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Capitolo I

L’amministrazione e il suo diritto


La nozione di pubblica amministrazione
“Amministrazione” non è un concetto giuridico, ma è un termine riferibile a un
qualsiasi soggetto (persona giuridica, pubblica o privata, ovvero individuo) che
svolge un’attività rivolta alla soddisfazione di interessi correlati ai fini che il
soggetto si propone di perseguire.
Amministrazione in senso oggettivo è l’amministrazione regolata da norme
giuridiche e svolta per la soddisfazione di interessi pubblici.
Amministrazione in senso soggettivo è l’attività amministrativa posta in
essere dalle persone giuridiche pubbliche e dagli organi che hanno competenza
alla cura degli interessi dei soggetti pubblici.
Entrambi i concetti si completano a vicenda e nessuno dei due può esistere a
prescindere dall’altro.
Amministrazione in senso soggettivo equivale a dire organizzazione
amministrativa.
Dal punto di vista del diritto positivo è difficile rinvenire una definizione del
concetto di pubblica amministrazione, difatti la nozione più ampia ed attendibile
appare senz’altro quella dell’art. 1 comma 2 d.lgs 165/2001 (sulla privatizzazione
del rapporto di lavoro presso l’amministrazione) ma questa non ricomprende gli
enti pubblici economici tra le amministrazioni pubbliche perché il rapporto di
lavoro dei dipendenti era già sottoposto ad una disciplina privatistica.
Tale norma si riferisce a tutte le amministrazioni dello Stato “ivi compresi gli
istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e le
amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i
comuni, le comunità montane e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni
universitarie, gli istituti autonomi case popolari (ora Agenzie territoriali per la
casa), le camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura e le loro
associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali o locali, le
amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’agenzia per
la rappresentanza nazionale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le agenzie
di cui al d.lgs. 300/1999”.

La nozione di diritto amministrativo


Il diritto amministrativo è la disciplina giuridica della pubblica amministrazione
(in parte da essa posta ed in parte ad essa imposta) nella sua organizzazione, nei
beni e nell’attività ad essa peculiari e nei rapporti che, esercitando tale attività, si
istaurano con gli altri soggetti dell’ordinamento.
Gli Stati caratterizzati dalla presenza di un corpo di regole amministrative distinte
dal diritto comune sono generalmente definiti come Stati a regime amministrativo.
In Italia, dopo l’unità nel 1865, si uniformò la legislazione relativa ai territori
annessi ad opera delle c.d. leggi di unificazione
L’attività giurisdizionale è retta da principi e da una normativa del tutto peculiare
ed autonoma rispetto al diritto amministrativo. L’attività amministrativa può
essere esercitata dai soggetti pubblici tanto nelle forme del diritto pubblico quanto
nelle forme del diritto privato.
Gli atti di diritto privato della pubblica amministrazione non possono essere attratti
nel diritto amministrativo perché i principi che li regolano sono propri del diritto
privato.
Disciplinata in parte dal codice civile è poi l’attività amministrativa che determina,
o concorre a determinare, la costituzione di status, di capacità, di rapporti di diritto
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privato, ad esempio mediante trascrizioni, registrazioni, documentazioni (c.d.
“amministrazione pubblica del diritto privato”).
Anche i rapporti tra diritto penale e diritto amministrativo si sono fatti più stretti,
infatti negli ultimi decenni molti reati sono stati depenalizzati per diventare illeciti
amministrativi.

L’amministrazione comunitaria ed il diritto amministrativo


comunitario
Le organizzazioni internazionali sono dotate di una propria struttura
amministrativa. Il moltiplicarsi della disciplina dell’attività amministrativa poste da
fonti comunitarie, in particolare da regolamenti e direttive, offre esempi rilevanti
di condizionamento dell’azione amministrativa e ormai è comunemente accettata
l’espressione “diritto amministrativo comunitario” per descrivere questo
complesso di normative.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed in Italia ne è
stata data esecuzione con la Legge 848/1955.
Il Trattato di Nizza del 2001, ratificato in Italia con Legge 102/2002 ha
ulteriormente modificato il trattato dell’Unione europea prevedendo anche
cooperazioni rafforzate tra gli Stati membri. A Nizza è stata anche proclamata la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che si articola in 6 capi
relativi a dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia e
sancisce in particolare il “diritto ad una buona amministrazione”. Secondo la Corte
Costituzionale, tale espressione, anche se non ha efficacia giuridica, ha “carattere
espressivo di principio comuni agli ordinamenti europei”.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dovrà essere ratificata a
parte nonostante sia allegata alla Costituzione europea.
Il diritto amministrativo comunitario in senso proprio è soltanto quello avente
ad oggetto l’amministrazione comunitaria, e può rilevare ai fini del diritto
amministrativo italiano nel fatto che esso può trasformarsi in uno strumento di
circolazione di modelli giuridici che possano in futuro influenzare il nostro
ordinamento.
Per amministrazione comunitaria si intende l’insieme degli organismi e delle
istituzioni dell’Unione europea cui è affidato il compito di svolgere attività
sostanzialmente amministrativa e di emanare atti amministrativi.
Il moltiplicarsi dei compiti dell’Unione europea determina però anche un parziale
ridimensionamento del campo di azione dell’amministrazione interna, e questo
problema è arginato dal principio di sussidiarietà che però ha due facce, una
garantista a favore del decentramento e dei poteri locali e l’altra che può
agevolare processi di accentramento a favore del livello di governo superiore,
consentendo a quest’ultimo di agire anche al di là delle competenze ad esso
attribuite formalmente, ogni qual volta l’azione comunitaria si presenti come la più
efficace.
Questo principio costituisce una vera e propria regola di riparto delle competenze
tra Stati membri e Unione europea per salvaguardare le attribuzioni degli Stati
stessi, ed è stato inserito nel nostro ordinamento dalla Legge 59/1997 e dall’art. 3
comma 5 del T.U. sugli enti locali, nonché dalla Legge Costituzionale n.3 del 2001.
In particolare, nei settori di competenza “concorrente” tra Unione e Stati membri,
l’Unione può intervenire soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione
prevista non possano essere realizzati dagli Stati membri e possano dunque
essere realizzati meglio a livello comunitario a motivo delle dimensioni o degli
effetti dell’azione stessa.
Spesso le amministrazioni nazionali sono chiamate a svolgere compiti esecutivi
delle decisioni adottate dall’amministrazione comunitaria, e questo determina una
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complicazione del procedimento amministrativo nel senso che si assiste alla
partecipazione ad esso sia delle amministrazioni italiane, sia dell’amministrazione
comunitaria, che emana l’atto finale destinato a produrre effetti per i cittadini.
Tale situazione crea dubbi e incertezze in ordine al giudice (nazionale o
comunitario) al quale deve rivolgersi il privato che si ritenga leso dall’azione
procedimentale.
Si deve poi distinguere tra esecuzione in via diretta o quella in via indiretta
che avviene cioè avvalendosi della collaborazione degli Stati membri.
La Commissione si avvale così oggi di apparati esecutivi e di uffici che si sono
creati e sviluppati spesso in materia non organica, mediante decisioni ad hoc,
anche a motivo dell’essenza di una riserva di legge in materia di organizzazione
che avrebbe probabilmente imposto uno sviluppo più omogeneo.
Sotto il profilo soggettivo, nell’amministrazione comunitaria assume un ruolo
centrale la Commissione, che ha compiti di esecuzione delle norme comunitarie.

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Capitolo II
Ordinamento giuridico e amministrazione: la disciplina
costituzionale
Diritto amministrativo e nozione di ordinamento giuridico.
Con il termine ordinamento giuridico generale si indica l’assetto giuridico e
l’insieme delle norme giuridiche che si riferiscono ad un particolare gruppo sociale.
Le prescrizioni della Costituzione prevalgono sulle norme prodotte dalle altre fonti
del diritto, ed è proprio questa analisi che consente di chiarire quale sia la
posizione dell’amministrazione nell’ordinamento giuridico generale, ossia quali
siano i suoi rapporti con gli altri soggetti del medesimo ordinamento.

L’amministrazione nella Costituzione: in particolare il “modello” di


amministrazione emergente dagli artt. 5, 95, 97 e 98. La
separazione tra indirizzo politico e attività di gestione.
La Costituzione si occupa dell’amministrazione nella sezione II del titolo III della
parte seconda. Oltre agli articoli presenti nello stesso titolo III, sezione I, relativi al
governo (in particolare l’art.95), si ricordano gli artt. 5, 28, 52, 114 e 118. Di rilievo
sono poi le norme che interessano la materia dei servizi pubblici (artt. 32, 33, 38,
41, 43, 47), la responsabilità (art. 28) e le altre disposizioni comunque applicabili
all’amministrazione.
Dal quadro normativo costituzionale emergono diversi modelli di amministrazione,
nessuno dei quali può essere considerato come “modello” principale.
1. In base l’art. 98 Cost. L’amministrazione pare in primo luogo direttamente
legata alla collettività nazionale al cui servizio i suoi impiegati sono posti.
2. Vi è poi il modello espresso dall’art.5 Cost. e sviluppato nel titolo V della
parte seconda, caratterizzato dal disegno del decentramento amministrativo
e dalla promozione delle autonomie locali, capaci di esprimere un proprio
indirizzo politico-amministrativo.
3. L’art.97 Cost. contiene una riserva di legge e mira a sottrarre
l’amministrazione al controllo politico del Governo e che si legittima per la
sua imparzialità ed efficienza. Contemporaneamente, lo stesso art. 97 Cost.
pone limiti al legislatore imponendogli di incidere sull’amministrazione
soltanto dettando regole per la disciplina della sua organizzazione.
L’analisi dei modelli di amministrazione emergenti dal disegno costituzionale
evidenzia la costante presenza della questione del rapporto tra amministrazione,
governo e politica.
Il Governo, insieme al Parlamento, esprime un indirizzo, qualificato dall’art. 95
Cost. come indirizzo politico e amministrativo.
L’indirizzo politico può definirsi come la direzione politica dello Stato e quindi,
come quel complesso di manifestazioni di volontà in funzione del conseguimento
di un fine unico, mentre l’indirizzo amministrativo consiste nella prefissione di
obiettivi dell’azione amministrativa ma che deve comunque essere stabilito nel
rispetto dell’indirizzo politico.
L’art. 2 comma 1 della Legge 400/1988 attribuisce al Consiglio dei ministri il
compito di determinare, in attuazione della politica generale del governo,
l’indirizzo generale dell’azione amministrativa e l’art. 5 comma 2 lettera a) della
Legge 400/1988, prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri impartisca ai
ministri le direttive politiche ed amministrative in attuazione delle deliberazioni del
Consiglio dei ministri. Il D.Lgs 165/2001 attribuisce agli organi di governo
l’indirizzo politico-amministrativo (Artt. 4 e 14). L’art. 42 del T.U. sugli enti locali

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dispone a sua volta che il consiglio comunale e quello provinciale siano organi di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
L’amministrazione deve essere leale verso la forza politica che detiene la
maggioranza parlamentare, e deve essere uno strumento di esecuzione delle
direttive politiche impartite dal ministro che assume la responsabilità degli atti del
proprio dicastero.
Il significato del D.Lgs. 165/2001 non è quello di riservare l’attività di indirizzo ai
soli organi politici, bensì di identificare i contenuti dell’attività, qualificata come
“indirizzo politico-amministrativo”, sottratta ai dirigenti, ai quali un’attività di
indirizzo comunque spetta.
Gli organi politici possono controllare e indirizzare il livello più alto
dell’amministrazione – la dirigenza – soltanto utilizzando gli strumenti di cui al
D.Lgs 165/2001 in particolare la prefissione di obiettivi e verifica dei risultati.
A differenza degli atti amministrativi, gli atti politici sono sottratti al sindacato
del giudice amministrativo in forza dell’art.24 Legge 5992/89 (la legge istitutiva
del Consiglio di Stato), ad esempio le deliberazioni dei decreti legge e dei decreti
legislativi; gli atti di iniziativa legislativa del governo; la determinazione di porre la
questione di fiducia; lo scioglimento dei consigli regionali.
Nel diritto amministrativo è stata elaborata la categoria degli atti di alta
amministrazione (ad esempio i provvedimenti di nomina dei direttori generali
delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere) caratterizzati da
una amplissima discrezionalità, considerati l’anello di collegamento tra indirizzo
politico e attività amministrativa in senso stretto e sono soggetti alla legge ed al
sindacato giurisdizionale.

I principi costituzionali della pubblica amministrazione: la


responsabilità.
Il principio di responsabilità è enunciato dall’art.28 Cost. “i funzionari e i
dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili,
secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di
diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
Il termine “responsabilità” inteso dalla Costituzione si riferisce alla assoggettabilità
ad una sanzione dell’autore di un illecito, mentre spesso lo stesso termine è usato
in altre normative come quelle regionali, per indicare il soggetto che deve rendere
conto del complesso dell’attività di un ufficio ad esso facente capo.
La legge sul procedimento amministrativo ha previsto l’istituzione della figura del
responsabile del procedimento, che soddisfa una esigenza di trasparenza e di
identificabilità di un contraddittore all’interno dell’amministrazione procedente che
sia individuabile e contattabile dal cittadino, nel segno del superamento del
principio dell’impersonalità dell’apparato amministrativo.
Recenti e molteplici leggi hanno introdotto le autorità o amministrazioni
indipendenti, organismi pubblici caratterizzati da un alto grado di imparzialità e
soggetti unicamente alla legge, che proprio in ragione della loro indipendenza
dall’esecutivo non rispondono politicamente allo stesso, ma neppure ad altri
soggetti.

Il principio di legalità.
Il principio di legalità esprime l’esigenza che l’amministrazione sia assoggettata
alla legge, anche se esso è applicabile non soltanto alla amministrazione bensì a
qualsivoglia potere pubblico.
Nel nostro ordinamento giuridico convivono più concezioni del principio di legalità.
a) esso è considerato nei termini di non contraddittorietà dell’atto
amministrativo rispetto alla legge (preferenze della legge). L’art.4 delle
disposizioni preliminari al Codice Civile stabilisce che i regolamenti
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amministrativi “non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di
legge” e l’art. 5 Legge 2248/1865 all.E, da cui discende l’obbligo per il
giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi e i regolamenti non
“conformi” alle leggi. Tale accezione, che corrisponde all’idea di
un’amministrazione che può fare ciò che vuole purché non sia impedito dalla
legge, è stata successivamente superata dalle tesi della legalità formale e
della legalità sostanziale.
b) Il principio di legalità è inteso anche nella sua accezione di conformità
formale, nel senso che il rapporto tra legge e amministrazione è impostato
non solo sul divieto di quest’ultima di contraddire la legge, ma anche sul
dovere della stessa di agire nelle ipotesi ed entro i limiti fissati dalla legge
che attribuisce il relativo potere. Tale principio si applica ad alcuni atti
amministrativi normativi, quali i regolamenti ministeriali.
c) Il principio della legalità inteso come conformità sostanziale intende fare
riferimento alla necessità che l’amministrazione agisca non solo entro i limiti
di legge, ma in conformità della disciplina sostanziale posta dalla legge
stessa, la quale incide anche sulle modalità di esercizio dell’azione e,
dunque, penetra all’interno dell’esercizio del potere. Questa concezione si
ricava dalle ipotesi in cui la Costituzione prevede una riserva di legge.
Vi sono tuttavia alcune differenze tra il principio di legalità e riserva di legge,
quest’ultima riguarda il rapporto tra Costituzione, legge ed amministrazione e,
imponendo la disciplina legislativa di una data materia, ne limita l’esercizio del
potere normativo spettante all’esecutivo (la sua violazione comporta l’illegittimità
costituzionale della legge stessa).
Le differenze si sostanziano nel fatto che il principio di legalità attiene al rapporto
tra legge ed attività complessiva della pubblica amministrazione, quindi anche
quella non normativa, ed il mancato rispetto di tale principio determina
l’illegittimità dell’azione amministrativa.
I parametri ai quali l’attività amministrativa deve fare riferimento sono non solo di
legalità, ma anche di legittimità, la quale consiste nella conformità del
provvedimento e dell’azione amministrativa a parametri anche diversi dalla legge,
ancorché alla stessa pur sempre collegati (norme regolamentari, statutarie e così
via). Tra questi parametri sono da annoverare anche “regole non scritte”.
Il principio di legalità si risolve in quello di tipicità dei provvedimenti
amministrativi: se l’amministrazione può esercitare i soli poteri autoritativi
attribuiti dalla legge, essa può emanare soltanto i provvedimenti stabiliti in modo
tassativo dalla legge stessa.
Occorre infine richiamare il principio del giusto procedimento elaborato dalla
Corte costituzionale ed avente la dignità di principio generale dell’ordinamento: in
particolare esso esprime l’esigenza che vi sia una distinzione tra il disporre in
astratto con legge e il provvedere in concreto con atto alla stregua della disciplina
astratta.

Il principio di imparzialità.
L’art.97 Cost. pone due principi relativi all’amministrazione: il principio di buon
andamento dell’amministrazione e del principio di imparzialità.
La dottrina e la giurisprudenza hanno affermato la natura precettiva e non
programmatica della norma costituzionale, la quale pone una riserva di legge,
inoltre è stata affermata l’applicabilità diretta dei due principi sia
all’organizzazione che all’attività amministrativa.
Il concetto di imparzialità esprime il dovere dell’amministrazione di non
discriminare la posizione dei soggetti coinvolti.

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L’imparzialità impone che l’amministrazione sia strutturata in modo da assicurare
una condizione di oggettiva aparzialità, ed in tal senso, la norma costituzionale
conterrebbe una riserva di organizzazione in capo all’esecutivo.
Esempi di applicazione del principio si trovano nell’art.98 Cost. il quale sancisce
che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione e quindi non di
interessi partigiani; l’obbligo di astensione sussistente in capo ai titolari di pubblici
uffici allorché debbano decidere questioni alle quali essi siano interessati.
Il principio di imparzialità impone il criterio del pubblico concorso per l’accesso ai
pubblici uffici, inteso ad evitare la formazione di una burocrazia politicizzata e
richiede che la commissione giudicatrice sia formata prevalentemente da tecnici.
Strettamente connesso all’imparzialità è il principio della predeterminazione dei
criteri e delle modalità cui le amministrazioni si debbono attenere nelle scelte
successive, il quale consente di verificare la rispondenza delle scelte concrete ai
criteri che l’amministrazione ha prefissato (c.d. autolimite).
La parzialità ricorre quando sussiste un ingiustificato pregiudizio o una indebita
interferenza di alcuni di tali interessi, mentre l’imparzialità riferita all’attività di
scelta concreta, si identifica nella congruità delle valutazioni finali e delle modalità
di azione prescelte. Tale congruità deve essere definita tenendo conto degli
interessi implicati, di quelli tutelati dalla legge e degli altri elementi che possono
condizionare l’azione amministrativa.

Il principio di buon andamento.


Il principio di buon andamento enunciato dall’art.97 Cost. impone che
l’amministrazione agisca nel modo più adeguato e conveniente possibile.
In tema di conferimento di funzioni e compiti a regioni ed enti locali pare da
collegare al buon andamento il principio di adeguatezza “in relazione
all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente, a garantire … l’esercizio
delle funzioni”. Questo principio è stato costituzionalizzato dalla Legge Cost.
n.3/2001 che, sostituendo l’art. 118 Cost. Comma 1, stabilisce che l’attribuzione
delle funzioni tra comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato avvenga
sulla base del principio di “adeguatezza”.
Il buon andamento è riferito alla pubblica amministrazione nel suo complesso, non
al singolo funzionario o pubblico dipendente verso il loro dovere funzionale di
buona amministrazione.

I criteri di efficacia, economicità, efficienza e trasparenza.


L’amministrazione deve attenersi, oltre ai principi di buon andamento e di
imparzialità, anche ai criteri di economicità, efficacia e trasparenza.
Il criterio di efficienza indica la necessità di misurare il “rapporto tra il risultato
dell’azione organizzativa e la quantità di risorse impiegate per ottenere quel dato
risultato”: esso costituisce la “capacità di una organizzazione complessa di
raggiungere i propri obiettivi attraverso la combinazione ottimale dei fattori
produttivi”.
Il criterio di efficacia è invece collegato al “rapporto tra ciò che si è
effettivamente realizzato e quanto si sarebbe dovuto realizzare sulla base di un
piano o un programma”.
Pertanto efficienza o efficacia non coincidono, ma è utile notare che il termine
“efficacia” ha un significato differente rispetto a quello impiegato per descrivere la
rilevanza degli effetti sul piano dell’ordinamento generale.
Il criterio di trasparenza può essere riferito sia all’attività sia all’organizzazione
e, dunque, alla duplice declinazione del termine amministrazione.
Al concetto di trasparenza, inteso in senso ampio, possono essere ricondotti molti
istituti, tra i quali il diritto di accesso, la pubblicità degli atti, la motivazione, la
univoca definizione delle competenze, l’istituzione degli uffici di relazione con il
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pubblico, il responsabile del procedimento, e più in generale le attività di
informazione e di comunicazione delle amministrazioni, disciplinate dalla legge
150/2000.

I principi di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei


confronti della pubblica amministrazione e di sindacabilità
degli atti amministrativi. Il problema della riserva di
amministrazione.
L’art.24 comma 1 Cost. Stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela
dei propri interessi legittimi”. L’art. 113 Cost. dispone che “contro gli atti della
pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e
degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o
amministrativa. Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi
di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e
con gli effetti previsti dalla legge stessa”.
Questa disciplina esprime l’esigenza che ogni atto della pubblica amministrazione
possa essere sindacato da parte di un giudice e che tale sindacato attenga a
qualsiasi tipo di vizio di legittimità: si tratta del principio di azionabilità delle
situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti dell’amministrazione e del
principio di sindacabilità degli atti amministrativi.
Secondo la Corte costituzionale, la norma in esame non impedisce l’emanazione
delle c.d. leggi provvedimento (si tratta di leggi che hanno contenuto puntuale
e concreto alla stessa stregua dei provvedimenti amministrativi), purché sia
rispettato il canone di ragionevolezza. La legge provvedimento può essere però
sindacata soltanto dalla Corte costituzionale, alla quale tuttavia non è possibile
proporre direttamente ricorso da parte dei soggetti privati lesi.
Emerge il problema della riserva di amministrazione, cioè ci si deve chiedere
se esista un ambito di attività ristretto riservato alla pubblica amministrazione.
Spesso il giudice amministrativo ha giurisdizione di merito, che gli consente di
sindacare l’opportunità delle scelte amministrative.
L’idea della riserva di amministrazione sembra poi confliggere con altri principi,
quali il principio della preferenza della legge, inoltre, una legge che non
disponesse in via puntuale e concreta – sostituendosi all’amministrazione e
nell’esercizio di un potere – in una situazione caratterizzata dalla presenza di più
interessi di cui occorre effettuare una valutazione e una ponderazione, violerebbe
il principio di imparzialità cui il legislatore è vincolato in tema di attività
amministrativa.
Un caso diverso di riserva a favore dell’amministrazione, relativo però all’esercizio
della funzione regolamentare, pare emergere dall’art. 117 comma 6 Cost. che
riconosce la potestà regolamentare regionale in ogni materia diversa da quelle di
competenza statale e la potestà regolamentare dei comuni, province e città
metropolitane “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite”.

Il principio della finalizzazione dell’amministrazione pubblica agli


interessi pubblici.
Dall’esame dell’art. 97 Cost. Emerge il principio di finalizzazione
dell’amministrazione pubblica: il buon andamento significa congruità dell’azione in
relazione all’interesse pubblico; l’imparzialità, direttamente applicabile all’attività
amministrativa, postula l’esigenza di un soggetto “parte”, il quale è tale in quanto
persegue finalità collettive che l’ordinamento generale ha attribuito alla sua cura.

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Tali principi devono essere rispettati anche dal legislatore quando pone in essere
la disciplina dell’amministrazione. Ed è applicabile anche all’attività di diritto
privato dell’amministrazione e all’organizzazione.

I principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.


Un ulteriore principio dell’ordinamento con riferimento all’allocazione delle
funzioni amministrative è il principio di sussidiarietà, inteso nel senso di
attribuzioni di funzioni al livello superiore di governo esercitabili soltanto
nell’ipotesi in cui il livello inferiore non riesca a curare gli interessi ad esso affidati.
Questo principio è stato introdotto dapprima a livello comunitario dal Trattato CE.
Il decentramento è figura riferibile in generale a tutti i poteri decisori (non solo
dunque a quelli amministrativi, ma anche a quelli politico-legislativi) e che implica
la necessità che tali poteri non siano tutti racchiusi e conferiti in un “centro”.
Secondo l’art. 5 Cost. “La Repubblica attua nei servizi che dipendono dallo Stato il
più ampio decentramento amministrativo” e costituisce regola fondamentale
dell’organizzazione amministrativa.
Il decentramento è un fenomeno organizzativo che può assumere forme diverse:
burocratico (il quale comporta soltanto il trasferimento di competenze da organi
centrali a organi periferici di uno stesso ente), oppure autarchico (se comporta
l’affidamento, ad enti diversi dallo Stato, del compito di soddisfare la cura di alcuni
bisogni pubblici).
Il decentramento burocratico implicherebbe la responsabilità esclusiva degli
organi locali nelle materie di propria competenza e l’assenza di un rapporto di
rigida subordinazione con il centro.
Parte della dottrina (Sandulli) ritiene che in molti casi la presenza di organi statali
locali realizzi, o abbia realizzato, un fenomeno di deconcentrazione nell’ambito
di un’amministrazione statale che però resta accentrata.
Il decentramento autarchico può essere previsto a favore di enti locali,
consentendo così che la cura di interessi locali sia affidata a enti esponenziali di
collettività locali, ovvero a favore di altri enti (c.d. decentramento istituzionale).
La recente Legge 59/1997 art.1 c.2, ha attribuito al governo la delega per
conferire agli enti locali e alle regioni tutte le funzioni e i compiti amministrativi
“relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive
comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei
rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello
Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici”. La delega
è stata esercitata con il D.Lgs 112/1998 ed a seguito di questo processo di
conferimento di compiti e funzioni a Regioni ed enti locali, oggi l’amministrazione
italiana si configura essenzialmente come regionale e locale.
Il principio di sussidiarietà è annoverato dalla Legge 59/1997 art.4 tra i principi e i
criteri direttivi cui deve attenersi la regione nel conferimento a province, comuni
ed enti locali delle funzioni che non richiedano l’unitario esercizio a livello
regionale.
L’art. 3 comma 5 del T.U. sugli enti locali prevede che comuni e province sono
“titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della
regione, secondo il principio di sussidiarietà”.
Il principio di sussidiarietà può essere inteso in senso non solo verticale
(relativamente cioè alla distribuzione delle competenze tra centro e periferia) ma
anche orizzontale (nei rapporti tra poteri pubblici e organizzazioni della società).
L’art. 3 comma 5 del T.U. sugli enti locali prevede anche la possibilità che gli enti
locali svolgano le proprie funzioni anche attraverso le attività che possono essere
“adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro
formazioni sociali”: il cittadino quindi, da mero amministrato, viene considerato
come promotore della vita politico-amministrativa.
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L’art. 118 comma 1 Cost. Stabilisce che “le funzioni amministrative sono attribuite
ai comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a
province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Il Comma 3 precisa che “Stato,
regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa
dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà”.
Il principio di sussidiarietà è richiamato pure dall’art.120 ultimo comma Cost., che
disciplina i poteri sostitutivi dello Stato nei confronti dei governi locali e,
recentemente, dalla L.131/2003 che contiene disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge Costituzionale n.3/2001.

I principi costituzionali applicabili alla pubblica amministrazione:


l’eguaglianza, la solidarietà, la democrazia.
All’amministrazione, come agli altri soggetti pubblici, si applicano senz’altro i
principi di eguaglianza, di solidarietà, di buona fede, e l’art.52 stabilisce che
l’ordinamento delle forze armate deve essere “informato” allo spirito democratico
della Repubblica.
Se il principio democratico informa l’ordinamento militare, esso, a maggior
ragione, deve essere riferibile all’amministrazione nel suo complesso, ed indica il
governo della maggioranza nel rispetto dei diritti delle minoranze.
La democrazia implica dunque la tutela dei diritti delle minoranze, nonché la
possibilità di controllare in qualche modo l’esercizio del potere politico nei vari
settori.

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Capitolo III
L’organizzazione amministrativa: profili generali
Introduzione.
Ciascun ordinamento oltre a riconoscere la soggettività e la capacità giuridica a
tutte le persone fisiche, istituisce altri soggetti-persone giuridiche e questo vale
anche per le persone giuridiche pubbliche.
La dottrina e la giurisprudenza riconoscono come soggetti di diritto – e dunque
come centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive - anche
organizzazioni che non hanno la personalità giuridica quali le associazioni non
riconosciute (dette “figure soggettive”), le associazioni sindacali, i ministeri, le
amministrazioni autonome e le autorità indipendenti non aventi personalità
giuridica.

I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: Gli enti pubblici.


I soggetti di diritto pubblico costituiscono nel loro complesso l’amministrazione in
senso soggettivo, che si articola nei vari enti pubblici. Essi sono dotati di
capacità giuridica e come tali sono idonei ad essere titolari di poteri
amministrativi: in questo senso possono essere definiti come centri di potere.
Accanto all’amministrazione statale, vi sono le amministrazioni regionali nonché
gli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti dall’ordinamento
generale in quanto portatori di interessi pubblici.
L’amministrazione statale (ma anche quella regionale e locale) si articola in una
serie di enti variamente collegati alla prima, ma da questi distinti in quanto
provvisti di propria personalità.
Nel corso del tempo, accanto agli enti territoriali nazionali, si sono aggiunti enti
privati e soggetti che rappresentano anche espressioni spontanee che svolgono
attività rilevanti per la comunità, e per tale motivo sono stati riconosciuti come
enti dall’ordinamento.
Il mutamento del ruolo dello Stato, che, da soggetto chiamato ad intervenire
direttamente ed in prima persona nella società e nell’economia, tende a
configurarsi sempre più come soggetto regolatore, ha agevolato il fenomeno della
creazione di amministrazioni indipendenti e la vicenda della privatizzazione
degli enti.

Il problema dei caratteri dell’ente pubblico.


L’art.97 Cost. stabilisce il principio generale secondo cui “i pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizioni di legge”, e l’art. 4 della Legge 70/1975 afferma
che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per
legge”.
La norma costituzionale esprime il principio essenziale secondo cui spetta
all’ordinamento generale e alle sue fonti individuare le soggettività che operano al
suo interno.
Molti enti (consorzi, aziende speciali e così via) continuano comunque ad essere
istituiti da altri enti pubblici con determinazioni amministrative “sulla base di
legge” e non “per legge”, pertanto si distingue in dottrina tra configurazione
astratta e istituzione concreta dell’ente.
La questione dell’individuazione degli enti pubblici è stata risolta dalla
giurisprudenza utilizzando una serie di indici “esteriori”, che qualificano l’ente
se valutati nel loro complesso.
Tra questi indici di pubblicità si ricordano la costituzione dell’ente ad opera di un
soggetto pubblico; la nomina degli organi direttivi in tutto o in parte di
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competenza dello Stato o di altro ente pubblico; l’esistenza di controlli o di
finanziamenti pubblici; l’attribuzione di poteri autoritativi.

La definizione di ente pubblico e le conseguenze della pubblicità.


L’elemento essenziale della pubblicità di una persona giuridica va ricercato
considerando la particolare rilevanza pubblicistica dell’interesse perseguito
dall’ente.
L’interesse è pubblico quando la legge l’abbia imputato ad una persona giuridica,
tenuta giuridicamente a perseguirlo: di qui il riconoscimento della “pubblicità” di
quella persona giuridica.
L’ente pubblico è istituito con una specifica “vocazione” allo svolgimento di una
peculiare attività di rilevanza collettiva.
L’ente pubblico non può disporre della propria esistenza, a differenza dei soggetti
privati, che possono decidere di ritirarsi e cioè di smettere l’attività, oppure
modificare l’oggetto della stessa.
Non è sempre facile individuare l’imputazione legislativa dell’ente, ma si ritiene
che possano esserci alcuni elementi rivelatori, quali il finanziamento pubblico e
l’utilizzo di denaro pubblico da parte dell’ente.
Tale criterio trova conferma negli artt. 11 e 14 della Legge 59/1997 i quali
prevedono la trasformazione in associazioni o in persone giuridiche di diritto
privato degli enti nazionali che “non svolgono funzioni o servizi di rilevante
interesse pubblico”.
Agli enti pubblici economici non vengono riconosciuti poteri autoritativi.
La qualificazione di un ente pubblico è importante perché comporta conseguenze
giuridiche di rilievo.
a) Soltanto gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno
efficacia sul piano dell’ordinamento generale alla stessa stregua dei
provvedimenti dello Stato, impugnabili davanti al giudice amministrativo.
L’autonomia è intesa come possibilità di effettuare da sé le proprie scelte ed è
altresì riferita alla possibilità di porre in essere norme generali ed astratte che
abbiano efficacia sul piano dell’ordinamento generale (c.d. autonomia
normativa), si pensi agli enti territoriali, i quali possono emanare statuti e
regolamenti e prefissarsi anche obbiettivi e scopi diversi da quelli statali (c.d.
autonomia di indirizzo).
In particolare dispone di autonomia di indirizzo la regione, in virtù della
posizione di autonomia ad essa costituzionalmente riconosciuta.
La legge può poi attribuire agli enti l’autonomia finanziaria, cioè la possibilità
di decidere in ordine alle spese e di disporre di entrate autonome, l’autonomia
organizzativa che consiste nella possibilità di darsi un assetto organizzativo
proprio anche diverso da modelli generali, l’autonomia tributaria che
consiste nella possibilità di disporre di propri tributi, e l’autonomia contabile,
cioè la potestà di derogare al normale procedimento previsto per l’erogazione
di spese e l’introito di entrate ed in particolare la sussistenza di un bilancio
distinto da quello degli altri enti.
La possibilità di agire per il conseguimento dei propri fini mediante l’esercizio di
attività amministrativa che ha la natura e gli effetti di quella della pubblica
amministrazione viene comunemente ricondotta alla nozione di autarchia.
b) Soltanto agli enti pubblici è riconosciuta la potestà di autotutela;
l’ordinamento attribuisce cioè a tali enti la possibilità di risolvere un conflitto
attuale o potenziale di interessi e, in particolare, di sindacare la validità dei
propri atti producendo effetti incidenti su di essi.
L’autotutela costituisce di norma esercizio di funzione amministrativa attiva, e
manifestazione di autotutela è pure le decisioni su ricorso amministrativo.

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c) Le persone fisiche legate da un rapporto di servizio agli enti pubblici sono
assoggettate ad un particolare regime di responsabilità penale, civile e
amministrativa.
d) Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi applicabili alla pubblica
amministrazione; alcuni loro beni sono assoggettati ad un regime speciale.
e) L’attività che costituisce esercizio dei poteri amministrativi è di regola retta
da norme peculiari, quali quelle contenute nella L.241/1990 relativa ai
procedimenti amministrativi.
f) Gli enti pubblici possono utilizzare procedure privilegiate per la riscossione
delle entrate patrimoniali dello Stato.
g) Nell’ipotesi in cui abbiano partecipazioni in una società per azioni, l’atto
costitutivo può conferire agli enti pubblici la facoltà di nominare uno o più
amministratori o sindaci (art.2458 c.c.); la legge può attribuire allo Stato o ad
altri enti pubblici tale possibilità anche in mancanza di partecipazione azionaria
(art. 2459 c.c.).
h) Gli enti pubblici sono soggetti a particolari rapporti o relazioni (con lo Stato,
la regione, il comune, a seconda dei casi), la cui intensità (strumentalità,
dipendenza, ecc…) varia in ragione dell’autonomia dell’ente.
Dai concetti di autotutela, autarchia e autonomia devono essere distinte le nozioni
di autodichia e di autogoverno.
L’autodichia consiste nella possibilità, spettante ad alcuni organi costituzionali in
ragione della loro peculiare indipendenza, di sottrarsi alla giurisdizione degli organi
giurisdizionali comuni, esercitando la funzione giustiziale relativamente alle
controversie con i propri dipendenti.
L’autodichia è riconosciuta alla Camera, al Senato e alla Corte costituzionale.
Il termine autogoverno indica la situazione che ricorre nell’ipotesi in cui gli organi
dello Stato siano designati dalla collettività di riferimento, anziché essere nominati
o cooptati da parte di autorità centrali.

Il problema della classificazione degli enti pubblici.


Gli enti possono essere suddivisi in gruppi in considerazione della finalità
perseguita, e si distinguono in dottrina enti con compiti di disciplina di settori di
attività, enti con compiti di promozione, enti con compiti di produzione di beni e di
servizi in forma imprenditoriale, enti con compiti di erogazione di servizi pubblici.
In base al tipo di poteri attribuiti, si differenziano gli enti che posseggono potestà
normativa dagli enti che fruiscono di poteri amministrativi e da quelli che fanno
uso della sola capacità di diritto privato.
In ordine alle modalità con le quali viene organizzata la presenza di persone negli
organi dell’ente si annoverano:
a) Enti a struttura istituzionale, nei quali la nomina degli amministratori è
determinata da soggetti estranei all’ente: si tratta di enti (ad esempio l’INPS)
che presuppongono la destinazione di un patrimonio alla soddisfazione di un
interesse; la prevalenza dell’elemento patrimoniale spiega l’ampia gamma
di controlli cui questi enti sono tradizionalmente sottoposti.
b) Enti associativi, nei quali i soggetti facenti parte del corpo sociale
sottostante determinano direttamente o a mezzo di rappresentanti eletti o
delegati le decisioni fondamentali dell’ente. In essi si verifica quindi il
fenomeno della autoamministrazione. Questi enti possono essere
caratterizzati dalla presenta di un’assemblea avente soprattutto compiti
deliberanti. (ad esempio CONI, ordini e collegi professionali, accademie di
natura pubblica).
In alcuni enti, poi, detti a struttura rappresentativa, i soggetti interessati
determinano la nomina della maggioranza degli amministratori non direttamente,
ma attraverso le proprie organizzazioni.
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La Costituzione contempla all’art. 5 gli enti autonomi (autonomie locali), e ai fini
della sottoposizione al controllo della Corte dei Conti, all’art. 100 Cost, quella degli
enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria.
Agli enti autonomi la Costituzione riconosce una particolare posizione di
autonomia in particolare a comuni, province, città metropolitane e regioni. Tali
enti sono formazioni sociali entificate cui è attribuita autonomia di indirizzo,
potendo essi esprimere un indirizzo politico (nel caso della regione) o politico-
amministrativo anche confliggente con quello statale.
Il principio dell’autonomia nei limiti fissati dall’ordinamento è alla base della
disciplina costituzionale delle università, delle istituzioni di alta cultura e
delle accademie, cioè soggetti che possono “darsi ordinamenti autonomi nei
limiti stabiliti dalle leggi dello Stato” (art. 33 Cost.).
La legge ha di recente introdotto la categoria delle autonomie funzionali (art.1
D.Lgs 112/1998) o enti locali funzionali, per indicare quegli enti – università,
camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, istituzioni scolastiche –
ai quali possono essere conferiti funzioni e compiti statali.
L’art. 1 comma 4 lett. d, L.59/1997, esclude il conferimento a regioni, province e
comuni dei compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale non
solo dalle camere di commercio, ma anche dalle università degli studi.
Gli enti pubblici economici sono disciplinati nel codice civile (art. 2201 c.c., che
si riferisce agli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale
un’attività commerciale, art. 2221 c.c., che esclude dal fallimento gli enti pubblici)
ed in altre norme di legge (ad esempio art.409 n.4 c.p.c. e art. 37 L.300/1970).
La classificazione contenuta nella L.70/1975 è importante, poiché per gli enti
statali non economici (c.d. parastatali) pone una regolamentazione omogenea
attinente al rapporto di impiego, ai controlli, alla gestione contabile, alla nomina
degli amministratori.
Gli enti a struttura associativa sono presi in considerazione dalla legge al fine
di sottrarli all’estinzione pura e semplice, in ragione del fatto che la formazione
sociale cui essi sono esponenti non può cessare di esistere.
La Costituzione riconosce come dotati di autonomia gli enti territoriali: comuni,
province, città metropolitane, regioni e Stato.
Il territorio consente di individuare gli enti stessi nonché le persone che vi
appartengono per il solo fatto di esservi stanziate, ossia, proprio e soltanto per
questo collegamento con il territorio (residenza).
L’ente territoriale è politicamente rappresentativo del gruppo stanziato sul
territorio e opera nell’interesse di tutto il gruppo, e ovviamente le sue funzioni
sono individuabili in ragione del livello territoriale degli interessi stessi.
Soltanto gli enti territoriali possono essere titolari di beni demaniali, posti al
servizio di tutta la collettività.
Gli enti pubblici non territoriali, pur esponenziali di gruppi sociali, sono accomunati
in ragione del perseguimento di interessi settoriali, tanto è vero che vengono detti
monofunzionali.
Il carattere atipico degli enti pubblici ha indotto ha introdurre regimi di diritto
speciale, come la normativa inerente l’istituzione e la regolamentazione di una
serie di enti pubblici detti “agenzie”, (ad esempio l’agenzia per i servizi
sanitari regionali istituita dal D.Lgs 266/1993 e avente compito di supporto alle
attività regionali, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni avente il compito di rappresentare l’amministrazione pubblica
in sede di contrattazione collettiva nazionale; l’agenzia autonoma per la
gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali istituita dall’art.17
c.76 L.127/1997 avente personalità di diritto pubblico e sottoposta alla vigilanza
del Ministero dell’Interno; l’agenzia spaziale italiana, riordinata con D.Lgs
128/2003 dotato di personalità giuridica di diritto pubblico e autonomia scientifica,

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finanziaria, patrimoniale e contabile; l’agenzia per le erogazioni in
agricoltura).
Il recente decreto di riforma dei ministeri (D.Lgs 300/1999) ha previsto l’istituzione
di strutture sottoposte ad indirizzo e vigilanza ministeriale e svolgenti attività a
carattere tecnico-operativo di interesse nazionale. Tale decreto inoltre ha
soppresso l’agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPA) trasferendo
le sue funzioni alla nuova Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i
servizi tecnici.

Relazioni e rapporti intersoggettivi e forme associative.


E’ difficile individuare le relazioni intercorrenti tra i vari enti e la posizione assunta
dagli uni nei confronti degli altri. Vi sono però alcune relazioni intersoggettive
fondamentali che corrono tra enti territoriali e altri enti.
1) La situazione di strumentalità strutturale e organizzativa di un ente,
stabilita dalla legge, nei confronti di un altro ente, nella quale il primo viene
a rivestire una posizione simile a quella di un organo. Questa situazione
implica che l’ente “principale” disponga di una serie di poteri di ingerenza, in
particolare di direttiva, di indirizzo, di vigilanza, di approvazione degli atti
fondamentali e di verifica nei confronti dell’ente subordinato. Un esempio di
ente strumentale è costituito dalle aziende speciali che sono enti
strumentali dei comuni ai sensi dell’art.114 del T.U. sugli enti locali, e gli
enti dipendenti dalle regioni.
2) Gli enti che svolgono un’attività che si presenta come rilevante per
un altro ente pubblico territoriale, in particolare per lo Stato, non si
trovano generalmente in una posizione di strumentalità strutturale e
organizzativa marcata.
Il maggior grado di autonomia è spesso determinato dalla loro preesistenza
rispetto al riconoscimento come enti pubblici, e la dipendenza e la
strumentalità hanno natura funzionale pur comportando l’assoggettamento
dell’ente ad una serie di controlli e condizionamenti della loro attività.
Esempi di tali enti si ritrovano nelle Camere di Commercio, nella SIAE e negli
enti “parastatali”.
3) Sono poi individuabili enti che non si pongono in relazione di strumentalità
con lo Stato o con altri enti pubblici ed in questa categoria rientrano gli enti
esponenziali e le formazioni sociali che godono della possibilità di
determinarsi autonomamente (ad esempio gli ordini e collegi professionali, il
Coni, le accademie di scienze ed arti che siano enti pubblici, gli enti locali
non territoriali, ecc…).
La vigilanza era tradizionalmente considerata una figura organizzatoria
caratterizzata da poteri di ingerenza costituiti in particolare dal controllo di
legittimità di un soggetto sugli atti di un altro, distinguendosi in ciò dalla tutela,
che attiene ai controlli di merito. Il suo contenuto si estrinseca nell’adozione di una
serie di atti, quali l’approvazione dei bilanci e delle delibere particolarmente
importanti, nella nomina di commissari straordinari, nello scioglimento degli organi
dell’ente, nella prefissione di indirizzi.
La direzione è caratterizzata da una situazione di sovraordinazione tra enti che
implica il rispetto, da parte dell’ente sovraordinato, di un ambito di autonomia
dell’ente subordinato. In particolare, la direzione si estrinseca in una serie di atti,
le direttive, che determinano l’indirizzo dell’ente, lasciando allo stesso la
possibilità di scegliere le modalità attraverso le quali conseguire gli obiettivi
prefissati.
Dalle relazioni stabili occorre tenere distinti i rapporti che possono instaurarsi di
volta in volta tra gli enti, si tratta dell’avvalimento e della sostituzione.

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L’avvalimento era previsto dall’art.118 ultimo comma Cost., ma è stato
cancellato dalla legge Cost. 3/2001, tuttavia esso è ancora presente perché
previsto da una legge ordinaria (art.3 c.1 lett.f Legge 59/97), e consiste
nell’utilizzo da parte di un ente degli uffici di un altro ente. Tali uffici svolgono
attività di tipo ausiliario, ad esempi preparatoria o esecutiva, ma non costituisce
deroga di competenze trattandosi di una vicenda interna di tecnica organizzativa.
Con il termine sostituzione si indica in generale l’istituto mediante il quale un
soggetto (sostituto) è legittimato a far valere un diritto, un obbligo o
un’attribuzione che rientrano nella sfera di competenza di un altro soggetto
(sostituito) operando in nome proprio e sotto la propria responsabilità. Le
modificazioni giuridiche che subiscono diritti, obblighi e attribuzioni incidono
direttamente nella sfera del sostituito, in capo al quale si producono gli effetti o le
conseguenze dell’attività posta in essere dal sostituto.
L’ordinamento disciplina il potere sostitutivo tra enti nei casi in cui un soggetto
non ponga in essere un atto obbligatorio per legge o non eserciti le funzioni
amministrative ad esso conferite, e la giurisprudenza sottolinea che il legittimo
esercizio del potere di sostituzione richiede la previa diffida. Il potere sostitutivo in
caso di inerzia può essere esercitato direttamente da un organo dell’ente
sostituto, ovvero da un commissario nominato dall’ente sostituto.
In ordine ai poteri sostitutivi dello Stato sulla regione, la Corte costituzionale ha
affermato che debba essere rispettato il principio della leale cooperazione, il quale
impone allo Stato di intervenire soltanto dopo avere adottato le misure
(informazioni attive e passive, sollecitazioni, ecc…) idonee a qualificare
l’intervento del sostituto come necessario a causa dell’inerzia della regione.
L’art. 5 D.Lgs 112/1998 disciplina i poteri sostitutivi dello Stato in caso di accertata
inattività delle regioni e degli enti locali che comporti inadempimento agli obblighi
comunitari o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali.
Ai sensi dell’art.120 c.2 Cost. infine, il Governo “può sostituirsi agli organi delle
regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nel caso di mancato
rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo
richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”, il comma 3 specifica che
“La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano
esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale
collaborazione”.
La delega di funzioni amministrative è figura che ricorre nei rapporti tra Stato
e regioni e tra regioni e enti locali. In particolare, le regioni, secondo quanto
disposto dall’art. 118 Cost (vecchia formulazione) esercitano in via normale le
proprie funzioni amministrative delegandole alle province, ai comuni ed agli altri
enti locali. Queste deleghe sono operate con legge (art. 118 c.2, art. 4 c.5 Legge
59/1997).
La recente riforma della Legge Costituzionale 3/2001 ha sostituito l’art.118 Cost,
ed ha costituzionalizzato l’istituto del conferimento di funzioni amministrative ai
vari livelli di governo locale sulla base dei “principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”.
Alcune forme associative, tradizionalmente distinte in federazioni e consorzi,
possono essere costituite tra enti. Le federazioni di enti svolgono attività di
coordinamento e di indirizzo dell’attività degli enti federati, nonché attività di
rappresentanza degli stessi (ad esempio l’ACI, il CONI e le federazioni nazionali di
ordini e collegi).

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Alcune federazioni comprendono anche soggetti privati, ed altre possono costituire
federazioni di diritto privato (come l’ANCI associazione nazionale dei comuni
italiani).
I consorzi costituiscono una struttura stabile volta alla realizzazione di finalità
comuni a più soggetti, spesso realizzano o gestiscono opere o servizi di interessi
comuni agli enti consorziati, i quali restano comunque di regola titolari delle opere
e dei servizi.
I consorzi pubblici possono essere classificati in entificati e non entificati,
obbligatori e facoltativi; esistono poi consorzi formati soltanto da enti pubblici
ovvero anche da privati.
I consorzi entificati sono enti di tipo associativo.
Nell’ambito delle forme associative tra enti, debbono altresì essere ricordate le
unioni di comuni (art.32 T.U. enti locali), mentre caratteri simili ai consorzi
hanno gli uffici comuni che gli enti locali possono costituire mediante
convenzione, e che operano con personale distaccato degli enti partecipanti ai
quali viene affidato l’esercizio di funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti
all’accordo.

La disciplina comunitaria: in particolare, gli organismi di diritto


pubblico.
Il termine “amministrazione comunitaria” può essere impiegato per indicare
l’insieme degli organismi e delle istituzioni dell’Unione europea cui è affidato il
compito di svolgere attività sostanzialmente amministrativa e di emanare atti
amministrativi.
L’ordinamento comunitario riserva all’amministrazione degli Stati membri una
peculiare disciplina in vista, essenzialmente, della tutela della concorrenza e dei
mercati.
L’amministrazione pubblica condiziona il gioco della concorrenza sotto una duplice
prospettiva: in quanto soggetto che, a mezzo di proprie imprese, presta servizi e
produce beni in un regime particolare; e in quanto operatore che detiene una
quota di domanda di beni e servizi.
La direttiva CEE 80/273 della Commissione, modificata dalla direttiva 85/413,
definisce le “imprese pubbliche” come le imprese nei confronti delle quali i
pubblici poteri possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza
dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa
che le disciplina.
L’amministrazione, al fine di soddisfare esigenze collettive, non avendo mezzi e
organizzazioni sufficienti deve sovente ricercare contraenti sul mercato per
affidare loro la realizzazione di opere o per richiedere prestazioni e beni di valore
economico complessivo rilevantissimo.
Altra nozione di rilievo introdotta dal diritto comunitario è quella di organismo di
diritto pubblico, ricompresa nella disciplina in materia di appalti tra le
amministrazioni aggiudicatrici, ed assoggettandola alla specifica disciplina ispirata
ai principi di concorrenza. Si tratta di organismi:
a) istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi
carattere non industriale o commerciale;
b) aventi personalità giuridica;
c) la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali
o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al
controllo di questi ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di
direzione o di vigilanza è costituito per più della metà da membri designati
dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
Le tre condizioni hanno carattere cumulativo.

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Le figure di incerta qualificazione: in particolare, le società per
azioni a partecipazione pubblica.
Le società a partecipazione pubblica sono soggette ad una disciplina particolare:
l’art. 2449 c.c. prevede che, ove lo Stato (o altro ente pubblico) abbia
partecipazioni azionarie, l’atto costitutivo possa ad esso conferire la facoltà di
nominare amministratori o sindaci, ovvero componenti del consiglio di
sorveglianza, nonché revocarli.
Questa eventualità è consentita dall’art.2450 c.c. anche quando l’ente non abbia
partecipazione azionarie, allorché così disponga la legge o l’atto costitutivo.
E’ frequente infatti il caso di società istituite direttamente ed unilateralmente dalla
legge o di società a costituzione obbligatoria.
Si possono individuare almeno tre modelli:
1) le società a partecipazione pubblica regolate da leggi speciali e chiamate a
svolgere funzioni pubbliche (ad esempio Patrimonio s.p.a., Infrastrutture
s.p.a.) possono essere accostate alle società che risultano affidatarie di
servizi in house senza necessità di una previa gara;
2) le società a partecipazione pubblica direttamente affidatarie di servizi
pubblici locali; di norma la scelta del socio privato avviene a mezzo gara;
3) le società derivanti dal processo di privatizzazione;
Affidamento in house è il concetto delineato dalla giurisprudenza comunitaria
con il quale si esclude che la disciplina sugli appalti trovi applicazione nei casi in
cui tra amministrazione e imprese sussista un legame tale per cui il soggetto non
possa ritenersi “distinto” dal punto di vista decisionale.
Il legislatore italiano, la fine di evitare di “mettere a gara” l’affidamento del
servizio locale, ha utilizzato lo stesso schema nel settore dei servizi pubblici.
Il T.U. sugli enti locali, modificato dall’art.35 della Legge 448/2001 e dalla Legge
326/2003, prevede per i servizi locali di rilevanza economica tre forme di gestione:
a) società pubbliche direttamente affidatarie del servizio come le società a
capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto
attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
b) società pubbliche direttamente affidatarie del servizio come le società a
capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici
titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a
quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più
importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la
controllano nella logica della concorrenza e del mercato;
c) affidamento del servizio a società di capitali individuate attraverso
l’espletamento di gare.
Per la disciplina relativa alla dismissione delle partecipazioni azionarie nelle
società in cui sono stati trasformati gli enti privatizzati, l’art.2 D.L. 332/1994
convertito in legge 474/1994, modificato dalla L.350/2004, accanto ai limiti al
possesso azionario e al divieto della cessione della partecipazione, consente allo
Stato di mantenere poteri speciali (golden share: opposizione all’assunzione di
partecipazioni che rappresentano almeno la ventesima parte del capitale sociale)
esercitabili soltanto in caso di pericolo per “interessi vitali” dello Stato medesimo
con riferimento alle società operanti nel settore della difesa, dei trasporti, delle
telecomunicazioni, delle fonti di energia e degli altri pubblici servizi, individuate
con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
Ricorre ente pubblico laddove lo statuto delle società per azioni e la disciplina
delle dismissioni implichino la impossibilità di uno scioglimento: infatti l’esistenza
e la destinazione funzionale della società sono predeterminate con atto normativo
e rese indisponibili alla volontà dei propri organi deliberativi.
Le società a partecipazione pubblica maggioritaria sono assoggettate ad una
disciplina di diritto speciale. Le società per azioni a partecipazione pubblica locale
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sono soggetti privati nei limiti in cui possano disporre della propria esistenza e del
proprio oggetto.
I concessionari di opere e gli affidatari di servizi pubblici sono categorie di soggetti
privati che presentano carattere pubblicistico, i quali, collocati in sul mercato in
regime di libera concorrenza, sono assoggettati a settori c.d. esclusi allorché
agiscano “in virtù di diritti speciali o esclusivi”.
Sono diritti speciali o esclusivi i diritti costituiti per legge, per regolamento o in
virtù di una concessione o di altro provvedimento amministrativo avente l’effetto
di riservare ad uno o più soggetti l’esercizio di attività.
L’art. 2461 c.c. si occupa delle società di interesse nazionale estendendo ad esse
la normativa di cui agli artt. 2458 e 2459 c.c. “compatibilmente con le disposizioni
delle leggi speciali che stabiliscono per tali società una particolare disciplina circa
la gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli
amministratori e dei dirigenti. Tra queste società si ricorda la RAI – tv,
concessionaria del servizio pubblico.

Vicende degli enti pubblici.


La costituzione degli enti pubblici può avvenire per legge o per atto
amministrativo sulla base di una legge, anche se in molti casi la legge si è limitata
a riconoscere come enti pubblici organizzazioni nate per iniziativa privata.
Il legislatore non è libero di rendere pubblica qualsiasi persona giuridica privata,
infatti esistono limiti costituzionali che tutelano le formazioni sociali, la libertà di
associazione e altre attività private.
In ordine all’estinzione degli enti pubblici, essa può aprire una vicenda di tipo
successorio (a titolo universale o particolare), ma l’estinzione può essere prodotta
dalla legge o da un atto amministrativo basato sulla legge.
Quanto alle modificazioni degli enti pubblici, si possono ricordare il
mutamento degli scopi, le modifiche del territorio degli enti territoriali, le
modificazioni delle attribuzioni, la trasformazione da ente non economico a ente
pubblico economico e le variazioni della consistenza patrimoniale.
Gli enti pubblici possono inoltre essere trasformati in persone giuridiche di diritto
privato.
Anche il riordino degli enti pubblici può comportare l’estinzione degli stessi o la
loro trasformazione in persone giuridiche private.
Recentemente, gli artt. 11 e 14 della Legge 59/1997 hanno conferito al governo la
delega a emanare decreti legislativi diretti a “riordinare gli enti pubblici nazionali
operanti in settori diversi dalla assistenza e previdenza, le istituzioni di diritto
privato e le società per azioni controllate dallo Stato”, individuando quale criteri e
principi direttivi “la fusione o soppressione di enti con finalità omologhe o
complementari, la trasformazione di enti per i quali l’autonomia non sia necessaria
o funzionalmente utile in ufficio dello Stato o di altra amministrazione pubblica
ovvero in struttura di università, con il consenso della medesima, ovvero la
liquidazione degli enti inutili”.

La privatizzazione degli enti pubblici.


La scelta di privatizzare gli enti pubblici è sostenuta da molte ragioni. Quando tale
vicenda comporta la trasformazione dell’ente in società per azioni, questa è in
grado di reperire capitale di rischio sul mercato ed ha una snellezza d’azione
maggiore.
La privatizzazione è stata introdotta anche ai fini della riduzione
dell’indebitamento finanziario (art.1 c.6 Legge 474/1994).
Più in generale la privatizzazione formale oltre che sostanziale comporta che il
potere pubblico rinunci ad essere imprenditore e quindi incide sul modello di
intervento pubblico nell’economia.
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In realtà spesso il legislatore affida la gestione di interessi pubblici alle strutture
privatizzate, ossia realizza una privatizzazione meramente formale, rimanendo il
capitale nella totalità o nella maggioranza in mano pubblica.
Le tappe fondamentali della privatizzazione sono le seguenti:
1) L’ente pubblico economico viene trasformato in società per azioni
(privatizzazione c.d. “formale”, ovvero, “fase fredda” della privatizzazione)
con capitale interamente posseduto dallo Stato.
2) Si procede poi alla dismissione della quota pubblica (privatizzazione c.d.
“sostanziale”, o “fase calda” della privatizzazione). Quest’ultima tappa è
disciplinata dal D.L.332/1994 convertito in Legge 474/1994 modificato dalla
L.350/2003, che fa riferimento a procedure trasparenti e non discriminatorie.
La privatizzazione interessa soggetti che operano in tre settori principali:
- nella gestione di partecipazioni azionarie (Iri, Eni);
- nei servizi di pubblica utilità (Enel, telecomunicazioni, gas, ecc…);
- nel settore creditizio (istituti di credito di diritto pubblico);
L’ordinamento italiano conosce anche altre forme di privatizzazione, caratterizzate
dal fatto che gli enti vengono trasformati in soggetti privati non aventi scopo di
lucro, come per la trasformazione obbligatoria degli enti che operano nel settore
musicale in fondazioni di diritto privato disposta dal D.Lgs 367/1996.
Il D.Lgs 509/1994, inoltre, prevede la trasformazione in persone giuridiche private
di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza.
Con il D.Lgs 419/1999 modificato dalla L.284/2002, sono state emanate norme in
materia di privatizzazione, fusione, trasformazione e soppressione di enti pubblici
nazionali, ridefinendo anche i compiti della SIAE.

I principi in tema di organizzazione degli enti pubblici.


Per realizzare i propri fini, l’amministrazione ha bisogno di un insieme di strutture
e di mezzi personali e reali che è il risultato di una certa attività organizzativa la
quale si deve svolgere nell’osservanza della Costituzione.
L’art. 97 Cost., che si riferisce letteralmente all’organizzazione, può essere letto
come norma di ripartizione della funzione di indirizzo politico tra governo e
parlamento poiché l’attività di organizzazione è espressione di quella di indirizzo e
si desume la sussistenza di una riserva di organizzazione in capo al Governo, che
può modellare le proprie strutture in ragione delle esigenze mutevoli che deve
affrontare.
Un riconoscimento espresso di tale riserva di organizzazione è operato dall’art. 17
c.1 lett. d Legge 400/1988, che prevede la figura dei regolamenti governativi
disciplinanti l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche
secondo le disposizioni di legge; altro ancora è l’art.14 bis della stessa legge, il
quale stabilisce che l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei ministeri sono
determinate con regolamento governativo su proposta del ministro competente,
d’intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il ministro del tesoro.
L’art. 97 si riferisce all’amministrazione statale, l’art. 117 c.6 Cost. prevede che
comuni, province e città metropolitane abbiano “potestà regolamentare in ordine
alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite”, ed in questo caso la riserva di organizzazione è disposta proprio dalla
Costituzione.
Debbono poi essere ricordati gli atti di organizzazione non aventi carattere
normativo quali gli atti di istituzione di enti, di organi o di uffici, l’assegnazione agli
organi dei titolari, gli accordi tra più amministrazioni che disciplinano attività di
interesse comune, o costitutivi di consorzi.
Il potere di organizzazione è oggi espressamente disciplinano dagli artt.2 e 5 del
D.Lgs 165/2001.

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La prima norma afferma che le amministrazioni pubbliche definiscono “secondo i
principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi,
mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali
di organizzazione degli uffici” e “individuano gli uffici di maggior rilevanza”.
La seconda norma stabilisce che le pubbliche amministrazioni assumono ogni
determinazione organizzativa “con la capacità e i poteri del privato datore di
lavoro”: alle determinazioni operative gestionali occorre garantire “adeguati
margini” e, cioè, uno spazio di discrezionalità organizzativa.

L’organo.
La personalità giuridica delle organizzazioni è riferita alle situazioni giuridiche e ai
rapporti giuridici. Per poter agire le organizzazioni potevano ricorrere a due istituti:
a) la rappresentanza, alla stessa stregua di quella necessaria disposta per le
persone fisiche incapaci di agire;
b) utilizzare la figura dell’organo;
Attraverso l’organo la persona giuridica agisce e l’azione svolta dall’organo si
considera posta in essere dall’ente. L’organo non è separato dall’ente, quindi, a
differenza di quanto accade nella rappresentanza, la sua azione non è svolta in
nome e per conto di altri, e corrisponde all’attività propria dell’ente.
La capacità giuridica spetta comunque all’ente, che è centro di imputazioni di
effetti e fattispecie.
L’organo è dunque uno strumento di imputazione e, cioè, l’elemento dell’ente che
consente di riferire all’ente stesso atti e attività; spesso l’organo permette all’ente
di rapportarsi con altri soggetti giuridici o comunque di produrre effetti giuridici.
Più in particolare l’organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in
quanto investito della competenza attribuita dall’ordinamento (ad esempio, il
contratto stipulato dal dirigente comunale si considera concluso dal Comune).
In assenza del titolare, l’ordinamento indica colui che è chiamato a svolgere le
relative funzioni. Tra persona fisica preposta all’organo e ente pubblico corre un
rapporto giuridico, definito “rapporto di servizio”.
I poteri vengono attribuiti soltanto all’ente avente la soggettività giuridica, ed esso
si avvale di più organi, ognuno di essi, pur senza esserne titolare, esercita una
quota di quei poteri, detta competenza.
La competenza è ripartita secondo svariati criteri: per materia, per valore, per
grado o per territorio.
La competenza va tenuta distinta dall’attribuzione, che indica la sfera di poteri che
l’ordinamento generale conferisce ad ogni ente pubblico.

L’imputazione di fattispecie in capo agli enti da parte di soggetti


estranei alla loro organizzazione.
Tra le attività pubbliche che vengono esercitate da soggetti privati si pensi alle
funzioni certificative spettanti al notaio, alle possibilità che concessionari
emanino atti amministrativi o eroghino servizi pubblici, alla potestà spettante ai
cittadini di procedere all’arresto in flagranza di reato, al potere degli
interessati di produrre dichiarazioni sostitutive di certificazioni, alla
possibilità di affidare ai terzi la riscossione dei tributi.
Il privato può agire direttamente in base alla legge, o in forza di un atto della
pubblica amministrazione. Egli riceve spesso un compenso da parte dell’ente
pubblico oppure da utenti che fruiscono della sua attività. L’attività si configura nei
confronti dei terzi come pubblicistica, alla stessa stregua di quella che avrebbe
posto in essere l’ente pubblico sostituito.

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Classificazione degli organi.
Sono esterni gli organi competenti ad emanare provvedimenti o atti aventi
rilevanza esterna (i dirigenti, ad esempio, adottano gli atti che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno). Gli organi procedimentali (o organi interni)
sono quelli competenti ad emanare atti aventi rilevanza endoprocedimentale.
Organi centrali sono quelli che estendono la propria competenza all’intero
spettro dell’attività dell’ente; gli organi periferici, viceversa, hanno competenza
limitata ad un particolare ambito di attività, di norma individuato secondo un
criterio geografico.
Gli organi ordinari sono previsti nel normale disegno organizzativo dell’ente,
mentre gli organi straordinari operano invece in sostituzione degli organi
ordinari (in genere detti “commissari”).
Gli organi permanenti sono stabili, gli organi temporanei svolgono funzioni
per un limitato periodo di tempo (ad esempio le commissioni per i concorsi).
Gli organi attivi sono competenti a formare ed eseguire la volontà
dell’amministrazione; gli organi consultivi rendono pareri; gli organi di
controllo sindacano l’attività posta in essere dagli organi attivi.
La distinzione rispecchia quella tra attività amministrativa attiva (che ha la
finalità di curare gli interessi pubblici: c.d. amministrazione attiva), attività
consultiva (mediante la quale vengono espressi pareri) e attività di controllo
(la cui finalità è quella di verificare l’attività amministrativa attiva alla luce di un
parametro prefissato).
Gli organi rappresentativi sono quelli i cui componenti, a differenza degli
organi non rappresentativi, vengono designati o eletti dalla collettività che
costituisce il sostrato dell’ente. Tipico esempio di organo rappresentativo è il
sindaco, mentre organo non rappresentativo è, ad esempio, il prefetto.
Vi sono poi organi con legale rappresentanza e consistono in particolari tipi di
organi esterni, cioè che esprimono la volontà dell’ente nei rapporti contrattuali con
i terzi e che, avendo la capacità processuale, conferisce la procura alle liti per
agire o resistere in giudizio.
Per espressa volontà di legge, alcuni organi sono dotati di personalità giuridica (e
sono detti organi con personalità giuridica o organi-enti), profilandosi come
titolari di poteri e come strumenti di imputazione di fattispecie ad altro ente (in
quanto organi di quest’ultimo), un esempio è l’ISTAT, alla dipendenza della
Presidenza del Consiglio dei ministri con compiti relativi alle indagini statistiche
interessanti le amministrazioni statali.
Sono organi monocratici quelli il cui titolare è una sola persona fisica. Negli
organi collegiali si ha la contitolarità di più persone fisiche considerate nel loro
insieme.
Le ragioni per cui si procede all’istituzione dell’organo collegiale sono quella di
riunire in un unico corpo i portatori di interessi differenti e/o far confluire nel
collegio più capacità professionali e tecniche.
L’esercizio delle competenze dell’organo collegiale avviene mediante
deliberazione, la cui adozione segue un procedimento che, solitamente, consta
delle seguenti fasi:
- convocazione del collegio, cioè l’invito contenente l’ordine del giorno,
a riunirsi in un certo luogo in una certa data;
- presentazione di proposte sui punti all’ordine del giorno;
- discussione;
- votazione.
Occorre distinguere tra quorum strutturale e quorum funzionale. Il primo
indica il numero dei membri che devono essere presenti affinché il collegio sia
legittimamente costituito (nei collegi perfetti si impone la presenza di tutti i
componenti); il quorum funzionale indica il numero di membri presenti che
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debbono esprimersi favorevolmente sulla proposta affinché questa si trasformi in
deliberazione.
Nei c.d. collegi perfetti non è ammessa l’astensione; negli altri casi l’astenuto è
considerato come assente o come votante, in quest’ultimo caso, il voto di
astensione non riduce il computo dei votanti in ragione del quale deve essere
calcolato il quorum funzionale e, dunque, equivale a voto negativo.
La deliberazione si perfeziona con la proclamazione fatta dal Presidente: le sedute
vengono documentate attraverso processi verbali redatti dal segretario e servono
ad esternare la deliberazione adottata.

Relazioni interorganiche. I modelli teorici: la gerarchia, la direzione


ed il coordinamento.
Tra gli organi di una persona giuridica pubblica possono istaurarsi relazioni
disciplinate dal diritto.
La gerarchia esprime la relazione di sovraordinazione-subordinazione tra organi
diversi.
L’omogeneità delle competenze giustifica i poteri spettanti al superiore gerarchico
e il dovere di obbedienza di quello inferiore.
Più in particolare, i poteri caratteristici della relazione gerarchica sono:
a) il potere di ordine (che consente di vincolare l’organo subordinato ad un
certo comportamento nello svolgimento della propria attività) di direttiva
(mediante la quale si indicano fini e obbiettivi da raggiungere, lasciando un
margine di scelta in ordine alle modalità con cui conseguirli) e di
sorveglianza sull’attività degli organi subordinati, i quali possono essere
sottoposti a ispezioni e inchieste;
b) potere di decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti dell’organo
subordinato;
c) potere di annullare d’ufficio e di revocare gli atti emanati dall’organo
subordinato;
d) potere di risolvere i conflitti che insorgano tra organi subordinati;
e) poteri in capo all’organo superiore di avocazione (per singoli affari, per
motivi di interesse pubblico, indipendentemente dall’inadempimento
dell’organo inferiore) e sostituzione (a seguito di inerzia dell’organo
inferiore).
Il potere di delega spettante al superiore sussiste soltanto nei casi previsti dalla
legge.
Il potere di emanare ordini relativamente alle funzioni ed alle mansioni
dell’inferiore gerarchico esclude la possibilità di scelta di quest’ultimo, facendo
sorgere il dovere di eseguirlo, salvo che l’ordine stesso non contrasti con la legge
penale. Se il dipendente ritenga l’ordine palesemente illegittimo, deve farne
rimostranza al superiore, dichiarandone le ragioni, ma è poi obbligato ad
eseguirlo se l’ordine viene rinnovato per iscritto (sempreché non si tratta di ordine
criminoso artt. 16 e segg. T.U. 3/1957).
Altro tipo di relazione interorganica è la direzione, per la quale l’organo
sovraordinato ha il potere di indicare gli scopi da perseguire, ma deve lasciare alla
struttura sottoordinata la facoltà di scegliere le modalità e i tempi dell’azione volta
a conseguire quei risultati. Nella direzione, l’organo sovraordinato ha più in
particolare il potere di emanare direttive e quello di controllare l’attività
amministrativa in considerazione degli obbiettivi da raggiungere.
Rispetto alla gerarchia, la direzione comporta la sostituzione del potere di dare
ordini con il potere di emanare direttive, ma che non vincolano completamente
l’organo inferiore, ed il controllo non riguarda gli atti come nella gerarchia, ma si
svolge in via successiva e investe l’autorità.

23
In dottrina si individua una ulteriore relazione interorganica, il coordinamento,
riferendolo a organi in situazione di equiordinazione preposti ad attività che, pur
dovendo restare distinte, sono destinate ad essere ordinate secondo un disegno
unitario. Contenuto di tale relazione sarebbe il potere, spettante ad un
“coordinatore”, di impartire disposizioni idonee a tale scopo e di vigilare sulla loro
attuazione ed osservanza.
Il coordinamento è definito dalla legge (es. art. 16, 17 e 25 D.Lgs 165/2001). I
compiti di coordinamento possono essere riconosciuti ad un organo ad hoc oppure
ad uno degli organi interessati al coordinamento (come gli organi collegiali). La
possibilità che un “segretario generale, capo dipartimento o altro dirigente
comunque denominato” svolga funzioni di coordinamento di uffici dirigenziali di
livello generale è infine prevista dall’art. 16 D.Lgs 165/2001.
L’esigenza di coordinamento tra l’azione di più soggetti pubblici è soprattutto
soddisfatta attraverso l’utilizzo della conferenza di servizi.

Il controllo.
Il controllo è una importante relazione interorganica, che consiste nell’attività di
verifica, esame e revisione dell’operato altrui. Nel diritto amministrativo il controllo
costituisce un’autonoma funzione svolta da organi peculiari.
Il controllo consiste in un esame, da parte di un apposito organo, di atti e attività
imputabili ad un altro organo controllato. Il controllo è svolto in ogni caso
nell’ambito delle relazioni gerarchiche dove l’organo gerarchicamente superiore
controlla l’attività dell’organo subordinato.
Il controllo, che è sempre doveroso, deve essere svolto nelle forme previste dalla
legge, e si conclude con la formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sulla
base del quale viene adottata una misura.
Il controllo si divide in interno ed esterno a seconda che esso sia esercitato da
organi dell’ente o da organi di enti diversi, un esempio di controllo interno è
costituito dal controllo ispettivo.
Il controllo sugli organi degli enti territoriali è previsto, per quanto riguarda le
regioni, dall’art.126 Cost. e dagli artt.141 e segg. T.U. sugli enti locali in ordine agli
enti territoriali diversi dalla regione.
Il controllo può essere condotto alla luce di criteri di volta in volta differenti -
conformità alle norme (controllo di legittimità, denominato vigilanza), opportunità
(denominato tutela), efficienza, efficacia, ecc… - ed avere oggetti diversi tra loro:
organi, atti normativi, atti amministrativi di organi individuali e collegiali, contratti
di diritto privato, attività.
Le misure che possono essere adottate a seguito del giudizio sono di vario tipo:
repressive (annullamento dell’atto), impeditive (le quali non eliminano l’atto ma
ostano a che l’atto produca efficacia, come rifiuto di approvazione o visti),
sostitutive (controllo sostitutivo).
1) Nel controllo sugli organi la misura è la sostituzione all’organo ordinario nel
compimento di alcuni atti, in altri casi la misura è lo scioglimento
dell’organo. Ancora diversa è la misura che consiste nell’applicazione di
sanzioni ai componenti l’organo.
2) Nell’ambito dei controlli sugli atti si distingue tra controlli preventivi
(rispetto alla produzione degli effetti degli atti) e successivi (i quali si
svolgono quando l’atto ha già prodotto i suoi effetti).
In una via di mezzo tra controlli successivi e preventivi si collocano i controlli
mediante riesame i quali procrastinano l’efficacia dell’atto all’esito di una nuova
deliberazione dell’autorità decidente.

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In particolare, il controllo di ragioneria nell’amministrazione statale
ed il controllo della Corte dei Conti.
Un particolare tipo di controllo (contabile e di legittimità) è il controllo di
ragioneria esercitato dagli uffici centrali di bilancio a livello centrale e dalle
ragionerie provinciali a livello di organi decentrati delle amministrazioni statali,
i quali provvedono alla registrazione degli impegni di spesa risultanti dai
provvedimenti assunti dalle amministrazioni statali e possono inviare osservazioni
sulla legalità della spesa senza che ciò abbia effetti impeditivi sull’efficacia degli
atti.
Oggi gli uffici di ragioneria svolgono il controllo interno di regolarità
amministrativa e contabile.
Controllo successivo esterno e costituzionalmente garantito è quello esercitato
dalla Corte dei Conti “organo al servizio dello Stato-comunità” attraverso il
meccanismo della registrazione e dell’apposizione del visto.
La Corte dei conti svolge anche altre importanti funzioni di controllo potendo
“richiedere alle amministrazioni pubbliche ed agli organi di controllo interno
qualsiasi atto o notizia e può effettuare e disporre ispezioni e accertamenti
diretti”.
Nel quadro dei controlli spettanti alla Corte dei conti si contemplano:
a) un controllo preventivo sugli atti;
b) un controllo preventivo sugli atti che il Presidente del Consiglio dei
ministri richieda di sottoporre temporaneamente a controllo o che la Corte
dei conti deliberi di assoggettare per un periodo determinato a controllo “in
relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevate in sede di
controllo successivo”;
c) un controllo successivo sui titoli di spesa relativi al costo del personale,
sui contratti e i relativi atti di esecuzione, in materia di sistemi informativi
automatizzati, stipulati dalle amministrazioni statali e sugli atti di
liquidazione dei trattamenti di quiescenza dei pubblici dipendenti;
d) un controllo successivo sugli atti “di notevole rilievo finanziario individuati
per categorie ed amministrazioni statali” che le sezioni unite stabiliscano di
sottoporre a controllo per un periodo determinato;
e) un controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato
contribuisce in via ordinaria, esercitato da una speciale sezione della Corte;
f) un controllo sulla gestione degli enti locali effettuato dalla sezione
delle autonomie: il controllo, originariamente limitato agli enti locali con
popolazione superiore a ottomila abitanti e poi esteso ad altri comuni e
province si conclude con un referto al Parlamento.
La Legge 131/2003, nel dare attuazione all’art.118 Cost., ha individuato due
nuove forme di controllo:
1) La Corte dei conti, ai fini del coordinamento della finanza pubblica,
verifica il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di
stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione Europea.
2) Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano il
perseguimento degli obbiettivi posti dalle leggi statali o regionali di
principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché la
sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei
controlli interni e riferiscono sugli esiti delle verifiche esclusivamente
ai consigli degli enti controllati;
g) un controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle
amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di
previdenza comunitaria.
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La Corte, nell’esercizio di una funzione ritenuta giurisdizionale, pronuncia il
giudizio di parificazione sul rendiconto generale dello Stato (consistente
nella certificazione di parità tra i conti della Corte medesima e quelli forniti
dall’amministrazione del tesoro), accompagnato da specifica relazione.
La disciplina del controllo preventivo risulta dalla combinazione della L.20/1994
e del T.U. Corte conti. Ai sensi dell’art.27 L.340/2000 l’atto trasmesso alla Corte
conti diviene in ogni caso esecutivo trascorsi sessanta giorni dalla sua ricezione
senza che sia intervenuta una pronuncia della sezione di controllo. L’esito del
procedimento di controllo è comunicato dalla sezione nelle ventiquattro ore
successive alla fine dell’adunanza e le deliberazioni sono pubblicate entro trenta
giorni dalla data dell’adunanza stessa.
Il t.u. della Corte dei conti contempla anche il meccanismo della
registrazione con riserva, il quale consente all’atto di venire vistato e
registrato. In particolare, a fronte della ricusazione del visto, il Consiglio dei
ministri può adottare una deliberazione con la quale insiste nella richiesta di
registrazione: la Corte è chiamata a deliberare a sezioni riunite e, ove non
riconosca cessata la causa del rifiuto ne ordina la registrazione e vi appone il visto
con riserva.
La registrazione con riserva impegna la responsabilità politica dell’esecutivo: per
questa ragione, ogni quindici giorni, la Corte dei conti trasmette al Parlamento un
elenco con tutti i provvedimenti registrati con riserva.
La registrazione può essere richiesta anche con riferimento ad una o più parti
dell’atto; l’atto che il governo ritenga debba avere corso diventa esecutivo se le
sezioni riunite non abbiano deliberato entro trenta giorni dalla richiesta.

L’evoluzione normativa in tema di controlli. I controlli interni.


Il sistema italiano è stato per lungo tempo caratterizzato dalla prevalenza dei
controlli preventivi di legittimità sui singoli atti.
Una svolta normativa è stata operata dal D.Lgs 286/1999 che stabilisce che le
pubbliche amministrazioni, nell’ambito della propria autonomia, debbano istituire i
controlli interni, articolati in controllo di regolarità amministrativa e contabile,
controllo di gestione, valutazione e della dirigenza e valutazione e controllo
strategico.
1) Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è volto a garantire
la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa e deve
rispettare i principi generali della revisione aziendale.
2) Il controllo di gestione costituisce la seconda tipologia di controlli interni e
mira a “verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione
amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi
di correzione, il rapporto tra costi e risultati”. Il controllo di gestione è svolto
da strutture e soggetti che rispondono ai dirigenti posti al vertice dell’unità
organizzativa interessata e supporta la funzione dirigenziale.
Esso si articola nelle seguenti fasi, espressamente identificate con
riferimento a quello relativo agli enti locali: rilevazione degli obiettivi,
rilevazione dei dati relativi ai costi e dei risultati, valutazione dei dati in
relazione agli obiettivi prefissati.
3) La valutazione della dirigenza è svolta da strutture e soggetti che
rispondono direttamente ai dirigenti posti al vertice dell’unità organizzativa
interessata. Tale valutazione ha ad oggetto “le prestazioni dei dirigenti,
nonché i comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali,
umane e organizzative ad essi assegnate” tenendo particolarmente conto
dei risultati dell’attività e della gestione ed è collegata alla responsabilità
dirigenziale.

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Il c.2 dell’art.5 dispone che la valutazione abbia periodicità annuale, ma può
essere anticipato per “rischio grave di un risultato negativo”.
Il procedimento di valutazione deve ispirarsi ai seguenti principi: diretta
conoscenza dell’attività del valutato da parte dell’organo proponente o
valutatore di prima istanza; approvazione o verifica della valutazione da
parte dell’organo competente o valutatore di seconda istanza;
partecipazione al procedimento del valutato.
4) La quarta tipologia di controllo interno è costituita dalla valutazione e
controllo strategico, mirante a valutare “l’adeguatezza delle scelte
compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di
determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati
conseguiti e obiettivi predefiniti”. Mediante questa attività di valutazione si
tende a verificare “in funzione dell’esercizio dei poteri di indirizzo da parte
dei competenti organi, l’effettiva attuazione delle scelte contenute nelle
direttive ed altri atti di indirizzo politico”.
I controlli interni si differiscono dai controlli generici per il fatto che i controlli
interni hanno ad oggetto l’intera attività e non soltanto i singoli atti.

I rapporti tra gli organi e l’utilizzo, da parte di un ente, degli organi


di un altro ente.
I rapporti tra organi diversi possono comportare una modificazione dell’ordine
delle competenze. Analoga modificazione può essere determinata dalla
conferenza di servizi.
Debbono essere ricordati l’avocazione, la sostituzione e la delegazione.
Nell’avocazione un organo esercita i compiti, spettanti ad un altro organo in
ordine a singoli affari, per motivi di interesse pubblico e indipendentemente
dall’adempimento dell’organo istituzionalmente competente.
La sostituzione ha invece come presupposto l’inerzia dell’organo sostituito
nell’emanazione di un atto cui è tenuto per legge e consiste nell’adozione, previa
diffida, da parte di un organo sostituto degli atti di competenza di un altro organo.
L’organo sostituto è di norma un commissario.
La sostituzione attiene all’attività di controllo sugli atti e non sugli organi i quali
continuano nella loro attività tranne per quella relativa all’adozione dell’atto che
essi avevano l’obbligo di emanare.
La gestione sostitutiva coattiva è la sostituzione di organi dell’ente,
caratterizzata dallo scioglimento dell’organo o degli organi dell’ente e dalla
nomina di altri soggetti quali organi straordinari che gestiscano l’ente per un
periodo di tempo limitato.
In taluni casi la sostituzione è legata al controllo, ed in tali casi si parla di
controllo sostitutivo.
La delegazione è la figura in forza alla quale un organo investito in via primaria
della competenza di una data materia consente unilateralmente mediante atto
formale, ad un altro organo di esercitare la stessa competenza . La delegazione
richiede una espressa previsione legislativa, essa infatti altera l’ordine legale delle
competenze.
La delegazione fa sorgere un rapporto nell’ambito del quale il delegante mantiene
poteri di direttiva, di vigilanza, di revisione e di avocazione.
L’organo delegatario è investito del potere di agire in nome proprio, anche se per
conto e nell’interesse del delegante, sicché la responsabilità per gli illeciti
eventualmente commessi rimane in capo al delegatario stesso.
La delega di firma consiste nella possibilità per un delegato di sottoscrivere un
atto, la cui competenza resta al delegante e sarà dunque a lui imputato.
L’organo di una persona giuridica può anche essere organo di altra persona
giuridica: ad esempio il sindaco è contestualmente organo del comune ed organo
27
dello Stato perché riveste la qualità di ufficiale di governo, e dunque, realizza una
vicenda di imputazione in capo allo Stato dell’attività da esso posta in essere.

Gli uffici e il rapporto di servizio.


Oltre agli enti e agli organi esaminati fin ora vi sono gli uffici, cioè nuclei
elementari dell’organizzazione che possono essere definiti a contrario rispetto agli
organi, nel senso che svolgono attività non caratterizzata dal meccanismo di
imputazione di fattispecie sopra descritto.
Solo gli organi hanno competenze in senso proprio, mentre agli uffici, al più, vanno
riferiti compiti.
Gli uffici sono costituiti da un insieme di mezzi materiali (locali, risorse,
attrezzature, ecc…) e personali, e sono chiamati a svolgere uno specifico compito.
Tra gli uffici ricordiamo in particolare quello per le relazioni con il pubblico (URP),
che ha l’importante compito di curare l’informazione dell’utenza e di garantire i
diritti di partecipazione dei cittadini (art.11 D.Lgs 165/2001), anche mediante l’uso
di tecnologie informatiche (artt.2 e 8 L.150/2000).
All’interno dell’ufficio, tra gli altri addetti, si distingue la figura del preposto, il
quale, se in situazione di primarietà, è il titolare; l’ufficio, il cui titolare sia
temporaneamente assente o impedito, viene affidato al supplente, mentre si ha
reggenza nell’ipotesi di mancanza di titolare: tale soggetto dirige il lavoro
dell’ufficio che si svolge nell’ufficio stesso e ne è il responsabile.
Gli addetti e i titolari che prestano il proprio servizio presso l’ente sono legati alla
persona giuridica da un particolare rapporto giuridico (rapporto di servizio) che
ha come contenuto il dovere di agire prestando una particolare attività,
denominato dovere di ufficio, al quale si contrappone una serie di diritti.
Il dovere di ufficio ha ad oggetto comportamenti che il dipendente deve tenere sia
nei confronti della pubblica amministrazione, sia nei confronti dei cittadini (ad
esempio il dovere di accettare dichiarazioni sostitutive al posto dei certificati).
I soggetti legati da rapporto di servizio all’amministrazione sono di norma
dipendenti. Ricorre in questi casi il “rapporto di servizio di impiego”: tali soggetti
svolgono il proprio lavoro a titolo professionale, in modo esclusivo e permanente. Il
rapporto di servizio tuttavia può anche essere coattivo, ovvero non professionale
(onorario), o infine, instaurato in via di fatto. Il contenuto del rapporto di servizio
varia a seconda che il soggetto sia funzionario onorario o pubblico impiegato.
Il rapporto organico corre soltanto tra il titolare dell’organo e l’ente e viene in
evidenza ai fini dell’imputazione delle fattispecie.
I titolari degli uffici (e degli organi) possono essere dipendenti (è questo il caso dei
dirigenti), ovvero svolgere la propria attività a titolo non professionale. Ma
debbono comunque essere investiti della titolarità dell’organo o dell’ufficio con un
atto specifico.
Talora il rapporto organico si costituisce in via di mero fatto e, cioè, in assenza di
investitura come nel caso in cui le funzioni siano esercitate “di fatto” senza un
atto formale che instauri il rapporto di servizio e queste siano essenziali e
indifferibili. Anche il rapporto di servizio si instaura in via di fatto e l’organo di fatto
viene definito funzionario di fatto.
Il rapporto di servizio a titolo professionale è caratterizzato da vicende
(aspettative, congedi, comandi) e può anche estinguersi per scadenza del termine.
In passato si riteneva che i titolari potessero continuare ad esercitare i propri
compiti anche quando fosse scaduto il periodo della loro investitura, al fine di
assicurare la continuità dell’esercizio della funzione amministrativa.
Tale figura, denominata prorogatio va tenuta distinta da quella della proroga degli
organi, che consiste in un provvedimento con il quale si prolunga la durata del
rapporto.

28
La legge 444/1994, che si applica agli enti pubblici e agli organi dello Stato con
esclusione di regioni, province, comuni, comunità montane e organi di rilevanza
costituzionale, adottata sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n.
208/1992, ha previsto in linea generale il divieto di prorogatio, stabilendo che gli
organi possano essere prorogati di 45 giorni decorrenti dalla scadenza del termine
di durata previsto per ciascuno. Allo scadere di tale termine, gli organi
amministrativi decadono e gli atti emanati dagli organi decaduti sono nulli, come
sono nulli gli atti emanati nel periodo di proroga che non siano di ordinaria
amministrazione o urgenti o indifferibili. I titolari della competenza alla
ricostituzione sono responsabili dei danni cagionati a seguito dell’intervenuta
decadenza.

La disciplina attuale del rapporto di lavoro dei dipendenti delle


amministrazioni pubbliche.
La c.d. “privatizzazione del pubblico impiego” è stata operata dal D.Lgs
29/1993 ed è stata completata dal D.Lgs 80/1998; il contenuto di tali ultime
disposizioni è stato riprodotto dal D.Lgs. 165/2001. I principi che ispirano la
normativa di cui al D.Lgs 165/2001 possono così sintetizzarsi:
a) i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile e dalla
contrattazione sia sul piano individuale sia su quello collettivo.
L’unica eccezione all’assoggettabilità alla disciplina contrattuale riguarda le
categorie indicate all’art.3 (personale in regime di diritto pubblico:
magistrati, avvocati dello stato, personale militare e delle forze di polizia,
personale della carriera diplomatica e prefettizia);
b) La legge prevede limiti all’autonomia contrattuale individuale o collettiva (si
pensi alla disciplina legale, non derogabile mediante contratto, della parità
di trattamento e dell’attribuzione delle mansioni proprie delle qualifiche
superiori).
c) Restano assoggettati alla disciplina pubblicistica gli organi, gli uffici, i
principi fondamentali dell’organizzazione, i procedimenti di selezione per
l’accesso al lavoro e quelli di avviamento, i ruoli, le incompatibilità, le
responsabilità, ad eccezione delle sanzioni e degli illeciti disciplinari, la
determinazione delle dotazioni organiche.
d) Le organizzazioni sindacali, al di fuori delle materie economiche, debbono
essere “consultate” o informate senza che sia richiesto il loro consenso in
tema di organizzazione e in tema di eccedenze di personale.
e) La contrattazione collettiva si svolge a vari livelli (nazionale e integrativa;
quest’ultima può essere attivata da ciascuna amministrazione a carico dei
propri bilanci). Nella contrattazione collettiva nazionale la parte pubblica è
legalmente rappresentata da un’apposita Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN : essa ha personalità
di diritto pubblico ed è soggetta al potere di indirizzo esercitato dalle
pubbliche amministrazioni che, a tal fine, danno vita a “comitati di settore”),
della cui assistenza, comunque, le pubbliche amministrazioni possono
avvalersi ai fini della contrattazione integrativa.
f) Sotto il profilo giurisdizionale sono devolute al giudice ordinario, in funzione
di giudice del lavoro, tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro
dei dipendenti e le controversie in materie di procedure concorsuali di
assunzione.
g) I dipendenti sono assoggettati ad una particolare responsabilità
amministrativa (per danni cagionati all’amministrazione), penale e contabile;
la responsabilità disciplinare è regolata dall’art.55, d.lgs. 165/2001, che,
oltre ad imporre alcune garanzie a favore del dipendente nel corso del
procedimento disciplinare, prevede la definizione ad opera dei contratti
29
collettivi della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni; ove non
siano previste dai contratti collettivi procedure di conciliazione
stragiudiziali (ma esse sono state introdotte dai contratti collettivi),
l’interessato può impugnare la sanzione inflittagli dinanzi al collegio
arbitrale di disciplina che emette la sua decisione entro novanta giorni.
h) Il reclutamento del personale non dirigenziale avviene tramite procedure
selettive che garantiscono in misura adeguata l’accesso dall’esterno, o
mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le
qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola
dell’obbligo (art.35 D.Lgs.165/2001). L’art. 20 della L.488/1999 fissa in 24
mesi la durata di validità delle graduatorie dei concorsi che per gli enti locali
è invece di tre anni.
i) Viene eliminato il potere di gestione degli organi politici e affermato il
principio della distinzione tra indirizzo politico (spettante agli organi politici)
e gestione (spettante ai dirigenti).

La dirigenza e i suoi rapporti con gli organi politici.


La disciplina dei dirigenti è stata riordinata dalla legge 145/2002, e ad essi sono
stati attribuiti poteri autonomi di gestione, con il compito di organizzare il lavoro,
gli uffici e le risorse umane e finanziarie, nonché di attuare le politiche delineate
dagli organi di indirizzo politico-amministrativo, rispondendo del conseguimento
dei risultati.
La dirigenza statale si articola in due fasce del ruolo dei dirigenti istituito presso
ogni amministrazione. Sono definite apposite sezioni in modo da garantire la
eventuale specificità tecnica. I dirigenti della seconda fascia transitano nella prima
qualora abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o
equivalenti per un periodo di almeno cinque anni senza essere incorsi nelle misure
previste dall’art.21 per la responsabilità dirigenziale.
L’accesso alla qualifica di dirigente nelle amministrazioni statali e negli enti
pubblici non economici avviene mediante concorso per esami indetto dalle singole
amministrazioni ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla
Scuola superiore della pubblica amministrazione. Norme particolare sono dettate
par la dirigenza scolastica e sanitaria.
Il rapporto di lavoro si fonda su un contratto mentre nel passato si basava su un
atto amministrativo unilaterale.
La disciplina del rapporto di servizio va tenuta distinta dal momento della
preposizione all’organo mediante “incarico della funzione” che è sempre
conferito a tempo determinato. Per il conferimento dell’incarico si tiene conto delle
attitudini e delle capacità professionali di dirigente, valutate anche in
considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati.
La legge 145/2002 ha previsto che l’atto di incarico abbia natura provvedimentale.
La definizione dell’oggetto, degli obiettivi e della durata dell’incarico è contenuta
nel provvedimento di conferimento dell’incarico, mentre la definizione del
trattamento economico spetta al contratto individuale.
Non necessariamente tutti i dirigenti hanno la titolarità di uffici dirigenziali, ma
possono svolgere funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi
specifici previsti dall’ordinamento. Soltanto nell’ipotesi in cui siano preposti ad
uffici dirigenziali, essi possono esercitare i poteri previsti dall’art.4 D.Lgs 165/2001
(adottare provvedimenti, curare la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa)
e, dunque, sono organi. Negli altri casi essi sono preposti a meri uffici.
Propria dei dirigenti è poi la responsabilità dirigenziale: essa è aggiuntiva
rispetto alla altre forme di responsabilità che gravano sui dipendenti pubblici,
sorge allorché non siano stati raggiunti gli obiettivi o in caso di inosservanza delle
direttive imputabile al dirigente (art.21 D.Lgs 165/2001).
30
Tale responsabilità rileva l’inidoneità all’incarico e si collega all’attività
complessiva dell’ufficio cui egli è preposto; la sanzione è l’impossibilità del rinnovo
dello stesso incarico.
In relazione alla gravità dei casi, “l’amministrazione può, inoltre, revocare
l’incarico collocando il dirigente a disposizione… ovvero recedere dal rapporto di
lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”, previo parere conforme di
un comitato di garanti.
Gli incarichi di segretario generale, di capo dipartimento e di livello equivalente
cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo.
Per quanto riguarda gli incarichi di vertici presso enti, società e agenzie, nonché le
nomine di rappresentanti governativi in ogni organismo a qualsiasi livello,
conferite dal governo o dai ministri nei sei mesi antecedenti la scadenza naturale
della legislatura o nel mese antecedente lo scioglimento delle camere, l’art. 6
L.145/2002 dispone che le nomine possono essere confermate, revocate,
modificate o rinnovate entro sei mesi dal voto sulla fiducia al governo.
Ai sensi dell’art.14 D.Lgs 165/2001 il ministro definisce obiettivi, priorità, piani e
programmi da attuare ed emana le conseguenti direttive generali per l’attività
amministrativa e per la gestione. Tale organo non può revocare, riformare,
riservare o avocare a sé o altrimenti adottare atti di competenza dei dirigenti: la
norma prevede che in caso di inerzia o ritardo il ministro possa fissare un termine
per provvedere e, qualora l’inerzia permanga, o in caso di grave inosservanza
delle direttive da parte del dirigente, egli abbia il potere di nominare, salvi i casi di
urgenza, previa contestazione, un commissario ad acta.
Ne discende che gli atti e i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice
dell’amministrazione e dai dirigenti di uffici dirigenziali non sono suscettibili di
ricorso gerarchico.
L’eliminazione del potere di decidere i ricorsi gerarchici nonché dei poteri di
revoca, riforma, avocazione e sostituzione sono sicuri sintomi del superamento
della gerarchia.
L’organo politico “superiore” fissa gli obiettivi, assegna le risorse, impartisce
direttive generali, si astiene dell’ingerirsi nella gestione e valuta i risultati finali. Il
dirigente preposto agli uffici dirigenziali generali risponde nei confronti del politico
della propria gestione; l’organo politico risponde, invece, in via immediata o
mediata, all’elettorato.
Le sfere di competenza tra gli organi politici e quelli dirigenziali sono separate e
differenti, significativo è infatti che il ministro non possa, neppure in caso di
inerzia, sostituirsi al dirigente ma debba procedere alla nomina di un commissario:
la separazione è talmente rigida che non tollera una diretta ingerenza del politico
nell’attività del dirigente.
I dirigenti preposti agli uffici dirigenziali generali, nei confronti dei dirigenti
definiscono obiettivi e attribuiscono le risorse, “dirigono, coordinano e controllano
l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti”, “anche con potere
sostitutivo in caso di inerzia” e “decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i
provvedimenti amministrativi non definitivi dei dirigenti”; infine, il dirigente
preposto all’ufficio di più elevato livello può delegare compiti ed è “sovraordinato”
al dirigente preposto all’ufficio inferiore.
L’art. 17 D.Lgs 165/2001, prevede poteri di direzione, coordinamento e controllo in
capo al dirigente in relazione all’attività degli uffici che da lui dipendono e di quella
dei responsabili dei procedimenti amministrativi “anche con poteri sostitutivi in
caso di inerzia”.
L’art. 17 co.1 bis D.Lgs 165/2001 prevede che i dirigenti, per specifiche e
comprovate ragioni di servizio e per un tempo determinato, possono delegare con
atto scritto e motivato alcune delle proprie competenze a dipendenti che ricoprano
le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati.

31
L’art. 17 bis D.Lgs 165/2001 inoltre, prevede l’area della vicedirigenza, la cui
istituzione è rimessa alla contrattazione collettiva di comparto.
La normativa favorisce inoltre la mobilità tra settore pubblico e settore privato.

I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: le formazioni sociali


e gli ordinamenti autonomi.
Le organizzazioni sociali sono costituite da aggregazioni di individui sorretti da
finalità etiche, religiose, ideali e che perseguono interessi, non caratterizzati dallo
scopo di lucro, in parte coincidenti con quelli affidati alla cura dei soggetti pubblici.
Il terzo settore è dunque composto dalle associazioni no profit e dalle
organizzazioni di volontariato, associazioni e cooperative.
Rientrano in questo ambito moltissime associazioni quali le comunità terapeutiche,
le istituzioni pro-loco, le organizzazioni impegnate nei settori della ricerca, dello
sport, dell’istruzione, della beneficenza, della protezione civile, dell’accoglienza e
dell’adozione di stranieri, dell’assistenza, del servizio civile, della tutela dei beni
culturali e così via.
Il campo di azione di numerose tra queste organizzazioni è in linea di massima
quello dei c.d. servizi sociali.
La Legge 328/2000 disciplina un sistema integrato di interventi e servizi sociali, e
la normativa di settore prevede che le organizzazioni che perseguono finalità di
interesse generale possano ricevere finanziamenti pubblici e siano talora
sottoposte a forme di controllo o vigilanza, ovvero ad un regime fiscale favorevole.
La Legge 11 agosto 1991, nr. 266 ha disciplinato le organizzazioni di volontariato,
nell’ambito delle quali emerge, quale profilo caratterizzante, il fine dell’assistenza
alla persona. L’art.8 del T.U. sugli enti locali affida al Comune il compito di
“valorizzare” le libere forme associative e di promuovere organismi di
partecipazione popolare.
Il D.Lgs 460/1997 sulla disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative di utilità sociale ha previsto l’istituzione presso il
Ministero delle Finanze di un’anagrafe unica delle ONLUS. Tali organizzazioni sono
definite come le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli
enti di carattere privato, con o senza persona giuridica, i cui statuti o atti
costitutivi, redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata
autenticata o registrata, contengano espressamente una serie di indicazioni:
- lo svolgimento di attività in particolari settori (assistenza sociale e
socio-sanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, formazione, sport
dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse
artistico e storico, tutela dell’ambiente, promozione della cultura e dell’arte,
tutela dei diritti civili, ricerca scientifica);
- l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale;
- il divieto di distribuire utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o
capitale durante la vita dell’organizzazione;
- l’obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per realizzare
delle attività istituzionali e quelle ad esse direttamente connesse.
Altre formazioni, caratterizzate da una normazione propria, possono essere
configurate come ordinamenti autonomi.
Per quanto riguarda le confessioni religiose, l’art.8 Cost. stabilisce che quelle
diverse dalla chiesa cattolica possano organizzarsi secondo i propri statuti, in
quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
L’ordinamento sportivo è invece privo di garanzia costituzionale. Il legislatore
statale potrebbe sostituire con proprie norme quelle dettate in tale ordinamento.
La Legge 280/2003 stabilisce ora che “la Repubblica riconosce e favorisce
l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione
dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico
32
Internazionale” e “i rapporti tra ordinamento sportivo e l’ordinamento della
Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza
per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive
connesse con l’ordinamento sportivo”. Il CONI (Comitato olimpico nazionale
italiano), ente esponenziale dell’ordinamento sportivo è, secondo il diritto italiano,
un ente pubblico.

I mezzi. In particolare i beni pubblici. Nozione e classificazione


codicistica.
Al fine di svolgere i propri compiti, le amministrazioni pubbliche devono utilizzare
non solo risorse umane, ma anche mezzi materiali e mezzi finanziari.
Lo svolgimento di compiti amministrativi implica molto spesso l’impiego di beni.
Tra i beni che appartengono agli enti pubblici rivestono una particolare importanza
i c.d. “beni pubblici”, i quali sono assoggettati ad una normativa differente per
ciò che riguarda i profili dell’uso, della circolazione e della tutela.
Sussistono anche beni appartenenti ad enti pubblici ma soggetti alla normativa di
carattere generale sulla proprietà privata, questi costituiscono, nel loro complesso,
il patrimonio disponibile (patrimonio mobiliare, fondiario ed edilizio), così
chiamato per distinguerlo dal patrimonio indisponibile che va ricondotto ai beni
pubblici.
Anche il denaro fa parte del patrimonio disponibile. I beni patrimoniali disponibili
possono essere oggetto di contratti di alienazione (contratti c.d. attivi), di acquisti
(contratti passivi) e così via.
Il complesso dei “beni pubblici” appartiene alle pubbliche amministrazioni a titolo
di proprietà pubblica.
La proprietà spiega l’appartenenza dei frutti all’ente titolare del bene ed il fatto
che la cosa, una volta persi i caratteri di bene pubblico, resti nella “proprietà”
dell’ente. E’ questo il principio della elasticità della proprietà. Questi beni sono
distinti dalla legge in demaniali e patrimoniali indisponibili. La proprietà pubblica è
dunque l’esempio più pregnante di proprietà-finzione.
La titolarità della proprietà dei beni pubblici trova la sua fonte innanzitutto nella
legge. Alcuni beni appartengono allo Stato o alla regione ex lege: si tratta di alcuni
beni del demanio naturale (marittimo e idrico) e del patrimonio indisponibile
(miniere), oltre ai beni di interesse artistico, storico o archeologico esistenti o
ritrovati nel sottosuolo, i relitti marittimi e di aeromobili ecc…
Siffatta titolarità può derivare anche da:
a) fatti acquisitivi: acquisto della proprietà di beni mediante l’occupazione,
l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione, l’usucapione, la
successione regolata dall’art.586 cc (“in mancanza di altri successibili,
l’eredità è devoluta allo Stato”).;
b) atti di diritto comune (contratti, testamento, donazione, pagamenti,
provvedimenti giudiziari di esecuzione);
c) fatti basati sul diritto internazionale (confisca e requisizione bellica,
indennità di guerra, successione ad altro Stato) o basati sul diritto pubblico
interno (successione tra enti);
d) atti pubblicistici che comportano l’ablazione di diritti reali su beni di altri
soggetti (confisca, espropriazione, requisizione in proprietà o in uso, ecc… e
l’esecuzione forzata amministrativa sui beni dei debitori inadempienti).

L’uso dei beni pubblici.


Per una prima categoria di beni pubblici è consentito essenzialmente l’uso
diretto e riservato al proprietario pubblico che lo impiega per lo svolgimento dei
propri compiti, garantito talora con norme che sanzionano l’uso del bene da parte
di altri (ad esempio il demanio militare).
33
Altro esempio di uso diretto è quello dei beni del patrimonio indisponibile destinati
a sedi di uffici o a servizi pubblici: il bene è strumentale all’esercizio di una certa
attività posta in essere dall’amministrazione titolare del bene.
L’uso promiscuo è realizzato quando il bene è in grado di soddisfare anche altre
esigenze, come le strade militari che servono sia all’interesse della difesa che
all’interesse generale della circolazione.
Il riconoscimento dell’uso generale di quei beni pubblici che assolvono la loro
funzione a servizio della collettività (demanio idrico, stradale, beni di interesse
storico e così via) è mezzo rivolto alla rimozione degli ostacoli che “impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti”
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art.3 Cost.). In alcuni
casi esso è subordinato al pagamento di una somma (es: il pedaggio), altre volte è
occorre ottenere un’autorizzazione dall’ente pubblico (es: scarico nelle acque
pubbliche).
Vi sono infine situazioni in cui il bene è posto al servizio di singoli soggetti (uso
particolare).
Questo è il caso delle riserve di pesca, delle concessioni di beni pubblici, delle
concessioni di derivazione di acque pubbliche, della situazione del frontista
rispetto alla strada pubblica.
Nelle situazioni indicate il ruolo dell’amministrazione muta: nel caso dell’uso
diretto deve conservare, tutelare e utilizzare direttamente il bene, nelle altre
invece emerge l’aspetto della regolamentazione e dell’organizzazione dell’uso da
parte dei terzi.
Occorre in ultimo accennare ad un ulteriore e sempre più rilevante uso diretto dei
beni degli enti pubblici, costituito dal conferimento dei beni stessi come capitale
di dotazione nelle aziende speciali ovvero in società per azioni (art. 118 t.u. enti
locali): il bene dell’amministrazione proprietaria diventa in queste ipotesi elemento
del ciclo produttivo posto in essere da altro soggetto giuridico pubblico.
Va ricordato, che il D.L.63/2002, convertito nella Legge 112/2002, ha previsto
l’istituzione della già citata Patrimonio s.p.a. (avente compiti di valorizzazione,
gestione, ed alienazione del patrimonio dello Stato; il capitale sociale, fissato in un
milione di euro, è interamente detenuto dal ministero dell’economia), e di
Infrastrutture s.p.a. (società finanziaria vigilata dal ministero dell’economia e
avente il compito di finanziare le infrastrutture e le grandi opere pubbliche,
concedere finanziamenti, garanzie e assumere partecipazioni, detenere immobili
ed esercitare ogni attività strumentale connessa ai suoi compiti istituzionali).

I beni privati di interesse pubblico.


La dottrina individua una categoria più ampia di beni, comprensiva di beni
appartenenti a soggetti pubblici e di beni in proprietà di privati: essa è costituita
dai beni di interesse pubblico (es: strade vicinali, le autostrade costruite e
gestite dai privati concessionari).
I beni culturali di proprietà privata, anche se “privato” nell’appartenenza,
rivela il suo aspetto di pubblicità in quanto la sua conservazione soddisfa interessi
pubblici, ovvero perché, in forza degli obblighi che gravano sul proprietario, esso è
addirittura rivolto al pubblico sotto il profilo della fruizione.
La categoria del bene culturale è stata positivamente riconosciuta dall’art.148 del
D.Lgs 112/1998 (secondo cui appartengono ad essa i beni che compongono il
patrimonio storico, artistico, demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico e
librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così
individuati in base alla legge) e oggi dal D.Lgs 42/2004 (codice dei beni culturali e
del paesaggio).

34
Capitolo IV
L’organizzazione degli enti pubblici
Cenni all’organizzazione statale: quadro generale.
Lo Stato – amministrazione è qualificato come ente pubblico ed ha la qualità di
persona giuridica in forza di riferimenti normativi: ad esempio l’art.28 Cost. che si
riferisce alla responsabilità civile dello Stato e all’art.822 c.c. il quale disciplina i
beni appartenenti allo Stato.
Con la frammentazione dell’amministrazione statale e la distinzione in ministeri
che fanno capo a vertici differenti occorre ammettere che la unicità della
personalità statale non sussista.

In particolare: il governo e i ministeri.


Al vertice dell’organizzazione statale è collocato il governo, formato dal Presidente
del Consiglio dei Ministri, dal Consiglio dei ministri e dai ministri (art.92 Cost.).
Anche il Presidente della Repubblica svolge alcune importanti funzioni attinenti
all’attività amministrativa: si pensi al potere di nomina dei più alti funzionari ed
all’emanazione dei regolamenti governativi.
Ai sensi dell’art.5 comma 2 L.400/1988, il Presidente del Consiglio dei ministri ha,
tra gli altri, i seguenti compiti: “indirizza ai ministri le direttive politiche e
amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, nonché
quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del
governo”; “coordina e promuove l’attività dei ministri in ordine agli atti che
riguardano al politica generale del governo”, può sospendere “l’adozione di atti da
parte dei ministri competenti in ordine a questioni politiche e amministrative,
sottoponendoli al Consiglio dei ministri”; “adotta le direttive per assicurare
l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza dei pubblici uffici”; “può disporre
l’istituzione di particolari Comitati di ministri”, ovvero di “gruppi di studio e di
lavoro”.
La presidenza del Consiglio ha una struttura organizzativa propria alla quale
fanno capo vari dipartimenti e uffici.
Il D.Lgs 303/1999 è intervenuto per disciplinare l’ordinamento, l’organizzazione e
le funzioni di tale struttura, della quale si avvale il Presidente del Consiglio dei
ministri per l’esercizio delle funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento ed
anche per l’esercizio delle funzioni attinenti ai rapporti del governo con il
parlamento, con le istituzioni europee, con il sistema delle autonomie e con le
confessioni religiose.
Responsabile del funzionamento del segretariato generale e della gestione delle
risorse umane e strumentali della presidenza è il segretario generale, legato al
presidente da uno stretto rapporto fiduciario, che può essere coadiuvato da uno o
più vice segretari generali; ogni dipartimento-struttura a livello dirigenziale
generale si riparte in uffici e ogni ufficio in unità operative di base di livello
dirigenziale denominate servizi, il cui numero è stabilito con decreto del
Presidente.
Il Presidente individua con propri decreti gli uffici di diretta collaborazione propri e
quelli dei ministri senza portafoglio (che sono titolari di dipartimento) o
sottosegretari della presidenza.
Le funzioni del Consiglio dei ministri sono indicate dall’art.2 L.400/1988:
accanto a quella di indirizzo politico e a quella normativa, possiamo ricordare i
poteri di indirizzo e coordinamento, nonché i poteri di annullamento di ufficio di
atti amministrativi.

35
I ministri sono gli organi politici di vertice dei vari dicasteri. Tali organi sono
molto importanti sotto il profilo amministrativo perché l’amministrazione statale è
ripartita sulla base dei ministeri. Il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei
ministeri sono determinati dalla legge (art. 95 Cost.).
Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del
Consiglio dei ministri, possono inoltre essere nominati ministri senza portafoglio i
quali sono membri del governo ma non sono titolari di dicasteri e, dunque, né di
un apparato organizzativo di uffici, né della gestione di uno stato di previsione
della spesa (es: il ministro per le pari opportunità). Ad essi possono essere
delegate funzioni dal Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio
stesso; inoltre possono essere posti a capo dei dipartimenti in cui si articolare la
presidenza del Consiglio.
Il ministro può essere coadiuvato da uno o più sottosegretari nominati con
decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio
dei ministri, di concerto con il ministro che il sottosegretario coadiuverà, sentito il
consiglio dei ministri. Essi giurano dinanzi al Presidente del Consiglio dei ministri
ed esercitano le funzioni loro delegate con decreto ministeriale. Il loro numero non
è fissato dalla legge.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri è il segretario del
Consiglio dei ministri.
Il titolo di vice ministro può essere conferito a non più di 10 sottosegretari, se ad
essi sono conferite dal ministro competente deleghe relative all’intera area di
competenza di una o più strutture dipartimentali o direzioni generali. I vice ministri
possono essere invitati a partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri, senza
diritto di voto, per riferire su argomenti e questioni attinenti alla materia loro
delegata.
Con D.Lgs 300/1999 è stato ridotto il numero dei ministeri ed è stata ridisegnata la
loro struttura organizzativa.
Secondo l’art. 2 del D.Lgs 300/1999 (e successive modificazioni) i ministeri sono i
seguenti: ministero degli affari esteri, ministero dell’interno, ministero della
giustizia, ministero della difesa, ministero dell’economia e delle finanze,
ministero delle attività produttive, ministero delle comunicazioni, ministero
per le politiche agricole e forestali, ministero dell’ambiente e della tutela
del territorio, ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ministero del
lavoro e delle politiche sociali, ministero della salute, ministero
dell’istruzione dell’università e della ricerca, ministero per i beni e le
attività culturali.
Per alcuni ministeri si introduce il modello di organizzazione caratterizzato dalla
presenza, accanto alla figura del ministro, di strutture dipartimentali cui sono
attribuiti “compiti finali concernenti grandi aree di materie omogenee e i relativi
compiti strumentali”, compresi quelli di indirizzo e coordinamento delle unità di
gestione, quelli di organizzazione e quelli di gestione delle risorse strumentali,
finanziarie e umane.
Nell’ambito di tale modello organizzativo scompare la figura del segretario
generale, i cui compiti sono distribuiti tra i capi dei dipartimenti.
Negli altri ministeri, invece, la figura del segretario generale può sopravvivere
operando alle dirette dipendenze del ministro.
In questi ministeri la struttura di primo livello è poi costituita dalle direzioni
generali (nel ministero delle comunicazioni vi sono uffici centrali di livello
dirigenziale generale ed ispettorati territoriali).
Le agenzie sono strutture che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di
interesse nazionale attualmente esercitate da ministeri ed enti pubblici.
Il D.Lgs 300/1999 istituisce quattro agenzie fiscali (agenzia delle entrate,
agenzia delle dogane, agenzia del territorio, competente tra l’altro allo

36
svolgimento dei servizi relativi al catasto, e agenzia del demanio, cui è attribuita
l’amministrazione dei beni immobili dello Stato); l’agenzia industrie difesa;
l’agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici; l’agenzia
per la formazione e l’istruzione professionale.
Le agenzie operano al servizio delle amministrazioni pubbliche, comprese quelle
regionali e locali. Esse hanno autonomia nei limiti stabiliti dalla legge (autonomia
di bilancio ecc…) e sono sottoposte al controllo della Corte dei conti e ai poteri di
indirizzo e vigilanza del ministro; devono inoltre essere organizzate in modo da
rispondere alle esigenze di speditezza, efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa e si giovano di un finanziamento annuale a carico dello Stato di
previsione del ministero. A capo dell’agenzia è posto un direttore generale.
Le agenzie possono anche avere personalità giuridica (è il caso della agenzia
industrie difesa e delle agenzie fiscali).

Le strutture di raccordo tra i vari ministeri.


I ministeri non operano in modo completamente separato.
Il coordinamento dell’attività dei vari ministeri è assicurato dall’azione politica del
Consiglio dei ministri, dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai comitati dei
ministri.
Il consiglio di gabinetto è un organo collegiale ristretto costituito dal Presidente
del Consiglio e dai ministri da lui designati sentito il Consiglio dei ministri, avente il
compito di coadiuvarlo nello svolgimento delle funzioni.
Altri organi collegiali sono i comitati interministeriali che possono essere
formati anche da soggetti che non siano ministri, in particolare da esperti e da
rappresentanti delle amministrazioni.
Il numero dei comitati in passato era molto alto, ma la L.537/1993 ha proceduto
alla soppressione di tredici comitati e le relative funzioni sono state in seguito
ridistribuite tra i ministeri, le regioni e il Cipe.
Il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) è ormai il
comitato interministeriale più importante. Esso è presieduto dal Presidente del
Consiglio dei ministri ed è composto da ministri.
Il Cipe è competente in via generale “su questioni di rilevante valenza economico-
finanziaria, e/o con prospettive di medio lungo termine, che necessitino di un
coordinamento a livello territoriale o settoriale”.
Di rilievo sono anche il Cicr (comitato interministeriale per il credito e il risparmio),
il quale si occupa di politica creditizia, esercitando poteri di direttiva nei confronti
del Tesoro e della Banca d’Italia e il Cis (comitato interministeriale per le
informazioni) che si occupa di politica della sicurezza.
L’unità dell’azione statale è altresì garantita dalla presenza di organi e strumenti
di raccordo “orizzontali” che operano al servizio dei vari ministeri ma senza essere
legate univocamente all’organizzazione presso la quale sono dislocate o operano:
1. Gli uffici centrali del bilancio (ex ragionerie centrali), presenti in ogni
ministero con portafoglio, sono dipendenti del dipartimento della
ragioneria generale dello Stato del ministero dell’economia e delle
finanze.
2. Il quadro organizzativo è contemplato a livello periferico dalle ragionerie
provinciali che si occupano delle amministrazioni statali decentrate e che
sono raggruppate in dieci circoscrizioni territoriali con compiti di tenuta delle
scritture contabili, di programmazione dell’attività finanziaria, nonché di
monitoraggio e di valutazione tecnica dei costi e degli oneri dell’attività.
3. Il servizio nazionale di statistica si articola in una serie di uffici presenti
presso ciascun ministero e ciascuna azienda, presso enti territoriali e
camere di commercio, e sono collegati funzionalmente all’Istituto centrale di
Statistica (ISTAT).
37
4. L’avvocatura dello Stato è incardinata presso un unico complesso
organizzativo, ma svolge attività a favore di tutta l’organizzazione statale. E’
composta da legali che forniscono consulenza alle amministrazioni statali e
provvedono alla loro difesa in giudizio. L’avvocatura è incardinata presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri; al suo vertice è l’avvocato generale
dello Stato, avente sede in Roma e nominato con Decreto del Presidente
della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri; esistono inoltre sedi periferiche –
avvocature distrettuali – presso ciascuna sede di Corte d’appello.
L’avvocatura, pur facendo capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri,
svolge le proprie funzioni in modo indipendente.
5. A seguito del D.Lgs 196/2003 è stato istituito il Centro nazionale per
l’informatica nella pubblica amministrazione che ha il compito di
fornire alle amministrazioni il supporto conoscitivo essenziale per l’attività
amministrativa.
6. Il servizio di tesoreria dello Stato è costituito dall’insieme di operazioni e
atti attraverso i quali il denaro acquisito dalla pubblica amministrazione
viene raccolto, conservato e impiegato: si tratta in particolare delle
operazione di acquisizione di entrate e di effettuazione di spese di bilancio.

Il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Cnel.


All’unità dell’azione dello Stato è preordinata l’attività di altri organi costituiti dal
Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti e dal Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro.
Il Consiglio di Stato e la corte dei conti fanno capo alla Presidenza del Consiglio dei
ministri, ma non fanno parte dell’amministrazione statale, e sono in realtà organi
dello stato-comunità.
Il Consiglio di Stato è l’organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela
della giustizia nell’amministrazione (Art.100 Cost.). Le sezioni consultive del
Consiglio di Stato sono tre (I,II e III), cui si aggiunge quella istituita dalla Legge
127/1997, per l’esame degli schemi di atti normativi in ordine ai quali il parere è
prescritto per legge o è comunque richiesto dall’amministrazione.
La Corte dei conti esercita funzioni di controllo e dispone di funzioni consultive e
giurisdizionali.
La Corte dei conti dispone di una sede centrale a Roma composta da tre sezioni di
controllo (una per gli atti del governo e dell’amministrazione centrale, una per le
regioni e gli enti locali e una per gli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria).
In ogni regione esistono sezioni regionali di controllo, ed è stata inoltre istituita
una sezione di controllo per affari comunitari e internazionali.
Il numero, la composizione e la sede degli organi della Corte dei conti sono
determinati dalla Corte stessa nell’esercizio dei poteri di autonomia finanziaria,
organizzativa e contabile ad essa conferiti dalla legge 20/1994.
Le sezioni regionali di controllo possono essere integrate da due componenti
designati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (o in
mancanza di tale organo dal Presidente del Consiglio regionale).
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), previsto dall’art.99
Cost. come organo ausiliario del governo, non è inserito nell’apparato
amministrativo. Esso è composto da un presidente e 111 membri e svolge compiti
di consulenza tecnica e di sollecitazione nelle materie dell’economia e del lavoro
dell’attività del parlamento, del governo e delle regioni.

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Le aziende autonome.
Le aziende autonome (o amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo)
sono amministrazioni caratterizzate dal fatto di essere incardinate presso un
ministero e di avere una propria organizzazione, separata da quella ministeriale.
Le amministrazioni autonome svolgono attività prevalentemente tecnica,
amministrano in modo autonomo le relative entrate, dispongono di capacità
contrattuale e sono titolari di rapporti giuridici, pur non avendo un proprio
patrimonio (il patrimonio è infatti dello Stato).
La loro attività consiste spesso nella produzione di beni o di prestazione di servizi,
e molte di esse sono state trasformate in enti pubblici economici o società per
azioni.
Prive di norma di personalità giuridica, esse sono di solito rette dal ministro che
ne ha altresì la rappresentanza; il ministro dirige ed è affiancato dal consiglio di
amministrazione (che ha compiti consultivi e talora deliberativi) e dal direttore
(organo esecutivo). Il bilancio e il rendiconto dell’azienda sono legati allegati al
bilancio dello Stato.
Molte aziende autonome sono state soppresse, mentre altre aziende sono state
trasformate: l’amministrazione autonoma delle Poste e telecomunicazioni è stata
trasformata in ente pubblico economico ed è divenuta s.p.a.; l’azienda autonoma
delle ferrovie dello stato è stata trasformata in società per azioni, ecc…
La Cassa depositi e prestiti è stata trasformata in Cassa depositi e prestiti
società per azioni e tale soggetto finanzia lo Stato ed enti pubblici e “le opere, gli
impianti, le reti e le dotazioni destinati alla fornitura di servizi pubblici ed alle
bonifiche”.

Le amministrazioni indipendenti.
Le amministrazioni indipendenti sono sorte per ovviare all’incapacità
dell’organizzazione amministrativa tradizionale di provvedere ai compiti ad essa
attribuiti, incapacità in via di massima imputata all’indebito condizionamento
politico ed alle carenze tecniche degli organi amministrativi.
Le autorità indipendenti prevedono l’attribuzione di compiti rilevanti a soggetti
dotati di notevole indipendenza rispetto al governo ed agli organi politici.
Come autorità indipendenti vengono generalmente ricordati: la Banca d’Italia; la
Consob (che si occupa del mercato dei prodotti finanziari, assicurando la
trasparenza e garantendo la completezza delle informazioni, a tutela del
risparmio); l’Isvap (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private, che si
occupa del settore delle assicurazioni; l’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (essa subentra nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali e
nella titolarità dei rapporti attivi e passivi facenti capo al Garante per l’editoria; tra
i compiti di tale autorità vi è quello di verificare che, nel sistema integrato delle
comunicazioni e nei mercati che lo compongono, non si costituiscano posizioni
dominanti e che siano rispettati i limiti di legge); l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato; l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici;
l’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
Dotati di compiti di garanzia, piuttosto che di amministrazione attiva, sono il
Garante per la privacy, e la Commissione di garanzia per l’attuazione
della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali; e
l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione.
La Banca d’Italia è qualificabile come ente pubblico a struttura associativa, è
istituto di emissione e svolge le funzioni di vigilanza sulle aziende di credito e di
governo del settore valutario e monetario. Il suo organo di vertice è costituito dal
Governatore.
Alcune di tali autorità non hanno neppure personalità giuridica.

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Esse dispongono per lo più di autonomia organizzativa e funzionale, e sono titolari
di poteri provvedimentali talvolta sanzionatori e sono soggette al controllo della
Corte dei conti.
I vertici delle diverse autorità delle telecomunicazioni, dell’elettricità e del gas
sono nominati dal Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio
dei ministri su proposta del ministro competente e parere favorevole delle
commissioni parlamentari.
I vertici delle altre autorità sono generalmente nominati o designati dai presidenti
delle camere, oppure, come per il Garante per la Privacy, eletti per metà dalla
camera e metà dal senato.
L’elemento caratterizzante delle autorità consiste nel fatto che esse sono
indipendenti dal potere politico del governo pur dovendo trasmettere relazioni
al governo e al parlamento in ordine all’attività svolta.
Le autorità non sono tenute ad adeguarsi all’indirizzo politico espresso dalla
maggioranza, e per tal motivo sono definite neutrali (a differenza delle
tradizionali amministrazioni che devono essere “imparziali”).
Numerose tra le autorità indipendenti sono chiamate a verificare, anche
esercitando poteri giustiziali, la compatibilità del comportamento degli operatori
economici, pubblici o privati, con le regole della concorrenza. Difatti, una
“liberalizzazione” pura e semplice di particolari mercati lascerebbe irrisolto il
problema di salvaguardare esigenze collettive e rischierebbe di non impedire il
consolidarsi di nuove forme di monopolio privato anziché pubblico.
Le autorità sono preposte a vigilare alcuni settori sensibili del mercato.
Il difensore civico non rientra nella categoria delle autorità indipendenti e
non è istituito a livello di organizzazione statale, ma è una figura che presenta
alcuni profili di analogia con esse.
Esso è nato come soggetto chiamato ad atteggiarsi a snodo flessibile informale di
collegamento tra cittadini e poteri pubblici, in grado di assicurare una maggiore
trasparenza dell’organizzazione amministrativa. Tale soggetto funge da ausilio per
l’amministrazione attiva e può favorire una miglior scelta finale in vista
dell’interesse pubblico.
L’art. 11 del T.U. sugli enti locali definisce il difensore civico comunale e
provinciale come garante “dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica
amministrazione”, mentre l’art. 127 ha previsto che i difensori civici delle regioni e
delle province autonome esercitino, sino all’istituzione del difensore civico
nazionale, le proprie funzioni di richiesta, di proposta, di sollecitazione e di
intimazione anche nei confronti delle amministrazioni periferiche dello Stato.
Al difensore civico spetta poi il compito di riesaminare, su istanza dell’interessato,
le richieste di accesso in caso di rifiuto o di differimento.
La legge attribuisce al difensore civico una pluralità di funzioni che costituisce
forse il limite stesso dell’istituto, difatti è difficile pensare che un medesimo
soggetto sia in grado di attuare e gestire le tantissime funzioni attribuite: poteri
che vanno dalla tutela dei cittadini al controllo all’attività amministrativa, dalla
difesa della legalità alla ricerca della trasparenza, dall’azione finalizzata al
miglioramento del rapporto cittadini-amministrazione alla responsabilizzazione dei
soggetti pubblici.
Il difensore civico dispone di poteri non incisivi, difatti non può annullare o
riformare atti, imporre misure sanzionatorie o emanare provvedimenti decisori.
Affinché possa svolgere le sue funzioni, il difensore deve comunque disporre di
poteri caratterizzati da un notevole tasso di informalità e fruire di canali per così
dire di informazione e di conoscenza in relazione all’attività degli organi di
amministrazione attiva, pur nel rispetto di una netta alterità di ruoli.
La marcata indipendenza e la riduzione del condizionamento politico costituiscono
gli ulteriori tratti essenziali del modello di difensore civico.

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Il difensore civico riveste una posizione peculiare, nella quale l’autorevolezza del
titolare dell’ufficio si coniuga con una indipendenza notevole nei confronti
dell’amministrazione interessata. Il modello è dunque quello di un organo soggetto
esclusivamente alla legge piuttosto che quello di un organo esso stesso
direttamente responsabile o sottoposto all’attività di indirizzo di un soggetto
politicamente responsabile.
Il difensore civico, alla stessa stregua delle autorità indipendenti, trova dunque il
proprio riferimento costituzionale nell’art.97 Cost. ma esso non dispone di poteri
decisori.

Gli enti parastatali e gli enti pubblici economici.


L’organizzazione statale è completata della presenza di enti strumentali rispetto
ad essa.
Gli enti parastatali sono disciplinati dalla L.70/1975 e sono raggruppati in sette
categorie in base al settore di attività:
- gli enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza;
- gli enti di assistenza generica;
- gli enti di promozione generica;
- gli enti preposti a settori di pubblico interesse;
- gli enti preposti ad attività sportive, turistiche e del tempo libero;
- gli enti scientifici di ricerca e di sperimentazione;
- gli enti culturali e di promozione turistica.
Tale legge ha reso uniforme lo stato giuridico e il trattamento dei dipendenti degli
enti, ha stabilito le modalità di nomina, revoca e conferma degli amministratori; ha
disciplinato la gestione finanziaria e contabile e le modalità di controllo e di
vigilanza.
Tutti gli enti del parastato sono soggetti al controllo della Corte dei conti, ai sensi
dell’art. 30 L.70/1975: tra essi di particolare spicco l’Inps e l’Inail.
Ricompreso tra gli enti parastatali è anche il Coni, soggetto che si pone al vertice
dell’ordinamento sportivo pubblicistico italiano, e che svolge compiti di
potenziamento dello sport nazionale e di sorveglianza e di tutela delle
organizzazioni sportive, in particolare delle federazioni sportive nazionali, le quali
raggruppano le associazioni sportive strutturate in società per azioni o a
responsabilità limitata.
La legge 178/2002 prevede l’affiancamento al Coni di una società per azioni di cui
esso si avvale per “l’espletamento dei suoi compiti”. La normativa ha previsto che
i rapporti, anche finanziari, tra i due enti siano regolati da un contratto di servizio
annuale, e che il personale del CONI transiti alla CONI Servizi s.p.a. con la
successione di questa in tutti i rapporti attivi e passivi già facenti capo al CONI. Il
CONI viene così svuotato di tutti i suoi compiti, tranne quelli concernenti le
federazioni sportive.
Un’altra categoria di enti strumentali è quella degli enti pubblici economici i
quali sono titolari di impresa ed agiscono con gli strumenti di diritto comune. La
tendenza legislativa è quella di provvedere alla trasformazione degli enti pubblici
economici in società per azioni, e questo rappresenta una tappa intermedia in
vista della privatizzazione delle aziende autonome, le quali, prima della
trasformazione in società per azioni, vengono trasformate in enti pubblici
economici.
La legge 59/1997 prevede che con i decreti legislativi siano trasformati in ente
pubblico economico o in società di diritto privato gli enti “ad alto indice di
autonomia finanziaria”.
Una categoria è costituita dalle aziende speciali , enti strumentali di comuni e
province, cui sono equiparati alcuni consorzi.

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All’interno degli enti economici, si distinguono quelli che svolgono direttamente
attività produttiva di beni e servizi da quelli che detengono partecipazioni
azionarie in società a capitale pubblico (enti di gestione delle partecipazioni
azionarie ad esempio Iri ed Eni).
Di natura pubblica è il rapporto con lo Stato, sotto il profilo della costituzione e
dell’estinzione, della nomina degli amministratori, della vigilanza e così via.
Gli enti pubblici economici sono sottratti al regime fallimentare.
Sugli enti pubblici economici esiste comunque un minimo di potestà pubblica: si
richiamano al riguardo la potestà di certificazione, i poteri di autoorganizzazione
interna e la prerogativa di autotutela di cui tutti gli enti pubblici economici
disporrebbero.
Gli ordini e collegi professionali sono enti pubblici associativi, ad appartenenza
necessaria, esponenziali della categoria di professionisti che realizzano
l’autogoverno della categoria stessa.
Essi raggruppano gli individui che svolgono peculiari attività professionali (di solito
le professioni che necessitano di laurea per l’esercizio): si pensi ai consigli
dell’ordine degli avvocati, ai consigli dell’ordine dei dottori commercialisti, ai
collegi dei geometri, ecc…
Le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura sono enti di
diritto pubblico che svolgono funzioni di interesse generale per il sistema delle
imprese. Si tratta di enti ad appartenenza necessaria di tipo associativo a
competenza territorialmente delimitata che raggruppano i commercianti, gli
industriali, gli agricoltori e gli artigiani.
Tra i compiti vi sono la cura degli interessi delle categorie rappresentate, la tenuta
del registro delle imprese, la formazione di mercuriali e listini prezzi,
l’amministrazione delle borse valori, il supporto e la promozione degli interessi
generali delle imprese, la promozione della formazione di commissioni arbitrali e
conciliative per la soluzione delle controversie tra imprenditori e i consumatori o
tra gli imprenditori stessi.
L’art. 1, co.4 lett.d) Legge 59/1997 esclude il conferimento a regioni, province e
comuni dei compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale delle
camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, configurate come
autonomie funzionali.
Altri enti dotati di peculiarità proprie, e per questo motivo non ascrivibili a
categorie, sono la Siae e l’Istituto per il commercio con l’estero (ICE,
riformato dalla Legge 68/1997 che ne ha riconosciuto la natura di ente pubblico
economico).

L’amministrazione statale periferica.


Sul territorio nazionale convivono dunque l’amministrazione statale periferica,
quella regionale e degli enti locali.
La Legge 265/99 prevede che quando ragioni di economicità e di efficienza lo
richiedono, gli uffici periferici dell’amministrazione dello Stato possono essere
situati nel capoluogo di provincia o in altro comune della provincia.
Al vertice di ogni ufficio periferico è presente un dipendente del ministero, mentre
la difesa in giudizio e le funzioni consultive spettano alle avvocature distrettuali
dello Stato aventi sede in ogni capoluogo in cui opera una Corte d’appello.
Il controllo sulla spesa è esercitato dalle ragionerie provinciali dello Stato presso il
ministero dell’economia e delle finanze.
Vi è un organo periferico che ha assunto un ruolo prevalente nell’ambito
provinciale, si tratta del Prefetto, organo del ministero dell’Interno, preposto
all’Ufficio territoriale del governo, chiamato sia a rappresentare il potere
esecutivo nella provincia, sia a svolgere funzioni di tramite tra centro e periferia.

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Il Prefetto ha importanti compiti in tema di ordine pubblico e di sicurezza pubblica
nella provincia, di espropriazione, di elezioni politiche ed amministrative, di
esercizio del diritto di sciopero nei pubblici servizi. Ha inoltre compiti in tema di
riconoscimento delle persone giuridiche private.
Il D.Lgs 300/1999 ha istituito la conferenza provinciale permanente dei
responsabili degli uffici statali, presieduta dal Prefetto e composta dai
responsabili degli uffici decentrati delle amministrazioni statali.
L’art. 11 D.Lgs 300/1999, modificato dal D.Lgs 29/2004, ha trasformato le
prefetture in Prefetture-uffici territoriali del governo a cui sono preposti i
prefetti. Tali uffici mantengono tutte le funzioni di competenza delle prefetture, e
assicurano l’esercizio coordinato dell’attività amministrativa degli uffici periferici
dello Stato e garantiscono la leale cooperazione dei medesimi con gli enti locali.
La L.131/2003 dispone ora che “il prefetto preposto all’ufficio territoriale del
Governo avente sede nel capoluogo della regione svolge le funzioni di
rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie”.
Esso ha il compito di indire delle elezioni regionali, di raccogliere notizie utili allo
svolgimento delle funzioni degli organi statali e di svolgere le attività dirette ad
assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione tra Stato e regione,
nonché il raccordo tra le istituzioni dello Stato presenti sul territorio, al fine di
garantire la rispondenza dell’azione amministrativa all’interesse generale, il
miglioramento della qualità dei servizi resi al cittadino e di favorire e rendere più
agevole il rapporto con il sistema delle autonomie.

L’organizzazione amministrativa territoriale non statale: la


disciplina costituzionale e le recenti riforme.
L’attuazione del disegno costituzionale, che prevede la presenza delle regioni
demandando a leggi della Repubblica la regolazione del passaggio ad esse delle
funzioni statali, ha incontrato difficoltà dovute sia all’ostruzionismo di alcune forze
politiche, sia al condizionamento del centralismo.
L’ingerenza dello Stato nei confronti delle regioni è venuta via via decrescendo nel
corso del tempo, fino a giungere alla recente riforma del titolo V della parte II della
Costituzione operata dalla legge costituzionale 3/2001 che modifica in modo
incisivo i poteri degli enti locali ed interessa in modo determinante la fisionomia
delle regioni.
L’art. 2 L.131/2003 conferisce una delega al Governo ad emanare decreti
legislativi per dare attuazione all’art.117 Cost. che dovrà indicare espressamente
sia le norme implicitamente abrogate per effetto dell’entrata in vigore della l.c.
3/2001 sia quelle abrogate da successive disposizioni.
La legge 131/2003 prevede all’art.1 “Le disposizioni normative statali vigenti alla
data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla
legislazione regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna regione, fino alla data
di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia … , fatti salvi gli effetti di
eventuali pronunce della Corte costituzionale. Le disposizioni normative regionali
vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie
appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla
data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di
eventuali pronunce della Corte costituzionale”.
In relazione alle funzioni amministrative, l’art.118 Cost. ammette una doppia
lettura: quella secondo cui i comuni sono “titolari” di tutte le funzioni
amministrative, secondo il modello dei “poteri originari” e quella in forza della
quale le funzioni ed i poteri sono ad essi conferiti da Stato e regioni “poteri
derivati” (l’opinione comune in dottrina è quella secondo cui occorre una legge
per distribuire le funzioni, negando cioè che la Costituzione abbia direttamente
operato conferimenti di funzioni).
43
L’art.118 Cost. afferma che la distribuzione delle funzioni deve avvenire “sulla
base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
La Costituzione non contiene indicazioni chiare circa la fonte competente ad
operare questa “distribuzione” delle funzioni amministrative tra i vari livelli
territoriali.
La Corte Costituzionale, nella sentenza 303/2003 occupandosi della disciplina che,
per la realizzazione delle grandi opere, attribuisce importanti poteri al Governo, ha
ammesso che la legge statale possa conferire funzioni amministrative allo Stato
(ancorché relative a materia che rientrano nella potestà legislativa regionale).
Secondo la Corte, infatti, la possibilità di allocare la funzione, giustifica la
sussistenza della potestà legislativa statale di regolarne l’esercizio.
Lo spostamento della funzione, però, è subordinato al rispetto del metodo
dell’intesa con la Regione. La legge che conferisce funzioni e ne disciplina
l’esercizio, infatti, “deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la
partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale
collaborazione o, comunque, prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per
l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi
centrali”. Il conferimento è quindi possibile a condizione che un’intesa sia stata
raggiunta o tentata, ovvero venga prevista dalla legge in ordine al momento di
esercizio del potere amministrativo.
Alcune funzioni sono escluse da questo processo di distribuzione verso l’alto: si
tratta delle funzioni fondamentali degli enti locali, individuate e disciplinate
dalla legge statale.
La legge 131/2003 dispone ora all’art.7 che lo Stato e le regioni, “secondo le
rispettive competenze” provvedono a “conferire le funzioni amministrative da loro
esercitate alla data di entrata in vigore della presente legge, sulla base dei principi
di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, attribuendo a province, città
metropolitane, regioni e Stato soltanto quelle di cui occorra assicurare l’unitarietà
di esercizio, per motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell’azione
amministrativa ovvero per motivi funzionali o economici o per esigenze di
programmazione o di omogeneità territoriale, nel rispetto, anche ai fini
dell’assegnazione di ulteriori funzioni, delle attribuzioni degli enti di autonomia
funzionale, anche nei settori della promozione dello sviluppo economico e della
gestione dei servizi. Stato, regioni, città metropolitane, province, comuni e
comunità montane favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà”.
Ai fini del trasferimento, il Governo presenta al Parlamento uno o più disegni di
legge collegati alla manovra finanziaria annuale, per il recepimento degli accordi
con le regioni e le autonomie locali, da concludere in sede di Conferenza unificata,
diretti in particolare all’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane,
strumentali e organizzative necessarie per l’esercizio delle funzioni e dei compiti
da conferire.
Fino alla data di entrata in vigore di tali provvedimenti, le funzioni amministrative
continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni
vigenti, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale.
Le regioni dispongono di potestà legislative e amministrative.
L’art.117 Cost. prevede la potestà legislativa regionale c.d. concorrente
relativamente ad alcune materie e stabilisce che alle regioni “spetta” la “potestà
legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”.
Le regioni, ai sensi dell’art. 118 Cost., esercitano altresì funzioni amministrative
conferite ad esse “per esercitarne l’esercizio unitario” “sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”: si tratterà presumibilmente delle

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funzioni di indirizzo, di programmazione e di controllo. Esse dovranno comunque
essere individuate dalle leggi statali e regionali.
L’art. 121 Cost. prevede che il presidente della Giunta regionale “dirige le funzioni
amministrative delegate dallo Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del
governo della Repubblica”.
In ordine alle modalità di svolgimento delle funzioni, la Costituzione prevede pure
“intese con altre regioni” per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con
individuazione di organi comuni (art. 117, c.9).
Nelle materie di sua competenza, la regione può inoltre concludere accordi con
Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, “nei casi e con le forme
disciplinati da leggi dello Stato”.
Quanto ai limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni
amministrative, è stato configurato un potere governativo di indirizzo e
coordinamento “attinente ad esigenze di carattere unitario” (art.3 c.1 Legge
382/1975).
L’art.118, c.3 Cost. prevede oggi che la legge statale disciplini “forme di
coordinamento tra Stato e regioni” nelle materie dell’immigrazione e dell’ “ordine
pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”, nonché
“forme di intesa e coordinamento” nella materia dei beni culturali.

L’art. 2 T.U. enti locali precisa che, ai fini del T.U. medesimo, “si intendono per enti
locali i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le
comunità isolane e le unioni di comuni”. A tal riguardo, il T.U. enti locali estende la
propria disciplina ai consorzi cui partecipano enti locali (con esclusione di
quelli che gestiscono attività aventi rilevanza economica e imprenditoriale e, ove
previsto dallo statuto, dei consorzi per la gestione dei servizi sociali; per essi infatti
è prevista l’applicazione delle norme sulle aziende speciali all’art.31 ultimo
comma).
La disciplina del T.U. enti locali comprende, ai sensi dell’art.93, quella della
responsabilità patrimoniale dei dipendenti.

Un decisivo impulso al perfezionamento del sistema regionale fu rappresentato


dalla legge 59/1997, contenente delega al governo per il conferimento di funzioni
e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della pubblica
amministrazione e per la semplificazione amministrativa. In particolare, questa
legge diede attuazione al titolo V, come allora vigente, della Costituzione.
Il quadro costituzionale oggi è cambiato a seguito della promulgazione della Legge
Costituzionale 3/2001, ed occorrerà attendere il termine del processo di
conferimento regolato dalla Legge 131/2003 per poter compiutamente ridisegnare
la “mappa” delle funzioni.
La Legge 59/1997, nel conferimento delle funzioni e dei compiti, mirò a realizzare
una localizzazione territoriale delle funzioni e dei compiti amministrativi in ragione
della loro strumentalità rispetto agli interessi della collettività.
La legge utilizzò il termine conferimento comprensivo dei vari istituti mediante i
quali funzioni e compiti potevano essere assegnati, nel quadro costituzionale
allora vigente, a regioni, comuni, province, comunità montane e altri enti locali:
trasferimento, delega e attribuzione.
La legge si ispira in primo luogo al principio di sussidiarietà: l’art.1 comma 2
stabilisce che sono conferite alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni e i
compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello
sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti
amministrativi localizzabili nei rispettivi territori precisando che, ove possibile, le
responsabilità politiche debbono essere attribuite all’autorità territorialmente più
vicina ai cittadini interessati. Il conferimento deve avvenire rispettando inoltre i

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principi di completezza, di efficienza e di economicità, di cooperazione tra Stato,
regioni ed enti locali, di responsabilità ed unicità dell’amministrazione, di
omogeneità, di adeguatezza, di differenziazione nell’allocazione delle funzioni, di
copertura finanziaria e patrimoniale dei costi, di autonomia organizzativa e
regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle funzioni e dei
compiti amministrativi ad essi conferiti.
La legge mira ad imporre un criterio di riparto tra funzioni statali e regionali
improntato al principio secondo cui la competenza in generale è della regione, fatti
salvi i compiti e le funzioni statali attinenti ad una serie di materie indicate come
tali dal comma 3 dell’art.1. Esse sono: affari esteri e commercio estero; difesa,
forze armate, armi e munizioni, esplosivi e materiale strategico; rapporti tra lo
Stato e le confessioni religiose; tutela dei beni culturali e del patrimonio storico-
artistico; cittadinanza, immigrazione, rifugiati e asilo politico, estradizione;
consultazioni elettorali ed elettorato; moneta, perequazione delle risorse
finanziarie, sistema valutario e banche; dogane, protezione dei confini nazionali e
profilassi internazionale; ordine pubblico e sicurezza pubblica; amministrazione
della giustizia; poste e telecomunicazioni; previdenza sociale; ricerca scientifica;
istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici,
organizzazione generale dell’istruzione scolastica e stato giuridico del personale;
vigilanza in materia di lavoro e cooperazione; trasporti aerei, marittimi e ferroviari
di interesse nazionale.
L’art.1 comma 6 chiarisce che “la promozione dello sviluppo economico, la
valorizzazione dei sistemi produttivi e la promozione della ricerca applicata sono
interessi pubblici primari dello stato, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti
locali assicurano nell’ambito delle rispettive competenze, nel rispetto delle
esigenze della salute, della sicurezza pubblica e della tutela dell’ambiente”.
In attuazione della l.59/1997 è stato emanato il d.lgs 112/1998, che ha proceduto
ad operare il conferimento di funzioni e compiti. Le materie interessate dal
conferimento sono: sviluppo economico e attività produttive, territorio, ambiente e
infrastrutture, servizi alla persona e alla comunità, polizia amministrativa regionale
e locale.
Il conferimento comprende anche le funzioni di organizzazione e le attività
connesse e strumentali all’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti, quali fra
gli altri, quelli di programmazione, di vigilanza, di accesso al credito, di polizia
amministrativa, nonché l’adozione di provvedimenti contingibili e urgenti previsti
dalla legge (Art.1 comma 2 D.Lgs 112/1998).
La c.d. legge Bassanini (L.59/1997), riformando l’amministrazione a Costituzione
invariata, non poteva ampliare la potestà legislativa della regione, ma soltanto
incidere sui suoi compiti amministrativi.
Al fine di rispettare, o recuperare, il parallelismo tra funzioni amministrative e
funzioni legislative all’art.2 prevedeva che “la disciplina legislativa delle funzioni e
dei compiti conferiti alle regioni ai sensi della presente legge spetta alle regioni
quando è riconducibile alle materie di cui all’art.117, primo comma, della
Costituzione. Nelle restanti materie spetta alle regioni il potere di emanare norme
attuative ai sensi dell’art. 117, secondo comma della Costituzione”.
L’art.5 D.Lgs 112/98, prevede un potere sostitutivo in relazione alle funzioni e ai
compiti spettanti alle regioni e agli enti locali “in caso di accertata inattività che
comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione
europea o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali”.
Il nuovo testo dell’art.120 Cost. disciplina il potere sostitutivo del governo nei
confronti degli “organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei
comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della
normativa comunitaria oppure di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza
pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’utilità

46
economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi
locali”. Ai sensi dell’ultimo comma, la legge “definisce le procedure atte a
garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto de principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
Le disposizioni attuative sono state poste dall’art.8, legge 131/2003, che introduce
tra l’altro i seguenti principi: i provvedimenti sostitutivi devono essere
proporzionati alle finalità perseguite, all’ente interessato deve essere assegnato
un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari, decorso
inutilmente il quale il Governo adotta i provvedimenti necessari, anche normativi,
ovvero nomina un apposito commissario.
La normativa prevedeva che il decentramento avvenisse anche da parte delle
regioni a favore di province, comuni e altri enti locali.
L’art. 4 comma 1 legge 59/1997 stabilisce che la regione conferisca a tali ultimi
enti “tutte le funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale”.
Ai sensi del comma 5 di tale legge “ciascuna regione adotta, entro sei mesi
dall’emanazione di ciascun decreto legislativo, la legge di puntuale individuazione
delle funzioni trasferite o delegate agli enti locali e di quelle mantenute in capo
alla regione stessa. Qualora la regione non provveda entro il termine indicato, il
governo è delegato a emanare, entro i successivi novanta giorni, sentite le regioni
inadempienti, uno o più decreti legislativi di ripartizione di funzioni tra regioni ed
enti locali, le cui disposizioni si applicano fino alla data di entrata in vigore della
legge regionale”.
La riforma “Bassanini” si occupa anche dei già citati poteri di indirizzo, di
coordinamento e di direttiva, stabilendo che “gli atti di indirizzo e
coordinamento delle funzioni amministrative regionali, gli atti di coordinamento
tecnico, nonché le direttive relative all’esercizio delle funzioni delegate, sono
adottati previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, o con la singola regione
interessata”.

I rapporti con lo Stato e l’autonomia contabile della regione.


La Corte costituzionale ha individuato, quale principio generale al quale
dovrebbero essere improntati i rapporti tra Stato e regione nelle ipotesi in cui si
verifichino interferenze tra rispettive competenze, quello della leale
cooperazione, ribadito anche dall’art.4 della L.59/1997, il quale implica che i
poteri siano esercitati in base ad accordi ed intese.
Va poi richiamata l’istituzione della Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, la regione e le province autonome, “con compiti di informazione,
consultazione e raccordo, in relazione agli indirizzi di politica generale suscettibili
di incidere nelle materie di competenza regionale”.
Con d.p.c.m. 2 luglio 1996 è stata istituita la Conferenza Stato – città –
autonomie locali, con compiti “di coordinamento nei rapporti tra lo Stato e le
autonomie locali, e di studio, informazione e confronto sulle problematiche
connesse agli indirizzi di politica generale che possono incidere sulle funzioni
proprie dei comuni e province e quelle delegate ai medesimi enti dallo Stato”.
Le conferenze citate sono organi statali, anche se sono a composizione mista.
L’art.9 della Legge 59/1997, contiene una delega al governo ad emanare un
decreto legislativo, volta a definire ed ampliare le attribuzioni della Conferenza
permanente, “unificandola, per le materie e i compiti di interesse comune delle
regioni, delle province e dei comuni, con la conferenza Stato- Città e autonomie
locali.

47
La delega è stata esercitata con D.Lgs 281/1997, il quale disciplina i compiti della
Conferenza Stato-regioni, della Conferenza Stato-Città ed autonomie locali e della
Conferenza unificata.
In ordine al potere di annullamento governativo degli atti amministrativi regionali,
deve essere ricordato che a garanzia dell’autonomia costituzionalmente
riconosciuta alle regioni, il potere di annullamento da parte del governo non è
esercitatile nei confronti degli atti amministrativi regionali (a seguito di
dichiarazione di incostituzionalità della Corte costituzionale dell’art. 2 comma 3
lettera p della L.400/1988).
Ai sensi dell’art.125 Cost. gli atti amministrativi delle regioni erano soggetti al
controllo di legittimità esercitato da un organo dello Stato.
Oggi l’art. 125 Cost è stato abrogato dalla L.cost. 3/2001 e l’opinione dominante è
nel senso che i controlli in esame siano stati eliminati.
Ai sensi dell’art. 3 comma 4 della Legge 20/1994, il controllo sulla gestione del
bilancio e del patrimonio esercitato dalla Corte dei conti anche nei confronti
delle amministrazioni regionali “concerne il perseguimento degli obiettivi stabiliti
dalle leggi di principio e di programma”.
Per quanto attiene il controllo sugli organi, l’art.126 Cost. come sostituito dalla
L.Cost. 1/1999, prevede la possibilità che il consiglio regionale venga sciolto
(potere mai esercitato fino ad oggi) e il presidente della giunta rimosso con
decreto del Presidente della Repubblica, sentita una commissione di deputati e
senatori costituita per le questioni regionali, quando abbiano compiuto atti contrari
alla Costituzione o gravi violazioni di legge.
Lo scioglimento e la rimozione possono essere disposti anche per ragioni di
sicurezza nazionale, per l’approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti del
presidente della giunta eletto a suffragio universale diretto, nonché la rimozione,
l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso
comportano le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio. I medesimi
effetti conseguono alle dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il
consiglio.
In ordine ai rapporti finanziari tra Stato e regione, ai sensi dell’art. 199 Cost. le
regioni, così come comuni, province e città metropolitane, hanno autonomia
finanziaria “di entrata e di spesa”. Esse “stabiliscono e applicano tributi ed entrate
propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al
gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.
Le regioni e gli enti locali possono ricorrere all’indebitamento “solo per finanziare
spese di investimento”, escludendosi “ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli
stessi contratti”.
La regione ha un bilancio autonomo rispetto a quello statale. Il D.lgs. 76/2000,
chiarito che “la finanza regionale concorre con la finanza statale e locale al
perseguimento degli obiettivi di convergenza e di stabilità derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea ed opera in coerenza con i
vincoli che ne derivano in ambito nazionale” (patto di stabilità), adegua il sistema
contabile delle regioni a quello dello Stato.
La regione dispone infine di un proprio patrimonio.

L’organizzazione regionale.
Il consiglio regionale esercita le potestà legislative e le altre funzioni ad esso
conferite dalla Costituzione e dalle leggi.
La giunta regionale è l’organo esecutivo, esercita potestà regolamentare e
dispone anche di poteri di impulso e di iniziativa legislativa.
Il presidente della giunta regionale rappresenta la regione; dirige la politica
della giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti
48
regionali; dirige le funzioni amministrative delegate ed emana i regolamenti
regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla regione,
conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica (art.121 Cost.).
Ai sensi dell’art.123 Cost. la forma di governo di ciascuna regione è determinata
dallo statuto.
Il presidente della giunta regionale è eletto a suffragio universale e diretto (salvo
che lo statuto disponga diversamente); il presidente nomina e revoca i componenti
della giunta.
Sul piano della legislazione ordinaria, l’art.4 del T.U. enti locali, consente alla
regione di organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale
attraverso i comuni e le province.
Atteso che la regione dispone pure di funzioni amministrative, esiste anche un
apparato amministrativo regionale, che si distingue in centrale e periferico.
La regione può avvalersi anche di enti dipendenti, che si caratterizzano anche e
soprattutto sotto il profilo squisitamente strutturale come uffici regionali entificati,
ai quali residua in linea di massima una ridotta autonomia (un esempio è costituito
dai consorzi di bonifica).
Tra i soggetti di diritto pubblico operanti nell’ambito dell’organizzazione regionale,
particolarmente importanti sono le aziende sanitarie locali, aventi il compito di
assicurare livelli di assistenza sanitaria uniforme nel proprio ambito territoriale,
qualificate come aziende dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia
organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
Le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziarie regionali il
cui oggetto rientri nelle materie regionali. In particolare, le società finanziarie
regionali sono state create con lo scopo di porre a disposizione degli imprenditori
operanti nell’ambito delle regioni aiuti finanziari, nonché servizi, assistenza,
consulenza e sostegno.
L’art. 16 della Legge 127/1997 prevede la presenza di difensori civici regionali.

La posizione e le funzioni degli enti locali.


I comuni, le province e le città metropolitane rappresentano ulteriori livelli di
autonomia riconosciuti espressamente dalla Costituzione, anche in considerazione
dell’art.5 Cost. ai sensi del quale la Repubblica “riconosce e promuove” le
autonomie locali.
Essi, denominati “enti locali” sono al pari delle regioni, assieme alla quale formano
la categoria dei “governi locali” (art. 120 Cost.), “enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114 Cost.).
L’art. 118 Cost. dispone che “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni
salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città
metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”.
L’art. 114 Cost. riconosce una peculiare posizione a Roma, definita capitale della
Repubblica, la disciplina del cui ordinamento è affidata a legge dello Stato.
La legge 142/1990 ha riconosciuto potestà statutaria a comuni e province, ed ha
affermato che le regioni costituiscono “il centro propulsore dell’intero sistema
delle autonomie locali”.
Il T.U. enti locali stabilisce inoltre i principi di cooperazione e della
programmazione economico-sociale e territoriale. Questa norma prevede che i
comuni e province concorrano alla determinazione dei piani e dei programmi dello
Stato e delle regioni e demanda alla legge regionale il compito di stabilire “forme
e modi della partecipazione degli enti locali alla formazione dei piani e dei
programmi regionali e degli altri provvedimenti stabiliti dalla regione”.
Il T.U. enti locali, oltre a riconoscere che “le comunità locali, ordinate in comuni e
province, sono autonome” (art.3), dispone che “i comuni e le province hanno
49
autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa, nonché
autonomia impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti e
delle leggi di coordinamento della finanza pubblica”.

Le funzioni del comune


Ai sensi dell’art. 118 Cost., ai comuni sono attribuite le “funzioni amministrative”:
questa è la regola cui si può derogare soltanto per “assicurare l’esercizio unitario”.
Il c.2 specifica che comuni, province e città metropolitane “sono titolari di funzioni
amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo
le rispettive competenze”.
Esistono poi delle funzioni “fondamentali”. Si tratta dello strumento mediante il
quale lo Stato può sottrarre alcuni ambiti al processo di conferimento secondo la
linea ascendente o discendente : ai sensi dell’art.117 c.2 lett. p Cost. infatti, la loro
disciplina è rimessa a legge dello Stato. L’individuazione di tali funzioni spetta al
Governo un virtù della delega conferita con l.131/2003 che fa riferimento ai
seguenti elementi: l’essenzialità per il funzionamento di comuni, province e città
metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di
riferimento e la circostanza che esse siano “connaturate alle caratteristiche
proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento
dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento,
tenuto conto, in via prioritaria, per comuni e province, delle funzioni storicamente
svolte”.
Secondo quanto dispone il c.6 dell’art. 117 Cost., comuni, province e città
metropolitane hanno inoltre “potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
Per quanto attiene alla vigente legislazione ordinaria, l’art. 3 t.u., definisce il
comune come “l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli
interessi e ne promuove lo sviluppo”.
L’art.13, anticipando il disegno poi recepito dalla recente riforma costituzionale,
attribuisce al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la
popolazione ed il territorio comunale nei settori organici dei servizi sociali,
dell’assetto e dell’utilizzo del territorio e dello sviluppo economico.
La disposizione va interpretata alla luce del nuovo art.118 Cost., ai sensi del quale
lo Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni “favoriscono l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Il comune “gestisce” alcuni servizi di competenza statale. In realtà, mentre la
titolarità delle funzioni spetta allo Stato, l’esercizio delle stesse è demandato al
sindaco, quale ufficiale del Governo (art.14). Il sindaco si presenta in queste
occasioni come organo dello Stato: solo in tal modo si giustificano i poteri di
ispezione previsti in capo al prefetto (art.54), che sarebbero viceversa
incompatibili con riferimento ai poteri attribuiti direttamente ed in proprio all’ente
comune.
In tema di funzioni va infine aggiunto che il T.U. consente agli enti locali di
disciplinare mediante proprio statuto le funzioni delle unioni dei comuni (art.32) e
dei municipi (art.16) e di proporre lo statuto della città metropolitana con
l’indicazione delle sue funzioni.
Importanti funzioni sono state conferite al comune in relazione all’istituto dello
sportello unico per le attività produttive.

Le funzioni della provincia


L’art. 3 T.U. definisce la provincia come ente intermedio tra comune e regione, che
rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne coordina lo sviluppo.

50
L’art. 19 attribuisce a tale ente le funzioni amministrative di interesse provinciale,
che riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale, relative ad
una serie di settori specifici e tassativamente indicati.
Le province, alla luce dell’art. 118 Cost., sono riconosciute come titolari di funzioni
amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo
le rispettive competenze.
La provincia assume particolare rilievo anche nel settore ambientale: la l.61/1994
stabilisce che le regioni devono provvedere ai sensi dell’art.3 L.142/1990 (ora art.4
T.U.) all’organica ricomposizione in capo alle province delle funzioni
amministrative in materia ambientale e che, in attesa di tali leggi regionali, le
province esercitano le funzioni amministrative di autorizzazione e controllo per la
salvaguardia dell’igiene dell’ambiente già di competenza delle unità sanitarie
locali.
Gli artt. 19 e 20 T.U. affidano altresì alla provincia compiti in tema di promozione e
coordinamento di attività e di realizzazione di “opere di rilevante interesse
provinciale sia nel settore economico , produttivo, commerciale e turistico, sia in
quello sociale, culturale e sportivo”, nonché compiti di programmazione e
pianificazione territoriale.

L’organizzazione di province e comuni


La legge dello Stato disciplina gli organi degli enti locali.
Con riferimento ai comuni, essa definisce espressamente come “organi di
governo” il sindaco, il consiglio e la giunta (art. 36 T.U. enti locali): in seno alle
autonomie esistono anche altri organi come il direttore generale, i dirigenti, i
revisori dei conti.
Il T.U. detta norme sull’elezione dei consigli, sul numero dei consiglieri e sulla loro
posizione giuridica.
Gli organi di governo durano in carica cinque anni (art.51 T.U.).
Il sindaco (o il presidente della provincia) è l’organo responsabile
dell’amministrazione del comune (o della provincia). Esso rappresenta l’ente,
convoca e presiede la giunta e sovrintende al funzionamento dei servizi e degli
uffici e all’esecuzione degli atti, sovrintende all’espletamento delle funzioni statali
e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia.
Non è rieleggibile immediatamente il sindaco o il presidente della provincia che
abbia ricoperto la carica per due mandati consecutivi (è peraltro consentito un
terzo mandato consecutivo se uno dei due mandati precedenti ha avuto durata
inferiore a due anni, sei mesi e un giorno, per causa diversa dalle dimissioni
volontarie).
Il sindaco e il presidente dalla provincia provvedono alla nomina, alla designazione
e alla revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende
ed istituzioni.
Il consiglio comunale (o il consiglio provinciale) è l’organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo. Esso ha competenza limitatamente ad alcuni atti
fondamentali indicati dalla legge (tra questi gli statuti, i regolamenti, i piani
territoriali ed urbanistici, i piani particolareggiati e di recupero, l’assunzione dei
pubblici servizi, gli indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli
enti dipendenti sovvenzionati o sottoposti a tutela, gli acquisti e alienazioni
immobiliari; ha inoltre competenza in tema di istituzione, disciplina di compiti e
norme di funzionamento degli organismi di decentramento e degli organismi di
partecipazione popolare).
Il sindaco (o il presidente della provincia) sentita la giunta, nel termine fissato
dallo statuto, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai
progetti che intende realizzare mentre spetta allo statuto disciplinare i modi di

51
partecipazione del consiglio alla definizione, all’adeguamento e alla verifica
periodica delle linee programmatiche.
I consigli provinciali e i consigli comunali dei comuni con popolazione superiore ai
15.000 abitanti sono presieduti da un presidente eletto tra i consiglieri nella prima
seduta, cui sono attribuiti autonomi poteri di convocazione e di direzione dei lavori
e delle attività del consiglio (per i restanti comuni la figura del presidente può
essere prevista dallo statuto; in caso contrario la presidenza spetta al sindaco). Il
consiglio si avvale, quando lo prevede lo statuto, di commissioni costituite nel
proprio seno con criterio proporzionale. Il funzionamento dei consigli è disciplinato
con regolamento approvato a maggioranza assoluta e sottratto al controllo
preventivo di legittimità.
I consigli sono dotati di autonomia funzionale e organizzativa. Lo statuto disciplina
i casi di decadenza per la mancata partecipazione e le relative procedure e
individua le “forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, prevedendo
l’attribuzione alle opposizioni della presidenza di commissioni consiliari aventi
funzione di controllo o di garanzia, ove costituite”.
La giunta comunale (e la giunta provinciale) è l’organo a competenza
residuale. Essa collabora con il sindaco o con il presidente della provincia
nell’amministrazione del comune o della provincia, attua gli indirizzi generali del
consiglio e svolge attività propositiva e di impulso nei confronti del consiglio. Il
sindaco e il presidente della provincia nominano i componenti della giunta, tra cui
un vicesindaco e un vicepresidente, e ne danno comunicazione al consiglio nella
prima seduta successiva alla elezione. Di rilievo è il compito consistente
nell’adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto
dei criteri generali stabiliti dal consiglio. Tale regolamento disciplina anche le
dotazioni organiche, le modalità di assunzione agli impieghi, i requisiti di accesso e
le modalità concorsuali.
L’art. 53 L.388/2000 e succ. mod. ammette che negli enti locali con popolazione
inferiore ai 5000 abitanti, anche al fine di operare un contenimento della spesa, il
regolamento degli uffici e dei servizi preveda l’attribuzione ai “componenti
dell’organo esecutivo” della “responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale”.
Ai sensi dell’art.90 T.U. alle dirette dipendenze del sindaco (o del presidente della
provincia), della giunta o degli assessori possono essere costituiti, ove previsti dal
regolamento degli uffici e dei servizi, “uffici di supporto” per l’esercizio delle
funzioni di indirizzo e di controllo.
Il numero degli assessori, comunque non superiore a un terzo del numero dei
consiglieri, è fissato dallo statuto, il quale può anche limitarsi ad individuarne il
massimo. Nei comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti e nelle province
gli assessori sono nominati anche al di fuori dei componenti il consiglio. Sindaco e
presidente possono anche revocare gli assessori, dandone motivata
comunicazione al consiglio. In caso di approvazione della mozione di sfiducia nei
confronti del sindaco (o del presidente della provincia) e della giunta, il sindaco, il
presidente della giunta e le rispettive giunte cessano dalla carica e si procede allo
scioglimento del consiglio e alla nomina di un commissario. La giunta decade pure
nel caso di dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso
del sindaco o del presidente della provincia (in tale ipotesi si procede altresì allo
scioglimento del consiglio, ma consiglio e giunta rimangono in carica sino alla
elezione del nuovo sindaco o presidente della provincia; sino alle elezioni, le
funzioni del sindaco e del presidente della provincia sono svolte dal vicesindaco o
dal vicepresidente). Lo scioglimento del consiglio determina in ogni caso la
decadenza del sindaco o del presidente della provincia, nonché delle relative
giunte.

52
Il sindaco e il presidente della provincia sono eletti a suffragio universale e diretto
dai cittadini.
Nei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti l’elezione dei consiglieri
comunali si effettua con il sistema maggioritario; il sindaco viene eletto
contestualmente e la sua candidatura è collegata a una lista di candidati alla
carica di consigliere; è eletto sindaco il candidato che abbia ottenuto il maggior
numero di voti, mentre in caso di parità di voti si procede al ballottaggio tra i due
candidati cha abbiano ottenuto il maggior numero di voti; alla lista collegata al
candidato eletto sindaco sono attribuiti i due terzi dei seggi consiliari, mentre i
restanti seggi sono ripartiti secondo un criterio proporzionale tra le liste.
Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti è previsto un sistema
proporzionale con un premio di maggioranza; il sindaco è eletto con un doppio
turno elettorale, con un ballottaggio tra i due candidati che abbiano ottenuto il
maggior numero di voti, salvo il caso in cui nella prima tornata un candidato abbia
ottenuto la maggioranza assoluta dei voti (in questo caso tale candidato è eletto
sindaco e alla lista a lui collegata viene assegnato il 60 % se ha ottenuto almeno il
40 % dei voti validi e se nessuna altra lista abbia superato il 50 % dei voti validi).
Il sindaco, dopo la proclamazione, giura dinanzi al consiglio.
L’elezione del presidente della provincia è a suffragio universale e diretto, con
doppio turno e ballottaggio tra i due candidati che abbiano ottenuto il maggior
numero di voti, sempre che un candidato non abbia ottenuto la maggioranza
assoluta dei voti validi.
L’elezione del consiglio provinciale avviene sulla base di collegi uninominali: al
gruppo o ai gruppi di candidati collegati al candidato eletto presidente è
comunque assegnato il 60% dei seggi, mentre i restanti sono attribuiti
proporzionalmente agli altri gruppi di candidati.
I dirigenti, i quali svolgono la propria attività sulla base di incarichi a tempo
determinato, sono responsabili, in relazione agli obiettivi dell’ente, della
correttezza amministrativa e dell’efficienza della gestione ed hanno tutti i compiti
di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con atti di indirizzo adottati
dall’organo politico: ad essi spetta in particolare l’adozione dei provvedimenti “in
attuazione degli obiettivi”, nonché la direzione degli uffici e dei servizi secondo i
criteri e le norme dettate dagli statuti e dai regolamenti. Ai dirigenti è attribuita la
gestione amministrativa, finanziaria e tecnica “mediante autonomi poteri di spesa,
di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo”. I dirigenti, sulla
base dello statuto e del regolamento, possono esercitare funzioni delegate dal
sindaco.
L’art. 108 infine, ammette che il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai
15000 abitanti e il presidente dalla provincia, previa deliberazione della giunta
comunale o provinciale, possano nominare, secondo criteri stabiliti dal
regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, un direttore generale al
di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato. Egli può
essere revocato dal sindaco (o dal presidente) previa deliberazione della giunta.
La durata del suo incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco o del
presidente: tale organo costituisce quindi una sorta di fiduciario del sindaco,
incaricato di gestire i collegamenti tra livello politico e livello gestionale; più in
particolare, il direttore provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli
organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal
presidente della provincia e sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo
obiettivi ottimali di efficacia e di efficienza (in particolare, esso predispone un
piano dettagliato di obiettivi e propone il piano esecutivo di gestione, che la
giunta, sulla base del bilancio di previsione annuale, deve definire prima dell’inizio
dell’esercizio).

53
Nei comuni con popolazione inferiore ai 15000 abitanti è consentito procedere alla
nomina del direttore generale previa stipula di convenzioni tra comuni, le cui
popolazioni assommate raggiungano i 15000 abitanti.
Al vertice della struttura burocratica dell’ente locale era tradizionalmente collocato
il segretario, organo alle dipendenze dello Stato e nominato dall’amministrazione
degli interni. Con la riforma del T.U. tale organo, pur legato da un rapporto
funzionale con l’ente a tempo determinato, dipende da apposita agenzia avente
personalità giuridica di diritto pubblico sottoposta alla vigilanza del ministero
dell’interno, ed è nominato dal sindaco (o dal presidente della provincia) tra gli
iscritti in apposito albo, per la durata del mandato di sindaco (o del presidente
della provincia). Il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del
sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per
violazione dei doveri d’ufficio. I poteri disciplinari sono invece attribuiti all’agenzia.
Il nuovo sindaco (o presidente) può riconfermare il segretario, ovvero nominarne
uno nuovo non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dal suo
insediamento; decorso il termine di centoventi giorni senza nuova nomina, il
precedente segretario è confermato.
Il segretario non confermato, revocato o comunque privo di incarico è collocato in
posizione di disponibilità per la durata massima di 4 anni, decorsi i quali senza
avere preso servizio in altra sede viene collocato d’ufficio in mobilità presso altre
amministrazioni.
Il segretario “svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-
amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità
dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti” (art.97 T.U.).
Tale organo partecipa, con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle
riunioni del consiglio e della giunta e ne cura la verbalizzazione; può rogare tutti i
contratti nei quali l’ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali
nell’interesse dell’ente; esercita inoltre ogni altra funzione attribuitagli dallo
statuto e dai regolamenti, oppure conferitagli dal sindaco o dal presidente della
provincia.
Il segretario, in relazione alle sue competenze, rende il parere di regolarità
tecnico-contabile sulle proposte di deliberazione sottoposte alla giunta ed al
consiglio allorché l’ente non abbia funzionari responsabili dei relativi servizi.
Il segretario non può trovarsi in posizione subordinata rispetto al direttore
generale, anche perché le funzioni svolte sono tendenzialmente differenti: al
segretario spetta garantire la legittimità, l’economicità e l’efficacia dell’azione
amministrativa; il direttore è responsabile dell’attività gestionale in ordine al
raggiungimento degli obiettivi dell’ente.

I controlli sugli atti e sugli organi degli enti locali.


Al fine di capire il grado di autonomia di cui godono province e comuni, occorre
osservare che in forza dell’abrogazione dell’art.130 Cost, operata dalla legge Cost.
3/2001, i controlli necessari sugli atti degli enti locali sono stati eliminati.
In origine, gli enti locali subivano una notevole ingerenza da parte del governo
centrale.
L’art. 138 T.U. annovera tra i controlli l’annullamento straordinario
governativo; la Sezione Enti Locali della Corte dei Conti verifica l’operato
attraverso i revisori dei conti, mentre l’art. 147 T.U. impone agli enti locali di
effettuare dei controlli interni consentendo anche di stipulare convenzioni tra
più enti per l’istituzione di uffici unici per l’effettuazione dei controlli stessi.
Per quel che concerne il controllo sugli organi, la normativa al momento in vigore
attribuisce il potere di scioglimento dei consigli comunali e provinciali in
capo al Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno.

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Le cause di scioglimento, relative a situazioni di grave deviazione funzionale
dell’organo, sono:
a) il compimento di atti contrari alla Costituzione, gravi e persistenti violazioni
di legge, gravi motivi di ordine pubblico;
b) l’impossibilità di assicurare il normale funzionamento degli organi e dei
servizi per dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza,
decesso del sindaco o del presidente della provincia, per cessazione dalla
carica per dimissioni di almeno la metà più uno dei consiglieri (le dimissioni
debbono essere contestuali ovvero presentate contemporaneamente al
protocollo, al fine di rendere evidente la volontà della maggioranza di
dissolvere l’organo), riduzione dell’organo assembleare per impossibilità di
surroga alla metà dei componenti il consiglio;
c) la mancata approvazione del bilancio nei termini (in questa ultima ipotesi è
prevista la nomina di un commissario).

I rapporti finanziari e la contabilità nei comuni e nelle province.


Alla Commissione per la finanza e gli organici degli enti locali, organo
statale presieduto dal sottosegretario di Stato al ministero dell’interno con delega
per l’amministrazione civile, spetta il controllo centrale sulle dotazioni organiche,
sulle loro modificazioni e sui provvedimenti di assunzione degli enti dissestati o
strutturalmente deficitari, e spetta anche l’esercizio di poteri consultivi in ordine
ad alcune fasi del procedimento di dissesto.
L’art. 234 T.U. stabilisce che la revisione economico-finanziaria sia affidata ad un
collegio dei revisori dei conti che esprime “proposte tendenti a conseguire una
migliore efficienza, produttività ed economicità della gestione”.
Ai sensi dell’art. 49 T.U. “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta
ed al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in
ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e,
qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di
ragioneria in ordine alla regolarità contabile”. Il parere di regolarità è reso, in
relazione alle sue competenze, dal segretario allorché l’ente non abbia funzionari
responsabili dei relativi servizi.
L’art. 28 L.448/1998 estende il patto di stabilità assunto dal Governo in sede
comunitaria non solo alle regioni, ma anche a province, comuni, e comunità
montane: tali enti debbono dunque ridurre il disavanzo annuo e il rapporto tra
l’ammontare del debito e il prodotto interno lordo. In caso di sanzione per
l’accertamento di deficit eccessivo, la sanzione stessa sarà a carico degli enti che
non hanno realizzato gli obiettivi per la quota ad essi imputabile.
La legge prevede anche un sistema di controllo-conoscenza: l’art.24 della Legge
448/2001 dispone infatti che “al fine di consentire il monitoraggio del relativo
fabbisogno e degli adempimenti relativi al patto di stabilità interno, le regioni e le
province autonome di Trento e Bolzano, le province e i comuni con popolazione
superiore a 60.000 abitanti devono trasmettere trimestralmente al Ministero
dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato, entro venti giorni dalla fine del periodo di riferimento, le informazioni sugli
incassi e sui pagamenti effettuati”.

Gli istituti di partecipazione negli enti locali.


L’art. 8 T.U. disciplina gli istituti di partecipazione, specificando che i comuni (si
noti, non le province) valorizzano le libere forme associative e promuovono gli
organismi di partecipazione all’amministrazione locale.
Si riconosce il potere per gli interessati di partecipare al procedimento
amministrativo relativo all’adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche
soggettive e prevede forme di consultazione della popolazione e procedure per
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l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati
dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi, nonché
la possibilità che lo statuto disciplini il referendum, anche su richiesta di un
adeguato numero di cittadini.
La consultazione è volta ad acquisire l’orientamento non vincolante dell’elettorato
in relazione ad alcuni problemi di interesse generale, ma soltanto istanze e
proposte fanno sorgere l’obbligo di procedere (le petizioni non hanno questo
effetto).
L’istituto del referendum è in generale caratterizzato dal fatto che la relativa
richiesta proviene dagli elettori, ma l’art.8 non esclude che la sua indizione possa
essere proposta dagli organi comunali.
Il limite per il ricorso ai referendum è caratterizzato dalla previsione che debbono
essere attinenti alle materie di esclusiva competenza locale e che essi non
abbiano luogo in coincidenza con operazioni elettorali provinciali, comunali e
circoscrizionali.
Lo statuto promuove anche altre forme di partecipazione alla vita pubblica locale
di cittadini dell’unione europea e degli stranieri regolarmente soggiornanti.
Tra gli istituti di partecipazione sono ricompresi:
- l’azione popolare (ogni elettore può far valere in giudizio le azioni e i
ricorsi che spettano al comune: in caso di soccombenza le spese sono a carico
dell’elettore, salvo che il comune, costituendosi, abbia aderito all’azione);
- il diritto di accesso agli atti amministrativi (eccetto quelli riservati
per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata
dichiarazione del sindaco o del presidente della provincia che ne vieti
l’esibizione, conformemente a quanto stabilito dal regolamento, in quanto la
loro diffusione può pregiudicare il diritto alla riservatezza delle persone, dei
gruppi o delle imprese);
- il diritto di accesso alle informazioni di cui è in possesso
l’amministrazione, alle strutture ed ai servizi degli enti, alle organizzazioni di
volontariato e alle associazioni (a seguito riforma operata dalla L.Cost. 3/2001
la materia degli istituti di partecipazione rientra ora nella potestà legislativa
delle regioni).

Territorio e forme associative.


Il territorio è elemento costitutivo del comune, considerato ente a fini generali; la
regione con propria legge, sentite le popolazioni interessate, istituisce nuovi
comuni e può modificare le loro circoscrizioni e la loro denominazione (art. 133
Cost.).
L’art. 15 T.U. prevede che “salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono
essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui
costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale
limite”.
La potestà delle regioni di procedere alla fusione di comuni è espressamente
contemplata dall’art.15 T.U. commi 1 e 2.
La legge regionale che istituisce nuovi comuni deve stabilire che “alle comunità di
origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di
decentramento”.
Lo statuto comunale – e non la legge regionale – può a sua volta contemplare
l’istituzione di municipi (art.16) nei territori interessati dal processo di istituzione
di nuovi comuni a seguito di fusione decisa dalla regione (fino ad oggi
quest’istituto non ha trovato applicazione).
La legge contempla poi le unioni di comuni, enti locali costituiti da due o più
comuni di norma contermini “allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità

56
di funzioni di loro competenza” (art.32). Una particolare forma di unione è
costituita dalla comunità montana.
Le unioni possono essere promosse dalla regione “senza alcun vincolo alla
successiva fusione” (art. 33).
L’art. 33, nello stabilire i principi fondamentali ai quali dovranno attenersi le leggi
regionali chiamate a disciplinare le forme di incentivazione dell’esercizio
associato delle funzioni da parte dei comuni, afferma che occorre prevedere
“una maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di fusione e di unione, rispetto alle
altre forme di gestione sovracomunale”.
Le forme associative previste dal T.U. possono essere ordinate come segue:
- accordi di programma, per la definizione e l’attuazione di opere e di
interventi (art.34);
- convenzioni, al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi
determinati (art.30);
- uffici comuni, istituiti mediante convenzione, ai quali affidare
l’esercizio delle funzioni pubbliche – e non già dei servizi - , spogliandosi così
del compito di gestione diretta;
- delega, (ad un solo ente dell’esercizio delle funzioni);
- consorzi (soggetti distinti dagli enti che li costituiscono per la
gestione associata di uno o più servizi e per l’esercizio di funzioni);
- esercizio associato di funzioni e servizi;
- unioni di comuni (che danno luogo alla creazione di un ente locale).
L’ordinamento consente per i comuni con popolazione tra i 30.000 ed i 100.000
abitanti l’articolazione del territorio comunale in circoscrizioni, definite come
“organismi di partecipazione, di consultazione e di gestione dei servizi di base,
nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune”.
L’articolazione in circoscrizioni è obbligatoria per i comuni con popolazione
superiore ai 100.000 abitanti. Nei comuni con popolazione superiore ai 300.000
abitanti lo statuto può prevedere particolare e più accentuate forme di
decentramento e di autonomia.
Lo statuto disciplina le forme di elezione, organizzazione e le funzioni della
circoscrizione.
L’art. 53 T.U. enti locali consente al sindaco di delegare ad un consigliere
comunale l’esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri o nelle
frazioni.

Città metropolitane e comunità montane.


L’art. 114 Cost. qualifica le città metropolitane come enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione alla stessa
stregua delle regioni, delle province e dei comuni.
La città metropolitana, titolare anche di potestà normative, è poi ricompresa tra gli
enti locali, come sembra risultare dall’ultimo comma dell’art. 123 Cost.
A questo ente potranno essere attribuite notevoli funzioni amministrative ai sensi
dell’art. 118 Cost.
La Legge 131/2003, nel conferire al Governo il potere di emanare uno o più decreti
legislativi al fine di dare attuazione all’art. 117 Cost., indica, tra i criteri ed i
principi direttivi, quello di adeguare i procedimenti di istituzione della città
metropolitana al disposto dell’art. 114 Cost.
In attesa di tali decreti, è utile analizzare l’attuale disciplina posta della legge
ordinaria.
Il T.U. prevede la figura dell’area metropolitana (non città metropolitana),
disciplinata dagli articoli 22 e seguenti.
Le aree metropolitane (comprendenti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova,
Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli) sono indicate dallo stesso t.u.
57
La regione procede alla delimitazione territoriale dell’area metropolitana.
L’amministrazione si articola in due livelli: la città metropolitana e i comuni.
Nelle aree metropolitane, il comune capoluogo e gli altri comuni possono
costituirsi in città metropolitane ad orientamento differenziato. Il procedimento
istitutivo disposto dalla legge è così configurato: proposta di statuto della città
metropolitana adottata dall’assemblea degli enti locali interessati, convocati dal
sindaco del comune capoluogo e dal presidente della provincia; referendum sulla
proposta di istituzione della città metropolitana a cura di ciascun comune;
necessità del voto favorevole della maggioranza degli aventi diritto al voto
espressa nella metà più uno dei comuni (in caso di mancata approvazione il
procedimento di conclude con esito negativo); presentazione della proposta, ove
approvata, a cura della regione, ad una delle due camere per l’approvazione con
legge.
La legge istitutiva deve anche indicare i termini per il conferimento di funzioni e
compiti da parte della regione, la quale, previa intesa con gli enti locali, può
procedere altresì alla revisione delle circoscrizioni territoriali dei comuni
interessati.
La legge parifica la città metropolitana alla provincia (art. 23 c.5) “la città
metropolitana, comunque denominata, acquisisce le funzioni della provincia”.
L’art. 23 precisa che possono costituirsi in città metropolitane i comuni “uniti da
contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione in ordine all’attività
economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e
culturali”.
La comunità montana è, secondo quanto dispone la legge ordinaria, un ente
locale ad appartenenza obbligatoria costituito con provvedimento del presidente
della giunta regionale “tra comuni montani e parzialmente montani anche
appartenenti a province diverse per la valorizzazione delle zone montane per
l’esercizio di funzioni proprie, di funzioni conferite e per l’esercizio associato di
funzioni comunali” (art. 27 T.U.).
Ai sensi dell’art. 28 t., spettano alle comunità montane le funzioni attribuite dalla
legge e gli interventi per la montagna stabiliti dalla Unione europea o dalle leggi
statali e regionali. Inoltre, compete alla comunità montana l’esercizio associato di
funzioni proprie dei comuni o a questi delegate dalla regione, nonché l’esercizio di
ogni altra funzione ad esse delegata dai comuni, dalla provincia e dalla regione.
Le comunità concorrono poi alla formazione del piano territoriale di
coordinamento. Altre funzioni sono state poi attribuite dal D.Lgs 112/1998 (artt.
41, 65 e segg.).
Le comunità montane hanno autonomia statutaria nell’ambito delle leggi statali e
regionali; un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da sindaci,
assessori o consiglieri dei comuni partecipanti. I rappresentanti della comunità
montana sono eletti dai consigli dei comuni partecipanti con il sistema del voto
limitato. Le norme sulle comunità montane si estendono alle comunità isolane o
di arcipelago (con l’eccezione di Sicilia e Sardegna). Tali comunità sono infine
titolari di potestà normative ai sensi dell’art. 4 Legge 131/2003.

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Capitolo V
Situazioni giuridiche soggettive e loro vicende
Premessa. Qualità giuridiche, status, capacità e situazioni
giuridiche.
Una delle funzioni essenziali dell’ordinamento giuridico è quella di risolvere
conflitti di interessi intersoggettivi. Gli interessi sono aspirazioni dei soggetti
verso i beni ritenuti idonei a soddisfare bisogni.
“Situazione giuridica soggettiva” è la concreta situazione di cui è titolare un
soggetto dall’ordinamento con riferimento al bene che costituisce oggetto
dell’interesse.
Le situazioni sono svariate: diritto soggettivo, interesse legittimo, potere, obbligo e
dovere.
Ogni soggetto del diritto costituisce sul piano dell’ordinamento giuridico un centro
di riferimento di una serie di situazioni e rapporti giuridici.
I “modi di essere giuridicamente definiti di una persona, di una cosa, di un
rapporto giuridico, di cui l’ordinamento giuridico faccia altrettanti presupposti per
l’applicabilità di disposizioni generali o particolari alla persona, alla cosa, al
rapporto” si definiscono qualità giuridiche. Si pensi alla qualità di coniugato con
prole, presupposto per l’applicazione della disciplina in tema di assegni di famiglia.
Le situazioni giuridiche sono i concreti modi di essere giuridici di un soggetto in
ordine a interessi protetti dall’ordinamento. La totalità delle stesse e i rapporti
imputabili ai soggetti ne definiscono la soggettività e formano la sua sfera
giuridica, la quale è riconducibile ad unità proprio attraverso il riferimento al suo
titolare.
Gli status sono le qualità attinenti alla persona che globalmente derivano dalla sua
appartenenza necessaria o volontaria ad un gruppo e rappresentano il
presupposto per l’applicazione al soggetto di una serie di norme.
La riferibilità effettiva di situazioni giuridiche ad un soggetto presuppone la
idoneità di questo ad esserne titolare. Tale idoneità è la capacità giuridica
riconosciuta dall’ordinamento ai propri soggetti; soltanto in presenza di essa
vengono dunque conferite dall’ordinamento stesso le situazioni giuridiche.
L’amministrazione ha una capacità giuridica in ordine ai poteri di diritto comune
meno estesa di quella delle persone fisiche, non comprendendo ad esempio la
idoneità ad essere titolari di situazioni strettamente collegate alla natura propria
dell’individuo. Inoltre, numerose disposizioni di legge escludono la possibilità per
alcuni enti di compiere talune attività di diritto comune, ovvero di contrattare con
soggetti diversi da quelli espressamente indicati dalla legge.
L’ente pubblico ha la capacità giuridica e quindi può impiegare gli strumenti del
diritto privato salva diversa disposizione di legge.
Dalla capacità giuridica si distingue la capacità d’agire, che consiste nella
idoneità a gestire le vicende delle situazioni giuridiche di cui il soggetto è titolare e
che si acquista con il compimento del diciottesimo anno di età, salvo che la legge
non stabilisca un’età diversa (art. 2 Cod. Civ.).
Si discute se la capacità d’agire possa essere riferita direttamente all’ente, ovvero
sia esclusiva della persona fisica preposta all’organo che fa agire l’ente.
In linea di principio, capacità giuridica e capacità d’agire non sorgono
contemporaneamente in quanto, per le persone fisiche, la capacità di d’agire si
acquista con il raggiungimento della maggiore età, e, comunque, possono non
sussistere contestualmente in capo allo stesso soggetto.
Nel diritto amministrativo, tuttavia, con riferimento alle persone fisiche la capacità
di agire è di norma strettamente connessa con la capacità giuridica, nel senso che
59
si dispone della seconda in quanto si abbia l’idoneità a gestire le vicende delle
situazioni giuridiche, escludendosi la possibilità che le situazioni siano esercitate
da soggetti diversi dai titolari (un esempio è quello del diritto di elettorato attivo,
che spetta solo ai maggiorenni che possono esercitarlo).
La capacità di agire, differisce poi dalla legittimazione ad agire, la quale si
riferisce invece a situazioni specifiche e concrete (attive o passive), effettivamente
sussistenti, ed ai singoli rapporti: ad esempio, il soggetto ha la capacità di agire in
relazione al potere di intervento nei procedimenti amministrativi ai sensi della
legge 241/90, ma ha la legittimazione ad agire soltanto se in concreto sia
pendente un procedimento che coinvolga i suoi interessi.

Potere, diritto soggettivo, dovere e obbligo.


Al fine di fornire la definizione delle situazioni giuridiche è necessario distinguere
tra le situazioni che sussistono nell’ambito di concreti rapporti giuridici e le altre
che collocano all’esterno di essi.
Il potere, potenzialità astratta di tenere un certo comportamento ed espressione
della capacità del soggetto, è perciò da esso inseparabile: da qui l’impossibilità di
un trasferimento del potere da un titolare ad un altro.
In quanto preesistente rispetto all’esercizio, il potere è collocato al di fuori
dell’orbita di un rapporto concreto e consente di produrre modificazioni (vicende
giuridiche) delle situazioni racchiuse in quel rapporto. Tra i poteri rientrano, ad
esempio, il potere di disposizione di un bene e quello di agire in giudizio.
Il comportamento produttivo di effetti giuridici si concretizza mediante atti
giuridici, i più importanti dei quali sono i provvedimenti, che rappresentano i
caratteri di tipicità dei relativi poteri.
Nel diritto amministrativo una particolare rilevanza hanno i poteri che il soggetto
pubblico è in grado di esercitare prescindendo dalla volontà del privato e, dunque,
producendo unilateralmente una vicenda giuridica relativa alla sfera giuridica dello
stesso.
Le vicende giuridiche sono normalmente rappresentate dalla costituzione,
estinzione o modificazione di situazioni giuridiche.
Quando la legge attribuisce al titolare la possibilità di realizzare il proprio interesse
indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse pubblico curato
dall’amministrazione si profila la situazione giuridica di vantaggio costituita dal
diritto soggettivo.
Il diritto soggettivo è tutelato in via assoluta, in quanto è garantita al suo titolare
la soddisfazione piena e non mediata dell’interesse, “bene della vita” finale,
protetto dalla norma.
Il diritto soggettivo può essere definito come la situazione giuridica di immunità
dal potere; essa spetta al soggetto cui sia accordata dall’ordinamento protezione
piena ed incondizionata di interessi da parte di una norma dell’ordinamento
stesso. L’interesse risulta così sottratto alla disponibilità di qualunque soggetto
diverso dal titolare, nel senso che la sua soddisfazione non dipende dell’esercizio
di un potere altrui.
Potere e diritto sono termini inconciliabili: ove sussista potere non esiste diritto
soggettivo e ove il privato sia titolare di un diritto non può affermarsi l’esistenza di
un potere amministrativo.
Gli interessi considerati prevalenti si qualificano pubblici perché affidati dalla legge
alla cura di soggetti pubblici e costituiscono la ragione dell’attribuzione del potere.
Poiché l’esercizio del potere amministrativo comporta una incisione della sfera dei
privati, esso deve essere tipico e cioè predeterminato dalla legge in ossequio al
principio di legalità che esprime la garanzia delle situazioni dei privati stessi.

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La legge, fonte dell’ordinamento generale, deve individuare tutti gli elementi del
potere (in particolare il soggetto al quale esso è attribuito, l’oggetto, il contenuto,
la forma con cui dovrà essere esercitato e l’interesse da perseguire).
Le norme che, attribuendo poteri, riconoscono interessi pubblici “vincenti” su
quelli privati, sono norme di relazione, caratterizzate cioè dal fatto di risolvere
conflitti intersoggettivi di interessi.
Il dovere è un vincolo giuridico a tenere un dato comportamento positivo (fare) o
negativo (non fare): si noti che anche l’amministrazione è soggetta ai doveri propri
di tutti i soggetti dell’ordinamento. In particolare essa deve osservare il dovere di
buona fede e correttezza, nonché quello di rispettare i diritti altrui, presupposto
dall’art. 2043 c.c.
La necessità di tenere un comportamento correlata al diritto altrui si versa nella
situazione di obbligo, che è appunto il vincolo del comportamento del soggetto in
vista di uno specifico interesse di chi è il titolare della situazione di vantaggio (si
pensi al diritto di credito, connesso all’obbligazione del debitore).
L’amministrazione può essere soggetta ad obblighi, ad esempio nel caso di un
rapporto contrattuale, o in caso di commissione di illecito, o in forza di una legge o
di un atto amministrativo.

L’interesse legittimo.
L’ordinamento generale riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in
conflitto tra di loro attribuendo di volta in volta diritti (se prevale l’interesse del
soggetto privato), ovvero poteri amministrativi (quando prevalga l’interesse
pubblico), i quali ultimi consentono di produrre vicende giuridiche in ordine a
situazioni dei terzi.
Nei confronti dell’esercizio del potere, il privato si trova in uno stato di soggezione.
Accanto alla disciplina che attribuisce il potere, vi è quella che regolamenta
l’esercizio in concreto dello stesso (norme di azione). Il momento dell’esercizio
non è infatti lasciato all’arbitrio dell’amministrazione, ma è retto da una serie di
disposizioni spesso molto puntuali.
Il potere deve essere esercitato in vista dell’interesse pubblico coerentemente al
principio di funzionalizzazione che informa tutta l’attività amministrativa.
La pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa è l’interesse legittimo.
L’interesse legittimo può essere definito come la situazione soggettiva di
vantaggio costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non
direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile ed
immediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla
legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale
interesse strumentale.
L’interesse legittimo è menzionato dalla Costituzione in 3 norme: l’art. 24, ove è
accostato al diritto soggettivo, garantendone la tutela giurisdizionale; l’art. 103,
nell’ambito del quale è contemplato come oggetto principale dalla giurisdizione
amministrativa; l’art. 113 Cost., ove si precisa che la sua tutela è sempre
ammessa contro gli atti della pubblica amministrazione.
Tra i poteri riconosciuti al titolare dell’interesse legittimo si possono ricordare, in
primo luogo, i tradizionali poteri di reazione: il loro esercizio si concretizza nei
ricorsi amministrativi e nei ricorsi giurisdizionali, volti ad ottenere l’annullamento
dell’atto amministrativo.
Accanto a quelli ora descritti possiamo poi aggiungere i poteri di partecipare al
procedimento amministrativo: i documenti e le osservazioni che rappresentano il
punto di vista del cittadino devono essere presi in considerazione
dall’amministrazione procedente. Il titolare può così stimolare l’azione
amministrativa, instaurando un dialogo che si conclude con l’emanazione del
provvedimento.
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Tra i poteri che sono collegati alla titolarità di un interesse legittimo vi è infine
quello di accedere ai documenti della pubblica amministrazione: l’art. 22
L.241/90 ammette, infatti, siffatta possibilità per i portatori di interessi
giuridicamente rilevanti, nozione questa che ricomprende sicuramente l’interesse
legittimo.
Peculiare categoria è quella degli interessi procedimentali, che avrebbero la
caratteristica di attenere a “fatti procedimentali”. Questi hanno un campo d’azione
assai più ampio di quello dell’interesse legittimo. L’interesse legittimo, in ogni
caso, sorge quando la soddisfazione del suo interesse dipende dall’esercizio di un
potere (e non quando un soggetto venga in qualche modo implicato dall’esercizio
di un potere).
L’interesse procedimentale risulta spesso sfornito di tutela effettiva, non
potendosi ricorrere al giudice per la sua violazione, a differenza di quanto invece
accade nell’ipotesi di titolarità di interesse legittimo.

Interessi diffusi e interessi collettivi.


L’interesse legittimo è un interesse differenziato rispetto ad altri interessi e
qualificato da una norma.
Il problema della differenziazione e qualificazione degli interessi emerge con
riferimento agli interessi diffusi e agli interessi collettivi (c.d. interessi
superindividuali).
Gli interessi diffusi si caratterizzano sotto un duplice profilo: dal punto di vista
soggettivo appartengono ad una pluralità di soggetti; dal punto di vista oggettivo
attengono a beni non suscettibili di fruizione differenziata. Il carattere peculiare di
essi è costituito dalla non frazionabilità del loro oggetto.
Gli interessi collettivi sono gli interessi che fanno capo ad un gruppo organizzato,
aventi il carattere della personalità e della differenziazione, il quale è necessario
per qualificarli come legittimi e per aprire la via alla tutela davanti al giudice
amministrativo.
Il problema della legittimazione ad agire è comunque superato per quanto attiene
alle associazioni in materia ambientale e di tutela del consumatore: le
prime, individuate dal ministero dell’ambiente, possono impugnare atti
amministrativi; le seconde sono legittimate ad agire a tutela degli interessi
collettivi solo se iscritte in un apposito elenco delle associazioni dei
consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, istituito presso il
ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato.
L’art.9 della legge 241/90 consente ai “portatori di interessi diffusi costituiti in
associazioni o comitati” di intervenire nel procedimento amministrativo.

Il problema dell’esistenza di altre situazioni giuridiche soggettive.


Il principio di relatività delle situazioni giuridiche soggettive: lo stesso rapporto
di un soggetto con un bene può presentarsi “a seconda dei casi e dei momenti e
perfino a seconda del genere di protezione che il soggetto faccia valere… ora
come un diritto soggettivo, ora come un interesse protetto solo in modo riflesso”.
Di conseguenza – facendo riferimento alla situazione del proprietario di un bene
che sia soggetto all’esercizio del potere di espropriazione – il diritto di proprietà si
configura come diritto in quanto (e fino al punto in cui) non venga in
considerazione un potere dell’amministrazione di disporre dell’interesse del
privato.
Non si può parlare di degradazione o affievolimento del diritto, fenomeno
che, secondo un orientamento largamente seguito in dottrina e in giurisprudenza,
si riferirebbe alla vicenda di un diritto il quale, venendo a configgere con un
potere, si trasformerebbe in interesse legittimo.

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L’interesse legittimo non nasce dalla trasformazione di un diritto, ma è situazione
distinta e non omogenea.
Tra diritti “non degradabili”, cioè non assoggettabili ad un potere amministrativo,
l’interesse del privato risulterebbe sempre vincente.
Non sussistono situazioni intermedie tra diritto soggettivo e interesse legittimo:
inconsistente è la figura del diritto affievolito.
Va esclusa dal novero delle situazioni giuridiche la facoltà, che è la possibilità di
tenere un certo comportamento materiale: essa costituisce una delle forme di
estrinsecazione del diritto e non produce modificazioni giuridiche.
L’aspettativa è la situazione in cui versa un soggetto nelle more del
completamento della fattispecie costitutiva di una situazione di vantaggio (diritto,
potere). Essa, non essendo tutelata in via assoluta, non è un diritto. In alcuni casi,
tuttavia, l’ordinamento protegge la possibilità del soggetto privato – che parla da
una situazione di base che diritto non è – di conseguire un diritto (c.d. chance): più
in particolare, la legge accorda talora la tutela risarcitoria nelle ipotesi di lesione di
questa possibilità ad opera di una pubblica amministrazione.

Le situazioni giuridiche protette dall’ordinamento comunitario.


Le situazioni giuridiche protette dall’ordinamento comunitario consistono
essenzialmente in poteri: sono tali, infatti, le libertà che trascendono i limiti di
concreti rapporti giuridici, preesistendo alla loro costituzione.
Il principio della libera circolazione delle persone implica l’abolizione delle
discriminazioni tra i lavoratori degli Stati membri fondate sulla nazionalità, ma una
deroga è ammessa per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità
pubblica.
Le disposizioni sulla libertà di circolazione non sono applicabili ai sensi dell’art.39
del Trattato agli impieghi presso la pubblica amministrazione (la materia è oggi
disciplinata dall’art. 38 D.Lgs 165/2001).
Il Trattato disciplina anche la libertà di stabilimento, la quale comporta
l’accesso alle attività non salariate ed al loro esercizio, nonché la costituzione e la
gestione di imprese alle medesime condizioni fissate dall’ordinamento del paese di
stabilimento per i propri cittadini.
La libera prestazione dei servizi è disciplinata dagli artt. Da 49 a 55 del
Trattato. Il servizio è definito come ogni prestazione fornita dietro remunerazione
da un cittadino di uno Stato membro stabilito in uno Stato membro a favore di una
persona stabilita in uno Stato diverso (ma appartenente all’Unione europea).
Anche in questo settore sono previste riserve per motivi di ordine pubblico,
sicurezza pubblica e sanità pubblica e l’esclusione delle attività che partecipino,
anche in via occasionale, all’esercizio di pubblici poteri.
La libertà di concorrenza è garantita dal controllo sui poteri amministrativi il cui
esercizio potrebbe determinare effetti protezionistici, discriminatori e limitativi
della concorsualità tra le imprese.
La libertà di concorrenza può infatti essere lesa a seguito della presenza di poteri
amministrativi che condizionino oltre una certa misura l’attività delle imprese.
Un’importante deroga è prevista per le “imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico o generale o aventi carattere di monopolio fiscale”,
le quali sono sottoposte alle norme del trattato e “in particolare alle regole della
concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento,
in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.
Il problema del rispetto del principio della concorrenza, o più in generale
dell’esistenza di effetti distorsivi sul mercato, è particolarmente delicato in tema di
servizi pubblici, allorché questi vengano affidati ex lege in regime di
concessione ad un soggetto predeterminato, ovvero nei casi in cui il rapporto
abbia durata eccessiva, tale comunque da escludere la possibilità per altri
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imprenditori di “entrare nel mercato”, anche in ragione dell’esistenza di una
situazione di monopolio.
Interessa il diritto amministrativo anche la libertà di circolazione dei beni, ed in
particolare le misure amministrative che comportino indebite restrizioni delle
importazioni e delle esportazioni che configgono con la disciplina comunitaria.
Il diritto comunitario, nonché quello nazionale, imponendo alcuni obblighi di
servizio pubblico ai gestori nelle ipotesi in cui occorra soddisfare determinati criteri
di continuità, regolarità e capacità cui il privato non si atterrebbe ove seguisse
soltanto il proprio interesse economico, consente di individuare i correlativi diritti
dei cittadini alle prestazioni che ne costituiscono oggetto.

Le modalità di produzione degli effetti giuridici.


L’ordinamento determina direttamente o consente le vicende giuridiche
(costituzione, modificazione, estinzione) relative a rapporti giuridici e situazioni
giuridiche soggettive secondo modalità differenti.
Il discorso attiene in particolare ai diritti soggettivi: la capacità e i poteri sono
infatti strettamente legati alla soggettività e sono acquistati a titolo originario, pur
se l’esistenza o esercizio di un potere può essere subordinato al ricorrere di una
particolare situazione.
Le vicende possono essere prodotte dall’ordinamento al verificarsi di alcuni fatti o
al compimento di alcuni atti che hanno la funzione di semplici presupposti per la
produzione dell’effetto; la “causa” di quella vicenda giuridica è però da
rintracciarsi direttamente nell’ordinamento.
Questa modalità di dinamica giuridica può essere riassunta richiamando lo
schema norma-fatto-effetto, nel senso che la norma disciplina direttamente il
fatto e vi collega la produzione di effetti.
La legge si riferisce a tutti i rapporti che abbiano certe caratteristiche e determina
l’effetto senza necessità di ulteriori interventi e svolgimenti.
Quando la legge determina la produzione dell’effetto in relazione ad un singolo
rapporto, si è in presenza di una legge-provvedimento che non presenta il
carattere della generalità (come l’espropriazione di un fondo mediante legge), ma
che in ogni caso non richiede ulteriori interventi per la produzione dell’effetto.
La seconda modalità di dinamica giuridica è denominata schema norma-potere-
effetto.
L’ordinamento attribuisce, definendo una serie di condizioni, ad un soggetto
(pubblico o privato) il potere di produrre vicende giuridiche e riconosce l’efficacia
dell’atto da questo posto in essere.
L’effetto non risale immediatamente alla legge, ma vi è l’intermediazione di un
soggetto che pone in essere un atto, espressione di una scelta, mediante il quale
si regolamenta il fatto e si produce la vicenda giuridica.
L’atto che costituisce espressione di autonomia è il negozio.
Ove il tipo di dinamica sia quello che si incentra sullo schema norma-fatto-effetto,
l’amministrazione può essere “coinvolta” sia perché pone in essere un fatto (ad
esempio un comportamento illecito) sia perché emana un mero atto al quale
l’ordinamento direttamente collega la produzione di effetti.
Esempi di meri atti sono le iscrizioni ad alcuni albi o gli accertamenti dei
presupposti al fine dell’attribuzione di indennizzi.
Nei casi in cui la dinamica giuridica sia invece inquadrabile nello schema norma-
potere-effetto, l’amministrazione pone in essere atti espressione di autonomia
che producono effetti giuridici a seguito dell’esercizio di un potere conferito in via
generale ed astratto dalla legge.
Questo significa che l’ordinamento rimette alla scelta del soggetto pubblico la
produzione e la regolamentazione dell’effetto. In quei casi, infatti, viene attribuito

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un potere che è appunto la possibilità di produrre effetti riconosciuti
dall’ordinamento, mediante provvedimenti amministrativi.
Può trattarsi della costituzione di diritti (concessioni) o di obblighi (ordini), della
modificazione di preesistenti situazioni soggettive (ad esempio le autorizzazioni),
ovvero della estinzione di situazioni giuridiche (espropriazione). L’esercizio di
alcuni poteri amministrativi produce invece effetti preclusivi.
In ordine alla dinamica norma-potere-effetto, deve essere osservato che la Corte
costituzionale, con sentenza 13/1962, ha riconosciuto il principio del giusto
procedimento, il quale richiede che per la realizzazione dell’effetto sia
previamente attribuito all’amministrazione un potere il cui esercizio produce la
vicenda giuridica.

I poteri amministrativi: i poteri autorizzatori.


La legge definisce i principali poteri amministrativi, sottolineando che i loro
elementi sono trasfusi nei provvedimenti finali che ne costituiscono l’esercizio.
I principali poteri amministrativi sono costituiti da: poteri autorizzatori, poteri
concessori, poteri ablatori, poteri sanzionatori, poteri di ordinanza, poteri di
programmazione e di pianificazione, poteri di imposizione di vincoli e poteri di
controllo.
Il potere autorizzatorio ha l’effetto di rimuovere i limiti posti dalla legge
all’esercizio di una preesistente situazione di vantaggio; sotto il profilo funzionale,
il suo svolgimento comporta la previa verifica della compatibilità di tale esercizio
con un interesse pubblico. L’uso del potere produce l’effetto giuridico di modificare
una situazione soggettiva preesistente, consentendone l’esplicazione (se potere) o
l’esercizio (se diritto) in una direzione in precedenza preclusa, ma non di costituire
nuovi diritti.
Un importante esempio di provvedimento permissivo è rappresentato dal
permesso di costruire: tale permesso è necessario al fine di realizzare interventi
di trasformazione del territorio ed è rilasciato a condizione che siano rispettati gli
strumenti di pianificazione urbanistica.
L’autorizzazione spesso instaura una relazione tra soggetto pubblico e soggetto
privato caratterizzata dalla presenza di poteri di controllo e di vigilanza in capo
all’amministrazione, preordinati alla verifica del rispetto delle condizioni e dei limiti
imposti all’esercizio dell’attività consentita mediante atto autorizzatorio.
L’ordinamento prevede oggi un esempio di autorizzazione plurima per di una serie
di atti di consenso: ove il procedimento dello sportello unico delle attività
produttive si concluda con provvedimento espresso costituente titolo unico per la
realizzazione dell’intervento, esso “riassume” i vari atti di assenso richiesti dalla
legge.
Nell’ordinamento è pure presente l’autorizzazione integrata ambientale (v.
D.Lgs 372/1999 che prevede misure atte a evitare o ridurre le emissioni nell’aria,
nell’acqua e nel suolo derivanti da alcune attività) la quale sostituisce a tutti gli
effetti ogni visto, parere o autorizzazione in materia ambientale.
Dal ceppo comune dell’autorizzazione, la dottrina e la giurisprudenza hanno poi
enunciato alcune figure specifiche: abilitazione, nullaosta, dispensa, approvazione,
licenza.
Le abilitazioni sono atti il cui rilascio è subordinato all’accertamento dell’idoneità
tecnica di soggetti a svolgere una certa attività (ad esempio l’iscrizione ad un albo
previa il superamento di un esame). Le abilitazioni sono da ricondurre allo schema
norma-fatto-effetto senza però riconoscere un potere provvedimentale.
L’omologazione è rilasciata dall’autorità a seguito dell’accertamento della
sussistenza di una cosa, di norma destinata ad essere prodotta in serie, di tutte le
caratteristiche fissate dall’ordinamento a fini di tutela preventiva (prodotti
pericolosi) o per esigenze di uniformità dei modelli.
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Il nullaosta è un atto endoprocedimentale necessario emanato da
un’amministrazione diversa da quella procedente, con cui si dichiara che, in
relazione ad un particolare interesse, non sussistono ostacoli all’adozione del
provvedimento finale. Il diniego del nullaosta costituisce fatto impeditivo della
conclusione del procedimento.
La dispensa è il provvedimento con cui l’ordinamento, pur vietando o imponendo
in generale un certo comportamento, prevede però che l’amministrazione possa
consentire in alcuni casi una deroga all’osservanza del relativo divieto o obbligo.
Allorché la deroga ad un divieto generale avvenga in base allo schema norma-
fatto-effetto si parla di esenzione.
L’approvazione è il provvedimento permissivo, avente ad oggetto non un
comportamento, bensì un atto rilasciato, a seguito di una valutazione di
opportunità e convenienza dell’atto stesso.
L’approvazione opera dunque come condizione di efficacia dell’atto ed è ad esso
successiva.
Nell’ambito dei procedimenti di controllo è talora impiegata la figura
dell’approvazione condizionata, che in realtà significa annullamento con
indicazione dei correttivi necessari per conseguire l’approvazione.
La licenza (attualmente in corso di sostituzione con l’autorizzazione) era definita
come il provvedimento che permette lo svolgimento di un’attività previa
valutazione della sua corrispondenza ad interessi pubblici ovvero della sua
convenienza in settori non rientranti nella signoria dell’amministrazione ma sui
quali essa soprintende a fini di coordinamento (ad esempio la licenza
commerciale, oggi sostituita con l’autorizzazione). La “licenza individuale” è da
ultimo disciplinata dal d.P.R. 318/1997 in tema di telecomunicazioni ed è oggi
definita come l’autorizzazione con cui vengono conferiti diritti od obblighi specifici
ad un’impresa.
La legge 241/90 utilizza la nozione di “atti di consenso” per indicare tali atti nel
loro complesso, prevedendo che gli stessi possano essere sostituiti dai
meccanismi della denuncia di inizio attività (art. 19), ovvero risultino assoggettati
alla disciplina del silenzio assenso (art.20).
La tendenza alla sostituzione degli atti di consenso con il meccanismo del silenzio
assenso o della denuncia di inizio attività è comunque evidente nella legislazione
recente, il cui obiettivo è anche quello di “alleggerire” il condizionamento
pubblicistico relativo alle iniziative dei privati.
Uno dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge 229/2003 è “l’eliminazione
degli interventi amministrativi autorizzatori e delle misure condizionamento della
libertà contrattuale, ove non vi contrastino gli interessi pubblici alla difesa
nazionale, all’ordine e alla sicurezza pubblica, all’amministrazione della giustizia,
alla regolazione dei mercati e alla tutela della concorrenza, alla salvaguardia del
patrimonio culturale e dell’ambiente, all’ordinato assetto del territorio, alla tutela
dell’igiene e della salute pubblica”.

I poteri concessori.
L’esercizio dei poteri concessori, a fronte dei quali il destinatario si presenta
come titolare di interessi legittimi pretesivi, produce l’effetto di attribuire al
destinatario medesimo status e situazioni giuridiche (diritti) che esulavano dalla
sua sfera giuridica in quanto precedentemente egli non ne era titolare.
Esistono molteplici esempi di concessioni: la concessione di uso di beni, la
concessione di esercizio di servizi pubblici, la concessione della cittadinanza, la
concessione del sistema di riscossione, la concessione di costruzione e gestione di
opere pubbliche.
In ordine alle concessioni di beni e di servizi pubblici, accanto al provvedimento
con il quale si esercita il potere concessorio amministrativo, si può individuare una
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convezione bilaterale di diritto privato (detta concessione-contratto) finalizzata
a dar assetto ai rapporti patrimoniali tra concessionario e concedente. I due atti
sono strettamente legati, nel senso che l’annullamento della concessione travolge
il contratto, e quindi la permanenza del rapporto contrattuale è condizionata dalla
vigenza del provvedimento concessorio.
La concessione è detta traslativa quando il diritto preesiste in capo
all’amministrazione (si pensi alla concessione di servizi pubblici) sicché esso è
“trasmesso” al privato, mentre è costitutiva nei casi in cui il diritto attribuito è
totalmente nuovo, nel senso che l’amministrazione non poteva averne la titolarità
(sarebbe tale la concessione di cittadinanza o di onorificenze).
Non è trasmissibile (o suscettibile di essere costituito mediante atto) il potere,
quindi non è corretto affermare che l’amministrazione trasferisce un potere al
privato: il soggetto pubblico può soltanto consentirne l’esercizio al concessionario.
Per quanto riguarda la concessione di opere pubbliche la legislazione, sulla
scorta dell’influenza comunitaria, mira ad equipararle all’appalto, o almeno a
limitare la discrezionalità di cui gode l’amministrazione chiamata a rilasciarle, al
fine di evitare che l’amministrazione possa svincolarsi dalle regole poste a tutela
della concorrenza. Non a caso la legislazione definisce tali concessioni come
“contratti”.
In passato era prevista la concessione di servizi pubblici che ricorreva quando
l’ordinamento intendeva garantire alla collettività alcune prestazioni ed attività e
consentiva all’amministrazione di affidarne lo svolgimento a soggetti privati
mediante un provvedimento concessorio. Attualmente questo tipo di concessione
è stato eliminato in relazione ai servizi pubblici locali a carattere industriale.
Nei provvedimenti concessori rientrano le sovvenzioni, che attribuiscono al
destinatario vantaggi economici. La categoria è disciplinata dall’art.12 della legge
241/90, che si riferisce a “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”,
nonché, appunto, all’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati.
In generale, le sovvenzioni riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali, i
contributi attengono ad attività colturali o sportive, mentre i sussidi sono
attribuzioni rientranti nella beneficenza generale. Il vantaggio può essere diretto
(erogazione di somme) o indiretto (sgravi da alcuni oneri) e non sussiste l’obbligo
in capo al beneficiario di pagare alcun corrispettivo.
L’art.12 L.241/90 prevede che, nelle forme prescritte dai rispettivi ordinamenti,
vengano predeterminati e pubblicati “criteri e modalità cui le amministrazioni
devono attenersi” il cui rispetto dovrà emergere dalla motivazione del
provvedimento.

I poteri ablatori.
I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario.
Essi hanno segno opposto rispetto a quelli concessori, nel senso che impongono
obblighi, ovvero sottraggono situazioni favorevoli in precedenza pertinenti al
privato, attribuendole di norma, ma non necessariamente, all’amministrazione
(ablatori reali).
Il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi oppositivi.
L’effetto ablatorio può incidere su diritti reali, diritti personali o su obblighi a
rilevanza patrimoniale.
Tra i provvedimenti ablatori reali vengono in evidenza le espropriazioni, le
occupazioni, le requisizioni, le confische e i sequestri.
L’espropriazione è il provvedimento che ha l’effetto di costituire un diritto di
proprietà o altro diritto reale in capo ad un soggetto (detto espropriante: non
necessariamente si tratta dell’amministrazione che emana il provvedimento),
previa estinzione del diritto in capo ad altro soggetto (espropriato) al fine di
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consentire la realizzazione di un’opera pubblica o per altri motivi di pubblico
interesse e dietro versamento di indennizzo ai sensi dell’art. 42 comma 3 Cost. La
disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità è contenuta nel testo unico di cui
al d.P.R. 327/2001 e succ. mod.
Secondo la Corte Costituzionale l’indennizzo non deve necessariamente
corrispondere al valore di mercato del bene, ma deve costituire un “serio ristoro”.
La legge prevede anche la possibilità di procedere all’occupazione temporanea
di alcuni beni. In passato l’ipotesi più rilevante era costituita dall’occupazione
d’urgenza e riguardava il possesso delle cose destinate all’espropriazione, purché
fosse pagato un indennizzo e l’opera da realizzare a seguito dell’espropriazione
fosse dichiarata indifferibile e urgente. Nel caso in cui l’immobile venisse
irreversibilmente trasformato, anche se l’amministrazione non riusciva a
concludere nei termini il procedimento espropriativi si produceva comunque
l’acquisto della proprietà di esso a favore dell’amministrazione, che però era
tenuta a risarcire il danno, ed al privato era preclusa la possibilità di ottenere la
restituzione del bene.
Attualmente il T.U. citato disciplina l’istituto dell’ “occupazione anticipata” che
conferma tale indirizzo.
Può inoltre verificarsi l’ipotesi di occupazione usurpativa, caratterizzata dalla
realizzazione dell’opera in mancanza di dichiarazione di pubblica utilità (l’art.43
T.U. sulle espropriazioni per pubblica utilità prevede che l’autorità che utilizza
senza titolo un bene per scopi di interesse pubblico “modificato in assenza del
valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità,
può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al
proprietario vadano risarciti i danni”).
L’art. 49 T.U. disciplina poi l’occupazione temporanea, che può essere disposta
quando ciò sia “necessario per la corretta esecuzione dei lavori”, prevedendo la
relativa indennità.
Le requisizioni sono provvedimenti mediante i quali l’amministrazione dispone
della proprietà o, comunque, utilizza un bene di un privato per soddisfare un
interesse pubblico.
L’ordinamento conosce alcuni esempi di requisizioni in proprietà che
riguardano soltanto le cose mobili e possono essere disposte, generalmente per
esigenze militari, dietro la corresponsione di un’indennità. La requisizione in
proprietà ha effetti irreversibili.
La requisizione in uso è un provvedimento che ha come presupposto l’urgente
necessità: essa riguarda sia mobili sia immobili e comporta la possibilità di poter
utilizzare il bene (che rimane in proprietà del titolare) per il tempo necessario e
pagando un’indennità.
I caratteri dell’urgenza, della temporaneità e dell’indennità valgono a differenziare
la requisizione in uso sia dall’espropriazione sia dalle ordinanze di necessità e
urgenza, che non aprono la via all’indennizzo.
Ai sensi dell’art.7 della Legge 2248/1865, “allorché per grave necessità pubblica
l’autorità amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata…,
essa procederà con decreto motivato, senza però pregiudizio di diritti delle parti”:
tale norma è in generale ritenuta come disposizione applicabile ogni qualvolta
altra prescrizione conferisca all’amministrazione il potere di disporre della
proprietà del privato, imponendo di agire appunto mediante decreto motivato.
La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere non già espropriativi, bensì
sanzionatorio ed è la misura conseguente alla commissione di un illecito
amministrativo: si pensi alla confisca di un immobile realizzato abusivamente.
Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare: esso mira in genere
a salvaguardare la collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene.

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Alcuni provvedimenti ablatori incidono non solo sui diritti reali, ma sulla complessa
sfera giuridica del privato, privandolo di un diritto o di una facoltà.
Gli ordini hanno in particolare l’effetto di imporre un comportamento al
destinatario. Essi si distinguono in comandi (ordini di fare: ad esempio l’ordine di
demolire il manufatto abusivo) e divieti (ordini di non fare: ad esempio il divieto
di circolazione stradale), nonché in generali e particolari (se rivolti a tutti o a
persone in particolare).
Alcuni ordini si inseriscono in una relazione interorganica, dunque sono rivolti ai
dipendenti, non ai privati.
Dagli ordini si distinguono le direttive, che rispetto agli ordini presentano una
minore vincolatività.
La diffida consiste nel formale avvertimento ad osservare un obbligo che trova il
proprio fondamento in altro provvedimento o nella legge.
Esistono poi poteri ablatori caratterizzati dal fatto che impongono obblighi a
rilevanza patrimoniale che hanno come effetto la costituzione autoritativa di
rapporti obbligatori: si pensi ai provvedimenti sui prezzi e a tutti i casi di
prestazioni imposte.

I poteri sanzionatori.
Per sanzione si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito applicata
coattivamente dallo Stato o da altro ente pubblico, cioè la misura retributiva
(inflazione di un male ritenuto maggiore rispetto al beneficio che dalla violazione
possa derivare) nei confronti del trasgressore.
Per illecito si intende la violazione di un precetto compiuta da un soggetto.
La sanzione ha carattere eminentemente afflittivo ed è la conseguenza di un
comportamento antigiuridico di un soggetto, di cui è diretta e immediata
conseguenza.
Non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone
l’accertamento della violazione della legge, a meno che non sia fondata
sull’accertato pericolo della violazione stessa da parte del soggetto. Non è
sanzione la dichiarazione di nullità o la rimozione dell’atto invalido, perché la
reazione dell’ordinamento opera qui soltanto nei confronti dell’atto, mentre il
soggetto rimane estraneo alla diretta considerazione normativa. Non è sanzione la
reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla
trasgressione, da cui esula qualsiasi finalità afflittiva.
Nella vigente legislazione non è definito il concetto di sanzione amministrativa.
Le sanzioni amministrative non hanno un contenuto loro peculiare, ma si possono
individuare soltanto in modo residuale, quali misure afflittive non consistenti in
sanzioni penali o in sanzioni civili.
La sanzione amministrativa può definirsi come la misura afflittiva non consistente
in una pena criminale o in una sanzione civile, irrogata nell’esercizio di potestà
amministrative come conseguenza di un comportamento assunto da un soggetto
in violazione di una norma o di un provvedimento amministrativo.
I principi generali della sanzione amministrativa vanno ricercati nella legislazione
ordinaria, costituita dalla Legge 689/1981, nella quale sono contenuti principi di
tipo garantistico modellati su quelli penalistici.
Essi operano sul piano delle fonti (principio di legalità), sul piano della successione
delle leggi nel tempo (principio di irretroattività), sul piano della interpretazione
(principio del divieto di analogia).
La sanzione amministrativa è il risultato dell’esercizio di un potere amministrativo.
La tassatività delle sanzioni è espressamente affermata dall’art.1 della Legge
689/1981. La recente Legge Cost.3/2001 di riforma del titolo V della parte II della
Costituzione non elenca le sanzioni tra le materie riservate allo Stato o alla potestà
legislativa concorrente.
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La cosiddette sanzioni ripristinatorie colpiscono la res e mirano a reintegrare
l’interesse pubblico leso, mentre le sanzioni afflittive – le sole sanzioni in senso
proprio – si rivolgono direttamente all’autore dell’illecito.
Queste ultime si distinguono ulteriormente in sanzioni pecuniarie e sanzioni
interdittive (che incidono sull’attività del soggetto colpito).
Posizione a parte occupano le sanzioni disciplinari che si riferiscono ai soggetti
che si trovano in un peculiare rapporto con l’amministrazione.
Con riferimento alle sanzioni disciplinari cui sono assoggettabili i dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, va ricordato che il D.Lgs 165/2001 prevede una
regolamentazione specifica in tema di responsabilità disciplinare, stabilendo che ai
dipendenti presso le pubbliche amministrazioni si applicano l’art. 2106 c.c. e l’art.7
commi 1,5 e 8 della Legge 300/70 e devolvendo al giudice ordinario tutte le
controversie attinenti il rapporto di lavoro, comprese quelle in materia di sanzioni
disciplinari. L’art. 55 D.Lgs 165/2001 prevede che le tipologie delle infrazioni e
delle relative sanzioni siano definite dai contratti collettivi.
La legge contempla anche un gruppo di sanzioni amministrativa: le sanzioni
accessorie: come l’art. 20 L.689/81 che prevede alcune misure interdittive
consistenti nella privazione o nella sospensione di facoltà o diritti derivanti da
provvedimenti della pubblica amministrazione.
La violazione del precetto dà luogo all’illecito amministrativo, per il quale la legge
n.689/81 prevede una riserva di legge.
Per quanto attiene l’elemento psicologico, ai fini della sussistenza dell’illecito di
richiede il dolo o la colpa (la giurisprudenza, introducendo una sorta di inversione
dell’onere della prova, afferma che spetta al trasgressore la dimostrazione
dell’assenza della colpa).
Infine, l’ordinamento ha previsto alcune ipotesi di sanzioni pecuniarie inflitte a
persone giuridiche, riconosciute quindi direttamente responsabili.

I poteri di ordinanza, i poteri di programmazione e di pianificazione,


i poteri di imposizione dei vincoli, i poteri di controllo.
Il potere di ordinanza, esercitabile nelle situazioni di necessità e urgenza, è
caratterizzato dal fatto che la legge non predetermina in modo compiuto il
contenuto della statuizione in cui il potere può concretarsi, e consente
all’amministrazione stessa di esercitare un potere tipico in presenza di situazioni
diverse da quelle previste in via ordinaria o seguendo procedimenti differenti.
Il potere di ordinanza, il cui esercizio dà luogo alla emanazione delle ordinanze di
necessità ed urgenza, non rispetta il principio della tipicità dei poteri
amministrativi che, in applicazione del principio di legalità, impone la previa
individuazione degli elementi essenziali dei poteri a garanzia dei destinatari degli
stessi. D’altronde le ordinanze di necessità ed urgenza sono previste proprio per
far fronte a situazioni che non possono essere risolte rispettando il normale ordine
delle competenze e i normali poteri.
Tra gli esempi più rilevanti ricordiamo le ordinanze contingibili e urgenti del
sindaco (art.54 T.U. enti locali), le ordinanze dell’autorità di pubblica sicurezza e
le ordinanze che possono essere adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o
di igiene pubblica.
Le ordinanze vanno distinte dai provvedimenti d’urgenza, atti tipici e nominati
suscettibili di essere emanati sul presupposto dell’urgenza, ma che, tuttavia, sono
di contenuto predeterminato dal legislatore.
Vanno infine ricordati i poteri di pianificazione e i poteri di programmazione.
La programmazione (che comprende anche la pianificazione) indica il complesso di
atti mediante i quali l’amministrazione previa valutazione di una situazione nella
sua globalità, individua le misura coordinate per intervenire in un dato settore.

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Al fine di conservare alcuni beni immobili che presentano peculiari caratteristiche
ambientali, urbanistiche e così via, la legge attribuisce all’amministrazione il
potere di sottoporre gli stessi a vincolo amministrativo.

I poteri strumentali e i poteri dichiarativi. Le dichiarazioni


sostitutive.
L’amministrazione, in occasione dell’esercizio del potere, pone in essere atti
strumentali ad altri poteri (pareri, proposte, atti di controllo, accertamenti, detti
anche atti dichiarativi).
L’efficacia dichiarativa incide su di una situazione giuridica preesistente
rafforzandola, specificandone il contenuto o affievolendola impedendo così la
realizzazione della situazione in una certa direzione.
Taluni atti dichiarativi hanno invece la funzione di attribuire certezza legale ad un
dato (fatto, atto, stato, qualità o rapporto). Questi atti, detti di certazione,
producono certezze che valgono erga omnes. Essi sono tipici e nominati ed è da
ritenere che siano espressione di un potere certificativo.
Le conoscenze acquisite dall’amministrazione sono spesso conservate e ordinate
in appositi registri, albi, liste, elenchi, casellari e così via.
Anche altri atti di accertamento, rendendo possibile la conoscenza del fatto
registrato, hanno un effetto di certezza: essa è però detta “notiziale”, in quanto è
superabile con la prova contraria.
La certezza poi può essere “messa in circolazione” mediante certificati, i quali
sono atti con cui appunto si riproduce una certezza.
Il certificato è quindi il documento “tipico” (ossia previsto espressamente dalla
legge) “rilasciato da un’amministrazione avente funzione di ricognizione,
riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in
albi, elenchi o registri pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni
pubbliche” (art. 1 d.P.R. 445/2000 testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di documentazione amministrativa, modificato dal d.P.R.
137/2003).
Detto t.u. parla anche di certificazioni, le quali, in senso proprio, sono le
dichiarazioni di scienza esternate mediante certificato: tra certificazione e
certificato c’è dunque lo stesso rapporto che corre tra contenuto e contenente.
La registrazione non è un certificato, perché in essa è prevalente la funzione di
acquisire conoscenze rispetto a quella di esternare, propria del certificato.
Il certificato ha normalmente i caratteri dell’atto pubblico, essendo rilasciato da un
pubblico ufficiale autorizzato a darvi pubblica fede, e fa piena prova, fino a querela
di falso, tanto in sede amministrativa quanto in sede giurisdizionale, di ciò che in
esso è dichiarato e della provenienza.
Dalle certazioni e dai certificati occorre distinguere gli attestati (esempio gli
attestati di benemerenza), che sono atti amministrativi sempre tipici, ma
insuscettibili di creare la medesima certezza legale creata dalle certazioni e che, a
differenza dei certificati, non mettono in circolazione una certezza creata da un
atto di certazione.
Ancora differenti sono le attestazioni atipiche (attestati di frequenza a corsi,
attività di svolgimento di studio e ricerca, ecc…) che sul piano dell’ordinamento
generale creano, al più, una presunzione, e gli atti di notorietà, che sono atti
formati, su richiesta di un soggetto, da un pubblico ufficiale (es. notaio, sindaco),
in base alle dichiarazioni simultanee rese in sua presenza e sotto giuramento da
alcuni testimoni (non meno di due: art. 30 L.241/90): da questi atti risulta che la
notizia di determinati fatti è diventata di pubblico dominio.
Allo scopo di alleggerire il carico di lavoro dei pubblici uffici e contestualmente
consentire ai privati di poter provare all’amministrazione determinati fatti, stati e
qualità a prescindere dall’esibizione dei relativi certificati è nato l’istituto giuridico
71
della dichiarazione sostitutiva, che è un atto del privato capace di sostituire
una certificazione pubblica, e rispetto alla quale è alternativa.
Le dichiarazioni sostitutive si distinguono dai certificati in quanto: non provengono
da un ente pubblico; sono destinate a confluire soltanto in un singolo rapporto tra
cittadino e amministrazione (i certificati, invece, valgono in generale e a tutti gli
effetti, anche nei rapporti tra cittadini); le dichiarazioni sostitutive hanno la stessa
validità temporale degli atti che sostituiscono; non consistono in una trascrizione
del contenuto di un pubblico registro.
La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione dei
doveri d’ufficio (art. 74 t.u.). La legge attribuisce alla pubblica amministrazione il
compito di controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive, il quale avviene
mediante raffronto tra il contenuto delle stesse e quello degli atti di certazione.
La dichiarazione sostitutiva di certificazione è il documento, sottoscritto
dall’interessato (anche non in presenza del funzionario amministrativo addetto) in
sostituzione dei certificati (ad esempio data e luogo di nascita, residenza,
cittadinanza, stato civile e di famiglia, nascita del figlio, posizione reddituale, titolo
di studio, qualifica professionale); in luogo della dichiarazione il cittadino può
produrre il certificato o la copia autentica ovvero, esibire un documento che li
attesti.
Il t.u. prevede che il cittadino possa rendere al funzionario competente
dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, ossia atti con cui il privato
comprova, nel proprio interesse e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità
personali non compresi in pubblici registri, albi ed elenchi (quindi non suscettibili
di attestazione con dichiarazione sostitutiva di certificazione), nonché stati, fatti e
qualità personali relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.
I certificati rilasciati dalle amministrazioni attestanti stati e fatti personali non
soggetti a modificazione hanno validità illimitata; le restanti certificazioni hanno
validità di sei mesi dalla data del rilascio. Gli stati, i fatti e le qualità personali
contenuti in documenti di identità o di riconoscimento non più in corso di validità
possono essere comprovati mediante esibizione e dichiarazione che i dati non
hanno subito variazioni (art. 45 d.p.r. 445/2000).
L’art. 49 t.u. non consente che i certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di
conformità CE, di marchi o brevetti siano sostituiti “da altro documento”.
L’art. 71 t.u. specifica che il controllo sulle dichiarazioni sostitutive (di
certificazione e di atto di notorietà) debba avvenire, anche a campione, e in tutti i
casi in cui “sorgano fondati dubbi” sulla loro veridicità. Esso è effettuato secondo
due modalità: consultando direttamente gli archivi dell’amministrazione
certificante, ovvero richiedendo alla medesima conferma scritta della
corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri.
Le dichiarazioni sostitutive possono essere anche utilizzate nei rapporti tra
privati che vi consentano (art. 2 d.p.r. 445/2000): in tal caso l’amministrazione
competente per il rilascio della relativa certificazione, previa definizione di appositi
accordi, è tenuta a fornire, su richiesta del privato corredata dal consenso del
dichiarante, conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le
risultanze dei dati custoditi.

I poteri relativi ad atti amministrativi generali.


Gli atti amministrativi sono detti generali, in quanto sono in grado di produrre
effetti nei confronti di una generalità di soggetti, titolari di quei rapporti con
medesime caratteristiche.
Si pensi ai bandi di concorso, alla chiamata alle armi, ecc… Tali atti sono
ricollegabili allo schema norma-potere-effetto: la legge non produce direttamente
l’effetto in quanto attribuisce il relativo potere all’amministrazione.

72
La riconduzione di un atto nella categoria degli atti amministrativi generale riveste
una certa importanza giacché essi (assieme agli atti normativi, a quelli di
pianificazione e di programmazione) sono sottratti alla disciplina della
partecipazione procedimentale e del diritto di accesso; inoltre, gli atti
amministrativi generali, come quelli normativi, non necessitano di motivazione.
Una particolare categoria di atti amministrativi generali è costituita dalle
autorizzazioni generali, conosciute dalla normativa sulla liberalizzazione dei
servizi, dal D.Lgs 196/2003 in materia di autorizzazione rilasciate dal Garante per
la protezione dei dati personali per intere categorie di titolari o di trattamenti e
dalla disciplina ambientale.

Cenni ad alcune tra le più rilevanti vicende giuridiche il cui studio


interessa il diritto amministrativo: il decorso del tempo e la
rinuncia.
Il decorso del tempo produce la nascita o la modificazione di una serie di diritti
ed è alla base degli istituti della prescrizione e della decadenza.
Il potere, in quanto attributo della soggettività non è trasmissibile, e non è
neppure prescrittibile a seguito del decorso del tempo.
Il diritto soggettivo è invece soggetto a prescrizione, ove non esercitato per un
certo periodo di tempo. Si pensi al diritto di percepire lo stipendio, che si prescrive
in cinque anni.
Il tempo, unitamente all’esercizio di un diritto, è alla base dell’istituto
dell’usucapione dei diritti reali, ma per quanto attiene il diritto amministrativo
occorre ricordare che non è ammesso l’acquisto per usucapione di diritti su beni
demaniali.
Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera la rinuncia,
negozio avente effetto abdicativi cui può seguire un effetto traslativo
(accrescimento della sfera altrui) o estintivo.
Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto di
rinunzia.
Sono invece normalmente rinunciabili i diritti soggettivi (come il diritto
all’indennizzo in caso di espropriazione); e non sono rinunziabili le situazioni che
ineriscono a interessi diversi da quelli del loro titolare(ad esempio è irrinunciabile
l’ufficio di tutore) ed i diritti di libertà.
In tema di crediti dei dipendenti aventi causa nel rapporto di lavoro, si ricordi che
l’amministrazione non può rinunciare alla prescrizione ed alla relativa
eccezione.
Non è possibile rinunciare nemmeno agli interessi legittimi perché seguono il
potere e il suo esercizio.

L’esercizio del potere: norme di azione, discrezionalità e merito.


Allorché sia attribuito un potere, l’ordinamento sceglie di rimettere alla successiva
scelta autonoma dell’amministrazione la produzione di vicende giuridiche in ordine
a situazioni soggettive dei privati. L’amministrazione deve in concreto agire in
vista del perseguimento dell’interesse che costituisce la ragione dell’attribuzione
del potere (selezione del miglior candidato per un concorso, pubblica utilità nel
caso di espropriazione, ecc…).
Spesso l’amministrazione fissa in anticipo alcuni criteri cui si atterrà nell’esercizio
concreto del potere, ma soventemente le modalità di azione sono individuate in
via generale e astratta mediante norme giuridiche.
Le norme che disciplinano l’azione amministrativa non hanno i caratteri delle
norme di relazione, le norme cioè che risolvono conflitti intersoggettivi sul piano
dell’ordinamento generale. Le norme che caratterizzano l’azione amministrativa
disciplinano le modalità attraverso le quali il potere deve essere esercitato, e tali
73
norme sono definite norme di azione, proprio perché hanno ad oggetto l’azione
dell’amministrazione e non l’individuazione di assetti intersoggettivi.
La discrezionalità amministrativa è lo spazio di scelta che residua allorché la
normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti
dell’amministrazione.
Questo tipo di discrezionalità, c.d. “pura”, va distinta dalla discrezionalità
tecnica, che è la possibilità di scelta che spetta alla amministrazione allorché sia
chiamata a qualificare fatti suscettibili di varia valutazione, e si riduce ad
un’attività di giudizio a contenuto specifico.
Molto spesso, infatti, tra i presupposti fissati dalla legge per l’esercizio del potere
amministrativo vi sono fatti che non possono essere giudicati semplicemente
come esistenti o inesistenti e che non sono suscettibili di un mero accertamento
che non lasci spazio a valutazioni.
La scelta discrezionale c.d. “pura” può attenere a vari profili dell’azione
amministrativa, quali il contenuto del provvedimento, la stessa decisione relativa
al “se” ed al “quando” rilasciarlo.
La discrezionalità non è esercitata in osservanza di norme predefinite, e si
riassumono nel principio di logicità-congruità: ciò significa che la scelta deve
risultare logica e congrua tenendo conto dell’interesse pubblico perseguito, degli
interessi secondari coinvolti e della misura del sacrificio ad essi arrecato.
L’essenza della discrezionalità risiede nella “ponderazione” comparativa dei vari
interessi secondari in ordine all’interesse pubblico al fine di assumere la
determinazione concreta.
L’insieme delle soluzioni ipotizzabili come compatibili con il principio di congruità
in un caso determinato definisce il merito amministrativo , normalmente
sottratto al sindacato del giudice amministrativo ed attribuito alla scelta esclusiva
dell’amministrazione, la quale, tra la pluralità di scelte così individuate, preferirà
quella ritenuta più opportuna.

Le fonti del diritto (in particolare quelle legislative) attinenti alle


situazioni giuridiche.
Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche. La materia
costituisce oggetto del diritto costituzionale.
Molte fonti pongono norme di diritto amministrativo o sono atti soggettivamente
amministrativi, nel senso che sono posti in essere da autorità amministrative.

Cenni ad alcuni riflessi della distinzione tra norme di relazione e


norme di azione sui problemi della difformità dell’atto dal
paradigma normativo e del riparto di giurisdizione.
L’atto amministrativo emanato in assenza di potere è nullo ed è sindacabile dal
giudice ordinario (ad esempio un provvedimento di esproprio emanato da
un’amministrazione non competente).
Il giudice ordinario ha giurisdizione nei casi in cui l’amministrazione abbia agito in
carenza di potere ponendo in essere un atto nullo, cioè non produttivo di effetti.
L’interesse legittimo è anche la pretesa all’osservanza delle norme di azione.
Sotto il profilo processuale la tutela dell’interesse legittimo è affidata al giudice
amministrativo.
L’azione amministrativa che non rispetti le norme di azione è sicuramente
illegittima: tuttavia, ove siano rispettate le norme di relazione che attribuiscono il
potere, l’atto finale non è nullo. Gli effetti così prodotti sono tuttavia precari.
L’atto è cioè emanato in una situazione in cui il potere sussiste, ma è stato
esercitato in modo non corretto, pertanto la giurisdizione del giudice
amministrativo si individua in base al canone del cattivo esercizio del potere
amministrativo. Il giudice che accerti la violazione di norme di azione dovrà
74
eliminare sia l’atto, sia i suoi effetti, emanando una decisione di annullamento. Il
regime dell’atto posto in essere in violazione di norme di azione è dunque
l’annullabilità.
L’atto può essere annullato anche in via di autotutela dalla stessa
amministrazione che ha emanato l’atto.
L’atto illegittimo può essere disapplicato dal giudice ordinario, annullato
dall’amministrazione in sede di decisione di ricorso amministrativo, ovvero in sede
di controllo.

Le norme prodotte dalle fonti comunitarie.


I trattati comunitari e le fonti di provenienza comunitaria disciplinano oggi ambiti
rilevanti del diritto amministrativo e, di conseguenza, agiscono come strumenti di
armonizzazione del diritto amministrativo dei vari paesi membri.
Tra tali fonti spiccano i regolamenti comunitari, atti di portata generale,
obbligatori e direttamente applicabili nei rapporti c.d. “verticali” tra pubblici poteri
e cittadini, e le direttive comunitarie, vincolanti per lo Stato membro in ordine
al risultato da raggiungere, lasciando allo stesso la scelta dei modi e dei mezzi per
raggiungerlo.
Secondo la Corte costituzionale il regolamento comunitario deve essere applicato
dal giudice interno anche disapplicando la legge nazionale incompatibile.
Il potere-dovere di disapplicazione riguarda anche il giudice amministrativo, il
quale è chiamato sempre più spesso ad esercitarlo.
Si è così individuata la categoria delle direttive immediatamente applicabili
dalle nostre amministrazioni (con efficacia solo verticale).
Le altre direttive, invece, sono vincolanti soltanto a seguito del loro recepimento e
conseguente attuazione nel nostro ordinamento.
Il dovere di disapplicare la normativa italiana confliggente con quella comunitaria
è stato riconosciuto altresì in capo alla pubblica amministrazione.

Le fonti soggettivamente amministrative: considerazioni generali.


Le fonti che sono atti soggettivamente amministrativi sono i regolamenti. Essi
sono emanati da organi amministrativi (dello Stato, della regione e degli altri enti
pubblici) titolari del potere normativo, consistente nella possibilità di emanare
norme generali ed astratte.
L’attività normativa dell’amministrazione è soggetta non solo al principio di
preferenza della legge, ma anche a quello di legalità, il quale, secondo
l’accezione di conformità formale, impone che ogni manifestazione di attività
normativa trovi il proprio fondamento in una legge generale, che indichi l’organo
competente e le materie in ordine alle quali esso può esercitarla.
La categoria degli atti amministrativi generali non è facilmente differenziabile
da quella degli atti normativi.
Gli atti normativi sono sottoposti ad un particolare iter procedimentale ovvero, per
quanto riguarda i regolamenti emanati dal Presidente della Repubblica, essi sono
caratterizzati da una peculiare formula che essi debbono recare.
L’art. 87 comma 5 Cost. riconosce espressamente il potere regolamentare del
governo, attribuendo al Capo dello Stato il potere di emanare regolamenti, sicché
il richiamo di detta disposizione, nel preambolo di un atto emanato dal Presidente
della Repubblica, è indice sicuro del carattere normativo dell’atto stesso.
Qualora ricorra lo schema norma-potere-effetto, atti amministrativi generali e
atti normativi presentano le seguenti differenze:
- solo gli atti normativi sono astratti;
- solo gli atti normativi sono espressione di un potere diverso da quello
amministrativo, nel senso che, ponendo norme di azione, essi non

75
costituiscono esercizio di azione dell’amministrazione, ma ne disciplinano il
futuro svolgimento.
Vi sono atti, poi, che hanno natura mista, come ad esempio i piani regolatori
generali.

I regolamenti amministrativi.
I regolamenti si distinguono in regolamenti governativi, ministeriali e degli enti
pubblici, in base al soggetto e all’organo da cui provengono.
La disciplina dei regolamenti governativi è fissata dalla legge 400/1988.
Per la loro emanazione la legge richiede la deliberazione del Consiglio dei ministri,
sentito il parere del Consiglio di Stato, Emanati con decreto del Presidente della
Repubblica e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti, essi sono
pubblicati nella Gazzetta ufficiale e debbono essere espressamente denominati
“regolamenti”.
L’art. 17 della Legge 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi.
I regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali
sono poste norme di dettaglio rispetto alla legge o al decreto legislativo da
eseguire.
I regolamenti attuativi e integrativi rispetto alle leggi che pongono norme di
principio, possono essere adottati al di fuori delle materie riservate alla
competenza regionale.
I regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui
ancora manchi la disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge.
Vi sono poi i regolamenti che disciplinano l’organizzazione ed il
funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni
dettate dalla legge.
L’art. 17 comma 2 Legge 400/1988 disciplina i regolamenti di delegificazione
(con il termine delegificazione si intende l’attribuzione al potere regolamentare del
compito di disciplinare materie anche in deroga alla disciplina posta dalla legge) o
“autorizzati”, i quali possono essere adottati solo a seguito di una specifica
previsione di legge. La norma dispone che “con decreto del Presidente della
Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di
Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da
riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della
Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo,
determinano le norme generali regolativi della materia e dispongono l’abrogazione
delle norme vigenti. Con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari”.
Un massiccio impiego dei regolamenti di delegificazione è previsto per l’attuazione
di direttive comunitarie ed ai fini di semplificazione dei procedimenti
amministrativi.
I regolamenti di delegificazione e quelli di organizzazione rappresentano oggi atti
di importanza essenziale nel quadro delle fonti.
La legge contempla poi i regolamenti ministeriali, nonché regolamenti
interministeriali, adottati con decreti interministeriali in quanto attinenti a
materie di competenza di più ministri.
I regolamenti ministeriali debbono autoqualificarsi come tali e non possono dettare
norme contrarie ai regolamenti governativi. Essi debbono trovare il fondamento in
una legge che espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere
attinenti alle “materie di competenza del ministro”. Essi vanno comunicati al
Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro emanazione, sono sottoposti
al parere obbligatorio del Consiglio di Stato, al visto della Corte dei conti e alla
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

76
Le altre fonti secondarie; in particolare: statuti e regolamenti degli
enti locali. I testi unici e le funzioni normative delle autorità
indipendenti.
L’autonomia normativa è riconosciuta non solo a Stato e a regioni, ma anche ad
altri enti pubblici. Essa di estrinseca mediante l’emanazione di statuti e
regolamenti.
L’autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è stata espressamente
riconosciuta dalla legge 142/90 e succ.mod. (ora t.u. enti locali) secondo un
modello nel quale alla legge spetta dettare le linee fondamentali
dell’organizzazione dell’ente.
La Costituzione riconosce una riserva di normazione sancendo che comuni,
province e città metropolitane sono enti autonomi con propri statuti.
Il potere normativo, consistente nella potestà statutaria e in quella regolamentare,
è esercitato anche dalle unioni di comuni e dalle comunità montane e isolane.
Ai sensi dell’art. 4 della legge 131/2003, lo statuto stabilisce i principi di
organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo,
nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare.
Secondo quanto dispone attualmente il T.U. enti locali, lo statuto è deliberato dal
consiglio con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Qualora la
maggioranza non venga raggiunta, “la votazione è ripetuta in successive sedute
da tenersi entro 30 giorni e lo statuto è approvato se ottiene per due volte il voto
favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati”.
Secondo l’art. 117 Cost, comuni, province e città metropolitane hanno “potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite”.
La legge 131/2003 ribadisce poi che l’organizzazione degli enti locali è disciplinata
dei regolamenti nel rispetto delle norme statutarie.
Il t.u. enti locali attualmente in vigore prevede svariate materie che debbono
essere disciplinate con regolamento: ricordiamo ad esempio l’accesso ai
documenti, l’individuazione dei responsabili del procedimento, l’organizzazione
delle circoscrizioni, i poteri, l’organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori delle
commissioni costituite in seno al consiglio.
Gli artt. 89 e 48 comma 3 T.U. enti locali, hanno disciplinato una rilevante ipotesi
di regolamenti, emanati non dal consiglio ma dalla giunta, relativi all’ordinamento
degli uffici e dei servizi.
Tali regolamenti debbono rispettare non solo la legge e lo statuto, ma anche i
“criteri generali stabiliti dal consiglio”.
Non sono invece fonti del diritto le circolari, gli atti che pongono le c.d. norme
interne e la prassi.
Un cenno meritano poi i testi unici, i quali raccolgono in un unico corpo le norme
che disciplinano una certa materia. Il loro fine è quello di raccogliere in un testo
ufficiale le disposizioni vigenti. Questi testi unici “compilatori” (o “spontanei”) sono
da inquadrare tra le mere fonti di cognizione che non modificano le fonti raccolte.
Hanno invece forza novativa i testi unici emanati da soggetti dotati di competenza
normativa.
L’art. 20 legge 59/1997 e succ.mod. prevede, per finalità di semplificazione,
l’emanazione ogni anno di una legge per la semplificazione e il ricorso a decreti
legislativi e a regolamenti governativi di delegificazione per il riassetto normativo
e la codificazione.
La legge riconosce potestà normativa ad alcune autorità indipendenti (come
l’autorità garante per le comunicazioni, la Consob, la Banca d’Italia ecc…); la
possibilità che le autorità indipendenti emanino atti normativi, ad esclusione dei
regolamenti delegati, è stata ammessa dal Consiglio di Stato.

77
L’art. 13 Legge 249/1997 prevede che l’autorità garante per le comunicazioni,
agendo d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, adotti un regolamento per
definire le materie di sua competenza che possono essere delegate ai comitati
regionali per le comunicazioni.

78
Capitolo VI
Il procedimento amministrativo
Introduzione
Il provvedimento è l’atto normativo che produce vicende giuridiche in ordine alle
situazioni giuridiche di soggetti terzi.
L’emanazione del provvedimento finale è di norma preceduta da un insieme di
atti, fatti ed attività, tutti tra di loro connessi poiché concorrono all’emanazione del
provvedimento stesso.
Tali atti, fatti e attività sono caratterizzati dallo scopo comune ed unitario e
confluiscono nel procedimento amministrativo.
Il procedimento amministrativo è stato definito come “forma della funzione”, e la
funzione è una serie coordinata di attività e di atti endoprocedimentali.
Il procedimento è caratterizzato da peculiarità del diritto pubblico tra le quali:
a) la necessità di dare evidenza alle modalità di scelta effettuate
dall’amministrazione in vista dell’interesse pubblico.
b) L’importanza di enucleare i vari passaggi che conducono alla determinazione
conclusiva ai fini del sindacato operato dal giudice amministrativo.
c) L’esistenza di norme giuridiche (norme di azione) alle quali è soggetta
l’amministrazione nel corso della sua attività.
d) Il procedimento deve essere strutturato in modo da consentire che la scelta
discrezionale possa proficuamente avvenire.
La recente normativa configura il procedimento come un modulo nel cui interno
far confluire l’esercizio di più poteri provvedimentali, in particolare autorizzativi e
concessori, tra di loro connessi.
E’ da segnalare la disciplina relativa allo sportello unico delle attività
produttive. Gli artt. 23 e segg. Del D.lgs 112/98 prevedono che i comuni si dotino
di una struttura unica responsabile dei procedimenti attinenti alle attività
produttive (concernenti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la
riattivazione, la localizzazione, la rilocalizzazione di impianti produttivi, nonché il
rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie), la quale deve dar vita ad uno
sportello unico “al fine di consentire a tutti gli interessati l’accesso, anche in via
telematica, al proprio archivio informatico contenente le domande di
autorizzazione e il relativo iter procedurale, gli adempimenti necessari per le
procedure autorizzatorie, nonché tutte le informazioni disponibili a livelli regionale,
comprese quelle concernenti le attività promozionali, che dovranno essere fornite
in modo coordinato”.

Cenni alle esperienze straniere e alla disciplina comunitaria


In Austria, già dal 1925 era stata varata una complessa disciplina del
procedimento amministrativo, mediante l’emanazione di 5 leggi. Tale
impostazione ricorreva a profili quali la competenza, i termini, l’istruttoria, le
spese.
La legge sul procedimento amministrativo della Repubblica federale tedesca del
76 ha suscitato attenzione anche nella nostra dottrina. E’ proprio a tale normativa
che si ispira la nostra legge 241/90.
Tra gli aspetti più rilevanti si ricordano l’obbligo generale di motivazione, il diritto
per i privati di essere sentiti, l’accesso ai documenti e i contratti di diritto pubblico.
La Spagna ha provveduto nel 1992 ad emanare una legge generale sul
procedimento e sull’azione amministrativa, disciplinando anche i profili della
responsabilità della pubblica amministrazione e dei funzionari.

79
In Francia sono state emanate norme sui rapporti tra amministrazione ed utenza
già dal 1978 inerenti disposizioni sull’accesso ai documenti amministrativi e sulla
motivazione degli atti amministrativi.
Nell’ordinamento inglese manca una disciplina generale sul procedimento
amministrativo, però le corti inglesi riconoscono principi procedimentali molto
importanti, come il dovere per l’amministrazione di agire correttamente.
Il procedimento amministrativo comunitario è soprattutto configurato come
modulo garantistico di tutela delle situazioni giuridiche soggettive, all’interno del
quale deve essere assicurato il diritto di difesa.
Altri importanti principi sanciti dal diritto comunitario sono quello inquisitorio,
quello della tutela dell’affidamento del cittadino e quello della proporzionalità della
misura finale adottata. Lo stesso Trattato istitutivo della CE prevede alcuni
importanti principi in relazione alle decisioni, quali l’obbligo della motivazione e
della notificazione degli atti.

L’esperienza italiana: legge 7 agosto 1990 n.241 e il suo ambito di


applicazione.
La legge 7 agosto 1990, nr. 241 reca “norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”. La legge
italiana si limita a specificare alcuni principi e a disciplinare gli istituti più
importanti.
Secondo l’art.29 la legge pone “principi generali dell’ordinamento” e “norme
fondamentali”. Tale disposizione stabilisce inoltre che la legge operi direttamente
nei riguardi delle regioni a statuto ordinario fino a quando esse non avranno
legiferato in materia, mentre, con riguardo alle regioni a statuto speciale e alle
province autonome di Trento e Bolzano, precisa che, entro un anno dalla data di
entrata in vigore della legge, tali enti debbono provvedere ad adeguare i rispettivi
ordinamenti alle norme fondamentali contenute nella legge medesima.
L’art. 1 c.6 lett. b della legge 131/2003 dispone che i decreti legislativi che il
governo dovrà emanare si atterrano, tra gli altri, al seguente criterio direttivo:
“considerazione prioritaria, ai fini dell’individuazione dei principi fondamentali,
delle disposizioni statali rilevanti per garantire l’unità giuridica ed economica, la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, il
rispetto delle norme e dei trattati internazionali e della normativa comunitaria, la
tutela dell’incolumità e delle sicurezza pubblica, nonché il rispetto dei principi
generali in materia di procedimenti amministrativi e di atti concessori o
autorizzatori”.
In relazione all’ambito soggettivo di applicazione della legge 241/90, deve ancora
essere sottolineato che in ordine all’istituto del diritto di accesso ai documenti
amministrativi è previsto che esso trovi applicazione pure nei confronti dei gestori
di pubblici servizi, tra i quali vi sono anche soggetti privati.
Circa l’ambito oggettivo di applicazione della legge, va ricordato che l’attività
amministrativa si caratterizza per il profilo funzionale, per essere cioè diretta alla
cura dell’interesse pubblico.

I principi enunciati dalla legge 241/90.


L’art.1 c.1 legge 241/1990 afferma che l’attività amministrativa persegue i fini
determinati dalla legge ed è retta dai criteri di economicità, di efficacia e di
pubblicità. L’individuazione delle modalità di applicazione di tali principi e criteri è
rimessa non solo alla legge 241/1990 medesima, ma anche ad altre disposizioni
sui singoli procedimenti, le quali possono dunque porre una disciplina differente
dal modello generale.
L’azione è economica quando il conseguimento degli obbiettivi avvenga con il
minor impiego possibile di mezzi personali, finanziari e procedimentali.
80
L’economicità si traduce nell’esigenza del non aggravamento del
procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo
svolgimento dell’istruttoria.
Al fine di comprendere questa prescrizione, si rammenta che all’interno del
procedimento si trovano atti previsti dalla legge e atti che l’amministrazione
ritiene opportuno e utile adottare (tipico esempio i pareri facoltativi). In
applicazione del principio in esame, debbono essere ritenuti illegittimi gli atti
superflui, in particolare le duplicazioni ingiustificate di pareri e di momenti
istruttori.
L’efficacia è il rapporto tra obiettivi prefissati e obiettivi conseguiti ed esprime la
necessità che l’amministrazione, oltre al rispetto formale della legge, miri anche e
soprattutto al perseguimento nel miglior modo possibile delle finalità ad essa
affidate.
La pubblicità è un carattere che costituisce conseguenza diretta della natura
pubblica dell’amministrazione e richiede la trasparenza dell’amministrazione
stessa e della sua azione agli occhi del “pubblico”.
Applicazione concreta del principio di pubblicità è costituita dal diritto d’accesso
ai documenti amministrativi. Si rapportano alla pubblicità anche gli istituti della
partecipazione al procedimento amministrativo e della motivazione del
provvedimento, le misure per rendere conoscibili la determinazione delle unità
organizzative responsabili dell’istruttoria, di ogni altro adempimento procedurale e
del provvedimento finale, la pubblicazione dei criteri che dovranno essere seguiti
nel rilascio di concessioni, sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari,
nonché la pubblicazione integrale di direttive, programmi, istruzioni e circolari.
La legge non richiama il concetto di efficienza (rapporto tra mezzi impiegati e
obbiettivi conseguiti), ma vi sono altre disposizioni che si preoccupano di
garantirne la vigenza e l’applicazione.
Un ulteriore principio enucleabile dalla legge 241/90 è quello che potrebbe
definirsi dell’azione in via provvedimentale; ai sensi dell’art.2 l’amministrazione
deve infatti concludere il procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento
espresso”.

Le fasi del procedimento.


Il procedimento deve seguire un particolare ordine nella successione degli atti e
delle operazioni che lo compongono.
a) Nel procedimento sono presenti atti che assolvono ad una funzione
preparatoria rispetto all’emanazione del provvedimento finale, confluendo
nella c.d. fase preparatoria.
b) Segue la fase decisoria in cui viene emanato l’atto o gli atti con efficacia
costitutiva, nel senso che da essi sgorga l’effetto finale sul piano
dell’ordinamento generale (denominato appunto “efficacia”).
c) Il procedimento si chiude con quegli atti che confluiscono nella fase
integrativa dell’efficacia, che è eventuale, in quanto in alcuni casi la
legge non la prevede, con la conseguenza che il provvedimento produrrà
comunque la sua efficacia dopo la fase decisoria.
Il procedimento serve per decidere e ciò avviene in modo graduale e per momenti
successivi.
Tra i due estremi del procedimento trovano posto i c.d. atti
endoprocedimentali.
Gli atti endoprocedimentali sono destinati a produrre effetti rilevanti nell’ambito
del procedimento stesso perché sono “costitutivi” dell’effetto che l’ordinamento
amministrativo ad essi collega. Questi atti non soltanto generano l’impulso alla
progressione del procedimento, ma contribuiscono a condizionare in vario modo la

81
scelta discrezionale finale ovvero la produzione dell’effetto sul piano
dell’ordinamento generale.
La conoscenza delle fasi in cui si articola il procedimento è importante, giacché
l’illegittimità di uno degli atti del procedimento determina in via derivata
l’illegittimità del provvedimento finale.
Non è poi da escludere che un atto endoprocedimentale possa produrre di per sé
effetti esterni e che, se lesivo di situazioni giuridiche soggettive, possa essere
impugnato.
Il fenomeno è spiegabile ricorrendo all’idea della pluriqualificazione degli atti e
delle fattispecie giuridiche. Lo stesso atto può cioè rilevare sia come atto del
procedimento, sia come atto avente effetti esterni lesivo di posizioni giuridiche di
alcuni terzi.
L’effetto esterno può essere prodotto anche da un atto che determini l’arresto del
procedimento.
Il rifiuto puro e semplice di emanare un atto è sempre illegittimo, anche se, in
ipotesi di silenzio, si dovrà applicare la disciplina del silenzio rifiuto.
Con riferimento agli atti interni del procedimento, si deve osservare che la loro
emanazione è spesso preceduta da uno specifico procedimento, sicché in uno
stesso procedimento possono innestarsi anche più subprocedimenti che
costituiscono le serie di fasi preordinate alla emanazione di un atto che fa parte
del procedimento principale.

Rapporti tra procedimenti amministrativi


Tra più procedimenti amministrativi possono sussistere molteplici rapporti.
I procedimenti che costituiscono una fase di un procedimento principale vengono
definiti subprocedimenti.
I procedimenti si dicono invece connessi allorché l’atto conclusivo di un autonomo
procedimento condiziona l’esercizio del potere che si svolge nel corso di un altro
procedimento (connessione funzionale).
La connessione più importante è costituita dalla presupposizione: al fine di
esercitare legittimamente un potere occorre la sussistenza di un certo atto che
funge da presupposto di un altro procedimento in quanto crea una qualità in un
bene, cosa o persona che costituisce l’oggetto anche del successivo provvedere.
Quale esempio di rapporto di presupposizione possiamo ricordare la dichiarazione
di pubblica utilità rispetto all’emanazione del decreto di esproprio.
Il “presupposto” è una circostanza che, pur non influendo sull’effetto giuridico
finale, deve sussistere affinché il potere sia legittimamente esercitato.
L’atto che conclude il procedimento successivo deve anche adeguarsi ed
uniformarsi alle qualificazioni operate dal primo provvedimento (si pensi ai vincoli,
ai permessi di costruire, ecc…).
L’assenza di un provvedimento, ovvero la conclusione con un atto di diniego di un
procedimento, impedisce la legittima conclusione di un altro procedimento (si
pensi all’ipotesi in cui l’apertura di locali destinati all’esercizio di una determinata
attività sia consentita soltanto a coloro che posseggano l’iscrizione ad un
particolare albo).
Vi sono ipotesi in cui la presenza di un atto, conclusivo di procedimento, osta
all’emanazione di un certo provvedimento (ad esempio un provvedimento di
concessione in sanatoria impedisce di concludere il procedimento sanzionatorio
con la comminazione della sanzione).
Nella situazione in cui, per svolgere una certa attività, il privato deve ottenere
distinti provvedimenti non connessi sotto il profilo giuridico, ma di fatto tutti
attinenti al medesimo bene della vita, il nesso tra i vari procedimenti non è di
presupposizione, ma di consecuzione (ad esempio nel caso di intervento su un

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immobile situato in zona soggetta a tutela paesistica che necessita di un ulteriore
autorizzazione relativa ai beni paesaggistici e ambientali).

L’iniziativa del procedimento amministrativo.


Il procedimento si apre con l’iniziativa, che può essere ad istanza di parte,
ovvero d’ufficio (art. 2 Legge 241/90).
L’iniziativa ad istanza è caratterizzata dal fatto che il dovere di procedere sorge
a seguito dell’atto di impulso proveniente da un soggetto privato oppure da un
soggetto pubblico diverso dall’amministrazione cui è attribuito il potere, o da un
organo differente da quello competente a provvedere.
Negli ultimi due casi, l’istanza consiste in un atto amministrativo: più esattamente
si deve parlare di richiesta o di proposta. Quest’ultima è l’atto di iniziativa avente
anche contenuto valutativo, con cui si suggerisce l’esplicazione di una certa
attività. Essa può essere vincolante o non vincolante.
La richiesta in senso proprio è l’atto di iniziativa, consistente in una
manifestazione di volontà, mediante il quale un’autorità sollecita ad altro soggetto
pubblico l’emanazione di un determinato atto amministrativo.
La richiesta si distingue dalla designazione, che consiste “nella indicazione di
uno o più nominativi all’autorità competente a provvedere ad una nomina”.
L’istanza proviene dal solo cittadino ed è espressione della sua autonomia
privata.
La richiesta e la proposta provenienti da un’amministrazione pubblica conseguono
all’esplicazione di un potere pubblico e mirano alla cura di interessi pubblici,
mentre l’istanza è posta in essere in funzione di interessi particolari.
Tutte le ipotesi descritte (ad eccezione della proposta non vincolante) sono
comunque caratterizzate dal fatto che sorge, quale effetto endoprocedimentale, il
dovere per l’amministrazione di procedere.

Ai sensi dell’art. 39 Legge 241/90, è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di


richiedere l’autenticazione della sottoscrizione delle domande di partecipazione
a selezioni per l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni, nonché ad esami per
il conseguimento di abilitazioni, diplomi o titoli culturali.
Secondo l’art. 38 Legge 241/90, la sottoscrizione di istanza da produrre agli organi
della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi può
essere apposta in presenza del dipendente e, comunque, non è soggetta ad
autenticazione ove l’istanza sia presentata unitamente a copia fotostatica non
autenticata di un documento di identità del sottoscrittore.
Di frequente le istanze hanno anche un contenuto rappresentativo di interessi, e
talora la legge prevede l’onere in capo al richiedente di allegare atti o documenti
volti ad attestare il ricorrere di determinati requisiti, consentendo così di agevolare
l’accertamento di fatti e la verifica dei requisiti.
A fronte dell’istanza, l’amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può
anche rilevarne l’erroneità o la incompletezza; in tale ipotesi, prima di rigettare
l’istanza, essa deve procedere alla richiesta della rettifica (art. 6 c.1 lett.b Legge
241/90, che introduce il principio della sanabilità delle istanze dei privati).
Il dovere di procedere per l’amministrazione sorge soltanto quando l’ordinamento
riconosca la sussistenza di una posizione qualificata in capo al privato.
In caso contrario, l’atto del privato non si configura come istanza in senso proprio,
ma come denuncia mediante la quale si rappresenta una data situazione di fatto
all’amministrazione, chiedendo l’adozione di provvedimenti e/o di misure
generiche senza che l’ordinamento riconosca in capo al privato un interesse
protetto (ad esempio l’atto in cui si sollecita l’adozione un atto di autotutela, la cui
decisione è rimessa alla discrezionalità della p.a.).

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L’iniziativa d’ufficio è prevista dall’ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo di
interessi pubblici affidati alla cura dell’amministrazione, o il continuo e corretto
esercizio del potere-dovere attribuito al soggetto pubblico, esiga che questi si
attivi automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti indipendentemente dalla
sollecitazione esterna.

Il dovere di concludere il procedimento.


Il momento dell’inizio del procedimento è importante perché solo con riferimento
ad esso è possibile stabilire il termine entro il quale il procedimento stesso deve
essere concluso.
L’art. 2 Legge 241/90 stabilisce che tale termine decorre dall’inizio d’ufficio del
procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa
di parte, e stabilisce anche che il provvedimento deve essere concluso entro il
termine stabilito.
In senso proprio, il procedimento si conclude con l’emanazione dell’ultimo atto
della serie procedimentale (che potrebbe non coincidere con il provvedimento:
come ad esempio gli atti di controllo o di accettazione dell’interessato che
seguono l’emanazione del provvedimento).
Il legislatore chiarisce che la pubblica amministrazione ha il dovere di concludere il
procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso” entro 30 giorni
ovvero entro il termine diverso fissato in via regolamentare.
A fronte dell’inutile decorso del termine senza che l’amministrazione abbia
emanato il provvedimento, il cittadino ha a disposizione una serie di rimedi
giuridici.
Il ritardo può causare una responsabilità dell’amministrazione per lesione di
interessi meritevoli di tutela.
In caso di inerzia, il cittadino può inoltre reagire utilizzando gli strumenti previsti a
fronte del c.d. silenzio inadempimento: esso si forma allorché l’amministrazione
non abbia emanato l’atto nel termine fissato nel contesto in cui a quel
comportamento l’ordinamento non attribuisce alcun effetto giuridico equivalente
ad un provvedimento positivo o di diniego.
L’ordinamento attribuisce poteri sostitutivi in capo ad amministrazioni diverse
da quelle competenti a provvedere che siano rimaste inerti.
L’art. 3 ter d.l. 163/1995 convertito in legge 273/1995, prevede che, decorsi
inutilmente i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza
delle amministrazioni statali, l’interessato possa produrre istanza al dirigente
dell’unità responsabile del procedimento, che provvede direttamente nel termine
di trenta giorni. Se il provvedimento è di competenza del dirigente generale,
l’istanza è rivolta al ministro.
Il ritardo nell’emanazione dell’atto amministrativo può altresì integrare un’ipotesi
di illecito disciplinare a carico del dipendente. A ciò si aggiunga che
l’ordinamento prevede altresì la responsabilità civile a carico dell’agente: ai
sensi dell’art. 25 d.p.r. 3/1957 (testo unico impiegati civili dello Stato) infatti, il
privato può chiedere il risarcimento dei danni conseguenti l’omissione o al ritardo
nel compimento di atti o di operazioni cui l’impiegato sia tenuto per legge o per
regolamento.
A tal fine, l’interessato, quando siano trascorsi sessanta giorni dalla data di
presentazione dell’istanza, deve notificare una diffida all’amministrazione e
all’impiegato, a mezzo di ufficiale giudiziario; decorsi inutilmente trenta giorni
dalla diffida, egli può proporre l’azione volta ad ottenere il risarcimento.
Tale procedura è prevista dalla legge anche in caso di omissioni o ritardi di atti
(diversi dall’istanza iniziale) endoprocedimentali da compiersi d’ufficio.
L’art. 328 c.p. stabilisce, inoltre, che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio il quale, entro trenta giorni dalla richiesta redatta in forma scritta
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da chi vi abbia interesse, non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per
esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno o con la
multa fino a lire due milioni.
Affinché si integri il reato, comunque, è sufficiente l’inerzia nel compiere un atto
(richiedendosi però sempre il requisito del dolo) il quale non necessariamente è il
procedimento finale.
L’art. 16 Legge 241/90, modificato dall’art.17 c.24 Legge 127/1997 dispone che gli
organi consultivi sono tenuti a rendere i pareri ad essi obbligatoriamente richiesti
entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta.
Nel nostro ordinamento vige il principio secondo cui tempus regit actum: ogni atto
deve essere disciplinato dalla normativa vigente al momento in cui esso è posto in
essere. La legittimità di pareri e istanze deve ad esempio essere accertata avendo
riguardo alle prescrizioni in vigore al momento in cui gli stessi sono stati
rispettivamente resi o presentati, anche se successivamente la disciplina è
mutata. Il principio vale anche per il provvedimento finale, così, se prima della sua
emanazione la normativa sopravvenuta richiede ulteriori atti endoprocedimentali
non sussistenti e non previsti dalla legge precedente, l’amministrazione dovrà
rifiutarsi di emanarlo (consentendo però l’integrazione).
Al momento dell’emanazione del provvedimento, perciò, debbono sussistere tutti
gli atti previsti dalla normativa vigente.

Il responsabile del procedimento.


La legge 241/90 disciplina la figura del responsabile del procedimento,
soggetto che svolge importanti compiti sia in relazione alla fase di avvio
dell’azione amministrativa, sia, più in generale, allo svolgimento del procedimento
nel suo complesso.
L’art. 4 stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare, per
ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza, l’unità
organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento
procedimentale, nonché all’adozione del provvedimento finale. A seguito di tale
determinazione, seguirà l’individuazione all’interno di ciascuna unità
organizzativa, del responsabile del procedimento, la persona fisica che agirà in
concreto.
Ai sensi dell’art.5, il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad
assegnare a sé o ad altri addetti all’unità organizzativa la responsabilità
dell’istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento,
nonché, eventualmente, dell’adozione del provvedimento finale.
Il secondo comma dell’art. 4 prevede che, fino a quando non venga effettuata
l’assegnazione, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario
preposto alla unità organizzativa determinata a norma dell’art.4.
Quanto alle funzioni del responsabile emerge non solo il profilo della responsabilità
in senso tecnico, bensì quello di guida del procedimento, di coordinatore
dell’istruttoria e di organo di impulso. Il responsabile rappresenta, inoltre,
l’essenziale punto di riferimento sia per i privati, sia per l’amministrazione
procedente e per gli organi di altre amministrazioni coinvolte dal soggetto
procedente.
I compiti del responsabile sono più in particolare indicati dall’art.6 Legge 241/90.
Il responsabile può anche chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di
dichiarazioni o istanze erronee o incomplete.
Questo istituto – regolarizzazione delle domande dei privati e della
documentazione prodotta – è importante perché l’amministrazione può ammettere
il cittadino a correggere gli errori materiali in cui sia incorso nella redazione di
istanze e domande, nonché a completare documentazione incompleta o non
conforme alla normativa.
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Il responsabile ha compiti di impulso del procedimento: propone l’indizione, o,
avendone la competenza, indice le conferenze di servizi, le quali hanno un
rilievo istruttorio, inoltre, ove non abbia la competenza ad emanare l’atto finale,
trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione; altrimenti emana egli
stesso tale provvedimento.
Il responsabile del procedimento instaura il dialogo con i soggetti interessati al
procedimento mediante la comunicazione dell’avvio del procedimento, lo
prosegue nella fase della partecipazione e anche dopo l’emanazione del
provvedimento finale, mediante la comunicazione, la pubblicazione e le
notificazioni previste dall’ordinamento.
Il responsabile del tipo di procedimento coincide con l’organo competente ad
emanare l’atto nei casi di mancata individuazione dell’unità organizzativa da parte
dell’amministrazione.
La responsabilità civile, penale e disciplinare del responsabile del procedimento
rimane soggetta alle regole vigenti, anche se gli impulsi e le sollecitazioni,
conseguenti alle funzioni di vigilanza, denuncia e segnalazione affidati al
responsabile possono comunque essere presi in considerazione ai fini della
valutazione della legittimità o liceità del comportamento tenuto dal responsabile
medesimo.

La comunicazione dell’avvio del procedimento.


L’avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei
quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, a quelli che per
legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti, diversi dai diretti destinatari, che
siano individuati o facilmente individuabili qualora dal provvedimento possa loro
derivare un pregiudizio (art. 7 legge 241/90).
I destinatari dell’atto sono i soggetti nella cui sfera giuridica è destinata a prodursi
la vicenda giuridica (tipica) determinata dall’esercizio del potere; si tratta dunque
dei titolari di interessi legittimi oppositivi o pretesivi. I soggetti che per legge
devono intervenire sono in linea di massima enti pubblici.
I “soggetti individuati o facilmente individuabili” ai quali potrebbe derivare un
pregiudizio dal provvedimento sono quei soggetti che sarebbero legittimati ad
impugnare il provvedimento favorevole (c.d. controinteressati sostanziali) nei
confronti del destinatario in quanto pregiudicati dal provvedimento stesso.
La comunicazione dell’avvio è un compito del responsabile del procedimento. Essa
deve essere fatta mediante comunicazione personale (notifica, comunicazione a
mezzo messo comunale o ufficiale giudiziario, raccomandata con avviso di
ricevimento, comunicazione per mezzo della ricevuta rilasciata al momento della
presentazione di una domanda); può essere effettuata secondo modalità differenti,
stabilite e giustificate di volta in volta dall’amministrazione, quando per il numero
dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti
particolarmente gravosa (art. 8 c.3 L.241/90).
La legge non stabilisce entro quale termine la comunicazione debba essere
effettuata. Nel silenzio della legge, deve ritenersi che tale adempimento vada
compiuto senza ritardo e, comunque, entro un termine ragionevole tenuto conto
delle circostanze.
La comunicazione deve contenere i seguenti elementi: amministrazione
competente, oggetto del procedimento, ufficio e persona del responsabile del
procedimento, ufficio in cui si può prendere visione degli atti.
L’istituto della comunicazione è strettamente collegato alla partecipazione al
procedimento, nel senso che consente agli interessati di essere posti a
conoscenza della pendenza di un procedimento nel quale possono intervenire
rappresentando il proprio punto di vista.

86
La comunicazione non è necessaria nei casi di subprocedimenti che confluiscono
nel solco di un procedimento principale.
L’art. 13 esclude che le disposizioni del capo IV (compreso l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento) si applichino nei confronti dell’attività
della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché ai
procedimenti tributari.
L’art. 7 comma 1 precisa che l’avvio in esame deve essere comunicato quando
non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità
del procedimento. Tali ragioni devono essere evidenziate dall’amministrazione con
adeguata motivazione.
Nel caso di procedimento finalizzati all’occupazione d’urgenza delle aree destinate
alla costruzione di opere pubbliche e di ingiunzioni di demolizione o di sospensione
di lavori è possibile derogare all’obbligo di comunicazione.
L’art. 7 comma 2 si occupa dei provvedimenti cautelari e consente
all’amministrazione la loro adozione “anche prima della effettuazione della
comunicazione” dell’avvio del procedimento. In questi casi l’amministrazione può
soltanto differire nel tempo la comunicazione a differenza del comma 1.
Sussistono inoltre altri tipi di procedimenti, c.d. “riservati”, in ordine ai quali non
dovrebbe essere ammessa la partecipazione.
L’omissione della comunicazione di avvio del procedimento configura una ipotesi
di illegittimità, che può essere fatta valere soltanto dal soggetto “nel cui
interesse la comunicazione è prevista” (art. 8 c.4 l.241/90).

L’istruttoria procedimentale.
L’istruttoria è la fase del procedimento volta all’accertamento dei fatti e dei
presupposti del provvedimento ed alla acquisizione e valutazione degli interessi
implicati dall’esercizio del potere.
L’istruttoria è condotta dal responsabile del procedimento come disposto dall’art.6
della legge 241/90 (tra gli obblighi del responsabile figura quello di curare
“l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria”).
La decisione amministrativa finale deve essere preceduta da adeguata
conoscenza della realtà esterna, la quale avviene appunto attraverso l’istruttoria.
L’istruttoria del procedimento amministrativo serve per acquisire interessi e
verificare fatti.
I fatti sono eventi, o situazioni, gli interessi sono aspirazioni a beni della vita.
L’attività conoscitiva, volta ad acquisire la conoscenza della realtà di fatto, si
svolge mediante una serie di operazioni i cui risultati vengono attestati da
dichiarazioni di scienza, acquisite al procedimento. I dati di fatto rilevanti possono
essere individuati dall’amministrazione oppure rappresentati dai terzi attraverso lo
strumento della partecipazione. Essi sono spesso attestati da documenti,
certificazioni o dichiarazioni presentati o esibiti all’amministrazione o da questa
direttamente formati.
Gli interessi vengono introdotti nel procedimento attraverso l’iniziativa
dell’amministrazione procedente, l’acquisizione delle determinazioni di altri
soggetti pubblici, la indizione della conferenza di servizi e la partecipazione
procedimentale.

L’oggetto dell’attività istruttoria.


Nel nostro ordinamento vige il principio inquisitorio, in forza del quale
l’amministrazione non è, in linea di massima, vincolata dalle allegazioni dei fatti
contenute nelle istanze e nelle richieste ad essa rivolte.
Il legislatore individua le situazioni di fatto che costituiscono i presupposti
dell’agire attraverso modalità diverse: talora definendo con precisione i fatti stessi,
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in altre ipotesi utilizzando categorie più generiche o indicando il solo interesse
pubblico.
Quando la norma identifica esattamente la situazione di fatto o la categoria dei
fatti rilevanti, l’amministrazione dovrà accertare, ricorrendo all’esercizio
dell’attività conoscitiva, la corrispondenza fra situazione di fatto e indicazione
normativa.
Qualora la norma indichi esclusivamente l’interesse pubblico che dovrà essere
soddisfatto, l’istruttoria dovrà rivolgersi alla individuazione di una realtà di fatto
che appaia idonea a configurare l’esistenza dell’interesse pubblico stesso.
L’attività di selezione e di evidenziazione dei fatti e degli interessi non è priva di
limiti e, in quanto tale, deve essere adeguatamente motivata e deve rispettare il
principio di non aggravamento del procedimento.
A tale fine, si fa riferimento anche al criterio della pertinenza all’oggetto del
procedimento, e ai canoni di logicità e congruità che guidano anche la decisione in
ordine all’estensione dell’attività istruttoria.

Le modalità di acquisizione degli interessi e la conferenza di servizi


c.d. “istruttoria”.
Gli interessi rilevanti sono quelli che l’amministrazione deve considerare in sede di
scelta finale ponderandoli con quello principale fissato dalla legge. Essi sono
acquisiti al procedimento sia attraverso l’iniziativa dell’amministrazione
procedente, sia a seguito dell’iniziativa dei soggetti titolari degli interessi stessi.
Le vie per la loro rappresentazione sono tre:
1) l’amministrazione procedente può richiedere all’amministrazione cui è
imputato l’interesse pubblico da acquisire di esprimere la propria
determinazione;
2) l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi per
l’esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti nel procedimento ai
sensi dell’art.14 l.241/90;
3) l’amministrazione portatrice dell’interesse pubblico secondario può
partecipare al procedimento ai sensi dell’art.9 l.241/90 che consente di
intervenire nel corso del procedimento anche ai soggetti portatori di
interessi pubblici.
In ordine alla partecipazione, la norma apre la via alla esternazione non tipizzata
degli interessi pubblici, indipendentemente dalla richiesta avanzata dal
responsabile del procedimento.
Per quanto concerne la conferenza dei servizi, in sede istruttoria è possibile
acquisire gli interessi pubblici rilevanti in un’unica soluzione: l’art. 14 legge 241/90
prevede infatti che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari
interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione
procedente indice di regola una conferenza di servizi”.
La conferenza è indetta dal responsabile del procedimento (art. 6 legge 241/90) e
consiste in una riunione di persone fisiche in rappresentanza delle rispettive
amministrazioni, ciascuna delle quali esprime il punto di vista dell’amministrazione
rappresentata che confluisce, poi, in una determinazione concordata. Quest’ultima
sostituisce l’insieme delle manifestazioni dei vari interessi pubblici coinvolti che le
amministrazioni potrebbero introdurre utilizzando lo strumento della
partecipazione di cui agli artt. 7 e segg. legge 241/90.

La partecipazione procedimentale.
Uno degli strumenti più importanti per introdurre interessi pubblici e privati nel
procedimento è costituito dalla partecipazione.
Ai sensi degli artt. 7 e 9 legge 241/90, sono legittimati all’intervento nel
procedimento:
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1) i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre i suoi effetti diretti;
2) i soggetti che per legge debbono intervenire nel procedimento;
3) i soggetti che possono subire un pregiudizio dal provvedimento, purché
individuati o facilmente individuabili;
4) i portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o comitati cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento.
Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei soggetti titolari del
potere di partecipazione poiché l’art. 8 del testo unico enti locali stabilisce che
devono essere previste nello statuto forme di partecipazione degli interessati nel
procedimento relativo all’adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche
soggettive.
La disciplina degli enti locali prevede numerosi strumenti ed istituti di
partecipazioni quali la consultazione, le istanze, le petizioni, le proposte, i
referendum, le azioni popolari, il diritto di accesso e di informazione dei
cittadini.
La dottrina ha spesso utilizzato la nozione di parti del procedimento
individuando così le parti necessarie (quelle contemplate dall’art.7) e parti
eventuali (contemplate dall’art. 9).
L’unica parte necessaria è l’amministrazione procedente, poiché la legge prevede
strumenti per superare l’inerzia degli eventuali altri soggetti pubblici.

L’ambito di applicazione della disciplina sulla partecipazione


procedimentale.
Ai sensi dell’art. 13 legge 241/90 le norme sulla partecipazione al procedimento
amministrativo non si applicano ai procedimenti volti all’emanazione di atti
normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione,
nonché a quelli tributari (per i quali restano ferme le norme particolari che li
riguardano).
Gli atti amministrativi generali si rivolgono ad una pluralità indistinta di
soggetti non individuabili a priori (ad esempio un bando di concorso).
L’unica categoria di procedimenti in relazione ai quali l’esclusione della
partecipazione non pare creare particolari problemi e riserve è costituita da quelli
preordinati all’emanazione di atti normativi.

Aspetti strutturali e funzionali della partecipazione.


La partecipazione al procedimento consiste nel diritto di prendere visione dei
relativi atti e nella presentazione di memorie scritte e documenti, che
l’amministrazione ha il dovere di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del
procedimento (art. 10 legge 241/90).
Per la categoria dei soggetti indicati nell’art.7 legge 241/90 la comunicazione di
avvio del procedimento è atto strumentale e necessario per garantire la
partecipazione, ma in ogni caso la conoscenza dello “stato” del procedimento è
consentita dall’esercizio del diritto di prender visione degli atti del procedimento
stesso.
Considerando che la funzione del procedimento è quella di consentire la miglior
cura dell’interesse pubblico, si deve ritenere che anche la partecipazione sia
strumentale alla più congrua decisione finale in vista dell’interesse pubblico: essa
ha cioè funzione collaborativa. La pubblica amministrazione considera infatti il
contributo al fine di ottenere una migliore conoscenza della realtà e della
complessa trama degli interessi coinvolti, conoscenza che è strettamente
preordinata alla scelta della modalità di perseguimento dell’interesse pubblico.

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I fatti rappresentati dagli intervenienti non possono essere accettati acriticamente,
con la conseguenza che l’amministrazione può essere chiamata ad estendere
l’ambito oggettivo della realtà indagata alla ricerca dei fatti implicati in quella
rappresentazione.
La pubblica amministrazione dovrà più precisamente verificare la pertinenza delle
memorie all’oggetto del procedimento, accertare i fatti introdotti nel procedimento
dai privati, identificare altri fatti ignoti ed elaborare le rappresentazioni dei privati.
Mediante la partecipazione è pure dato introdurre ipotesi di soluzione, le quali
vanno ad arricchire il quadro delle possibilità all’interno del quale
l’amministrazione opererà la scelta finale. L’art.11 legge 241/90 prevede infatti
che la conclusione degli accordi tra amministrazione e privati può avvenire “in
accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art.10”.

Partecipazione al procedimento, interessi procedimentali e loro


tutela.
Gli interessi procedimentali sono interessi strumentali ad altre posizioni
soggettive che attengono a fatti procedimentali e che investono comportamenti
della amministrazione e soltanto indirettamente beni della vita.

Il diritto di accesso ai documenti amministrativi.


La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di “presentare memorie
scritte e documenti” nonché di “prendere visione degli atti del procedimento”
(art.10 legge 241/90).
L’accesso ai documenti amministrativi è, dunque, una facoltà.
L’accesso ai documenti amministrativi ha una sua autonomia rispetto al
procedimento, nel senso che il relativo potere può essere esercitato pure a
procedimento concluso.
Tale istituto si collega non alla sola trasparenza procedimentale, bensì anche al
principio di trasparenza inteso in senso lato, alla stessa stregua di altri strumenti.
In sostanza si può parlare di accesso endoprocedimentale esercitato all’interno
del procedimento, e di accesso esoprocedimentale relativo agli atti di un
procedimento concluso.
Il diritto di accesso è autonomo pure rispetto all’azione che il soggetto potrebbe
esperire davanti ad un giudice per contestare la legittimità dell’azione
amministrativa, come dimostra il fatto che la richiesta di accesso non sospende i
termini per agire.
Per quanto riguarda l’accesso collegato alla partecipazione, i soggetti legittimati
ad esercitare il diritto di accesso sono tutti i soggetti che abbiano titolo a
partecipare al procedimento.
Negli altri casi, l’art. 22 legge 241/90, indica, quali soggetti legittimati, coloro che
siano titolari di un “interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”. Il
d.p.r. 352/1992 (regolamento per la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi
di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi) richiede la
titolarità di un “interesse personale e concreto per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti”.
La dottrina e la giurisprudenza hanno affermato che legittimati ad esercitare il
diritto di accesso sono i soggetti titolari di interessi legittimi, di diritti soggettivi e
di interessi collettivi.
L’art.10 T.U. enti locali stabilisce che legittimati all’accesso sono tutti i cittadini,
singoli o associati, e prevede l’obbligo per gli enti locali di dettare norme
regolamentari per assicurare ai cittadini l’informazione sullo stato degli atti e delle
procedure e sull’ordine di esame delle domande, progetti e provvedimenti che li
riguardino; il regolamento deve altresì assicurare “il diritto dei cittadini di
accedere, in generale, alle informazioni di cui è in possesso l’amministrazione”.
90
Altre normative estendono lo spettro degli aventi diritto, come il d.lgs. 39/1997,
che stabilisce che le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le
informazioni relative all’ambiente “a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi
debba dimostrare il proprio interesse”.
I soggetti passivi del diritto di accesso sono le amministrazioni pubbliche, le
aziende autonome e speciali, gli enti pubblici e i gestori dei servizi pubblici (questi
ultimi possono essere privati equiparati ai soggetti pubblici in virtù dell’attività di
rilievo pubblicistico – art.23 legge 241/90 e art.2 d.p.r. 352/1992).
Sotto il profilo oggettivo, il diritto di accesso riguarda i documenti
amministrativi. L’art. 22 c.2 legge 241/90 ne fornisce un ampia definizione: è
considerato tale ogni “rappresentazione grafica, fonocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni,
formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività
amministrativa”.
Non solo gli atti scritti su supporto cartaceo, dunque, né solo i provvedimenti finali
(perciò anche gli atti interni o endoprocedimentali), né unicamente gli atti
amministrativi (quindi anche altri atti che confluiscono nel procedimento come i
pareri legali, i progetti dei tecnici, i referti medici).
L’accoglimento della richiesta di accesso a un documento comporta anche la
facoltà di accesso agli altri documenti nello stesso richiamati e appartenenti al
medesimo procedimento, fatte salve le eccezioni di legge o regolamento (art. 5
c.3 d.p.r. 352/92).
L’accesso è consentito non soltanto nei confronti degli atti che attengono a
procedimenti amministrativi finalizzati all’emanazione di provvedimenti, ma altresì
ai procedimenti relativi all’attività di diritto comune della pubblica
amministrazione, infatti l’art. 22 si riferisce all’attività nel suo complesso, senza
distinzioni ulteriori.
La richiesta deve essere motivata, indicare gli estremi del documento ovvero gli
elementi che ne consentano l’individuazione e far constatare l’identità del
richiedente.
Il d.p.r. 352/1992 introduce la possibilità di esercitare in via informale il diritto di
accesso, “mediante richiesta, anche verbale, all’ufficio dell’amministrazione
centrale o periferica, competente a formare l’atto conclusivo del procedimento o a
detenerlo stabilmente”. La richiesta informale, “esaminata immediatamente e
senza formalità, è accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le
notizie, esibizione del documento, estrazione di copie, ovvero altra modalità
idonea”.
La richiesta formale, che avviene con atto scritto e che deve essere accolta con
l’atto disciplinato dall’art.5 d.p.r. 352/1992, può essere prescelta dal richiedente,
ovvero imposta all’amministrazione “qualora non sia possibile l’accoglimento
immediato della richiesta in via informale, ovvero sorgano dubbi sulla
legittimazione del richiedente, sulla identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla
sussistenza dell’interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni
fornite o sull’accessibilità del documento” (art.4 d.p.r. 352/1992: in tali casi “il
richiedente è invitato contestualmente a presentare istanza formale”).
A seguito di domanda di accesso, l’amministrazione può:
- invitare il richiedente a presentare istanza formale (nel caso di
richiesta informale che non sia immediatamente accoglibile);
- rifiutare l’accesso;
- differire l’accesso;
- limitare la portata dell’accesso (consentendo solo alcune parti del
documento);
- accogliere l’istanza.

91
Il rifiuto, il differimento e la limitazione all’accesso devono essere motivati, mentre
la legge non stabilisce nulla per l’accoglimento.
L’art. 25 c.4 legge 241/90 dispone che nel caso in cui l’amministrazione non si
pronunci entro 30 giorni sulla richiesta di accesso, questa si intenda respinta.
In caso di accoglimento, il diritto di accesso si esercita mediante esame gratuito
ed estrazione di copia del documento (il rilascio di copia è subordinato al rimborso
del costo di riproduzione e dei diritti di segreteria).
L’esame è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata, con l’eventuale
accompagnamento di altra persona di cui vanno specificate le generalità (art. 5
d.p.r. 352/1992).
Secondo l’art. 5 c.4 d.p.r. 352/1992 l’esame dei documenti avviene presso l’ufficio
indicato nell’atto di accoglimento della richiesta ma un’altra norma prevista
dall’art. 11 D.Lgs 165/2001 prevede che debbono essere assunte iniziative volte
all’incremento delle modalità di accesso alle informazioni anche con l’uso delle
procedure informatiche.
Il differimento dell’accesso è consentito nei casi in cui (e fino a quando) la
conoscenza dei documenti non impedisca o gravemente ostacoli lo svolgimento
dell’azione amministrativa (art.24 c.6 legge 241/90);
Non tutti gli atti sono suscettibili di essere conosciuti dai cittadini.
L’art.24 legge 241/90 prevede alcune categorie di documenti sottratti all’accesso
(come ad esempio i documenti coperti da segreto di Stato, degli altri casi di
segreto o di divieto di divulgazione previsti dalla legge). Ciascuna amministrazione
è poi chiamata ad adottare regolamenti al fine di individuare le categorie di
documenti escluse dall’accesso.
L’esclusione dei documenti amministrativi dal regime dell’accesso è disposta a
salvaguardia dei seguenti interessi: sicurezza, difesa nazionale e relazioni
internazionali; politica monetaria e valutaria; ordine pubblico; prevenzione e
repressione della criminalità; riservatezza dei terzi, persone, gruppi e imprese,
“garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti
amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro
interessi giuridici”.
Con il termine riservatezza si indica quel complesso di dati, notizie e fatti che
riguardano la sfera privata della persona e la sua intimità. La privacy confligge
spesso con l’esigenza di diffondere atti che siano in possesso della pubblica
amministrazione e che contengano indicazioni relative a dati attinenti alla sfera
personale dei soggetti.
Il D.Lgs 196/2003 “codice in materia di protezione dei dati personali” ha
riorganizzato e innovato la materia ed ha contestualmente abrogato le disposizioni
precedenti, ed ha introdotto regole in relazione all’accesso alle informazioni
detenute dalle pubbliche amministrazioni.
Ai sensi dell’art.7 del D.Lgs 196/2003, l’interessato ha diritto di ottenere dai
soggetti pubblici la conferma del fatto che essi detengano dati personali che lo
riguardano (qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica,
ente o associazione, identificati o identificabili anche indirettamente mediante
riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di
identificazione personale), nonché “la loro comunicazione in forma intelligibile”. In
particolare, l’interessato ha diritto di ottenere l’indicazione della provenienza dei
dati personali trattati dall’ente pubblico; delle finalità e modalità di trattamento;
della logica applicata se il trattamento avviene con strumenti elettronici; degli
estremi dei soggetti responsabili nelle operazioni di trattamento, dei soggetti cui
potrebbero eventualmente essere comunicati tali dati personali.
Una volta conosciuti i dati personali e/o le informazioni detenuti da un ente
pubblico, l’interessato ha diritto di ottenerne l’aggiornamento, la rettifica,
l’integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima, il blocco.

92
In relazione alle pubbliche amministrazioni, l’art.8 del codice della privacy prevede
che tali diritti esercitabili da ciascun soggetto sui propri dati personali non possono
essere esercitati se il trattamento di questi ultimi avviene ad opera di soggetti
pubblici “per esclusive finalità inerenti alla politica monetaria e valutaria, al
sistema dei pagamenti, al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e
finanziari, nonché alla tutela della loro stabilità”.
Tale diritto di accesso, regolato al di fuori della legge 241/90, non può essere
utilizzato allorché l’esibizione documentale comporti anche la conoscenza di dati
personali di soggetti terzi rispetto al richiedente. L’art. 10 del D.Lgs 196/2003
esclude che questo accesso possa riguardare dati personali relativi a terzi “salvo
che la scomposizione dei dati trattati o la privazione di alcuni elementi renda
incomprensibili i dati personali dell’interessato”.
L’art. 19 del D.Lgs 196/2003 prevede che la comunicazione e la diffusione di dati
personali da parte di amministrazioni a soggetti pubblici o privati “sono ammesse
unicamente quando sono previste da una norma di legge o di regolamento”, ed in
tale caso non è necessario il consenso dell’interessato.
L’art. 59 del codice della privacy precisa che “i presupposti, le modalità, i limiti per
l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati
personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla legge 241/90
e succ. mod., e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi
regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e
giudiziari e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di
accesso” e considera “di rilevante interesse pubblico” le attività finalizzate
all’applicazione di tale disciplina.
Quando l’accesso ai documenti la cui conoscenza potrebbe confliggere con le
esigenze di riservatezza di dati personali di soggetti terzi, il codice della privacy fa
espressamente rinvio ai principi e alle regole contenute nella legge 241/90, che in
sostanza richiede all’amministrazione di effettuare una ponderazione tra interessi
contrapposti. In particolare, la legge 241/90 prevede che la riservatezza di terzi,
persone, gruppi e imprese, costituisca una delle esigenze in relazione alle quali
può essere escluso il diritto di accesso, specificando peraltro che deve essere
garantita agli interessati “la visione degli atti relativi ai procedimenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i loro
interessi giuridici”. Come sostenuto anche dal consiglio di Stato, ad.plen. n.5/1997,
il diritto di accesso volto alla cura e alla difesa di interessi prevale sulla tutela della
riservatezza di terzi.
Tuttavia, nei casi di conflitto tra accesso e privacy, la legge consente non già
l’accesso pieno, bensì la sola “visione” degli atti, escludendo così il diritto di
estrazione di copia.
Il “conflitto” può avere una soluzione diversa quando un soggetto pubblico è
chiamato a trattare dati sensibili: il trattamento è consentito se la situazione
giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai
documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero
consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e
inviolabile.
E’ l’amministrazione che pondera gli interessi in conflitto decidendo caso per caso
con “valutazione ampiamente discrezionale”.
La legge 241/90 assegna al giudice amministrativo la tutela giurisdizionale
“contro le determinazioni concernenti il diritto di accesso” e nei casi di rifiuto,
espresso o tacito, o di differimento (Tar in primo grado e Consiglio di Stato in
grado di appello). La legge prevede un processo abbreviato e l’art.26 legge Tar,
dispone che l’azione può anche essere proposta in pendenza di una ricorso.
L’art. 25 c.4 legge 241/90 con specifico riferimento ai casi di rifiuto, espresso o
tacito, e di differimento, consente altresì al richiedente di chiedere nel termine di

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trenta giorni al difensore civico competente il riesame della determinazione. Se il
difensore ritiene illegittimo il diniego o il differimento, lo comunica a chi l’ha
disposto e, ove questi non emani il “provvedimento confermativo motivato” entro
trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico, l’accesso è
consentito. L’inerzia mantenuta sulla sollecitazione del difensore civico ha dunque
il significato di un assenso, differentemente dall’inerzia relativa alla richiesta
iniziale che equivale a diniego.
Entro 30 giorni dall’esito dell’istanza rivolta al difensore civico, il richiedente potrà
adire comunque al giudice amministrativo, perché la legge ha inteso favorire
l’impiego di questo strumento di tutela non giurisdizionale, assicurando il privato
che il suo impiego non preclude l’azione dinanzi al giudice.
Il codice della privacy affida la tutela del diritto di accesso volto a ottenere la
comunicazione in forma intelligibile dei propri dati personali al Garante del
trattamento dei dati personali e al giudice ordinario (art.145 del codice).
Infine, la legge 241/90 istituisce presso la presidenza del Consiglio una
Commissione per l’accesso ai documenti (Cada), nominata con decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri,
sentito il consiglio dei ministri e presieduta dal sottosegretario di Stato alla
presidenza del Consiglio. La Commissione vigila affinché venga attuato il principio
di piena conoscibilità dell’azione amministrativa, redige una relazione annuale
sulla trasparenza dell’amministrazione e propone al governo le modificazioni
normative necessarie per realizzare la garanzia del diritto di accesso.

Procedimento, atti dichiarativi e valutazioni.


I fatti, per essere rilevanti nel procedimento, devono essere accertati
dall’amministrazione procedente, oppure da un’altra amministrazione.
Pure nelle ipotesi in cui siano consentite le dichiarazioni sostitutive il soggetto
pubblico mantiene il potere di controllare la veridicità delle dichiarazioni del
cittadino.
L’amministrazione pone in tal caso in essere atti dichiarativi: questi atti sono
costituiti da dichiarazioni di scienza che conseguono ad un procedimento costituito
da un insieme di atti ed operazioni finalizzati ad apprendere.
In particolare gli accertamenti, i quali sono dichiarazioni relative a fatti semplici
meramente constatati. Alcuni atti dichiarativi hanno la funzione di attribuire
certezze legali che valgono erga omnes (si tratta degli atti di certazione); in altri
casi il riconoscimento formale di un certo modo di essere di una situazione ha
rilievo ai fini dell’esercizio di un potere amministrativo.
Pure le valutazioni tecniche vengono poste in essere a seguito di un’attività
volta ad apprendere la sussistenza del fatto. Esse, però, riguardano fatti complessi
che necessitano di criteri differenti dal semplice accertamento puro e semplice.
Per la qualificazione di un fatto complesso è richiesta un’attività di valutazione
e cioè, un giudizio estimativo frutto di esercizio di discrezionalità tecnica.
Le categorie degli accertamenti e delle valutazioni tecniche sono caratterizzate
dalla circostanza che, a seguito della loro emanazione, la situazione, il fatto e il
rapporto non vengono innovati, ma rimangono i medesimi di quelli precedenti, non
modificando la situazione preesistente. Essi hanno la funzione di riconoscere
formalmente una particolare condizione o modo di essere giuridico di un bene, di
un soggetto o di un rapporto già esistente.
Gli atti di accertamento costituiscono il presupposto per l’emanazione di un
provvedimento, e producono soltanto effetti endoprocedimentali.
L’art 17 legge 241/90 si riferisce alle valutazioni tecniche, occupandosi del caso
in cui esse siano richieste ad enti o organi appositi e questi non provvedano entro
novanta giorni dal ricevimento della richiesta o in quello previsto specificamente
dalla legge. In questa ipotesi, la legge prevede che il responsabile del
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procedimento “deve” chiedere le suddette valutazioni ad altri organi
dell’amministrazione pubblica o ad altri enti pubblici che siano dotati di
qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari.
Tale disciplina non si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte
da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e
della salute dei cittadini. La legge riconosce questi interessi pubblici come
assolutamente rilevanti, sicché non si può prescindere dalla valutazione espressa
dai soggetti preposti alla loro tutela.
Ai sensi dell’art. 14 legge 241/90 allorché sia intervenuta la valutazione di
impatto ambientale (positiva) “le disposizioni di cui agli articoli … 16 c.3
(dettate in materia di pareri), e 17 c.2, si applicano alle sole amministrazioni
preposte alla tutela della salute dei cittadini”.
Poiché la disciplina non consente che si proceda senza che sia valutata la
sussistenza di un presupposto previsto dalla legge, in capo ad alcuni organi ed enti
si configura una sorta di riserva di valutazione tecnica, perché la valutazione
non è sostituibile o superabile né dalla parte privata, né dall’amministrazione
decidente, né dal giudice (almeno in linea di principio, anche se allo stesso è
consentito verificare direttamente l’attendibilità delle operazioni tecniche).
La riserva sussiste soltanto se prevista per disposizione espressa di legge o di
regolamento.

Le attività istruttorie dirette all’accertamento dei fatti.


Come visto, l’istruttoria è governata dal responsabile del procedimento che è
chiamato ad accertare i fatti, compiendo gli atti all’uopo necessari. Molto spesso il
responsabile utilizza uffici o servizi tecnici di altre amministrazioni.
L’ordinamento consente anche che, in taluni casi, una parte dell’attività istruttoria
sia svolta dai privati, purché i soggetti abbiano i requisiti tecnici, organizzativi e di
terzietà per svolgere l’attività istruttoria.
L’amministrazione non dispone di poteri “impliciti”, poiché i poteri il cui esercizio
potrebbe comportare una incisione nella sfera giuridica del terzo debbono essere
espressamente conferiti dalla legge (principio di tipicità e nominatività dei poteri
amministrativi)
I poteri che si esplicano in atti i quali non incidono sui diritti dei privati si possono
invece ritenere connaturali al potere di disporre.
Alcuni atti istruttori sono previsti come obbligatori dalla legge. L’istruttoria non si
esaurisce però necessariamente nel compimento di questi atti: l’amministrazione
può porre in essere ulteriori atti “all’uopo necessari” indipendentemente
dall’attribuzione di specifici poteri da parte dell’ordinamento. Il soggetto pubblico
ha così la facoltà di disporre la rinnovazione o il completamento di una istruttoria
non soddisfacente o lacunosa, ad esempio verificando l’esattezza di quanto
attestato dal privato.
Il principio inquisitorio è applicabile anche alla scelta dei mezzi istruttori
(perizie, sopralluoghi, ispezioni, inchieste, nomina di consulenti tecnici, ordine di
esibizione di documenti, misurazioni) che l’amministrazione può utilizzare per
acquisire la conoscenza di fatti rilevanti ai fini della determinazione finale.
L’unico limite che incontra l’attività istruttoria è costituito dal principio di non
aggravamento del procedimento.
Le risultanze emergenti dai mezzi istruttori sono di norma liberamente valutate
dall’amministrazione, non sussistendo prove che la vincolino in modo assoluto.
Rilevanti eccezioni sono sostituite dalle certificazioni che creano certezze erga
omnes, vincolanti anche nei confronti delle amministrazioni. I fatti semplici sono
spesso rappresentati nel procedimento mediante le attività di:
- esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in corso di
validità;
95
- acquisizione diretta di documenti: l’amministrazione e i gestori di
pubblici servizi, in luogo degli atti e certificati già in loro possesso o che siano
tenuti a certificare, debbono acquisire d’ufficio le relative informazioni, previa
indicazione, da parte dell’interessato, dell’amministrazione competente e
degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati
richiesti;
- produzione di certificati, di documenti o di autocertificazioni. Dal
punto di vista teorico, la differenza tra dichiarazioni sostitutive di certificati e
autocertificazioni sta nel fatto che le dichiarazioni sostitutive riguardano dati
contenuti in pubblici registri, mentre le autocertificazioni attengono a
situazioni non consacrate in atti di certazione.
Tra i procedimenti volti ad accertare i fatti possono ricordarsi le inchieste e le
ispezioni, le quali hanno normalmente ad oggetto accadimenti e comportamenti,
ovvero ancora beni di pertinenza di soggetti terzi. Tali operazioni sono destinate a
raccogliere informazioni e dati di fatto necessari per provvedere e danno luogo ad
atti di accertamento, i quali sono acquisiti all’istruttoria del procedimento.
L’inchiesta amministrativa è un istituto che mira ad una acquisizione di scienza
(o in rari casi, ad una valutazione) relativa ad un evento straordinario che non può
essere conosciuto ricorrendo alla normale attività ispettiva. L’inchiesta è svolta
infatti da un organo istituito ad hoc e si conclude, di norma, con una relazione.
L’ispezione è un insieme di atti, di operazioni o di procedimenti mirati ad
acquisizioni di scienza che ha ad oggetto il comportamento di persone. Essa
consiste in un atto, spesso meramente interno, che l’amministrazione rivolge
all’organo o all’ufficio competente che dovrà compiere l’ispezione stessa e che
attribuisce dunque la legittimazione all’organo o all’ufficio a procedere
all’ispezione nel caso concreto. L’atto ha però come vero destinatario il soggetto
terzo che è sottoposto all’ispezione. Il procedimento si chiude solitamente con una
relazione, un rapporto o un verbale.
I due istituti però spesso possono confondersi.

La fase consultiva.
Una volta acquisiti tutti gli interessi coinvolti nella scelta finale e verificati i fatti
rilevanti, l’amministrazione deve procedere ad una valutazione di siffatto
materiale istruttorio.
In alcune ipotesi questa valutazione viene effettuata mediante atti emanati da
appositi uffici o organi che confluiscono in un ulteriore momento della fase
istruttoria, costituita dal subprocedimento consultivo. Si tratta di uffici ed organi,
di norma collegiali, distinti rispetto a quelli che svolgono attività di
amministrazione attiva e dotati di particolare preparazione e competenza tecnica.
Gli atti mediante i quali viene esercitata questa forma di attività, detta appunto
consultiva, ed aventi un contenuto di giudizio, sono i pareri.
I pareri in senso stretto devono essere nettamente distinti da altri atti, denominati
nella prassi “pareri–note”, che hanno la funzione di rappresentare il punto di vista
o gli interessi dell’amministrazione che li emana.
Non devono nemmeno essere confusi i pareri con gli atti resi da consulenti o
esperti privati, i quali non svolgono funzioni di amministrazione consultiva.
Un particolare tipo di parere è poi quello previsto, per comuni e province, dall’art.
49 T.U. enti locali: “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al
consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine
alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora
comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria
in ordine alla regolarità contabile”.
I pareri si distinguono in:
- pareri obbligatori, se la loro acquisizione è prescritta dalla legge;
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- pareri facoltativi, essi non sono previsti dalla legge,
l’amministrazione può di propria iniziativa richiederli, purché ciò non comporti
un ingiustificato aggravamento del procedimento;
- pareri conformi, si tratta di pareri che lasciano all’amministrazione
attiva la possibilità di decidere se provvedere o meno; se essa provvede, non
può però disattenderli;
- pareri semivincolanti, tali pareri possono essere disattesi soltanto
mediante l’adozione del provvedimento da parte di un organo diverso da
quello che di norma dovrebbe emanarlo, impegnandone la responsabilità
amministrativa e politica;
- pareri vincolanti, si tratta di pareri obbligatori che non possono
essere disattesi dall’amministrazione, salvo che essa non li ritenga illegittimi.
Il subprocedimento consultivo inizia con la richiesta di parere, la quale consiste
nella formulazione di un quesito, prosegue con lo studio del problema, con la
discussione, con la determinazione, con la redazione e si conclude con la
comunicazione all’autorità richiedente.
Ai sensi dell’art. 3 legge 241/90 qualora l’amministrazione procedente intenda
disattendere il parere deve adeguatamente motivare il provvedimento, perché
l’atto deve essere motivato “in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
Il procedimento consultivo è disciplinato dall’art. 16 legge 241/90 e succ. mod.
Il parere obbligatorio deve essere reso entro 45 giorni. Per quanto riguarda i pareri
facoltativi, gli organi sono tenuti a dare immediata comunicazione alle
amministrazioni richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso. Trascorso
tale termine senza che sia stato comunicato il parere è facoltà
dell’amministrazione richiedente di procedere indipendentemente
dall’acquisizione del parere.
La circostanza che la legge parli di “facoltà” di procedere pare implicare la
possibilità per l’organo di amministrazione attiva di attendere il parere anche se
tardivo.
Questa disciplina non si applica nei casi in cui il parere debba essere reso da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della
salute dei cittadini, per evitare che l’amministrazione procedente resti “bloccata”
in attesa di un parere.
Le richieste di pareri resi dal Consiglio di Stato, che è “organo di consulenza
giuridico-amministrativa” del governo e di altre amministrazioni, sono effettuate
dagli “organi di governo che esercitano le funzioni di indirizzo politico-
amministrativo”.
L’art. 17 Legge 127/1997 individua i casi in cui essi sono richiesti in via
obbligatoria (emanazione di atti normativi del governo, emanazione di testi unici,
decisioni dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, schemi generali di
contratti tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministri), e abroga
“ogni diversa disposizione di legge che preveda il parere del Consiglio di Stato in
via obbligatoria”. L’abrogazione non concerne le norme legislative che dispongono
pareri vincolanti, e stabilisce che gli stessi debbano essere resi entro 45 giorni
dal ricevimento della richiesta salvo che la legge non preveda termini più brevi,
termine decorso il quale l’amministrazione attiva può procedere
indipendentemente dall’acquisizione del parere.
I pareri del Consiglio di Stato sono pubblici e recano l’indicazione del Presidente
del collegio e dell’estensore.
Sempre l’art.17 legge 127/1997 istituisce una sezione consultiva del Consiglio di
Stato per l’esame degli schemi di atti normativi per i quali il parere è prescritto per
legge o è comunque richiesto dall’amministrazione, nonché per gli schemi di atti
normativi comunitari, se richiesto dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Il parere
è reso in adunanza generale per “gli schemi di atti legislativi o regolamentari

97
devoluti dalla sezione o dal presidente del Consiglio di Stato a causa della loro
particolare importanza”.
Il parere è espressione della funzione consultiva e comporta un consiglio in ordine
agli interessi che l’amministrazione procedente deve tutelare, tenuto conto della
situazione di fatto così come accertata nell’istruttoria.
Le valutazioni tecniche attengono invece ad uno o più presupposti dell’agire che
debbono essere appunto valutati nel corso dell’istruttoria.
Il nullaosta è un atto di amministrazione attiva che viene emanato in vista di un
interesse differente da quello curato dall’amministrazione procedente.

La fase decisoria: rinvio.


Completata l’istruttoria, il procedimento è maturo per addivenire all’emanazione
del provvedimento.
Il provvedimento può concludersi anche con atti differenti ovvero con un mero
fatto (silenzio).

La fase integrativa dell’efficacia.


La produzione dell’efficacia è spesso subordinata al compimento di determinate
operazioni, al verificarsi di certi fatti o all’emanazione di ulteriori atti.
Il provvedimento può dunque essere perfetto (cioè completo di tutti gli elementi
prescritti per la sua esistenza) ma non ancora efficace.
Cosa diversa dall’efficacia dell’atto è la sua validità, che dipende dalla conformità
al paradigma normativo dell’atto e dell’attività amministrativa posta in essere al
fine della sua adozione.
Un atto può dunque essere illegittimo (cioè invalido) ma efficace, oppure legittimo
(cioè valido) ma ancora inefficace.
L’efficacia è condizionata da una fase del procedimento definita “integrativa
dell’efficacia” che consiste in alcune forme di pubblicità, degli atti di adesioni dei
privati quando richiesto, e degli atti di controllo.
Il controllo dà luogo normalmente ad un subprocedimento, che consta delle
seguenti fasi: trasmissione dell’atto all’organo di controllo; istruttoria sull’atto da
controllare; adozione della misura; comunicazione dell’atto di controllo.
In genere, decorso un certo termine senza che l’organo controllante adotti misure
repressive comporta l’esito positivo del controllo.
Il potere di controllo deve essere esercitato entro il termine fissato e non può
essere esercitato una seconda volta.
Altri atti e operazioni che confluiscono nella fase integrativa dell’efficacia sono gli
atti recettizi, cioè quegli atti che diventano efficaci soltanto al momento in cui
pervengono nella sfera di conoscibilità (mediante comunicazione o pubblicazione)
del destinatario, richiedendosi talvolta anche un’accettazione. Gli atti
amministrativi producono invece effetti a prescindere dalla comunicazione, come
conferma l’istituto della piena conoscenza, in forza del quale il privato deve
impugnare il provvedimento non appena abbia comunque conoscenza di alcuni
suoi elementi e della sua carica lesiva.
Sono recettizi: gli atti normativi; gli atti che la legge impone siano comunicati ai
destinatari; quelli che impongono obblighi al destinatario (ordini, intimazioni) e,
più in generale, gli atti per cui la soddisfazione dell’interesse affidato alla cura
dell’amministrazione richiede un facere o un non facere del privato, sicché il
concorso della sua volontà è indispensabile per il raggiungimento del risultato
pratico al quale l’atto è preordinato.
Gli atti recettizi producono effetto solo a seguito della comunicazione ai
destinatari.

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I vizi o le irregolarità delle operazioni di partecipazione non si trasmettono all’atto
recettizio: l’atto però non produrrà i suoi effetti, salva la possibilità di rinnovare la
fase della comunicazione.
Vi sono due importanti norme, l’art. 3 ultimo comma legge 241/90, secondo cui in
ogni atto notificato al destinatario deve essere indicato “il termine e l’autorità cui
è possibile ricorrere” e l’art. 3 co.3 legge 241/90 che sembra implicare l’obbligo
generalizzato di comunicazione della “decisione”, nonché l’obbligo di rendere
disponibile la motivazione dell’atto. Tale disposizione infatti recita “se le ragioni
della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla
decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato
e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa vi
richiama”.
Questo obbligo di comunicazione riguarda solo le ipotesi in cui “le ragioni della
decisione risultano da altro atto dell’amministrazione”.
L’art. 2 R.D. 642/1907 afferma il principio secondo il quale il provvedimento
amministrativo deve essere notificato ai soggetti “direttamente contemplati”.
Nel nostro ordinamento sono previsti altri modi finalizzati a portare atti
giuridici nella sfera di conoscibilità del destinatario. I più comuni mezzi di
partecipazione sono:
- la pubblicazione (destinata ad una generalità di individui potenziali
destinatari dell’atto ma non contemplati nell’atto stesso – come ad esempio la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale);
- la pubblicità (destinata ad una pluralità di individui e caratterizzata
dalla predisposizione di documenti, quali pubblici registri, che realizzano la
permanenza dello stato di conoscibilità dell’atto da comunicare);
- la comunicazione individuale (rivolta ad un destinatario individuato
e posta in essere dall’autore dell’atto – la comunicazione può avvenire anche
mediante trasmissione con piego raccomandato con avviso di ricevimento e,
talora, oralmente come ad esempio l’ordine impartito dal superiore
gerarchico);
- la convocazione (consistente nell’invito al destinatario a recarsi per
ricevere un documento presso un ufficio, ove il soggetto che ritira tale
documento rilascia una dichiarazione).
- le notificazioni caratterizzate da procedure formali ad opera di
particolari soggetti; il soggetto, denominato agente notificatore, è un soggetto
terzo e qualificato che documenta il ricevimento dell’atto. Le notificazioni
sono disciplinate dal r.d. 642/1907 e dai regolamenti delle varie
amministrazioni.
Ai sensi dell’art. 10 c.5 legge 265/1999 tutte le pubbliche amministrazioni di cui al
d.lgs 165/2001 possono oggi avvalersi in modo generalizzato della notificazione a
mezzo posta; il comma 1 aggiunge che, per le notificazioni dei propri atti, esse
possono pure avvalersi dei messi comunali “qualora non sia possibile eseguire
utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle altre forme di
notificazione previste dalla legge”.
“Le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai
regolamenti” sono curate dal responsabile del procedimento.
L’art. 16 c.5 legge 241/90 consente la comunicazione del dispositivo del
parere favorevole all’amministrazione richiedente “telegraficamente o con mezzi
telematici”; l’art. 6 legge 412/91 ammette che le comunicazioni tra
amministrazioni, salvo che per gli atti aventi valore normativo, siano effettuate via
telefax, “una volta che ne sia verificata la provenienza”; l’art. 14 t.u. in materia di
documentazione amministrativa stabilisce che il documento informatico (definito
come “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”)
“trasmesso per via telematica si intende inviato e pervenuto al destinatario se

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trasmesso all’indirizzo elettronico da questi dichiarato” inoltre, “la trasmissione del
documento informatico per via telematica, con modalità che assicurino l’avvenuta
consegna, equivale a notificazione per mezzo posta nei casi consentiti dalla
legge”. Infine, secondo quanto dispone l’art.43 t.u. in materia di documentazione
amministrativa, i documenti trasmessi ad una pubblica amministrazione tramite
fax, o con altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertare la fonte di
provenienza del documento, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro
trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale
attraverso il sistema postale.

La semplificazione procedimentale.
La legge 127/1997 reca misure urgenti per lo snellimento dell’attività
amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo (modificata poi dalla
legge 191/1998), mentre la legge 59/1997 contiene la delega al governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma
della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa.
L’esigenza di semplificare è particolarmente sentita anche in materia
procedimentale.
L’art. 11 legge 137/2002 ha previsto che presso il Dipartimento della funzione
pubblica sia istituito, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, un
ufficio dirigenziale di livello generale con il compito di coadiuvare il ministro
nell’attività normativa ed amministrativa di semplificazione delle norme e delle
procedure. Presso la presidenza del Consiglio dei Ministri sono pure istituiti non più
di due servizi con il compito di provvedere all’applicazione dell’analisi dell’impatto
della regolamentazione.
Il compito di attuare il disegno di semplificazione procedimentale è affidato a
decreti legislativi e alle fonti regolamentari di delegificazione.
L’art.20 legge 59/1997 consente di affermare che la semplificazione comporta la
riduzione delle fasi procedimentali, l’adeguamento alle nuove tecnologie
informatiche, la riduzione dei termini nonché l’accorpamento e la
regolamentazione uniforme dei procedimenti che attengono alla stessa attività. La
legge 127/1997 si occupa anche di altri aspetti, quali la conferenza di servizi, la
disciplina dei pareri e la documentazione amministrativa.
La legge 241/90 definisce come istituti di semplificazione la conferenza di
servizi, gli accordi tra amministrazioni , la prefissione di termini e di
meccanismi procedurali per consentire di ottenere in termini certi pareri o
valutazioni tecniche, l’autocertificazione, la liberalizzazione di attività
private ed il silenzio assenso.

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