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Antoine Court de Gébelin

Le origini del tarocco esoterico

di Gerardo Lonardoni

Nell’ambito degli studi sulla storia del tarocco, nessun Autore è tanto citato e tanto poco letto
quanto il francese Antoine Court de Gébelin. A lui si fa risalire unanimemente l’inizio della
corrente di studi sul tarocco che viene chiamata occultistica, o esoterica; tuttavia, dopo avere
rilevato che le informazioni da lui fornite sull’origine degli Arcani e l’etimologia del nome
“Tarocco” sono infondate, gli storici passano direttamente al suo successore Etteilla. Ma la vita di
Court de Gébelin e la breve opera che egli ha dedicato al tarocco meritano uno studio più
approfondito.

Court de Gébelin nacque in Svizzera, ufficialmente nel 1728; qui cominciano le incertezze, in
quanto tale data è contestata. Diversi studiosi la retrodatano al 1725 o addirittura al 1719; il padre
di De Gébelin avrebbe alterato la data per nascondere lo sviluppo straordinariamente lento del figlio
nella prima infanzia (1). Tuttavia nessuna data appare certa allo stato attuale delle ricerche. Suo
padre, che si chiamava lui pure Antoine Court, fu il più importante Pastore protestante francese
della sua epoca, motivo per cui - a causa delle persecuzioni religiose - dovette vivere in Svizzera per
la maggior parte della sua esistenza.

Suo figlio Antoine Court de Gébelin, dopo avere compiuto gli studi in Svizzera ed esservi stato
ordinato Pastore, tornò in Francia e vi si stabilì nel 1762. Nel 1763 si stabilì a Parigi senza mai
formare una famiglia, e mantenendo la cittadinanza svizzera. In Francia agì sempre in favore dei
Protestanti perseguitati, ma riuscendo a giungere negli ambienti vicini alla Corte e a godere di un
certo favore da parte della Famiglia Reale; nel 1778 fu insignito della carica di Censore Reale, del
tutto inusuale per un Protestante, per di più cittadino straniero.

Nel frattempo de Gébelin si dedicava agli studi esoterici, entrando in Massoneria nella Loggia
parigina Les Amis Réunis; quindi si unì ad una Loggia famosa, Les Neuf Soeurs, di cui facevano
parte i più illustri personaggi della sua epoca in ogni campo, dagli scienziati Lalande e Benjamin
Franklin al filosofo Voltaire (solo per breve tempo prima della sua morte), al rivoluzionario Danton.
Nel 1777 tenne un ciclo di conferenze nel tempio della Loggia principale del Rito Scozzese sui
significati allegorici dei gradi massonici. Fu poi tra i padri fondatori dell’Ordine dei Filaleti,
filiazione della Les Amis Réunis in cui confluirono in seguito anche diversi membri degli Eletti
Cohen, che si era dissolto nel 1781 e il cui ultimo Gran Sovrano affidò gli archivi del suo Ordine
appunto ai Filaleti (2). L’appartenenza di de Gébelin al circuito esoterico settecentesco e la sua
ovvia padronanza delle conoscenze più o meno riservate che vi si detenevano è importante per i
motivi che evidenzieremo nel prosieguo.

Nel 1772 Court de Gébelin aprì una pubblica sottoscrizione per la pubblicazione di un’opera
poderosa in molti volumi, dal titolo Le Monde primitif, analisé et comparé avec le monde moderne,
consideré dans l’histoire civile, religieuse et allégorique du calendrier et almanach. Vi furono
molte adesioni e la stessa Famiglia Reale ne prenotò un centinaio di copie; apparvero nove volumi
dell’opera negli anni dal 1773 al 1782, prima che la pubblicazione venisse definitivamente interrotta
dalla morte dell’Autore nel 1784.

Il “mondo primitivo” di cui parla De Gébelin è l’epoca primordiale dell’umanità, che non è affatto
vista come un periodo di selvaggi ignoranti, ma tutt’al contrario come un’età dell’oro in cui la
civiltà umana era unica e indivisa: esistevano un solo linguaggio, uguali costumi, una cultura
comune e una sola religione: “Esiste un ordine eterno e immutabile, che unisce la Terra e il Cielo, il
corpo e l’anima, la vita fisica e quella morale, uomini, società, imperi, le generazioni che vanno e
quelle che vengono” (3). Court de Gébelin offriva qui una visione della storia della civiltà che
aveva qualche parentela con il “buon selvaggio” del suo contemporaneo Jean Jacques Rousseau, ma
l’esoterista francese, rispetto al filosofo, era convinto di poter riportare alla vita quell’antica civiltà
unica, mediante l’analisi comparata dei miti e dei linguaggi tuttora esistenti, da cui contava di
risalire alla loro comune origine. Questo tentativo - si noti di passaggio - non è dissimile da quello
che compiono oggi antropologi, linguisti e psicologi del profondo, sebbene gli sforzi di Court de
Gébelin fossero inficiati dalla mancanza di un metodo scientifico e di sufficienti conoscenze di
base.

La morte di Court de Gébelin, che interruppe quel monumentale lavoro di erudizione, non fu meno
sorprendente della sua vita. Verso la fine della sua esistenza egli era divenuto un fervente
sostenitore della teoria di Franz Anton Mesmer del “magnetismo animale”; nel 1783 fu colpito da
una grave infermità alle gambe e si rivolse a Mesmer per curarla. Inizialmente il trattamento parve
avere uno strepitoso successo; ma la malattia ritornò ben presto in forma ancora più grave. Court de
Gébelin fu trovato morto il 12 maggio 1784, ancora attaccato a una vaschetta magnetica. Giordano
Berti riporta la diceria che egli fosse stato in realtà ucciso per punirlo di avere divulgato segreti
riservati, ma non ne cita la fonte; non v’è comunque bisogno di tingere di noir la storia della sua
vita per trovarvi spunti interessanti (4)

Il saggio sul tarocco è contenuto nel libro VIII dell’opera monumentale Le Monde Primitif già
citata; si apre con un prologo famoso fra tutti gli studiosi del tarocco e ampiamente riportato: “Se ci
apprestassimo ad annunciare che, ai nostri giorni, sussiste un’Opera degli antichi Egizi sfuggita alle
fiamme che hanno distrutto le loro superbe biblioteche, un’opera che contiene la più pura dottrina
degli Egizi su alcuni interessanti argomenti, chi non sarebbe impaziente di conoscere un libro tanto
prezioso, tanto straordinario! E se aggiungessimo che questo libro è molto diffuso in gran parte
dell’Europa, che da secoli va per le mani di tutti, siamo certi che la sorpresa aumenterebbe e
probabilmente salirebbe al colmo se arrivassimo a sostenere che nessuno ha mai supposto che
questo libro - che possediamo come se non lo possedessimo, e di cui nessuno ha mai tentato di
decifrare un solo foglio - è egizio, che il risultato di tanta squisita sapienza viene riguardato come
un mazzo di strane figure prive di senso! Chi non penserebbe che scherziamo o che vogliamo
approfittare della credulità degli ascoltatori?”(5).
Con tali parole, Court de Gébelin annunciava al mondo degli eruditi della sua epoca che il tarocco è
il solo libro egizio sopravvissuto alla distruzione delle loro biblioteche, composto di 77 o 78 fogli
divisi in cinque classi. Aggiungeva che nessuno prima di lui ne aveva intuito l’illustre origine,
spiegando nel seguente modo come egli era giunto alla stupefacente intuizione.Si trovava a casa di
un’amica, denominata “M.me de C.d’H.” appena rientrata dalla Germania o dalla Svizzera e intenta
a giocare a tarocchi. Court de Gébelin non aveva mai visto quelle carte e rimase affascinato
dall’Arcano XXI, il Mondo: “subito vi discerno l’Allegoria”. Il gioco si interruppe per consentirgli
di esaminare una ad una le carte, ed egli subito ne comprese l’origine: “in un quarto d’ora tutto il
mazzo venne sfogliato, spiegato, dichiarato Egizio, e poiché quanto cominciavamo a vedervi era
tutto men che un gioco della nostra immaginazione, ma bensì il frutto di profonde e patenti analogie
con quanto si conosce delle idee Egizie, ci scambiammo la promessa che un giorno avremmo
comunicato questa scoperta al Pubblico…” (6).

Court de Gébelin afferma quindi di essere lo scopritore dell’origine egizia del tarocco; ma questa,
senza entrare nel merito per ora della sua “scoperta”, era una bugia, come hanno dimostrato gli
storici Ronald Decker, Thierry Depaulis e Michael Dummett nell’opera ben documentata A wicked
pack of cards - The Origins of the Occult Tarot già citata. Infatti il saggio di De Gébelin sul tarocco
è accompagnato dallo scritto di un altro Autore sullo stesso argomento, dedicato all’arte della
divinazione mediante gli Arcani; questo secondo saggio, che de Gébelin acclude al proprio,
concerne la divinazione con il tarocco come sarebbe stata applicata presso gli Egizi. Questo Autore
“aggiunto” è presentato mediante un acrostico (come del resto de Gébelin aveva fatto anche per l’
“amica” che gli avrebbe consentito la straordinaria scoperta, “M.me de C. d’H.”): nel testo egli
viene definito come “M. le C. de M.”, che Decker-Depaulis-Dummett ricostruiscono in Louis-
Raphael-Lucréce-de Fayolle, conte di Mellet (1727-1804). Questi era uno dei sottoscrittori
dell’opera monumentale di Court de Gébelin; ufficiale di cavalleria, fu nominato governatore del
Maine e del Perche e insignito della Gran Croce dell’Ordine di San Luigi.

Ora, come giustamente osservano Decker-Depaulis-Dummett, i due scrittori francesi - De Mellet e


de Gébelin - concordano nei rispettivi saggi quanto alle conclusioni essenziali, e cioè che il tarocco
è di origine antico egizia e contiene rappresentazioni simboliche degli insegnamenti dei saggi egizi;
ma differiscono fra loro in alcuni dettagli essenziali. Il conte de Mellet fornisce infatti una diversa
etimologia del termine tarocco, basata anch’essa su una lingua egizia “costruita” ad hoc, dato che
nella loro epoca Champollion non aveva ancora tradotto i geroglifici; inoltre propone una differente
teoria sulla diffusione del tarocco in Europa, che vi sarebbe stato portato dagli Arabi e trasmesso
agli Spagnoli. Infine, fanno notare giustamente gli storici contemporanei sopra citati, il conte de
Mellet sorprendentemente non fa mai riferimento nel suo saggio a Court de Gébelin, anzi lo ignora
totalmente, il che sarebbe davvero strano se de Mellet avesse scritto l’opera espressamente perché
fosse inclusa in quella di de Gébelin. Ecco la prima conclusione degli storici: “siamo indotti a
concludere che de Mellet non avesse mai visto il saggio di Court de Gébelin, o appreso delle sue
teorie sull’argomento, prima di scrivere il suo proprio contributo” (7).

Decker-Depaulis-Dummett tuttavia si spingono ancora più in là, per loro stessa ammissione:
“quando ci riportiamo alle affermazioni di Court de Gébelin, tuttavia, vediamo che una conclusione
più forte può essere tratta”. De Gébelin affermava di essere stato il primo uomo da molti secoli a
penetrare il reale significato del tarocco, che esso era più di un semplice gioco di carte e che si era
originato nell’antico Egitto; e dichiarava di esserci arrivato in un quarto d’ora osservando il gioco di
carte di M.me Helvétius. Quindi de Mellet doveva avere appreso la propria conoscenza da de
Gébelin, l’iniziatore e lo scopritore del tarocco esoterico; eppure il primo non tributa alcun omaggio
alla straordinaria acutezza del secondo, né questi lo pretende dal primo come sarebbe stato logico
aspettarsi dato che ne ospitava il saggio sulla propria opera Monde Primitif. Le conclusioni dei tre
autori contemporanei sono stringenti: “Malgrado le divergenze fra loro, così tante delle dettagliate
idee di de Mellet coincidono con quelle di de Gébelin - i significati dei quattro semi, ad esempio -
che devono avere avuto una fonte comune… non possiamo evitare la conclusione che de Mellet
aveva già le stesse idee indipendentemente da Court de Gébelin, e scrisse il suo saggio e glielo
inviò, senza sapere della sua pretesa di esserne l’originatore. Può darsi che i due uomini siano
giunti indipendentemente alle stesse conclusioni? Ciò è possibile, specialmente considerando la
diffusione dell’egittomania a quell’epoca, ma è improbabile. Ma, se respingiamo l’ipotesi come
improbabile, dobbiamo condannare Gébelin per falso, quanto meno involontario. Le idee che egli
affermava essere sue scoperte dovevano invece già essere diffuse in certi ambienti; e dove più
facilmente che in quei circoli occultistici che egli frequentava con tanto entusiasmo negli ultimi
anni della sua vita?” (8).

Per spiegare questo falso clamoroso, gli storici contemporanei avanzano due ipotesi: che cioè Court
de Gébelin abbia ascoltato queste idee “brevemente e casualmente”, e le abbia poi dimenticate,
salvo riemergere dal suo inconscio in casa di M.me Helvétius; oppure che abbia commesso una
intenzionale inveridicità, attribuendo a sé idee già circolanti negli ambienti occultistici. E, come
concludono definitivamente gli Autori: “Sebbene non sappiamo se de Mellet sia stato un Massone,
è ragionevole ritenere che abbia avuto stretti contatti con circoli occulti della sua epoca, sia
attraverso una Loggia Massonica sia in qualcun altro degli ordini segreti. Proprio come la
divinazione con le carte era praticata prima che venisse menzionata nelle opere stampate, così le
teorie sull’antica origine e il significato esoterico del tarocco precedettero la loro prima esposizione
ad opera di Court de Gébelin“ (9).

Ciò che affermano i tre illustri storici, dunque, è che in base all’analisi dei dati fattuali Court de
Gébelin non inventò nulla: tanto lui quanto il conte de Mellet si limitarono a divulgare opinioni
correnti nelle logge massoniche o, in generale, nelle consorterie segrete dell’epoca dedite
all’occultismo. Vedremo ora se dalle opere sul tarocco dei due esoteristi francesi traspare qualcosa
d’altro sull’argomento.

Anzitutto, De Gébelin fa un’affermazione che rivela la sua acutezza: la forma frivola del tarocco è
stato il mezzo con cui la dottrina segreta degli Egizi ha potuto perpetuarsi attraverso i secoli,
sfuggendo al vigile occhio dell’Inquisizione. Così si esprime lo scrittore francese: “La forma frivola
e leggera di cui si è rivestito questo Libro gli ha consentito di trionfare di tutti i Tempi e di
pervenire fino a noi in una forma sostanzialmente fedele, e la stessa ignoranza nella quale eravamo
rimasti circa il suo vero significato ha costituito, per così dire, il prezioso salvacondotto grazie al
quale ha potuto attraversare incolume i Secoli, senza che qualcuno fosse tentato di toglierlo dalla
circolazione” (10). Anticipando Edgar Allan Poe, l’occultista francese dichiara che il modo migliore
per celare qualcosa di prezioso e renderlo invisibile, è porlo sotto gli occhi di tutti in un aspetto
privo di ogni attrattiva.
De Gèbelin dichiara che il tarocco è di origine egizia, ma non fa alcun preciso riferimento ai
monumenti dell’Egitto allora conosciuti per avvalorare la sua tesi. Al contrario egli cita
espressamente e in dettaglio un monumento cinese - di cui purtroppo non riporta l’immagine, a
causa del timore di riprodurlo poco fedelmente - di cui gli parla un erudito che egli nomina come
Monsierur Bertin, autore di Memorie sulla Cina. Questo erudito gli comunica l’esistenza di un
monumento cinese che si faceva risalire alle prime ere di quell’Impero, e che veniva considerato
un’iscrizione relativa al prosciugamento delle acque del Diluvio. De Gébelin fa una dettagliata
descrizione del monumento, e spiega che le sue caratteristiche sono talmente simili a quelle del
tarocco da rendere impossibile pensare ad una coincidenza. E aggiunge “è evidente che uno di
questi monumenti è stato ripreso dall’altro, e che l’uno e l’altro sono basati sulla stessa teoria e sul
numero sacro - il sette. In altre parole, sia l’uno che l’altro sembrano essere l’applicazione parallela
di un’unica Formula anteriore all’esistenza dei Cinesi e degli Egizi. Non è detto che non si potrà
ritrovare qualcosa di analogo presso gli Indiani o i popoli del Tibet, stanziati fra queste due antiche
Nazioni” (11).

Il riferimento all’India ricompare in vari punti del saggio in relazione al gioco degli scacchi (pag. 29
e 17): “Le figure di questo Gioco appaiono così incontestabilmente allegoriche, e le loro Allegorie
sono talmente conformi alla dottrina civile, filosofica e religiosa degli antichi Egizi, che è
impossibile non riconoscere in esso l’Opera di questo Popolo di Filosofi, i soli in grado di esserne
riguardati come gli Inventori, rivali quindi degli Indiani, gli inventori del Gioco degli Scacchi”
(pag. 17).

Poi egli traccia la strada che avrebbe percorso per giungere dall’Egitto in Europa: “Nei primi secoli
della Chiesa, gli Egizi erano molto numerosi a Roma, dove avevano trasferito le loro cerimonie, il
culto di Iside e, di conseguenza, il tarocco. Questo gioco interessante fu limitato all’Italia fino a
quando le relazioni tra i Tedeschi e gli Italiani non lo fecero conoscere a questa feconda Nazione”
(pag. 35). Qui nuovamente Court de Gébelin dimostra di anticipare i tempi: colloca infatti la nascita
degli Arcani in Italia, prevenendo in tal modo le scoperte storiche dei secoli successivi al suo.
Secondo l’Autore il tarocco, di origine egizia, sarebbe giunto in Italia al seguito dei culti isiaci
egizi, e da qui si sarebbe diffuso nel resto dell’Europa. Alquanto sorprendentemente, lo stesso Court
de Gébelin affianca alla tesi dell’origine egizia del tarocco una apparentemente diversa, che li
ricollega invece agli zingari. Ecco il brano: “Questo Autore (il conte de Mellet) ha ritrovato nel
gioco dei tarocchi, con sagacia davvero ingegnosa, i principi egizi che presiedevano alla
divinazione con le carte, conservati e diffusi dalle prime bande di Egizi - malamente chiamati
Zingari - che si sparsero per l’Europa” (pag. 17).

In questo brano Court de Gébelin sembra affermare che non gli Egizi, ma gli zingari hanno portato
il gioco in Europa. La contraddizione è solo apparente, perché all’epoca di Court de Gébelin gli
zingari erano considerati di origine egizia. Decker-Depaulis-Dummett tuttavia rimarcano che il de
Gébelin aveva affermato che erano giunti in Europa ai tempi dell’Impero Romano, mentre la
comparsa in Europa degli zingari non rimonta oltre il XV secolo. Dunque, una contraddizione
evidente dell’Autore, come ritengono gli storici contemporanei? In realtà, Court de Gébelin sembra
fare distinzione fra l’introduzione del tarocco, o meglio della sua dottrina, in Europa, che egli fa
risalire all’epoca dell’impero romano, e la diffusione della pratica della divinazione con i tarocchi,
che attribuisce all’arrivo degli Zingari. Ma, al di là di queste contraddizioni forse più apparenti che
reali, il tema è più interessante di quel che sembra.

Anzitutto, la parola “Gypsy” con cui gli Inglesi tuttora designano gli Zingari, deriva effettivamente
da “Egyptian”, cioè Egizio: essi stessi, quando giunsero per la prima volta in Europa destando la
curiosità per il colorito scuro della loro pelle, si proclamarono Egizi. Tuttavia gli studi storici, di cui
anche i tre Autori contemporanei danno atto, dimostrano che essi sono di origine indiana: “Al suo
tempo (di Court de Gébelin) gli Zingari erano ancori creduti originari dell’Egitto, come essi stessi
avevano annunciato quando per la prima volta erano giunti in Europa, e come indica il loro nome
inglese “Gypsies”. .. Fu solo nel tardo XIX secolo che uno studio filologico della loro lingua li
identificò come originari dell’India” (12). O, come si esprime l’Oxford English Dictionary alla voce
“Gypsy”: “Membro di una razza nomade (chiamata da loro stessi Romany) di origine indù, che
apparve per la prima volta in Inghilterra all’incirca agli inizi del 16° secolo e si credeva allora
provenisse dall’Egitto”.

Dunque Court de Gébelin attribuì erroneamente una provenienza egizia ad un popolo di origine
indù come gli Zingari, e affermò che essi avevano importato la pratica della divinazione col tarocco
dall’Egitto (ma provenivano invece dall’India). Egli riteneva infine che il tarocco nascondesse una
dottrina di origine sapienziale, malamente interpretata dagli ignoranti cartai europei:
“I cartai italiani e tedeschi , che hanno adattato questo gioco alle loro conoscenze, hanno fatto di
questi due personaggi, ai quali gli Antichi attribuivano i nomi di Padre e di Madre - che stanno per
Abate e Abbadessa - un papa e una Papessa” (pag. 23).

“Cosa ci sta a fare, a quel posto, quell’Appeso? È forse l’opera di un cartaio maldestro…?” (pag.
25). “I cartai, che avevano perduto il senso di questa Tavola, e soprattutto del suo insieme, vi hanno
visto il Giudizio universale, e per prenderlo più evidente, vi hanno aggiunto delle specie di tombe”
(pag. 32).

Court de Gébelin critica gli storici del suo tempo (ma la sua affermazione potrebbe avere valore
anche oggi) per i loro metodi di indagine sul tarocco. Ecco come si esprime: “(I nostri studiosi) si
sono limitati a ricercare l’origine delle Carte francesi, o meglio delle Carte in uso a Parigi, peraltro
poco antiche; e dopo aver provato che la loro invenzione era recente, hanno ritenuto di avere
esaurito l’argomento. Un simile modo di procedere finisce per confondere l’istituzione di una
conoscenza in un Paese con la sua invenzione primitiva” (pag. 16). L’occultista francese dice qui
che bisogna distinguere fra una dottrina e la sua manifestazione esteriore: se le carte sono state
create in epoca recente per incarnare una dottrina sapienziale, quest’ultima può essere assai più
antica dei tarocchi, e avere una diversa origine geografica. E aggiunge, assai opportunamente: “Il
numero V rappresenta il Capo dei Gerofanti, o Gran Sacerdote, e il numero II la Grande
Sacerdotessa o la Donna; si sa che in Egitto i capi dei sacerdoti erano sposati. Se queste carte
fossero un’invenzione dei Moderni, non vi apparirebbe la Grande Sacerdotessa, neppure sotto il
ridicolo nome di Papessa, che le è stato attribuito dai Cartai tedeschi” (pag. 22). L’erudito francese,
malgrado la confusione all’epoca regnante in ogni materia dello scibile, ha correttamente
riconosciuto l’origine antica e pagana del secondo Arcano dei tarocchi, “cristianizzato” alla bell’e
meglio col ricorso alla leggendaria figura della Papessa Giovanna per coprirne la vera natura di
Sibilla o di Vestale.

Possiamo quindi trarre le nostre conclusioni dalla lettura dei brani citati dell’opera di Court de
Gébelin, opportunamente integrati dai dati storici forniti da Decker-Depaulis-Dummett. L’esoterista
francese attribuisce l’invenzione dei tarocchi - rectius: della dottrina sottostante ad essi - agli antichi
Egizi, che l’avrebbero portata in Italia, da dove si sarebbe diffusa nell’intera Europa. La pratica
della divinazione sarebbe stata diffusa dagli Zingari che, secondo le concezioni in voga alla sua
epoca, erano anch’essi Egizi, ma la cui provenienza indiana è oggi comunemente accettata dagli
storici.

Court de Gébelin attribuisce ai cartai italiani e tedeschi gli errori che si trovano nelle carte rispetto
alla Dottrina originale, e riconosce correttamente l’evidente origine precristiana della carta della
Papessa e l’origine italiana dei tarocchi. Ma soprattutto, pone in rapporto la dottrina sottostante alle
carte con l’Oriente, evidenziandone le caratteristiche comuni ad un monumento cinese, e
spingendosi a chiedersi se esistono raffronti possibili anche con l’India e il Tibet.

Quanto agli storici moderni che abbiamo citato, essi, assai acutamente, rilevano che Court de
Gébelin non può avere inventato nulla, come del resto il conte de Mellet che rispetto a lui mostra
alcune sottili contraddizioni; entrambi devono quindi avere attinto ad una fonte orale, diffusa nelle
logge occultistiche dell’epoca. Tali conclusioni sono in linea con quanto abbiamo esposto nella
nostra opera La Via del Sacro - I simboli dei Tarocchi fra Oriente e Occidente, in cui abbiamo
sottolineato i parallelismi rintracciabili fra la dottrina degli Arcani Maggiori dei tarocchi, gli
Shivasutra induisti e le Tare buddhiste; abbiamo rimarcato l’origine precristiana dell’iconografia di
alcune carte come la Papessa e la Forza; e abbiamo attribuito appunto alle logge settecentesche
frequentate da Court de Gébelin la conservazione della tradizione orale che egli ha poi divulgato nel
Monde Primitif. Abbiamo altresì notato che la via percorsa dal tarocco è la stessa attraverso la quale
è giunto in Europa dall’India il gioco degli scacchi, che, curiosamente, è citato almeno due volte dal
de Gébelin nel suo breve saggio.

Facciamo ora notare che il conte De Mellet fa un’osservazione interessante in una nota a piè di
pagina del suo saggio sulla divinazione: “Ventidue tavole formano un libro ben poco voluminoso;
ma se, come appare verosimile, le Tradizioni primordiali sono state conservate nei Poemi, una
semplice immagine, capace di fissare l’attenzione del popolo, al quale veniva spiegato il fatto, gli
serviva di supporto mnemotecnico, al pari dei versi che le descrivevano” (pag. 84).

Nella nostra opera già citata, sottolineiamo ugualmente che il gioco del tarocco come ci è pervenuto
manca di ogni spiegazione verbale; per tale motivo abbiamo cercato nell’Oriente un parallelo che
consentisse di attribuire significati profondi e corretti ai singoli Arcani. Il conte de Mellet ritiene,
con perfetta logica, che se le carte con le loro immagini simboliche erano sopravvivenze di antiche
sapienze, ad esse andavano certamente aggiunte didascalie, eventualmente in forma di poemi; si
può ipotizzare che alla sua epoca queste aggiunte verbali fossero ancora esistenti, o che se ne fosse
conservata la memoria nei circoli occultistici del tempo.

Decker-Depauolis-Dummett concludono il loro capitolo su Court de Gébelin con un’osservazione


che può essere condivisa a metà: “Il saggio di questo oscuro nobile (il conte de Mellet) sul tarocco
non sarebbe mai giunto fino a noi, o anche solo apparso su carta stampata, se Court de Gébelin non
l’avesse incluso nel suo libro. Esso ci obbliga a considerare il contributo del secondo non già come
il prodotto della fantasia eccentrica di un solo individuo, ma come parte di una tradizione corrente
fra i circoli illuministi di cui de Gébelin si era reso un partecipante tanto attivo: una tradizione tanto
priva di fondamento, invero, come le leggende di Hiram e dei Templari che formarono la mitologia
della Massoneria” (13).

La frase è corretta nella prima metà, dove afferma logicamente l’esistenza di una tradizione orale
segreta; ma è assurda dove fa un paragone fra tale tradizione e quelle della Massoneria. Anzitutto
quest’ultima era un’istituzione di enorme importanza già all’epoca di Court de Gébelin; Hiram era
un personaggio biblico e i Templari un Ordine cavalleresco realmente esistito. Indipendentemente
dalla fondatezza delle tradizioni massoniche, che gli storici contemporanei criticano (ma non è detto
che abbiano ragione), la Massoneria creava in tal modo una illustre ascendenza a se stessa,
rivestendosi di ulteriore prestigio e nobiltà. Perché mai invece Court de Gébelin, che di quella
istituzione già faceva parte come membro autorevole, e altri come lui avrebbero dovuto inventarsi
una tradizione esoterica fondata su quello che era sempre stato considerato un gioco di carte, frivolo
passatempo da osteria o da salotto di nobiluomini sfaccendati? Chi ci avrebbe guadagnato che cosa,
dall’attribuire una paternità antica e sapienziale a delle banali carte, se tale tradizione non fosse
invece realmente esistita da tempo probabilmente immemorabile?

Per fare un paragone, sarebbe come se oggi qualche confraternita occulta inventasse una tradizione
per trasformare il gioco del golf in una sapienza segreta. Perché mai o, per dirla alla latina, cui
prodest?

Note

1 - A wicked pack of cards - The Origins of the Occult Tarot, Ediz. Duckworth, London 1996, pag.
53
2 - A wicked pack of cards, op. cit., p. 55
3 - Monde Primitif, vol. VIII, pag. XIX
4 - L’arte dei Tarocchi, in "Storia dei Tarocchi", pag.88, Fabbri Edizioni
5 - Monde Primitif, in “Il gioco del Tarocco”, Libritalia Edzizioni,1997, pag. 15
6 - Monde Primitif, op. cit., pag. 18
7 - A wicked pack of cards, op. cit., pag. 66
8 - A wicked pack of cards, op. cit., pag. 67
9 - A wicked pack of cards, op. cit., pag. 69
10 - Monde Primitif, op. cit., pag. 19
11 - Monde Primitif, op. cit., pagg. 52 - 53
12 - A wicked pack of cards, op.cit., pag. 65
13 - A wicked pack of cards, op. cit., pag. 73

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