalmente innocente. Non credere più alla colpa,
affermare ciò che viene negato, colpevolizzato; dall'anormalità come negatività, come appoggio per
una normalizzazione, all'anormalità positiva, che fa saltare tutta la questione del normale e
dell'anormale, della mancanza e della “colpa senza infrazione”, in quanto più che liberare dalla
colpa le sfugge, rende la colpevolizzazione inefficace.

Liberarsi dalla colpa, non vuol dire dimostrare la propria innocenza, ma sfuggire alla
colpevolizzazione: “per Kafka l’essenza animale è la via d’uscita, la linea di fuga, anche senza
spostarsi dalla stanza, anche restando nella gabbia. Una via d’uscita, e non la libertà. Una linea di
fuga vivente e non un attacco”138.
Come avviene con Rotpeter, in Relazione per un’Accademia: “Non avevo via d’uscita, ma ne
dovevo trovare una, altrimenti non avrei potuto vivere” 139. Si tratta di trovare, o meglio di scavarsi
un varco; non certo farneticare un vago sogno di libertà, non certo fuggire – ma sfuggire in
continuazione. La fuga è considerata nient’altro che un “movimento inutile nello spazio, movimento
ingannatore della libertà”140. “Intenzionalmente non dico libertà. Non intendo quella grande
sensazione di libertà in tutte le direzioni. […] Per quanto mi tocca non pretendevo la libertà né
allora né adesso. Tra parentesi: con la libertà ci si inganna troppo spesso tra gli uomini. Come la
libertà va annoverata tra i sentimenti più nobili, così lo è anche la relativa illusione” 141. L’importante
è non farsi acchiappare, non farsi riterritorializzare: l’unico modo è scavarsi una via d’uscita: “No,
non volevo la libertà. Solo una via d’uscita; a destra, a sinistra, da qualsiasi parte. […] Andare
avanti, andare avanti! Pur di non restare fermi con le mani alzate, schiacciati contro una cassa che
funge da parete”142. Sfuggire piuttosto che fuggire, sfuggire all’organizzazione trovando un varco;
rimettere in movimento il desiderio, sfuggire all’immobilità, al tirangolo, “andare avanti!”; ma in
che modo? Il ragionamento di Rotpeter è semplice: “Da Hagenbeck le scimmie devono stare di

136QPP, p. 74
137SP, p. 238
138KLM, p. 63
139R, p. 128
140KLM, p. 24
141R, p. 128, corsivo mio
142Ivi, p. 129
fronte alla cassa che funge da parete, perciò smisi di essere scimmia”143. Rotpeter semplicemente
necessita di una via d’uscita “altrimenti non avrei potuto vivere” 144; in risposta a questo bisogno,
egli semplicemente smette di essere scimmia. E' una resistenza che si attua a livello dei contenuti
puri, a livello intensivo: resistere alle forme, al Soggetto, all'Oggetto, alla Norma, alla
triangolazione edipica, significa oltrepassarle, ma più precisamente oltrepassare il carattere di fissità
che le caratterizza; resistere all'assoggettamento, significa smettere di essere Soggetto,
metamorfosarsi. E’ una soluzione che consegue dal ragionamento più semplice, da “una bella e
chiara riflessione che devo aver concepito con la pancia”145, la soddisfazione di una necessità
irrinunciabile.
Non più Soggetto, quindi, ma singolarità; divenire-animale, divenire-bambino, “divenir-cane
dell’uomo e divenir-uomo del cane, divenir-scimmia o coleottero dell’uomo, e viceversa” 146.
Rotpeter non imita gli uomini rappresentandoli, ma entra in un “divenire-uomo dell'animale e un
divenir-animale dell'uomo”147. Un unico circuito di intensità pure: un desiderio non più stretto negli
angusti spazi di Edipo e della normalizzazione, del Soggetto mancante e dell'Oggetto mancato; un
inconscio non più “metaforico”, da interpretare, ma “metamorfico”, nomade; “La metamorfosi è il
contrario della metafora”148. Fare un uso immanente, positivo, del desiderio: significa lasciarlo
concatenare sul piano d'immanenza, dare a questi stessi concatenamenti perversi, polimorfi,
anormali, la positività che Edipo imbriglia; sfuggire continuamente ad Edipo, aprendo vie d'uscita
dal triangolo della “cattiva coscienza”; all'anormalità come degenerazione, arresto di sviluppo,
incompletezza e mancanza di totalità, opporre il divenire degli oggetti parziali e delle intensità
senza Soggetto, le singolarità sempre parziali ma non per questo mancanti, “indefinite ma non
indeterminate”, larve in perenne divenire che staranno sempre per uscire dall'uomo, e staranno
sempre per entrare nello scarafaggio; larve, ossia maschere nomadi, nient'altro che pure intensità
nella profondità-superficie del piano d'immanenza.

“Li imitavo perché cercavo una via d'uscita”; è imitando gli uomini che Rotpeter apre una via
d'uscita al desiderio. Una finzione non sottoposta al principio di realtà, ma positivamente apparenza,
un'apparenza che, per parlare nietzscheanamente, ha perso la sua distanza dal “mondo vero”, e fa
saltare la differenza fra “mondo vero” e “mondo apparente”; non c'è che apparenza, desiderio,

143Ivi, p. 128, corsivo mio


144ibidem
145ibidem; corsivo mio
146KLM, p. 39
147cfr. C, p. 8: “Divenire non significa mai imitare, fare come, e neanche conformarsi a un modello […] I tipi di
divenire non sono fenomeni di imitazione, né di assimilazione, bensì di doppia cattura, di evoluzione non parallela,
di nozze tra due reami.”; p. 11: “[…] il problema è quello di divenire-minoritario: non mimare, non fare o imitare il
bambino, il folle, la donna, il balbuziente, lo straniero, ma diventare tutto questo, per inventare nuove forze o nuove
armi.”
148KLM, p. 39
intensità che pulsa sulla superficie del piano d'immanenza, sul quale “la realtà ha cessato di essere
un principio. Secondo tale principio, la realtà del reale era posta come quantità astratta divisibile,
mentre il reale era distribuito in unità qualificate, in forme qualitative distinte. Ma, ora, il reale è un
prodotto che avvolge le distanze in quantità intensive. […] lo schizo è senza principi. […] non è una
fanciulla che essendo un vecchio che mima o simula di essere la fanciulla. O meglio, essendo uno
che simula di essere un vecchio che sta simulando di essere una fanciulla” 149. Insomma, da un teatro
rappresentativo, dalla rappresentazione di Edipo, ad un teatro intensivo, un teatro della crudeltà, un
teatro mimico; un’etica del mimo, un’etica della contro-effettuazione, che si basa sulla natura di
evento del gesto150. Contro-effettuare l’evento significa andare al di là delle sue effettuazioni, delle
sue riterritorializzazioni, per “fare di te stesso quello che sei”151: essere il divenire di se stessi,
metamorfizzarsi; entrare nel teatro naturale di Oklahoma che, come nota giustamente Benjamin,
“rimanda al teatro cinese, che è un teatro mimico. Una delle funzioni più importanti di questo teatro
naturale è la risoluzione dell’accadere nel gesto. […] tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di
gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto
interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove. Il teatro è la sede naturale di
questi esperimenti.152”

Il teatro è una cosa sporca, impudica, indecorosa. Si direbbe anche immorale. Un giovane ebreo, per
esempio, non dovrebbe nemmeno sapere dell'esistenza del teatro; figuriamoci di un teatro
ebraico153!
E' al teatro del varietà che ci riferiamo, al circo: in quel teatro “c'era tutto insieme: dramma,
tragedia, canto, commedia, danza, tutto insieme, la vita”154. E' il varietà, il circo, il luogo del
grottesco più impudico. Il cane delle Indagini, davanti al numero dei sette cani acrobati, è nello
stesso tempo attratto e indignato: “Come si comportavano! […] avevano rinunciato a ogni pudore,
quie miserabili facevano la cosa più ridicola e, al tempo stesso, più indecorosa […] dovevo far loro
da maestro, dovevo far loro capire che cosa facevano, dovevo impedire loro di continuare a
peccare.”; ma nello stesso tempo si fa sedurre dalla melodia che scaturisce dai movimenti dei cani:
“Ah! Che musica seducente evocavano quei cani! Non potevo più andare avanti, non potevo più far
loro da maestro, continuassero pure”155. E' un teatro della crudeltà; Teatro naturale di Oklahoma –
che, nota Benjamin, è un vero ippodromo156, una pista (Rennbahn), e anche un teatro mimico;
149AE, p. 96
150FK, p. 285: “Ogni gesto è un evento, si potrebbe quasi dire: un dramma a sé”
151QO, p. 77
152FK, p. 284; corsivo mio
153QO, p. 148: “Il teatro è una cosa proibita e peccaminosa […] un bambino ebreo non deve nemmeno sapere che
esista un teatro […] è una cosa proibita […] esisteva solo per cristiani e peccatori”
154Ivi, p. 151
155R, 306
156FK, p. 284
insomma un circo. E per Karl Rossmann un circo è l'ultima opportunità; lo era anche per Rotpeter e
per il Digiunatore.

Il circo chiama tutti a recitare se stessi, chiama le anormalità. E' solo quando l'anormalità è
colpevolizzata, cioè quando è oggetto di vergogna, che questo circo si trasforma in un tribunale. E il
tribunale del Processo, con le sue sedute domenicali, tradisce non pochi caratteri circensi, e da
teatrino del varietà157: platea e galleria, palco, risa, applausi, mormorii di disapprovazione. Il padre
della condanna tiene il suo spettacolo da commediante in piedi sul letto; gli esecutori di K nel
Processo (“In quale teatro recitano?”158) mettono in scena il loro pezzo come due clown.
Da circo a tribunale, la differenza sta nella vergogna.
In Descrizione di una lotta, l'orante è chiamato a rispondere del suo comportamento anormale: in
chiesa, davanti a tutti, mettere in scena quell'atteggiamento grottesco! Lo si richiama al senso del
pudore, ed in un modo strano a prima vista: la sua preghiera “sconcia” e sgradevole, il suo modo di
prostrarsi a terra e battersi il capo, compiacendosi degli sguardi altrui, viene definito un “mal di
mare sulla terraferma. Consiste nel dimenticare i nomi veri delle cose e profondere frettolosamente
su di esse nomi a caso. Ma di furia, ma di furia! Però appena siete scappato da essi, avete
dimenticato nuovamente i loro nomi. Il pioppo nei campi che avete chiamato Torre di Babele,
perché non sapevate o non volevate sapere che era un pioppo, ondeggia nuovamente senza nome e
voi dovete chiamarlo Noé mentre era ubriaco” 159. E' di questo che si tratta, in fondo: la normalità
che consiste nel dare alle cose i loro nomi, “incedere impettito e grave, battendo il bastone sul
selciato e sfiorando gli abiti della gente che passa”, “dire senza riflettere e non troppo chiaramente,
come se tutti se l'aspettassero”, con naturalezza, che “si sta facendo merenda in mezzo al verde”.
L'orante resiste alla colpevolizzazione, non si vergogna di questa anormalità, “perché dovrebbe
vergognarsi” se le cose non sono così belle e tranquille come dice la gente, ma vacillano, e vacilla
lui stesso, se le cose, quando perdono i loro nomi, perdono la loro superbia 160. Tutto si agita in
vortici, come carta velina gialla che si piega secondo la corrente d'aria che in quel momento è nella
stanza, e “un giorno tutti gli uomini che vogliono vivere dovranno sembrare come me: ritagliati da
carta velina gialla, ben sagomati, e quando cammineranno, si dovrà sentire che frusciano. Non
saranno altro da quello che sono ora, ma lo sembreranno”161.
L'orante è un clown, non certo un accusato. Come in chiesa, anche al ricevimento non può fare a
157Nel film di Welles, K è prelevato proprio da uno spettacolo di varietà a cui stava assistendo, quella sera di
domenica, per presenziare alla prima udienza. Da un teatro ad un altro, dalla platea alla ribalta.
158PR, p. 290
159R, p. 194
160R, p. 199: “è per trascuratezza che io continuo a dare il nome di luna a te che sei chiamata luna. Perché non sei più
tanto superba quando ti chiamo “lampioncino di carta dimenticato dal colore strano”. E perché ti tiri quasi indietro
quando ti chiamo “colonna di Maria”, e non riconosco più il tuo atteggiamento minaccioso, colonna di Maria,
quando ti chiamo “luna dalla luce gialla”
161R, p. 197; corsivo mio
meno di mettersi in mostra, e “contribuire al divertimento”: dopo la sua non-esibizione al pianoforte
viene applaudito come si farebbe davanti ad una scena buffa, e viene anche abbigliato da pagliaccio;
il padrone di casa “uscì e ritornò immediatamente con un cilindro gigantesco e un soprabito a fiori
color marrone rame. <Ecco le sue cose>. Non erano certo le mie cose”162.
I due usi di ciò che chiamiamo anormalità devono la loro differenza reciproca unicamente alla
vergogna, cioè al senso di colpa. Il clown e l'accusato, il circo e il tribunale. Ma è col circo che la
resistenza trova il suo luogo ideale, col circo aperto a tutti e a tutte le anormalità. Attenzione: non si
tratta propriamente di luoghi, ma di modi. E' il modo in cui K si atteggia nella sua vicenda a farne
un accusato, e ad attirare il tribunale (“il tribunale è attirato dalla colpa”), a fare del suo processo un
procedimento giudiziario invece di uno spettacolo del varietà; è K stesso che “attira il tribunale”,
che crede alla colpa e se ne accolla il peso; è K che si ostina ad usare il teatrino del varietà-bordello
in cui è chiamato il giorno della prima udienza come un'aula di tribunale; è sempre K a cercare nei
romanzi sconci dei giudici dei libri della legge; è sempre un problema d'uso. Il peso della colpa è K
a portarlo, e nella sua smania di liberarsene trascura il fatto più importante: non accollarselo per
niente163.

“Il sistema ci vuole tristi, e dobbiamo arrivare ad essere gioiosi per resistergli”. In questo,
fondamentalmente, consisterebbe una resistenza attiva, agita, alla colpevolizzazione di Edipo e della
Norma. E Kafka, con la sua macchina letteraria, ha sperimentato questa resistenza, questo riso,
questa nuova forma di libertà per una nuova forma di oppressione: “Kafka è un autore che ride,
profondamente gioioso, d’una gioia di vivere, nonostante e con le sue dichiarazioni da clown, che
egli tende come una trappola o come un circo. E’ un autore politico da cima a fondo, indovino del
mondo futuro”164; la sua macchina letteraria è tutta una “Descrizione di una lotta”, una
sperimentazione politica, “una prognosi delle forze e delle correnti sociali, delle potenze che ai suoi
tempi si limitano ancora a bussare alla porta”165, quelle potenze che sarebbero diventate la macchina
burocratica e la macchina capitalistica. La sua resistenza è macchina desiderante-letteraria, che
libera il desiderio, sfugge al Soggetto, alla colpa e alla mancanza; è via di fuga, non libertà, perché
“on n'echappe pas de la machine”, e non si può fare altro che passarle nomadicamente,
gioiosamente attraverso.

162Ivi, p. 199
163FK, p. 304: l'importante è che “il peso sia stato tolto di dosso”
164KLM, p. 74
165Ivi, p. 97
BIBLIOGRAFIA

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– W. Benjamin, Angelus Novus; Einaudi, 1962

– G. Deleuze: Nietzsche e la filosofia, e altri testi; Einaudi, 2002 (prima edizione Paris, 1962)

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con Felix Guattari: L'anti-Edipo; Einaudi 1975 (prima edizione Paris, 1972)

Kafka, Per una letteratura minore; Quodlibet 1996 (prima edizione


Paris, 1975)

– M. Foucault: Sorvegliare e punire; Einaudi, 1976 (prima edizione, Paris 1975)

La volontà di sapere; Feltrinelli, 1978 (prima edizione, Paris 1976)

Il pensiero del Fuori; SE 1998 (prima edizione, éditions Fata Morgana, 1986)

Gli anormali; Feltrinelli, 2000 (prima edizione, Paris 1999)

– S. Freud: Tre saggi sulla sessualità (1905), in Freud, Opere 1886-1921; Newton, 1992

Il caso di Dora (1905); Il caso del piccolo Hans (1909); Il caso


dell'uomo dei topi (1909); Il caso di Scheber (1911); in Freud, Opere 1886-1921,
cit

– F. Kafka: Tutti i racconti; Newton, 1974

Il processo, America, Il Castello; Newton, 1997

Diari; Mondadori, 1999

Lettera al padre, Gli otto quaderni in ottavo; Mondadori, 1972

Lettere; Mondadori, 1988

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