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Per il diritto del lavoro, l’unica particolarità è l’art. 2078 del Codice Civile secondo il quale “gli usi
prevalgono sulle norme dispositive di legge, se più favorevoli al prestatore di lavoro” (è un’integrazione e
non una modifica).
Il diritto del lavoro non deriva soltanto dal legislatore, ma anche dalla volontà politica: il diritto del lavoro ha
una funziona solo ausiliaria della contrattazione collettiva.
In certi ambiti, quali la legislazione di sostegno dell’attività sindacale, il diritto del lavoro ha, invece, una
funzione promozionale (di incentivazione).
L’autonomia collettiva è il potere d’auto-regolamento delle collettività professionali, che influenza la fonte
di produzione legislativa. Le tecniche tipiche della contrattazione collettiva sono:
1. recezione
2. consolidazione
3. estensione
Esistono tre fasi storiche del diritto del lavoro:
1. legislazione sociale
2. incorporazione
3. costituzionalizzazione
1. La legislazione sociale
Si sviluppa dopo il 1750, con le rivoluzioni industriali, e prevede norme eccezionali rispetto al diritto
privato.
Già il Codice Civile del 1865 prevedeva una disciplina (solo) della “locazione delle opere e dei servizi”.
Per esempio, sanciva il divieto di stipulare contratti di lavoro a vita, per evitare il ritorno alla servitù.
La regolamentazione del lavoro industriale, invece, era lasciata all’autonomia privata, in conseguenza del
liberalismo.
Alla fine del XIX secolo, si sviluppano disposizioni, in deroga al Codice Civile (diritto comune), per la tutela
del lavoratore quale contraente più debole (definita dalla dottrina “legislazione di classe”).
Al metodo legislativo si accompagnava il metodo contrattuale o dell’autotutela collettiva.
Traggono rilevanza le consuetudini in quanto applicazioni di accordi collettivi. In Italia lo sviluppo dei
sindacati portò all’elaborazione della disciplina del contratto di lavoro operaio, specie in seguito
all’istituzione dei Collegi dei Probiviri del 1893 (tendenza liberale): collegi con la funzione di regolare le
controversie tra le parti sociali, che, tuttavia, si limitavano a conciliarle sulla base delle regole dettate dalla
prassi (formazione extralegislativa del diritto del lavoro).
2. L’incorporazione
La prima legge sull’impiego privato risale al 1919, sostituita poi dal più completo R.D.L. (regio decreto
legge) del ’24, che separava il lavoro manuale da quello intellettuale.
Un altro fenomeno fu quello della contrattazione collettiva corporativa, risalente al periodo fascista.
Il corporativismo non era espressione dell’autonomia collettiva, ma della competenza del sindacato unico
(fascista, appunto), che, di fatto, aveva negato la libertà sindacale. Vi era un decentramento delle competenze
della legge ai contratti collettivi. Essi erano atti normativi (del s.u.f.) di efficacia imperativa erga omnes.
Le eventuali controversie avrebbero dovuto essere decise dalla Magistratura del Lavoro (che mai
intervenne).
Queste erano le premesse prima della redazione del Codice del ’42.
L’intervento del legislatore, con l’inserzione del diritto del lavoro nella codificazione unificata del diritto
privato, fu realizzato soprattutto sul piano della tecnica legislativa. In particolare, venne generalizzata la
tutela del lavoratore sotto il profilo delle condizioni minime di trattamento e della garanzia
dell’inderogabilità ed indisponibilità di tali condizioni.
Si instaurava così, vedi anche l’art. 2077 del Codice Civile, il principio della prevalenza della norma più
favorevole al lavoratore che, ad oggi, lascia, comunque, alle leggi speciali un ruolo preponderante.
3. La costituzionalizzazione
Il Codice Civile, del ’42, prevede 3 componenti fondamentali del diritto privato:
1. diritto civile
2. diritto commerciale
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Flessibilizzazione, riforma della P.A. e del lavoro pubblico, riforma del titolo V della Costituzione.
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Negli anni ’90 si ha lo sviluppo delle pratiche concertative tra Governo e parti sociali, il cui apice è il
protocollo del ’93.
Va segnalata la riforma del pubblico impiego, che ha comportato una modificazione dello status iuris dei
pubblici dipendenti, il cui rapporto di lavoro è stato trasferito dall’area del diritto pubblico a quella del diritto
civile, aperta alle negoziazioni private, dunque più razionale ed efficiente, secondo anche un criterio di
adeguamento all’UE.
La riforma del Titolo V della Costituzione introdotta nel 2001 prevede una forma di federalismo legislativo e
attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato (ex art. 117 Cost.) le seguenti materie:
- ordinamento civile
- livelli essenziali di diritti civili e sociali
- previdenza sociale
Affida, invece, alla competenza concorrente tra Stato e Regioni:
- istruzione e formazione professionale
- tutela e sicurezza del lavoro
- previdenza complementare e integrativa
La riforma ha suscitato dubbi sull’ambigua espressione “tutela e sicurezza del lavoro”, che, secondo una
certa dottrina, lascia alle Regioni l’intera regolamentazione del rapporto di lavoro. Secondo una lettura
preferibile, invece, sarebbero loro affidate solo la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Profili storici
Il libro V del Codice civile regola, dagli artt. 2094 in poi il rapporto di lavoro.
L’unificazione del diritto civile con il diritto commerciale ha portato alla c.d. commercializzazione del diritto
civile.
Per quanto attiene al rapporto individuale di lavoro, il Codice vigente riafferma essenzialmente lo scambio
tra retribuzione e prestazione intellettuale o manuale.
Nello stesso libro V sono collocate al di fuori dell’impresa il lavoro autonomo o domestico, considerando il
lavoro organizzato nell’impresa come modello normativo tipico del rapporto di lavoro.
La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione ed al controllo del datore di lavoro
nell’impresa
Il legislatore tende a far coincidere la figura del contratto di lavoro con la nozione di lavoro manuale
salariato.
In passato (legge del 1893) si demandava alla competenza dei Collegi dei Probiviri tutte le controversie
relative al contratto tra industriali e operai. La subordinazione veniva individuata dal collegamento tra la
prestazione e l’azienda industriale. Era assente, tuttavia, nel periodo, una definizione positiva della
subordinazione: si definiva operaio “chiunque […] occupato nel lavoro fuori della propria abitazione”.
Per la giurisprudenza, la subordinazione tendeva ad identificarsi con il comportamento dovuto dal lavoratore
in attuazione della propria obbligazione, per tutto il tempo in cui è rimasto a disposizione dell’imprenditore.
Nel Codice Civile l’art. 2094 identifica la collaborazione con il risultato tecnico-funzionale reso dal
lavoratore in cambio della retribuzione. L’elemento della collaborazione si può ritenere tutt’ora attuale.
La parasubordinazione (CO.CO.CO)
Si può convenire che l’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale sia un sicuro indice di
collaborazione (ad es.: osservanza degli orari di lavoro), ma non che abbia valore assoluto: l’inserzione si
può avere anche sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa anche nel lavoro autonomo: si tratta
di un elemento di atipicità riconosciuta all’autonomia delle parti nei contratti.
Il legislatore, infatti, nel 1973, ha riconosciuto l’inserzione come elemento tipico ma non esclusivo della
subordinazione.
Nel contratto di lavoro coordinato ma non subordinato viene soddisfatto un interesse dell’imprenditore.
Questo interesse:
- è continuativo sul piano della ripetizione nel tempo delle singole prestazioni di risultato
- è discontinuo sul piano della disponibilità del lavoratore: si dice che il lavoratore non è vincolato a
tenersi a disposizione del committente (ovvero dopo una prestazione può cambiare datore)
Questo contratto permette all’impresa maggiore flessibilità.
Il sistema previdenziale
La costituzione obbligatoria del rapporto di previdenza sociale intercorre tra datore, lavoratore ed enti
previdenziali.
In passato, con il codice civile del 1865, esisteva il rischio professionale dell’imprenditore nei confronti dei
terzi per il fatto dei dipendenti, con o senza colpa. Poi è stata introdotta l’assicurazione obbligatoria.
Essa è demandata dall’art. 2114 c.c. alle leggi speciali. Esistono, tuttavia, alcuni scostamenti.
Tra essi vi è il principio dell’automaticità delle prestazioni (art. 2116), in virtù del quale le prestazioni sono
dovute indipendentemente dal concreto versamento dei contributi.
Un’eccezione si ha per le pensioni di vecchiaia: qualora, a causa del mancato versamento del datore, il
lavoratore non consegua il diritto alla pensione, egli ha diritto al risarcimento del danno da parte del datore di
lavoro.
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I rapporti associativi
Simili rapporti non sono riconducibili alla subordinazione, in quanto l’elemento causale non è determinato
dallo scambio tra prestazione e retribuzione, ma da tre fattori:
1. esercizio comune di un’attività economica
2. comune assunzione del rischio d’impresa
3. comune scopo di lucro
L’art. 2263 stabilisce che per il socio d’opera la ripartizione dei guadagni è decisa secondo equità dal
giudice.
Secondo lo schema dell’associazione in partecipazione, la gestione dell’impresa (o dell’affare) spetta
all’associante, mentre l’associato partecipa agli utili, con o senza vincolo di subordinazione, avendo anche
diritto al resoconto (l’interesse è comune ad associato ed associante). Abbiamo infine gli amministratori di
società (“gruppo D” di economia e gestione delle imprese), che possono o meno essere dei soci, ma sempre
titolari di un rapporto organico con la società e la cui posizione può coesistere con un rapporto di lavoro
subordinato alle dipendenze della società stessa.
Essi sono:
1. titolari del diritto alle prestazioni mutualistiche (ricerca e ripartizione delle occasioni di lavoro)
2. titolari del diritto di ripartizione degli utili
3. titolari del rischio d’impresa
4. obbligati alla prestazione in adempimento del patto sociale per l’attuazione dello scopo mutualistico
In particolare, la nuova legge investe il socio lavoratore della titolarità di due diritti:
1. associativo
2. di lavoro
Secondo la legge 142 del 2001, il socio mette a disposizione la propria capacità professionale “anche in
relazione allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili”.
Il rapporto di lavoro, ulteriore e distinto da quello associativo, può essere apportato in qualsiasi forma.
Sulla scia della legge quadro sul volontariato, la legge del 1991 prevede le cooperative sociali, il cui scopo,
come la legge stessa cita, è “la promozione e l’integrazione sociale dei cittadini” (es.: tossici, invalidi, etc.).
I rapporti associativi in agricoltura presentano, invece, un valore ormai quasi esclusivamente storico, in
quanto sono stati sostituiti nella pratica, e nella legislazione stessa, dall’affitto di fondi rustici.
Con le leggi del ’64 e dell’82 sono scomparsi la colonìa parziaria, la soccida e la mezzadria.
CAPITOLO III: Autonomia privata e rapporto di lavoro; la formazione del contratto di lavoro
La compressione dell’autonomia negoziale serve alla correzione del contenuto contrattuale piuttosto che alla
sua riduzione. Il principio dell’inderogabilità si combina con il principio del trattamento più favorevole al
lavoratore (favor).
La c.d. legislazione della flessibilità riconosce il potere di introdurre anche modifiche sfavorevoli in funzione
delle esigenze dell’impresa: è un’eccezione alla regola del favor.
3. Principio della infungibilità soggettiva della prestazione: all’opposto, la successione nel contratto di
lavoro, (sia mortis causa sia inter vivos) è da ritenere esclusa dal lato del lavoratore, in ragione della
rilevanza della persona ai fini dell’esecuzione della prestazione.
Procedimento di formazione del contratto. La forma e la rilevanza del consenso sulla genesi.
Si prevedono due elementi essenziali per il contratto di lavoro (come per i contratti in generale):
1. Il consenso: il contratto è l’effetto della volontà delle parti, quindi la sua formazione dipende
dall’incontro fra proposta e accettazione. Il problema è stabilire quando si verifica l’esatta
corrispondenza tra esse: essa avviene mediante l’adesione del lavoratore alla offerta di lavoro del
datore. Ma, diversamente dal contratto di adesione, la determinazione uniforme non è unilaterale
bensì bilaterale.
2. La forma: vige il principio della libertà della forma, facendo eccezione soltanto (necessitano di
forma scritta):
a. I contratti di arruolamento marittimo (concluso per atto pubblico)
b. I contratti di lavoro a tempo parziale
c. I contratti di lavoro per prestazioni temporanee
d. I contratti di formazione e lavoro.
La Direttiva 1991 n°91/553, attuata con il D.Lgs del ’97 n° 152, ha imposto al datore l’obbligo di
informazione (riguardo al luogo di lavoro, data di inizio, durata etc.), che può essere adempiuto nella lettera
d’assunzione entro 30 gg.
Il momento genetico ed il momento attuativo sono due momenti distinti, in tutti i tipi di contratti, ma per
quel che riguarda il rapporto di lavoro il momento attuativo è molto più importante, per due motivi:
1. La qualificazione (autonomo o subordinato)
2. La prova dei fatti (art. 1697 c.c.)
Ovvero: lo svolgimento della prestazione è ritenuto comportamento concludente ai fini della prova e del
contenuto.
Il periodo di prova
L’art. 2096, al primo comma, prevede che “salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione
del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare per atto scritto”. Se privo di forma scritta,
richiesta ab sustantiam, il patto è nullo e l’assunzione è da ponderarsi definitiva. Al terzo comma prosegue:
“Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza obbligo di preavviso. Se
però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della
scadenza del termine”. Per quanto riguarda il tempo massimo, invece, il legislatore è intervenuto limitandolo
a sei mesi. Anche alla fine di una prova al lavoratore spettano il TFR e le ferie e, qualora assunto, il periodo è
valido per gli scatti di anzianità.
All’art. 38 vieta le indagini per l’accertamento della sieropositività. La Corte Cost. ha, tuttavia, ammesso
indagini sanitarie allo scopo di prevenire rischi per la salute dei terzi.
L’art. 15 dello Statuto vieta ogni discriminazione, nell’assunzione, per motivi di ordine sindacale, politico,
razziale, religioso, di lingua e di sesso.
Due direttive comunitarie, risalenti al 2000, vietano le discriminazioni fondate sulla razza, sull’origine
etnica, sulle religioni, sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull’età o sulle tendenze sessuali.
Vietano, inoltre, le molestie che violino la dignità della persona o abbiano carattere intimidatorio.
Qualora violate, queste misure per la parità di trattamento implicano una sanzione penale, ex art. 38 dello
Statuto.
Secondo l’art. 1176, “nell’adempiere all’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di
famiglia” e “nell’adempimento professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività
esercitata” e dovuta.
La diligenza dell’art. 2104 non è intesa come concetto etico, ma è riferita alle modalità di attuazione.
Oltre alla natura della prestazione dovuta l’art. prevede altri due criteri:
1. L’interesse della produzione nazionale: le attività economiche dovevano tendere ad un fine comune.
Tale riferimento è stato abrogato implicitamente con la caduta delle corporazioni.
2. L’interesse dell’impresa; esso è possibile in senso:
- Oggettivo (dell’impresa)
- Soggettivo (dell’imprenditore)
L’obbedienza
Essa si manifesta nel rispetto del potere direttivo. Esso può essere demandato ai collaboratori secondo
principi gerarchici. I comandi dell’imprenditore possono essere di dure tipi:
1. attinenti all’organizzazione del lavoro
2. attinenti alla regolamentazione della convivenza della comunità “impresa”.
Alla tutela del patrimonio aziendale sono finalizzate anche le visite personali di controllo. L’art. 6 ha
previsto, in caso di mancato accordo, l’intervento autorizzatorio della Direzione provinciale del lavoro, con
provvedimento impugnabile davanti al Ministro del lavoro entro 30 giorni.
Le mansioni e la qualifica
La prestazione di lavoro consiste in un facere. Per individuarla concretamente si fa riferimento alle mansioni.
Esse costituiscono i compiti che possono essere pretesi dal datore, vale a dire che sono il criterio di
determinazione qualitativa della prestazione, identificate:
- dal punto di vista dell’organizzazione → con la posizione di lavoro (job)
- dal punti di vista dell’obbligazione → con l’oggetto della prestazione
Va segnalata, infine, la divisione del lavoro in relazioni funzionali: i processi ed i contenuti delle mansioni,
grazie alle innovazioni informatiche e tecnologiche, si stanno differenziando dai precedenti modelli fordisti e
tayloristi, e ciò non è privo di rilievo ai fini della determinazione della retribuzione stessa, come vedremo nel
prossimo paragrafo.
Il secondo comma dell’art. 96 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile stabilisce che
“l’imprenditore deve fare conoscere al lavoratore, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica…”.
È evidente che un’analoga comunicazione si dovrà fare nelle ipotesi di mutamento di mansioni.
L’assegnazione delle mansioni è, dunque, il presupposto per il c.d. inquadramento individuale del prestatore
di lavoro.
• Per qualifica si intende l’attività che egli svolge o l’insieme di mansioni che ne individuano la figura
professionale (la distinzione tra operai qualificati e non, non significa che i secondi siano privi di
qualifica, ma soltanto che non abbiano certe conoscenze tecniche).
• Per categorie si intendono:
o Le categorie legali, individuate dall’art. 2095 c.c., che prevedono una distinzione dei
lavoratori in:
Dirigenti
Quadri
Impiegati
Operai
o Le categorie contrattuali, individuate in passato dai contratti collettivi, che distinguevano:
Impiegati
Operai all’interno di queste 2 categorie distinguevano, per contratti, altre
articolazioni.
Con l’inquadramento unico (che vedremo) le sottoarticolazioni sono state sostituite dai livelli di
inquadramento.
Le categorie legali
Come visto, esse sono contemplate direttamente dal legislatore: il 2095 c.c., al secondo comma, prevede che
le leggi speciali e le norme corporative ne determino i requisiti di appartenenza.
Tali requisiti sono fissati dalla legge sull’impiego privato (R.D.L. del 1924 n° 1825), ma in via sussidiaria
della contrattazione collettiva, che può costruire e definire proprie categorie. Considerata la prevalenza della
contrattazione collettiva, si può affermare che le categorie siano, quasi sempre, di tipo contrattuale e non più
legale.
…l’inquadramento unico.
Esso si fonda su una pluralità di livelli, comuni sia all’impiegato sia all’operaio: si divide in categorie, ma
per livelli retributivi (7 o 8). L’appartenenza ai livelli è determinata da definizioni declaratorie, ovvero
definizioni basate sulla capacità professionale, che comportano una nuova scala di categorie contrattuali.
I dirigenti
In un primo tempo, essi vennero considerati impiegati con funzioni direttive.
La loro distinzione è diventata notevole quando si è giunti ad organizzazioni sindacali separate.
I dirigenti:
- hanno un regime previdenziale particolare,
- possono essere assunti liberamente con contratto a termine per una durata non superiore a cinque
anni,
- non godono della tutela contro i licenziamenti,
- ma godono di un trattamento notevolmente privilegiato.
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Nota: la contrattazione collettiva qualifica come dirigenti i lavoratori che “ricoprono nell’azienda un ruolo
caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale” e rimanda
l’attribuzione della qualifica dirigenziale al riconoscimento (c.d. nomina) da parte dell’imprenditore.
La giurisprudenza dà rilievo, come sempre, all’effettivo svolgimento dell’attività, lasciando intendere che le
caratteristiche fondamentali del rapporto dirigenziale siano:
- il contratto immediato
- ed il vincolo fiduciario
Nella realtà esistono dirigenti privi di poteri direttivi o lavoratori che, provvisti di forza contrattuale, riescono
ad ottenere la qualifica di dirigente. Una definizione astratta, quindi, è priva di fondamento (in passato si
parlava anche di alter ego dell’imprenditore) e, nella pratica, si suole rimandare ai concetti di top manager.
I quadri intermedi
Il loro riconoscimento giuridico è dato dall’art. 1 della legge n° 190 del 1985. Questa legge è stata voluta dai
sindacati della categoria per contrastare l’appiattimento dei salari. Essa estende ai quadri le norme applicabili
agli impiegati.
I quadri, però, hanno funzioni in comune con i dirigenti; al 2° comma, infatti, la norma definisce quadri i
lavoratori che “svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e
dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”. Nell’ipotesi in cui sia assente la contrattazione collettiva, è,
comunque, sempre possibile rifarsi al principi dell’adeguatezza e della proporzionalità sanciti dall’art. 36
della Costituzione.
La mobilità orizzontale
Essa consiste nell’assegnare mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, e non basta che le
retribuzioni siano uguali per affermare quest’equivalenza. L’affinità di mansioni si ravvisa nella
conservazione della posizione professionale acquisita.
In mancanza di eventuali patti, la determinazione del luogo appartiene al datore. Il trasferimento è definitivo,
ed in ciò si differenzia dalla trasferta; può essere disposto soltanto per comprovate ragioni tecniche o
organizzative che l’imprenditore ha l’onere di provare. (art. 2067) e di comunicare.
Vi è la necessità del nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza qualora il trasferimento riguardi i
dirigenti delle r.s.a. Per i funzionari pubblici è richiesto il loro consenso espresso.
Le norme del Codice Civile (2107 e 2108) rinviano alla contrattazione collettiva. Per le aziende industriali e
commerciali vige ancora in parte il R.D.L. n° 692 del ’23, in base al quale la durata massima normale del
lavoro effettivo (esclusi: attesa e custodia e lavori discontinui) non poteva essere superiore a 8 ore giornaliere
o 48 settimanali.
L’art. 5 del R.D.L. del ’23 (confermato dall’art. 2108 del Codice del ’42) intendeva il lavoro straordinario
come prolungamento dell’orario normale, stabilendo che potesse essere svolto solo previo accordo tra le parti
e non potesse superare le 2 ore giornaliere e le 12 settimanali, con una maggiorazione della retribuzione del
10%.
L’art. 4, invece, prevedeva che nei lavori agricoli e in quelli con necessità tecniche potessero essere superati i
limiti.
Il R.D.L. escludeva totalmente dai limiti le categorie oggi definite “quadri” e “dirigenti”.
I periodi di riposo
L’art. 2107 richiama indirettamente le pause, in una dimensione anche sociale e culturale. Il diritto al riposo
settimanale è sancito dall’art. 2109 c.c. e garantito dall’art. 36 Cost. Il riposo annuale è sancito anche da una
legge ratificata dall’Italia dopo una specifica dell’OIL.
Il riposo feriale deve essere retribuito. All’imprenditore spetta il diritto di fissare il tempo di fruizione delle
ferie e l’onere del preavviso.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2109, ma solo per la parte che non prevede che
la malattia nel periodo feriale ne sospenda il decorso.
L’autonomia collettiva è normalmente chiamata a determinare la durata del periodo feriale, diversificato per
anzianità e categoria.
Infine, in materia di orario, riposo e ferie, è di recente intervenuta la direttiva del ’93. Nel Novembre ’97
Confindustria, CGIL, CISL e UIL hanno sottoscritto i “criteri di recezione della direttiva”. Tale documento
ha lo scopo di indirizzare il futuro intervento legislativo Governo, chiamato a recepire la direttiva.
CAPITOLO V: La retribuzione
consegna di un prospetto paga analitico. Il termine per la corresponsione è stabilito dai contratti collettivi, o
in mancanza dagli usi. Il pagamento della retribuzione viene posticipato rispetto all’erogazione della
prestazione lavorativa (post-numerazione).
L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzione
L’ammontare della retribuzione dev’essere determinato commisurandolo al quantum della prestazione
lavorativa, perciò direttamente o indirettamente attraverso la misura del tempo lavorato. La quantità della
prestazione di lavoro si determina direttamente sulla base del tempo impiagato per l’erogazione della forza
lavoro offerta dal prestatore, oppure indirettamente sulla base del risultato produttivo ottenuto mediante
l’erogazione della stessa forza lavoro (cottimo). In entrambi i casi la quantificazione del tempo lavorato, la
considerazione che il conteggio avvenga in un caso per unità di tempo lavorato e nell’altro per grandezze
prodotte, non toglie nulla al rapporto commutativo di scambio sussistente tra tempo lavorato e retribuzione.
La determinazione dell’orario normale di lavoro funzionale alla retribuzione normale minima è di
competenza dell’autonomia privata collettiva o individuale.
Retribuzione minima, contratti collettivi e art. 36 Cost.
L’art. 2099 comma 2 c.c. attribuisce in via primaria ai contratti collettivi la funzione di stabilire la misura
della prestazione dovuta dal datore di lavoro, perciò demanda all’autonomia collettiva i criteri per la
determinazione della retribuzione. La funzione fondamentale del contratto collettivo è infatti quella tariffaria,
attraverso la fissazione dei minimi (così detti superminimi). Bisogna considerare che la retribuzione non è
demandata all’esclusiva competenza dell’autonomia collettiva. L’art. 36 Cost. comma 1 riconosce il diritto
soggettivo alla retribuzione minima sufficiente. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa. È una norma-principio. Requisiti:
Proporzionalità: la retribuzione deve essere determinata secondo un criterio oggettivo di equivalenza
alla quantità e alla qualità del lavoro.
Sufficienza: la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo vitale o di sussistenza
Il principio della retribuzione minima sufficiente funge da limite all’autonomia contrattuale delle parti. Nelle
ipotesi di lavoro plurimo (coesistenza di più rapporti di lavoro in testa ad un unico prestatore) la retribuzione
va determinata dapprima sulla base del criterio di sufficienza ed in seguito proporzionata alla quantità del
lavoro prestato.
Applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.
Nel nostro ordinamento, in assenza di una legislazione determinatrice dei salari minimi, è merito della
giurisprudenza aver individuato accanto alla funzione direttiva del principio della retribuzione sufficiente,
una sua funzione precettiva e perciò direttamente vincolante nei confronti dell’autonomia privata. Secondo la
giurisprudenza è da ritenere conforme, ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza, la retribuzione
equivalente a quella prevista dai contratti collettivi. Il giudice nella determinazione della retribuzione
proporzionata e sufficiente ha il potere di discostarsi dai minimi salariali stabiliti dalla contrattazione
collettiva, riconoscendo al lavoratore una retribuzione anche inferiore, purché fornisca adeguata
motivazione. Questo ha consentito un sostanziale adeguamento dell’ordinamento italiano alle previsioni
contenute nella convenzione OIL sulla politica sociale del 1962 (incoraggiare la fissazione di minimi
salariali attraverso la contrattazione collettiva e assicurare un’adeguata tutela giudiziaria ai fini del rispetto
dei minimi).
Gli strumenti tecnici utilizzati dalla giurisprudenza
La giurisprudenza ha operato un raccordo tra l’art. 36 Cost. ed il secondo comma del 2099 c.c., il quale
dispone che in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordo individuale tra le parti, la retribuzione
sia determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali. Il secondo
comma dell’art. 2099 c.c. dispone che il difetto di un elemento essenziale quale la retribuzione non sia causa
di nullità, ma di integrazione della lacuna esistente nel contratto del quale si dispone la conservazione. Il
collegamento tra art. 36 Cost. e 2099 c.c. ha avuto funzione creatrice, operando attraverso la sovrapposizione
ad una clausola retributiva esistente ma insufficiente: si attua una sostituzione automatica giudiziale del
contenuto del contratto (equiparazione tra nullità ed inesistenza della clausola)
La struttura della retribuzione
I sistemi di retribuzione
Essi sono previsti dall’art. 2099 comma 1 c.c.:
A tempo (o ad economia): quella retribuzione la cui determinazione si commisura sulla base del
tempo della prestazione del lavoro (ore di lavoro, giornate mesi)
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A cottimo: si caratterizza per la considerazione del risultato del lavoro come criterio per la
determinazione quantitativa della prestazione di lavoro e quindi della retribuzione
Partecipazione agli utili
Partecipazione ai prodotti dell’impresa
La provvigione: è solitamente prevista nelle attività in cui il prestatore è tenuto a realizzare affari,
concludendo contratti nell’interesse e perciò in rappresentanza del datore di lavoro. Può essere:
o Totalmente provvigione
o Fisso + provvigione
La retribuzione a tempo
Un’ulteriore importante distinzione è quella tra retribuzione oraria (salario) e retribuzione mensile
(stipendio), tradizionalmente corrispondente alla distinzione tra operai ed impiegati. La retribuzione oraria è
calcolata sulla base delle ore lavorate nel mese, mentre con la retribuzione mensile il datore di lavoro si
assume il rischio della mancata prestazione di lavoro entro il mese. Altra distinzione ancora è la ripartizione
del rischio dell’inattività (o mancanza di lavoro) che soltanto nel primo caso è posto ad esclusivo carico del
lavoratore. Sulla retribuzione normale si calcolano tutte le maggiorazioni per lavoro straordinario, festivo e
notturno. Infatti l’art. 2108 comma 1 dispone che “in caso di prolungamento dell’orario normale il prestatore
deve essere compensato con un aumento”. Questo è, in generale, fissato dai contratti collettivi, ma la legge
prevede che non possa essere inferiore al 10%. Il lavoro notturno come quello festivo va compensato con
un’ulteriore retribuzione che si aggiunge a quella normale e con la maggiorazione prevista dai contratti
collettivi. La mancata fruizione del riposo feriale dà diritto alla cosiddetta indennità per ferie non godute.
Gli elementi accessori della retribuzione e la sua struttura complessa
Nei contratti collettivi e individuali è normale la previsione dei c.d. elementi accessori della retribuzione.
Esempi:
Paga base
Scatti o aumenti periodici di anzianità
Superminimi: parte della retribuzione che supera i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi,
sono assegnati individualmente o collettivamente
La tredicesima: le indennità per compensare l’effettuazione di lavori disagiati, gravosi o comunque
considerati penosi rispetto allo standard normale della prestazione
I premi collettivi di produzione
Premi di presenza, rivolti a disincentivare l’assenteismo
La retribuzione a cottimo
Essa è prevista dall’art. 2099 c.c., il quale, nella determinazione del corrispettivo, tiene conto non soltanto
del tempo impiegato, ma anche del risultato e quindi del rendimento fornito dal lavoratore durante l’orario di
lavoro. Nel cottimo il rischio della produttività del lavoro resta a carico del datore per ciò che concerne
l’organizzazione del lavoro e quindi il risultato della prestazione nel suo complesso. Esso per contro viene
parzialmente trasferito a carico del prestatore per ciò che concerne la quantità della retribuzione. La
retribuzione è commisurata alla quantità della prestazione lavorativa determinata in base all’intensità del
lavoro nelle unità di tempo. Esistono due tipi di cottimo:
Cottimo integrato, cioè fisso + cottimo
Cottimo puro
Secondo l’art. 2100 c.c. il prestatore deve essere necessariamente retribuito a cottimo tutte le volte che:
a. In conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di un determinato ritmo
produttivo.
b. Nelle lavorazioni ad economia di tempo, in cui la valutazione della sua prestazione sia fatta in base
al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione.
L’art. 2101 disciplina l’intervento del sindacato, disponendo che i contratti collettivi possono stabilire che le
tariffe non divengano definitive “se non dopo un periodo di esperimento e possono essere sostituite o
modificate soltanto se intervengono mutamenti nelle condizioni di lavoro”. Esistono due fasi:
Sindacale: determinazione preventiva e astratta delle tariffe
Aziendale: rapporto tra guadagno o utile di cottimo e tempi o quantità di produzione
La contrattazione collettiva, tuttavia, ha progressivamente superato la distinzione tra la fase sindacale e
quella aziendale, intervenendo su quest’ultima per regolamentare non solo la retribuzione ma anche la
prestazione del lavoratore cottimista.
La nozione di retribuzione
20
È necessario a questo punto precisare che non tutto ciò che il datore di lavoro eroga ai lavoratori fa parte
della retribuzione in senso stretto. L’obbligatorietà è un requisito indefettibile della retribuzione, mentre la
predeterminatezza dell’ammontare e la continuità della corresponsione fungono da indici presuntivi di tale
obbligatorietà. Perché si abbia retribuzione occorre che la prestazione sia dovuta al lavoratore in via
necessaria e non eventuale. Una simile definizione così detta onnicomprensiva della retribuzione si rinviene
altresì negli artt. 2120 e 2121 c.c. che fanno riferimento a tutte le somme corrisposte in dipendenza del
rapporto di lavoro a titolo non occasionale, con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese.
La nozione di reddito da lavoro dipendente a fini contributivi
Il decreto legislativo n° 314 del ’97 ha modificato ed integrato gli artt. 46, 47, 48 del testo unico delle
imposte sui redditi, introducendo una nuova definizione di reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi
(non si parla più di retribuzione). All’art. 12 comma 2 rinvia la determinazione della base imponibile all’art.
48 del testo unico, secondo il quale il reddito è costituito da tutte le somme e i valori in genere a qualunque
titolo percepiti, anche sotto forma di erogazioni liberali. Al lordo di qualsiasi contributo o trattenuta. La
legge riconosce all’autonomia collettiva un ruolo determinante anche a fini previdenziali, in quanto rinvia ad
essa la determinazione della nozione di retribuzione contributiva minima.
Il trattamento retributivo nelle ipotesi di sospensione del lavoro
Contratto di lavoro e rimedi sinallagmatici
L’obbligazione retributiva qualifica il contratto di lavoro come contratto a prestazioni corrispettive o
sinallagmatico. A questa categoria di contratti si applicano le norme generali sui cosiddetti rimedi
sinallagmatici. Tra questi vi sono quelli sulla risoluzione per inadempimento (art. 1453 e ss.) per
impossibilità sopravvenuta (1463 e ss.) per eccessiva onerosità sopraggiunta (1467 e ss.). Si può tuttavia
ritenere che l’eccezione di inadempimento prevista dall’art. 1460 sia l’espressione più penetrante del
principio della corrispettività delle prestazioni. Si ha uno scambio non soltanto economico ma anche
giuridico, si dice che un’obbligazione è causa dell’altra. Poiché la funzione tipica è individuata dallo scambio
tra lavoro e retribuzione, tra le obbligazioni delle parti vi è un nesso (sinallagma) di interdipendenza non solo
genetica, ma altresì funzionale e dunque attinente alla sua esecuzione. Ne consegue che si potrà giungere alla
sospensione delle rispettive obbligazioni quando, avendo ragione di temere che la controprestazione non sarà
adempiuta, si invocherà l’eccezione di inadempimento. Questo vale non solo nell’ipotesi di inadempimento
imputabile, ma anche nell’ipotesi di impossibilità oggettiva sopravvenuta, nonché in quella di eccessiva
onerosità. La necessaria ricuperabilità della prestazione impedita e la conseguente impossibilità
dell’adempimento comportano che l’impossibilità sopravvenuta sia da ritenere definitiva oltre che totale. Nel
caso del lavoro subordinato sarà possibile solo la restituzione della retribuzione eventualmente corrisposta in
anticipo o la corresponsione per ingiustificato arricchimento (2041 c.c.).
In conclusione, i casi di impossibilità sopravvenuta solo marginalmente danno luogo alle normali
conseguenze della risoluzione del contratto. Questa, infatti, è operativa soltanto per il futuro, in ragione
dell’irripetibilità delle prestazioni rese e viene surrogata dalle vicende previste dalla legge o dall’autonomia
contrattuale della sospensione del rapporto (2110, 2111 c.c.) oppure del recesso unilaterale (2118, 2119).
La sospensione del rapporto
Nel nostro ordinamento si è affermato progressivamente il principio della cosiddetta traslazione sul datore
del rischio dell’inattività del prestatore nei casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause
fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del lavoratore. Mentre per la prestazione del datore
(pecuniaria), l’impossibilità è rigorosamente oggettiva (eccezionale), l’impossibilità della prestazione del
lavoratore (infungibile), può essere determinata da un fatto non imputabile al lavoratore stesso (un
impedimento o un’incapacità personale), fino all’estinzione dell’obbligazione (per impossibilità oggettiva
sopravvenuta). Queste condizioni porterebbero all’esonero del lavoratore dall’obbligo della prestazione e
dalla responsabilità per inadempimento e alla liberazione del datore dall’obbligazione reciproca di
retribuzione (“cioè se questo si fa male non lavora e non lo paghi”).
Il principio della traslazione del rischio trova esplicita enunciazione negli artt. 2110, 2111 c.c. i quali
dispongono la sospensione del rapporto di lavoro nelle ipotesi di impossibilità temporanea relative a:
Infortunio
Malattia
Gravidanza
Servizio militare obbligatorio
Puerperio
Adempimento dei doveri costituzionali relativi alle pubbliche funzioni elettive
21
2. Il lavoro minorile
Premessa:
• Età inferiore a 15 anni → Bambini
• Età compresa tra 15 e 18 → Adolescenti
L’obiettivo della tutela della salute, della capacità di lavoro come attitudine fisiologica della persona alla
prestazione lavorativa, è alla base della normativa posta a tutela del lavoro minorile.
Quest’ultima ha lo scopo di limitare l’età minima (15 anni) di ammissione al lavoro e di proibire
l’occupazione dei giovani di età inferiore ai 18 anni (adolescenti) in condizioni di impiego tali che risultino
particolarmente gravose o inadatte per faticosità, pericolosità, o insalubrità.
Con questi divieti, la disciplina protettiva impone limiti all’autonomia privata, l’inosservanza di tali limiti è
sanzionata a pena di nullità, e produce i propri effetti sul piano delle liceità dell’oggetto della prestazione e
quindi del contratto
Altra materia disciplinata è quella delle assenze dei genitori per malattie del bambino: entrambi i genitori
hanno il diritto di astenersi alternativamente dal lavoro durante le malattie del bambino d’età inferiore ad otto
anni, dietro presentazione di un certificato medico.
stabilita dalla contrattazione collettiva. In caso contrario, il recedente è tenuto a corrispondere un’indennità
risarcitoria detta, appunto, “indennità di mancato preavviso”.
Una questione che divide la dottrina è quella della natura reale o obbligatoria del preavviso. Appare più
coerente con la ratio della norma (la tutela della prosecuzione del rapporto di lavoro) l’adempimento
specifico dell’obbligo del preavviso piuttosto che il pagamento dell’indennità.
Il licenziamento individuale: si vedano le pagg. da 9 in poi di “Appunti presi in classe seconda parte.doc”.
La disciplina limitativa dei licenziamenti e la sua progressiva estensione.
La disciplina codicistica sin qui descritta continua ad applicarsi alle dimissioni del lavoratore, il cui potere
unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro non conosce altri limiti che il preavviso. Il potere di recesso del
datore (licenziamento) invece è stato oggetto di interventi legislativi limitativi che hanno introdotto un
obbligo generale di giustificazione del recesso, a garanzia del quale si può arrivare sino alla tutela reale
(reintegrazione nel posto di lavoro) o solo obbligatoria (alternativa tra riassunzione o pagamento di una
NB
penale a titolo risarcitorio, e non di retribuzione!). Questi interventi legislativi si sovrappongono agli artt.
2118 (il recesso dal contratto a tempo indeterminato) 2119 (determinato) c.c.
La prima norma che limita il potere del datore è la legge 604 del ’66, che ha recepito gli accordi collettivi.
Nel ’70, con l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori si è ampliata questa norma sino a raggiungere la tutela
reale.
Il suo campo di applicazione era inizialmente limitato dall’art. 35 dello stesso Statuto alle unità con più di 15
dipendenti.
La necessità di tutelare anche i lavoratori delle piccole imprese ha portato alla redazione della L. 108 del
1990, che ha sancito il generale principio della giustificazione del licenziamento (recesso vincolato).
Innanzitutto la nozione di giusta causa si trova nell’art. 2119 c.c., mentre il giustificato motivo nella legge
604.
L’art. 3 della legge 604 distingue tra un giustificato motivo:
subiettivo (soggettivo): si realizza quando il prestatore incorre in un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali, con riferimento all’art. 1455 c.c.: richiede che non sia di scarsa importanza per
l’altro contraente.
obiettivo (oggettivo): quando vi siano ragioni inerenti all’attività produttiva (esigenze tecnico-
economiche).
La giusta causa.
L’art. 2119 c.c. si limita a definire la giusta causa come quella che non consente la prosecuzione anche
provvisoria del rapporto di lavoro. Questa definizione generale ha dato luogo a non poche vicende. Prima
della legge 604, si pensava che perfino eventi esterni al rapporto potessero menomare il rapporto di fiducia
personale con il lavoratore. Dopo, il giustificato motivo si è dovuto apprezzare sul piano quantitativo
(gravità) e non qualitativo (solo riferito alla fiducia).
Il concetto di fiducia va riportato entro i limiti oggettivi dell’esattezza dei successivi adempimenti: il datore
deve poter concedere altri compiti al lavoratore, in futuro, senza temere che egli possa esser inadempiente o
inaffidabile.
I tipi contrattuali di giusta causa sono rimandati ai contratti collettivi, salvo che il giudice possa prevederne
altri.
Il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore in forza dell’ordine contenuto nella sentenza di
condanna.
L’art. 18 affida l’esecuzione di tale ordine allo stesso datore, che è tenuto a rivolgere al lavoratore un
apposito invito a riprendere il servizio. In assenza di tale invito, il datore verserà in situazione di mora
credendi (art. 1205 ss.c.c.), con la conseguenza che il lavoratore, nonostante l’inattività, avrà diritto alla
retribuzione.
Tuttavia, se il lavoratore non accetta l’invito entro 30 giorni, il rapporto si intenderà risolto per dimissioni.
L’art. 18 stabilisce che il datore è tenuto alla reintegrazione ed al pagamento di un’indennità commisurata
alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a cinque mensilità, a titolo risarcitorio, per il
periodo che va dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, nonché il versamento dei contributi
assistenziali e previdenziali.
È prevista anche un’indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione, che il lavoratore può preferire,
costringendo il datore al pagamento di quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Le organizzazioni di tendenza.
L’art. 4 della legge 108 del ’90 definisce le organizzazioni che perseguono fini ideologici, escludendo
l’applicabilità dell’art. 18 Statuto ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro,
attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto. Si deve dunque
dedurre la tutela obbligatoria per i dipendenti da tali organizzazioni. La disposizione ha lasciato irrisolte le
questioni relative al licenziamento nelle organizzazioni di tendenza, ed in particolare quelle della
giustificatezza del licenziamento.
presupposto, il giudice fissa un termine di massimi 60 giorni per l’esperimento. L’intera questione va oggi
riconsiderata alla luce dell’introduzione del D.Lgs. 80 del 1998 che prevede l’obbligatorietà del tentativo per
tutte le controversie di lavoro.
Per garanzia si intende il rafforzamento (sostanziale: es.: retribuzione; e giurisdizionale: es.: esecuzione di
sentenze) della tutela di un interesse giuridicamente protetto. Accanto alle garanzie di tipo satisfattivo
(funzione alimentare della retribuzione come da art. 36 Cost.) troviamo anche la tutela del contraente debole
(il concetto di “debolezza” è basilare, perché vi si fa sempre riferimento: è la ratio di moltissimi articoli) e
dell’effettiva godibilità della retribuzione stessa.
La disciplina vigente dal 2001 (modifica del 2112 c.c.): si veda pag. 3 di “Appunti presi in classe seconda
parte.doc”.
Le rinunzie e le transazioni
Rinunzia: atto tendente alla dismissione di un diritto soggettivo da parte del titolare.
Transazione: contratto mediante il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, rimuovono o
prevengono una lite.
Nell’art. 2113 c.c. esse si trovano insieme perché:
la seconda può mascherare la prima;
si ha una situazione di incertezza soggettiva (solitamente causa della lite);
il prestatore è soggetto debole;
il titolare del diritto è soggetto ad inerzia.
In pratica nello scambio reciproco di concessioni si può verificare una transazione assai più favorevole per il
datore.
L’art. 2113 stabilisce l’invalidità delle rinunzie e transazioni (aventi ad oggetto diritti derivanti da
disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi) del lavoratore (sia gli autonomi sia per i
subordinati o associati), in quanto tendenti ad eludere i limiti imposti all’autonomia negoziale. L’invalidità
deve farsi valere mediante impugnazione, anche per atto scritto extragiudiziale, entro 6 mesi dalla data della
rinunzia o transazione.
L’annullabilità deve essere dichiarata dal giudice con sentenza di accertamento costitutivo.
Inderogabilità delle norme di legge e dei contratti collettivi e limiti all’autonomia dispositiva del lavoratore
Il 2113 fondamentalmente riprende il principio dell’inderogabilità dei contratti collettivi. Non potendo
rinunciare a propri diritti, il lavoratore vede rafforzato un suo interesse, rappresentato da un minimo
inderogabile di trattamento.
(Le disposizioni degli artt. 1418-1419-2113 non hanno fondamento, tuttavia, nell’incapacità di agire del
prestatore.)
Sono valide transazioni e rinunce in sede di conciliazione delle controversie individuali. Le transazioni
collettive, concluse dal sindacato per più lavoratori in assenza di un mandato, necessitano dell’adesione
individuale.
L’arbitrato
Esso è un istituto per mezzo del quale le parti pervengono alla composizione di una controversia attraverso il
deferimento ad un terzo del potere decisionale. Trova la sua fonte:
nel compromesso, se la controversia è già insorta (art. 806 c.p.c.)
nella clausola compromissoria, inserita nei contratti, con cui le parti si impegnano al deferimento
(808 c.p.c.). La clausola compromissoria è nulla qualora autorizzi la pronuncia degli arbitri secondo
equità, ovvero escluda l’impugnabilità del lodo.
Distinguiamo tra:
arbitrato rituale: si svolge come un vero e proprio giudizio e conduce alla formazione di un atto che
acquista autorità di sentenza mediante un decreto di omologazione del giudice (impugnabile in
Appello). Per le controversie di lavoro, il ricorso ad arbitri deve essere consentito da contratti
30
La depenalizzazione delle sanzioni previste per la violazione di norme protettive del lavoro
Vista la scarsa efficacia delle sanzioni penali ed il loro macchinoso procedimento, nel 1993 si è conferito al
governo la delega per trasformare in illeciti amministrativi alcuni illeciti penali non particolarmente gravi. La
sanzione penale è rimasta per i comportamenti pericolosi per la salute del lavoratore, per l’integrità psico-
fisica ed il lavoro minorile.
1. Introduzione. La specialità come strumento di differenziazione della disciplina del rapporto per una
specifica tutela del prestatore di lavoro.
La previsione dei rapporti speciali di lavoro trae la sua giustificazione dall’esigenza di differenziare la
disciplina del rapporto in relazione alle caratteristiche specifiche dell’attività lavorativa e alle concrete
articolazioni della situazione di sottoprotezione sociale tipica del lavoratore subordinato.
L’obiettivo della tutela della posizione del prestatore di lavoro richiede un adattamento del modello di
tutela: la realtà del lavoro subordinato si presenta come un universo differenziato per gruppi professionali e
aggregati sociali.
In linea generale questa esigenza viene avvertita e soddisfatta dalla contrattazione collettiva: al contratto
collettivo compete la funzione di fissare il regolamento normativo – tipo del rapporto.
Nei rapporti speciali di lavoro l’intervento legislatore è da ricollegare ad una valutazione di insufficienza o
inadeguatezza della contrattazione collettiva o all’obiettivo di favorire la formazione professionale e
l’occupazione.
In conclusione, la specialità si atteggia come uno strumento di tecnica legislativa funzionale ad una
articolazione della tutela del lavoratore. A fianco di questa ratio vi è la necessità di contemperare
l’esigenza di tutela del lavoratore subordinato con altri interessi pubblici o collettivi ritenuti dal legislatore
particolarmente rilevanti.
Sezione A: I rapporti speciale caratterizzati dalla tipicità degli interessi pubblici coinvolti.
31
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e l’attribuzione al giudice ordinario della competenza
relativa alle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti.
La L. n. 421 ha tuttavia fatto salvi “i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui
l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate”.
In attuazione della legge – delega n. 421 hanno fatto seguito, nel corso del 1993, alcuni interventi
“correttivi”. Nell’arco di pochi anni, sia l’esperienza maturata nella fase di prima applicazione della riforma,
sia l’esigenza di procedere ad un recupero di efficienza e ad una riduzione degli sprechi gestionali
nell’ambito della pubblica amministrazione, hanno indotto il legislatore ad avviare una seconda fase del
processo riformatore.
Così, con la L. 15 marzo 1997, n. 59 è stato riaperto il termine della delega per la riforma del lavoro
pubblico. Va ricordata la nuova delega legislativa in tema di contrattazione collettiva e di rappresentatività
sindacale nell’area del lavoro pubblico, cui è stata data attuazione con il D.Lgs. 4 novembre 1997, n. 396.
Accanto a questa vanno segnalate la delega con la “conseguente estensione al lavoro privato nell’impresa”;
nonché la delega al governo per estendere il regime privatistico del rapporto di lavoro anche ai dirigenti
generali; ed infine la nuova delega relativa alla cosiddetta devoluzione al giudice ordinario di tutte le
controversie relative al rapporto di lavoro. A queste deleghe si è data attuazione con i D.Lgs. 31 marzo 1998,
n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387.
L’esigenza di dare ordine alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico ha indotto il legislatore ad
intervenire delegando il governo ad emanare un testo unico che ne riordinasse le norme; tale delega è stata
assolta con l’emanazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Infine il legislatore ha accentuato la portata del collegamento tra nomine dirigenziali e successione dei
governi.
Si deve sottolineare che affinché si verifichi l’ipotesi prevista dall’art. 1, il committente deve essere un
imprenditore: diversamente sarà lavoro autonomo. Per contro deve considerarsi dipendente con rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, chi esegua prestazioni in locali di pertinenza dell’imprenditore.
Si deve osservare che anche nel lavoro a domicilio si riscontra il fenomeno del decentramento o collocazione
all’esterno dell’impresa di parti o fasi dell’attività produttiva di beni o servizi.
Al decentramento produttivo va ricondotto anche il fenomeno del lavoro a distanza (cosiddetto telelavoro)
caratterizzato dalla collocazione logistica del prestatore di lavoro all’esterno dell’impresa. La prestazione del
lavoratore a distanza potrà essere ricondotta ad un contratto di lavoro subordinato, autonomo o anche
parasubordinato.
9. La disciplina del lavoro subordinato a domicilio.
Nell’ambito dell’art. 1, la stessa L. n. 877 ha dettato le norme sulla disciplina del rapporto e sulla prestazione
e la retribuzione del lavoro a domicilio.
Per ciò che concerne la prestazione, la legge esclude l’ammissibilità dell’esecuzione “di lavoro a domicilio
che comportino sostanze nocivi o pericolosi”; è inoltre vietato affidare lavoro a domicilio per la durata di un
anno a tutte quelle aziende che abbiano disposto licenziamenti oppure sospensioni del lavoro.
Non essendo possibile la determinazione dell’orario di lavoro, l’unica forma idonea di retribuzione è il
cottimo che fa riferimento esclusivo alla quantità prodotta.
Se l’imprenditore committente affida una quantità di lavoro corrispondente all’orario normale di lavoro, il
lavoratore a domicilio è obbligato ad astenersi.
La legge ha stabilito che l’impiego dei lavoratori a domicilio avvenga previo inoltre ai Centri per l’impiego
di un’apposita richiesta.
Il contratto di lavoro a domicilio è uno dei rari contratti di lavoro in cui ha rilievo una forma scritta, ad
probationem. Infatti, l’imprenditore committente deve tenere un registro nel quale vanno trascritti
nominativi e domicilio dei lavoratori, tipo e quantità di lavoro, la misura della retribuzione; il lavoratore a
domicilio deve essere munito di un speciale libretto di controllo.
10. Il lavoro domestico.
Il rapporto di lavoro domestico è caratterizzato da una prestazione eseguita nell’abitazione del datore di
lavoro o, meglio, in convivenza familiare con lo stesso.
Il Codice civile disciplina questo rapporto con una serie di norme che sono state in gran parte derogate dalla
L. 2 aprile 1958.
La L. n. 339 regolamenta i rapporti di lavoro domestico in cui la prestazione di lavoro sia resa per la durata
di almeno 4 ore giornaliere.
La stipulazione di un contratto collettivo è stata resa possibile dopo che la Corte costituzionale ha
dichiarato la illegittimità dell’art. 2068, co. 2°, c.c., nella parte: “sono sottratti alla disciplina del contratto
collettivo i rapporti di lavoro concernenti prestazioni di carattere domestico”.
Il contenuto e l’oggetto della prestazione di lavoro domestico non si differenziano da quelli di lavoro
subordinato; sua caratteristica è la destinazione dell’attività a vantaggio dell’organizzazione familiare. Da
tale caratteristica deriva l’obbligo di corrispondere oltre al danaro, il vitto e l’alloggio, nonché le cure e
l’assistenza medica.
L’inserzione della prestazione lavorativa nell’ambito della comunità familiare spiega come il legislatore
si sia preoccupato del riposo settimanale e dei riposi giornalieri e notturni, ma anche della salute e della
personalità del lavoratore.
La stessa legge, ai fini della durata del periodo di prova, distingue i lavoratori domestici con mansioni
impiegatizie e prestatori d’opera manuale specializzata o generica.
Passando ad esaminare i contenuti della contrattazione collettiva, gli aspetti più rilevanti riguardano la
fissazione dei minimi salariali, dell’orario di lavoro, delle ferie, della conservazione del posto in caso di
malattia.
A tale proposito si può ricordare che la contrattazione collettiva prevede il divieto di licenziamento durante il
periodo di gravidanza.
11. Il lavoro sportivo.
Un altro rapporto speciale di lavoro subordinato è quello tra società sportive e sportivi professionisti,
regolato dalla L. 23 marzo 1981, n. 91.
La legge individua gli sportivi professionisti, stabilendo che sono tali “gli atleti, gli allenatori, i direttori
tecnico – sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di
continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle
35
federazioni sportive nazionali secondo norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle
direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.
In relazione agli atleti, sono individuati tre requisiti, la cui ricorrenza consente di qualificarne il rapporto di
lavoro come autonomo:
a) l’attività sia svolta in una singola manifestazione sportiva o di più ma collegate in un breve
periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per la frequenza a sedute di allenamento;
c) la prestazione non superi le 8 ore settimanali.
A parte la norma secondo cui l’assunzione dello sportivo professionista con contratto di lavoro può avvenire
in modo diretto, il legislatore ha previsto che il contratto debba essere stipulato in forma scritta, a pena di
nullità, secondo il contratto – tipo predisposto dalle federazioni sportive nazionali; ogni clausola del
contratto individuale contenente deroghe peggiorative viene sostituita di diritto da quella del contratto – tipo.
Il contratto individuale deve essere depositato presso la federazione sportiva nazionale per l’approvazione.
Esso deve contenere una clausola che stabilisca “l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche
e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”. Al contrario, non può contenere
clausole di non concorrenza o limitative, per il periodo successivo alla cessazione del contratto stesso.
Al rapporto di lavoro sportivo subordinato non si applicano la disciplina limitativa dei licenziamenti
individuali ed alcune norme del Titolo I della L. n. 300. Si applicano, in quanto compatibili, le altre
disposizioni non escluse dalla normativa speciale.
Il contratto può avere una durata determinata, non superiore a 5 anni. E’ consentita, in questi casi, la
cessione del contratto da una società sportiva ad un’altra prima della sua scadenza, purché lo sportivo
contraente ceduto vi acconsenta.
La legge ha previsto l’abolizione del cosiddetto vincolo sportivo consistente in una notevole limitazione
della libertà contrattuale.
In un caso solo sussiste ancora una penetrante compressione dell’autonomia contrattuale dell’atleta: la legge
attribuisce alla società che ha provveduto alla sua formazione tecnica, il diritto di stipulare con lo stesso il
primo contratto professionistico.
Un cenno conclusivo merita il “premio di addestramento e formazione tecnica”, che deve essere stabilito
dalle Federazioni sportive nazionali in favore della società o associazione sportiva presso la quale l’atleta ha
svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile. Esso ha sostituito l’indennità di preparazione e
promozione, ciò al fine di adeguare la normativa interna al principio della libera circolazione dei lavoratori
sportivi in ambito comunitario.
Sezione C: I contratti di lavoro con finalità formativa.
12. L’apprendistato.
Il moderno rapporto di apprendistato si concretizza nel ricorso di fare conseguire al lavoratore una
qualifica professionale, cioè di fare apprendere attraverso il tirocinio un mestiere.
Nella realtà odierna, il contratto di apprendistato serve ad impiegare il lavoro di giovani in qualità di
apprendisti per godere di un alleggerimento del costo del lavoro.
Si tratta di un rapporto che non pare più corrispondere alle esigenze delle medie e grandi imprese industriali
(nelle quali è stato sostituito dal contratto di formazione e lavoro) sembra invece ancora in grado di svolgere
la sua funzione nell’artigianato.
13. Il contratto di apprendistato: definizione legale. L’assunzione.
La disciplina legale dell’apprendistato si ricava dagli artt. 2130 – 2134 c.c. Da questa normativa emerge che
l’apprendistato è un rapporto speciale di lavoro nel quale l’imprenditore è obbligato ad impartire al giovane
le capacità tecniche per diventare lavoratore qualificato.
Per quanto riguarda la fascia d’età la legge fa riferimento ad un’età compresa tra i 16 ed i 24 anni mentre per
il settore dell’artigianato tale limite è 29 anni.
Il legislatore ha poi dettato alcune norme limitative dell’assunzione degli apprendisti, stabilendo che il
numero degli apprendisti non può superare quello dello maestranze specializzate e qualificate anche se agli
imprenditori è consentito di assumere apprendisti in numero non superiore a 3.
Gli aspiranti apprendisti devono iscriversi in appositi elenchi presso i Centri per l’impiego e possono essere
assunti in via diretta. L’assunzione deve essere autorizzata dalla Direzione provinciale del lavoro e preceduta
da apposita visita sanitaria.
Per quanto riguarda la stipulazione del contratto, la legge consente l’apposizione del patto di prova, che
riguarderà gli aspetti fiduciari del rapporto.
14. I diritti e gli obblighi delle parti.
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Il contratto di apprendistato è un contratto a causa onerosa, poiché il datore di lavoro deve corrispondere
una retribuzione. Tale obbligo è previsto dalla L. n. 25 del 1955 integrata dall’art. 2131 c.c. L’apprendistato
si configura come un contratto di lavoro nel quale l’obbligazione tipica è quella dell’insegnamento.
Accanto a tale obbligo il datore di lavoro ha previsto obblighi accessori, attinenti sia all’addestramento, alla
retribuzione (è vietata la retribuzione a cottimo o ad incentivo) e alla salvaguardia dell’integrità fisica.
L’apprendista è obbligato a prestare con diligenza la propria opera, ad obbedire ed a seguirne gli
insegnamenti, nonché a frequentare i corsi di insegnamento complementare. Le ore destinate all’attività
formativa sono lavorative.
15. I limiti legali alla durata del rapporto di apprendistato.
La durata del rapporto di apprendistato non può essere né inferiore ai 18 mesi, né superiore ai 4 anni. Ai
fini del computo della durata massima i periodi di servizio si sommano, purché non siano separati da
intervalli superiore ad una anno e sempre che riferiscano alla medesima attività.
Il superamento del periodo di apprendistato convenuto dalle parti o quello di durata massima, comporta la
trasformazione del rapporto speciale in comune rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La ratio è di
evitare una situazione di sfruttamento del lavoratore.
Va ricordato che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 10 della L. 15 luglio 1966, n.
604 sui licenziamenti individuali nella parte in cui non comprende gli apprendisti tra i soggetti nei cui
confronti è applicabile la disciplina limitativa dei licenziamenti.
Al termine del tirocinio è previsto che l’apprendista sostenga una prova di idoneità consistente in un esame
davanti ad una commissione provinciale; inoltre, successivamente all’estinzione, l’apprendista potrà
richiedere il rilascio del libretto di lavoro con l’indicazione della qualifica conseguita.
16. La formazione professionale dell’apprendista.
In tema di formazione professionale dell’apprendista , la L. n. 196 del 1997 ha adottato una serie di misure
incentivanti stabilendo che, per i contratti dal luglio 1998, le agevolazioni contributive non trovano
applicazione qualora gli apprendisti non partecipino alle iniziative di formazione esterna previste dai
contratti collettivi nazionali.
Dalla L. n. 196 del 1997 traspare l’intenzione del legislatore di delineare un nuovo “modello” di
apprendistato caratterizzato dallo slittamento in avanti della fascia di età entro cui è consentito il ricorso a
questo tipo di rapporto e soprattutto dal rafforzamento degli obblighi formativi.
Si deve ancora ricordare che il legislatore, nell’istituire un generale obbligo di frequenza di attività formative
fino al compimento del 18° anno di età, ha previsto che tale obbligo possa essere assolto anche nell’ambito
dell’apprendistato.
17. Il contratto di formazione e lavoro. Le due tipologie di contratto di formazione e lavoro.
La disciplina dell’attuale c.f.l. è contenuta nell’art. 3, D.L. 30 ottobre 1984, n. 726. Il limite massimo di età
previsto per la stipulazione del c.f.l. è tra i 16 e i 32 anni.
Il c.f.l. risulta un contratto di lavoro avente la finalità di favorire l’inserimento occupazionale dei giovani
e che essa deve ritenersi prevalente rispetto alla finalità meramente formativa; pur se, in una successiva
pronuncia, è tornata a delineare, la configurazione di contratto a causa mista.
Possono essere stipulati contratti di formazione e lavoro appartenenti a due diverse tipologie:
• all’acquisizione di professionalità intermedie o elevate (funzione formativa);
• ad agevolare l’inserimento professionale del giovane attraverso un’esperienza lavorativa.
La durata massima di questi due tipi di contratti non potrà superare i 24 mesi nel primo caso ed i 12 mesi
nel secondo.
Possono essere assunti i giovani iscritti nelle liste di collocamento e anche in questo caso il datore di lavoro
potrà procedere all’assunzione diretta.
18. I limiti alla stipulazione e gli incentivi alla diffusione dei contratti di formazione e lavoro.
Passando a considerare i limiti previsti per la costituzione del rapporto, possono stipulare contratti di
formazione e lavoro gli enti pubblici economici e di ricerca, le imprese ed i loro consorzi, ed ancora i gruppi
di imprese, le associazioni professionali, socio – culturali e sportive, le fondazioni, gli studi professionali
nonché le pubbliche amministrazioni.
Sono esclusi i soggetti che abbiano in atto sospensioni dal lavoro, o che abbiano proceduto, nei 12 mesi
precedenti, a licenziamenti collettivi; è ammessa la stipulazione purché l’acquisizione di professionalità
siano diverse da quelle dei lavoratori sospesi o licenziati.
Un ulteriore limite è rappresentato dalla condizione che, al momento della richiesta di avviamento, il datore
di lavoro abbia mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui c.f.l. sia venuto a scadere nei 24
mesi precedenti.
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Numerose le disposizioni che prevedono incentivi per la stipulazione di contratti di formazione e lavoro,
tra i quali quelli relativi alla contribuzione previdenziale. Carattere incentivante ha la stessa natura di
contratto a termine del c.f.l.
19. I progetti formativi e la formazione del lavoratore.
Presupposto per la stipulazione del c.f.l. è la predisposizione da parte delle imprese dei cosiddetti progetti
formativi, nei quali devono essere rispettati i principi di non discriminazione diretta ed indiretta tra uomini e
donne. Tali progetti sono sottoposti all’approvazione della Commissione regionale per le politiche del
lavoro. Qualora riguardino più ambiti regionali, essi devono essere presentati al Ministro del lavoro.
Non sono soggetti all’approvazione i progetti conformi alle regolamentazioni del contratto di formazione e
lavoro concordate tra le organizzazioni sindacali nazionali dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Un ulteriore aspetto di interesse è quello relativo all’attività formativa che deve essere svolta dal lavoratore
assunto con il c.f.l.: per i contratti di cui al co. 2°, lett. a), nn. 1 e 2 rispettivamente 80 e 130 ore; per quelli di
cui alla lett. b) 20 ore di base nonché le eventuali ore aggiuntive non remunerate previste dalla contrattazione
collettiva.
Una volta assolto l’obbligo scolastico (16 anni), il giovane potrà stipulare un c.f.l., ma dovrà necessariamente
svolgere altresì attività formative ulteriori fino al 18° anno di età.
20. La disciplina c.f.l.
Il contratto di formazione e lavoro deve essere stipulato in forma scritta; nel caso di mancato rispetto del
requisito formale, il lavoratore si intende assunto con contratto a tempo indeterminato.
Inoltre il datore di lavoro deve consegnare al lavoratore copia del contratto e del progetto formativo, al fine
di rendere trasparenti gli obblighi incombenti tra le parti.
Le Commissioni regionali per le politiche del lavoro possono effettuare controlli per il tramite della
Direzione provinciale del lavoro, sull’attuazione dei progetti formativi, qualora ne verifichi il mancato
rispetto può revocare fin dalla costituzione del rapporto i benefici previdenziali.
Il contratto si reputa ab origine a tempo indeterminato se il datore di lavoro non ottempera agli “obblighi
del contratto di formazione e lavoro”.
I lavoratori assunti con c.f.l. potranno essere inquadrati ad un livello inferiore di quello di destinazione.
La legge prevede, nel caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo
indeterminato, il periodo di formazione e lavoro sia computato ai fini dell’anzianità di servizio; ed ove la
conversione avvenga nel corso del rapporto, il datore di lavoro potrà continuare a godere delle agevolazioni
contributive, nonché della non commutabilità del giovane nel calcolo dei dipendenti, fino alla scadenza del
termine previsto dal c.f.l.
E’ ammesso il licenziamento per giusta causa. Per il resto la disciplina del c.f.l. è quella generalmente
stabilita per il rapporto di lavoro subordinato.
La disciplina del mercato del lavoro trae fondamento dai principi costituzionali e nella situazione di
sottoprotezione sociale del prestatore di lavoro. Il lavoratore vede rafforzata la sua posizione nel mercato del
lavoro dal lato dell’offerta, nonché, dal lato della domanda di lavoro da parte delle imprese.
Negli anni più recenti l’intervento pubblico è stato inteso come rivolto a sostenere e promuovere lo sviluppo
della domanda di forza lavoro da parte delle imprese. Sotto altro profilo, la legge interviene anche
delimitando i poteri dell’imprenditore in relazione alla cessazione del contratto di lavoro ovvero alla gestione
delle eccedenze di personale.
La disciplina del mercato del lavoro ha una funzione di tutela contro il rischio sociale della disoccupazione
e quindi di sicurezza sociale. La tutela del diritto al lavoro è intesa come strumento di cittadinanza sociale
ma anche come interesse protetto all’occupazione. Oltre agli interventi normativi sopra ricordati, vanno
annoverati quelli di tipo indennitario (assicurazione contro la disoccupazione).
Sezione A: Il collocamento ordinario
1. L’evoluzione storica della disciplina del collocamento. Le origini dell’istituto.
Di fronte al fenomeno della disoccupazione sia strutturale che frizionale l’intervento più antico e diffuso è
stato rappresentato dall’istituto del collocamento. Per mezzo di esso il legislatore ha mirato a regolamentare
l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.
Alla sua origine il collocamento è stato concepito come una funzione pubblica e gratuita di mediazione. Nel
periodo precorporativo, al cosiddetto collocamento di classe o sindacale, mediante il quale i sindacati si
proponevano di tutelare i lavoratori nella ricerca dell’occupazione e la contrattazione delle assunzioni.
Durante il periodo corporativo il collocamento assunse le vesti di funzione pubblica: caratteristica
fondamentale introdotta fu il principio del monopolio pubblico del collocamento. Va sottolineato che il
passaggio ad un sistema pubblico di collocamento non significò la scomparsa dell’intervento sindacale.
Dopo la caduta dell’ordinamento corporativo, il primo intervento in materia fu rappresentato dalla L. 29
aprile 1949, n. 264 che confermava la funzione pubblica del collocamento e ribadiva il principio del
monopolio statale, attraverso il divieto della mediazione privata tra domanda ed offerta di lavoro attraverso
la regola dell’assunzione mediante la cosiddetta richiesta numerica.
Sul versante sindacale tale legge segnava il passaggio ad un sistema fondata sulla partecipazione sindacale
alla funzione pubblica di collocamento.
2. Dal controllo pubblico sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro alle politiche attive per
l’occupazione.
Già nel corso degli anni ’50 e ’60 il collocamento pubblico si è rivelato incapace a soddisfare le esigenze di
un’offerta di lavoro più sofisticata e meno indifferenziata. Correlativamente, la disciplina legislativa si è
dimostrata inefficace ed ineffettiva. Ciò è da dire altresì delle varie leggi degli anni ’70 ed ’80.
Si è così posta l’esigenza di una revisione sostanziale della disciplina del collocamento, come attività e
non solo come struttura amministrativa. Questo è avvenuto con la soppressione dell’obbligo della richiesta
numerica ed il passaggio dapprima alla richiesta nominativa e successivamente all’assunzione diretta e
sulla mera comunicazione successiva all’ufficio di collocamento dell’avvenuta assunzione.
Oltre a ciò, si è introdotta una normativa intesa a sviluppare forme di politica attiva della manodopera
finalizzate a promuovere l’occupazione. Nella stessa prospettiva uno specifico rilievo è stato riconosciuto
alle politiche di sviluppo dei sistemi formativi, ai quali è affidato il compito di assicurare l’adattamento
quanto più efficace tra domanda ed offerta di lavoro.
3. La riforma del mercato del lavoro. Decentramento amministrativo e federalismo. Le politiche
sociali comunitarie.
Negli anni più recenti il legislatore è intervenuto attribuendo alle Regioni le competenze in materia di
governo del mercato del lavoro ed autorizzando i privati all’esercizio dell’attività di mediazione tra
domanda e offerta di lavoro. Il Governo ha emanato il D.Lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, con il quale sono
state conferite alle Regioni e agli enti locali le funzioni ed i compiti di governo del mercato del lavoro. Sono
state decentrate a livello regionale le funzioni e i compiti relativi al collocamento e tutte le iniziative dirette
ad incrementare l’occupazione ed a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Un ulteriore passaggio è costituito dalla recente riforma costituzionale di stampo federalista che, nel
riformulare l’art. 117 Cost., ha previsto la “tutela e sicurezza del lavoro”.
Il D.Lgs. n. 469 ha indicato gli organismi che devono essere istituiti e le Commissioni paritetiche del
collocamento; alcune di queste disposizioni sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale
essendo in contrasto con il principio costituzionale dell’autonomia delle Regioni.
Il D.Lgs. n. 469 ha inoltre stabilito l’attribuzione alle Province, sempre con legge regionale, delle funzioni e
dei compiti relativi alle varie forme di collocamento nonché l’attivazione di Centri per l’impiego che si sono
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sostituiti a tutte le precedenti strutture amministrative decentrate di gestione del collocamento. Per quanto
attiene alle Commissioni paritetiche va detto che i suoi compiti sono stati trasferiti alla Conferenza Stato –
Regioni.
Il D.Lgs. n. 469 del 1997 aveva poi previsto le Commissioni regionali per le politiche del lavoro, tripartite e
permanenti, concepite dal legislatore come “sede concertativa di proposta, valutazione e verifica rispetto alle
linee programmatiche e alle politiche regionali del lavoro” con assegnati i compiti in precedenza assegnati
alle Commissioni regionali per l’impiego.
Si è prevista l’istituzione da parte delle Province di una Commissione provinciale per le politiche del lavoro,
anch’essa tripartita e permanente.
Da quanto precede emerge come le modificazioni strutturali dell’istituto del collocamento si accompagnino a
profonde trasformazioni funzionali del medesimo.
Esso era nato come istituto che si era sviluppato ed organizzato come funzione pubblica. L’inadeguatezza di
tale sistema a rispondere alle esigenze di u sistema economico e produttivo in costante evoluzione, ha indotto
il legislatore a riformarlo operando come sistema di servizi per l’impiego in grado di rilevare i movimenti del
mercato del lavoro e di indicarne le linee di tendenza e di intervenire sull’offerta di lavoro anche attraverso
un indirizzo dei percorsi formativi.
In alternativa al sistema monopolistico si va affermando un nuovo modello in cui le amministrazioni locali
vengono concepite in una logica di “servizio” pubblico a sostegno dell’occupazione.
Un aspetto di particolare interesse della riforma del 1997 è l’istituzione di un Servizio Informativo Lavoro
(SIL) con i dati di tutti coloro che sono in cerca di lavoro o che intendano cambiare lavoro.
I dati raccolti potranno essere messi a disposizione senza che sia necessario il consenso dell’interessato.
Concludendo va osservato che gli alti tassi di disoccupazione e della scarsa (o nulla) crescita occupazionale
riguarda tutti gli Stati dell’Unione Europea. A questo riguardo, il Trattato di Amsterdam, il 2 ottobre 1997,
ha collocato il raggiungimento di “un elevato livello di occupazione e di protezione sociale” tra le finalità
fondamentali dell’Unione Europea.
4. La regola dell’assunzione diretta. L’iscrizione nelle liste di collocamento. Il libretto di lavoro. Le
assunzioni nelle pubbliche amministrazioni. Il diritto di precedenza nelle assunzioni.
Per quanto riguarda l’assunzione del lavoratore la legge prevede la regola dell’assunzione diretta con il solo
vincolo di inviare al Centro per l’impiego competente, entro 5 giorni dall’assunzione, una comunicazione
contenente nominativo dell’assunto, data dell’assunzione, tipologia contrattuale, qualifica ed il trattamento
economico e normativo. All’atto dell’assunzione, il datore di lavoro deve consegnare al lavoratore una
dichiarazione contenente i dati relativi al suo trattamento economico e normativo. La mancata
comunicazione all’amministrazione o la mancata consegna al lavoratore della dichiarazione sono punite con
una sanzione amministrativa.
Nel nuovo sistema, l’iscrizione del lavoratore nelle cosiddette liste di collocamento prevede l’iscrizione
presso il Centro per l’impiego del comune di residenza, e che i lavoratori iscritti vengano ordinati secondo
tre classi di iscrizione, nel cui ambito si procede a graduatorie.
L’iscrizione assume rilievo ai fini dell’acquisizione del diritto alle erogazioni ed all’anzianità di iscrizione.
Sul piano dell’avviamento al lavoro ha un rilievo ridimensionato, in quanto limitato all’avviamento
numerico a selezione presso lo Stato e gli enti pubblici. La legge prevede al riguardo l’intermediazione
degli uffici di collocamento per l’assunzione di tutti i dipendenti pubblici da inquadrare nei livelli retributivo
– funzionali per i quali non è richiesto il titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo.
L’avviamento al lavoro avviene in due fasi:
a) l’avviamento numerico (non al lavoro, ma) ad una selezione, a cura dei Centri per l’impiego, dei
lavoratori iscritti in liste speciali;
b) la selezione dei lavoratori avviati a cura dell’amministrazione o dell’ente richiedente.
6. La cosiddetta quota di riserva per i lavoratori appartenenti alle fasce deboli del mercato del lavoro.
L’introduzione della regola della libera assunzione diretta di tutti i lavoratori incontra un solo limite
costituito dalla previsione di una quota di riserva sulle assunzioni a favore dei lavoratori appartenenti alle
cosiddette fasce deboli dell’offerta di lavoro.
I datori di lavoro obbligati al rispetto della riserva sono solo quelli che occupano più di dieci dipendenti. La
percentuale di riserva è fissata nella misura del 12%, anche se le Commissioni regionali possono proporre di
elevare fino al 20% questo limite.
7. La liberalizzazione dell’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro.
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La riforma del 1997 si è mossa in direzione di una totale liberalizzazione dei processi di incontro tra
domanda e offerta di lavoro, prevedendo anche l’apertura ai privati dell’attività di mediazione tra domanda
e offerta di lavoro.
L’art. 10 del D.Lgs. n. 469 ha così provveduto a liberalizzare le attività inerenti al collocamento dei
lavoratori ma prevedendo particolari requisiti per i soggetti privati che svolgano siffatte attività.
Più precisamente il legislatore ha distinto tra:
• attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro;
• attività di ricerca e selezione del personale;
• attività di supporto alla ricollocazione professionale.
Condizione per lo svolgimento di esse è l’iscrizione in appositi elenchi, sulla base della concessione da parte
del Ministero del lavoro di un’autorizzazione ovvero di un accreditamento previo accertamento del possesso
dei requisiti di legge. Tra questi si segnala l’esclusività dell’esercizio dell’attività autorizzata.
Le tre attività devono sempre essere esercitate a titolo gratuito nei confronti dei lavoratori ed è vietata ogni
pratica discriminatoria. La conservazione e la diffusione delle informazioni sono soggette alla legge sul
trattamento dei dati personali.
Sezione B: I collocamenti speciali.
8. Il collocamento in agricoltura.
E’ destinatario fin dal 1970 di una regolamentazione speciale della materia. Si trattava di un’ambiziosa
normativa alla quale aveva fatto riscontro uno scarso grado di effettività, soprattutto nelle regioni
meridionali, dove gli squilibri del mercato agricolo consentono la sopravvivenza di deprecabili forme di
mediazione privata prive di ogni controllo (cosiddette caporalato).
Dopo parziali interventi di riforma si è così giunti nell’ambito del processo di decentramento amministrativo.
Al riguardo, è stata prevista la soppressione delle strutture e degli uffici periferici del Ministero del lavoro
nonché la sostituzione delle specifiche Commissioni con quelle istituite a livello regionale e provinciale.
Nel settore agricolo vige ormai il principio dell’assunzione diretta, pure se è stato necessario dettare alcune
norme speciali rivolte a rendere meno gravoso l’adempimento dei datori di lavoro.
Inoltre, l’obbligo della riserva è stato esteso anche ai datori di lavoro agricolo che nell’anno precedente
abbiano occupato lavoratori per un numero di giornate superiore a 1350.
9. Gli altri collocamenti speciali. I lavoratori italiani disponibili a lavorare in paesi extra –
comunitari. I lavoratori extra – comunitari.
Oltre al collocamento in agricoltura esistono altri sistemi speciali di collocamento considerate come
provvisorie nell’attesa che le Regioni provvedano a definire il nuovo regime.
A volte queste forme di collocamento si attuano per mezzo di un ufficio centrale, altre volte è previsto uno
schedario nazionale per coloro che desiderino trovare occupazione al di fuori dei confini del luogo di loro
abituale residenza o con particolari modalità. Per la gente del mare sono istituiti uffici speciali a livello
locale.
Una forma speciale di collocamento è stata prevista anche per l’impiego del lavoro a domicilio, con
l’istituzione, di particolari registri mentre appositi elenchi sono stati previsti per gli apprendisti.
Per i lavoratori italiani disponibili a svolgere attività all’estero in paesi extra – comunitari l’art. 9 bis ha fatto
salve le preesistenti disposizioni speciali.
Una specifica procedura amministrativa per l’accesso al lavoro è stata prevista per i lavoratori extra –
comunitari. La normativa vigente prevede che l’accesso per lavoro nel nostro paese è consentito in presenza
di un contratto di soggiorno a tempo determinato o indeterminato o per lavoro stagionale. Si tratta di una
normativa articolata derivante dal bisogno di fronteggiare da un lato le esigenze di sicurezza e dall’altro le
implicazioni economico – sociali ed umanitarie del fenomeno per il nostro paese.
10. Dal collocamento obbligatorio al diritto al lavoro dei disabili.
Nel sistema delle assunzioni obbligatorie il legislatore si propone di tutelare il diritto al lavoro dei disabili
in quanto soggetti da una più intensa debolezza contrattuale.
La disciplina fondamentale in materia è contenuta nella L. 12 marzo 1999, n. 68, la quale promuove
l’inserimento e l’integrazione dei disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di
collocamento mirato.
Alle Regioni sono state conferite pure le funzioni ed i compiti relativi al collocamento dei disabili e si è
stabilito che le Commissioni provinciali sostituiscono le vecchie per il collocamento obbligatorio.
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In ottemperanza agli obblighi comunitari è stata elevata da otto a dieci anni la durata dell’obbligo di
istruzione; è stato istituito, a decorrere dall’anno 1999 / 2000, l’obbligo di frequenza di attività formative
fino al compimento del diciottesimo anno di età.
14. L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: gli stages in azienda.
Il rinnovato interesse del legislatore e delle parto sociali si è manifestato anche sullo specifico versante
dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Va segnalata la recente emanazione di una nuova e più
organica disciplina dei tirocini formativi.
L’art. 18, L. n. 196 del 1997 ha delegato il Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro della Pubblica
istruzione, ad emanare un nuovo regolamento in materia di tirocinio pratico e di stages.
Fermo restando l’obiettivo di tirocini e stages “di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di
agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro” si è prevista
l’attribuzione a soggetti qualificati del compito di promuovere iniziative formative in azienda rivolte a
giovani che abbiano già assolto l’obbligo scolastico.
E’ stata prevista la presenza obbligatoria di un tutor e la concessione di particolari agevolazioni per le
imprese non operanti nelle regioni meridionali. E’ da segnalare la possibilità di istituzioni scolastiche di
includere stage e tirocinio nei rispettivi piani di studio.
La recezione della Direttiva 28 giugno 1999, n. 99/70 è avvenuta con l’emanazione del D. Lgs. 6 settembre
2001, n. 368, con il quale il legislatore ha provveduto ad una riforma dell’istituto del contratto di lavoro a
tempo determinato.
La nuova legge si pone quale fonte esclusiva della disciplina dell’intera materia. La principale innovazione è
costituita dall’abbandono del principio di tassatività nell’apposizione di un termine alla durata del contratto.
Il nuovo art. 1, co. 1°, stabilisce che è consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo”.
Anche se non è stato riaffermato il principio di eccezionalità l’enunciazione legislativa ha valenza permissiva
nei confronti dell’autonomia contrattuale.
La nuova disciplina ha notevolmente ampliato la possibilità di assumere lavoratori a termine, svincolandola
dai requisiti restrittivi della straordinarietà, occasionalità, eccezionalità, senza tuttavia eliminare i limiti posti
all’autonomia privata. Infatti resta vincolata all’esistenza obiettiva di una causa giustificatrice della
temporaneità del rapporto. Sul datore incombe l’onere della prova di tale causa o ragione giustificatrice.
Si ha dunque una forte estensione del potere regolamentare dell’autonomia individuale e del controllo del
giudice.
Strettamente collegata è la disposizione che vincola l’apposizione del termine al requisito dell’atto scritto.
Tale forma è prescritta a pena di inefficacia e deve indicare le ragioni giustificatrici della sua apposizione:
in questo modo l’atto scritto assicura la trasparenza della causale ma altresì l’immodificabilità della stessa
nel corso del rapporto.
Va notato che l’assenza o incompletezza della scrittura importa l’inefficacia della clausola oppositiva del
termine e non la nullità che, pertanto, si considera a tempo indeterminato.
Stessa conclusione per l’ipotesi di insussistenza, o non corrispondenza rispetto allo schema legale: anche
in questo la nullità non si comunica al contratto medesimo. Si può aggiungere che, avendo la norma dell’art.
1, co. 1°, la sua violazione importa la nullità e la cosiddetta conversione in contratto a tempo
indeterminato. Consegue che il lavoratore potrà agire in giudizio senza limiti di tempo essendo non solo
non soggetta a decadenza ma altresì imprescrittibile.
3. Divieti; esclusioni; discipline speciali.
L’apposizione del termine è vietata, e dunque il contratto si considera a tempo indeterminato, in taluni casi
tassativamente previsti dalla legge:
a) sostituzione di lavoratori in sciopero;
b) salva diversa disposizione di accordi sindacali, nelle unità produttive in cui siano state effettuate
procedure di licenziamento collettivo;
c) nelle unità produttive interessate da riduzioni di orario o sospensioni di lavoro;
d) nelle imprese che siano inadempienti agli obblighi relativi alla valutazione dei rischi per la sicurezza
e la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
In questi casi il legislatore ha valutato immeritevole di tutela l’interessa del datore all’apposizione del
termine. Inoltre, per particolari rapporti e settori produttivi la legge ha stabilito l’esclusione dal proprio
campo di applicazione.
Ciò è da dire per rapporti a carattere temporaneo già destinatari di una propria disciplina:
a) contratto per prestazioni di lavoro temporaneo;
b) contratto di formazione e lavoro;
c) contratto di apprendistato.
Sono inoltre esclusi, in quanto destinatari di una disciplina speciale, il rapporto di lavoro degli operai a
tempo determinato nell’agricoltura, i rapporti a termine instaurati con le aziende esercenti il commercio di
esportazione, importazione e all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli ed infine i rapporti cosiddetti a giornata
nei settori del turismo e dei pubblici esercizi.
Tra le discipline speciali oltre a quella per il settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali vi è quella
relativa ai dirigenti, l’apposizione del termine è libera e non necessita della forma scritta, la ratio può
ravvisarsi alla flessibilità delle prestazioni dirigenziali, nella possibilità di opportunità di nuova occupazione.
4. La proroga del termine e la successione di più assunzioni a tempo determinato.
In tema di proroga l’art. 4, co. 1°, dispone che il termine originariamente prefissato possa essere (senza
forma scritta) prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni e che la proroga
sia ammessa una sola volta e quando “sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività
lavorativa”. Infine viene posto un limite massimo di tre anni alla durata complessiva del rapporto a termine
in conseguenza della proroga.
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L’art. 4, co. 2°, addossa al datore l’onere della prova dell’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano la
proroga del termine. Pertanto l’effetto sanzionatorio della cosiddetta conversione opera ex nunc, cioè dal
momento successivo alla scadenza pattuita dalle parti.
Distinta dalla proroga è l’ipotesi, prevista dall’art. 5, co. 1°, della continuazione del rapporto oltre la
scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato.
Non è in sé illecita ma obbliga il datore di lavoro ad una maggiorazione della retribuzione del 20% e poi del
40%. In questo modo la validità del contratto viene conservata per un tempo predeterminato (cosiddetto
periodo di tolleranza). La maggiorazione retributiva funziona come una sorta di penale rivolta a
disincentivare la prosecuzione del rapporto. Se il rapporto continua trova applicazione il meccanismo
sanzionatorio della cosiddetta conversione o trasformazione del contratto, a far data dalla scadenza dei
termini di tolleranza.
Lo stesso art. 5, co. 3° e 4°, prevede la successione (o cosiddetta reiterazione) di più assunzioni a termine
del medesimo lavoratore. La norma stabilisce che il datore di lavoro può stipulare un nuovo contratto a
termine con lo stesso lavoratore, purché dalla data di scadenza siano trascorsi almeno dieci giorni se il
contratto iniziale ha una durata fino a sei mesi, venti giorni nel caso di contratto superiore a sei mesi. Il
mancato rispetto comporta l’invalidità e quindi la conversione dal secondo contratto (e cioè ex nunc). La
norma dell’art. 5, co. 4°, considera la più grave ipotesi di una successione di più assunzioni a termine
consecutive: in questo caso “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di
stipulazione del primo contratto” (e cioè ex tunc).
La reiterazione di contratti a tempo determinato è da ritenere legittima purché avvenga nel rispetto degli
intervalli temporali e la stipulazione dei singoli contratti sia giustificata dalle ragioni oggettive indicate
dall’art. 1.
5. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato.
Per la disciplina del rapporto trovano applicazione le norme per il rapporto di lavoro a tempo
indeterminato. L’art. 6 del D.Lgs. n. 368 enuncia che ai lavoratori assunti a tempo determinato sono dovute”
le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro
trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili”; questi
sono definiti come “quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla
contrattazione collettiva”. I trattamenti indicati sono dovuti “in proporzione al periodo lavorativo prestato” o
pro rata temporis. L’inosservanza espone il datore all’applicazione delle sanzioni amministrative
pecuniarie previste dall’art. 12, D.Lgs. n. 368.
All’equiparazione tra prestatore di lavoro a tempo determinato e indeterminato si può ricondurre la norma
dell’art. 8, in virtù della quale i lavoratori a termine sono computabili ove il contratto abbia durata superiore
a nove mesi.
La legge ha inoltre predisposto tutele del diritto alla salute e dell’interesse ad una occupazione stabile dei
lavoratori a tempo determinato. Il diritto ad una formazione professionale sufficiente ed adeguata alle
mansioni espletate “al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”. Ancora ai
contratti collettivi nazionali è affidato il compito di definire le modalità e i contenuti delle informazioni circa
il ricorso ai contratti a termine nelle aziende; nonché le modalità affinché ai lavoratori a tempo determinato
siano rese le informazioni circa i posti vacanti disponibili nell’impresa.
Nessuna disposizione è contenuta nel D.Lgs. n. 368 in merito alla disciplina cui deve ritenersi assoggettato
un eventuale scioglimento del contratto ante tempus.
Fatta eccezione per l’ipotesi della sussistenza di una giusta causa, la legge assicura alle parti una stabilità
contrattuale, il quale dovrà proseguire fino alla scadenza concordata.
6. Limitazioni quantitative all’apposizione del termine; esenzioni; il diritto di precedenza.
L’apertura all’autonomia individuale in merito alle causali giustificatrici è riequilibrata dalle disposizioni
all’autonomia collettiva, utilizzando la cosiddetta delega normativa, un’importante funzione di controllo e
disciplina del contratto a tempo determinato.
L’art. 10, co. 7°, D.Lgs. n. 368, affida ai contratti nazionali di lavoro stipulati da sindacati l’individuazione di
limitazioni quantitative alle assunzioni a tempo determinato. La ratio della norma è chiara: attraverso il
rinvio alla contrattazione collettiva, il legislatore si è proposto l’obiettivo di disciplinare la domanda di
lavoro temporaneo nel suo complesso. Dette limitazioni quantitative (o cosiddette clausole di
contingentamento) possono essere stabilite anche in misura non uniforme e cioè differenziata.
La stipulazione del contratto a tempo determinato deve avvenire nel rispetto dei requisiti previsti dall’art. 1:
sia quello cosiddetto causale; sia quelle di forma. Di qui deriva la possibilità che l’autonomia collettiva
delimiti le cause giustificatrici dell’apposizione del termine.
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La legge ha escluso dal meccanismo negoziale delle limitazioni quantitative elencate nei co. 7° e 8° dello
stesso art. 10. Le fattispecie esenti ai sensi del co. 7° sono:
a) la fase di avvio di nuove attività;
b) le ragioni di carattere sostitutivo e le attività stagionali in genere;
c) l’intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno;
d) specifici spettacoli radiofonici e televisivi;
e) l’esecuzione di un’opera o servizio definiti.
Il legislatore ha stabilito l’esclusione anche dei contratti giustificati da causale cosiddetta soggettiva, in
particolare dei contratti stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage nonché dei contratti
stipulati con lavoratori di età superiore a 55 anni.
Ancora, il successivo co. 8° ha escluso anche i contratti a tempo determinato i quali, non rientrando nelle
causali cosiddetti oggettive e soggettive del co. 7°, siano di durata non superiore ai sette mesi.
L’esenzione non si applica quando i contratti siano stipulati “per lo svolgimento di prestazioni di lavoro
identiche a quelle che hanno formato oggetto di altro contratto a termine avente le medesime caratteristiche e
scaduto da meno di sei mesi”.
Infine l’art. 10, co. 9°, affida ai contratti collettivi nazionali stipulati con i sindacati “l’individuazione di un
diritto di precedenza nell’assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente a
favore dei lavoratori”. Il diritto di precedenza non è riconosciuto in via automatica dalla legge ma potrà
essere attribuito dalla contrattazione collettiva . Inoltre i lavoratori assunti in forza del diritto di precedenza
non concorrono a determinare la quota di riserva sulle assunzioni prevista in favore delle cosiddette fasce
deboli di disoccupati.
Ai sensi del co. 10° dell’art. 7, “in ogni caso il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla
cessazione del rapporto di lavoro”; ai fini del diritto di precedenza, il lavoratore è tenuto a manifestare la
propria volontà al datore di lavoro entro il termine di tre mesi dalla cessazione del rapporto.
Sezione B: L’intermediazione e l’interposizione nel rapporto di lavoro.
7. Introduzione
Questo fenomeno si manifesta sotto forme giuridiche diverse: fornitura o somministrazione della forza –
lavoro, interposizione nel cottimo, appalto e subappalto. Tratto comune di questi fenomeni è la presenza di
un intermediario tra i prestatori di lavoro e le imprese utilizzatrici.
Il profitto dell’intermediario / interposto è ottenuto ricavando un margine di lucro dalla differenza tra il
monte – salari dei lavoratori occupati e il costo del salario sopportato dall’impresa committente.
In questa prospettiva si può comprendere il motivo per cui il legislatore, nel 1960, ha sancito un generale
“divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro”.
Diversamente dall’attività della mediazione si presenta come interposizione nei rapporti di lavoro.
L’attività intermediaria è finalizzata al soddisfacimento della domanda delle imprese attraverso la selezione
dei lavoratori da assumere e la stessa gestione o utilizzazione della forza – lavoro da essi offerta.
L’intermediazione assume il carattere dell’interposizione nell’esecuzione del contratto di lavoro e
nell’impiego della manodopera assunta dallo stesso intermediario e da lui messa a disposizione
dell’imprenditore (cosiddetta somministrazione o fornitura).
Accanto a queste fattispecie interpositorie l’economia odierna realizza fattispecie di vero e proprio
decentramento produttivo come l’esternalizzazione ossia segmenti dell’attività dell’impresa all’esterno
dell’azienda principale. Queste forme di decentramento si caratterizzano per il ricorso a tipologie
diversificate di contratti sia commerciali, sia di lavoro, idonee a soddisfare il fabbisogno produttivo e di forza
lavoro dell’impresa.
8. Il divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro.
La materia dell’intermediazione è disciplinata dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369 che pone all’art. 1, co. 1°, il
divieto di intermediazione ed interpretazione: “è vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in
subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro
mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario qualunque sia la
natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono”.
Il richiamo alle società cooperative trova la sua giustificazione nel fatto che la costituzione di cooperative
fittizie è una delle tecniche più frequenti per eludere il dettato normativo.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 1 “è altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano
questi dipendenti, terzi o società, anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere
assunti e retribuiti da tali intermediari”.
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Il terzo comma stabilisce che “è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o
subappalto, anche per l’esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed
attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso
all’appaltante”.
La sanzione è severa: i prestatori di lavoro occupati in violazione dei divieti posti dalla legge sono
considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato la loro
prestazione. In virtù di tale utilizzazione il contratto concluso con l’intermediario viene conservato e funge
da presupposto per la surrogazione soggettiva legale dell’imprenditore al datore di lavoro intermediario. E’
prevista anche una sanzione penale.
In conclusione, tutte le fattispecie previste ed esplicitamente vietate dall’art. 1 della L. n. 1369 sono
riconducibili o alla cosiddetta somministrazione di lavoro altrui o al cosiddetto pseudo – appalto.
Nello pseudo – appalto si è in presenza di una fornitura al committente, da parte dell’appaltatore, di mere
prestazioni di lavoro, mentre non esiste né un’organizzazione propria di quest’ultimo, né tanto meno una
gestione di impresa a proprio rischio.
9. Gli appalti interni ed esterni all’azienda. L’azione diretta di rivalsa.
Il legislatore ha inteso evitare che questo tipo di contratto sia utilizzato per eludere norme poste a tutela del
lavoratore.
La legge n. 1369 ha posto una distinzione tra gli appalti esterni, regolati dal diritto comune, e gli appalti
che, svolgendosi all’interno dell’azienda, sono sottoposti ad una particolare disciplina protettiva dei
dipendenti dell’appaltatore.
Per quanto riguarda gli appalti interni, la giurisprudenza nell’interpretare il riferimento contenuto nell’art. 3
della L. n. 1369 agli appalti “da eseguirsi nell’interno delle aziende”, ha fatto riferimento ad un criterio
“funzionale”, e cioè all’esistenza di un collegamento con il normale ciclo produttivo dell’impresa
appaltante.
A questo riguardo la L. 18 giugno 1998, n. 192, ha disciplinato il cosiddetto contratto di subfornitura.
Secondo la definizione legale un imprenditore si impegna:
a) ad effettuare in favore del committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime,
ovvero
b) a fornire prodotti o servizi destinati ad essere utilizzati dal committente nell’esercizio della sua
attività economica.
Si tratta di un contratto finalizzato a realizzare una stretta integrazione produttiva tra le attività dei due
imprenditori e dunque a disciplinare un fenomeno di decentramento produttivo che può essere riconducibile
alla fattispecie prevista dall’art. 3 della L. n. 1369.
Tornando agli appalti interni l’art. 3 della L. n. 1369 dispone una responsabilità solidale tra appaltante ed
appaltatore (che si prolunga fino ad un anno dopo la cessazione dell’appalto) nei confronti dei lavoratori
dipendenti da quest’ultimo. E’ evidente, peraltro, che nell’imporre siffatta responsabilità solidale, il
legislatore ha perseguito l’obiettivo di estendere ai dipendenti delle imprese appaltatrici i trattamenti più
favorevoli previsti dai contratti collettivi applicati nell’impresa committente (cosiddetta uniformità di
trattamento).
In termini diversi si pone il problema con riguardo alle norme che attengono all’attività sindacale e alla
stabilità del posto di lavoro. In queste ipotesi si dovrà fare riferimento esclusivo al rapporto di lavoro con
l’appaltatore.
L’art. 5 della L. n. 1369 prevede un certo numero di deroghe alla normativa contenuta nell’art. 3, indicando
in casi in cui non si applica la regola dell’uniformità di trattamento. Si tratta di ipotesi in cui il legislatore ha
presunto l’autonomia imprenditoriale dell’appaltatore, esonerandolo dalla rigidità dei vincoli imposti dalla L.
n. 1369.
In conclusione in tutti i casi di appalto vige la tutela posta dall’art. 1676 c.c., in base alla quale i lavoratori
dipendenti dall’appaltatore “possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è
loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi
propongono la domanda” (cosiddetta azione diretta di rivalsa).
Sezione C: Il comando o distacco e il lavoro interinale.
10. Il comando o distacco.
Nell’esercizio dell’autonomia negoziale, le parti possono prevedere condizioni e modalità flessibili (nel
tempo e nello spazio) di impiego della forza – lavoro.
Il comando soddisfa un interesse di entrambi i datori di lavoro e perciò quello del datore assuntore o titolare
del rapporto all’utilizzazione del lavoratore presso il beneficiario. Per questa ragione la giurisprudenza
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All’elencazione “in positivo” si aggiunge l’indicazione “in negativo” di altre in cui è vietata la fornitura di
lavoro temporaneo. Sono escluse dalla legge le lavorazioni che richiedono speciale sorveglianza medica ed i
lavori particolarmente pericolosi individuati con Decreto Ministeriale.
Alla contrattazione collettiva viene riconosciuta un’essenziale funzione integratrice della disciplina
legale e quindi un ruolo prioritario nella regolamentazione del lavoro interinale.
Il legislatore non ha previsto precisi limiti temporali. Deve tuttavia ritenersi operante il ricordato richiamo
alle “esigenze di carattere temporaneo”, implicite nelle due ipotesi predeterminate dalla legge e esplicita dai
contratti collettivi. I contratti collettivi pertanto dovranno stabilire direttamente o indirettamente in relazione
ai singoli casi previsti, il termine alla durata della prestazioni di lavoro temporaneo.
13. Il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo.
La L. n. 196 ha previsto che il lavoratore temporaneo possa essere assunto con contratto a tempo determinato
corrispondente alla durata della prestazione lavorativa da svolgere presso l’utilizzatore, ovvero con contratto
a tempo indeterminato.
La legge impone per il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, la forma scritta e particolari elementi
del contenuto dell’atto (mansioni, durata, trattamento economico e normativo spettante).
Sono nulle le clausole che limitino anche in forma indiretta la facoltà del lavoratore di concludere
direttamente con l’impresa utilizzatrice un contratto di lavoro alla scadenza della missione.
All’impresa fornitrice non si applicano gli obblighi in materia di assunzioni obbligatorie e di riserve, con
riferimento all’assunzione dei lavoratori interinale; ed altresì che questi ultimi sono esclusi dal computo
numerico dei dipendenti ai fini dell’applicazione delle medesime normative.
14. Il contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo.
Il contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo é in collegamento necessario con il contratto
per prestazioni di lavoro temporaneo, di cui costituisce il presupposto causale. Il legislatore prevede che esso
sia stipulato in forma scritta ed inviato in copia alla Direzione provinciale del lavoro competente per
territorio entro 10 giorni dalla stipulazione.
Il contratto di fornitura deve contenere una serie di dati o elementi identificativi, tra cui gli estremi
dell’autorizzazione dell’impresa fornitrice, il numero dei lavoratori richiesti.
In esso dovranno essere apposte clausole che pongano a carico dell’impresa fornitrice l’obbligo del
pagamento diretto al lavoratore delle retribuzioni; ed a carico dell’utilizzatore l’obbligo di comunicare
all’impresa fornitrice i trattamenti retributivi e previdenziali applicabili, di rimborsare alla stessa gli oneri
retributivi e previdenziali da questa sostenuti. Sono nulle le clausole volte a limitare la facoltà
dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo.
15. La disciplina del rapporto di lavoro temporaneo.
In forza del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo il lavoratore si obbliga a svolgere la propria
attività durante il periodo di assegnazione presso l’impresa utilizzatrice, nell’interesse e sotto la direzione
e il controllo di quest’ultima.
All’impresa utilizzatrice la legge riconosce anche lo ius variandi, con la possibilità di adibire il lavoratore
temporaneo a mansioni superiori rispetto a quelle per le quali è stata disposta l’assegnazione dall’impresa
fornitrice.
L’obbligazione retributiva resta a carico dell’impresa fornitrice secondo le condizioni previste nel contratto
di fornitura. Tuttavia, al fine di evitare forme di sottosalariato, al prestatore di lavoro temporaneo compete un
trattamento non inferiore a quello riconosciuto ai dipendenti di pari livello dell’impresa utilizzatrice.
Nonostante questi obblighi retributivi gravino direttamente in capo al fornitore, l’impresa utilizzatrice è
comunque chiamata a risponderne in via solidale in caso di inadempimento della prima, anche oltre l’entità
della garanzia prestata dal primo.
La legge dispone che il periodo di assegnazione presso l’impresa utilizzatrice possa essere prorogato con il
consenso del lavoratore e mediante atto scritto; ed il lavoratore interinale ha diritto di prestare l’attività per
l’intero periodo di assegnazione eccetto il caso di mancato superamento della prova o di giusta causa di
recesso. Sia di licenziamento sia di dimissioni; sembra da escludere il licenziamento per giustificato motivo
nel caso di un contratto di lavoro a tempo determinato.
La legge detta anche alcune disposizioni relative all’ipotesi in cui il lavoratore interinale sia stato assunto a
tempo indeterminato. In tal caso, è previsto che, negli intervalli tra una missione e l’altra, egli resti “a
disposizione” dell’impresa fornitrice, percependo per tali periodi un’indennità mensile di disponibilità, il
cui importo è stabilito dal contratto individuale sulla base del contratto collettivo.
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L’impresa fornitrice è investita nei confronti dei prestatori di lavoro temporaneo degli obblighi di
informazione sui rischi per la sicurezza e la salute nonché di quello di addestrare il lavoratore all’uso delle
attrezzature necessarie per lo svolgimento della specifica attività lavorativa per la quale sono stati assunti.
Le disposizioni della L. n. 196 attinenti alla formazione professionale dei prestatori di lavoro temporaneo
ed alla possibilità che la prestazione di lavoro temporaneo si accompagni all’iscrizione nelle liste di mobilità
e alla percezione della relativa indennità.
16. Il sistema sanzionatorio.
Sia nei confronti del soggetto utilizzatore il quale ricorra alla fornitura da parte di soggetti diversi da quelli
autorizzati, sia nei confronti di soggetti che svolgano un’attività di fornitura senza la dovuta autorizzazione, è
prevista l’applicazione della L. 23 ottobre 1960, n. 1639, con le sue sanzioni penali e civili. La medesima
sanzione è prevista a carico dell’utilizzatore nei casi di violazione dei limiti causali definiti dalla legge “in
positivo” e “in negativo”.
Più flessibile risulta la normativa al caso di superamento dei limiti temporali. Qualora il lavoratore continui
ad effettuare la sua prestazione in favore dell’utilizzatore alla scadenza del termine, gli è dovuta una
maggiorazione della retribuzione pari al 20% della retribuzione giornaliera per ciascun giorno successivo alla
scadenza e per un massimo di dieci giorni. Oltre il decimo giorno, il lavoratore è considerato dipendente a
tempo indeterminato dell’utilizzatore.
Per quanto riguarda i requisiti di forma la legge prevede ancora una volta la trasformazione del contratto
temporaneo in indeterminato nel caso di difetto di forma scritta del contratto di fornitura. Invece, in caso di
difetto di forma scritta del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo è prevista la trasformazione del
contratto temporaneo in determinato con l’impresa fornitrice.
Una sanzione penale specifica è prevista per chi percepisca compensi dal lavoratore per avviarlo a
prestazioni di lavoro temporaneo; nel caso si tratti della stessa impresa fornitrice, è stabilita altresì la
cancellazione dall’albo.
17. Il rapporto di lavoro temporaneo come rapporto speciale di lavoro.
Il legislatore configurato il rapporto di lavoro temporaneo come un rapporto speciale di lavoro,
caratterizzato non solo dall’elasticità delle cause giustificatrici della fornitura, ma altresì dal particolare
atteggiarsi del vincolo della subordinazione che differisce dal modello tipico della collaborazione di cui
all’art. 2094 c.c.
Il lavoratore interinale infatti non può prestare alcuna attività sotto la direzione dell’impresa fornitrice, la
quale dispone soltanto l’assegnazione presso l’impresa utilizzatrice. Pertanto la dipendenza verso la prima si
esaurisce nella soggezione all’assegnazione che sembra da ricondurre alla funzione tipica del contratto, quale
presupposto dell’esercizio del potere direttivo.
A fronte di questo predominante rilievo che assumono i profili derivanti dall’inserzione temporanea del
lavoratore nell’impresa utilizzatrice, il vincolo della subordinazione verso l’impresa fornitrice ritorna in
evidenza con riguardo alla responsabilità contrattuale del lavoratore e alla titolarità e all’esercizio del potere
disciplinare, che la legge ha riservato a quest’ultima. Ugualmente all’impresa fornitrice compete il diritto di
recesso dal rapporto, da esercitarsi secondo le regole generali.
Sezione D: Il contratto di lavoro a tempo parziale.
18. La Direttiva comunitaria n. 97/81 e il Decreto Legislativo n. 61 del 2000, attuativo della Direttiva.
La nuova disciplina del lavoro a tempo parziale.
Il Consiglio dell’Unione Europea, con la Direttiva 15 dicembre 1997, n. 97/81, ha infatti dato attuazione
all’accordo sul lavoro a tempo parziale con l’obiettivo di definire “principi generali e prescrizioni minime”
finalizzati all’emanazione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale ed alla
promozione di questa forma di occupazione.
A questa Direttiva l’Italia ha dato attuazione con il D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61. La nuova disciplina
stabilisce che “nel rapporto di lavoro subordinato l’assunzione può avvenire a tempo pieno o a tempo
parziale” e che le assunzioni a termine possono essere effettuate, nel rispetto dei limiti previsti dalla
normativa in vigore, anche con rapporto a tempo parziale.
La legge definisce le nozioni di tempo pieno e di tempo parziale, nonché quelle di part – time orizzontale
(riduzione dell’orario prevista in relazione all’orario normale), di part – time verticale (attività svolta a
tempo pieno ma per periodi predeterminati) e di part – time misto (di quello orizzontale e verticale).
I contratti nazionali possono prevedere modalità particolari di attuazione delle discipline che il decreto stesso
rimette alla contrattazione collettiva.
In primo luogo viene sancito il principio della non discriminazione (in realtà uniformità o parità di
trattamento) che comporta, per il lavoratore part – time, il godimento integrale degli stessi diritti di cui
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beneficia il lavoratore a tempo pieno. Per contro, il trattamento riservato al lavoratore part – time va
riproporzionato (cosiddetto pro rata temporis) in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, con
riferimento ad esempio all’importo della retribuzione feriale.
In secondo luogo viene tutelato l’interesse del lavoratore a scegliere tra lavoro a tempo pieno e a tempo
parziale nonché a modificare tale scelta nel corso del rapporto.
La trasformazione del rapporto a tempo pieno in rapporto a tempo parziale da un lato può avvenire
solo sulla base di un accordo scritto convalidato dalla Direzione provinciale del lavoro, dall’altro lato il
rifiuto di tale trasformazione non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Non è invece impedito il ricorso ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo qualora il
comportamento del lavoratore possa nel concreto integrare una “ragione” inerente all’attività produttiva.
Sotto il secondo profilo si è stabilito che, nel caso in cui il datore di lavoro intenda effettuare assunzioni di
personale a tempo parziale, è tenuto a prendere in considerazione le domande di trasformazione del rapporto
dai lavoratori già dipendenti a tempo pieno: su richiesta del lavoratore il rifiuto dovrà essere adeguatamente
motivato. Inoltre, ai prestatori di lavoro a part – time è stato riconosciuto un diritto di precedenza rispetto
alle assunzioni di lavoratori a tempo pieno; tale diritto di precedenza spetta con priorità per i lavoratori già
dipendenti che avevano trasformato il loro rapporto a tempo pieno in rapporto a tempo parziale.
19. La disciplina del contratto e del rapporto
Per la stipulazione del contratto a tempo parziale è necessaria la forma scritta. La forma deve contenere
l’indicazione della durata e della collocazione temporale. Il datore deve, inoltre, comunicare alla direzione
provinciale l’assunzione entro 30 giorni. Il legislatore ha consentito al datore l’inserzione di una clausola
elastica (patto che deve essere firmato anche dal prestatore) per modificare gli orari, se prevista anche dai
contratti collettivi. Il lavoratore, in compenso, ha diritto ad un preavviso di dieci giorni (o al minimo 48H),
nonché ad una maggiorazione della retribuzione.
Con riferimento all’art. 5 della legge 863 dell’84, la Corte Costituzionale aveva dichiarato il contrasto delle
clausole elastiche con l’art. 36 Cost., perché impedivano al lavoratore di assumere ulteriori impieghi
lavorativi e il raggiungimento di una retribuzione sufficiente.
Il diritto di ripensamento è la possibilità del prestatore di denunciare il patto per iscritto, sulla base di
documentate ragioni. In caso di denuncia, viene meno la facoltà del datore di variare la collocazione
temporale.
Il lavoro supplementare o straordinario è ammesso solo quando il contratto sia a tempo indeterminato o,
se determinato, soltanto per sostituire un lavoratore assente. Se il lavoro supplementare travalica i limiti dei
contratti collettivi, la retribuzione dovrà essere maggiorata nella misura stabilita o almeno del 50%.
Le norme del lavoro supplementare possono essere estese al lavoro straordinario.
20. La normativa incentivante e l’apparato sanzionatorio
La legge cerca di incentivare il part-time per favorire l’occupazione. Sono stati inserite alcune disposizioni
con funzione promozionale (ad esempio: “arrotondamento per le frazioni di orario eccedenti”). Per quanto
riguarda l’accertamento della consistenza dell’organico ricordiamo che “i lavoratori a tempo parziale sono
computati nel numero complessivo dei dipendenti in proporzione dell’orario svolto”.
In caso di mancanza di forma scritta, richiesta solo ad probationem, è ammessa la prova per testimoni. Nel
caso in cui vis sia forma scritta, ma manchi l’indicazione della durata, il lavoratore ha diritto ad un rapporto a
tempo pieno a partire dalla data della sentenza. Qualora mancasse l’indicazione della collocazione essa viene
determinata dal giudice sulla base dei contratti collettivi, o tenendo conto delle responsabilità familiari e
delle esigenze del datore. In entrambi i casi il giudice stabilirà una retribuzione aggiuntiva in via equitativa.
Il lavoratore part-time ha diritto di precedenza per le assunzioni a tempo pieno; in caso contrario, potrà
ottenere un risarcimento apri alla differenza tra la retribuzione percepita e quella full-time.
21. Conclusioni
Il legislatore ha riconosciuto un ruolo centrale alla contrattazione collettiva, con l’attribuzione di poteri di
deroga e di integrazione normativa; per questo, la tipicità del lavoro a tempo parziale va ricercata nella sua
genesi economico-sociale. Il lavoro a tempo parziale è fondamentalmente orientato ad una flessibilizzazione
della prestazione, infatti, gli è stato riconosciuto un rapporto speciale: variabile per la prestazione e stabile
nell’occupazione.
Il fenomeno dell’eccedenza e della riduzione di personale è collegata alla tutela del diritto di lavoro.
Nel caso delle eccedenze di personale viene in rilievo la contraddizione tra la disoccupazione come
fenomeno di massa e l’esigenza di garantire il miglioramento dei livelli di reddito e di occupazione.
Occorre sottolineare che il sistema economico è caratterizzato dall’andamento ciclico dell’economia e dai
processi di ammodernamento.
La disciplina delle eccedenze di manodopera è dunque una materia cruciale nella quale si confrontano gli
interessi configgenti all’occupazione e l’esercizio dell’attività economica: si tratta di interessi entrambi
costituzionalmente rilevanti.
Da osservare che il ruolo centrale è svolto dall’autonomia collettiva nel governo delle eccedenze personale.
Ma occorre altresì sottolineare che gli interessi generali coinvolti hanno richiesto interventi legislativi.
13. L’evoluzione storica della disciplina delle eccedenze di personale.
Questi interventi legislativi si sono affiancati con quelli espressi dall’autonomia collettiva, seguendo
un’evoluzione storica.
La prima fase inizia con la soppressione del blocco dei licenziamenti e l’istituzione (1945) della gestione
ordinaria della Cassa integrazione guadagni (CIG) e colloca la previsione dei licenziamenti collettivi per
riduzione di personale nell’ambito esclusivamente contrattuale della disciplina interconfederale accanto a
quella dei licenziamenti individuali.
In questa fase la CIG assolve alla funzione di evitare che di fronte ad eventi transitori ed eccezionali il datore
di lavoro sia costretto a licenziare e di garantire che i lavoratori possano conservare sia il posto di lavoro che
il reddito.
Nella seconda fase, successiva alla L. 15 luglio 1966, n. 604, sui licenziamenti individuali, si pone il
problema della delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina contrattuale dei licenziamenti
collettivi. Nel 1968 la gestione straordinaria della CIG si sviluppa come strumento di intervento di lunga
durata a sostegno del reddito dei lavoratori. Parallelamente viene elaborata una complessa disciplina a
sostegno dell’occupazione.
La terza fase è quella aperta dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, nella quale si assiste ad una risistemazione
della normativa sull’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni.
Inoltre si procede ad una legificazione della materia dei licenziamenti collettivi.
Il passaggio dalla seconda alla terza fase si giustifica con l’intento del legislatore di segnare uno spartiacque
rispetto al ventennio precedente, durante il quale fu indotto un potenziamento degli interventi dello stato
sociale.
Occorre sottolineare che proprio il rilievo centrale che la materia in esame acquisisce sul piano del conflitto
sociale non ha consentito una stabilità dell’assetto normativo introdotto con la L. n. 223 del 1991, a fronte
della perdurante instabilità del quadro economico.
Altro aspetto da sottolineare è che il legislatore è intervenuto per promuovere la sperimentazione di nuove
specie di ammortizzatori sociali regolate e gestite dalla contrattazione collettiva.
La L. 23 dicembre 1996, n. 662 ha previsto che con decreto del Ministro del lavoro di concerto con il
Ministro del tesoro vengano definite misure sperimentali per il perseguimento di politiche di sostegno del
reddito e dell’occupazione. In nuovi settori di intervento, si tende al superamento delle tradizionali forme di
garanzia del reddito di tipo esclusivamente pubblicistico e ad un maggior coinvolgimento delle parti sociali
attraverso la previsione di forme di previdenza volontaria.
Queste esperienze potrebbero rappresentare una nuova fase.
Sezione A: La Cassa integrazione guadagni.
14. L’intervento ordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGO).
L’intervento ordinario della CIG (L. 20 maggio 1975, n. 164) ha la funzione di sostegno del reddito dei
lavoratori a fronte di situazioni di mera contrazione dell’attività produttiva, di natura congiunturale,
nell’ambito del settore industriale: si tratta delle sospensioni dal lavoro e delle riduzioni dell’orario di lavoro
dovute ad eventi transitori non imputabili né al datore di lavoro né ai lavoratori, ovvero determinate da
situazioni temporanee di mercato (cosiddette cause integrabili).
L’ammontare del trattamento corrisposto ai lavoratori è pari all’80% della retribuzione che sarebbe loro
spettata per le ore non lavorate.
La legge impone una procedura di informazione e consultazione sindacale. Successiva a questa, vi è la fase
del procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale, che si sviluppa presso la sede
provinciale dell’INPS.
La durata massima dell’integrazione ordinaria è di tre mesi continuativi. In casi eccezionali fino ad un anno
in un biennio. L’intervento ordinario della CIG è stato esteso ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura.
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15. L’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGS). Le fattispecie causali; le
procedure per la concessione del trattamento; la durata dell’integrazione ed i meccanismi di
rotazione tra i lavoratori.
Anche l’intervento straordinario della CIG è stato istituito ad assicurare la continuità del reddito e
dell’occupazione dei lavoratori temporaneamente allontanati dal processo produttivo; e attraverso la
limitazione dei licenziamenti, a consentire all’impresa di conservare il patrimonio di professionalità in essa
maturato. L’intervento straordinario è destinato a fronteggiare situazioni di tipo strutturale, e cioè di durevole
eccedenza di personale.
La disciplina di questa forma di intervento è contenuta le LL. n. 164 del 1975 e n. 223 del 1991.
Le cause integrabili in presenza delle quali può essere autorizzata la concessione dell’integrazione
straordinaria sono la ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale e della crisi aziendale che
presenti particolare rilevanza sociale. L’intervento straordinario è previsto, poi, nei casi d’impresa
assoggettata ad una procedura concorsuale e di conclusione di un contratto di solidarietà interna; può essere
concesso solo alle imprese che abbiano occupato più di 15 dipendenti. Entro questo ambito, l’integrazione
spetta ad operai ed impiegati sospesi dal lavoro che abbiano un’anzianità di almeno 90 giorni. La misura
dell’integrazione è pari all’80% della retribuzione che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate.
Passando a considerare le procedure per la concessione del trattamento di integrazione straordinaria, va
detto che l’impresa è tenuta ad esperire la procedura di consultazione sindacale.
L’impresa deve quindi presentare all’amministrazione del lavoro la richiesta di ammissione all’intervento
corredata dal programma di risanamento. In caso di presentazione tardiva della domanda, si applicheranno
le conseguenze previste per l’intervento ordinario della CIG.
Il programma deve essere approvato dal Ministro del lavoro, il quale provvederà l’intervento straordinario
di integrazione salariale.
Nell’ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale, la durata del programma, nonché
quella del trattamento d’integrazione salariale, non può essere superiore a due anni.
Il Ministro del lavoro può autorizzare fino a due proroghe dell’intervento della CIGS, ciascuna del periodo di
12 mesi, “in ragione delle caratteristiche tecniche dei processi produttivi dell’azienda”.
Nel caso di crisi aziendale la durata è di 12 mesi: non sono consentite proroghe ed una nuova concessione
può essere stabilita solo dopo un periodo pari a 2/3 di quello relativo alla prima concessione.
La L. n. 223 del 1991 ha fissato dei rigidi limiti temporali secondo i quali non è consentita la concessione
del trattamento straordinario per più di 36 mesi in un quinquennio, indipendentemente dalle cause di
concessione. Questo limite può essere superato, oltre che nel caso di proroga, nel caso in cui sia stata
concessa la CIG in ragione di una procedura concorsuale o sulla base di un contratto di solidarietà interna. A
parte questi limiti si è previsto che successivamente al primo trimestre l’erogazione del trattamento avvenga
per periodi semestrali e si è precluso all’impresa di richiedere l’intervento straordinario per quelle unità
produttive per le quali abbia già richiesto l’intervento ordinario.
La L. n. 223 si è scontrato con l’esigenza di governare una complessa fase economica. Di qui la frequente
emanazione di normative transitorie e derogatorie.
Altro aspetto di rilievo è l’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS. La legge prevede che qualora
l’impresa ritenga di non adottare meccanismi di rotazione, debba indicarne i motivi.
Spetta al Ministro del lavoro giudicare la fondatezza dei motivi e nell’ipotesi che tali motivi non
giustifichino la mancata rotazione, egli tenta un accordo tra le parti: decorsi tre mesi senza che si raggiunga
un accordo, stabilisce l’adozione di meccanismi di rotazione. L’impresa potrà ancora rifiutarsi ma dovrà
sottostare ad una sanzione premiale.
Infine la legge sancisce un generale divieto di discriminazione diretta o indiretta per sesso.
16. L’intervento della CIG nelle ipotesi di procedure concorsuali.
Nel caso in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, qualora non sia stata disposta o sia cessata la
continuazione dell’attività produttiva, il curatore, il liquidatore o il commissario possono richiedere
l’intervento straordinario della CIG. La medesima disciplina si applica anche nel caso di ammissione a
concordato preventivo con cessione dei beni, ma, qualora vi sia dichiarazione di fallimento, il periodo
d’integrazione salariale sarà detratto da quello concesso in virtù del fallimento.
La concessione del trattamento da parte del Ministro del lavoro può avvenire per un periodo non superiore a
12 mesi, prorogabile per un ulteriore periodo di sei mesi, qualora “sussistano fondate prospettive di
continuazione dell’attività”.
17. I contratti di solidarietà interna: nozione e disciplina legislativa.
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Il legislatore nel 1984 ha introdotto nel nostro ordinamento il contratto collettivo di solidarietà cosiddetta
interna, e ne ha promosso la diffusione attraverso la concessione di un sostegno economico finalizzato a
contenere il sacrificio dei lavoratori derivante dalla riduzione dell’orario di lavoro. L’area dell’intervento
riguarda i lavoratori dipendenti dalle imprese industriali, da quelle appaltatrici di servizi di mensa e
ristorazione, dalle imprese editoriali.
La legge prevede che, qualora l’imprenditore abbia stipulato un contratto collettivo aziendale che stabilisca
una riduzione dell’orario di lavoro con corrispondente diminuzione della retribuzione.
Tale contratto costituisce il presupposto per la concessione di un trattamento di integrazione salariale posto a
carico della contabilità dei trattamenti straordinari della CIG.
L’integrazione pari al 60% della retribuzione perduta può essere corrisposta per un periodo non superiore a
24 mesi, prorogabili fino a 24 mesi. Per i meridionali la proroga è di 36 mesi; ai datori di lavoro un biennio.
La retribuzione perduta va determinata non tenendo conto di aumenti nei 6 mesi antecedenti la stipulazione
del contratto. Al contrario rimane inalterato in caso di aumenti. Il contratto di solidarietà prevede la
possibilità di modificare in aumento l’orario ridotto ed in questo caso è stabilita una riduzione del
trattamento di integrazione salariale.
18. L’estensione progressiva dell’ambito di applicazione dell’intervento straordinario della CIG.
Il trattamento straordinario è stato esteso ai lavoratori dipendenti da:
• imprese industriali destinate alla commercializzazione dei prodotti delle stesse imprese;
• imprese appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione;
• imprese appaltatrici dei servizi di pulizia;
• imprese commerciali con più di 200 addetti;
• imprese artigiane.
L’integrazione salariale straordinaria è stata estesa anche ai soci di cooperative di produzione e lavoro
nonché ai lavoratori dipendenti da imprese operanti nel settore dell’informazione e dell’editoria, laddove
nel settore dell’agricoltura è stato l’intervento ordinario della CIG ad essere esteso, in favore degli
impiegati, operai e quadri occupati con contratto a tempo indeterminato.
La riforma della L. n. 223 del 1991 è volta ad utilizzare, in via temporanea ed eccezionale, l’intervento
straordinario in ambiti esclusi dal suo ordinario campo di applicazione al fine di garantire la stabilità del
reddito dei lavoratori.
19. CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali di diritto civile.
La distinzione tra le ipotesi di intervento ordinario e straordinario della Cassa non coincide con quella tra
sospensioni dell’attività lavorativa dovute ad impossibilità sopravvenuta e sospensioni dipendenti da fatti
organizzativi legati ad una scelta imprenditoriale.
Mentre le sospensioni collegate all’intervento straordinario non sono riconducibili ad una causa di
impossibilità sopravvenuta della prestazione, nell’ambito delle sospensioni per le quali è previsto
l’intervento ordinario, sono invece ricomprese, accanto alle ipotesi di impossibilità, anche quelle dovute alla
mera difficultas a ricevere la prestazione lavorativa.
Pertanto, all’opinione che collega alla semplice sussistenza dei fatti costituenti le cause integrabili il potere
unilaterale di sospensione del rapporto da parte dell’imprenditore, pare preferibile quella che pone a
fondamento della sospensione del rapporto di lavoro un accordo, sia pure implicito, tra imprenditore e
lavoratori in grado, anche alla stregua dei principi generali, di produrre un simile effetto.
Si deve sottolineare come la dottrina e la giurisprudenza si siano orientate nel senso di collegare la
liberazione dell’imprenditore dall’obbligo retributivo all’atto amministrativo di ammissione al
trattamento di integrazione salariale. E’ da tale atto che deriverebbe la deroga ai principi generali con
l’ulteriore conseguenza che l’imprenditore resterebbe obbligato al pagamento delle retribuzioni.
Sezione B: I licenziamenti collettivi
20. I licenziamenti collettivi per riduzione di personale. La disciplina collettiva e l’elaborazione
giurisprudenziale.
Sono strettamente collegati con l’abolizione del recesso ad nutum nei licenziamenti individuali.
Nell’accordo del 1947 la disciplina sostanziale dei licenziamenti individuali si fondava sul vincolo di
giustificare il licenziamento. A fronte di tale obbligo, la nozione di licenziamento collettivo veniva
identificata da esigenze di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro.
Tale caratteristica è stata mantenuta anche nei successivi accordi del 21 aprile 1950 e del 5 maggio 1965 che
imponevano l’obbligo di consultare i sindacati e di esperire un tentativo di conciliazione.
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La ragione della differenziazione così introdotta va ravvisata nella considerazione che anche l’autonomia
collettiva riconosceva il diritto alla libertà di iniziativa economica tanto da farlo prevalere sull’interesse dei
singoli alla conservazione del posto di lavoro.
Il quadro era destinato a mutare per effetto della L. n. 604 del 1966, con la quale venivano introdotti limiti al
potere di recesso del datore di lavoro. Infatti, il legislatore del 1966 aveva escluso la materia dei
licenziamenti collettivi dalla disciplina di quelli individuali. Di conseguenza non era corrisposto un
accrescimento della tutela dell’interesse collettivo alla conservazione dei livelli occupazionali.
Per lungo tempo, l’assenza di una specifica disciplina legislativa in materia di licenziamenti collettivi ha
così attribuito alla giurisprudenza il compito di precisare la nozione del licenziamento collettivo e le forme di
tutela al singolo lavoratore. La giurisprudenza era giunta ad alcune conclusioni, soprattutto affermando il
principio secondo cui il giudice non può valutare il merito delle scelte tecniche addotte dall’imprenditore a
giustificazione della riduzione del personale, giacché esse rientrano nella libertà di iniziativa economica
garantita dall’art. 41, co. 1°, Cost.
21. La funzione suppletiva della giurisprudenza e le sue contraddizioni. La disciplina comunitaria.
La Corte di cassazione, dopo una lunga elaborazione giurisprudenziale, era giunta ad affermare che
l’osservanza delle procedure di consultazione sindacale costituivano essenziale requisito formale del
licenziamento collettivo, in mancanza si trasformava in una somma di licenziamenti individuali (cosiddetti
licenziamenti individuali plurimi). Analoghe conseguenze dalla mancata sussistenza del requisito della
riduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero nel caso in cui mancasse il nesso di causalità tra la
scelta di riduzione e il licenziamento stesso. Viceversa, nel caso in cui non fossero stati rispettati i criteri di
scelta fissati dagli accordi interconfederali, il lavoratore avrebbe avuto diritto solo ad una tutela risarcitoria
per il danno subito.
Più specificamente, la Corte di cassazione aveva affermato che l’elemento fondamentale andava ravvisato
“nel motivo, consistente nel ridimensionamento dell’azienda” (nozione ontologica del licenziamento
collettivo) inteso come ridimensionamento strutturale dell’impresa.
A fronte dei cosiddetti licenziamenti tecnologici (indotti dall’introduzione di tecnologie labour saving) la
Corte ha riconosciuto la configurabilità del licenziamento collettivo. Essa aveva invece escluso la ricorrenza
di un licenziamento collettivo nel caso di licenziamento di tutti i dipendenti per cessazione totale
dell’attività produttiva.
Nel 1991 è stata emanata (nell’ambito della L. 23 luglio 1991, n. 223) una disciplina legale dei licenziamenti
collettivi che ha inteso dare attuazione alla Direttiva del 1975 che non era stata attuata dallo Stato italiano.
Di recente sia la Direttiva del 1975 sia quella del 1991 sono state abrogate dalla Direttiva 98/59 del 20
luglio 1998 che ha riprodotto alla lettera le disposizioni sostanziali della Direttiva del 1975, come modificate
ed integrate da quella del 1992, solo con una diversa numerazione.
22. La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L. n. 223 del 1991.
La L. n. 223 del 1991 è comprensiva di tutte le situazioni di eccedenza di personale sia di carattere
temporaneo che definitivo.
Il legislatore ha delineato due differenti ipotesi di trattamento delle eccedenze definitive di personale delle
imprese distinguendo a seconda che l’eccedenza si manifesti in un processo di ristrutturazione ossia
“collocamento in mobilità” o in crisi aziendale ossia “licenziamento collettivo per riduzione del personale”.
Vanno subito precisati alcuni aspetti di rilievo:
• la disciplina sul licenziamento collettivo per riduzione di personale ha una portata generale e
riguarda le imprese che rientrano e che non rientrano nel campo della CIGS;
• la normativa si applica alle imprese con più di 15 dipendenti;
• la disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale rinvia in buona parte a quella
dettata per il collocamento in mobilità, in effetti si configurano finalizzati alla immediata e definitiva
espulsione dall’impresa dei lavoratori eccedenti.
12. La procedura di collocamento in mobilità.
Qualora un’impresa ammessa al trattamento d’integrazione straordinaria, “nel corso di attuazione del
programma…ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi e di non
poter ricorrere a misure alternative”, deve avviare una procedura di collocamento in mobilità (o procedura
di mobilità tout court); qualunque sia il numero dei lavoratori da collocare in mobilità esclusi i dirigenti.
Dal punto di vista della procedura, all’impresa grava l’obbligo d’informazione dei sindacati e della pubblica
autorità competente. La legge sollecita la ricerca di soluzioni alternative all’espulsione di personale; è anzi
previsto il riassorbimento anche parziale dei lavoratori eccedenti a mansioni non equivalenti o presso
un’altra impresa, per una durata temporanea.
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In conclusione, in attuazione degli obblighi comunitari imposti dalla Direttiva n. 92/56 del 26 giugno 1992, il
legislatore italiano è dovuto intervenire ad integrare la normativa del 1991, stabilendo la possibilità di
ricorrere a veri e propri piani sociali rivolti a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori
eccedenti.
13. Il collocamento in mobilità dei lavoratori eccedenti. Le sanzioni per il licenziamento
illegittimo.
Esaurita la procedura di mobilità l’imprenditore può procedere al collocamento in mobilità e cioè alla
risoluzione del rapporto di lavoro (recesso).
La legge ha dettato alcuni criteri di scelta ovvero: i carichi di famiglia, l’anzianità e le esigenze tecnico –
produttive ed organizzative.
Per il licenziamento dei singoli lavoratori è poi imposta la comunicazione individuale in forma scritta,
nonché l’obbligo del preavviso. Inoltre vanno comunicati alla Direzione regionale del lavoro, alla
Commissione regionale per le politiche del lavoro ed ai sindacati di categoria i dati anagrafici e professionali,
nonché le modalità di applicazione dei criteri di scelta.
La L. n. 223 stabilisce che i licenziamenti senza forma scritta sono inefficaci, dichiara annullabili quelli in
violazione dei criteri di scelta. E’ prevista la reintegrazione nel posto di lavoro.
Nel caso di reintegrazione, la legge consente il licenziamento di un numero pari di lavoratori, nel rispetto dei
criteri di scelta dandone comunicazione alle r.s.a: la norma riguarda solo i licenziamenti annullati per
inosservanza dei criteri di scelta.
Salvo il caso di assenza di forma scritta il licenziamento deve essere impugnato, a pena di scadenza, anche
in forma stragiudiziale, entro il termine di 60 giorni.
14. Il cosiddetto statuto dei lavoratori in mobilità:
a) l’indennità di mobilità: i lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell’art. 4, i quali possano far valere
un’anzianità di almeno 12 mesi di cui almeno 6 di lavoro effettivo, hanno diritto ad un’indennità di
mobilità.
La misura dell’indennità è pari per i primi 12 mesi a quella del trattamento di integrazione salariale goduto
immediatamente prima del licenziamento, mentre nei mesi successivi si riduce all’80% dello stesso
trattamento.
L’indennità di mobilità è sostitutiva di ogni altra prestazione di disoccupazione ed i periodi di godimento
sono utili ai fini pensionistici; inoltre, è incompatibile con trattamenti pensionistici diretti a carico
dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia.
b) l’iscrizione nelle liste di mobilità: ai lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell’art. 4, L. n. 223 è prevista
la loro iscrizione in una lista di mobilità.
La legge assicura l’iscrizione anche ai lavoratori che non abbiano il requisito dell’anzianità aziendale di 12
mesi.
La cancellazione dei lavoratori dalle liste di mobilità avviene alla scadenza dei periodi di percezione
dell’indennità di mobilità e nei casi in cui essi non percepiscono tale indennità avverrà alle medesime
scadenze.
La legge prevede la cancellazione dalla lista anche quando venga meno lo stato di disoccupazione.
15. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale: l’estensione delle norme sulla procedura,
sull’indennità e sull’iscrizione nelle liste di mobilità.
L’imprenditore in una situazione di crisi non ha alcun obbligo di ricorrere alla Cassa integrazione guadagni
potendo decidere di procedere ad una riduzione di personale.
L’eccedenza di personale con caratteri di definitività può manifestarsi dopo l’attuazione di un programma di
trasformazione aziendale per il quale sia stato concesso l’intervento straordinario della CIG, anche nei
confronti di imprese che non rientrino nel campo della CIG.
L’art. 24, L. n. 223 del 1991 ha dettato una specifica disciplina in materia, la nozione di licenziamento
collettivo per riduzione di personale.
Esso fa riferimento all’imprenditore che occupi più di 15 dipendenti, il quale intenda procedere ad almeno 5
licenziamenti in un arco di 120 giorni. Nell’ambito del licenziamento collettivo per riduzione di personale
viene ricompreso anche il licenziamento dall’imprenditore che intenda cessare totalmente l’attività.
L’art. 24 pone a fondamento del licenziamento collettivo per riduzione di personale “una riduzione o
trasformazione di attività o di lavoro” aggiungendo in conformità con la previsione della Direttiva
comunitaria del 1975, i requisiti numerici, temporali e spaziali di cui si è detto in precedenza.
In presenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, l’attivazione della procedura da parte
dell’imprenditore comporta automaticamente la natura collettiva del licenziamento.
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Sembra, dunque, che si debba riconfermare la possibilità di un controllo giudiziario sull’effettiva sussistenza
di questo requisito ed il controllo del giudice deve ritenersi estendibile al nesso di causalità tra la scelta
imprenditoriale ed il singolo licenziamento, anche in considerazione dell’esplicita previsione secondo la
quale i licenziamenti devono essere tutti “riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione”.
L’art. 24, L. n. 223 prevede che si applichino tutte le disposizioni procedurali dettate per il collocamento
in mobilità dei lavoratori. L’imprenditore è dunque tenuto al rispetto delle procedure e degli adempimenti
amministrativi previsti dall’art. 4, oltre che al rispetto dei criteri di scelta, del preavviso e dei vincoli formali.
Comune alle due ipotesi è anche il regime dell’inefficacia e dell’annullabilità del licenziamento intimato
senza l’osservanza dei requisiti procedurali e formali con applicazione dell’art. 18, L. n. 300, nonché
l’applicazione del termine di impugnazione.
Il licenziamento ex art. 24 deve avvenire entro 120 giorni dalla conclusione della procedura di mobilità.
La L. n. 223 ha poi esteso ai lavoratori, ai sensi dell’art. 24, il diritto all’indennità di mobilità ed
all’iscrizione nelle liste di mobilità, alle stesse condizioni per il collocamento in mobilità. In questo caso è
stata assicurata l’iscrizione nelle liste di mobilità ai lavoratori che, licenziati ai sensi dell’art. 24 da imprese
soggette alla CIGS, non abbiano diritto all’indennità di mobilità a causa della mancanza dell’anzianità
aziendale di 12 mesi, nonché ai lavoratori non soggetti alla CIGS.
16. Gli oneri economici posti a carico delle imprese.
La L. n. 223 del 1991 a posto a carico dell’imprenditore soggetto alla disciplina della CIGS oneri economici
di un certo peso (cosiddetto contributo di mobilità), soprattutto quando i lavoratori licenziati gravano sulla
spesa previdenziale.
L’art. 5, co. 6°, L. n. 223 del 1991 ha previsto un aggravio qualora il collocamento in mobilità avvenga tra la
fine del 12° mese dalla concessione della CIG e la fine del 12° mese successivo al completamento del
programma di risanamento. La ratio della norma è di evitare che il costo dell’intervento straordinario si
cumuli con quello dell’indennità di mobilità, inducendo le imprese a rendere le eccedenze definitive.
17. Procedure concorsuali, collocamento in mobilità e licenziamento per riduzione di personale.
L’introduzione di una specifica causa di intervento straordinario della CIG collegata ad una procedura
concorsuale nel corso della quale non sia stata disposta la continuazione provvisoria dell’attività non esclude
la possibilità del ricorso a licenziamenti per riduzione di personale ai sensi degli artt. 4 e 24, L. n. 223 del
1991.
Il licenziamento dei lavoratori nell’ambito di una procedura concorsuale deve sottostare anche ai limiti da
quella stabilita, ferma restando la libertà di dimissioni con preavviso del lavoratore ex art. 2118 c.c.
L’apertura della procedura concorsuale non costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento, né
i presupposti per il collocamento in mobilità o per il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
L’art. 3, co. 3°, L. n. 223 del 1991 prevede che, allorché non sia possibile la continuazione dell’attività
ovvero quando i livelli occupazionali possano essere salvaguardati solo in parte, il curatore, il liquidatore
o il commissario hanno facoltà di collocare in mobilità i lavoratori ai sensi dell’art. 4 della L. n. 223 del 1991
se sia stato concesso l’intervento straordinario della CIG, oppure di licenziare collettivamente ai sensi
dell’art. 24 della stessa legge.
Nell’ipotesi in cui sia stata disposta la continuazione dell’attività, essi si trovano ad operare come un
qualunque imprenditore e hanno facoltà di decidere l’immediato ricorso ai licenziamenti collettivi ex art. 24.
Qualora, invece, non sia stata disposta essi possono egualmente decidere l’immediato ricorso al
licenziamento collettivo.
La legge riconosce le peculiarità della situazione di crisi in cui versa l’impresa sottoposta a procedura
concorsuale, prevedendo oltre ad una riduzione del termine per l’espletamento della consultazione
sindacale, l’esonero dal contributo dovuto per il collocamento in mobilità.
Nel corso della procedura concorsuale, si può giungere al trasferimento dell’azienda: di cui all’art. 2112
c.c. e all’art. 47, L. 29 dicembre 1990, n. 428, non costituisce motivo legittimo di licenziamento; dopo la
cessione si può procedere ad eventuali licenziamenti secondo la disciplina generale.
relativi a questa complessa materia. L’art. 45 della L. 17 maggio 1999, n. 144 ha conferito al Governo una
delega ad apportare, entro il 28 febbraio 2000, le necessarie modifiche alla predetta normativa.
La delega è stata attuata con il D.Lgs. 28 febbraio 2000, n. 81 il quale ha dettato una graduale abolizione
dell’istituto: è stata soppressa buona parte delle tipologie di lavori socialmente utili previste dal D.Lgs. n.
468 ed è stata congelata la posizione dei lavoratori già impegnati in lavori socialmente utili.
22. La promozione delle cooperative di produzione e lavoro a fini di tutela dell’occupazione. Il
riconoscimento dei lavoratori espulsi dai processi produttivi.
Diversa è la prospettiva nella quale si inseriscono le disposizioni sulle cooperative contenute nella L. 27
febbraio 1985, n. 49 la quale mira alla salvaguardia dei livelli occupazionali attraverso il sostegno della
mutualità imprenditoriale tra i lavoratori. L’obiettivo è quello di attenuare le conseguenze negative della
crisi occupazionale promuovendo l’iniziativa imprenditoriale di lavoratori che si trovino in stato o in
pericolo di disoccupazione, ed il trasferimento dell’azienda in crisi agli stessi.
Il problema del reinserimento dei lavoratori allontanati dal mondo produttivo o comunque da lungo tempo
disoccupati, è stato oggetto anche di alcuni interventi legislativi diretti a promuovere l’occupazione mediante
vere e proprie riserve di posti.
Accanto a queste previsioni si devono poi aggiungere quelle rivolte a stimolare la domanda di lavoro delle
imprese attraverso incentivi economici all’assunzione di lavoratori disoccupati.
Tali incentivi possono consistere nella riduzione della quota di contribuzione di previdenza e assistenza a
carico del datore di lavoro ovvero in erogazioni una tantum.
23. Gli incentivi all’occupazione. Il sostegno all’autoimprenditorialità ed all’autoimpiego.
Gli strumenti fin qui esaminati sono collegati a sostenere il reinserimento nel mondo del lavoro dei soggetti
espulsi dai processi produttivi. Su un piano diverso si muovono gli interventi diretti a fronteggiare la
disoccupazione attraverso la promozione dell’iniziativa imprenditoriale e dell’autoimpiego dei lavoratori.
La L. 25 febbraio 1992, n. 215 promuove l’eguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra i sessi
nell’attività economica e imprenditoriale. A tal fine la legge ha istituito un fondo nazionale per lo sviluppo
dell’imprenditoria femminile.